Grice e Damocle: la spada e la setta di Crotone -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean. Grice: “Not to the
confused with the infamous one with the sword.” Damocle.
Grice e Damone: all’isola con Fintia -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. A Pythagorean.
According to Giamblico di Calcide, when Dionisio di Siracusa condemns D.’s
friend, Fintia di Siracusa, to death, Fintia asks for time to arrange his
affairs, saying D. will stand hostage for him while he is away. Dionisio is
amazed when D. agrees to the arrangement, and even more amazed when Fintia duly
returns at the end of the day to accept his punishment. Dionisio is so impressed
that pardons Fintia, and asked the pair join their sect – but they turned him
down. Damone.
Grice e Damostrato: i paradossi dei filosofi -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. D.,
or Demostrato. Roman senator. A historian as well as an authority on fish and
fishing. Said to be, like Grice, particularly interested in paradoxes and is
regarded by some other philosophers as a philosopher. Demostrato. Damostrato. Keyword:
paradox. Luigi Speranza, “Grice e Damostrato: le paradossi dei filosofi” – per il
gruppo di gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e Damotage: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide. Grice: “In the old
days, surnames were not felt to be necessary; but then, with a first name (if
not Christian) like ‘Damotage’ – would YOU care?”. Luigi Speranza, “Grice e
Damotage” – per il gruppo di gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza.
Grice e Dalmasso: l’implicatura
conversazionale della giustizia nel discorso – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “Dalmasso is what at Oxford we call a ‘derivative’
philosopher, and at Cambridge a ‘Derrideian’! But he’s written some original
work too, mostly as editor, as in “La passione della ragione” – he has also explored
‘discourse’ in terms of ‘rationality’ and ‘fairness’ – In my model, both
conversationalists are symmetrical, so questions of unfairness do not apply! I
took the inspiration from Chomsky!” – Si laurea a Milano. Insegna a Calabria,
Roma, Pisa, e Bergamo. Membro della Societa Italiana di Filosofia Teoretica.
Studia Derrida, ha commentato “La voix et le phénomène” e “De la grammatologie
(Jaca Book). Comments on “L’offerta obliqua” e “Passioni” --Dai problemi del
soggetto del discorso e della genesi del segno nel dibattito sul nichilismo i
suoi interessi si sono rivolti alla ragione in rapporto all'etica e Hegel.
Pubbllica in Oltrecorrente, di Magazzino di Filosofia. Altre opere: Hegel,
probabilmente. Il movimento del vero (Milano: Jaca).Hegel e l'Aufhebung del
segno, Chi dice io. Chi dice noi (duale). L’implicatura del noi duale. Razionalità
e nichilismo, Jaca, Milano, La passione della ragione. Il pensiero in gabbia.
La politica dell’imaginario, la verita in effetti. La sovranita in legame.
Etica e ontologia: fatto, valore, soggetto, l’interosoggetivo. Il tra noi.
Di-segno – la giustizia nel discorso. Hegel e
l’Aufhebung del SEGNO. L'implicatura del noi duale. L’intreccio fra sapere
e ragione Il tema della filosofia di D. riguarda la domanda originaria.
Domanda e origine sono problemi del pensiero che, fin dall’inizio
della filosofia, non costituiscono un approccio di controllo e di dominio
dell’esistenza, quanto piuttosto un ripiegamento su sé stessi che
si interroga sulla propria genesi. In termini meno esistenziali e
più antichi tale questione occupa il posto dell’anima. Dalla consapevolezza
dell’incombere della morte nel primo stasimo dell’Antigone al costituirsi,
per così dire, di un’interiorità nella sofistica e in Platone, l’anima
(animatum) ha funzionato come principio originario in una forma diversa
che il dominio. Principio che annoda e che manifesta, secondo vie
non solo immediate e speculari, il logos (la ragione), il noein come conoscenza
e misura di un ordine. Quando il nous, attraverso Aristotele, acquista
tutto il suo sviluppo concettuale e strategico, nel pensiero
tardo-antico, a partire da Plotino, l’ anima rimane ed è ribadita
come il luogo e il venire a coscienza del rapporto con lo stesso “nous,”
cioè con il formularsi dell’originario (uno, bene o atto che
sia). Grice e D. scelgono di leggere Bradley e Hegel. Scelta motivata
da loro interessi di ricerca, ma anche, più ampiamente, dall’attualità
di un linguaggio che è in grado di riformulare questioni sull’assetto
moderno del sapere e sul soggetto – e l’intersoggetivo -- di tale sapere.
Su un ‘noi’ duale, che, nella esplicita strategia hegeliana, articola
e raddoppia il ruolo di due anime. Sapere su di un noi duale è comunque
per Hegel un sapere sulle strutture di un noi duale chi, che sono in grado
di formulare una domanda originaria. Il testo, di cui Bradley
propone alcune note essenziali di commento, riguarda i paragrafi
dalla “Psicologia razionale”della Filosofia dello Spirito contenuta
nella edizione dell’Enciclopedia. A differenza dell’“antropologia”,
in cui due anime sono considerate come l’aspetto immediato della
vita dello spirito (le due anime considerate come il sonno dello spirito,
problemi del rapporto delle due anime con I due corpori, questioni del
sonno, della veglia, delle sensazioni ecc.) la Psicologia non è scienza
delle due anima, ma scienza del sapere intorno alle due anime, cioè
scienza veramente tale, nella sua portata concettuale. Per Bradley e
Hegel, ‘scienza’, Wissenschaft, ogni scienza, e soprattutto quella
scienza massimamente rigorosa che è la filosofia (‘regina
scientiarum) è scienza sempre di secondo grado: scienza che controlla e
che ha come oggetto la sua stessa genesi. La filosofia e la regina
scientiarum, la scienza che misura il negativo rispetto al suo assunto
e al suo stesso metodo, scienza che è in grado di smarcarsi dal piano del
suo stesso sapere e di comprendere il rapporto dinamico, generativo
e mai astrattamente “speculare” o reflessivo delle due anime, in cui la inter-conoscenza
si costituisce. Così, nel caso del testo commentato da Bradley, i contenuti
della psicologia sono curiosamente tutti diversi da quelli che nell’assetto
della fine dell’Ottocento e del primo Novecento ci si aspetterebbe da
una psicologia del tipo elaborato a Oxford dai Wilde lecturer in ‘mental
philosophy”: Stout, -- cf. Prichard – cit. da Grice, “Intention and
dispositions”. La psicologia filosofica o razionale non è scienza delle
leggi delle anime o psichai, ma del movimento generativo delle leggi
delle anime o delle psichai. I testi che sono oggetto del commento di
Bradley sono, come Bradley nota, estremamente difficili. Prima di cominciare
Bradley fa qualche rilievo sul problema della difficoltà in generale
nella lettura del testo di Hegel. La questione si pone secondo tre punti
di vista. Innanzi tutto come questione della natura e della destinazione
del testo. Ad esempio l’ “Enciclopedia delle scienze filosofiche”, nel
nostro caso, è pensata come un riassunto delle lezioni per i ‘tuttee’.
In secondo luogo il problema del significato espresso, del voler dire
del discorso hegeliano. In terzo luogo, che è quello decisivo, la questione
del metodo di composizione del testo di Hegel, metodo che riguarda,
d’un colpo solo, due anime: mittente e recipiente. Questioni, dette altrimenti,
di sintonizzarsi con il testo che, per quanto riguarda il metodo
filosofico di Hegel, non può essere altro che ripercorrere l’elemento
generativo del significato di ciò che Hegel explicitamente communica.
Senza di questo incessante ripercorrimento a livello della genesi
del testo, il suo ‘segnato’ posse appare incomprensibile o appiattito.
Appiattito come su di una superficie, in modo che il gioco delle interpretazioni
del tutee, anche nel caso si tratti di studioso molto qualificato, tende
spesso a sbizzarrirsi in grovigli di ipotesi filologiche o di carattere
ideologico-metafisico. Il minimo comun denominatore è la perdita
del nesso fra il segnato di ciò che è detto nel testo con li movimento generativo
di tale segnato. Così si può separare perfino il concetto di negativo
dal concetto di generazione sovrapponendo l’uno sull’altro e rendendo
incomprensibili entrambi. Questione che si pone in modo non infrequente,
anzi malessere spesso diffuso anche nel commento di Bradley. Iniziamo
la lettura partendo dalle prime righe. Lo spirito si è determinato
divenendo la verità dell’anima e della coscienza, cioè la verità di
quella totalità semplice e immediata e di questo sapere. Adesso
il sapere, in quanto forma infinita, non è più limitato da quel contenuto,
non sta in rapporto con esso come con un oggetto, ma è sapere della
totalità sostanziale, né soggettiva né oggettiva, ma intersoggetiva. ll
problema del rapporto fra il sapere e la ragione inaugura qui il dibattito
sulla scienza della psiche. L’intreccio fra sapere e ragione inizia a
dipanarsi nel paragrafo seguente: L’anima è finita nella misura
in cui è determinata immediatamente, cioè determinata per natura.
La coscienza è finita nella misura in cui ha un oggetto. Lo spirito
è invece finito, “insofern ist endlich,” nella misura in cui esso, nel
suo sapere (in seinem Wissen) non ha più un oggetto, ma una determinatezza,
nel senso che è finito per via della sua immediatezza e — che è la stessa
cosa — perché è soggettivo, è cioè come il Concetto. Lo spirito è finito
nella misura in cui esso, nel suo sapere, non ha più un oggetto, ma una
determinatezza. Lo spirito sembra essere quell’attività in grado di
contenere e controllare l’intreccio fra la ragione e il sapere,
anche se ora solo nella forma dell’immediatezza. L’intreccio si organizza
su due poli: la ragione e il sapere. Essi si implicano reciprocamente.
A seconda che si consideri come concetto la ragione o il sapere.
Qui è indifferente ciò che viene determinato come concetto dello spirito
e ciò che viene invece determinato come realità o “Realität” di questo
concetto. Se infatti la ragione assolutamente infinita, oggettiva,
viene posta come concetto dello spirito, allora la realità è il sapere,
cioè l’intelligenza; se invece è il sapere a essere considerato
come il concetto, allora la realità del concetto è questa ragione e la
realizzazione (Realisierung) del sapere consiste nell’appropriarsi
della ragione. La finitezza dello spirito pertanto consiste in
ciò: il sapere non comprende l’Essere in-sé-e-per-sé della sua ragione.
In altri termini: la ragione non si è manifestata pienamente nel sapere.
C’è un dislivello dunque strutturale con la ragione che funziona nel
sapere. Dislivello strutturale che per i greci era invece costituito
dal rapporto fra il sapere e la verità. Comunque la realtà, considerata
come realtà del sapere o come realtà della ragione, si costituisce e funziona
per Hegel come un farsi che è un intreccio inestricabile. Una purità e
verginità dell’origine è introvabile. La questione di un sapere
dello/sullo spirito si articola ulteriormente nel paragrafo. Il procedere
dello spirito è sviluppo (“Entwicklung”) nella misura in cui la sua esistenza,
il sapere, ha entro se stessa l’essere — determinato in sé e per sé,
cioè ha per contenuto, “Gehalte,” e per fine, “Zweck” il razionale,
“Vernunftige.” L’attività di trasposizione è dunque puramente e soltanto
il passaggio formale nella manifestazione e, in questa, è ritorno
entro sé, “Rückkehr in sich.” Nella misura in cui il sapere, affetto
dalla sua prima determinatezza, è soltanto astratto, cioè formale, la
meta dello spirito è quella di produrre il ri-empimento oggettivo, “die
objective Erfüllung hervorzubringen,” e quindi, a un tempo, la libertà
del suo sapere. In questo testo il movimento del sapere e il suo saperne
si articola come questione della conoscenza dell’originario. Tale
questione, che ha la forma del ritorno, è pensabile come libertà. L’avventura
dello spirito che è sempre un appropriarsi, un far proprio, qui, e secondo
la radicalità della sua struttura, funziona come appropriarsi del sapere
e coincide con l’avventura della libertà. Il cammino dello spirito
consiste pertanto nell’essere spirito teoretico, cioè nell’avere
a che fare con il razionale nella sua determinatezza immediata, e di
porlo adesso come il suo. Il cammino consiste innanzi tutto nel liberare
il sapere dal presupposto e, con ciò, dalla sua astrazione, e rendere
soggettiva la determinatezza. Poiché in tal modo il sapere è in sé e
per sé determinato come sapere entro sé, e poiché la determinatezza
è posta come la sua, quindi come intelligenza libera, il sapere
è volontà, spirito pratico, il quale innanzi tutto è anch’esso
formale. Il sapere a un contenuto che è soltanto il suo. Esso vuole immediatamente,
e adesso libera la sua determinazione di volontà dalla soggettività e
l’intersoggetivita che la condiziona come forma unilaterale del proprio
contenuto. In tal modo gli spiriti divieneno come spiriti liberi,
nel quale è rimossa quella doppia unilateralità. Lo scorcio teorico fornito
in questo paragrafo merita una puntualizzazione. Abbiamo in precedenza
accennato alla cornice della psicologia filosofica o razionale come progetto
scientifico: scienza delle anime che si pone come scienza dei fattori generativi
delle anime. Il percorso dei spiriti che si sforzano di conoscere
se stessi, che tentano di comprendere l’esperienza della lor libertà,
che nella Fenomenologia dello spirito prende la via della morale come
storia, in queste pagine prende la via della psicologia come scienza
della libertà. Che il sapere possa afferrare se stesso, possa appropriarsi
di sé. La strategia hegeliana implica che l’originario, per i soggetti
(l’intersoggetivo) e per il sapere, funzioni e sia conoscibile come effetto
di questo appropriarsi che è etico, pratico. Se non si pensa il significato
del sapere e di suoi soggetti come etico, pratico, i soggetti del sapere
si dibatteno «in una bi-lateralità»: la rappresentazione che i soggetti
fano di sé come suoi e l’immediatezza di tale rappresentazione. Le
libertà dell’anime è pensabile come lo spiazzamento in cui i soggetti
del sapere conosceno il loro essere fatto, nonostante e attraverso
il loro co-fare (co-operare) impossibilitato a cogliere l’identità fra
sé e le loro immagini. Questa divisione e dislivello interno che è
l’impossibilità di cogliere l’origine del proprio costituirsi è per
Hegel l’Intelligenza (cf. H. L. A. Hart, su Holloway, “Language and
Intelligence” – Signs). Nel montaggio linguistico di questo testo tale divisione
e tale dislivello vanno ad occupare il posto della classica opposizione
fra il dentro e il fuori. L’intelligenza, in quanto è questa unità
concreta dei due momenti — vale a dire, immediatamente, di essere ricordata
entro sé in questo materiale esteriormente essente, e di essere immersa
nell’essere fuori-di-sé mentre entro sé si interiorizza col proprio
ricordo —, è intuizione. Il cammino dell’Intelligenza sta proprio
nel battere in breccia l’opposizione fra il dentro e il fuori. Le
intelligenza, quando ricordano inizialmente l’intuizione, poneno
il contenuto del sentimento nella propria interiorità, nel loro proprio
spazio e nel loro proprio tempo. In tal modo il contenuto è immagine,
liberata dalla sua prima immediatezza e dalla dualità astratta rispetto
all’altro soggetto, in quanto essa è accolta nella dualità del noi. Questo
battere in breccia, visto dal punto di vista dell’intelligenza, è l’immagine.
L’intelligenza possiede dunque le immagini. L’intelligenza è il
Quando e il Dove dell’immagine. L’immagine è per sé “trans-eunte”,
nomade, da una anima ad altra anima, e
l’intelligenza stessa, in quanto attenzione, è il tempo e anche lo spazio,
il Quando e il Dove, dell’immagine. L’intelligenza però non è
soltanto la co-scienza e l’esserci delle proprie determinazioni,
bensì, in quanto tale, ne è anche i soggetti e l’In-sé. Ricordata nell’intelligenza,
perciò, l’immagine non è più esistente, ma è conservata inconsciamente.
Nell’Anmerkung dello stesso paragrafo Hegel inaugura la metafora del
pozzo notturno per definire il funzionamento dell’intelligenza
come un luogo in cui sono conservate immagini e rappresentazioni che
l’intelligenza stessa non conosce. Hegel prosegue la sua indagine
attraverso una sorta di tiro incrociato fra intuizione ed immagine,
mettendo in azione uno stile agostiniano alla “De magistro” d’AGOSTINO.
Anche la nozione, classica, di “re-praesentatum,” il rappresentato, entra,
ricompresa e ripensata, come dall’interno, nel movimento produttivo
dell’intelligenza. La nozione di “memoria,” come stato
temporario totale, è anch’essa ripercorsa, nella sua struttura classica,
come movimento attivo e imprendibile, funzionante nell’intelligenza
e produttiva di essa, in una svolta decisiva del paragrafo. L’intelligenza
è la potenza che domina sulla riserva di immagini e IL RAPPRESENTATO che
le appartengono. Essa è quindi congiunzione e sussunzione libera
di questa riserva sotto il contenuto peculiare. L’intelligenza si
ricorda ed interiorizza in modo determinato entro quella riserva,
e la plasma immaginativamente secondo questo suo contenuto. Essa
è quindi fantasia, immaginazione SIMBOLIZZANTE, allegorizzante o
poetante. Questa formazione immaginativa più o meno concrete,
più o meno individualizzate, e ancora delle sintesi nella misura in
cui il materiale, in cui il contenuto inter-soggettivo conferisce
un esserci a IL RAPPRESENTATO , proviene dal trovato, “dem Gefundenen,”
dell’intuizione. Passività, evidenza, sorpresa di fonte al darsi originario
delle cose riguarda perciò per Hegel un movimento che ha come suo elemento
lo scenario dell’inte-rsoggetività. Il trovato dell’intuizione, incontro,
evidenza, accoglienza della realtà è pensabile in un registro che è
già una traduzione, un ‘trans-latum.” È nel registro di una traduzione (“trans-latum”)
che nel percorso di questo testo di Hegel, di una traduzione (trans-latum)
del fuori nel dentro e viceversa, che si può avvistare ciò in filosofia
si chiama realtà. Quando l’intelligenza, in quanto ragione,
parte dall’appropriazione dell’immediatezza trovata entro sé, cioè
la determina come un “universale”, ecco allora che la sua attività razionale
procede dal punto attuale, “dem nunmehrigen Punkte,” a determinare
come essente ciò che in essa si è sviluppato in auto-intuizione concreta,
procede cioè a rendere se stessa essere, cosa, il reale. L’intelligenza
stessa così si fa essente, si fa cosa, si fa il reale. Quando è attiva
in questa determinazione, l’intelligenza si estrinseca, “aussernd,”
produce, “produzierend,” intuizione. E fantasia che si esprime in un
“SEGNO” -- “ZIECHEN machende Phantasie,” token-making fantasy – fantasia
che fa SEGNO, fantasia che SEGNA.—L’intelligenza e fantasia che SIGNI-fica. L’intelligenza
esiste in quanto fantasi. Tesi non immediatamente prevedibile nel
dispositivo, intricato, di questo percorso hegeliano. Tesi cui
pure spinge, con rigorosa necessità, questa analisi scientifica delle
anime. Una anima, A, SEGNA, l’altra, B, passivamente CAPISCE. Questo testo di Hegel innesca consapevolmente
una polemica ed anche una ri-formulazione metodologica radicale
nei confronti della tradizione empirista, dei sensisti, di Condillac
e degli ideologues. Attraverso le scorribande dell’intelligenza
fra sapere e “SEGNO” (ZEICHEN – inglese ‘TOKEN’ -- , la fantasia che fa SEGNO,
la fantasia che SEGNA –SIGNI-FICA), scienza e realtà, attraverso e al di là
della dialettica fra il positivo e il negativo, fra i soggetti e la
verità ecc, Hegel afferma che l’intelligenza è il suo atto. Esistere
non è l’immediatezza di un che rispetto a se stessi, ma è l’atto in
cui, in un contenuto determinato, l’intelligenza si rapporta a se
stessa. La fantasia è il punto centrale in cui l’universale e
l’essere, il proprio e il trovato, l’interno e l’esterno – cf. Bradley,
relazione interna, relazione esterna -- sono perfettamente unificati. Le
sintesi precedenti dell’intuizione, del ricordo ecc., sono unificazioni
del medesimo momento, tuttavia si tratta pur sempre di sintesi. Solo
nella fantasia l’intelligenza non è più come il POZZO indeterminato
e come l’universale, bensì è come singolare, cioè come inter-soggettività
CONCRETA nella quale l’relazione è determinata sia come essere sia
come universale.L’intelligenza è inte-rsoggettività concreta solo nella
fantasia con-divisa. Tale questione è chiarita dal seguito della stessa
Anmerkung. Tutti riconoscono che le immagini della fantasia costituiscono
tali unificazioni del proprio e dell’interno dello spirito con l’elemento
intuitivo. Il loro contenuto ulteriormente determinato appartiene
ad altri ambiti, mentre qui questa fucina interna va intesa soltanto
secondo quel momento astratto. In quanto attività di questa unione,
la fantasia è ragione, ma è ragione formale, solo nella misura in cui
il contenuto in quanto tale della fantasia è indifferente. La ragione
in quanto tale, invece, determina a verità anche il contenuto. Nell’ “Anmerkung”
successiva nello stesso paragrafo Hegel opera la svolta decisiva nel
percorso che qui ci interessa: In particolare bisogna ancora
rilevare questo fatto. Poiché la fantasia porta il contenuto interno
a immagine e a intuizione, e ciò viene espresso dicendo che essa lo determina
come essente, non deve sembrare sorprendente l’espressione secondo
cui l’intelligenza si fa essente, si fa cosa, si fa il reale. Il contenuto
dell’intelligenza, infatti, è l’intelligenza stessa, e lo è altrettanto
la determinazione che essa gli conferisce. L’immagine prodotta
dalla fantasia è inter-soggettivamente intuitiva, mentre è NEL SEGNO
(ZEICHEN, inglese‘token’) che la fantasia aggiunge a ciò l’autentica
intuibilità – “eigentliche Anschaulichkeit.” Nella memoria meccanica,
poi essa completa in sé questa forma dell’essere. L’immagine
solo nel “SEGNO” (Zeichen, token) è autentica intuibilità di ciò che è. L’essente
è coglibile come “SEGNO” (Zeichen, token), non come dato, come dono. Dato e
dono non sono pensabili. Ma neppure sperimentabili nella forma della
presenza, cioè in un darsi -- che, in termini hegeliani, è la materia
dell’intuizione. Essi sono già trascritti nel contenuto interno dell’intelligenza,
cioè come un SEGNO (Zeichen, token). L’elemento imprendibile, enigmatico
della conoscenza è IL SEGNO (Zeichen, token) e non il dato, il dono. Nella
struttura di questo testo Hegel afferma che il non proprio, il non nostro
sovrasta e spiazza nella forma di IL SEGNO (Zeichen, token), non nella forma
del dono. In questa unità, procedente dall’intelligenza, di una RA-PRESENTAZIONE
-- rappresentazione autonoma -- “selb-ständiger Vorstellung,” e di
una intuizione, la materia dell’intuizione è certo innanzitutto un
qualcosa di accolto, di immediato e di dato – “ein aufgenommenes,
etwas unmittelbares oder gegebenes” -- per esempio il colore della
coccarda e affini. In questa identità però l’intuizione non ha il valore
di RA-PRESENTARE -- rappresentare positivamente e di rappresentare
se stessa, bensì di rappresentare qualcos’altro. Essa è un’IMMAGINE che
ha ricevuto entro sé una RA-PRESENTAZIONE -- rappresentazione autonoma
dell’intelligenza come anima, che ha ricevuto, cioè, IL SUO SEGNATO. Questa
intuizione è il SEGNO (Zeichen, token). L’intuizione, rapportata scientificamente
alla sua origine, ha la forma del SEGNO (Zeichen, token). Tale forma ha una
struttura che coinvolge i termine stessi dell’intelligenza. L’intelligenza
sembra funzionare in una deriva di cui IL SEGNO (Zeichen, token) costituisce
una sorta di cerniera, snodo in cui l’intelligenza stessa è tolta-conservata.
L’intuizione che immediatamente e inizialmente è qualcosa di dato
e di spaziale -- “gegebenes und raumliches” -- una volta IMPIEGATA COME
SEGNO (Zeichen, token) riceve la determinazione essenziale di essere
soltanto come intuizione rimossa. Questa sua negatività è l’intelligenza. Perciò
la figura più autentica dell’intuizione, che è un SEGNO (Zeichen,
token), è di essere un esserci nel tempo: un dileguare -- “Verschwinden”
-- dell’esserci mentre l’esser ci è. Inoltre, secondo la sua ulteriore
determinatezza esteriore, psichica, la figura più vera dell’intuizione
è un essere-posta dall’intelligenza, esser-posta che viene fuori dalla
naturalità propria, antropologica, dell’intelligenza stessa: è il
tono, “Ton,” cioè l’estrinsecazione riempita dell’interiorità annunciantesi.
Il “tono” che si articola ulteriormente in vista del rappresentato determinate
è il dis-corso –dis-cursus – general principles of rational discourse -- e un
sistema del discorso è la communicazione – CO-MUNIO. In questo ambito il
“tono” conferisce a una sensazione, una intuizione e un rappresentato
un *secondo* (duale) esserci, più
elevato dell’esserci immediato. In generale conferisce loro un’esistenza
che ha valore nel regno dell’attività rappresentativa – che RA-PRESENTA.
Questo progetto hegeliano di una scienza della psiche tenta qui un ulteriore
radicale approccio alla genesi dell’intelligenza. L’intuizione,
in quanto funzionante come SEGNO (Zeichen, token), riceve la determinazione
essenziale di essere soltanto come intuizione rimossa – “ZU EINEM
ZEICHEN GEBRAUCHT WIRD, DIE WESENTLICHE BESTIMMUNG NUR ALS AUF-GEHOBENE ZU
ZEIN. In questo esser rimosso, tolto-conservato dell’intuizione sta
l’origine dell’intelligenza. La negatività di cui essa è fatta si intreccia
strutturalmente alla nozione di tempo. L’intuizione non è dominabile
da due soggetti se non nella forma del dopo, un dileguare dell’esserci
mentre esserci è. Quell’altro intreccio che costituisce l’intuizione,
l’intreccio fra il dentro e il fuori si esprime nel “tono,” suono articolato.
Il tono, visto in rapporto ad una rappresentazione determinata, è il
discorso --“Rede”, inglese ‘Read’ -- e il sistema del discorso è la lingua
-- Sprache, inglese ‘Speak’ -- e la communicazione – COM-MUNIO. A questo
punto del suo percorso la strategia di Hegel si incontra con il privilegio
greco e platonico accordato all’espressione, IL VERBUM – LA LOQUENZA --
la parola, al logos in quanto vivente pronunciato, DETTO -- dictum –
cf. indice, segnalato, segnato. Come nel “Cratilo” di Platone, anche in Hegel
l’espressione come SEGNO è centrale nella vita dell’intelligenza, ma di
una centralità che occupa il luogo di un movimento originario ed imprendibile. Per
un commento critico ed esplicativo dei paragrafi della «Psicologia»
nella sezione sullo «Spirito soggettivo», anche per ciò che concerne
le fonti di Hegel e la saggistica relativa, cfr. La «magia dello spirito»
e il «gioco del concetto». Considerazioni sulla filosofia dello spirito
soggettivo nell’Enciclopedia di Hegel, Milano, Guerini e Associati.
Uso la recente traduzione di Cicero (Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio, Milano, Rusconi) che ritengo puntuale ed avvertita
delle questioni poste dal testo, nonostante la discutibilità di alcune
soluzioni su cui per altro pesa in certa misura la resistenza ad abbandonare
traduzioni familiari e consolidate. “Hegel e l’Aufhebung del segno.” L’intreccio
fra sapere e ragione Il tema di questo colloquio riguarda la domanda
originaria. Domanda e origine sono problemi del pensiero che, fin
dall’inizio della filosofia, non costituiscono un approccio di controllo
e di dominio dell’esistenza, quanto piuttosto un ripiegamento su
sé stessi che si interroga sulla propria genesi. In termini meno esistenziali
e più antichi tale questione occupa il posto dell’anima. Dalla consapevolezza
dell’incombere della morte nel primo stasimo dell’Antigone al costituirsi,
per così dire, di un’«interiorità» nella Sofistica e in Platone, l’anima
ha funzionato come principio originario in una forma diversa che il
dominio. Principio che annoda e che manifesta, secondo vie non solo
immediate e speculari, il logos, il noein come conoscenza e misura
di un ordine. Quando il nous, attraverso Aristotele, acquista tutto
il suo sviluppo concettuale e strategico, nel pensiero tardo-antico,
a partire da Plotino, l’ anima rimane ed è ribadita come il luogo e il
venire a coscienza del rapporto con lo stesso nous, cioè con il formularsi
dell’originario (Uno, Bene o Atto che sia). Scelgo di leggere
Hegel. Scelta motivata da miei interessi attuali di ricerca, ma
anche, più ampiamente, dall’attualità di un linguaggio che è in grado di
riformulare questioni sull’assetto moderno del sapere e sul soggetto
di tale sapere. Su un io, che, nella esplicita strategia hegeliana, articola
e raddoppia il ruolo dell’anima. Sapere su di un io è comunque per
Hegel un sapere sulle strutture di un chi, che è in grado di formulare
una domanda originaria. Il testo, di cui intendo proporre alcune
note essenziali di commento, riguarda i paragrafi della “Psicologia”,
sezione della “Filosofia dello Spirito” contenuta nella edizione
dell’ “Enciclopedia.” A differenza dell’ “Antropologia”, in cui l’anima
è considerata come l’aspetto immediato della vita dello spirito
(anima considerata come il sonno dello spirito, problemi del rapporto
dell’anima con il corpo, questioni del sonno, della veglia, delle sensazioni
ecc.), la Psicologia non è scienza dell’anima, ma scienza del sapere
intorno all’anima, cioè scienza veramente tale, nella sua portata
concettuale. Per Hegel scienza – “Wissenschaft” -- ogni scienza, e soprattutto
quella scienza massimamente rigorosa che è la filosofia, è scienza
sempre di secondo grado: scienza che controlla e che ha come oggetto la
sua stessa genesi. Scienza che misura il negativo rispetto al suo assunto
e al suo stesso metodo, scienza che è in grado di smarcarsi dal piano del
suo stesso sapere e di comprendere il rapporto dinamico, generativo
e mai astrattamente speculare, in cui la conoscenza si costituisce.
Così, nel caso del testo che stiamo per commentare, i contenuti della
psicologia hegeliana sono curiosamente tutti diversi da quelli che
nell’assetto della fine dell’Ottocento e del primo Novecento ci si
aspetterebbe da una psicologia in senso moderno e scientifico. La
psicologia non è scienza delle leggi della psiche, ma del movimento generativo
delle leggi della psiche. I testi che sono oggetto del mio commento
sono, come è noto, estremamente difficili. Prima di cominciare vorrei
fare qualche rilievo sul problema della difficoltà in generale nella
lettura del testo di Hegel. La questione si pone secondo tre punti di
vista. Innanzi tutto come questione della natura e della destinazione
del testo. Ad esempio l’ “Enciclopedia delle scienze filosofiche”,
nel nostro caso, è pensata come un riassunto delle lezioni per gli studenti.
In secondo luogo il problema del significato espresso, del voler dire
del discorso hegeliano. In terzo luogo, che è quello decisivo, la questione
del metodo di composizione del testo di Hegel, metodo che riguarda,
d’un colpo solo, autore e lettore. Questioni, dette altrimenti, di sintonizzarsi
con il testo che, per quanto riguarda il metodo di lavoro di Hegel, non
può essere altro che ripercorrere l’elemento generativo del significato
di ciò che Hegel dice. Senza di questo incessante ripercorrimento a livello
della genesi del testo, il suo significato risulta inevitabilmente
incomprensibile o appiattito. Appiattito come su di una superficie,
in modo che il gioco delle interpretazioni del lettore, anche nel caso
si tratti di studioso molto qualificato, tende spesso a sbizzarrirsi
in grovigli di ipotesi filologiche o di carattere ideologico-metafisico.
Il minimo comun denominatore è la perdita del nesso fra il significato
di ciò che è detto nel testo con li movimento generativo di tale significato..
Così si può separare perfino il concetto di negativo dal concetto
di generazione sovrapponendo l’uno sull’altro e rendendo incomprensibili
entrambi. Questione che si pone in modo non infrequente, anzi malessere
spesso diffuso anche nei commenti «professionali». Iniziamo la
lettura partendo dalle prime righe del par. 440. Lo spirito si è determinato
divenendo la verità dell’anima e della coscienza, cioè la verità di
quella totalità semplice e immediata e di questo sapere. Adesso
il sapere, in quanto forma infinita, non è più limitato da quel contenuto,
non sta in rapporto con esso come con un oggetto, ma è sapere della
totalità sostanziale, né soggettiva né oggettiva. ll problema del
rapporto fra il sapere e la ragione inaugura qui il dibattito sulla
scienza della psiche. L’intreccio fra sapere e ragione inizia a dipanarsi
nel paragrafo seguente: L’anima è finita nella misura in cui è
determinata immediatamente, cioè determinata per natura.
La coscienza è finita nella misura in cui ha un oggetto. Lo spirito
è invece finito (insofern ist endlich) nella misura in cui esso, nel
suo sapere (in seinem Wissen) non ha più un oggetto, ma una determinatezza,
nel senso che è finito per via della sua immediatezza e — che è la stessa
cosa — perché è soggettivo, è cioè come il Concetto. Lo spirito è finito
nella misura in cui esso, nel suo sapere, non ha più un oggetto, ma una
determinatezza. Lo spirito sembra essere quell’attività in grado di
contenere e controllare l’intreccio fra la ragione e il sapere,
anche se ora solo nella forma dell’immediatezza. L’intreccio si organizza
su due poli: la ragione e il sapere. Essi si implicano reciprocamente
. A seconda che si consideri come concetto la ragione o il sapere.
Qui è indifferente ciò che viene determinato come concetto dello spirito
e ciò che viene invece determinato come realità – “Realität” -- di questo
concetto. Se infatti la ragione assolutamente infinita, oggettiva,
viene posta come concetto dello spirito, allora la realità è il sapere,
cioè l’intelligenza; se invece è il sapere a essere considerato
come il concetto, allora la realità del concetto è questa ragione e la
realizzazione (Realisierung) del sapere consiste nell’appropriarsi
della ragione. La finitezza dello spirito pertanto consiste in
ciò: il sapere non comprende l’Essere in-sé-e-per-sé della sua ragione.
In altri termini: la ragione non si è manifestata pienamente nel sapere.
C’è un dislivello dunque strutturale con la ragione che funziona nel
sapere. Dislivello strutturale che per i greci era invece costituito
dal rapporto fra il sapere e la verità. Comunque la realtà, considerata
come realtà del sapere o come realtà della ragione, si costituisce e funziona
per Hegel come un farsi che è un intreccio inestricabile. Una purità e
verginità dell’origine è introvabile. La questione di un sapere
dello/sullo spirito si articola ulteriormente nel paragrafo. Il procedere
dello spirito è sviluppo – “Entwicklung” -- nella misura in cui la sua
esistenza, il sapere, ha entro se stessa l’essere — determinato in sé
e per sé, cioè ha per contenuto – “Gehalte” -- e per fine – “Zweck
-- il razionale – “Vernunftige.”
L’attività di trasposizione è dunque puramente e soltanto il passaggio
formale nella manifestazione e, in questa, è ritorno entro sé – “Rückkehr
in sich.” Nella misura in cui il sapere, affetto dalla sua prima determinatezza,
è soltanto astratto, cioè formale, la meta dello spirito è quella di
produrre il riempimento oggettivo – “die objective Erfüllung hervorzubringen”
-- e quindi, a un tempo, la libertà del suo sapere. La via della psicologia
come scienza della libertà In questo testo il movimento del sapere e il
suo saperne si articola come questione della conoscenza dell’originario.
Tale questione, che ha la forma del ritorno, è pensabile come libertà.
L’avventura dello spirito che, hegelianamente, è sempre un appropriarsi,
un far proprio, qui, e secondo la radicalità della sua struttura, funziona
come appropriarsi del sapere e coincide con l’avventura della
libertà. Il cammino dello spirito consiste pertanto: nell’essere
spirito teoretico, cioè nell’avere a che fare con il Razionale nella
sua determinatezza immediata, e di porlo adesso come il Suo; in altre
parole: il cammino consiste innanzi tutto nel liberare il sapere
dal presupposto e, con ciò, dalla sua astrazione, e rendere soggettiva
la determinatezza. Poiché in tal modo il sapere è in sé e per sé determinato
come sapere entro sé, e poiché la determinatezza è posta come la sua,
quindi come intelligenza libera, il sapere è volontà, spirito
pratico, il quale innanzi tutto è anch’esso formale: ha un contenuto
che è soltanto il suo: esso vuole immediatamente, e adesso libera la
sua determinazione di volontà dalla soggettività che la condizionava
come forma unilaterale del proprio contenuto. In tal modo lo spirito
diviene come spirito libero, nel quale è rimossa quella doppia
unilateralità.6 Lo scorcio teorico fornito in questo paragrafo
merita una puntualizzazione. Abbiamo in precedenza accennato
alla cornice della Psicologia hegeliana come progetto scientifico:
scienza della psiche che si pone come scienza dei fattori generativi
della psiche. Il percorso dello spirito che si sforza di conoscere
se stesso, che tenta di comprendere l’esperienza della sua libertà, che
nella Fenomenologia dello spirito prende la via della morale come storia,
in queste pagine prende la via della psicologia come scienza della
libertà Che il sapere possa afferrare se stesso, possa appropriarsi di
sé: la strategia hegeliana implica che l’originario, per il soggetto
e per il sapere, funzioni e sia conoscibile come effetto di questo
appropriarsi che è etico, pratico. Se non si pensa il significato
del sapere e del suo soggetto come etico, pratico, il soggetto del sapere
si dibatte «in una doppia unilateralità»: la rappresentazione che il
soggetto fa di sé come suo e l’immediatezza di tale rappresentazione.
Anticipiamo. La libertà è pensabile come lo spiazzamento in cui il
soggetto del sapere conosce il suo essere fatto, nonostante e attraverso
il suo fare, impossibilitato a cogliere l’identità fra sé e la sua immagine.
Questa divisione e dislivello interno che è l’impossibilità di cogliere
l’origine del proprio costituirsi è per Hegel l’Intelligenza.
Nel montaggio linguistico di questo testo tale divisione e tale dislivello
vanno ad occupare il posto della classica opposizione fra il dentro e
il fuori. L’intelligenza, in quanto è questa unità concreta dei
due momenti — vale a dire, immediatamente, di essere ricordata
entro sé in questo materiale esteriormente essente, e di essere immersa
nell’essere fuori-di-sé mentre entro sé si interiorizza col proprio
ricordo —, è intuizione. La centralità della parola nella vita dell’intelligenza
Il cammino dell’Intelligenza sta proprio nel battere in breccia l’opposizione
fra il dentro e il fuori. L’intelligenza, quando ricorda inizialmente
l’intuizione, pone il contenuto del sentimento nella propria
interiorità, nel suo proprio spazio e nel suo proprio tempo In tal modo il
contenuto è immagine, liberata dalla sua prima immediatezza e
dalla singolarità astratta rispetto ad altro, in quanto essa è accolta
nella singolarità dell’Io in generale. Questo battere in breccia, visto
dal punto di vista dell’intelligenza, è ll’immagine. L’intelligenza
possiede dunque le immagini. L’intelligenza — dice Hegel — è il Quando
e il Dove dell’immagine. L’immagine è per sé transeunte, e l’intelligenza
stessa, in quanto attenzione, è il tempo e anche lo spazio — il Quando e
il Dove — dell’immagine. L’intelligenza però non è soltanto la
coscienza e l’Esserci delle proprie determinazioni, bensì, in quanto
tale, ne è anche il soggetto e l’In-sé. Ricordata nell’intelligenza,
perciò, l’immagine non è più esistente, ma è conservata inconsciamente.
Nell’Anmerkung dello stesso paragrafo Hegel inaugura la metafora del
POZZO notturno per definire il funzionamento dell’intelligenza
come un luogo in cui sono conservate immagini e rappresentazioni che
l’intelligenza stessa non conosce. Hegel prosegue la sua indagine
attraverso una sorta di tiro incrociato fra intuizione ed immagine,
mettendo in azione uno stile agostiniano alla “De magistro”. Anche la
nozione, classica, di rappresentazione entra, ricompresa e ripensata,
come dall’interno, nel movimento produttivo dell’intelligenza.
La nozione di memoria è anch’essa ripercorsa, nella sua struttura
classica, come movimento attivo e imprendibile, funzionante nell’intelligenza
e produttiva di essa, in una svolta decisiva del paragrafo 456.
L’intelligenza è la potenza che domina sulla riserva di immagini e
rappresentazioni che le appartengono; essa è quindi congiunzione e
sussunzione libera di questa riserva sotto il contenuto peculiare.
L’intelligenza si ricorda ed interiorizza in modo determinato
entro quella riserva, e la plasma immaginativamente secondo questo
suo contenuto: essa è quindi fantasia, immaginazione simbolizzante,
allegorizzante o poetante. Questa formazioni immaginative
più o meno concrete, più o meno individualizzate, sono ancora delle
sintesi nella misura in cui il materiale, in cui il contenuto soggettivo
conferisce un Esserci alla rappresentazione, proviene dal Trovato
(dem Gefundenen) dell’intuizione.Passività, evidenza, sorpresa di
fonte al darsi originario delle cose riguarda perciò per Hegel un movimento
che ha come suo elemento lo scenario dell’interiorità. Il trovato dell’intuizione,
incontro, evidenza, accoglienza della realtà è pensabile in un registro
che è già una traduzione. È nel registro di una traduzione che nel percorso
di questo testo di Hegel, di una traduzione del fuorinel dentro e viceversa,
che si può avvistare ciò in filosofia si chiama realtà. Quando
l’intelligenza, in quanto ragione, parte dall’appropriazione dell’immediatezza
trovata entro sé, cioè la determina come Universale, ecco allora che
la sua attività razionale procede dal punto attuale (dem nunmehrigen
Punkte) a determinare come essente ciò che in essa si è sviluppato in
autointuizione concreta, procede cioè a rendere se stessa Essere,
Cosa. L’intelligenza stessa così si fa essente, si fa Cosa. Quando
è attiva in questa determinazione, l’intelligenza si estrinseca
(aussernd), produce (produzierend) intuizione: è fantasia che si
esprime in segni (Zeichen machende Phantasie). L’intelligenza esiste
in quanto fantasia… Tesi non immediatamente prevedibile nel dispositivo,
intricato, di questo percorso hegeliano. Tesi cui pure spinge, con rigorosa
necessità, questa analisi «scientifica» della psiche. Questo testo di
Hegel innesca consapevolmente una polemica ed anche una riformulazione
metodologica radicale nei confronti della tradizione empirista,
dei sensisti, di Condillac e degli ideologues. Attraverso le
scorribande dell’intelligenza fra sapere e segno, scienza e realtà,
attraverso e al di là della dialettica fra il positivo e il negativo,
fra il soggetto e la verità ecc, Hegel afferma che l’intelligenza è il
suo atto. Esistere non è l’immediatezza di un che rispetto a se stessi,
ma è l’atto in cui, in un contenuto determinato, l’intelligenza si
rapporta a se stessa. La fantasia è il punto centrale in cui l’Universale
e l’Essere, il Proprio e il Trovato, l’Interno e l’Esterno, sono perfettamente
unificati. Le sintesi precedenti dell’intuizione, del ricordo
ecc., sono unificazioni del medesimo momento, tuttavia si tratta
pur sempre di sintesi. Solo nella fantasia l’intelligenza non è più
come il pozzo indeterminato e come l’Universale, bensì è come Singolare,
cioè come soggettività concreta nella quale l’autorelazione è determinata
sia come Essere sia come Universalità. L’intelligenza è intelligenza
di un individuo, di un singolo, è soggettività concreta solo nella fantasia.
Tale questione è chiarita dal seguito della stessa Anmerkung:
Tutti riconoscono che le immagini della fantasia costituiscono
tali unificazioni del Proprio e dell’Interno dello spirito con l’elemento
intuitivo. Il loro contenuto ulteriormente determinato appartiene
ad altri ambiti, mentre qui questa fucina interna va intesa soltanto
secondo quel momento astratto. In quanto attività di questa unione,
la fantasia è ragione, ma è ragione formale, solo nella misura in cui
il contenuto in quanto tale della fantasia è indifferente. La ragione
in quanto tale, invece, determia a verità anche il contenuto. Nell’Anmerkung
successiva nello stesso paragrafo Hegel opera la svolta decisiva nel
breve percorso che qui ci interessa: In particolare bisogna ancora
rilevare questo fatto. Poiché la fantasia porta il contenuto interno
a immagine e a intuizione — e ciò viene espresso dicendo che essa lo
determina come essente, non deve sembrare sorprendente l’espressione
secondo cui l’intelligenza si farebbe essente, si farebbe Cosa. Il
contenuto dell’intelligenza, infatti, è l’intelligenza stessa, e
lo è altrettanto la determinazione che essa gli conferisce.
L’immagine prodotta dalla fantasia è solo soggettivamente intuitiva,
mentre è nel segno che la fantasia aggiunge a ciò l’autentica
intuibilità (eigentliche Anschaulichkeit); nella memoria meccanica,
poi essa completa in sé questa forma dell’Essere. L’immagine
solo nel segno è autentica intuibilità di ciò che è. L’essente è coglibile
come segno, non come dato, come dono. Dato e dono non sono pensabili, ma neppure
sperimentabili nella forma della presenza, cioè in un darsi (che, in termini
hegeliani, è la materia dell’intuizione). Essi sono già trascritti
nel contenuto interno dell’intelligenza, cioè come segni. L’elemento
imprendibile, enigmatico della conoscenza è il segno e non il dato,
il dono. Nella struttura di questo testo Hegel afferma che il non proprio,
il non mio sovrasta e spiazza nella forma del segno, non nella forma del
dono. In questa unità, procedente dall’intelligenza, di una rappresentazione
autonoma (selbständiger Vorstellung) e di una intuizione, la materia
dell’intuizione è certo innanzitutto un qualcosa di accolto, di immediato
e di dato (ein aufgenommenes, etwas unmittelbares oder gegebenes)
(per esempio il colore della coccarda e affini). In questa
identità però l’intuizione non ha il valore di rappresentare positivamente
e di rappresentare se stessa, bensì di rappresentare qualcos’altro.
Essa è un’immagine che ha ricevuto entro sé una rappresentazione autonoma
dell’intelligenza come anima, che ha ricevuto, cioè, il suo significato.
Questa intuizione è il segno. L’intuizione, rapportata scientificamente
alla sua origine, ha la forma del SEGNO. Tale forma ha una struttura che
coinvolge i termine stessi dell’intelligenza. L’intelligenza sembra
funzionare in una deriva di cui il segno costituisce una sorta di cerniera,
snodo in cui l’intelligenza stessa è tolta-conservata. L’intuizione
che immediatamente e inizialmente è qualcosa di dato e di spaziale
(gegebenes und raumliches) una volta impiegata come segno riceve la determinazione
essenziale di essere soltanto come intuizione rimossa. Questa sua
negatività è l’intelligenza. Perciò la figura più autentica dell’intuizione,
che è un SEGNO, è di essere un Esserci nel tempo: un dileguare (Verschwinden)
dell’Esserci mentre l’esserci è. Inoltre, secondo la sua ulteriore
determinatezza esteriore, psichica, la figura più vera dell’intuizione
è un essere-posta dall’intelligenza, esser-posta che viene fuori dalla
naturalità propria (antropologica) dell’intelligenza stessa: è il
tono (Ton), cioè l’estrinsecazione riempita dell’interiorità annunciantesi.
Il tono che si articola ulteriormente in vista della RAPPRESENTAZIONE determinata
è il discorso, e il sistema del discorso è la lingua. In questo ambito
il tono conferisce a sensazioni, intuizioni e rappresentazioni un
secondo Esserci, più elevato dell’Esserci immediato: in generale
conferisce loro un’esistenza che ha valore nel regno dell’attività rappresentativa.
Questo progetto hegeliano di una scienza della psiche tenta qui un ulteriore
radicale approccio alla genesi dell’intelligenza. L’intuizione,
in quanto funzionante come segno, «riceve la determinazione essenziale
di essere soltanto come intuizione rimossa (zu einem Zeichen gebraucht
wird, die wesentliche Bestimmung nur als aufgehobene zu sein). In questo
esser rimosso, tolto-conservato dell’intuizione sta l’origine dell’intelligenza.
La negatività di cui essa è fatta si intreccia strutturalmente alla nozione
di tempo. L’intuizione non è dominabile da un soggetto se non nella
forma del dopo: «un dileguare dell’Esserci mentre Esserci è».
Quell’altro intreccio che costituisce l’intuizione, l’intreccio fra
il dentro e il fuori si esprime nel tono, suono articolato, “Ton”. Il
tono, visto in rapporto ad una rappresentazione determinata, è il discorso
(Rede) e il sistema del discorso è la lingua (Sprache). A questo
punto del suo percorso la strategia di Hegel si incontra con il privilegio
greco e platonico accordato alla parola, al logosin quanto vivente
pronunciato, detto. Come in Platone, anche in Hegel la parola è centrale
nella vita dell’intelligenza, ma di una centralità che occupa il luogo
di un movimento originario ed imprendibile. Per un commento
critico ed esplicativo dei paragrafi della psicologia nella sezione
sullo spirito soggettivo, anche per ciò che concerne le fonti di Hegel e
la saggistica relativa, cfr. Rossella Bonito Oliva, La «magia dello
spirito» e il «gioco del concetto». Considerazioni sulla filosofia
dello spirito soggettivo nell’Enciclopedia di Hegel, Milano, Guerini
e Associati. Uso la recente traduzione di Vincenzo Cicero (Enciclopedia
delle scienze filosofiche in compendio, ed. 1830, Milano, Rusconi,
1996) che ritengo puntuale ed avvertita delle questioni poste dal
testo, nonostante la discutibilità di alcune soluzioni su cui per altro
pesa in certa misura la resistenza ad abbandonare traduzioni familiari
e consolidate. Anmerkung. Anmerkung. Grice: “There’s something otiose
about the ‘faciendi signum’ of the Romans, why not just ‘signare’?” – Who or
what ‘makes’ the sign of a dark cloud (=> rain)?” “While it seems natural
enough to say that a dark cloud is a sign of rain,it or better, that a dark cloud signs *that* it
may rain, I wouldn’t say that the cloud “MAKES” anything --. Grice: “It’s sad
that Hegel’s Latin wasn’t that good – the Romans used ‘signare’ (Italian
‘segnare’) much more than they did use ‘significare’. “With all my love and
kisses” “You used to sign your letters ‘with all my love and kisses” – Sam
Browne --. Horatio Nicholls – aka as something else. Gianfranco Dalmasso.
Keywords: la giustizia nel discorso, sign-make, fare segno, fare segno a se –
zeichen Machen, to sign versus to signify -- Bradley, Hegel, io, noi,
intersoggetivo, Hegel on Zeichen, zeichen-machende fantasie” –
zeichen-interpretand fantasie” -- “l’implicatura del noi duale” “il tra noi” –
la prossimita del tra noi -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dalmasso”, per il
gruppo di gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Dalmasso.
Grice e Dandolo: l’implicatura
conversazionale della Roma pagana, filosofia romana – Carneade e compagnia --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Varese). Filosofo
italiano. Grice: “I love Dandolo; you know why? Because he was an amateur, not
a professional; I mean, he was a country gentleman and an earl, so if he
philosophised it wasn’t for the colour of the money! Plus, he owned a lovely
‘palazzo,’ which I would call ‘villa’! Neoguelfo. Figlio dal conte Vincenzo e Mariana
Grossi. Il padre era esponente della Municipalità di Venezia, ma dopo il
trattato di Campoformio, con il quale si sancì la fine della Repubblica,
dovette esulare in Francia. Venne in seguito nominato da Napoleone senatore del
Regno italico e conte. Fu anche governatore civile della Dalmazia. Passa quindi
un'infanzia assai agitata; fu cresciuto da una "cameriera disattenta"
e poi sballottato per vari collegi. Si laurea a Pavia. Passa alcuni anni girando
per l'Europa e conducendo una vita mondana. In questo periodo venne a contatto
con illustri personalità culturali politiche dell'epoca. Venne sospettato
dal governo austriaco di aver partecipato alle congiure degli anni precedenti,
e per questo fatto rientrare in modo coatto in Italia (senza tuttavia essere
perseguitato). In Italia, si dedica ampiamente alla filosofia, e sposa la
sorella di Bargnani; uno dei cospiratori mazziniani. Morta la sposa affida ad
un amico i figli. Sposa la contessa Ermellina Maselli, da cui ebbe altri due
figli. I primi due figli presero parte alle Cinque giornate e ad altre
operazioni belliche e lo stesso Tullio fu uno dei principali autori della
rivoluzione e capo della rivolta varesina (scoppiata in concomitanza con quella
di Milano), ma a Roma, durante la difesa della repubblica di Mazzini, Su figlio
muore e l’altro rimase gravemente ferito. Questo evento tocca molto Tullio che
tuttavia, pur dovendosi prendere cure molto onerose del superstite, continua
comunque i suoi studi di filosofia. Sui due figli raccolse un gran numero di
documenti, memorie e storie pubblicati in “Lo spirito della imitazione di Gesù
Cristo esposto e raccomandato da un padre ai suoi figli adolescent:
corrispondenze di lettere famigliari: riicordi biografici dell'adolescenza
d'Enrico e d'Emilio D., Milano). Un filosofo che fece delle critiche alla sua
attività fu Tommaseo, ma risultò essere piuttosto duro ed aspro, tanto da
scrivere. “Fin da giovane scarabocchiò librettucci compilati o piuttosto
arruffati. Né di quelli che scrisse dal venticinque al cinquantacinque sapresti
quale sia il più decrepito e il più puerile. Ma fece due opere buone, un
figliolo che morì valentemente in Roma assediata da Galli vendicatori delle
oche; e un altro figliolo che scrisse la storia, e direi quasi la vita della
Legione Lombarda capitanata da Manara, libro di senno virile e d'affetto pio.”
I suoi saggi trattano gli argomenti più vari: dalla pedagogia
all'autobiografia, da quelli di carattere storico a quelli religiosi. Molti di
essi sono schizzi letterari e filosofici o riguardano descrizioni di viaggi,
città e munomenti. Inoltre, scrisse molto intorno alla storia romana antica,
alla nascita del Cristianesimo, al Medioevo e al Rinascimento, pubblicando
anche molti discorsi e documenti inediti. Più che ad un contributo critico,
mira a dare un'informazione non faziosa per una migliore conoscenza del
passato. Questi suoi scritti storici sono molto diversi fra di loro. In alcuni
predilige uno stile aulico, mentre in altri un tono popolare e facile;
trattando ora gli argomenti con approssimazione ed ora dando al racconto la
coinvolgenza di un romanzo. Altre opere: “Roma”; “Napoli” (Milano);
“Firenze”; “Torino”; “La Svizzera”; “Il Cantone de' Grigioni” (Milano); “Prospetto
della Svizzera, ossia ragionamenti da servire d'introduzione alle lettere sulla
Svizzera); “La Svizzera considerata nelle sue vaghezze pittoresche, nella storia,
nelle leggi e ne' costume”; “Venezia”; “Il secolo di Pericle”; “Schizzi di
costume”, “Il secolo d'Augusto”; “Semplicità” (o rapidi cenni sulla letteratura
e sulle arti”; “Album storico poetico morale, compilato per cura di V. de
Castro” (Padova); “Reminiscenze e fantasie. Schizzi letterari, Peregrinazioni.
Schizzi artistici e filosofici (Torino); Roma e l'Impero sino a Marco Aurelio”
(Milano); “Firenze sino alla caduta della Repubblica”; “Il Medio Evo elvetico”;
“Racconti e leggende”; “La Svizzera pittoresca, o corse per le Alpi e pel Jura
a commentario del Medio Evo elvetico; “I secoli dei due sommi italiani Dante e Colombo;
“Il Settentrione dell'Europa e dell'America nel secolo passato; “L'Italia nel
secolo passato; Il Cristianesimo nascente; La Signora di Monza. Le streghe del
Tirolo. Processi famosi del secolo decimosettimo per la prima volta cavati
dalle filze originali, ibid. 1855 (rist. anast., Milano); Il pensiero pagano ai
giorni dell'Impero. Studii, Il pensiero cristiano ai giorni dell'Impero. Studii;
Il pensiero pagano e cristiano ai giorni dell'Impero. Studii; “Monachesimo e
leggende. Saggi storici; “Roma e i papi. Studi storici, filosofici, letterari
ed artistici, Il secolo di Leone Decimo. Studii, Lo spirito della imitazione di
Gesù Cristo esposto e raccomandato da un padre ai suoi figli adolescenti
(corrispondenza di lettere famigliari). Ricordi biografici dell'adolescenza
d'Enrico e d'Emilio Dandolo, Milano); “La Francia nel secolo passato, “Corse
estive nel Golfo della Spezia; Il secolo decimosettimo, Ragionamenti
preliminari ed indici ragionati degli studi del conte Tullio Dandolo su Roma
pagana e Roma cristiana pubblicati ad annunzio e prospetto dell'opera, Assisi (estr. da Stella dell'Umbria); “Ricordi di D.”;
“Lettera a D. Sensi. Indice della materia, Assisi); “Ricordi”; “Ricordi inediti
di G. Morone gran cancelliere dell'ultimo duca di Milano, a cura di D., Milano;
Alcuni brani delle storie patrie di Giuseppe Ripamonti per la prima volta
tradotti dall'originale latino dal conte T. Dandolo, Il potere politico
cristiano. Discorsi pronunciati dal Ventura di RaulicaR. P., a cura di Dandolo,
Milano); “Vicende memorabili narrate da Alessandro Verri precedute da una vita
del medesimo di Maggi, a cura di D., A. F. Roselly de Lorgues. Ricordi, primo e
secondo periodo, Assisi. di Guerri, direttore delle Civiche raccolte storiche
di Milano. Colloqui col Manzoni, T. Lodi
(Firenze). Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiano. LA FILOSOFIA ROMANA. Nei primi secoli della
repubblica i romani non diedersi pensiero di filosofia. Appena ne conobbero il
nome. Intenti da principio a difendersi, poi a consolidare la loro dominazione
sui popoli vicini, la loro saviezza fu figlia della sperienza e d'un ammirabile
buon senso affinato dalle difficoltà esteriori in mezzo a cui si trovarono
collocati, e dal godimento di un'interiore libertà, le cui procelle incessanti
valevano ad elevare ed afforzare gli animi. Volle taluno che le instituzioni
del re Numa non andassero digiune di pitagorismo. Gli è da credere piuttosto,
avuto riguardo all'ordine cronologico, che Pitagora attignesse nelle dottrine
sacerdotali del secondo re di Roma qualcuna delle sue teoriche intorno la
religione. Allorchè i romani strinsero i primi legami co' greci delle
colonie italiche e siciliane, non credettero di ravvisare che leggerezza
mollezza e corruzione in que' popoli i quali a ricambio qualificarono i romani
di barbari. Sul finire della prima guerra punica fu resa nota ai vincitori la
letteratura drammatica de greci; e vedemmo Livio Andronico ha per primo
tradotto tragedie, le quali cacciarono di scanno i versi fescennini, i giuochi
scenici etruschi e le informi atellane. Ennio, oltre ai componimenti poetici di
cui facemmo menzione, voltò in latino la storia sacra di Evemero, scritto
ardito, inteso a dimostrare che gli dei della Grecia altro non erano che
antichi uomini dalla superstizione divinizzati. I romani non videro nelle
ipotesi del filosofo che un oggetto di mera curiosità. Non erano ombrosi come
gl’ateniesi, non avevano peranco sperimentato qualc’azione efficace la
filosofia esercitar potesse sulla religione. Accolsero del pari con
indifferenza la sposizione poetica che del sistema dell’ORTO loro presenta LUCREZIO.
Germi sono questi gettati in terreno non preparato ancora à riceverli. La
conquista non tardò a dischiudere colla Grecia più facili mezzi di
comunicazione. I conquistatori trasportarono in patria schiavi tra’ quali vi
avevano non filosofi, ma retori e grammatici; e loro fidarono l'educazione de'
proprii figli. L'introduzione degli studii filosofici in Roma risale alla
celebre ambasceria di Carneade accademico, Critolao peripatetico, Diogene
stoico. Avidi di brillare e lusingati dall'ammirazione che destavano in un popolo
non avvezzo a sottili investigazioni, quei tre fecero pompa di tutta la
profondità e desterità della loro dialettica ad abbagliare la romana gioventù
che loro s'affoltava intorno, incantata di scovrire usi dianzi ignorati della
parola. I magistrati s'adombrarono di cotesto subitano commovimento. I vecchi
Se. natori armaronsi di tutta l'autorità delle prische costumanze per
respingere studi speculativi, che teme vano come pericolosi e disprezzavano
come futili. CATONE il censore ottenne che si allontanassero tosto dalla romana
gioventù i retori che davano opera a distruggere le più venerate tradizioni e a
smovere le fondamenta della morale. I sofismi di Carneade, il quale faceva
pompa della spregevole arte di sostenere a piacimento le opinioni più
contraddittorie, forne a Catone plausibili argomenti di vituperarlo. Sicchè i
primordi della filosofia furono contrassegnati in Roma da sfavorevoli
apparenze. Il rigido censore non prevede che, un secolo dopo, quella filosofia
che aveva voluto proscrivere, meglio approfondita e meglio conosciuta, sarebbe
il solo rifugio del suo pronipote contro le ingiurie della fortuna e la
clemenza di GIULIO CESARE. Non possiamo trattenerci dal simpatizzare con que’
vecchioni, i quali opponevano al torrente da che avvisavano minacciata la
patria lor capegli canuti e la loro antica esperienza, evocando a respignere
pericolose novatrici dottrine la religione del passato e le tradizioni di
seicent anni di vittorie di libertà divirtù. Ma se a codesto spontaneo
sentimento tien dietro la riflessione, saremo costretti di
riconoscere che a rintuzzare il progresso della filosofia ed anco de
sofismi di Grecia, il senato mal si appose con quel suo violento procedere.
Tutto ciò che è pericoloso racchiude in sè un principio falso che è
sempre facil cosa scovrire. Affermare il contrario sarebbe muovere accusa
al divino, quasi ch'ella con innestare il male nella conoscenza del vero
avesse teso un laccio all’umana intelligenza. Convien dunque adoperarsi a
dimostrare la falsità delle opinioni perniziose, non proscriverle alla
cieca, quasi rifuggendo esaminarle conscii dell'impossibilità di
confurtarle. Sì ardua impresa rispondere agli ateniesi sofisti? o
sì difficile dimostrare che quelle loro argomentazioni pro e contra
lo stesso principio di morale erano assurde? O sì temerario lo
appellarsene, ne' cuori romani, a’sentimenti innati del vero e del giusto, il
risvegliare in quelle anime ancor nuove sdegno e disprezzo per teoriche,
le quali, consistendo tutte in equivoci, dovevano vituperosamente cadere
dinanzi la più semplice analisi? Catone anda altero dell'ottenuta
vittoria. Gli ambasciadori ateniesi furono tosto rimandati. Per un secolo
ancora severi editti, frequentemente rinnovati, lottarono contro ogni nuova
dottrina. Ma l'impulso è dato, nè poteva fermarsi. I romani conservarono
impresse nella memoria le dottrine dei sofisti. Era poi e riguardarono la
dialettica di Carneade non tanto come un sistema che conveniva esaminare,
quanto come una proprietà che stava bene difendere. Giunti ad età provetta nel
bivio d'abbandonare ogni speculazione filosofica o di disobbedire alle leggi, sono
tratti a disobbedire dalla loro inclinazione per le lettere, passione la quale,
dacchè è nata, va crescendo ogni dì, siccome quella che ha riposte in sè
medesima le proprie soddisfazioni. Gl’uni tennero dietro alla filosofia nel suo
esiglio ad Atene. Altri mandarono colà i loro figli. I capitani degl’eserciti sono
i primi a lasciarsi vincere apertamente da questa tendenza generale degli
spiriti. L'accademico Antioco è compagno di Lucullo. Catone il censore cede
egli stesso, a malgrado delle sue declamazioni, alla seduzione dell'esempio, ed
assistè alle lezioni del peripatetico Nearco. SILLA fa trasportare in Roma la
biblioteca d'Apellico di Teo. CATONE d'Utica allorch'è tribuno militare in
Macedonia peregrino in Asia a solo oggetto d'ottenere che Atenodoro, filosofo del Portico, abbandonasse
il suo ritiro di Pergamo e si conducesse a dimorare con lui. Pure gl’spiriti
che con siffatto entusiasmo s'abbandonarono alle filosofiche investigazioni non
trovavansi da studii anteriori preparati ad astratte speculazioni. Ne avvenne
che la filosofia penetra in coteste menti dico come in massa e nel suo insieme.
Ma non s'indentifica col rimanente delle loro opinione. La sua efficacia è nel
tempo stesso più gagliarda e mento continua che in Grecia. Più gagliarda nelle circostanze
importanti nelle quali l'uomo trascinato fuori del circolo delle sue abitudini
cerca appoggi, motivi d'agire, conforti straordinarii. Meno continua perchè, se
niun evento tnrbava l'ordine abituale, ella ridiventava pe’ romani una scienza,
piuttostochè una regola di condotta applicata a tutti i casi della vita
sociale. Che se non iscorgiamo in Roma individui che a somiglianza dei sapienti
della Grecia consacrassero alla filosofia esclusivamente il loro tempo. Non ci
appare nè anche, ad eccezione di Socrate, che i greci abbiano saputo trarre
dalla filosofia quegli efficaci soccorsi che invigorivano gli illustri
cittadini di Roma in mezzo ai campi, nelle guerre civili, tra le proscrizioni,
allora suprema. I romani si divisero in sette. Effetto della maniera
d'insegnamento di cui i retori greci usavano con essi. Per la maggior parte
schiavi od affrancati, dovevano costoro, qualunque fosse il loro convincimento
o la loro preferenza per queste o quelle dottrine, studiarsi di piacere a' padroni;
ond'è che chiaritisi come una tale ipotesi respignesse colla sua severità o
stancasse colla sua sottigliezza, affrettavansi di sostituirne altra più
accetta. Tali sono i risultamenti della dipendenza. L’amore stesso del vero non
basta ad affrancare l'uomo dal giogo. S’egli non abjura le sue opinioni, ne
cangia le forme; se non rinnega i suoi principii, li sfigura. Allorchè a
questi retori schiavi succedettero i retori stipendiati, le dottrine diventarono
derrata di cui itanto per greci trafficarono, e della quale per
conseguenza lasciarono la scelta a' compratori. Le varie sette non trovarono
in Roma uguale favore. L'epicureismo benchè in bei versi esposto ed insegnato
da Lucrezio, vi fu dapprima respinto, non la sua morale di cui bene non si
conoscevano ancora i corollarii, quanto per la raccomandazione che faceva
d'attenersi ad una vita speculativa e ritirata, aliena non meno da fatiche che
da pericoli. Gli è questo difatti il principale rimprovero che fa Cicerone alla
filosofia epicurea. I cittadini d'uno stato libero non sanno concepire la
possibilità di porre in dimenticanza la patria, perciocchè ne posseggono una; e
considerano come colpevole debolezza quell'allontanamento da ogni carriera
attiva, che sotto il dispotismo diventa bisogno è virtù di tulli gli uomini
integri e generosi. L'epicureismo ebbesi per altro un illustre seguace; nè qui
vo' accennare d'Atlico, che senza principii senza opinioni fu bensì amico caldo
e fedele, ma cittadino indifferente e di funesto esempio, avvegnachè sotto
forme eleganti insegnò alla moltitudine ancora indecisa e vacillante come
chicchessia può accortamente isolarsi e tradire con decenza i proprii doveri
verso la patria. Il romano di cui intendo parlare è Cassio che fino
dall'infanzia si consacrò alla causa della libertà, e rinunziando ai piaceri
alle dolcezze della vita, non ebbe che un pensiero un interesse una passione,
la patria. Fu centro della cospirazione contro Cesare; e dolendosi di non potere
sperare in un'altra vita, muore dopo avere corso un arringo continuamente in
contraddizione colle sue dottrine. Le sette di Pitagora, di Aristotile, e
di Pirrone incontrarono a Roma ostacoli d'altra maniera. La prima, per una
naturale conseguenza del segreto in cui si avvolse fino dal suo nascere,
contrasse affinità con estranie superstizioni; perciocchè uno degli
inconvenienti del mistero, anche quando n'è pura l'intenzione primitiva, è di
fornire all' impostura facile mezzo d'impadronirsene. Nigido Figulo è il solo
pitagorico di qualche grido che abbia fiorito in Roma. L'oscurità aristotelica
ebbe poche attrattive per menti più curiose che meditative. L'esagerazione
pirronista per ultimo ripugna alla retta ragione de’ romani. Il platonismo che
ancor non era ciò che di. venne due secoli dopo per opera de' novelli
platonici. Lo scetticismo moderato della seconda accademia, e lo stoicismo
furono i sistemi adottati in Roma. Lucullo, Bruto, Varrone sono platonici. Cicerone,
a cui piacque porre a riscontro tutte le varie dottrine, inclina per
l'indecisione accademica. Lo stoicismo solo fu caro alla grand'anima di Catone
Uticense. “Non possum legere librum Ciceronis de Se. nectute, de
Amicitia, de Officiis, de Tusculanis Quæstionibus, quin aliquoties exosculer
codicem, ac venerer sanctum illud pectus aflatum celesti Qumine. ERASM.
in Conviv --. M. Tullio adotta egli per convinzione i sistemi filosofici della
nuova accademia, o diè loro la preferenza perchè più propizii all’oratore in
fornirgli arme con cui combattere i proprii avversarii! Corse grand' intervallo
tra un Cicerone ambizioso, e un Cicerone disingannato. Ciò che pel primo era
oggetto subordinato a speranze a divisamenti avvenire, diventa pel secondo un
bisogno del cuore, un'intensa occupazione della mente. Ei pose affetto alle
dottrine del platonismo riformato; e a quelle parti della morale in esse
contenuta di cui si tenne men soddisfatto, altre ne sostituì fornitegli dallo
stoicism. E propriamente ecclettico, od amatore del vero e del buono ovunque lo
riscontrava. Ad imitazione di Platone pose in dialoghi i suoi scritti
filosofici. Per eleganza di stile ed elevatezza di concetti non cede al
modello. Per chiarezza e per ordine lo vince. Ne cinque libri, De finibus,
intorno la natura del bene e del male si propose una meta sublime; la ricerca
cioè del bene supremo; in che cosa consista; come si consegna; ove dimori. Tu
cerchi però inutil mente in quelle pagine da cui traluce tanta sapienza
plausibile soluzione del quesito. Gli antichi ingolfandosi in cotali disamine
faceano ricerca di ciò che trovare non potevano; chè gli è impossibile che il
bene supremo rinvengasi in ordine di cose che necessariamente è imperfetto.Verità
che il Vangelo ci rese ovvia insegnandoci come la felicità sognata dai gentili
pel loro saggio non sia fatta per uomo mortale, essondechè stanza le è
riserbata imperibile sublime. In che cosa consiste il sommo bene? Ecco di
che venivano continuamente richiesti i filosofi. Epicuro ed Aristippo
rispondevano, nel piacere; Jeronimo, nell'assenza del dolore; Platone, nella
comprensione del vero, e nella virtù che ne è conseguenza; Aristotile, nel
vivere conformemente alla natura. Cicerone associa le sentenze di Platone e
d'Aristotile, e si appose meglio di quanti nell'arduo arringo l'avevano
preceduto. Dalle più elevate astrazioni sceso ad argomenti che si
collegano co' bisogni e co' vantaggi dell'uomo, M. Tullio si propose nelle
Tusculane di cercare i mezzi adducenti alla felicità. Cinque ne noverò; il
dispregio della morte; la pazienza ne' dolori; la fermezza nelle varie prove;
l'abitudine di combaltere le passioni, e finalmente la persuasione che la virtù
dee unicamente cercare premio in sè stessa: e la dimostrazione di cotesti
assiomi si fa vaga, sotto la penna del filosofo, di tutte le grazie
dell'eloquenza. All' Anima, egli scrive, tu cercheresti inutilmente un'origine
terrestre, perocchè nulla in sè accoglie di misto e concreto; non un atomo
d'aria d'acqua di fuoco. In cotesti elementi sapresti tu scorgere forza di
memoria d'intelligenza di pensiero, valevole a ricordare il passato a
provvedere al futuro ad abbracciare il presente? Prerogative divine sono queste,
nè troveresti mai da chi sieno state agli uomini largite, se non 'da Dio. È
l'anima pertanto informata di certa quale sua singolar forza e natura ben
diverse da quelle che reggono i corpi tutti a noi noti. Checchè dunque in noi
sia che sente intende vuole vive; divina cosa certo è cotesta; eterna quindi
necessariamente esser deve. Nè la divinità stessa, quale ce la figuriamo,
comprenderla in altra guisa possiamo, che come libera intelligenza scevra
d'ogni mortale contatto, che tutto sente e muove, d’eterno moto ella stessa
fornita. L’anima umana per genere e per natura somiglia a Dio. “Dubiterai
tu, a veder le meraviglie dell'universo, che tal opera stupenda non abbiasi (se
dal nulla fu tratta, come afferma Platone) un creatore; o se creata non fu,
come pensa Aristotile, che ad alcun possente moderatore non sia data in
custodia? Tu Dio non vedi; pur le opere sue tel rivelano: così ti si fa palese
dell'anima, comechè non vista, la divina vigoria, nelle operazioni della
memoria nel raziocinio nel santo amore della virtù.” I discepoli d'Epicuro,
commentando, esagerando ciò che vi avea d'incerto d'oscuro nei principii del
loro maestro. l'universo nato dal caso affermarono, negarono la provvidenza,
piegarono all'ateismo. Tullio si fa a combatterli nel suo libro Della natura
degli Dei. Le lettere antiche non inspiraronsi mai di più sublime
eloquenza. Vedi primamente la terra, collocata nel centro del mondo,
solida, rotonda, in sè stessa da ogni parte per interior forza ristrella; di fiori
d'erbe d'arbori di messi ammantarsi. Mira la perenne freschezza delle fonti, le
trasparenti acque de' fiumi, il verdeggiare vivacissimo delle rive, la
profondità delle cave spelonche, delle rupi l'asperità, delle strapiombanti
vette l’elevazione, delle pianure l'immensità, e quelle recon. dite vene d'oro
e d'argento, e quell' infinita possa di marmi. Quante svariate maniere
d'animali! quale aleggiare e gorgheggiar d'uccelli e pascere d'armenti, ed
inselvarsi di belve! E che cosa degli uomini dirò, che della terra costituiti
cultori non consentono alla ferina immanità di toruarla selvaggia, all’animalesca
stupidità di devastarla, sicchè per opera loro campi isole lidi mostransi vaghi
di case, popolati di città! Le quali cose se a quella guisa colla mente comprendere
potessimo, come le veggiamo cogli occhi; niune in gettare uno sguardo sulla
terra potrebbe dubitar più oltre che esista ia provvidenza divina. “Ed
infatti, come vago è il mare! come gioconda dell'universo la faccia! Qual moltitudine
e varietà d'isole é amenità di piani, e disparità d'animali, sommersi gli uni
nei gorghi, gnizzanti gli altri alla superficie, nati questi a rapido moto,
quelli all’imobi, lità delle loro conchiglie! E l'acre che col mare con: fina
qua diffuso e lieve s'innalza, là si condensa e accoglie in nugoli, e la terra
colle piove feconda; e ad ora ad ora pegli spazii trascorrendo ingencra i vento
ti, e fa che le stagioni subiscano dal freddo al caldo loro consuete mutazioni,
e le penne de' volatori sostiene, e gli animali mantien vivi.” 5 Giace ultimo
l'etere dalle nostre dimore disco. stissimo, che il cielo e tutte cose ricigne,
remoto confine del mondo; per entro al quale ignei corpi con maravigliosa
regolarità compiono il loro corso. Il sole, uno d'essi, che per mole vince di
gran volte la terra, intorno a questa s'aggira, col sorgere e il tramontare
segnando i confini del giorno e della notte; coll'avvicinarsi e il discostarsi
quelli delle stagioni; sicchè la terra, allorehè il benefico astro s'allontana,
da certa qual tristezza è conquisa; pare che invece insieme col ciclo ši
allegri allorchè torna. La luna, che a dire de matemateci, è più che una mezza
terra, trascorre pe' medesimi spazii del sole, ed ora facendoglisi incontro;
ora dipartendosi, que' raggi che da lui riceve a noi trasmette; ed avvengonle
mutazioni di luce; perciocchè talora postasi innanzi al sole lo splendore ne
oscura; talora nell'ombra della terra s'immerge e d'improvviso scompare. Per
quegli spazii medesimi le stelle che denominiamo vaganti girano intorno a noi e
sorgono e tramontano ad uno stessso modo; il moto delle quali ora è affrettato
ora s'allenta ora cessa; spettacolo di cui altro avere non vi può più
ammirando e più bello. Tiene dietro la moltitudine delle non vaganti stelle,
delle quali sì precisa è la reciproca giacitura, che si poterono ad esse
applicar nomi di determinate figure. “E tanta magnificenza d'astri, tanta
pompa di cielo, qual sano intelletto mai potrà figurarsele surte dal
raccozzarsi di corpi qua e là fortuitamente? Chi potrà credere che forze d'
intelligenza e di- ragione sprovvedute fossero state capaci di dar compimento a
tali opere delle quali, senza somma intelligenza e robusta ragione, ci
sforzeremmo inutilmente di comprendere, non dirò come si sieno fatte, ma solo
quali veramente sieno?” Dopo d'avere additato virtù e religione siccome
scaturigini del bene, maestre di felicità, dopo d'avere spaziato pegli immensi
campi d'un'alta e confortevole metafisica, dopo di avere falto tesoro negli
insegnamenti della greca filosofia di ciò ch'essa mise in luce di più puro e
sublime intorno l'anima e Dio; argomento degno della gran mente di Cicerone era
la felicità, non più studiata e ricercata pegli individui, ma per le nazioni;
ed a sì nobile soggetto consacrò i suoi trattati, in gran parte perduti, Della
repubblica e Delle leggi. Nei frammenti che ce ne restano scorgiamo essersi il
filosofo serbato fedele al suo assioma favorito: - nella giustizia divina
contenersi l'unica sanzione dell'umana giustizia. u Fondamento primo
d'ogni legislazione, egli scrive, sia un generale convincimento che gli
Dei sono di tutto arbitri, di tutto moderatori; che benefattori del. l'uman
genere scrutano che cosa è in sè stesso ogni uomo, che cosa fa, che cosa pensa,
con quale spirito pratica il culto; sicchè i buoni sanno discernere dagli
empii. Ecco di che gli animi voglionsi compene. trati, onde abbiano la coscienza
dell' utile e del vero.” Ma se M. Tullio della virtù della felicità delle leggi
ravvisava nella religione le scaturiggini, la religione voleva che santa e pura
fosse, onninamente sgombra dalle supestizioni dalle credulità, da che
vituperata miravala. A tal uopo dettò l'aureo trattato De divinatione, nel
quale usò d'un argomentare nel tempo stesso seyero e faceto, con abbandonarsi
in isferzare la credulità e la sciocchezza a'voli più opposti della sua
proteiforme eloquenza. Capolavoro di Cicerone è il libro Degli Officii,
ossia de' doveri morali degli uomini in qualunque condizione si trovino essi
collocati. I Greci ebbero costume di spaziare troppo ne' campi delle
filosofiche astrazioni; le loro dottrine trovarono meno facile applicazione a'
casi pratici della vita, perchè sovraccaricate di vane disputazioni, oppurtune
più spesso a trastullare l'imaginazione, che ad illuminare l'intelletto. Tullio
grande e saggio anche in questo volle spoglia la sua filosofia di quell'
ingombro, e ricondussela alla più semplice e precisa espressione degli
inculcati doveri. 6 Cicerone (scrive- a proposito del libro degli Officii un
critico tedesco) fu dotato di luminosa intelligenza di rello giudizio di
gran. de altività, doti opportunissime a coltivare la ragione, a fornirle
argomento d' incessanti meditazioni. Ma Cicerone non possedeva lo spirito
speculativo che si richiede a poter ben addentrarsi ne' primi principii delle
scienze: il tempo venivagli meno a minute indagini, la sua indole stessa fare
non gliele poteva famigliari. Uomo di stato più che filosofo, le scienze morali
lo interessavano per quel tanto che gli servivano a rischiarare le proprie idee
intorno ad argomenti politici. Vissulo in mezzo a rivoluzioni, quali traversie
non ebbe egli a sopportare ! Niun politico si trovò mai in situazione più
propizia per fare tesoro d'osservazioni intorno l'indole della civile società,
la diversità de' caratteri, l'influenza delle passioni. Pure cotesta situazione
sua stessa era poco alla a fornirgli opportunità d’approfondire idec astralte o
meditare sulla natura delle forze invisibili, i cui visibili risultamenti
s'appalesano nell' umano consorzio. La situazione politica in cui M.
Tullio si trovò collocato improntò la sua morale d'un carattere speciale. Gli
uomini dei quali ed a’ quali ragiona sono quasi sempre della classe a cui
spetla d'amministrare la repubblica: talora, ma più di rado, rivolgesi agli
studiosi delle lettere e delle scienze. Per la moltitudine de cittadini hannovi
bensì qua e là precetti generali comuni applicabili agli uomini tutti; ma
cercheresti inutilmente l'applicazione di que' precelli alle circostanze d'una
vita oscura e modestà. Caso invero singolare! Mentre le forme del
reggimento repubblicano raumiliavano l'orgoglio politico con dargli a base il
favore popolare, i pregiudizii dell'antica società alimentavano l'orgoglio
filosofico, con accordare il privilegio dell'istruzione unicamente a coloro che
per nascita o per fortune erano destinati a governare i loro simili. In
conseguenza di questo modo di vedere i precetti morali di Cicerone degenerarono
sovente in politici insegnamenti. Coi trattati “Dell' amicizia” e “Della
vecchiezza” M. Tullio a confortevoli meditazioni ebbe ricorso onde ricreare la
propria mente dalla tensione di più ardui studii e dagli insulti della fortuna.
E veramente che cosa avere vi può sulla terra di più dolce e santo d'una fedele
amicizia? Che cosa vi ha di più dignitoso e simpatico d'una vecchiezza onorata
e felice? Cice, rone in descrivere quelle pure e nobili dilettazioni consulto
il proprio cuore: beato chi trova in sè stesso l' inspirazione e la coscienza
della virtù!” -- Wikipedia Ricerca Mitologia romana narrazioni
mitologiche dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione sull'argomento mitologia romana non cita le fonti
necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La mitologia romana riguarda
le narrazioni mitologiche della civiltà legata all'antica Roma, e può essere
suddivisa in tre parti: Periodo repubblicano: nata nei primi anni della
storia di Roma, si distingueva nettamente dalla tradizione greca ed etrusca,
soprattutto per quanto riguarda le modalità dei riti. Periodo imperiale
classico: spesso molto letteraria, consiste in estese adozioni della mitologia
greca ed etrusca. Periodo tardo-imperiale: consiste nell'assunzione di molte
divinità di origine orientale, tra le quali il Mitra persiano, sincretizzato
nel culto del Sol Invictus. Il mito di Romolo e Remo Natura dei primi
miti romaniModifica È possibile affermare che i primi romani avessero miti.
Detta in altro modo: finché i loro poeti non entrarono in contatto con gli
antichi greci verso la fine della Repubblica, i romani non ebbero storie sulle
loro divinità paragonabili al mito dei Titani o alla seduzione di Zeus da parte
di Era, ma ebbero miti propri come quelli di Marte e di Fauno. A
quell'epoca i romani già avevano: un sistema di rituali ed una gerarchia
sacerdotale ben definiti; un insieme molto ricco di leggende storiche sulla
fondazione e sviluppo della loro città che avevano per protagonisti degli umani
ma vedevano anche interventi divini. Prima mitologia sulle divinitàModifica Il
modello romano comportò un modo molto diverso di definire il concetto di
divinità rispetto a quello greco che ci è noto. Per esempio se avessimo chiesto
ad un antico greco chi fosse Demetra, avrebbe probabilmente risposto
raccontando la famosa leggenda del suo folle dolore per il rapimento della
figlia Persefone da parte di Ade. Al contrario un romano antico avrebbe
risposto che Cerere aveva un sacerdote ufficiale chiamato flamine, che era più
giovane dei flamini di Giove, Marte e Quirino (la Triade arcaica), ma più
anziano dei flamini di Flora e Pomona. Avrebbe anche potuto dire che era
inserita in una triade con altre due divinità agresti, Libero e Libera e
avrebbe anche potuto elencare tutte le divinità minori con funzioni specifiche
che la assistevano: Sarritor (il sarchiatore), Messor (il mietitore), Convector
(il carrista), Conditor (il magazziniere), Insitor (il seminatore) e altri
ancora. Così la mitologia romana arcaica, almeno per quello che riguardava gli
dei, era costituita non da storie, ma piuttosto da complesse interrelazioni
reciproche tra dei e uomini e all'interno della sfera umana, dall'una parte, e
della sfera divina dall'altra. La religione originaria dei primi romani
venne modificata in periodi successivi dall'aggiunta di numerose e conflittuali
credenze e dall'assimilazione di gran parte della mitologia greca. Quel poco
che sappiamo della religione romana arcaica lo conosciamo non attraverso fonti
contemporanee, ma grazie a scrittori tardi che cercarono di salvare le antiche
tradizioni dall'abbandono in cui erano cadute, come lo studioso del I secolo
a.C. Marco Terenzio Varrone. Altri scrittori classici, come il poeta Ovidio nei
suoi Fasti, furono fortemente influenzati dai modelli ellenistici e nei loro
lavori impiegarono spesso miti greci per riempire i vuoti della tradizione
romana. Prima mitologia sulla "storia" romanaModifica In
contrasto con la scarsità di materiale narrativo arrivatoci sugli dei, i Romani
avevano una ricca fornitura di leggende quasi storiche sulla fondazione e sulle
prime fasi dello sviluppo della loro città. I primi re di Roma come Romolo e
Numa avevano una natura quasi interamente mitica ed il materiale leggendario
può estendersi fino ai racconti della prima repubblica. In aggiunta a queste
tradizioni in gran parte indigene, fin dai tempi antichi materiale tratto da
leggende eroiche greche venne inserito in questo blocco originario, facendo
diventare, ad esempio, Enea un antenato di Romolo e Remo. L'Eneide e i primi
libri di Livio sono le migliori fonti esistenti per questa mitologia
umana. Divinità romaneModifica Ulteriori informazioni Si propone di
dividere questa pagina in due, creandone un'altra intitolata Divinità romane.
Dèi greci e romaniModifica La pratica rituale romana dei sacerdoti ufficiali
distingueva nettamente due classi di dèi, gli dèi indigeni (di indigetes) e i
nuovi dèi (di novensiles). Gli dei indigeni erano gli dèi originari dello
stato romano e i loro nomi e la loro natura erano rivelati dai titoli degli
antichi sacerdoti e dalle feste fissate sul calendario; trenta dèi di questo
tipo erano onorati con feste speciali. I nuovi dèi erano divinità più
tardi i cui culti vennero introdotti nella città in periodi storici, di solito
in una data conosciuta e in risposta a una specifica crisi o a una determinata
necessità. Le divinità romane arcaiche includevano, oltre agli dèi
indigeni, un insieme di dèi cosiddetti specialisti i cui nomi venivano invocati
nel corso di diverse attività, come la mietitura. Frammenti di antichi rituali
che accompagnano tali azioni come l'aratura o la semina rivelano che in ogni
fase delle operazioni veniva invocata una divinità specifica, il cui nome
derivava sempre dal verbo che identificava l'operazione stessa. Tali divinità
possono essere raggruppate sotto la definizione generale di dei assistenti o
ausiliari, che venivano invocati a fianco delle divinità più grandi. Il culto
romano arcaico, più che essere politeista, credeva a molte essenze di tipo
divino: degli esseri invocati i fedeli non conoscevano molto più che il nome e
le funzioni e il numen di questi esseri, ossia il loro potere, si manifestava
in modi altamente specializzati. Il carattere degli dèi indigeni e le
loro feste mostrano che i Romani arcaici non solo erano membri di una comunità
agreste, ma amavano anche combattere ed erano spesso impegnati in guerre. Gli
dei rappresentavano chiaramente le necessità pratiche della vita quotidiana,
secondo le esigenze della comunità romana a cui appartenevano. I loro riti
venivano celebrati scrupolosamente con offerte ritenute adatte. Così Giano e
Vesta custodivano la porta e il focolare, i Lari proteggevano i campi e la
casa, Pale il pascolo, Saturno la semina, Cerere la crescita del grano, Pomona
i frutti, Consus e Opi la mietitura. Tavola illustrata degli Acta
Eruditorum del 1739 raffigurante divinità romane Anche Giove supremo, il
signore degli dèi, era onorato perché recasse assistenza alle fattorie e ai
vigneti. In una accezione più vasta egli era considerato, grazie all'arma del fulmine,
il direttore delle attività umane e, per mezzo del suo dominio incontrastato,
il protettore dei Romani durante le campagne militari oltre i confini della
loro comunità. Rilevanti nei tempi arcaici furono gli dei Marte e Quirino, che
venivano spesso identificati. Marte era il dio dei giovani e specialmente dei
soldati; veniva onorato a marzo e a ottobre. Gli studiosi moderni ritengono che
Quirino fosse il protettore della comunità in armi. A capo del pantheon
originario vi era la triade composta da Giove, Marte e Quirino (i cui tre
sacerdoti, o flamini, appartenevano all'ordine più elevato), insieme a Giano e
Vesta. Questi dèi nei tempi arcaici avevano una individualità molto ridotta e
le loro storie personali non conoscevano matrimoni e genealogie. Diversamente
dagli dei Greci, si riteneva che non agissero come i mortali e così non
esistono molti racconti sulle loro imprese. Questo culto arcaico era associato
a Numa Pompilio, il secondo re di Roma, che si credeva avesse avuto come
consorte e consigliera la dea romana delle fontane e del parto, Egeria, spesso
considerata una ninfa nelle fonti letterarie successive. Tuttavia, nuovi
elementi vengono aggiunti in un periodo relativamente tardo. Alla casa reale
dei Tarquini la leggenda ascrive l'introduzione della grande triade capitolina
di Giove, Giunone e Minerva, che occupò il primo posto nella religione romana.
Altre aggiunte furono il culto di Diana sull'Aventino e l'introduzione dei
libri sibillini, profezie di storia mondiale, che, secondo la leggenda, vennero
acquistate da Tarquinio alla fine del VI secolo a.C. dalla Sibilla
cumana. Divinità straniereModifica L'assorbimento degli dèi dei popoli
vicini avvenne quando lo stato romano conquistò il territorio circostante. I
Romani generalmente garantivano agli dèi locali dei territori conquistati gli
stessi onori degli dèi caratteristici dello stato romano. In molti casi le
divinità di recente acquisizione venivano formalmente invitate a trasferire la
propria dimora nei nuovi santuari di Roma. Nel 203 a.C. l'oggetto di culto
rappresentante Cibele venne trasferito da Pessinos in Frigia e accolto con le
dovute cerimonie a Roma. Inoltre, lo sviluppo della città attraeva stranieri, a
cui era consentito mantenere il culto dei propri dèi. In questo modo Mitra
giunse a Roma e la sua popolarità tra le legioni ne fece diffondere il culto
fino in Britannia. Oltre a Castore e Polluce, gli insediamenti greci in Italia,
una volta conquistati, sembra che abbiano introdotto nel pantheon romano Diana,
Minerva, Ercole, Venere e altre divinità di rango inferiore, alcune delle quali
erano divinità italiche, altre derivavano originariamente dalla cultura della
Magna Grecia. Le divinità romane importanti venivano alla fine identificate con
gli dei e le dee greche che erano più antropomorfiche e assumevano molti dei
loro attributi e miti. Principali divinità romaneModifica AnimaliModifica
Lupo Picchio Sirena Strige Dèi e deeModifica Ulteriori informazioni Questa voce
o sezione sull'argomento mitologia è ritenuta da controllare. Abbondanza: personificazione
dell'abbondanza e della prosperità nonché la custode della cornucopia Abeona:
protettrice delle partenze, dei figli che lasciano per la prima volta la casa
dei genitori o che muovono i loro primi passi. Adeona: protettrice del ritorno,
in particolare di quello dei figli verso casa dei genitori. Aequitas:
l'origine, il principio ispiratore di matrice divina, del diritto. Aeracura:
dea ctonia e della fertilità Aesculanus: divinità romana protettrice dei
mercanti e preposta alla coniazione delle monete Aio Locuzio: dio
dell'avvertimento misterioso, avvisò Roma dell'invasione dei Galli nel 390 a.C
Alemonia: dea della fertilità per cui le si dedicavano dei sacrifici per avere
figli, ma era anche responsabile della salute del bimbo nel ventre materno. Era
infatti lei che si occupava del suo nutrimento mentre viveva nel corpo della
madre, garantendo quindi altresì la salute del corpo della madre Alma: colei
che portava la vita Angerona: dea del silenzio o dei piaceri, protettrice degli
amori segreti, guaritrice dalle malattie cardiache, dal dolore e dalla
tristezza Angizia: divinità ctonia adorata dai Marsi, dai Peligni e da altri
popoli osco-umbri, associata al culto dei serpenti Anguana: una creatura legata
all'acqua, dalle caratteristiche in parte simili a quelle di una ninfa Anna
Perenna: dea che presiedeva il perpetuo rinnovarsi dell'anno Annona: un'antica
dea italica, dea dell'abbondanza e degli approvvigionamenti Antevorta: dea del
futuro, presiede alla nascita dei bambini quando sono in posizione cefalica
Attis: paredro di Cibele, il servitore autoeviratosi, che guida il carro della
dea. Aquilone: dio del vento del nord Aurora: dea dell'aurora Auster: dio del
vento del sud Averna: una dea della morte Bacco: dio della follia, delle feste,
del vino, dell'uva, dell'ebrezza e della vendemmia Barbatus: dio a cui si
rivolgevano i ragazzi non solo perchè facesse crescere copiosa la barba, ma
anche per non tagliarsi quando ci si liberava di essa con una lama piuttosto
affilata Bellona: dea che incarna la guerra Bona Dea: antica divinità laziale,
il cui nome non poteva essere pronunciato, dea della fertilità, della
guarigione, della verginità e delle donne Bonus Eventus: una delle dodici
divinità che presiedevano all'agricoltura e concetto di successo Bubona: dea
protettrice dei buoi Candelifera: dea romana della nascita Caligine: dea della
nebbiosa oscurità primordiale, generò dapprima Caos, poi, Notte, Giorno
(Emera), Erebo ed Etere Caos: dio del caos primordiale Cardea: dea della
salute, delle soglie e cardini della porta e delle maniglie, associata anche al
vento Carmenta (Carmentis): dea protettrice della gravidanza e della nascita e
patrona delle levatrici Carna: dea con il compito di proteggere gli organi
interni, in particolare dei bambini, e più in generale di assicurare il
benessere fisico all'uomo Cerere: divinità materna della terra,
dell'agricoltura, del grano, della fertilità, dei raccolti e della carestia
Cibele (Cibelis): dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici.
Clementia: dea della clemenza e della giustizia Cloacina: dea protettrice della
Cloaca Maxima, la parte più antica ed importante del sistema fognario di Roma
Concordia: spirito dell'armonia della comunità Conso: divinità del seme del
grano, dei depositi per la sua conservazione, dei granai e degli
approvvigionamenti Cupido: dio dell'amore divino, del desiderio sessuale,
dell'erotismo e della bellezza Cunina: dea della tenerezza, protettrice dei
lattanti, che veniva supplicata a lungo quando il pargolo era insonne e non faceva
dormire, o quando aveva la febbre, o male al pancino Cura: dea della vita e
dell'umanità Dea Tacita: dea degli inferi che personifica il silenzio Devera:
una delle tre divinità che insieme a Pilumnuse Intercidona proteggevano le
ostetriche e le donne in travaglio Diana: dea della Luna, delle selve, degli
animali selvatici, delle giovani fanciulle vergini e della caccia, custode
delle fonti e dei torrenti Disciplina: personificazione della disciplina
Discordia: dea della discordia, del caos e del male Dis Pater: dio del
sottosuolo Domidicus: dio che guida la casa sposa Domizio: dio che installa la
sposa Dria: dea che assicurava un buon flusso esente da dolori nelle
mestruazioni Edulica: dea spesso invocata perché alla madre non mancasse il
latte Edusa: dea che provvedeva a far provare al bambino il desiderio della
semplice acqua Egeria: dea romana delle fontane e del parto Epona: dea dei
cavalli e dei muli Ercole: dio del salvataggio Erebo: dio ancestrale
dell'oscurità, le cui nebbie circondavano il centro della Terra Esculapio: dio
della medicina Etere: dio dell'aria superiore che solo gli dei respirano
Fabulinus: dio che insegna ai bambini a parlare Falacer: dio del Cermalus
(un'altura del Palatino) Fama: personificazione della voce pubblica Fascinus: incarnazione
del divino fallo Fauno: dio dei pascoli, delle selve, delle foreste, della
natura, dei campi, dell'agricoltura, della campagna e della pastorizia Favonio:
dio del vento dell'ovest Febo o Apollo: dio del Sole, delle arti, della musica,
della profezia, della poesia, delle arti mediche, delle pestilenze e della
scienza Fecunditas: dea della fertilità Felicitas: divinità dell'abbondanza,
della ricchezza e del successo, presiedeva alla buona sorte Ferentina: dea
dell'acqua e della fertilità Feronia: una dea romana della fertilità di origine
italica, protettrice dei boschi e delle messi, celebrata dai malati e dagli
schiavi riusciti a liberarsi Febris: dea della Febbre, associata alla
guarigione dalla malaria Fides: personificazione della lealtà Flora: dea della
primavera e dei fiori Fontus o Fons: dio delle fonti Fornace: dea del forno in
cui si cuoce il pane Fortuna: dea del caso e del destino Furie:
personificazioni femminili della vendetta Furrina: dea delle acque Giano: dio
dei bivi, delle scelte, dell'inizio e della fine Giorno: dea del giorno Giove:
re degli dei, dio del fulmine e del tuono Giunone: regina degli dei, dea della
donne e del matrimonio Giustizia: personificazione della giustizia Giuturna:
dea dei corsi d'acqua dolce del Lazio Insitor: dio della protezione della
semina e degli innesti Inuus: dio del rapporto sessuale Iride: dea
dell'arcobaleno e messaggera degli dei Iuventas: dea della giovinezza
Jugatinus: dio che unisce la coppia in matrimonio Lari: spiriti protettori
degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon
andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale Laverna:
protettrice dei ladri e degli impostori Levana: dea protettrice dei neonati
riconosciuti dal padre Libero (Liber): dio italico della fecondità, del vino e
dei vizi Libertas: divinità romana della libertà Libitina: divinità arcaica
romana, incaricata di badare ai doveri ed ai riti che si tributavano ai morti e
che perciò presiedeva ai funerali Lua: dea a cui erano consacrate le armi dei
nemici sconfitti Lucina: dea del parto, salvaguardava inoltre le donne nel
lavoro Luna: personificazione della Luna Luperco: dio protettore della
fertilità Lympha: dea che influenzava l'approvvigionamento idrico Maia: dea
della fecondità e del risveglio della natura in primavera Mani: anime dei
defunti. Esse talvolta venivano identificate con le divinità dell'oltretomba
Manturna: dea che teneva la sposa a casa Marìca: divinità italica. Ninfa
dell'acqua e delle paludi, era signora degli animali e protettrice dei neonati
e della fecondità Marte: dio della guerra violenta Matres: divinità femminili
dell'abbondanza e della fertilità Mefite: dea delle acque, invocata per la
fertilità dei campi e per la fecondità femminile Mena (21°figlia di Giove): dea
della fertilità e delle mestruazioni Mors: personificazione della morte
Mercurio: messaggero degli dei, dio della velocità, dell'astuzia, delle strade,
del commercio, dei messaggi, dei viaggiatori, dei ladri, dell'eloquenza,
dell'atletica, delle trasformazioni di ogni tipo, della destrezza e della
farmacia, protettore dei messaggeri, dei ladri e dei viaggiatori Minerva: dea
dell'intelligenza, delle tattiche militari, della tessitura e delle arti
casalinghe Mitra (Mithra): dio delle legioni e dei guerrieri Muse: 9 divinità
delle arti Mutuno Tutuno: divinità matrimoniale fallica Nemesi: dea della
vendetta, dell'equilibrio e del castigo Nettuno: dio del mare, dei terremoti,
dei maremoti, delle piogge, del vento marino, delle tempeste e della siccità Notte:
dea della notte Numeria: dea italica della matematica, preposta al conto dei
mesi del parto Nundina: dea che si occupava della purificazione dei nuovi nati
Opi: dea della terra e dispensatrice dell'abbondanza agraria Orco: dio degli
Inferi Ore: dee delle ore Ossilao: dio che si doveva occupare che le ossa dei
bambini crescessero sane e robuste Palatua: dea del Palatino Pale: dio degli
allevatori e del bestiame Partula: dea del parto, che determina la durata di
ogni gravidanza Pax: dea della pace Pavenzia: dea che si occupava di proteggere
i bambini dagli spaventi improvvisi Pellonia: divinità che faceva scappare i
nemici Penati: spiriti protettori di una famiglia e della sua casa ed anche
dello Stato Pertuda: dea che consente la penetrazione sessuale Picumnus: dio
della fertilità, dell'agricoltura, del matrimonio, dei neonati e dei bambini
Pietas: dea del compimento del proprio dovere nei confronti dello Stato, delle
divinità e della famiglia Pilunno: dio protettore dei neonati nelle case contro
le malefatte di Silvano Plutone: dio della morte e degli inferi Pomona: dea dei
frutti Potina: dea che si occupava di accompagnare il bimbo nello svezzamento
Portuno: dio dei porti e delle porte Postvorta: dea del passato, presiede la
nascita dei bambini quando essi sono in posizione podalica Prema: dea che tiene
la sposa sul letto Priapo: dio della fertilità maschile Proserpina: dea dei
fiori e della primavera Providentia: personificazione divina dell'abilità di
prevedere il futuro Psiche: dea delle anime, personificazione dell'Anima
gemella, ossia l'amore umano e protettrice delle fanciulle Pudicizia: dea
romana della castità coniugale Quirino: dio delle curie e protettore delle
pacifiche attività degli uomini liberi Robigus: dio romano della ruggine del
grano Roma: dea della patria e della città di Roma Rumina: dea delle donne
allattanti Salacia: dea dell'acqua salata e custode delle profondità
dell'oceano Salus: personificazione dello stare bene, della salute e della
prosperità Sanco: dio protettore dei giuramenti Saturno: titano del tempo e
della fertilità Securitas: personificazione della sicurezza Silvano: dio dei
boschi Senectus: dio della vecchiaia Sogno: dio dei sogni Sole:
personificazione del Sole Sol Indiges: antica divinità solare Sol Invictus:
antica divinità solare Somnus: dio del sonno e padre dei sogni Soranus: dio
solare infero Speranza: dea della speranza Statano: divinità che aiutava i
bimbi ad avere forza sulle gambe e quindi a camminare speditamente Statulino:
dio che era accanto ai bambini nel muovere i primi passi perché non cadessero
donandogli la stabilità Sterculo: dio inventore della concimazione dei campi e
degli escrementi Stimula e Sentia: dee che, negli adolescenti, affinavano i
sensi ed i ragionamenti, curandone l’intelligenza ed il raziocinio, li
rendevano consapevoli e gli insegnavano da un lato l’indipendenza e dall'altro
l'onere dei loro doveri Strenia: simbolo del nuovo anno, di prosperità e buona
fortuna Subigus: dio che sottomette la sposa alla volontà del marito Summano:
dio dei tuoni e dei fenomeni atmosferici notturni Terminus: dio dei confini dei
poderi e delle pietre terminali Tellus: dea romana della Terra e protettrice
della fecondità, dei morti e contro i terremoti Tiberino: dio delle sorgenti e
del fiume Tevere Trivia: dea della magia, degli incroci, degli incantesimi,
degli spettri e protettrice degli incroci di tre strade ed era la potente
signora dell'oscurità, regnava sui demoni malvagi, sulla notte, sulla Luna, sui
fantasmi e sui morti, associata anche ai cicli lunari rappresentava la Luna
calante. Era invocata da chi praticava la magia nera e la necromanzia Uterina:
assistente alla puerpera nel momento delle doglie che aiutava a superare il
dolore delle doglie Vacuna: patrona del riposo dopo i lavori della campagna.
Divinità di ampio utilizzo, ma soprattutto riconosciuta e invocata per la
fertilità, legata alle fonti, alla caccia, e al riposo Vaticano: dio la cui
funzione era assistere i neonati nel loro primo vagito Veiove: protettore
dell'Asylum, il bosco sacro di rifugio che si trovava nella sella del
Campidoglio Venere: dea della bellezza, dell'amore e del desiderio Verità: dea
e personificazione della verità Vertumno: dio della nozione del mutamento di
stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti Vesta: dea del focolare,
della casa e del cibo Vica Pota: dea della vittoria e della conquista Victoria:
dea della vittoria e dei giochi Viduus: dio minore, deputato a separare l'anima
dal corpo dopo la morte Virginiensis: dea che scioglie la cintura della sposa
Viriplaca: dea romana che "placa la rabbia dell'uomo" Virtus:
divinità del coraggio e della forza militare, la personificazione della virtus
(virtù, valore) romana Volturno: dio del fiume Volturno e patrono del vento
caldo di sud-est Volupta: personificazione del piacere sensuale Vulcano: dio
del fuoco, della metallurgia e dei vulcani, protettore dei fabbri Festività Modifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Festività romane.
Consualia Fontinalia Fornacalia Lupercalia Nettunalia Parentalia Saturnali
Primavera sacra Floralia Località -- Averno (lat.Avernus) Campidoglio Cariddi
Lete Palatino Stige (lat.Styx) Personaggi, eroi e demoniModifica Almone - eroe
Anteo - eroe Ascanio - eroe Caca - demone Caco - demone Camene - demoni Camerte
- eroe Caronte - demone Cidone e Clizio - eroi Clauso - eroe Clelia - eroe
Curiazi - eroe Didone - personaggio Egeria - demone Enea - eroe Ercole - eroe
Eurialo e Niso - eroi Evandro - eroe Fauna - demone Fauno - demone Feziali -
eroe Flamini - personaggi Galatea - demone Lamiro e Lamo - eroi Laride e Timbro
- eroi Lavinia - personaggio Lica - eroe Luca - eroe Marica - demone Messapo -
eroe Murrano - eroe Numa Pompilio - eroe Orazi - eroi Pallante - eroe Pico -
demone Pontefice massimo - personaggio Publio Cornelio Scipione Psiche -
personaggio Ramnete - eroe Rea Silvia - personaggio Remo - eroe Reto - soldato
Romolo e Remo - eroi Salii - personaggi Salio - eroe Serrano - eroe Sibilla -
personaggio Tagete - demone Tarquito - eroe Terone - eroe Tirro - personaggio
Turno - eroe Ufente - eroe Umbrone - eroe Venulo - eroe Vestali - personaggi
Volcente - eroe PopoliModifica Aborigeni Equi Latini Marsi Messapi Rutuli
Sabini Troiani Volsci. Ferro e Monteleone, Miti romani. Il racconto, Torino,
Einaudi, 2010. Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Torino, Utet, 1999. Voci
correlateModifica Religione romana Sacerdozio (religione romana) Numen
Mitologia Mitologia etrusca Mitologia greca Dodici dei (religione romana)
Quirino (divinità). Portale Antica Roma Portale Letteratura
Portale Mitologia Ultima modifica 5 ore fa di Pulciazzo PAGINE CORRELATE
Lista di divinità lista di un progetto Wikimedia Dèi Consenti dodici dèi
principali della mitologia romana Triade arcaica Wikipedia Il Conte
Tullio Dandolo. Tullio Dandolo. Dandolo. Keywords: storia della filosofia
romana – ambasceria di Carneade – e tutto il resto! -- “Il secolo di Augusto”;
“Roma e l’impero fino a Marc’Aurelio” “Corse estive nel Golfo della Spezia”;
roma pagana “indici ragionati degli studi del conte Tullio Dandolo su Roma
pagana” -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dandolo” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Daniele: l’implicatura conversazionale numismatica
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Clemente). Filosofo italiano. Grice: “Daniele is
an interesting philosopher, if you are into numismatics, his pet topic!” Figlio
di Domenico e Vittoria De Angelis, studia a Napoli, dove frequenta gli intellettuali
della città. Entra in amicizia con vari studiosi tra cui Genovesi, Cirillo, ed
Egizio. Cura un'edizione delle opere di A. Telesio, illustre filosofo
cosentino, lavoro che gli procurò l'interesse di intellettuali di giornali
letterari dell'epoca, specialmente per l’epistola dedicatoria e la vita del
Telesio filosofo in purgato latino. Cura la pubblicazione le “Opuscoli” di Mondo,
che era stato il suo primo maestro, premettendovi una dotta prefazione di tutte
le veneri e la grazie pellegrine dell’idioma toscano, che merita gli elogi di
Zanotti. Pubblica le nuove “Orazioni” latine di Vico, ch’erano state lette da
quest’altissimo ingengno mentre filosofava sull’eloquenze e la colloquenza alla
Regia Univerista. Publicca la l’aureo romanzo de Longo – que sembra dettato
dall’amore, reso in volgare da Caro, con deliziosa e spontanea gracia, faciendo
un dono preziossimimo agli ananti della toscana favella – corredandolo di una
dotta prefazione escritta con ammirabile purita di lingua. A San Clemente cura le
proprietà della famiglia. Si dedica al studio dell’antico e agli studi della
classicità acquisendo documentazioni – collezione epigrafica -- e creando una
collezione di oggetti antichi legati al territorio di San Clemente. Pubblica una
critica ad alcuni studi sulle storia di Caserta (“Crescenzo Espersi Sacerdote
Casertano al Signor Gennaro Ignazio Simeoni, un ufficiale di artiglieria
napoletano”). Il marchese Domenico Caracciolo lo fa richiamare a Napoli dove
entra nella segreteria di Stato. Riordina la raccolta delle leggi e dei diplomi
dell'imperatore Federico II. E nominato "regio istoriografo", carica
che era stata di Vico e di Assemani. Alla carica era associato un sussidio
economico. Pubblicò Le Forche Caudine illustrate (Napoli), lavoro che gli
permise di entrare all'Accademia della Crusca. Ricoprì nella Reale Accademia di
Scienze e Belle Lettere, creata da Ferdinando IV, la carica di censore per le
memorie delle classi terza e quarta. Riceve l'incarico di sistemare la
biblioteca della Collezione Farnese, in seguito confluita nella Biblioteca di
Napoli. Divenne uno dei 15 soci dell'Accademia Ercolanese, dove cura la
pubblicazione degli studi su Ercolano e Pompei. Suo malgrado anzi fu coinvolto,
a causa della sua vicinanza con gli intellettuali vicini alla repubblica, nei
fatti che successero dopo la caduta della Repubblica partenopea. Perse tutti
gli incarichi e di conseguenza torna agli amati studi. Pubblicò un saggio di
numismatica, Monete antiche di Capua, con la descrizione delle monete capuane di
cui sei inedite. Sotto Bonaparte, riottenne le sue cariche e l'anno dopo
divenne segretario perpetuo dell’Accademia di storia e di antichità e fu
nominato direttore della Stamperia Reale. Fu anche socio dell'accademia
Cosentina, della Plautina di Napoli, e dell'Accademia Etrusca di Cortona. Altre
opere: “Antonii Thylesii Consentini Opera” (Napoli); “Crescenzo Esperti
Sacerdote Casertano al Signor Gennaro Ignazio Simeoni” (Napoli) – una lettera
sotto un falso nome in cui dimonstra la vera origine di Caserta --; “Le Forche Caudine illustrate” (Caserta) –
dove stabilisce il vero luogo ove furono piantati que’ gioghi sotto cui
passarono le vite legion romane, provando con compoisoa e ben adattata
erudizioone, chef u la Valle d’Arpaia, contro l’opinione di Cluvero, Olstenio,
e di altri eruditi di chiaro nome --; “I Regali Sepolcri del duomo di Palermo
riconosciuti et illustrate” (Napoli) – imprese anche ad illustrare le tombe de’
re di Sicilia. Rispende in questa la purita della lingua, e la ‘erudizione piu
estesa, che possa desiderarse tanto nella patria storia degli antichi tempi,,
quanto in quella del medio evo -- “Monete antiche di Capua” (Napoli) dove interpreta le antiche monete di Capua gia
pubblicate fino al numero di dodici, ne pubblica altre sei del tutto ignote
agli eruditi; e nel fine dell’opera tratta in un erudite discourse del culto di
Giove, di Diana, e di Ercole presso i Campani. Opera inedita: Ricerca storica,
diplomatica, e legalle sulla condizione feudale di Caserta; Vita e Legislazione
dell’Imperatore Federico II, “Codice Fridericiano” contenente tutta la
legislazione di Federico. Propurca l’onoro di iiverine region storiografico,
segretario perpetuo dell’accademia ercolanese e l’accademia della Crusca.– che
le merita membro della Crusca – Vita ed opuscoli di Camilo Pellegrino il
giovane; Topografia dell’antica Capua illustrate con antichi monumenti; Il
Museo Casertano. “Cronologia della famiglia Caracciolo di Francesco de Pietri”
(Napoli). Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Danilele epigrafista e l’epigrafe probabilmente sua
per la Reggia di Caserta,La collezione epigrafica del Daniele a Caserta; Una
pagina di storia dell’Anfiteatro Campano, Francesco Daniele: un itinerario
emblematico, in classica a Napoli, La famiglia Daniele e i suoi due palazzi in
San Clemente di Caserta: note genealogiche ed araldiche, descrizione degli
edifici superstiti e ipotesi e proposte per la loro corretta attribuzione”; Daniele
e lo studio del mondo antico” -- Lettere di Francesco Daniele al principe di
Torremuzza”; “Lettera di Francesco Daniele a Giovanni Paolo Schultesius”, Lettere
di Francesco Daniele al dottor Giovanni Bianchi di Rimini” Pseudonym:
‘Crescenzo Esperti’. Francesco Daniele.
Keywords: filosofia antica, roma antica, filosofia romana, l’antico in Roma
antica, l’antico, idea dell’antico, ercolano, pompei, collezione farnese,
palazzo Daniele, San Clemente, Caserta. Opera di Mondo, A. Telesio. “Regio
Istoriografo,” carica cheera state di Divo e di Assemani, Giove, Diana, Ercole,
Campania, le vinte legion legion romane, l’origine di Caserta, A. Telesio,
filosofo. Mondo, filosofo, opuscoli. Romanzo di Longo reso in volgare da Caro,
vita di Talesio, orazioni sull’eloquenza di Vico, valle d’Arpaia, gioghi, re di
Sicilia. Numismatica romana studio della monetazione romana Lingua Segui
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sinottico {{Coin image box 1 double}} La numismatica romana studia la
monetazione romana, cioè l'insieme delle monete emesse da Romae dal suo Impero
dalla prime emissioni di monete fuse, delle monete romano-campane sino alla
fine dell'Impero Romano. Articolazione della materiaModifica monetazione
romana repubblicana monetazione imperatoriale monetazione imperiale monetazione
provinciale La monetazione repubblicana comprende monete dalle prime emesse da
Roma a partire dal III secolo a.C. sino alla guerra civile che scoppia intorno
al 49 a.C. La monetazione imperatoriale comprende monete emesse nel
periodo delle guerre civili, dai vari generali in lotta in virtù dell'imperium
posseduto. Alcuni studiosi non accettano questa categoria ed includono queste
monete in quelle repubblicane. La monetazione imperiale romana comprende
monete emesse dalla nascita del principato fino alla fine dell'Impero
romano. La monetazione provinciale invece tratta di quelle monete che
sono state emesse da colonie ed alleati di Roma. Si tratta principalmente di
monete sussidiarie o di monete emesse dagli imperatori romani utilizzando tipi
che fossero meglio compresi da popolazioni di lingua greca. Spesso queste
monete sono indicate col termine di coloniali. Una volta erano anche chiamate
Greche imperiali. I punti più rilevanti nella monetazione romana sono
l'emissione del denario nel III secolo a.C., l'emissione dell'antoniniano verso
il 215 d.C. da parte di Caracallanonché lo studio del sesterzio vero e proprio
veicolo di propaganda dell'antichità. Sono anche fondamentali le riforme
monetarie di Augusto, Caracalla, Aureliano e Diocleziano. Classificazione
delle monete romane repubblicaneModifica Antonia 1; Syd. 742; Craw.
364/1b Pompeia 1; Syd. 461; Craw. 235/1a Per le monete repubblicane uno
dei riferimenti più usati è il testo di Ernest Babelon (Description historique
et chronologique des monnaies de la république romaine vulgairement appelées
monnaies consulaires) pubblicato in due volumi nel 1885-1886. Nel testo viene
utilizzata la suddivisione proposta da Eckhel: monete fuse monete
romano-campane monete anonime, senza cioè l'indicazione del magistrato
responsabile dell'emissione monete divise per gens. All'interno della gens le
monete sono catalogate in ordine cronologico. Le monete vengono quindi indicate
con l'indicazione delle gens ed un numero progressivo: ad es. Claudia 6,
Pomponia 1. La Description di Babelon è stata ristampata. Altri lavori
più moderni sono quello di Sydenham e quello di Michael H. Crawford, che
elencano le monete in ordine cronologico. Il lavoro di Crawford è il più
recente sulla monetazione repubblicana. Nell'elenco delle monete il primo
numero indica il monetario mentre il secondo numero indica la singola
moneta. Sydenham, E.A.: Coinage of the Roman Republic Crawford, M. H.:
Roman Republican Coinage. Quest'ultimo lavoro è considerato il migliore
attualmente esistente Bisogna anche citare due studi particolari:
Campana, Alberto: La monetazione degli insorti durante la guerra sociale (91-87
a.C., l'unico studio approfondito su questo tema, che riporta anche il corpus
completo e lo studio dei coni. Thurlow, B. - Vecchi I.: Italian Aes Grave and
Italian Aes Rude, Signatum, and the Aes Grave of Sicily, sulla monetazione fusa
in Italia e Sicilia. Classificazione delle monete romane imperiatorialiModifica
Non esistono pubblicazioni specifiche che classifichino le monete di questo
periodo. Si usano sia testi sulle monete repubblicane che testi sulle monete
imperiali. Alcuni dei testi sono già stati analizzati per le monete
repubblicane e sono: Babelon, E.: Monnaies de la République Romaine, che
usa la divisione per gens. Sydenham, E.A.: The Coinage of the Roman Republic,
che usa una suddivisione cronologica e si ferma grosso modo al 36 a.C. Crawford,
M. H.: Roman Republican Coinage, che arriva fino al ca. 30 a.C. Altri testi,
che riguardano anche la monetazione imperiale sono: Cohen H. Déscription
Historique..., un testo in otto volumi del 1880 che riguarda le monete
dell'Impero Romano e che il più usato per classificare le monete imperiali
R.I.C. Roman Imperial Coinage, vol. 1. (a cura di Harold Mattingly e Edward A.
Sydenham). Il primo volume di 9. A partire dal 29 a.C. Classificazione delle
monete romane imperialiModifica I testi di riferimento per la monetazione
imperiale sono i "Cohen" ed il RIC. Henry Cohen: Déscription
Historique des Monnaie frappées sous L'Empire Romain, comunemént appelées
Médailles Imperiales, un testo in otto volumi, tra il 1880 ed il 1982. Riguarda
le monete dell'Impero Romano e che il più usato per classificare le monete
imperiali. Ovviamente ormai molte delle informazioni contenute sono diventate
obsolete. Copre le monete emesse dal 49 a.C. fino al 476 d.C.Le monete sono
ordinate prima cronologicamente per Imperatore, poi per l'ordine alfabetico
della scritta al rovescio. Questo ordine, certamente poco scientifico, comunque
permette di identificare abbastanza rapidamente la moneta. È oggi disponibile
in rete. R.I.C. Roman Imperial Coinage, Nove volumi a cura di Mattingly e
Sydenham. Copre il periodo dal 29 a.C. al 395 ed è lo standard di riferimento
per le centinaia di libri e cataloghi di collezioni su questo periodo.
BibliografiaModifica GeneraliModifica Theodor Mommsen: Die Geschichte des
römische Münzwesen - Berlin 1860. Tr. fr.: Histoire de la monnaie romain. Paris
1865. (Ristampa Graz 1956. Ristampa Forni 1990) Andrew Burnett: Coinage in the
Roman World,London: Seaby, Sutherland, Roman Coins Harl: Coinage in the
Roman Economy Thomsen, Early Roman Coinage: a Study of the Chronology, 3 voll.,
Copenaghen, 1957-61. RepubblicaModifica Ernest Babelon, Description historique
et chronologique des monnaies de la République Romaine vulgairement appelées
monnaies consulaires, 2 voll., Paris, Rollin et Feuardent, 1885-86 (ristampato
da Forni). Alberto Banti, Corpus Nummorum Romanorum. Monetazione repubblicana,
9 voll., Firenze, Banti editore, 1980-82. Gian Guido Belloni, La moneta romana.
Società, politica, cultura, Firenze, NIS, 1993. Gian Guido Belloni (a cura di),
Le monete romane dell'età repubblicana. Catalogo delle raccolte numismatiche,
Milano, Comune di Milano, 1960. Michael H. Crawford, Roman Republican Coinage,
2 voll., London, Cambridge University press, 1974. Michael H. Crawford, Roman
Republican Coin Hoards, London, Royal Numismatic Society, 1969. E. A. Sydenham,
The Coinage of the Roman Republic, New York 1952 (ristampato da Durst, 1995).
ImperoModifica Alberto Banti, I grandi bronzi imperiali, 9 voll., Firenze,
Banti editore, 1983-87. Henry Cohen, Description des Monnaies frappées sous
l'Empire Romain, II ed. Paris, 1880-92 ed. digitale H. Mattingly - E.A.
Sydenham (et al.), Roman Imperial Coinage, Londra, 1936-84 Eupremio Montenegro,
Monete imperiali romane, Con valutazione e grado di rarità, Torino, Montenegro
edizioni numismatiche, 1988. Herbert Allen Seaby, Roman Silver Coins, Second
edition, 4 voll., London, B.A. Seaby, 1967-71. David R. Sear, Roman Coins and
their Values, Millennium edition, 3 voll., London, Spinx, Monetazione romana
Monetazione romana Monetazione fusa Monetazione romano-campana Monetazione
romana repubblicana Monetazione imperatoriale Monetazione imperiale Monetazione
provinciale Monetazione bizantina Monetazione italiana antica Collegamenti
esterniModifica Sito con le immagini delle monete repubblicane ed imperiali, su
wildwinds.com. Introduction to Roman Coins by The Museum of Antiquities on the
University of Saskatchewan, su usask.ca. Risorse numismatiche on line.
Università di Bologna, su numismatica.unibo.it. URL consultato il 14 aprile
2006 (archiviato dall' url originale il 7 maggio 2006). Rassegna degli
Strumenti Informatici per lo Studio dell'Antichità Classica: Fonti
numismatiche, su rassegna.unibo.it. Portale Antica Roma
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Numismatica studio della moneta e della sua storia Monetazione romana
repubblicana monetazione di Roma repubblicana Roman Imperial Coinage
catalogo britannico delle monete romane di età imperiale Wikipedia Il Daniele.
Keywords: implicatura numismatica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Daniele” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Dati: l’implicatura conversazionale dell’ELEGANTIOLÆ
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo italiano. Grice: “Dati is a good
one if you are into Ciceronian rhetoric as given a running commentary by an
unknown philosopher from Siena! – But mind, he also wrote, like Shropshire, on
the immortality of the soul!” Noto per il suo manuale di grammatica
Elegantiolae. Erasmo lo loda come uno dei maestri italiani di eloquenza. Nato
da una agiata famiglia senese, passò la maggior parte della sua vita a Siena. Studia
con Filelfo. Dopo aver insegnato per qualche tempo a Urbino, torna in patria e
insegna retorica. E nominato segretario di Siena. Altre opere: Elegantiolae. L'Isagogicus
libellus pro conficiendis epistolis et orationibus fu stampato per la prima
volta a Ferrara da Andrea Belfortis. Elegantiae minores; “Opusculum in
elegantiarum precepta cum Jodoci Clicthovei Neoportunensis et Jodoci Badii
Ascensii commentariis; “Ascensii in epistolarum compositionem compendium”;
“Sulpitii de epistolis componendis opusculum”; “Tabule in Augustino Datto
contentorum index”; “Francisci Nigri elegantie regularum elucidatio”;
“Magistratum Romanorum nominum declaratio”; “Ortographie regularum Ascensiana
traditio. De grecis dictionibus apex ex Tortellio depromptus.” “Augustini
Datii Senensis opera (Siena) – include diciassetteopusculi: I piu importanti
sono: “Oratium libri septem”, “Fragmenta senensium historiarium libris tribus;
“Isagogicus libellus pro conficiendis epistolis et orationibus” ristampato
“Elegantiarum libellus”. Le Elegantiolae, ristampato ocon cari titoli, era
considerato "il manuale par excellence". Sirve da base per i “Rudimenta
grammatices” di Perotti. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, “Plumbinensis Historia”, Firenze, Sismel Edizioni
del Galluzzo. Vedi Bandiera, “De laudibus eloquentiae”. BOpSTr
. JULLgi I & o=w zxt ri (yauM^ -zn j r
J * cm (jflV<3 VSTINI DttTI Senensis Ifagogi?
cus libellus in ELOQUENTIAE PRECEPTA ab JPvnbrea b«= mini ctyriftof eri
filium f eliciter incipit/ 8 Rebimu giam bufeumaplcnfcKviiris i
* etiam bifertiflimis perfuafiitum be- v ' ,. .,.. t v tvr, mum
artem quepiam in bicebo non . ^*«,'<$•/ J nuliam abipifcu y fi veteru
fectatu vef 6 tigia/optia fibi quifcp feper ab imita bum
propofueriFTNecj^ eni qui biutius I.M» CICERONE lectione veriatus fit,n5 m
bicebo/et ornatus et copiosus esse poterit. Na et fjorribiora cre= i
,•.»>>- brius cofectati l ipfi qucqp anbi ieiuni et inculti
fi ant neceffe eft. 4j Lectitati igitur micfyi CICERONE volumina Cque ELOQUENTE
parentem appellaueri) - j pauca anotatioe bigna vifa fut. iquibus fi
vtemur 41 vulctanufermoneaipernati/ab eloquetiamrroxi i s i mius.accebemus/
v PRECEPTVM I varietati/comutati onio vt ftubeamus/ t d
Seb cu ib i primis quirc| abmouebus fiti quob rfyetor ille biligetittimus
et inlignis abmobu orator sabius Quitilianus be oronis partibus bicere cofueuit.J
Meq; eni leges fut oratoru / quaba velu- . tiiniu.atihj Kceflitdtecoltitute;
ncc roaaiignibus < L -v* GI-NEVIEVM; vt i&cm bicebat)plebifl ve
fcitis.Tancta [vt ifta PRECEPTA. feb vti in ftatuis picturis pozmatibus
ccte= rif^ita quocgin exornaba viri eloquentis oratione plurimum
feper roboris ac vcnuftatis r;abuit varietas . &tc$Cquob bici ibfet)
tenenbu cauenbucj illub est antc omni ainears vlla bicebi u fieri poteft
fTe vibeatur. Hec igitur lex prima fit comutafionis varietatiTaj/qua erubitoru
aures nobiffi cile iubicet. ilHoc iajtar iacto fubaireto /per pauca
beitfps fcritan C 7>vnorea amicc fuauilhme qae et fi ron femper^ vt
plurimi m tamen l; is rationitus titi feruar.ba erunt t fcb iam nofiri
ialti' tuti ita nafcetur exorbium. (JBecunbum preceptum be fitu
fuppofiti/ verbi etappctti i oratione; ^Jplcrua; enim qui
oratorie artis fforibussc faleratis. Vtaiu Ove ibis ftufccntkotratnu
vulgataci gramaticorum confuetubinem bamna= tcsi quob in calce abiolute
orationis locari cofue uitiib illi potms coaptantinicioi quob oir.ne
tibi exemplo erit manifeftms. £cis plena orationer a conltaretribus
partitus. qucb SUPPOSITVMCvteorum ipforum vocabulis vtar)quob verbu/ quob APPOSITVM
vocant. Diciit igitur nramatici {SCIPIONE afiicanus telcu A l.aitf; £gin«ri,
ciwticrie vcro L r h
1 r * l eloquii bemines couerfo potius vtuntur
orbine. Al-*— a liarttjacune lcipio africanus &eleuft.illi.'M/r.Ci
&*—cero vtitur famuiariter. p4cntulo.no8 vero.'p«le^ ^ **f'**T tulo.
CICERONE farmliarir vtitur. Quib? tf^'J*t-r me exeplis patere arbitror
appofitum prirnu 1 owr^V^ * > tione/fuppofitu mebiul nouiflmuiverolocu
ver^^ bu tenere.([Seb et u quib Cpro graraaticor5 «•*. A; re)poft
appofitu fitum eriti ib iitio oratioms poi^J^ L-Scncr^^.
ras. Ligurgus conbibit fancttflimas legcs lacebc* *~i
awu^yfc. monis. Lacebemonis fanctillimasIecreB ligursr..^*- <*, e
~3 aus conbibit.mulfag; cofimili ratione* ~pao„tfi^c , i !*.l.*-«*«_i k igitur pieruncj
principioappomturi hppoiitutnf^/ mebiojline vei bum.vtanopagu folon.
fclammuBf™ primu coftituit vbi granwtici bicut j fol5 primus,
coltituitanopasum. {[Ceterum biueriis orttmcv feus i et iocis tollocabe
fut partes pro aunum iu*r7 " a ^ fW do j quob quibem folo vfu
coparatur ^ a*A PERCEPTUM III be
abuerbioru fitu |*r^ lam vero be abuerbiisC que funt veluti abiecjjftc verb?rum)5id
poteft pauW vbi uia lpci A effeivfei bemu aptius congruere vifa
tuerint«mos bo in principioJmobo in finelmobo intenecta m< ter
vti ucg.qua in re biligeti vtenbuin est conhho Seb prope verfcum frequetius
per venuftam rebbunt oratione. vt fabius maximus ante alios fortiter atcj
animofe pugnauit.C.lehus fcipioe fami hanfume vtebatur. Qementiflimus
ceiar l?umiti= teHcjngfcebat. Nunc vero ab rehqua . {jQuartu
preceptum be prepofitionu/et integrarum pferumaj
orationuiteriectioet inter NOMEN SUBSTANTIVVM et abiectiuum; PROPOSITIONES
pcrpulcf;rc intcr fobftafiua at q abiectiua nomina interiiciutur.vt
feraci in agro ornatiflimo in loco.maximas ab res.fyanc ob cau*
fam. iuftis be caufis . aliacji l;uiufmobi complura* Ncc
prcpofitionea folum (kb alia pretcrea eiufc» mobi nuncfumemus eyempla. Maxima
i rep. bi* ligentia. magna in parentes pietas increbibilis m omnes
ciues obferuantw.fummain l;oftes hbera PRECEPTVM V be fmedecticne
genis fiuora iter buos nominatiuos/et ecotra. 7Ktq etiarn
pulcf;crriinu i iter buos cafus / puta nominatiuo e buos/ahquib cotmue pomtur.
Vt om »ia reip.iura coftates miljtum ammi.macma fces < i»
f m leratorum fyominum flagitiaf Bcouerfo etia cofti
tuta ac trafpolita oratio piurimu exornah Vtl?u ius daritubo
viri.fyuius qmrites auctoritate locif Ci VI PRECEPTU beabiectiuorufituf Venufte
etiam pieruqj precebit abiectiuum nome fubft4tiuum. Vt tua bigmtas«optimavirtus»biui
»u igemuin.exquifitaboctrina*Magni ehirefert/ quo ioco quecg
bictio iita fit. quob teftatur Boeti - us in iis comontariis l quos
in ariftotelis librum cofcripfit.vbi et CICERONE et VIRGILIO ponit
exepla BOEZIO autem ipfius fyec verba fut ♦ Sfenim c£tum ab
copositionem orationis fpectaf/ maximum bif- f ert l quo VERBA ET
NOMINA predicationis sue ordine proferantur. Multum enim itereft in eo quob f*
A * ait CICERONE^bb9ncteamctiamnaturapeperit-'volutas
exercuit/fortuna fcruauit ♦' ita bixiffe vt biz J ; ctum eft/an lta
ab Ijanc te amentjam peperit naf u +4 £ j ^
raiexercuitvoluntasiieruauitfortuna* jSicei'im>>' 4 * »
minor elt fetentie magnitubo. minuf^ in ealucet _^.^ v ib
quob fi fic coponatur emmet i et fefe vel nolentib«s i^ominum aunbus/aifqj
patefacit « Rurius quoqi bicit Virgduis pactqj iponere
moremipo^ iuilfet feruaffe metrum li ita bixifiet l moreq? imponere
paciifeb elt bebilior fonus* nec eo lctu ver fus ta preclare vt uhc
compojitue oiceretur* quod ibera non eft apub byalcticos . ljcc BOEZIO .
Nuc aorciiqua; <J Septimu preceptu bc fitu ncgatiue
bictionisf Negatiua bictioapte i calceoratioms ponitur» Vt
preitanticrem te vibi nemi :em. Scipicne clario= re m
bellicis laubibus iuenies nemincm.Tua er= ga me BENEVOLENTIA tuo in
me aimo gratius e ni= cbil.gui tearoenti js amet.' fyabes
nemine* (jfpctauu preceptu be pouellcns ante pof=
fefnonem fitu/ S8D et polleffor ate poifeffione. Vt opti viri
bi* uitie. preftantis viri virtus.prubetifumi fyominis
confilium; dHonu prcceptu bc vlu gerunbiuorum
nominu pro gerunbus; CXVIQ vero pull?i-ms.'§ £i pro gerunbiis
que appellant vtamur gerubiuis nominibus. 7Kc trjs tu e
prifciani exempiu . Veni ca amabi virtutem/ vcni amabe virtutis caufa.gra
gerebi bella t geren= borum bellorum gratia.ab amplexaba virtute ma
gis.qi ab amplexabum virtute. Que vna preceps tio optima eft.crebraq?
cius apub.M.T.aLolqj c* loquetes viros tuit cbleruatio; {fPecimu
preceptu be congruentia nominis relatiui $kruq, cum confequete/ . Nunc aatem
mu!ta confkiam. quc li biligeter ab uertensmb pavu ornatus ktino
cobucent elo= quio.Seb ib micfci imprjmis aniabuertenbu vibe
tur,'vtquom tna luerint^antccebesJ cofeques/ et eorum mebiu
relatiuu nomeifr fitib confequens/ vel l?ominis / vel rci cuiulpiam
propriu nome.' re LATINV cofequeti femper cogruat.ftlioquin no la*
tina oratio f it ( fcb a boctiUimorum fyominu consuetubine longe ahena ,
frhas poteft cum aiterutro conuenire fi ncn con cquatur propi ium
ncmen. Qua rem facile exempla beclaratiet prifcoru auctoritafes coplures.
CICERONE primo TVSCVLANARV quefhonum.btubio fapietie que pl ia bicitur. Et
fexto be rep. contilia - cetuigj fycmmu mre fcciati; que
dujtates appellantur. Mq lteru i cx illis lem= piternis ignibus/
que vcsfytera etfteliasnucus ett.s.Saluftii quoq; llluo tritum cft,
Eftiocus in carcere quob tullianu appellatur/inuncrabilia h
netufiis cobicibus ib genus iucnias.Hcc ib e ara= maticeartis
vitiumiquobquibam Ljnari littcraru arbitrantur.Seb et nos ahquio
exemplorum af fe ramus predarum est CICERONE opus(qui cato ma
ior bicitur.nam quob CATONE MAGGIORE bicitur /non ia= tinc
profertur.Confiiniliter vrbis vifcenbus con ilcr.bu eft i qui iut
ciucs. pcrbiti vin cx vrbibus pellenbi funt /que eft ciuitatum pernities fentina
Sebecoris. Plerunq* igitur relatiuum nomen cura eo concors eft quob
fequitur/ CjVnbccimu preceptum be cogruentia in cafu ex
trib^/eoru buoru que proximius iugutur^ Illub quoqj fpectabum efttNam cum
tria exiftant qaorum vnum relatiuum lit nome;frequetihime coram buo
in eiufbem cafus exitu conuemut/ na vt exempli caula bicam aliquib Si
quis l?unc fer monem protulerit l liber in quo be virtutc agitur
preclarus eft .'rectius atqj ornatiusbicitur;in quo hbro be virtute
agitur/predarus eft. Concorfcant nantj eobem cafu ex tnbus buo llla que
maion vi cinitatc iuncta funti ahub lterum exemplum ^u^ iulcemobi
fit* Qaias mifif*i htteras ab mc locubc f jerunt. Sermoce queaubifas no
eftmeust Qua exiftirras bemoftI;eIs orationem /cfcJ^ms elt. atq
Ijuius fermonis crebru muenii e potens apub ve- tercs vfum.M.T.officioru
pricnoi quorum au* tcm offinorum precepta trabutur / ea quancy p«
tincant ab finem bonoriu Virgihus Maro m ene ibc/ vrbcm quam ftatuo
veftra eluTerentius in i bna/poltl^ac quas faciet be integro comebi.s
fpec tanbc an exigenbe funt vobis prius.Ibem.popu* lo vt placcrcnt
quag f ecilfet fabulas* Ibem, quaa t r * * creois
cffc \)islno funt vere nuptie. $tcj eiufrao bi fermo plurimum
exornat; (JDuobcc.mu preieplum t e auxefi potxti* ucrum cum
per; 3D c.ucxj oigmlfimu cft annotatu. vt quom pofi=
tiud€<auger^ velimus normnaivtnsper prepofi f um aecebdt.Gcero m
cpjftola ab cunonemkui z cai us eque fisiet teriocunbus . Ibcm be
oratore p r;m o.perboati quite frater ilhviben folet.Tere. in
eunucr;o. perpulc^ra irebo bona fyaub nof tns fi miha.nam pergratum
vaibegratum fignifrcatM in cratione Jepibe p crfonat;
(jTrebecimu PRECEPTVM XIII be fuperJatmis cum multo/longe/et
§; PST fupcrlatiuis /inulto/ioge/et qj abuerbia pre ponimus ibqj
fepenumero pei pulcl;ru viberi fo^ let. Vt longe amatilfnnus veftri.mulfo
ommu foituanllmus-St acjo tibi q-maxias gratias (JJDerimumquai tum
preceptum be com* parati uis cum multo / aut longc . GOMPAratmis
vero vel multo vel fonge p poni Jblet. Vt mfticia multo predarior eft
ceteris vir tutibus.8t Socrates
loge aliis pfyis fapientioi } (jDecimuquitu preceptu be quibufba
noibus quc agrecis prpfecta/bccfinatiorie mutant, ({ILLVD nequacp
omifc;'imus,'q> quom nomina quepiam funt profccta a grecis tertie
fiex.onis d obiiquos cafus fjabentia qui rectum bperanttf» tini
oratores rrequentifume calibus ac.uf tiuis il= lorum quibufbam immutatis
fmgunt ahamm be dinationum nomina et genus feruant . qualiafut poematum
EMTYMEMANTVM o ELIPSIIM elegantus ctlampaba^aue a plerifg?tertia flettione
pro ferutur poema ENTYMEMA /beipbin/ ELIPSIS as la- pas . fyanc tu
obleruationem biligenter manba memorie/ (TDecimu fextu preceptu
vteleganferoftebemus quippam nobis eife/iocubu/ vtilc/ vell) Onestus
et ettevaibgenus; JXuo aut volumus oftebere nobis aliquiD
jocti bu/^oneftum/vtile eftei batiuis cil verbo vtimur fum/es/elt
fubltatiuoru/ quoru illa abiectiua fut Mi(ne ab exeplis bilceba^quib
aiiub iignif icat l?«e res raicfy locunbitati eft JcJ bec res eft micfy
iocu- bVlbemc$ l lpfe micfyitue littete fuerut gaubio* quob elt ab
gaubium vel gau&iu micfyi attulerut. Predara vrbis
ebificiaciuibusbecorifunt. Vitia bsbecon ful viris Jibeft bebecus pariut
viris beq ceteris colimriiratione; ([Decimufeptun preceptu be
af ricio et af Fiaor» <l k. m «#"»
Vevbum aftido Jet pulcfyru eft/et late patet.nam afficio te voluptate
ibciit tibi voluptate affero. M i icio te fyonore lbeft facio tibi Ijonoi
em et te fycno ro.aff <cio te laubibus l&efi tc laubo. affkio te
pro bro lbelt vitupero te . afficio te comobis lbeit tibi ccnioba
facio.afficio cabauera fepuftura lbcft caba uera icpelio.T^if icio
inimicos miuria tbeft facio i iunam mimicis, 7\tq fimihter affiaor bolore
lbe boleo.af ficior gaubio ibeft gaubeo. aificior vere? cubia ibelt
verecunbor. Latiilimacj eftlmius ver= bi vlurpatio.Nec tum lateat tc/af f
icerc bifponere ficjmficare.Hinc eft plauti iflub/ viua vos magis
arficit.Neq} cnim fme optimis caufis ta l&ta / tao; bilfula fit eius
verbi SIGNIFICATIO feb be i?oc latis; Cj PRECEPTVM be tum vel
et «jeminatis . (jxviii > Non eit aute ignoranbu cp i\ ouo/ aut
plura buo* tus Cquob perraro vfu velt)paritcr fe l;abuennt.'
vtri<$ tum bictiomm prepcnemus.Qoicb Iiqueat exemplo.Par eftin.C.
lelioboctrina/ ac virtus. qitacj dt eius viri pvobitasitata quoc| ett
eius fci= entia, tunc lf lenbibe / ac rccte bixcrim . C. lcfius vir
tum boitus e/t/ tum probus •Itibemcji magna ineit.M.C.ieiiotum virtus/
tum etiam boctrina C« ivltus p..uMnu tu iaute/tu reru icietia valet
OTub iterum exemplum» tfyemiftocks tum con- filio polletin vrbams
rebus/tui beliicss negociis viribus atcg animi magnitubine f ioret . Stc
eni ta* tum oftebit in rebus vrbatiis effe cofiiium cjtj in
beilicis magoif ubinem animi <$ tum geminatum pofitu eft*Seb eanbem
quoqj vim fyabet .jeminata et coiuctiua Virgiliusi eneibe.MuItum xlle et
ter tis iactatus et alto. ibe profecto fignat.'eneas t tum pelagi
/tum terrarum labores perpeffus eft.7?vfri canus fuit figularis et vir et
imper.ator l lbem Qy> vult« africanus magnus extitit tum vir
tuntfmpe i-ator ; (J Preceptu be cu et tu ♦ (Jxix* Qi fi buo contra
nequaty paria futi (eb aheru mi= bus complechtur /alteru vero magisiita
etficiens bum eft* vt quob leuius exiftit locemue pnus/at= cj ei
cum bictione preponamus.quob aute graui- us valibmf$.'ib pofterius
politum/ tu bictio pre= cebat.Qoiob patefaciemus exemplis Gielius
a- mat SCIPIONE propterea <$ eu boctum cognouit fyominem/et
fempzr virum optimum/ quob poItremu vefyemSter ab amorem impellit. quare
ita oratio eft inftituenba« G. lelius amat lcipionem tu ob boctrina
eius tu propter virtute. ita virtus in fyac bemuoletia pius mometi
fyabet. JPvtqj ibem lta ubixerim.Gu oes. fortunati funj qui bene.
viuwt» -I tum perbeati qui omnia befetfit / et virtute
iblaui coplectuntur, Ijos na<$ pofteriores multo beatio= res
elfe conltat.Si quis fuperius mo aliatam pre* ccptiorem
intellexerit.l;ec. M. Ciccro lmpnmis i requeter vfurpat.£x quo iiiub.'cum
cmnibus co fulenbum eft/tum lllis qui armis politis ab lmpe ratoris
fibem conf ugiunt. SIGNIFICAT enim fumc- tibus ab lmperatores/et lefe
bebetibus multo ma= gis confulenbum elle.$ttc| m catone maiorc nura
ti fele aicbat Iceuola. CATONE MAGGIORE cum ceteraru re= rum perfectam
fapientiam/tum q> nug> fuerit jlli feneaus gra uis . kb be f,flc re
faiia/ (JVtquapia laubari aut vituperari oporteat, xx lam vcro
explicanbum clt qua ratione quapiam perfonam/ autlaubari/ aut vituperan
oporteati quob ab bccorem iermoms pertineat .riam it trj= f anam
polfe f icri coperimus ex monumehs litte-'- rarum.li cnim velim
oftenbere.M.catonem fjabe remagnamvirtutemicum verbofum/es/elti ita
comobiflime f iet,Marcus cato vir eft magna virtu te, M.cato vir eft
magne virtutis.M.cato vir cft magnua virtute»popuio pfyilofoptus fuit
preftas igemo/vel preftatis igemi.'vel preftanti ingenio. mulier
eclara morib^/claroru moru. 1 claris mori b^wregregiojaiibc
egregie, iaufys egrcgia laube Se* iliub prius magig poetaru eft. poftremu
ve~ ro fplenbibiffimum et perpolitum,ffiriltoteUs clt fcietie copia
pbiio Coplug^exquifita boctrinai vir a ctrimo isenio ! Quob qu.beCvt
bifertfcus pri fcianus inquit )hcjmficatariftotele fcbentem fa-
cntie copiam* ac qui l?abeat esqaifitam ooctrmam cetcra cj confimiii
ratione. Cluob quibcm ttulus qelius confcntirc vibetur in noc, ac, bft
erura vjf fut befectio quebam ifeb ca ttifa / vforpat** ab elo
quentiffimis viris/ac darilhmis oratonbui. qut et vobis quocg vtenbum fit
; fTDc accufatiuis etablatmis participioru locum tenentibus infimtim
verbi. <[xxi. flT& VI participioru cum accufatim calus ie«
pe tum ablatiuilocum tenet mfmitiui verbi. J?wt feluftianum illub , nam
et priufc* iopias colulfo* tt vbi coolulueris mature facto opus elt.bt
tere» tianu Mius gliceriumalioqueflamicam pamptjui lam iam inquit
muentum tibi curabo 1 ec abOujs* tumtoumpamlpilum.Omnian5c|iUay colulto/;
facto inventuiabbuctu cofulcreyfactre/ luemre/ aooucere befignat.
veru frequeter l?is ratiombus abltluoru cafibus vtutur l accuktiorum
perraro? 4jDe ijoc nomie opus cu variis cafibus. .xxiiv
%quomam*eMa»ne quo>eft©ou8 •«»»«**, i •
v metione iiteHigen&um elt / opus eft micfyi ^ac
re i fignif icare me egere Ijac re.feb ib variis caubus m cu folet
Nam etiam opus cft micfy tua opera/no- minabi cafu«'et tue opere/et tuam
operam/ et tua operaJeb ljoc poftrcmu ornatius eft 'z totum ora
torium.Cetens rationbus poete pctius / fyyftcris •grap^icj vtuntur ,tloa
autem queca precip imus vt cocrncfcamus a veteribus vfurpata eifoecg
vta* mur.quecam veroM cognofcamus lolum.i^am rpus eft miclpi l;anc
rcm/ nun§ oraior oicit i feb fcacre? (Jpe comutafione
abitctiui tt fubftantiuj' in vqcc geuere et calu. ijxxiiii*
O uib illub.^ncne puldjerrirr.u cTt .' vt quom fcuo ncrowa alterum
abiectiuum /alterii lubftatiuu co bem cafus cxitu proferri cebenf)vtfrpe
crcberri* mccfCquocarno tertia abiecfiui nominis voce que cli
neutra i vim iubitaf j'ui trafferamus/et fubftan tiuu iliub prius cafu
collccemus geitiuo.quob vt Irequts e ciubitis atqs bifertis vir;s. ita
quog erit excmplo manileitiuB. Mam quom muitam vir lu tem bicturus
fum i li «nultcm virtufis loco eius 9 taiionis pofuero / multo protukrim
vcouftius» «Multu pecunie eni fignificatmulta pccunia.pl u* mmi
&nm t f limmas vra»quife anmi tltt qiiis aimus.quib rei.'que
res*quib caufe.' que cau fa.ftlia quocp lta permulta. Seb
amabuertenbum efl/q, fi genitiuus ille cafus fingularis
fuerit.'toti itera orationem fiogulariter exponere bebemus, Bi
pluralisipmraliter. Naqi (exempli caufa)mul tu pecunie ibcft multa
pecunia / fingulari numero atconfcramultum pecuniarum figmfieat
multas pecuuias. Similis <* eft ct aliorum ratio. vt muls tum
roboris/fingularem^plurimum virium/plu rale quocj fabet fignif ication€.
Et abverbia quoc$ nonnulla eanbem vim retinenfc ♦ prefertim vero
buo l?ec/parum et fatis.Nam paru fepientie lbeft parua fapiifia.fatis
virium ibett fufficietes vires, 8t nifyil quog fiue nomen/ fiue abuerbium
ht . m canbem fepe obferuantiam eabit, Hec igitur ^ac^ Vt
gemioanbum eft epitl?eton fequentibus. substtantivis aut econtra» <£ Quonia
aute figula fyc fere iueftigamusiib quo* a oignum cognitione ctti vt cum
buo meminen= nius nomina fubftantiua/ quorum vtrio; ibem e*
pitfyeton abicienbum efU vt abiectiuum ipfum pri cipiocollocemus<et
fequentibue fubftantiuis / vel
tumgeminatum/velbuplicatum^tpreponamus Bxempli vero caufa ef i
erantur» CICERONE verba. $fricanus figularis *t vir ct
imperatori quob eft afrixanus ficujlaris vir z figularis iperafor
♦.ppter magoa el boctoris auctoritatem/et vrbis/ eft pro pter
magnam auctorif ate ooctoris et propf er ma= gna auctontafena vrbis^predarus/etrailesyet
ci= uis iliuftns/tu vir/tu pfyus optimus/tum pafrie foefefor/tum
gubernatcr/iuftus/etrex/ etiubex» Coniumliacj eobcnmobo fe fyabeot. Seb
et fepe= numcro contra co&em orbine vni fubftatiuo pre ; pcfito
buo aoiectiua/aut plura beferuiunt.8xcm= pia funt que nunc conftituam.
Vir tum bonus fu temperatus.imperator et callibus etfortis, iubex
etiteger et foflers. owamefa ciuifafis tum mulfa tum predara. alia fu
ipfe coniecta. Non nungj» ef buo lubftitiua ita fe r^bent vt alterum vim
fuam vbi$feruef actueaf ur/ alferum quafi qugbam ofc tineat
abiectiui nommis iocu/ ef eiusfugafur of= ficio.&uale eft illub VIRGILIANOprimo
eney, mo lemqi et montes infuper altos impofuit. ac fi bicat molem
montuoiam impofuit. Cauenbum eftne ab fyoneftate naturacj oilcebamus.' ac
ii bixerit ca uenbum ne a naturali Ijoneftate bifcebamus. Scb
tibi f)ec fatig finf/ (jpe extremis fupinis/pro gerubiis
accyfafjui eafus, xxv. -.^- iSzb m qotfi i;iftonam texens biceborum
fenem nectami lta quecg patefecerim vtlefemicfy forte quabam
obtulennt. Ceterum no ignoranbum effe vibetur ,vt ipfc arbitror>xtrema
fupina pleruncj ornate/ac peruenuite fignif icare gerunbia accufa*
tiui cafus ao bictione prepofita, Vt res biii icilis crebitu ibeft ab
crebenbum. miferabilis vifuibeft ab vibenbum . iocunba aubitu ibeft ab
aubienbum fuauis guftu ibeft ab guftanbum .permulta fimili/ ac pari
ratione fe fyabent/ {£ De exafperatione orationis permutationem
fuperlatiui cum abiectione abuerbii fuperiafcjui ab mobum / vel in
primis» (fNec ib te amice lateatM quomfuerit fuperlas tiuum
quobpiamburius/afperiufcj et fuperiatiue fignificanbum fit l vt pro
fuperlatiuo poutiuum afferamus.' et ei aptum abuerbiuro
fuperlatiuum apponamus.Nam maxime memorabiie hciausi eft
memorabiliffimufacinus» Maxime rarum ge- nus fyoimieft ranflimu genus
fyominum» Seb ab mobum/et in primis / poiitiuis abiucta vi fermc
eabem retinet. Vt abmobu memorabile facinusi vel inprimis rarum genus
^ominum i ^Txxvii . vt quepiam mebiocritet «ut vetyementcr ia
ubabimus/ I Jb aute nequaqj filetio preterierim. Vt fi que qui
virtutcro fyabeat v lim mebiocriter faubare i bica (exempli caufe)
perides virtute preftas princeps erat atfyenisfvelmulta predara gelferat.
Trjcmisftocles rebus geftisfloruit. Sin velim vefycmenttr ac plurimu
iaubare abiiuam gloria fiue faubem^z caufam laubatiois calu genitiuo
coftituta Perides (Vtibem exemplu aga)virtutis gloria preftans a=
tfyenis daruit.'tl)emiftodes geftarum rerum laube emicuit. £ict{. M
.antoniuS preffabat ELOQUENTIA mebiocriter huoatur ac fere exditer. L .
Craflus efoquetijgforia excelluit ve^emetiffime laubatur Seb tu pro
tui ingenii bcnitate oebucitof (C Luotiens SINGULARIS ET PLURALIS numes
rus connedutur* viciniori relpobebu i ibecj Ht jn oiueriis
generibus; QuotiesCquob ipfe quot| teftatur gramaticus fer
uius")Ggularis etpfuralis numerus ccnnectutur/ refponbemus
viciniori. Virgi.primo cnei,'r;ic il lius arma V>ic currus fuit.no
aute fuerut.Teren. in anbria J amatiu ire amoris reintegratio
e.xeno= pfyotis belitie mee fut.fyoftes eorucj exercitus pro
perabit.atcg ita frequlius obferuat*.ibe f it I biuer fis gencribj.na
fiue niafculinu"/ fiuc f eininu e. vici no refpoDgmus. vt vir atcy
mlier optia ab me venit Intelligitur naq? optimu effe viru et
optima mut here que vemnt. Verum fi plurali numero ve.'i= mus
vtiteb mafculinu trifire nece fe eft. vt vit et mulier leti
properant.T^vlexaber et olipias clari es Ittterunt?
^TxxixToperepretium eft. Opereptetiu eftCquob peruenuftum
eJft)ficmif icat mo vtile efteimobo neceflanuimo locubu i
mobo laubabile.i^tq* is SIGNIFICATIONIBVS NOMINIS veteres
vlurpant/ {J»xx.v.frui. Frui quapiam reieft fructu/ fme
vtilitate veJ vc^ luptatem percipere ex ea. vt cum bixerit quis
ocio fruor, pre fe f erre. JPre f e f erre ahquib eft verbis
*ut ibiciif quibufba ib oftenbere/et quobamobo confiteri/vt. M.
cato pre fe f art gramatica.lelius pre le f ert hberalitate fyz
vuit oftenbere <$ i f fe fit iiberalis; Rat.one fyabere.
tiaticncm babere eft refpectu fyabere. feb(vt planius xpona)fyabere rationem
alicuius rei eft rem conliberare. vt fyabeo ratione temporum loci
per fonaru eftea ratione oia coplecti / et conhberve/ {JjTxxiii
.Complector anuno» t Hanc r em animo mcnteej complectcr
l ibeft tflat rem conhbero et voluof n animo eff . In
animo eft / SIGNIFICAT IN ANIMO IjabeQ.a aimus mictyeft/ibeftvolojj
. CeKtum micfyi efti Certum eltmicf)i libelt beliberat»m ct
oecrefum/ v«I bejjberaui et becreui. Profequor? Profequor te
fyonore ioeft te fconero» Profequbr te laube ibeft te laubo • profequor
te probro ibeff vifupero f e.profequor te amore ifceff amo te/ Benemereri;
Eenemerltus [um be rep, ibeft beneficium i illam
confuli.benemereribearoicifl/eft cpnferrein arai cos beneficia*
«^sxxviu.eque» Eque pro ita.'ac pro vel/afc| pro vf vel quafi orni
tilfime ponutur.exemplum cft eque te laubo ac ci ceronemj
^xxxix .Haub lecus Haub pro
non/ fecu9 pro aliter venufte in eabem oratione continue fe Ijabet vt
feaub fecus fetio atcj f u ibeft fentio ita ficut tu/ (l*h9*
coparatioo Igcp pofitiui MdnficJ et pulcljre coparatiui prb pofitiuis
ponu tur. Vtalexanber macebo corpus babebat imbes cilliusiquob imbeciliufismficat.
Satiriinlcele» vefyemetius inuefyuntuWquob eft vefyemeter. , Dar e
rem vitio / vel laubi . Do tibi fyanc rem vitio lbeft vitupero te be bac
re. bo laubi ibcft laubo. bo crimini ibelt crimmor; De fubiuctiuo
loco inbicatiui.'et illiua pro l)uius temporibus; Seb nec illub
quibem negligenbu elUfubiuctiuus mobus pro inbicauuoiz ujius tempora pro
i?uius temponbus interbu l?aub illepibe ponutur. vt ve Jim fepe pro
volo.et gercrem pro gerebam bilexe rim pro bilexi.feciuem pro feceram.
fuerit gratu pro gratum erit.feccris pro facies.Ib oim multo
ornatiffimui li cportunis locisagatur . quob vbi factitanbum fit. 7
peritorum aures facile ceiebunt. Quaobrem exercitatio abfybeba e non
mebiocris que omniu magiftroru precepta fuperat.Quob fi quis nouerit
grecas litterasiei quob mobo explis cauimus non bif f icile perfuabetur
; (fxliii . Partim l>ominu et eius abuerbii geminatione/
partim ^oruinu venerant perfepe bicitur.Et.^v. gelio tefte eft ibem quob
pars Ijominu ibeft quib» Ijomincs^nampartiminfyocloco abuerbiunj elt
neqj indinatur cafus fine.St cum partim fyominu bici poteft lbeft
cunVquifcuiba fyomimbus et quafi cum quabam parte fyominu.Seb l?oc tame
cft fple bibiuskum in oratione iterum fuerit abbitum vt eft
illub.M, T.in epiftolis.nam qui iftinc veniut pirtim te fuperbum effe
bicunt/quob nicfyl refpo teas/partim cotumehcfuyqj malerefponbeas.
8t qui ciuitatibus perfunt partim nobiles funt/par^ tim
populares.quob elt aliqui nobilesfunt aliqui populares]>
^TxJiiii. Decimus quifc|; (f Xb ett optimum eognitu/ g»
becimufquifcj} eft vnus ex numero benario . ficut millefimufquifqs
elt vnus ex numero millenario.fyinc cft illub cefa ris in commentariis
eognofcit no becimuquec| ee reliquu militem fine vulncre.quo exeplo vti
per= pulcljru eft vt vix becimufquifc$ remafit fme vul
neremtaliconfjictuf ifxl v. Quotu fquifqj ; Q.uorufcquifqf
I;omo eft ibelt quot fyomines. Quotufquifcg rrnleB ibeft quot
milites; /Txlvi.PercJ cu positivo Per§ vna bictio bumtaxat
puleljerrime pottiuis abiucutur nominib^ vt percj> boctus
pr/ilofopfyus \t p per $ bonus
amicuS/ ^Jxlvii^lias geminatu locom tcnet mobo
abuerbii» Cuibillub.^nunquiblepibiffime vfurpamus/vt i oratione
eabem iterum alias vfurpatum /locu ops tmeat mobo abuerbii.Quale pffet fi
quis Dicat oes l^omines eobem ferme nati fut ingenio.alias qui* bem
ribet/alias vero lacrimatur. omes item riues alias boni alias mali.nuq»
eifbe fut monbuaf {fxlviiulnire caftra. M. Tfaitrjonius iuit
i caftra multifariam bicitur.' M.Tfatfyonius caftra petiuit ♦' in caftra
profecrus thik ab caftra cotulit . fe in caftra recepitife ao ca«
ftra perbuxit» 4jxftx7Vim'nti annos natus| Hic fyabet viginti
annos. quob veteru cofuetubine bicitur cotra pebagogam opinionem/aliiftg
ratio* nibus bicitur.J;ic vixefimu anu attigit.agit /bec^it
vicefimu anu etatis. vigiti anos natus eft.3? ^oc poftremu magis oratori
couemtf {Q £loquetia
laborare CICERONE laborat eloqugtia. Cicero in eloquetia tera pus cofumit
. tempus in eloquetia coterit.in elo- quetia operam pomt.ba^eloquentie
operam.etate in eloquetia cdiumit. In ftubiu incubit eloquetie.
£t> alia oe&uc pro tuo iuUciof {TIi«Habeo/teneo I?anc rem
memoria. Habeo ^anc rem memoria non minus vfit ate bici tur ' q>
fyabeofiue teneo Ijancrem memorie.teneo ^ac re memoria /f;uius rei
memoria fyabeo; fljii . Voluptatis me capit obliuio. Obliuiff
or voluptatis vel cuiufcun^ alterius rei» vcluptatis me capit oMiuio.St
ibem verbu cu ce- teris iunctu nommibus fignificat biuerfa/cofimis
h orbine ♦' vt capit me facietas ciuitatis ibeft capit tne Jjoim obiu vel
tebium; dJui. Contineo me ruri/vel in vybe^ Virgilius incolit
ciuitate l)cc perpulct)re bicitut* cum teneo/ vel etiam cum cotineo
verbo«vt virgj* tuxtfc continet. Virgi.tenet fefe in vrbe; 41
liiii.Prefer et pre venufte oftentaf aliquam rcm aliam anfeceifere.
Si quis velit offefare aliqua rem alia antecellere/ «t vltra illa valerc
i venufte ib bicitur / vei per ac* tufatim prepofita preter / vel cu pre
ablatiuo prc= polita. Vt cefar preter ceteros rebus bellicis polje
bat» vel pre cetcns pollebat; IjIvXelius efacili igenig vcl
facilff mis moribus natus. Lejios ftabs faciles mmsj ; vd f acilcm
naf uram/ I ornatius bicitur Jelius eftleui ingenio
natus ( vel faciiimusnatusmoribus . Scipio natus eftt rifti
ingenio. Stbereliquiscofimiiitcr; iTIvi. Valeo/polleo cu
ablatiuis. Valeo et polleo verba et fplenbiba fut.' et latiffime
patcnti x ablatiuo iuguntur.fyoc pacto, ; 7>vureliu& auguftinus
plurimuingenio valuit. ijypocrateai ingenii bonitate poUebat.Mitnbates
memoria cb ruit vel poUuit.M.cato in ciuitate plurimu aucto
ntate pollebat; (jlvii.Clareofpolfum. Clareo et poffum verba
eabe ferme r atione fe ga* bent. cHgo apub bominum cefarem multum
(iue poffum fiue clareotomate et IplenbiOe bicitur^ a* pub bominum
ceferem plurimum mea ciaret au* ctoritas.fyortenfius rhultum poteftin senatu
ornatius multum fyortenfii in fenatu poteit aurtori tas .que potj{fimu
jGgmficat eam opimonem que eftapub ijomines be alicuius viri preftantia .
que vulgo et trita cofuetubine reputatio nuncupatur* Sum batiuo
iunctfi tyabere SIGNIFICAT et quobamo poffibere; Geterum ib
perbelium eft.Sft rnidji apub te fibea ibeft tu abfyibes micfyi fibem.
quob eft accuratius abuertenbum.nam plerumtj foiet fum es e verbil batiuo
iuctu/u SIGNIFICARErjabere.' et quobammobo pollibere. Vt e micfyi
pecun/aiett cefari rnagna po teltas liue pietas^ilJub befignatme pecuniam
i^a= bere.fyoc rjabere cefare magna poteftate. Cuius cq. Ititutiois
crebra apub prifcos et bilertos viros ct« leruatio cit. Recorbor
fyanc rera.fyec res micbi in mentem venit. Ejo recorbor r;ac rem
potius § l)uius rei bicitur. Jst ibem bicitur ljuius rei me fubit
recorbatio.fyec res micr;i ln mentem venit lbeft micr;i occurrit i
vel mict)i fuccurrit/quobpoltteinum minus vfi= tatebicitur? {T
Ix.Prefto antecelio aliquabo cu accu? fatiuo aliquanbo cum
ablatiuo.' Prefto et anf ecelloCque venuftefonant verba>li=
quabo batiuo aliquabo acculatiuo perpulcfyre iun guntur cum acceflione
ablatiuoru eius rei cuius e preftatia. Vt ego prefto tibi ingenii
acumine.flo. preceilit petru acumine ingenii.equus preltat afi= no
velocitate curfus? flhi. De frequetatiuis verbis loco
primitiuorum/ £>cpe numero f requetatiua verba que appellaf ur
pnijuuuorw verboru a quibus traxerunt origine" SIGNIFICATIONE
retinet.prefertim fi prima illa afpe*riora f uerit. vt coiecto pro conutio.mafo
pro ma* aeo.imperito proimpero . amplexor proample* ctor. ct alia
itcm pcnc inumcrabilia fi quabo etia verbi arpcritas vlla cotingat ,'quob
erubitorum iu bicio nunc berelinquimus? De et bis mutant» Dc
jttepofitio verbis abiccta pcrfepe cofraria mu<= tat fignificationem
vt prccor ct beprecor cotrana lut^ortor ct befyortor , Nonuno) lbcm bie
eff icit vt fuabeo biffuabeo Quauis in iifoem vtfbto no* nu^ auget
perpotius cj vim coinutetj flixiii . Gx ct be aplificat* Sx
ct 6e vejjementer ampiiticat, Vt exoro .' quob ab ex ct oro bebuctu
fignif uat ipetro ? Tere.in a% gnatavtbetoro/vixc|ibexaro* .
iQxiiii.Suaoco perfuabeotfacio perficio, Sic et fuabco fignificat
oratoris off icium quob I benebico ,atc* perfuabco bencbixiffc fignif
icat quii cft oratoris f inis,ibeft impeteo atc$ obtineo , vnbe et
crebro non folum fuabeo/ feb etiam perfuabeo£ beb i acio etperficio
explorata funt; {fixv.De abuerfatiua bictione* Pfurimuetiam
fermonem ac oratione exornat ab uerfatiua bictio quag? ibicatiuo iucta,
duob vbicj CICERONE feruauit aliiqs fcocfiffimi* feb I; uwe cx
cmplum fit.Qua§ tc ante I;ac tiJigeba.' nuc tame cbfmgnkrem vir^ufem
veI;emiterabmiror. J\)a tha funt que quobam fibi orbine luicem
iugutur. quoru prius ac leuius e biligere i pcftremum ab^
mkotlqixob ve!?en.es^ac precipuuiet eoru mebiu ofcleruo quoi> cft
vencror /et colo . cx quo obfer * uanfiam et reuerentiam fignificat.Seb
itcrum ali u5 exemplu quancp miclji fint omniu amicoru io* cunbe
iittreitue tame iocubiflime fuerut.Seb ct pro Umen polt §uis raro
collocamus. Vt qu*n§ micfji anfe ^ac carus eras,'feb ct nuc pi ofecto a
- riffimus^es; {jJxvuHonfolum y febetia* verurnetia/
verumquoq?» 7Kb fjec jll* buo orationem pcruenufta rebbut fibi
inuiccm correfponfcentia.quoi n alteru eft non fo lum/Cucnon mobo /fiue
nontantu l alteru efeb- etiam/ vel veruetia/vel loco etia pofito quoqj/
et aliquibusintenectis.quoru ommu exempla fub= necta* fyec miciji
res n^n folum grafa eft kb etiam iocubatMtAntonjus non rrtobo ciceronis
crat ini micus/vcruetiam Ijoftis patne*M*Catoncn folu ingenio
pollebatifeb etiam vurtute florcbat pluri* mu ♦ftlexanber no foium
reliqua vrbem iubegiti is veruquo? ipf u romanii iperiu
cogitabat attigere. Tametcji. £t fic etiam tam et $ fibi correfponbe-f .
vt tam ca* ra micfy patria efMcj tibi iocuba vita ( ieb facile ttt
te boc mteUijes r (Jlxviii.cgoipfe pro erjomet? Pro
eoautem <$ ceteri exprimere cofueuere pros nominibu» abbentes
vclteveimet fyllabicasao* icctiones. CICERONE potius lbem eiiicitljoc
piono* mine ipfe/ipfa/ipfum; quob illarum fcre abiecti* onu locu
optinet. Vt egoipfe magis q> egomet.tf Ieipfe 1 nosipfiivt nucp lecus
fenSbo U, {Jlxix.De mccum et mc cumf K\i* <ft abiectio puldjra.
Vt m?cum ipfe cogitafc fem.etfyoc vt mecum fit vna bictio. Item me
cum ipfeviccre.quombuefuntbictunes. Vt familiarinte couerlatione et
(imiiw ornateexprimemns; Seb fi tibibicebu «rt tu micfy
familians es.'orna tius oicit* ego te vtor f aiiianter ,Tu rnify
amicus es .ego te amico vtor. Tu micty es magifter iorna tius ego
te vtor magiltro, 830 tecu f requeter ver for.frequeT mify tecu e
cofuetubo.que fepe couer= fatione SIGNIFICAT Tecu magna amicitia ljabeo .
magnamicfy tecu est amicitia, 8t ita aiia per murta.Vtfit inicfyi cu oib malis
viris iimicitie.na recti= us bixcrimus iimicitic pluraii numero/cp
ficjfari. (Jjxxi .£3id)iJ cii cdparatiuis. Seb neutra vox
nid;il ac potiffimii in comparati = uis nominibus tu femim rebbit
oratione.tu ma= lcuiina. Vt nici;il cft J>oc fyomie melius/f ere ibi
| vt nulius jtjomo eit l;oc fyomine melior. Kityii l;ac virgine eft
formofius .' quaft nulla virgo fyec virgi ne e formoficr,£t i ceteris
aliquabo confimiliter; iflxxii, Munus pro officio/et coumiliter
partes; Munus pro officio ornatiffime bicitur , V t l?oc e nmici
munua ibdtamici officiu,Funa;or boni viri munere^ferme ibi cft facio boni
vin offjciu.Seb et partes plurali numero confimilem l;abet SIGNIFICATIONEM,
vt mee partes lut lbeft officiu me vel perf inet ib rae;
(flxxiii»Caueo cum ablatiuo fignificaf pro uibeo»cu accusativo
vito ac f ugio. Caueo verbff etfi fepe fignifccat prouibeo. vt tu
eft lege perornate accuiatiuo iuctu pro vitol fugio vfurpant eloquentes
viri, vt turpis viri/ m genui cauent mores/ "% Memini cu
accufatiuo/ fttqui et memini rectius ac vfitatius iugitur accu
fatiuo § gcuitiuo vt inenani plaiocis fapiectiant» Virffi.inbuc. Stnumerosmemi
fimeteverbai* ner«m . nec miru f. in iis que funt potius folute
orationis. Vir.ma.ois aff eram teftimonium que" non folum poetam
egregie erubitum* ieb et rfceto hce artis vbic| obferuat.ffimu f mffe
conftat. Penitet ibeft parum vioetur. Penitet me qmcquib f igmf
icet notif umu" «f t l feb et paru vibetur vfarpat auctores et t
reftates boc= trina vin» t ^ , , .. Vaco cum batiuo/attenbo cu
ablatiuo vacuumeffe.( Scb ibem perfepe verbum vanis
coftructiombus cofitum/baub eabem retinet SIGNIFICATIONIS vrau Vaco
buic rei.'eft attenbo l?uic tei.vaco r,ac re.'eft W re fum vacuus I et
ornatilfimu eft, vt bom vin 4nt opera vt perturbatiombus vaceut ibeft
Iiberi et vacui fintr. Deaiabuerto etaiabuerfio.
flmiabuerto ibeft fore vibeo/et quobamobo mtel* Iicto Ht aiabuerto
coftructu cu acculatiuo m presofita/ibemfibi vult <$ punio.Vt pleutippus
ai= abuertit in feruum platonis lbeft pumt platoms (cruum.cix quo
aiabuerfio pumtione quabam no nuq> llii: p c x<i fa Q c ^ oa
tiuo et accufatie n cm
mebiante ab. 7Ktc$ iterfi ref ero tibi l)ac rem ibfft
narro tibi fyac rem.feb refero ab fenatum/ refero ab popula Jtjac
rem ibeft pono f?anc rcm confultationem populi vel fenatus.Qui vfus verbi
eius apub fyyftoriaru fcriptores frequctiffime eft. Dare litteras
tibi/vel ab te. Quib varii quoq? cafus /eibem verbo fepe coniun=
tii/nom magnam aclonge biuerfam vim f>abeV Quale eft bo bibaculo ab
cefarem litteras . Nam bantur bibaculo beferenti / vt cefari rebbatab
que mittuntur littere.Sas igitur leQtt CeIar.Bibaca= fus quibem
velut tat Ilarius befert. Na qui fert Iras/confueuit tabellarius
appellari.Verum ne quib buius nunc ignores bare lras fignifkat
fcri= feerefeu mittere Jitteras/ <X Jx*x.
Vuas/binas/trinas/Iras/pro vna buabus t tribus ve epiftolis bicim
us/ Nec tef ugiat q> pro epiftola bicimus litteras plus rali
numero.Necobftatpoetarum cofuetubo ♦ £t pro vna epiftola bidmus vnas
litteras.Na ib no= me vnus.a.u -cu iis que pluralit' folu
Iflectuntnr plurale" quo<# retiet natura* Vt vne nuptie vne
bi geivaa menia .8tCvtabpropofitu rebea)pro bua bf epiltolis
bicitnus ite binas littcras ino aut buas pro tribus cpiftolis ternas i
non autem trcs. pro quatuor quaternas. £t que beinceps funt rehqua
cofimili ratione proferentur; (JJxkk i . inf mitiua oratio pro
conc iunctiua peruenufte ponitur. Inf initiua oratio
pro coiunctiua pergjpulcfyra eft, V t volo te ab me Icribere.cupio
te atfyeuas proh cilci . £t ib teretianu quib facere te in fyac re
velim ficmif icat eni quib velim quob tu in f;ac re facias.
velim ciues omes vnanimes efle ibclt q> vnanimes fint et
cocorbes.Seb fjoc tibi fit cocinnius vt nullum fit ambigui iermonis bifcrimen,
neq? eni om ninorcctum iit/fi quis oicatvoio te me amare «
g> uis pleruqi lb fuppofitionis lccum r;abcat l quob 1
i lmtiuum veibu mimebiatius precellent. vt puto pyrrfyu
romanos vmcere poffe ibilt crebo cp roma ni poffot vincere
pyrrfjum, kb ib pro viribus ca= ueat orator.St quob mobo prcceptum
eratbe coniuctiua atcg mf initiua oratione precipue in abfola tis
verbis<vel vbi alteri calui i uerit abiecta propo {itio
feruanbum fit. vt vofo te amari a ine; {£ l.\xxn.£x vel £ pro a vel
ab. Ex vel e propofitiones pro a vei ab/et fepe et pers ©rnate
ponutur. vt aubiui ex maionbj nris pro i maiqnb$ nris.accepi ex patre tuo
vel e patre tuo Cluero ex te et a te.'quob eft te confulo/et te
intsr rogo.Quob abuerteiet vlui trabe. De pro/Ioco in et
fecunbujm Pro ornate ponitur loco in et fecunbii . Vt pro ro
ftris .ibeft in roftris.pro tribunali ibelt in tribuna h. et
alia . pro viribus tuis ib eft fecunbum tuas vires.pro tui ingenii
bonitate.pro virili tua. et similia/ Sub ia compofitione aut dam/aut
biminute fignificat/ Sub copofita aut clam aut biminute fignif icat
vt fubrnouit me permeno ibeftdam et occulte.fubi^ rafcor tibi quob
eft pauiulum irafcor. Mor emgererc complacere obfequi SIGNIFICAT.
Moremgerere perornatum verbum complacere fignificat/atqj obfequi vnbe
moriger a.um. quob a morofo quob bif Lcilem fignificat i et a
mojrato quob inftitutu fignificat plurimu biff ert? Confequor pro
exprimoj Confequor pro exprimo pulcfyemmum eft.Non poflu ego verbia
cofequi ibeft exprimere . Iitferis cofequi ibeft per lras explicare. Metuo
timeo multis cafi- bu3 coniunguntur/ •*>
"V* Metuoettimeo verba aliquanbo tnultis cafibus
ab.unguntur ,Metuit CICERONE a.p.dobio fibi extre mu
periculum,Tim«omicl?iabfternortem Ncn nun$ abfolute ponutur folo batiuo
liicta . vt me= tui papl?iIo- papfyili vite timeo , kb fyc eft
poUus poeticus^fus/ {]Txxxviii.8uabo pro fio/et efficior.
Suabo pro fio et ef i icior ornatum vfitatumcp eft, Vt dcero euafit
eloqu€tiffimus.ftriftoteles eua* fit fumus pf;ilofopr;uB , cefar vero
euafit inciitua imperator.St bz ahis quogj fimiliterf. Fore futurum
cffe. Fore f utura femper l?abet fignificationem . et eft ibem
<$ futurum ee.M.G. be eratore tertiolibro loquensbe fyortenfio, Que
quibem eortfioo omis bus iftia laubibusi quas tuaorationecomplexup
es excelletiore fore. 8tcraffusforebicisinquit/ ego vero effe iam
mbico; {£xc Quib Iter bimibiu z bimibiatu itereft Quib inter
bimibium et inter bimibiatum inter fit nofce perutile e.Cum enim
bimibiatu fit quafi in partes buas biuifumi nifiaiiquibbiuiuim fit/
bimibiatum non poteftbici.&imibiu veroappella tur no q> ipfu
biuifu fit/feb q ex bimibiato pars al tera eft .Hd jgitur recte bixerit
quis pco fetentta/ VARRONE Cvtait.ft.gelius I noc.ae)bimibiulJ fcrum
Iegi.bioiibiam fabulam aubiui. feb bimibia tu libru i bimibiata fabula
recte quis bixerit. quia &imi:<iatumCex caufa)bigitum appellamus.
feb al terufram parte bimibiu.Quob eft accurate bilige^ tercg
afpicietibum. Interfum et prefum quib bifferut; Plurimii aute cobucit
vcbis itelligcre que fut no= minu bif feretie/ac verborum bilcrimma 8a
quo- q res miru imobu oratione exornabat. Vt fi quis nouent quib
bifferut prefum/et ir terfum interfe verba.'puJcfjerrime
bicet.M.C.publicis negociis «on interf uit folum .'fcb pref uit . quoru
illub figni ficat comitem effe alicuius rei.fjoc vero buce>
^[xcii.Confiteor profiteor gratulor gaubio Egonon folum cofiteor/quob eft
per vimifeb tti am profiteor quob qmbe eft fpote.St apub Mar.
Tulliu peifepe tibi gratulor micfyi gaubeo. gau bemus nobis* gratulamur
aliis cj> abepti funtali qua bona/; -4jxcui*#vgo ref ero
fyabeo bebeo; Bt tibi ago gratia quob quibem eft verbis.Refero
gratias quob eft re et factis. Habeo gratiam quob efti animo. Debeo
gratia'vbialiqua obligationis vis ceroitur.Etite alias opiniones Jjis
fimries? -rf {Jxciiii«Hec res mi\)i cobucit.bono tc i;ac re.
Optimu cft non ignorare nominu bii i erentias vt ct vberior et ornatiot
nra rebbatur oratio. l?cc res micfji conbucit* elt lbcrn q> mic^i rcs
fyec vtiiis eft St quob ceten pleruqj bicunt/ bono tibi f>ac
temi pulcfyrius bicitur ac Iplebibius bono tc I>ac re* Vt miles
nauali corona bonatus e!t«Sabinos romani
ciuitatebomuerut/quobeftciuesfecerunt quob ite bicut labinos romani I
ciuitate acceperuntf {£xcv* Prepofitio que iolet abiungi nomini
pulcfyrius vcrboabiungitur* Jnterbu vcro prepofitio/que nominj ac cafui
pre== ponitur l pulc^rius venuftiuicg vcrbu preceltent in quibufba
verbis. Ooiale cTt Ii quis bicat co ab Ul vt bicat potius abeo te.
etloquor ab te/ potius afioquqr te.Cebit bc vita.'becebit vita. ccbit ex
Iju manisrebus' excebit rebus fyumanis£t in aliis quibulbi
cofimihter. Minus abuerbium. Minus abuerbium quaq» fepc iiapii icat
nonnu^ tame cu pofitiuo iunctu cotrane SIGNIFICATIONIS co paratiuu
bemoftrat* Vt Teretianu lllub p^ebria^ nemo fuitirinus incptus'pto
prubentior. etne^ aio elt tc minus formoius lbeft beformior 4 et
fic be alus coitmilibus; 2 o ^JxcviuQoiib inter becem
annos et becem annis intereft Quotiens multos aut bies autannos bicimus
per accufatiuuiitelligimusiuge teporis curriculu efife £ere
cotinuu^Seb per ablatiuu SIGNIFICATVR annoru fiuebieruiteriectio intermifiioi. Quare(
vt ait marcellus^optates rectms acculatio vtibebent fiquibem ab
fecuba fortuna attineat, In fereft jgi- tur ita li quis bixmtJbece anos i
re militari verfa tus (uia ltaibece annis bebi opera rebus bdlicis
; 4jxcviii»Corbi eft, Corbi l?cmo etia flexibiliteir corbi
l;ominu(vt pri fcianus Iquit, Dgificat iocubus fci.bo ficut et fru=
gi.Seb iatiusUnca fetetia; Marcellus dpinatus e. Dicit eni corbi eft
ibeft animo febet* Nam fyec res mid^i corbi eft ibeft placet* Teren.in
abria ^n ti bi l?e nuptie fut corbi CICERONE be perfecto oratore
flumealiis verboru voiubihtas corbi eft . £t LUCILIO probe beclarat cu iquit.St quob tibi ma
gnopere corbi eft* y micl?i vefyemeter bifplicet^ {[xcix.De
Tatifpei:. Tantifper qucb quafi eft tambiu Qrnaf e poft
febepofcitbum» quobfermeeftfconec Vtillub Terentianum in ^eauto.Tantiiper
meum bici te yolo.'bum qucbtebignumefaqias. i 8gotantiIper
magna voluptate afficior/ bu apub te viuo? {jC.quib Iter Delecto et
oblecto itercft. Tu micl?i earus es.ego te amo.tu mil?i iocunbus
es.ego te bclecto.feb belecto ct oblecto non fimilis ter ffruuntur» Nam
bicimus belect.it me rjec res. feb oblecto me ac re. belectabat Socrate
vite intes gritas. Pitfyicus fefe virtute et loctnna obiecta=
baUego me oblecio ruri/ JGuFero banc re facuVmo* befte moberate/equo
animo Fero fyacre pacietor feu patienti animo/fplebibiusr bicitur
.'ego f>ac ref acilepafior .et mobefte fero/z moberate/ct equo
almo.Ecotra SIGNIFICANTIA abuer bia grauiter/acerbe/egre/molefte/et
iiquoaimo. Ijec micfyi iocuba rcs e.fyec res placet micl;i,et que
molefta eft/bifplicet; <£C.ii.be Affero.et bolef micfji* ffero
comunilTimu verbu ilet quo mulfis locig vti poffumus.Secuba fortuna
affert micf» vofup tate ibcft mc bclectat. Tsbuerfa f ortuna af f ert
mi= cf;i bolore ibeft bolet mitfyu Nabicimus z fyec res milji bolet
ibeft boleo fyac re.feb rebeo vnbe bigref fus fu. liftere tue afferut
micip abmiraeione lbeff eftitiut vt abmirer. affcrsteftioniu ibeft
teftifica= ris z ita bifperfa e z vaga fjuius verbi fignif icatio/Ciiibe
perinbe cu afcg vel ac poftpofita* Pennbe omatiffime poftuiat poit fe ac
/ vel atqj ct totu fimul perinbeae vei atqp fyabet eabem vnn quam
vt tanquam, vt CamiJlus perinbeatcp oim fapietiffimus.et cfjerea
perinbeac foret eunuci^us et be l?ac re fatis r;ec bicta fint
fyactenusf {7Ciiii.be Coco» Coeo nonlolum abfofutum cft/ feb
nonnuqj per= uenufte cafu fyabet accufatiuu . Coeo focietate tecu
Et ijinc cft lilub» 7K* gelii in noc aube pitagora/ beqf cius conforte ♦
quobouifcg familie pecunieq? Ijabebat / in mebium babant i et coibatur
focietas infepatabilts, Sebeobem cicero pacto aiiquanbo eft eo
verbo vfust. De Mille fyoim in finguiari numero NiHe fyominum fingulari
numcro SIGNIFICAT mifc le fyomines.mille militu interiit fyoc eft mille
mi- lites interierunt» mille militu vulneratum eft ib cft millc
vuinerati funt milites.ibcg ornatu/vfita= tumqj eft}L_-Primis»
Primas SIGNIFICAT etia ordinem quob nome sequitur secundus et tertius .et
beinceps alia eiufbem or binis nomma.tame multociens fignificat
pricipa le . vt fyic eft noftre ciuitatis vnus omniu primus
li t per fe fignif icat optimu.,feb ib poftrenjij in
caro e vfuora torum. De interbico* Interbico fibi I?ac re; et non
fjanc rem»vt int«-bi= co tibi aqua et igni*plinius fecunbus in epiftolis
caret rcge iure'quibus aqua et igni iterbictu eft/ {1 GviihCXue
noia ornate fincopantur* Hunc vero ab reliqua neq; eni iuitus omiferim
q que nomina ab numeru fpectat in eoru plurahbs genitiuis lincopa
efficiunt«ibqj cum vfitatum eft/ tum ab exornabam pertinet oronem»vt
mille numum potius <$ mille numoru*mille benariu mil- le aureum*et
totmilia argentu . et ita be reliquia et in ijenitruis omnium nom mu
fecunbe beclmatj on>s frequenter eff iciunt* IjGixyCitra
cgtenariu ef poft vigemriugi minor numerus maiorem eleganter
precebit/mebiante coniunctionef Ssb prokm fcribentes /et foluta orone in
nomini fcus lolu numeru et mefura [ignificanhbus l atqj in numeroru
nominibus eam plerunq; feruarnus cofuetubinem et citra cetenarrum numeru
* ii qua bo poft vigenariu buo numeri comemoranbi fut/ vt eoru
minor precebat et maior fequatur vt i)ic e vnu et virjinti annos
natus»buos et tricjit^ anos iz viximus. tres et quabraginta anos
nauigaui . qua tuor et quiquagmta annoru confurrfi etatem, ieb
vltra ccntenariu/et citra vigenarium tritu ac vul garem Jeruamus morem et
SERMONEM. 4jGuob aute ficut buo be viginti nonnuqj» bicimus/ et buo
be triginta.'ita et buobeuigefimo > et buobetrigefi= n;o nunif citu
eit, feb no quibem eft in frequenti oratorum vlu/ Inbies et inoiem
. Quib inbiss i none pulcfyerrimus fermo eV ac fig nificat per
lingulos bies/et quotibie i feb cu quo= bam incremento, vt tua inbies
accrefcit virtus.in= bies fyomines fapiunt.ftultorum fjominum mbies
accrelcit mfamiatfeb Qum bicitur inbiem eft termi nus beputatus/
{Mpxi . Vt in ve* bis actione aut PASSIONE SIGNIFICAT ib^ vanetati
ftubenbum. In vet bis tam actior.em q> PASSIONE figmficatibus
confiberare bcbemus varias vocum lnflectioncs / atcjj exitus . et mcbo
fyns mo illis vti pro auriu iu bicio.vt fuere pro
fuerut.amaruntproamauerut vibere pro viberiit.norim pro
nouenm.triupfya= rantpro triupfyauerant.et be aliis quocj! eobemo,
3eb ne quib fiat cotra gramatice artis preceptioes fyac via prpwbcnbum
eit; .oe Cluin. auin particula quomo increpet/ vel exortetur i
quom5 item confirmet et quomobo interroget iib fatis exploratum eft . feb
nos ea pulcfarrirne vti* mur.'cum bi cimus.'nonpoffu quin gcftia.no
pof fum quin boleam.no poffum quin abmirer. figni f icat enim f ere
me non pofle continere* g> non &> leam ,et ita be cetens
confimiliter. rftxiii.be Locus eft vel Multum aut nicljil
loci eft ljuic rei . Quib inWnone preelarum eft vfu.locus eft l?uic
rei.multum loci eft gaubio. plurimu loci eft trifc quillitati.et
terencianus bauus.nicfyl loci e fegni cie.'fignificant eni fyec omniai
vel oportere nos le tari/vel tranfqutflos effe* vel voluptatibus
afficii vel oo negligetes ac fegnes ee« et fic in i aliis fyu*
iulmobi<JOdiu.be Magnopere et fimmbus. NonnucJ verobuo nominaCfiue
prepofitione ab= bita/fiue non>nius abuerbii vim retinet.vt mag
nopere pro valbe. maximopere pro plurimu.m* iorem
lmobupromaximcmiruinmobu promi rabiliter.etjtem mirabu inmobum.
^Jpxv .be In primis et fimilibus. Seb ablatiui cafus / fme cum
comercio prepofitio nis fiue (tne eo vim Ijabent abuerbii ♦ vt in
primis fignificat zm precipue ac prefertim.et ib^vi gr cci
bicut)ibuerbiu ipfum(fi lta appellabu eft) peror- nate nomimbufiugitur.vf
in primis fapiens.ipri «ijs erubitus.Seb nc a propolito
bifgrebiar^pau* <is mterbu pro paucu/multis pro multumt Veru
J^ccaliojoco pportunius illo* ijCxvLbe ©ent cu noie magiffratus fiuc
iperii Ilic etiam rnobus optimus eft+vt li quis bicturus dt qucmpia
homine aliqucm ^abcrc magiftratunj vcJ i?qnore/feu ipcriu vt ex noie
l;onoris eiufmoi et gero geris verbo pulcljerrima coftituat ordne.
^oc pactoi^ic eft rome cSfuLrome cofulem gerit. ita cofimiliter
imperatorem gerif . principem ge* wt.pKetorem gerit et alia cofimiliter ab
ijofcc eni viros remm cura et abminiftratio pertinet. ([ Cxviitbz
intcrlcg«nbumyet fimilibus. Vfitata et perpulcijra eft fermois oratio/vt
geru^ bioruaccufatiuis prcpofita lterfignificct tempus
imperfectuinbicatiui vcl fubiunctiui mobi vel al terius ct bu particulam vt
interabuianbu ^oftes offenbi.'J?oc eltbum ambulaKcm interlcgcnbum
vibebas t ibeft bu legeres . £t fic pro varictate per * [onarum ita
cxponenbum cft vti mobo explicaui mus.fcSicferuius in buc.vir.Interagenbum ib
rft bum agis.l;onefta locutip fi bicamus intercenabu \)oc fum locutus ib eft bum cenare Ijoc
locutus fu. 4jCxviii.De in pro erga vef cotra. In pro erga ct
c5tra pulcfyerrima e accufatio pree pofita. Vt meusinte animus.mea mte
beniuol.n tia.vbicj enim fignificat erga . luucnalis muefyt in
bomicianum. CICERONE ljabuit orationcm in CATILINA ibi eni contra SIGNIFICAT. Deappnme.
?7ypprime pro valbe recte apponitur noibus.que? abmobum be imprimis
fupenus bictum eft.vt VIRGILIO .apprime nobiha res.appnme vtilis.St
ita beaiusfimilibus. 4j_QiKf Vt res apte coi
ungitur abiectiuis polielliuis. Rec nomen latum / bif i ufumc| eft.
feb eo pulcijer rimcvtimur cum abiectiuis poffefliuis nomini' biis/
et prefertim J?uiufmobi. vt cu bicitur res bel Iica, res
bomeftica.refpublica. res familiaris. re« nwlitaris.Et be fimilibus
paritct. De preftolor. Vt aliq veluti fignanba mftituam preftolor
vei" bum plerumcj poete accufatiuo iungunt . CICERONE connectit
batiuo. Vt quem preftolariB.'* preftoior iol?anni^. J^vffentior
,tio . Impartior .tio . 2V Multa funt verba quibus per eaoem SIGNIFICANTIA
et pafliua vtimur voce et actiua,et(vt omittam p e nc innumerabilia;
ciceio frequeter m r;is buobus mobo actiua mobo paffiua voccm vFurpat.
s£,enti or et affentioi vbicg eabem coftructicnis forma. et
impartior /et Ipartio.in ceteria autem ifc fii mult© unus. Vfu
venif. Vfu venit ornatiff ime pro contingit ponitur. VSVRPATIO ET VSVRPARE. VSVRPATIO
ET VSVRPARE VSVRPATIO ET VSVRPARE non lta intelligi bebentifis cut
mrifcofuJti vtunfur. fe6 VSVRPATIONEM orato?
rcs frequetem usum nominat/ et VSVRPARE in frequenti usu fyabere. Deficit cum
accufatiuo. Hec res me befirit ib eft beeft micr;i Ijec res» vi bc=
f icit me bies. vita cpprimum mortales beficit f ep beficio bac re magis
poetarum eft. Omnis pro omnes. Nunc aute ne ea que perutilia funty
i ornatiffima omittamus. intellicjenbu eft quoque nominatertie
bcclinationiB ta nominatiuu q> genitiuu fingulare" fyabet fimiies
i prefertim Ji gewtiuus pluralis in ium esiuerit ecru frequtter
accufatiuus pluralis in is terminari folet raro in es . vt grnnis pro oes mortalis
promortaks.manispromancs, fimifc terCvt ipe quog? teftatur priftianus Ji
es et is ternu nantiareperiuntur. vt f ortis et i ortes partiset
partes pontis et pontes. io rebquis rarius ib fit que eft poetaru
veniaf. De pofrnbie. CXucbam abucrbia funt que epiftolis maxime con
ctruut.ficut propebiem/ cjprimu/cito/cofeftim/ et poftribie. quob multi
ignari htttram / et grammatice artis expartes exponut poft tres bies .
ieb tuCnc eobcm bucaris errore)crebe poftribie fignis fkare poftero
bie/eteopacto. M.C.accepitto alii crubitiffimi virij. Primu /beinbe
/ prctcr a£ ab /1)oc /poftrcmum fttfi quis multa referre
velit.'pro prima rt ponai erimu vcl primowtiuuj eni in vfu eft,
profecute oeinbe velfecunbo loco.protcrtia/ preterea. vel pro
tcrtio loco.pro quarto Cquob perraro accibit) ab hoc vr prcterea vcl
quarto loco.in calceipoltre mo/ vd poftrcmu/ vel bemum.at igitur
l?uiurce= mobi exemplu. tria fut que magna micin af i erut
voluctate.primuenicf optimuamicu nartuslu beibe aute cj> finguiare tua
crga mefepe tefohcans beiuoletia poftremu vero /q> tc icolume
mteliexir. be orbine fyaru coniu n= ctionumeni autem/vero» &ua
in re ib quocg abuertenou eft/g> fres inueni= nras coiuctiones recto
atcp vfiiato orbine.que funt eni/aute/et vero. feb tuipfe tyec oia ac
multo plu= ra raule cogncueris.^fi CICERONE Lriptai et in primis eius
epiftolas lect»tabis. Mcmorie pro s ifum eft. Memone prohtu ficmat fcnptu
eft. multa enita= lia ornatiffime vfurpantur vanis cu fignificatus,
vt memorie trabere.mabare fcriptis.mabare litte* raru monumetis.quoru
fermc omniueabe vis eft feb manbare memorie aliub fibi vibetur velle. Falht
me bcc rcs. Fallo verbu tritu eft apub CICERONE f aliit mc r;ec rcs
bicimus.fallit te fpes.quob e fruftratur et beci p it. Miflu f acerc
. Miffu facere ib e bimitterc venuftu et ornatu eft, nam miffam
Ijanc rem f acio fignif icat bimitto xl= lam rem. Hc quibem» $bf;uc
et in eabem oratione buc f;ee particule/ne et quibem/pulcfyerrjme futifi
quis f uerit ilhs rec te vfus. nam cum ponuntur femper aut aliquib
bictum cit( aut mentc ib concipitur vt
ne aubmi cT quibem.fignificat euiraQ exempli caufa) non
folu non vibi feb neqj ctiam aubiui . Item aliub exemplum pfylofopijie ftubia bemocritus n5 mobo n5 intermittit
;Ieb ne remittit quibem.reaiittere na<| pfyiam cft remiffius
pfyilofopfyari? .be orbine pluriu fine coiunctioc Scb ea quoq?
abljibeba biligetia elt q> li quabo plura ponimus preferti
finecopulatioeCqui articuius eft et fi ibi vibeatur fignificare
quob vefyemetius fonat magis coilocetur i calce.vttua virtus
lauba ba probaba e.na probaba eft rnagis q> fit ai mbicio
Magitratus biligere/amare/colere oebemus. pro bau3mios virosomnesf;
omines verentur./ obseruat abmiratur quc turpia / obfcena i tetra ; f cba
fut.'ea fugere et afpernari bebemua. virtutis offi= cju fuma
laus efr.na l?abet officiu accelfione actio nis. (JSeb i l?iis
quoq? orbo quibe fpectanbus eft q> fi tria quoru buo parte
aliqua ugnificenti tercis um lit communius^ib prof ecto plcrumoj
bebet in f ine collocariinili fe fyabuerit qucbam generis mo
bo.tunc enim ecotra fit quob nunc liquibo ac pers fpicuo
patcf accre exemp{is«ac prioris quibe excm plu cft.oms in
abipifcenba virtute cura/opera/bi- iigentiaiponenba e. eft eni cura
confilium animi, opera corporis i bihgentia vtrumqjcomplectitur. Item
inrepublica plurimum i&uftrie/laboris/ te poris ponen&u
eft,#smicos confilio I viribus opera abiuuare bebemue. Cylterius nof a
exemplafut l ion lunt per fc rcs comobe ex eten&e bjuicie/tjo
norcs/voluptates comobum eni generislocum beiinct cuius fpecies funt
multe.puta quas mobo nuirerauimus. Atg item animalia queqjV fyoines
Ieones;equi/bcnu vibetur appetere . feb vUamc| resfele fyabeat. Ii multa
fint,' quobpluriseft/ bc= bet poni m finc.iam ab alia prccebamus. Qanfquis
,' vtvt i vbiubi, Multocicns gcminatio in quibulbam tam verbis
infinitis q> abucrbiis tanti valet quati i& nome fel' ct cuncg. vt
quilquis pro quicuncg , quotquot prQ quotcug. quatufquatus pro
quantulcucj» qualif= qualis pro quaiifcuqj. vtut pro vtcuqj, vbiubi
pro vbicunq?. ct ib abucrte biligenter/ vi . ^vcccbit.
^ccebit proabbitur/§ vfitatum cfttam pulcfyer= rimum vibcri bcbet. vnbe
et acceffio abbitioncm fignat. vf ab meas miferias mictji acccbit bolor
ib eft abbitur. Conf ibo, Cofibo non ficut quiba arbitraf ur( nefcio
quo pac to)ftruit J ,13 iugitur aiias catio ahas ablatio cafui n et
in fyiis potiffimu verfatur que ab animum fpertant. vt confibotua virtute/
tuafyumanuatef tuo confilio. et lbem be aliis fyuiufmobi. Crebo pro
cornitto. Crebo quocg pro comirto ornatiffimum eft. vt crc bo tibi
confiLa mea. crebo tibi granbem pecumam et fic be aliisr/ C^rahbismaior
vel minornaftu 0ranbe abiectiuu nomen pvoh vel etati conuemt vel
pecunie. pecunie exepla fupra pofuimus. leb l?ic grabior neftorc
vibetur ib § vibetur qi ncltore vincat etate et atecebat. r;ic tit
graoisnatu/ajrabife fimus natu SIGNIFICATIO geuu fjonine / atcj
atmo--bu fene.St quia be natu facta meeioi maior natu otnatifiie
ficmif lcat feniore ficut mior natu ib eft, be Parentfyefi. {J. iuniore/ Infuper^aubi
Hepiba fit interpofita nonnuncp in oratione/atcpinteriecta parentljefis .
vtbebifti ab meCque mea eft fumma voluptas fuam fimas lits teras. omnes
amicos (nifi ialloOpJurimum abmi ror.fcire velim exte (ea nacg
eftamicorum cofue- tubo) quib nuperin caufa.M. Tfaitoniiegeris et iti
bemum (repostulante) noftraram Jjuiufmobi oratione interpositionibus
alpergatrtus. be Incrcbuit, Hecres apub me lerebuit/et fere %nif
icat ab au res perueit^et REI NOTITIA SIGNAT. Vt nos nefcire quib
feicemus» Nefcio t)ac re.ignoro/ preferif me f ugif me. la= tet me.fyuius rei nefcius
fum.ignarus fu.jpec res fcietiam meam f ugitf. Reliquu eft^pro reff
at. Hoc refiquu e i& eft reftaf /perpulcfyre / et magno
euornatu lbem fignificaf /exemplu eft.omnia tibi ctnatura et fortuna
tribuitreliquii eff t vt bene et iaubabmter viu?S/. Vulgo ib e
vbiql Rumor e vulgo/ibeft vbiql et comunifer&icifur et
ornatus fermo eftf {J^Cxlv.^vccipere pro au&ire et
cognofcere ccipere pro au&ire et cognofcere peruenufte bititur. Vtacccpirumoribus
quor uel certus auctor acccpi ljolm fama/ que certoauctore
cotietur.acce pi nuciis it enuciatioibus.quos nutios z qui mit ti
affert.accepi litterisquas plerucj abaicis accipi mus.et I aliis
cofimilibus lodsf (ffjxlvuHike Ijofce })*ke* Prono%
articularib| bemoftratis cofucuerut ora tores abbere ce a&jectione i
iis cafib^ qui i f.bcfiuut tupljonie ca\vtl?iice fyofce tafce pro jjis
fycs feas/ mn V-' CfCxlviibe tranftatione fyuius pi-epofitiomscum
cp* PREPOSITIO que preponi fofet / poftponitur ecum fi fi jnif icantia
eabem manet . et in quibufc bam juibem femper. que funt mecum tecu
fecum nobifcum vobilcum . in quibufbam qupqj non fe- per, vt qui
cum/quo cumV quibus cu/ te proptet ac etiam propter te lbem fignificant.
et fic quibus cum « t cun quibus • et in iis potiffimum ea pre*
pofmonum tnnflatio fit que wb enumeramus. Clam prepolitio potius cp
abuerbium» Clam plerumq? prepofitio eft.et nonnuncj abuer- bium*
(eboratores PREPOSITIONEM potius accipi* unt ;fiue iugatur ablatiuo vt
prifcianusfetiti i;ue accufatiuo/ quobopinatur bonatus* vtclamme
prcfectus eft ib dt me nelciente/ iJjCxlix.Cora et prepofitio et
abuerbium» Coram cum accetu in prima lillaba prepofttio eft et quib
fignif lcet nemo eft qui nclciat.cum accetu vero in vltima fillaba
abuerbium pulcfyerrimum eft SIGNIFICAT vt ita bicam)prefentialiter. quo
fre- quentiflime viriboctivtuntur – vt apud CICERONE .cupio tecum coram
iocari ib eit prefentiali ter.etiam coram tecum loquor. De abuerbusin. I.
et. V.befinetib. Multa abuerbia in.I.exiftetia etiam I ipfis epifto
lis pulefyerrima funt.feb i;ec imprimis ruri vefpe
ri/bomiybelli. Multaitem ino fero/ Icrio/ conlulto poftremo/falfo/merito.precario.
Cetera vero in eobem exitu beunentia ljaub in frequenti funt
vfu oratoru» i n v vero non multa funt biuicuius SIGNIFICATIO
MANIFESTA EST. Ioterbiu/quob eft quafi infra mebii bid temcus.£t
noctu pto nocte.quob magis nome e. Vnbe biu noctucg bicimus;
(jXluNullus pro nom Hullus «li.um.n6nu§ pro non.prefertim fum
/es cft verbo abiuncto.vt nullus fum.ibefi interii. ref
pu.nulla eft (quau non eft lbeft extmcta eft. Ibc|
ornatiffimu f uerit. Preftofum.ib e affum vel appareo. Preftomm
SIGNIFICAT affum. et f ere appareo . et Dc ibem abuerbiuj eiufbem
verbi moois omnibus ac temponbus peruenufte conuectitur i m
eabem qua mobo pofuimus SIGNIFICANTIA vt prefto micfyi
fuit feruus tuus vrbe ingrebienti / lb eft affuit.
([Cliii.Licet micfyi bono vito efleivel bonum viriun.
Licet micfyi bonu virum effe et licet micfy bono vi ro elfe
vtrumcj latine atcj vf ltate bicitur. Seb goftering magis oratoriu est. Pcirpetuu
et Iperpetuu aouerbia? Perpetuu et imperpetuum abuerbia pro eobe po
s niitur ' et eis f requeter vtimur. Deuindo proobligo» Deuincio
verbum cum pulcfyerrimum e.tum pre cipue eplis congruit SIGNIFICAT et
beuincio oblis go / et bevinctus obligatus / ficut et fepe obnos
xius quobnonloiumtritomore SIGNIFICAT tquoo notu eft. febetiam
beuincturm. Collocare apub aliqui beneficiu. Collocare apub alique benef
irium eft alicui benefi cium facere, vt apub gratos viros beneficium
col iocafti* (IClvii.Gratificor» <5ratif icor libi
fyanc rem predare vfurpaf ur / prp gratumfacjo» ([Clviii.De
"inbulgeo et ignofco. Jnbulgeo fane verbum eft aptiffimum et
fplenbis bi ornatus. quob et batiuo iungitur t et f erme \i-
gnificat bo operam, at(j ita reponitur ♦ vt fyie nis mio fomno inbulget.
ib eft nimis bormit mmio d bo inbulget / lb eft nimis comeoit . be aliis
con fimili pacto. H Inbulgere quafi concebere eff verbum luxurielam
quanbam Mignans clemetia tt in&uicjentem paretem appelfamus/
leniore er= ga Iiberos mgenio.quare z ab ignofco piurimum
biffert.eft enim ignofco parco.ibeit bo venia.fme excufatum fcbeo.ignofco
tibiifiquibCexepu cauz faJabmifens lceleris . inbulgeo vero i vt multa
a= cpre impune queas. quorum verbgrum bifcrime i>il ^entifFime
conliberabum eft/ TANTVS QVANTVS Tantus.ta.tum.etquantuseobemobo
fefyas bent in 01 atione vt raro alterum abfgaltero pona tur. vt
cor.cio l?ec tanta eftiquata ante^ac vn§ fu it.tnbuis micl?i tantu
quantum necagnofco / nec poftulo.tdntum in te eft bocfrine quantum 1
boc= tilfimo fo 7 et effe viro; iI_Clx T a»a qualis?
Taliff et qualis alterutru creberrime ponitur* ra ro vtrucj. vt teie
iolemus fentire bonu viru/et fub Bitelligimuf quale biximus.z
ecotra.orator eilfu ftris qualis alter nuilus reperitur. veru l?ec be
f)is htiBt ^LClxi. Vel pro eciam, tVel pro etiam particula I multis
locis rectiffime congruit.vtfyambal fuit imperator velomnium
primus.tua eximia virtua vt tearoem velmaxie impeliit. ([CytVfrforj
» Verfor verbfi ifl f requetiffio e vTtt veteru ac oifer toiu
foofni . perbif f nlaqj e eius verbi fignif icatia ac beno variis
poteftrationib? expoi.vt ego verfori Iraru ftubio ib l bo opera
lraru ftubio. virt us circa bifficile verfatur ib e virtus i
bifficiii cofiftit. ver famur in tenebris ib eft f ere fumus ac viuimus
et quafi ftamus in tcnebris.etCquob eft exemplis fuperioribus
beciaratum) buos fibi plerumq? ac fre* qnetius cafus poltulat. nam
aut acculatiuo uingi* tur/precoata circai aut ablatiuo in precebete
. na cu acanatiuo* vt ante f unbu verlari.ab porta ver=
fabatur pcrraro bicta funt. fcb queabmobu cetens rebus oibus
{ ita buie f uma abfybenba e biiigetia,* ^QQUiii . 8niuer o Sinaute
♦ HonnuS oue particule ornatiOime coiunguntur, quarum eabem fit
vtriul* f ignificatio. vt enmero nam pro explenba SENTENTIA altera
bumtaxat Juffi cere poterat ♦ etfimiliter finautem cauia conplen*
be fentencie. eo in loco aute patticula nullam om* nino vim l?abet. 1m
eni per le iignif icat feb h/ trClxiiii.&ttoab. •
auoabypro quoufq;/et pro quabo/no minus ornate ponnur^ latine.vt volo in
vrbe effe/ quoab tu rebeasa . ita in plenfc* locis conlimihter
accipi poteft. Sufci pere. Sufcipere no folum(quob
tritug vulgatufcg vfus fyabeOfignificat quob eft fuper fe accipere et
quo= bamobo abbucere aliquibi feb etiam perornate po= fitum in
epiftolis cemmenbatum Ipabere. vt fu£ci= pit cicercnem cefar in fuis
rebus abuerfis . que vticj poftremaugnificatio /r/aub^quaqKfi
quisin= fpiciat accuratius)a priore illa afiena eft. Positivo abiucta
negatio cotrarii politiui pleruqj vim tenet. Optima quocj ratio eft
vt pofitio cuipiam abiun = cta negatio cotrarii poifiui virn ac SIGNIFICATIONEM twneat. feb non ita plene /
tamen et accurate lilam expleat.cuius rei exempla fubiciamus . r;ic vir
eft J;aut improbus. SIGNIFICAT enim i ere fyuc lpomine prolum
potius q> imprcbum effe jfyabenbum . et pr;us ^aub igncbilis.r;iftrio
non illepibus.miles co inftrenuus.ciuis fjaub malus.Nam in iis/eo=
rumc| fimilibus rectius atcjj vlitatius bicitur qua bo vis laubis
cuiufbam eit. feb quafi biminute/ et quafi btf raubate laubis. Peto r;anc
rem a te CLuob gramatici bicunt peto te r; ac rem /ornatius nec minus
latir. e bici queat * peto banc rem a te et ibplutimum ciceip m epiftoJis
cofueuit. ConHdoY pro pereo. Conficior paffiua voce crebro vfitatu
e pro eo f e= re quoo e pereo.vt confectus fu ibeft columtus vt vir
lops ac mifer .'fame/fricjore/bolore coficitor. fic anis etate et ftubio
conficitur, ac merore Jbbo? re/fenio cofectus.et be aliis fic per mulf
is? ^JOxix ftblatmi tu participioru tfl alioru peruenuftam rebbut
orationS ftblatiui cafus no participioru folu/veruecia om niu
alioru in orone percodne ponutur.prcfet tjm fi qua f uerit fignificatio
teporis » et be participiis quibe mariif eftu eft, vtregnante octauiano
cefaref parta eft vniuerfo orbi pax * quafi qua tempeftate regnabat
octauianus cefar ♦ et aliub bioniiio firas cufis tyranum
gerente/grauifuma inficilia bella fut gefta.ibeft jn quotepore
fyracufanoru bionifc? us tyranus erat* ([Beb eobe quocj rao alia
que bam fe babet nomitaa .maxime fi bignitatu ct 1)0* noru
extiterit. vtcornelio et galba cbilibus curili* bp acte fut in tfyeatro f
abule. Quiba abbut partid pium exiftenubus.IeO nos profybemus l quob
ab vcnuftate oratiois n5 pertiet abbi oportere . et iU fcipionc
conlule peni beuicti funt. Icipione imperatore euerfa eft numantia . jpt
reliqua eiufmobi panter. (JCIxx.be geitiuis cu
pofieffiuis pronoibus Licetetia ta Ljramatice q> oratorie genitiuos
quo rumcuqt cafualm cu pcffeffiuis quocuq; cafu proJa tis coiugere.
qucb ct priftianus trabit . vf mea ca venit/rt celeroru amicorum.meuagrum
et mar ci anfonii populati funt.tuo amico ac fratris gra=
•iificare.tuu.r; imperatorem fectare et coriolanum p ncfter ac frains
amice. fua ille confibit et ciuiu pruoentia./C tqj lta figuratur
conftrucfio in omnibus pdifeff:ui3.pinc terentianum illub meo prefi
bjoatq^ofp.ti. ^e nominatiuo poffeffiuo •cu gemtiuo poffefibris.Ibq? penitus
mfpidenbu fit/quaboqj etiam bifcre=. tioms leu abubancie cuiufbam caufa
folet abbicu genitiao poffefforis et nominatiuus pofieffiuus vt
fuus eft.C.cefaris mcs ib tlt eius et no alterius fuus ticiifilius fjeres
teftamento conftitutus eft. fuus( vt ipfe quocj pnftianus exponit>b
bifcrctio ne eius pertinet qui fecubum leges fuus non ciU ib eft
fub poteftate patris legittimi non eft . fuus autem pro vnius cuiufq?
proprie accipitur, quob ipfum apub viros eloquentiffimos freques eft. Quibbiftatbie
quartoetbie.quatfa. Qit quartaC vt nonius marcellus eciam
teftis eft) et bie quarto non ibem fignificant . feb mafculino
genere preter itu tempus befignatur f eminino f u* tutum . quob vef
uftiffimi tamen aliter protuleriit vt fic bit quarto pro eo e quob aliter
nubiufqrtus bicifur .'nubiuftertius.^et ltibe be aliis. Qm ib infere
inter tua ca et tui ca feci» Tua caufa fcci/et tui caufa feci ( ne pretei
veteru et boctorem cofuetubinem aliquib ef f iciamus ine ter fefe
fyaub mebiociiter bifcernutur . nam tui ca bicimus/fiquib eiabquem
fermonem vertimus preftiterimus. vt tui caufa a& antonii caftra prof
e ctus quob eft tuenbi tui gratia. kb tua caufai cum tuaQ vt ita
bixerim) contemplatione aliquib alteri preftiterimus vt tua ca»fratris
tui caufa egi/ ^JXHxxiiii ,be bif f erentia intcr gcnis tiuos
primitiui et pofieffiui . £t quia aliquib be lis que ab poffeffionem
fpectant locuti lumus i fyaub ab re f uer it bif f erentia illam
ptof erre in mebium .' que intcr genmuos priuKi= ui eft ct poffelliui. vt
mei tui fui noltri et veftri. qua tibem pulcfyerrime pnfcianus exponit .
vox na<$ eft eabem .at vis ipfa longe biuerfa.cu genitP uus
pnmitiui fimplicem fignificat poffeifionem. potfeffiui vero bupliccm» vt
mci amicus ibe meu3 amicus . feb mei filii amicus bupjicem
poifefiione continet alteram meam in f ilio • alteram filii i ami
co. quo cc fubiecimus/ne cum ornafum requiri= mus4 verboru vim icjncremus
ipfam/atq? in erro rem quepiam iguorater incibamus.feb nunc infti
tutumprofequamur. C|xi.v.inmentem venit. Hcc res mic*?i in mttem
venitbicitur. et cum ge= nitiuo l;uius rei mid?i m mttem venit. nec
micfyi curc eft an j:ro nommatiuo geriitiuus pofitus eft, vt uq;
veto ncn iolum poete feb etiam.M. ricero vfurpauit;
fJClxxvi.be teporu c6mufatione t Oratcr;s(f:cut et poete^perfepe
prefentibus tepo ribus vtuntur pro pretetitis . nonnucj et pro f u=
turis. veru lb quioe muitorarius . feD cotra fyaub crebro fit.nifi forte
incp verbum/ quob fufuri te- poris eft / preteriti foco vel prefentis
accipiamus. Seb muita que fuper fyiis bici polfut/in aliub quo 9
tempus ieruamus; 4j0xxvii.>3imilis genitiuo et plenus
batiuo. Similis et plenus nomina Cquorum prius batiuo
iugitur4poftrerius etia ablatiuo)oratores vt pluri mu/ac fere femper
genitiuo iugunt. vtfimilis'es !"uoru maioru.bignitatis et of
ficii es plenus» no» nuq» vero(feb perraro)pr«feruntur cu
fuperiori= bus cafibusj. Vt fubiuctiuis impe= rdtiua
verba iunguntur. Sepenumero ctia maioris fignif icantie caufa vel
ornatiffime imperatiuis fubiuctiua verba iugutur quob CICERONE fepe ef
ficere folebat. quale e iliuO cu = va vt vir fis. et aliojoco fcrxbens ab
f ilium eff ict etiaboravtexcellas. Curri WcenatuWprabetur.
Decurritur fpaciu/cenatur rijombus l pranbetu* tultu Wcoftmilj aq?
pulcf;errime bicuntur/ <£ixxx. Vt trafitiua verba abfokte
prof cruntur» fltqf vt abfoluta iterbu vcrba obliquis cafibus iun
gutuWita trafitiua quocp iicet nonunqua non folu pro gramaticoru more/feb
etia pro oratoru cofue tubie abfolute prof eratur .preferti vcro ili qua
fu* palfio cu ACTIONE IPSA SIGNIFICATVR qualia illa fat. Lugeoinbeo
metuo.que cum trafitiua funtinunc abfoluteproferutur. Dc terminatis m
bunbus. due I bubus excut noia ; no ta fimilitubine figni*
ficatCquob pleng arbitratur) § abubatia quabam potius ac
vefyemetius.vt gliabubus no ta cjioriati fimilisiq» abunbe feie
vefjementerqi ef feres.Qua opinione eloquetiu ateji qSerubitifumoru
fcominu vbicg teftimoniis coprobata/tu quoqj firmiter ara
pfectere.na(vtalios omitta)7?vulus gelius auctor probatiffimuf ex fnla
quotj boctiffimi appoftinaris letabu5us bicitur^qui logo atcg sbubati
errore efu et tu quocj eiftem vtere nominibus. De Fretus»
Fretus.ta.ui.icerte originis ablatlo iuctu pultfyer nmu eft.'et ugmficat
fere confilu atej munitu. vt vra fyuanitate f rcius . vra fapieuU J i:on
mea vir tute fretus. Certicrefacere* Certiore facere vfitate atcj
frequenter in epiftolis vfurpatur.na facio te be i$ac re certioremUb e
tibi figmfico l;ac re.et fepilfime velim me be tua vali* tubine
facias certiorem; “Habeo”. Habeo varia coftructione figuratu
plurimu orna tus Ipet.vt bene fyec res fc l)et.'qucb e fere vt ita
bi ca\'ftat bene fyec res.et ita bene fyeo me . et cu par= ticipiis
bene me fyabes rebeo rure . et cotrariu ab* uerbiu fjmiliter ei verbo
iugitur quob eft maie; /plxxxv.be participiis f uturi teporis. Participia
fepenumetQ i uturi temppris ornatiffime vfurpantur . vt fcripturus fum ab
fcipione lit= teraa. quoo eft fere bebeo fcribere . etaliub.' tu ab
ebes cras iturus eslquafi ire bebes.cicero e atfyeas profecturus ib e
bebet atfyenas proficifci. plautua in ciprum traiecturus eft ( fere
eftnauigarebcbet in cipru.quob ibcirco ita expofuimus quoniam is
pi-opne nauigare / is tranfmittere t is folucre ei» locum fignificat vnbe
prof icifcimur is bemu tra= iicere biciturl g> eubem befignat qui rate
vebitur. vt cicero foluit atfjemsiet in afiam traiccitt(f/e= ru ab
propofitu rebeubum eft . illa igitur particis pia quc a verbis manant
palliuis et naffiue quoqj cxponi bebent. vt cuius infons animus
e/mulctaa bus non cft ib e mulctari et puniri non bebct . fon tes
accufanbi funt ib e accufari bebent.vir flagicio fusefttrubebus incarccremibe
coiicienbus jn vi cula . 8t alia reliqua exponatur / vt fupra
biximus* {JjMec tame negauerim qui eorunbem participi oru alia
quoqj ratio fit feb ea nos mobo profequi mur iprefetiaru/que venuftius
eloquiu rebbant/ Repeto Qoiib repeto ^none perpulcfyre ponitur.fi
quib ei accefferikneq; batiuus foluscafus/feb etiam abla= tinus.vt
jepeto fjanc rem memoria/ quobnon te neo memoria figaifieat. vt permulti
extimat feb *< H •podus meoria voluto^t rcmifcor /et quafi
oblmi oni trabitu rurlu lueftigo meoria»l;oc nos vii vei bo
ornatiffie poterimusiquonia ecbe z veteres eic quetiffimi f requeter vfi
iut* l;k illub be oratore ci- ceronis libro. cogitanti mkl)i /ac memoria
repete ti* et africanus a neuio accufatus / tnbuno plebis <% ab
antfyioctjo pccunia accepilfet / comcbiffimc to verbo vfus* rnemoria
(mquit) quintes repeto ^unc bie fyobiernu effe*'quo Ijanibale penu
iimitif tmu fyuic imperio vici in africa l et perpetua pace
vobis/ac victoriam peperi infeparabile» veiu cap= tus ingenti voluptate
longius in af rica verbis re f erebis progrelfus furcuquaobrem «b veltru
initi- tutura ref erat k oratiof. Promori; bieobireymorte oppe
tereet fimilia,' pro viaere aute vita agere/ be gere ctatetn / etfimilia
ornatebicimus/ Optimu factii fuerit l ne eifbe aut mobis oratiosis/aut
verbis vtamur* eKquob inicio bicimus) varia plurimu probat oratio* et ti
veluti quibufba fiofculis afpergitur vt pro morivbie obire /mor-
t«m oppcterc anima expirare / vitabecebere]* ani ma efflare/ vita befugi^
rebus fyumaqis excebere ex vita migrare/res beferere fyuanas i exii e be
vi- talnwtc? pbireiextremum claubere bie; interire
i i occibere cdfimiliacg* et iteru pro viuere
vitam age re begereetatem/ Vtlu&oluou.Ticet
viuo vita &icimus et coniimilia» St(ne figillatim cucta
coplectar)illu& fcoc loco ani mabuertenbum iitiq ficut fepe
bicimus lubo lubu pugno pugnaiferuio feraitutemiboleoy &olore^et
fimilia.' ita et inter&u viuo vitamVviuo miferam feu
felixe vitam, vt fi quis bixerit qui expe&ita fu«= erint
virtuteconfecuti, / ii viuentbeatam/ etimor= talem vitam.et qui
predaru certamen certaucrit/ a mphffimis bonabitur muueribus . £t
quob &e va riis bicimus orationis mobis l i& ipfu be
fingulis partibus intelligebu lit , vt pro oro rogo/ precor
obfecro/ pro quafi pene ferme.reliqua tuipe coiec U}
<JClxxxix,Ib genus, Ib genus pro eius generis C quo& fere
fimile no- men expnmiOpulcfyre et vfitate bicitur vt multa funt ib
genus monftra. be multis ib genus rebus locutus eft.'quob e fimilibus.et
ita in alns^ {JClxc , Sx fcntencia , 8x fentencia quafi
fecunbum votuntaf em et prof= perc • vt gefta rcs eft cx fcntentia . quob
eft prout optabamus.et tibi i& vecit « sententiat et muftis
iuiocisconfirniliter. “Inferre”. Inferre iiurii quali iniuria facere . manus
iferre alicui eft alique pulfare, impetu j quepia facere iit quepia
cu ipctu et quafi vi aboriniet jrruere. “Dare veniam. “Dare veniam”
pulcfyerrimu efticrnofcerectlicetia coneebere; 3°vt> 'nicio ctatis
Ijabui te amicu.amicicia micr;i tc cum eft a teneris annis/a paruulote
primis ctatis temporibue* a tenerisCvt greci bicut) vnguiculis
abincunabilisipfis.etijuiutmobi. {jQtuuei etaspuicfyerrime abolefccnciam SIGNIFICAT.
F«.rire f ebus. Fcrire f ebus opfame atcp optimis caufis ex feriali
um cofuetubine fignificat f ebus coponere vt per= fepe ictum fcu
pcrcuffufcbus/eft conftitutum/ ct compo fitum. Hft micbi nomc fcipioni £ft
miclji nomefcipioni.fcipioni cognome africa= no f uit.cui paojo troiano
nome c ct lic be reliquig batio cafu perulitate ac puldjerrime bicitur .que
eabe z aliis quoij mois bicutur.£ frequetius m6s fueeriores apub
eloquetiffimos et boctiffimos vi= rosioucnies. ^iunt t f ertur
bicitur. i» Cum tritum vcrbu volumus ©ftenbere Aet quob in ore
populo e.' vtimur vel iperfonali fertur / vel perfonali verbo aiunt Jet
nonuncj biritur . et eis fi gulis/ vt preponimus.' etraro ita.' feb
interoii. q> exempla fcuiufmobi lut . nam firenesCvt aiui)fur bi
bwbemus aure tranf ire. et item na ita f ertur vt nulcfc tuta ut fibes.
item fyaub turpe e( vt biutur) tum ultuanbi be grabu beiici. Mebiam fuper
noctem, onuq> ita bicimus nocte luper mebiam vigilaui* rous quob
e vltra mebia nocte vigilauinius.ibcj z f taias ipfeteftatuWetquorubam
vetcrumpro= fcut auctoritis. Tenbo. Contra sermone tuu tebo lb e
reiponbeo tibi. y licut et tenbo cotra iter iib e tibi occurro feb fyc
fyaub i frequenti vfu oratorum inuenies. Aacte. Macte /magis aucte.et
eft glorie et laubis fermo,' et plerucj ablatio iiigitur.vt macte virtute
elto.ib 9 et poete vfurpat/et fcriptores fyiftoriara* etbe= mu
oratores ipfi. qui lermo C vt multi erubitilu= rai trabunt)a facris
bebuctus elt. 7Kb expiicanbu locum tue genus gentile ac patnum
effingimus. duoties alicuius explicaturi fuaius/iiue
genus/ I fiue locu/getuWc patriu nome effingimue. qucb
quifecuBeffccerit/fortaffelatine locutus fit;febil lepibe penitus/atc|
Ibecore. vt qui fuent a firacu= fis oriubus/no be ciracufis bicebul J?
firacufanus no be atl;els<f? atfjemefis.et fic be aliis. atcj i
gc= nerifc^ /ac familiis nos no be cu abltio vtimur(vt muiti l feb
ibc nome effidmus vt no bc ftauris f$ luurus . r 6 ite be grecis fcb
grccus non bc catufis feb catulus.non be batis feb batus . Qua qmbe
a reib mento afferebu fitl quob pliniusipfeaiebat/ q>
beriuationes no fyabet firmas regulas . fcb exeunt/tcrminaturc| vti ipfis
autonbus placet fic a tfyaurotfyauru/tfyaureu^ttfyaurinu bjcimus»
et quoe nos romanos bicimus^ bicut greci romeos» guos nos
cartfyaginefes ^iUi cartfyiboneos vocantt &qb in enfis valatq as fi
ab loca pertinent frequetiores terminationes sunt. vt albanenfis vero
nenfis dufiuua .' taretinus /lacebcmonus .'eiracutas nus^arpinas.iftlii
quoc| funt eorube nominu exitus.feb 11 frequetiori vfu celebratur.quob ibe ct
in quibufba aliis fit«que mq a generis noibj fluxcre neqj loci vllius. vt
tcrecianus cremes/ platoicuB gigesifocraticus gorgias.queoia a propriis
profecta lunt/atcj origine traxerc. feb que alia fyac bc re^ici
pQiTuUtuipe coQitatione coplectere. Conoi\ Conorrjanc rcm optimc ac
peruenufte oirimuB, prefertim fi bifficilior fit.'et arbua. quo pacto
cice ro fepe vtebatur. vt oe pcrfecto oratorci maguum opus ct
arbuum brute ccnamurf {[ CCi«{3tubco» Et ftubeo fi quib
ftubiofius effecturi fumus coiam accufatiuopulc^crrimc iuncjitur. “Defibero”.
Dcfibero vcrbu pulcfyerrime pofitfi e . na cu befis beriu fit abfetiu
reru perfepc bicimuf befibcro amo re tuu quafi tu no mc amas.bcfibcro tua
prubetis anWquafifis iiipies.et ltem bc alns; ijCCiii .
complector C5plcctor perbiff ufu e/atcj ornatu verbu.prefer= ti vcro
aiiquibus abiecus/ Jjac roe.vt te amore/at q beiuof ecia coplector /pro
te amo» cogitatione co plecfcr .'qucb e cogito.z lb e aiificut
facultatecofe quor/eft rei ipfius; Degerubjuiflf Illub
ignoranbu non tltiq gcrubiuuar mobus ab omni verbo fimili procratur / fi
quanbo nobis fo ret eo opus . vt cantanbo rumpitur anguia ib eft
bum cantatur l vt ait feruius * et alio in loco acti^ uc bictum eft*
cantanbo tu illum it> cit bum canis. ib efficere atqj vfurpare
oratores queunt/ (] CCv^be quarto p retoriet quartu pretor
Putat nonulli nicfjil itereifeiu quis bixent quar - to pretor / ct
quartum prefor / et (ic be aliis. feb magna e certe bra/vt.M.varro teltis
e.na quarto pretor locu figmficat/et tres anteactos. quartum vero
befignat tpus .Caue igitur biligenter ne per= pera fjifce vtaris
ronibj.ne ofuib eotra veteru/ at cp eloquetiu roore/cofuetubinecj
faciamus. quare terciu coful/ac tertio cdlulno ibefignificatt
{JCCvi.Kuri effe» £eb ne plura iH f equar(na infinita pene «iu
fmob precipi poflut)ib tene memoria q? no irure effe/feb
ruri ee bicimus.quob cu f eftus popeius affirmat tum terecius
cdprobat.aif ei ruri fe cotinebat/ Quaobrem u qua reliqua
fut.'paucis ex^ e^.amus Nam cu pro coficiebis epiJfoIis I)ee potissimu
atligerimus si salutatioms formuia/ ac regula ibu um nonaruqj
obferuatione patef eceri .' iure l;uic p aruo inftituto fine ac
mobum ftatuerini/ 4/C Cvii.Vale Salue» Vale igitur ac
falue verba pro VARRONE /et omnium boctiifimorum virorum (entencia
ibem fignif icare vibentur, Quibus nos alias in faluta0 aiias in
execranbo vtimur * ex quo terenciann iliuc» 2. valeant qui
inter nos bifdbiu volut /ac cu= piunt mortuis quoqj et qui mortaliu vita
beccffes runt^ quibus nullam fyuiufce Iucis optare lalu.e polfumus
,'nonuncj vale bicimus. CE?t veterea quobam eifoe ibem verbu pro mori
bicebat^quafi nicfyil araplius viuentibus fibi cu mortuis futuru
elfet t et imperpetuu iam ab eoru afpectu bifcebes rent.Nam neg? valet
llli nec| falui effe polfunt ob eabem rem abbut nonulii bene f eliciteng
abuerbta aut fi qua alia funt euumobi fiemihcatie. Veruta= meninepiftolisipfisvaiein
finebicere cofueuis mus ab^ vlla abuerbii acceflione^ perinbe ac
ami* cis vite falute ac f eligitate exoptemuf .Quib igitur vale
fibi querat.' quo ve illo pacto vtebu fit nofcef Ct G Gviii.bico tibi
lalute iubeo te faluere, Pro falute aute piemc| nos bicimus falutem
bico et fi quefalutare cupimus 4 batiuo cafu aptifume appofucnmus»
vt vaie et cefari bic falutem . T^lia quo(j erit faiutanbi ratio.vt iube
fcipioncm falue* re quob eft fcipionem faiuta . iSiam ille mobus
vi quabam befiberii cotinet . ct pro antiquoru more et confaetubine
inf initiuus mobus in alium tranf mutatur vt iubeo te faluerc ib eft lalue . iubeo
te gaubere_pro gaube; ^JCCw.Meo noie vel meis vcrbis, t {Tp ro mea ex paif e. Quob vero
alii ex mea parte bicuntl mulfo quibe ornatius bicitur vel meo noie vel
meis verbis/ calebis/nonis/et ibibus» Quota aute cuiuicuqj mefis
biem velimus mtellr gereicalebis/ nonis/ibibus ve notamus.necj quib
illi fibi velitinuc expiicare cofiliii eft.feb quo pac- to bicamus
figulorum mefium bies.' et quomofco ab eis nominatione fufcipiat .
cpobrem intelligebu elti primis/ primu cuiufqi mt fis biem/ calenbaru
appellatione vocari . fecunbu quas nonarum bies coftituitur . ef in aliis
quibe mefibus feptima luce Marcio/Maio lulio/Octobri.in aliis autem
qui» ta/Ianuario/ Februario/yvpnli lunio / 7\ugus fto/ Septembri/ nouebri
/Decembri. J^tc| omne« ii bies qui cdlenbas et nonas intercefferint*'
nona- rum cognominatione cefentur. vbi et numerum meminenmus ac
nonas ipfas.et ille ablatiuo con ftruuntur.' fjee accufatiuo . Seb
internumeranbu etprepoftero vtemur orbine^et nonarum biem conumerabimus
.' atnonisexactis/ proximosocio bies . ib quocjt in quolibet menfe ibuum
umiitter cognominatione fignincabimus* fcb pari rone tu orbis/tu
anumerationis.reliquos veroeius mefi» (quotquot fuperf ueriObies calebaru
appeliatione notabimus. que hxturiJacpYcximi fut mefisi neeg
orbinis/necp numeratiois roeimutate. 7>vt ib om nc exeplo iiluftrabu
iSitqf martius nobis exeplo. cuius curriculu vno ac trigefimo bit
coficitur .pri tna ltaqj bies halenbe erut mahi.fecunba fexto no
nas marcii.tercia quito nonas. quarta qnartono* nas . quita ttrcio nonas
. fe.\ta no bicitur fecunba nonasifeb pribie nonas.et lta be lbibus at^
fcalcn lsfeptima bieg none erunt marcii . octaua octavo ibus marcii .nona
feptio ibus mattii becima fex to ibus marcii.vnbecima quito lbus .
ouobeum* quarto ibus. tribecima terno ibus . quartabeciina pribie
ibus quitabecima ibus erunt marcii.febecia bccimo leptimo halenbas
aprihs. quoniam is me fis proximum fequitar.beamafepnma beamofrx to
halenbas april.g. becima octava bccimcquinto halerbas/becima nona becimo
quarto halebas. vi ccfuna becimotertio kalcbas. vicefimapt ia
buobe* cimo calenbas. vicefimaiecunba vnbecimo calebas
viceiimatertia becimo calenbas, vicefima quarta nono calenbas vicefima
quinta / octauo calenbas. Viceuma fexta feptimo caienbas . Vicefima
fepn= ma lexto cahnbas. Viceiima octaua quinto ca« lenbas. Vicelima
nona quarto calenbas . Trice frnia tertio calebas. Tricefima prima et
nouifiim/i i J pribie fcalebas aprilis.In ceteris
omibus eabefer 3 uaoa eit ratio bieru, Dieru autem numerus f;aub fe
lateatgui in propmtu eft cmnibus/ 4jCCsi ♦ P^ibie kaienbas
,'pribie, nonas,'pribie ibus. Pribie aute fcalenbas/pnbie
nonas/pribie ibus et «t fignificat quob vetuftiffimi bicebant
biepriftini pro abuei bio quob fignif icat bk priftino. et iic per
vetuitomore biecraf tini / et biequitiet biequinto umiliter pto abuerbio
, Veru nos prifcam nimis et Ipombiore vetuftate vbicf f ugere ac vifere
bebt mus, #vc bene et preclare cefar preciperc Folebat/ ta§ fcopulu
fic f ugienbu ee iaubitu /atq ifoles ver fcum; <L Pro genitis aate
ihenfiu rectius pof= felfiua nomina finxerimus. vt pto ijalebis
marcii fic uenuftxus bixerimus halebas martiaf z ita apri les/maias
/ lunias /iulias /ac quitiles auguffas feu fextiks/ieptembrias, et
itaianuarias/ fcbruarias g> autem m haknbis/nonis ibibuiq abiatiuo
cafu iugimus.' jbcm poifimus in accufatiuu tranfferre et ab
preponer e feb ib iignificst tempus fere biu= turnu, vt ab bccimu
kalenbas februarii bebiiti ab me litteras . ego vero ab ocfauu ibus
lanuarias ao te fcripferam^abet enim vim tejs»f»e*4^vel:;emen twem
fyocpofterjus; fc> J 4 1 Operis peroratio. Me «Sor
pl«» fcribamdpc micfy Etic imprefen* tiarum obtulerut ! quc anotatu
bigniora vila funt{ nuc« tibi multo plus ferfafe conbucent ; cj
eoru preceptioncs i quieafbemetepiftohsetoratiQm; bus tribuunt
partes.quorum penitus enpient.ua eb error .afa* ita fentienbui vti
littens ipbs ab te concinnc bilucibc^ perfcribamus .'ac noitram
len» tcntia afc» mente ^comobiffime apenamus . cj? cu bec bili S
cnter tenueiis < ck in£inito pene fcrum r« La numcro;alia qucbam no
mmus taaife vtt< ha,'feb multa grauiora (ubnectam.auaobremCvt
facis ) cupibiwme ftubia htteraru complectere at L ea
queinbiesaffequerisabcxeraUttommawo moba? IVale? f/fluguftini
bati fenenfis oratoris primaru liajjocjicus libellua octttioniB
precepta finitf oc Kt e^a rAficm ^•S. "atriftcr
mM^urinxx^j^iit^Scnom^m ttyAnne* ie fUmati* ^d{' Llmulas
kriwor frpi » Grice: “Dati is into ‘elegance’ but he is also into
‘regulae’, which are a bit like my maxims – my maxims can be exploited for
‘effect’ – and those are the types of rules that Dati is interested. Sadly, his
philosophy has been interpreted as that of a mere linguist or grammarian
prescribing on how to write letters! But he surely was a pre-Griceian who is
looking for ‘rational’ pragmatic reasons to the effect of a most effective, yet
‘elegant,’ communication. Many examples can be philosophical: ‘women are
women’, ‘war is war’. ‘Women are women’ is not meant as a substitutation for
Parmenides’s law, x = x. Such an utterance would be, “Every thing is identical
with itself.” “War is war” is different in that ‘war’ is uncountable, and we
can keep the singular ‘is’ of Parmenides’s law, x = x. But why do we consider
‘War is war’ a tautology? Because it is the exemplification of ‘x = x” – Now,
some philosophers claim that ‘war is war’ – or Parmenides law, for that matter,
isn’t not a ‘patent tautology’, since it needs to be formalized in the
predicate calculus, and the predicate calculus is not decidable, i.e. there is
no algorithm for its interpretations which render its formulae tautologous. Augustinus
Datus. Augustinus Dathus. Agostino Dati. Keywords: ELEGANTIOLÆ, retorica,
grammatica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dati” – The Swimming Pool Library. Dati.
Grice e Deciano:
il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher of the
Porch, and friend of the poet Marziale.
Grice
e Deinarco: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. A
follower of Pythagoras. He is one of those who fled Crotona when the local
people became hostile towards the sect. Giamblico talks about his followers being
killed in a battle years later, which suggests that he may have established
some kind of sectd of his own. Deinarco.
Grice
e Deinocrate: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Taranto). Filosofo
italiano. A Pythagorean, according to Giamblico. Deinocrate.
Grice e Delfino: l’implicatura conversazionale della
musica delle sfere -- l’ottava sfera – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Grice: “Delfino is what
we at Oxford would call a ‘philosophical mathematician,’ and in Italy, an
astrologer – his specialty was the ‘motum’ of the ‘ocatva sphaera’!” “But he
also wrote on algorithms!” Ensegna a Padova. Erudito dalle multiformi attività,
fu attivo a Padova nel filone dell'aristotelismo padovano rinascimentale:
sicuramente studioso di logica e matematica, ebbe chiara fama di matematico e
di astronomo. Altre opere: “De fluxu et refluxu aquae maris” (Venezia); “De
holometri fabrica et usu in instrumento geometrico, olim ab Abele Fullonio
invento: Acc.); “Disputatio de aestu maris et motu octava sphaera, Stupanus, Foullon,
Padova, In Accademia Veneta Paulus Manutius. Dizionario biografico degli italiani. Musica
delle sfere Lingua Segui Modifica La musica o armonia delle sfere, detta anche
musica universale, è un antico concetto filosoficoche considerava l'universo
come un enorme sistema di proporzioni numeriche. I movimenti dei corpi
celesti(Sole, Luna e pianeti), ritenuti collocati su sfere ruotanti, avrebbero
prodotto una sorta di musica, udibile solo dall'orecchio dei veggenti, e
consistente in formule armonico-matematiche. Incisione di Franchino
Gaffurio (Practica musice, 1496) che raffigura Apollo, le Muse, le sfere
planetarie e i rapporti musicali. La teoria della musica delle sfere ebbe
origine nell'antichità e continuò a essere seguita almeno fino al XVII secolo,
suscitando l'interesse di filosofi, musicologi e musicisti.
StoriaModifica La musica delle sfere incorpora il principio metafisicosecondo
il quale le relazioni matematiche esprimono non solo rapporti quantitativi, ma
anche qualità che si manifestano in numeri, forme e suoni, tutto connesso in un
enorme modello di proporzioni. AntichitàModifica Pitagora, per primo,
capì che l'altezza di una nota è proporzionale alla lunghezza della corda che
la produce, e che gli intervalli fra le frequenze sonore sono semplici rapporti
numerici.[2] Secondo Pitagora, il Sole, la Luna e i pianeti del sistema
solare, per effetto dei loro movimenti di rotazione e rivoluzione,[3]
produrrebbero un suono continuo, impercettibile dall'orecchio umano, formando
tutti insieme un'armonia. Di conseguenza, la qualità della vita sulla Terra
sarebbe influenzata da questi suoni celesti.[4] Nel mondo greco il cosmo
era paragonato a una scala musicale, nella quale i suoni più acuti erano assegnati
a Saturno e alle stelle fisse. Il Sole era indispensabile per la realizzazione
dell'armonia in quanto, secondo i greci, corrispondeva alla nota centrale che
congiunge due tetracordi.[5] Per FILOLAO, matematico e astronomo pitagorico, il
mondo è armonia e numero, e tutto è ordinato secondo proporzioni che
corrispondono ai tre intervalli fondamentali della musica: 2:1 (ottava), 3:2
(quinta) e 4:3 (quarta). In seguito, Platone descrisse l'astronomia e la
musicacome studi gemellati per le percezioni sensoriali: astronomia per gli
occhi, musica per le orecchie, ma entrambe riguardanti proporzioni numeriche.
Egli, inoltre, appoggiò l'idea di una musica delle sfere nel dialogo La
Repubblica, nel quale descriveva un sistema di otto cerchi, ovvero orbite, per
i corpi celesti: stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e
Luna, che si distinguono in base alle loro distanze, al colore, e alle velocità
di rivoluzione. La visione di un universo strutturato in cerchi concentrici,
aventi come centro la Terra, era del resto comune a tutta l'antichità: si
trattava di sfere intese come ambiti di pertinenza, ognuna delle quali
contenente un pianeta che esse trascinavano con sé, muovendosi in maniera
circolare. Era questo loro movimento a generare il suono, come affermava anche
Cicerone: «Movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio,
e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l'una, acuti
l'altra. Ecco perché l'orbita stellare suprema, la cui rotazione è la più
rapida, si muove con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare,
la più bassa, emette un suono estremamente grave; la Terra infatti, nona,
poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un'unica sede, racchiudendo in sé
il centro dell'universo. Le otto orbite, poi, all'interno delle quali due hanno
la stessa velocità, producono sette suoni distinti da intervalli, il cui numero
è, possiamo dire, il nodo di tutte le cose; imitandolo, gli uomini esperti di
strumenti a corde e di canto si sono aperti la via per ritornare qui, come gli
altri che grazie all'eccellenza dei loro ingegni, durante la loro esistenza
terrena, hanno coltivato gli studi divini. Le orecchie degli uomini, riempite
di questo suono, diventarono sorde, né infatti vi è in voi un altro senso più
debole.» (Cicerone, Somnium Scipionis, libro VI del De re publica, cap.
18) Più tardi i filosofi, fra i quali Tolomeo, mantennero la stretta
correlazione fra astronomia, ottica, musica e astrologia. L’'astronomo arabo
al-Kindisviluppò le idee di Tolomeo nel suo De Aspectibus, che associa
anch'esso astronomia e musica. MedioevoModifica Angelo musicante,
affresco di Melozzo da Forlì (1480), Musei Vaticani. L'antica concezione
cosmologica della musica delle sfere passò nel Cristianesimo, dal quale venne
ulteriormente meditata e approfondita, costituendo la base di numerose
raffigurazioni di angeli musicanti, suddivisi in cori angelici gerarchicamente
ordinati, identificati con le orbite celesti di astri e pianeti:[10]nella
musica delle sfere si udiva cantare cioè il corodegli angeli, che accompagnava
gli eventi principali che avvenivano in Cielo, quali la Trinità, l'Ascensione,
l'Incoronazione di Maria.[10] Già Agostino d'Ippona, nel De Musica e
nelle Confessioni, vedeva nei suoni il riflesso di un'armonia primordiale
dell'anima.Furono poi soprattutto Macrobio e Boezio a fare da tramite fra il
pensiero pitagorico, basato sul simbolismo dei numeri, e la nuova teologia
cristiana. La Via Lattea, intersecando lo Zodiaco, forniva per MACROBIO il
«latte», ossia il nutrimento alle anime dimoranti nei cieli, in attesa di
incarnarsi. Tutto l'universo è per lui fondato su rapporti numerici, nei quali
si riflette il progetto creativo di Dio, esprimibili secondo accordi musicali
basati sulla tetraktys pitagorica.[12] Boezio, ponendo le basi del
quadrivium scolastico, ossia il complesso delle materie scientifiche che
verranno insegnate nelle scholae medievali (aritmetica, musica, geometria e
astrologia), spiegava l'ordine del cosmo secondo la rinuncia da parte dei
quattro elementi agli aspetti discordanti. Egli introdusse inoltre nel De
Institutione musicae una distinzione fondamentale, destinata ad avere grande
fortuna nel Medioevo, tra musica mundana, propria delle sfere celesti, musica
humana, quale si riflette nell'interiorità umana, e musica instrumentalis,
fatta dagli uomini a imitazione di quelle.[11] Dante allude in più
occasioni all'armonia delle sfere, in particolare nel primo canto del Paradiso
della Divina Commedia,[13] quando si rivolge all'Amore che governa le Sfere dei
Cieli, il cui movimento rotatorio, reso eterno dal desiderio che esso accende
in loro, desta la sua attenzione («mi fece atteso»): «Quando la rota, che
Tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso, con l'armonia che temperi e
discerni, parvemi tanto, allor, del cielo acceso de la fiamma del sol, che
pioggia o fiume lago non fece mai tanto disteso.» (Dante, Paradiso, I,
76-81) Dal Rinascimento all'età modernaModifica L'armonica nascita del
mondo rappresentata da un organocosmico, in Musurgia Universalis di Athanasius
Kircher (1650). Nel Rinascimento, a fianco della teoria pitagorica si sviluppò
la visione magico-ermetica dell'armonia, espressa dalla concezione del
monocordo di Robert Fludd, nel quale le sfere dei quattro elementi, dei pianeti
e degli angeli sono disposte verticalmente sul monocordo, accordato dalla mano
divina. Dio, dunque, è architetto e musicista supremo del creato.[5] Un modello
analogo era stato delineato da Franchino Gaffurio, il quale aveva collocato i
pianeti attorno a un'ideale corda musicale, secondo una scala eseguita dalle
nove Muse, accompagnata dalle tre Grazie e diretta da Apollo.[5] Giovanni
Keplero, nel XVII secolo, influenzato dagli argomenti di Tolomeo, scrisse il
libro Harmonices Mundi, nel quale vengono descritte le consonanze fra percezioni
ottiche, forme geometriche, musica e armonie planetarie. Secondo Keplero, il
punto d'incontro fra geometria, cosmologia, astrologia e musica è rappresentato
dalla musica delle sfere.[14]Keplero, però, superò il modello statico delle
sfere di concezione copernicana in favore di un modello dinamico, trasformando
le orbite da circolari a ellittiche, che i pianeti percorrono a velocità
variabili (seconda legge di Keplero). Inoltre, Keplero attribuì a ogni pianeta
non un singolo suono, ma un intervallo di suoni, in cui la nota più grave
corrispondeva alla velocità minima che il pianeta teneva durante la rivoluzione
(in corrispondenza dell'afelio), e quella più acuta alla velocità massima,
raggiunta nel perielio.[5] Baruch Spinoza, nella sua Etica dimostrata
secondo il metodo geometrico, criticò con fermezza tale concetto filosofico,
indicandolo come idea priva di fondamento scientifico, frutto
dell'immaginazione umana: «[...] la follia degli umani è arrivata al punto di
credere che dell'armonia si diletti anche Dio; e nemmeno mancano filosofi
profondamente convinti che i movimenti dei corpi celesti producano
un'armonia».[15] Il Sole e i corpi celesti. L'immagine ritorna in
Goethe, che nel Faust apre il Prologo in Cielo con le parole dell'arcangelo Raffaele,
intento a contemplare la «melodica» armonia vigente tra il Sole e i corpi
celesti: (Tedesco) «Die Sonne tönt nach alter Weise in
Brudersphären Wettgesang, und ihre vorgeschriebne Reise vollendet sie mit
Donnergang.» (IT) «Intonando l'antica melodia, a gara con gli astri
fratelli, percorre il corso prescritto il Sole con passo di tuono.»
(Goethe, Faust, primi quattro versi del Prologo in Cielo[16]) Nel primo
Novecento, nell'ambito delle concezioni esoteriche elaborate dalla scuola
antroposofica, l'esoterista Rudolf Steiner sosteneva l'esigenza di recuperare
la capacità sovrasensibile, propria dei pitagorici e di epoche ancora più
remote dell'umanità, di percepire la musica delle sfere. Solo inconsciamente,
durante il sonno, l'uomo riuscirebbe ad attingere dal mondo astrale e
spirituale quell'armonia che gli consente di fornire un sostegno alla sua anima
razionale, e ricomporne gli aspetti dissonanti.[17] Tale armonia celeste
secondo Steiner, diffusa attraverso gli spazi cosmici per mezzo del cosiddetto
«etere-chimico», ha effetto principalmente sul ritmo della
respirazione.[18] «Il musicista compositore trasforma incoscientemente in
suoni fisici, il ritmo, le armonie e le melodie che, durante la notte, egli ha
percepito nel devachan, le quali sono rimaste impresse nel suo corpo eterico.
Questo è il misterioso rapporto tra la musica che risuona nel fisico e
l'ascolto della musica spirituale durante la notte. La musica fisica non è che
la copia della realtà spirituale. Come l'ombra sbiadita sta in confronto all'uomo
vivo, così la musica-ombra fisica sta alla vera musica-luce spirituale.»
(Rudolf Steiner, L'essenza della musica, conferenza di Colonia del 3 dicembre
1906) Steiner si propose di ricreare nel microcosmo umano l'armonia stellare
attraverso l'arte da lui stesso fondata, denominata euritmia, dell'equilibrio
tra parole, gesti e movimenti. Hazrat Inayat Khan, Il misticismo del suono( PDF
), traduzione di Hasan Signora, 1931, p. 93. ^ Weiss, p. 3. ^ Plinio il
Vecchio, pp. 277-278. ^ Houlding, p. 28. ^ a b c d a cura di Natacha Fabbri,
L'armonia delle sfere, su brunelleschi.imss.fi.it, Museo Galileo. URL
consultato il 29 febbraio 2012. ^ Kahn, p. 26. ^ Davis, p. 252. ^ Smith, p. 2.
^ Affresco appartenente a un gruppo di altri angeli musicanti dipinti a Roma da
Melozzo nel 1480 nell'abside della chiesa dei Santi Apostoli, successivamente
trasferiti in forma di frammenti nella Pinacoteca Vaticana nel 1711. ^ a b
Atti. Classe di scienze morali, lettere ed arti, volumi 147-148, pp. 316-318,
Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1989. ^ a b Mario Pasi, Storia
della musica, volume 1, pag. 380, Jaca Book, 1995. ^ a b Christiane L.
Joost-Gaugier, Pitagora e il suo influsso sul pensiero e sull'arte, pag. 140,
Arkeios, 2008. ^ Dante e la musica delle sfere. ^ Kepler & the Music of the
Spheres, su skyscript.co.uk. URL consultato il 29 febbraio 2012 (archiviato
dall' url originale il 12 maggio 2012). ^ Baruch Spinoza, Ethica ordine
geometrico demonstrata, 1677. ^ Trad. it. a cura di Patrizio Sanasi. ^ Tiziano
Bellucci, L'armonia delle sfere planetarie, lo zodiaco musicale e i colori, su
coscienzeinrete.net. ^ Stefano Centonze, Manuale di Arti Terapie, pag. 234, ed.
C. Virtuoso. Articolo su Rudolf Steiner e l'euritmia, su italiadonna.it.
BibliografiaModifica Piero Weiss e Richard Taruskin, Music in the Western
World: a history in documents, Cengage Learning, Plinio il Vecchio, Storia
Naturale, 77 a.C. (tradotto da Harris Rackham, Harvard University Press, Deborah Houlding, The Traditional Astrologer,
Ascella, 2000, Henry Davis, The Republic, The Statesman of Plato, Nabu Press, Smith,
Ptolemy's theory of visual perception: an English translation of the Optics,
American Philosophical Society. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett
Publishing Company, 2Armonia Harmonices Mundi De Institutione musica Gerarchia
degli angeli Sfere celesti Temperamento (musica) Filmato audio L'Armonia delle Sfere -
i Portale Astrologia Portale Filosofia Portale
Matematica Portale Musica Harmonices Mundi Sfere celesti Hans
Kayser musicologo tedesco Federicus Dolphinus. Federicus Delphinus.
Federico Dolfin. Federico Delfino. Delfino. Keywords: l’ottava sfera, first
sphere, second sphere, third sphere, fourth sphere, fifth sphere, sixth sphere,
seventh sphere, eighth sphere – prima sphaera, seconda sphaera, tertia sphaera,
quarta sphaera, quinta sphaera, sexta sphaera, septima sphaera, octava sphaera,
holometria, fabrica holometri, aristotelismo padovano vs. platonismo fiorentino
– aristotele – platone – padova naturalism – Firenze idealism – filosofia della
percezione – prospettiva -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Delfino” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Delia (Roma). Filosofo italiano.
Grice e Deliminio (Roma). FIlosofo italiano.
Grice e Delogu:
all’isola -- l’implicatura conversazionale -- semiotica romana – implicatura
sarda – filosofia sarda -- filosofia italiana --- Luigi Speranza (Nuoro). Filosofo italiano. Grice: “We can call
Delogu a Griceian; at least he has written a little tract that he entitled
‘questioni di senso’ – which is all that my philosophy is about!” Si laurea a Sassari e, come vincitore di una borsa di studio
regionale di perfezionamento in Dottrina dello Stato, ha collaborato
all’attività didattica e di ricerca con Pigliaru. È stato redattore del
periodico del seminario di Dottrina dello Stato Il Trasimaco, fondato e diretto
da Pigliaru. Come vincitore di concorso ha insegnato Filosofia e Storia
nei licei. Ha preso servizio a Sassari in qualità di ricercatore. Come
vincitore di concorso ordinario, è prof. associato e prof. ordinario di Filosofia morale presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Sassari. Cofonda
i Quaderni sardi di filosofia e scienze umane. Fonda e diretto i Quaderni sardi
di filosofia letteratura e scienze umane. Fa parte del comitato
scientifico della rivista “Segni e comprensione” -- dell’Lecce. È stato
direttore del Centro studi fenomenologici a Sassari, fonda e diretto la sezione
sassarese della Società Filosofica Italiana. È stato direttore della
Scuola di specializzazione per la formazione degli insegnanti a Sassari. Gli è
stato conferito il Premio Sardegna-Cultura e il Premio Giuseppe Capograssi,
dalla giuria presieduta da Giovanni Conso, presidente dell’Accademia dei
Lincei. Organizza numerosi convegni, tenutisi in Sardegna, generalmente a
Sassari. Tra questi: Realtà impegno progetto in Pigliaru, Libertà e
liberazione; Etica e politica in Capograssi; Tuveri filosofo, Dettori filosofo,
Esperienza religiosa e cultura contemporanea, Le nuove frontiere della medicina
tra etica e scienza, Vasa filosofo, Nella scrittura di Satta,; Filosofia e
letteratura in Karol Wojtyla; Attualità di Noce; Scrittura e memoria della
Grande Guerra. Ha partecipato in qualità di relatore ai convegni su
Merleau-Ponty (Lecce), Mounier (centro E. Mounier Reggio Emilia), Sartre (Bari,
Università Roma TRE, La Sorbona di Parigi), Gramsci (Cagliari), Intellettuali e
società in Sardegna nell’Ottocento (Cagliari), Capograssi (Roma), Noce (Roma); Tuveri (Cagliari), Satta,
(Trieste); su Corpo e psiche: l’invecchiamento (Chiavari), su I vissuti: tempo
e spazio (Chiavari); è stato relatore al Corso di formazione su Fenomenologia e
psico-patologia promosso dal Dipartimento di salute mentale di Massa
Carrara. Ha tenuto lezioni seminariali sul pensiero fenomenologico di Wojtyla
a Lublino; Capograssi, sul Diritto penale internazionale a Ginevra, sul
pensiero filosofico politico nella Sardegna dell’Ottocento a Zurigo. È
stato responsabile del gruppo di ricerca dell’Ateneo sassarese su L’etica nella
filosofia italiana e francese contemporanea, PRIN. Collabora alle riviste
Annuario filosofico, Rivista internazionale di Filosofia del diritto, Nouvelle
Revue théologique; al Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, alla
Enciclopedia Filosofica edita da Bompiani. Ha diretto il Master Mundis per la
Dirigenza Scolastica promosso da Sassari in collaborazione con la conferenza
nazionale dei Rettori. Premio "Sardegna-Cultura" Premio Capograssi
Altre saggi: “Insegnamento e implicamento empiegamento della filosofia nella scuola
secondaria, Tipografia editoriale moderna, Sassari); “La critica di
Merleau-Ponty alla concezione tomista dell’uomo e della libertà in S. Tommaso
nella storia del pensiero, Teoria e
prassi in A. Pigliaru, Quaderni sardi di filosofia e scienze umane, La
Filosofia Cattolica in Italia, Quaderni Sardi di filosofia e scienze Umane); “Pluralismo
culturale ed educazione in Colloquio interideologico,“ Orientamenti
Pedagogici", La Filosofia dell’educazione in A. Pigliaru; in Quaderni
Sardi di filosofia e scienze umane, Se la corrente calda… Un itinerario
filosofico: Péguy, Sorel, Mounier, Sartre, Quaderni Sardi di filosofia e
scienze umane, M. Ponty, Esistenzialismo, Marxismo, Cristianesimo,, Editrice La
Scuola, Brescia); Né rivolta né rassegnazione: saggio Su Merleau-Ponty, Ets,
Pisa); “Le corpori nell’esperienza morale” Quaderni Sardi di filosofia e
scienze umane, Non vi è terza (né altra via) nell’ “Esprit” di Mounier, Quaderno
Filosofico, “Temporalità e prassi” in S. Weil, Progetto, Temporalità e prassi
in Sartre in Sartre, teoria scrittura
impegno, V. Carofiglio e G. Semerari, Ed. Dedalo, Bari, Una filosofia disarmata
Merleau- Ponty in Esistenza impegno progetto in Merleau-Ponty, G. Invitto,
Guida, Napoli); “Storia e prassi” in La ragione della democrazia, Ed.
Dell'oleandro, Roma, Giuseppe Capograssi e la cultura filosofico-giuridica in
Sardegna, Quaderni sardi di filosofia e scienze umane, Note per una
fenomenologia della esperienza religiosa; in Chi è Dio. Università Lateranense,
Herder, Roma, Storia della cultura filosofico-giuridica, Enciclopedia della
Sardegna, La Filosofia etico-politica di Dettori e la cultura sardo-piemontese
tra Settecento e Ottocento, Quaderni Sardi di Filosofia e Scienze Umane, Il nucleo
di vita e di luce del Rousseau capograssiano in Due convegni su Capograssi, F.
Mercadante, Giuffè, Milano, Filosofia e società in Sardegna tra Settecento e
Ottocento in “La Sardegna e la rivoluzione francese” M. Pinna, Editore, La
Filosofia giuridica e etico-politica negli intellettuali sardi della prima metà
dell’Ottocento: Azuni, D. FoisTola, G. Manno in Intellettuali e società in
Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, Editore, Le Radici
fenomenologico-capograssiane di S. Satta giurista-scrittore; in Salvatore Satta
giurista-scrittore, U. Collu, Edizioni, Nuoro); “Soggetto debole, etica forte:
da S. Weil a E. Levinas; in Le Rivoluzioni di S. Weil, G. Invitto, Capone
Editore, Lecce, Pigliaru e Gramsci in Socialismo e democrazia, Archivio sardo
del movimento operaio contadino e autonomistico, Tracce del postmoderno in Weil,
in Moderno e postmoderno nella filosofia italiana oggi, U. Collu, Consorzio per
la pubblica lettura S. Satta, Nuoro, Società e filosofia in Sardegna Tuveri,
FrancoAngeli, Milano, Cultura barbaricina e banditismo in Pigliaru e M.Pira in
L’Europa delle diversità, FrancoAngeli, Milano, Prospettive fenomenologiche
nella cultura contemporanea; in Quaderni sardi di filosofia letteratura e
scienze umane, Asproni e i filosofi sardi contemporanei in Giorgio Asproni e il
suo ‘Diario Politico’, Cuec, Cagliari, Domenico
Azuni, Elogio della pace, a cura di, Assessorato Regionale alla Pubblica
Istruzione, Cagliari, Multi-dimensionalità della esistenza, in Quaderni sardi
di filosofia, letteratura e scienze umane, D.A. Azuni filosofo della pace, in
Francia e Italia negli anni della rivoluzione, Laterza, Bari); “La Preghiera in
J.Sartre in Esperienza religiosa e cultura contemporanea, a cura di, Diabasis,
Reggio Emilia); Note su “Etica comunitaria” e etica planetaria, in Quaderni
sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, Temporalità esistenza sofferenza,
in Esistenza e i vissuti Tempo» e Spazio, A. Dentone, Bastogi, Foggia); Le
Relazioni Intermediterranee e il pensiero di D.A. Azuni, in Il regionalismo
internazionale mediterraneo nell’Anniversario delle Nazioni Unite, Consiglio
Regionale della Sardegna, Cagliari, La Festa e la via: una lettura
fenomenologica, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, Corpo
e psiche: l’invecchiamento in Minkoswski, in Corpo e psiche, A. Dentone,
L’invecchiamento, Bastogi, Foggia, Cosmopolitismo e federalismo nel pensiero
politico sardo dell’Ottocento, in Il federalismo tra filosofia e politica.
Edizioni, Questioni Morali); La prospettiva fenomenologica, Istituto Italiano
Di Bio-etica, Macroedizioni, Cesena, L’etica della mediazione, in Il problema
della pena minorile, FrancoAngeli, Milano, La filosofia in Sardegna, Etica
Diritto Politica, Condaghes, Cagliari, Antonio Pigliaru, La lezione di
Capograssi, a cura di, Edizioni Spes, Roma); Note su Del Noce e il nichilismo;
in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, Repubblica e
civiche virtù, in Lezioni per la repubblica. La festa è tornata in città,
Diabasis, Reggio Emilia, K. Wojtyla, L’uomo nel campo della responsabilità, a cura
di, Bompiani, Milano, Federalismo e progettualità politico-sociale in Cattaneo
e Tuveri, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane); Cattaneo
e Tuveri in Cattaneo temi e interpretazioni, Corona, Centro Editoriale Toscano,
Firenze, Al confine ed oltre. La sofferenza tra normalità e patologia, Edizioni
Universitarie, Roma); J. Sartre, Barionà
o il figlio del tuono, a cura di, Marinotti, Milano, Due Filosofi militanti:
Carlo Cattaneo e Giovanni Battista Tuveri in Cattaneo e Garibaldi. Federalismo
e Mezzogiorno, A. Trova, G. Zichi, Carocci, Roma, Esperienza e pena in Satta in
Nella scrittura di Salvatore Satta, Magnum, Sassari, Note Introduttive alla
filosofia di Wojtyla, Orientamenti Sociali Sardi); Note sul cristianesimo di Pigliaru,
Orientamenti Sociali Sardi, Nov-Dic., Etica e santità in Simone Weil; in Etica
contemporanea e santità, Edizioni Rosminiane, Stresa); Legge morale e legge
civile in Natura umana, evoluzione ed etica. Annuario di Filosofia, Guerini e
Associati, Milano, V. Jankélévitch, Corso di filosofia morale, a cura di, Raffaello
Cortina, Milano); Filosofia e letteratura in Karol Wojtyla, Urbaniana
University Press, Roma, La phénoménologie de l’agir moral selon Wojtyla, in Nouvelle
Revue Theologique, Prefazione
all’analisi dell’esperienza comune in Capograssi, in La vita etica, F. Mercadante,
Bompiani Milano, La noia in Jankélévich, in In Dialogo con Vladimir
Jankélévich., Petrini, Mimesis, Milano); La filosofia di Capograssi in
Esperienza e verità- Capograssi filosofo
oltre il nostro tempo, Il Mulino, Bologna, L’eredità di Capograssi nel pensiero
di Pigliaru, in Antonio Pigliaru. Saggi Capograssiani, a cura di, Edizioni
Spes, Roma, Ragione e mistero, in
Orientamenti Sociali Sardi, XV,. Il pensiero di Noce sul Magistero della
Chiesa, in Attualità del pensiero di Augusto Del Noce,, Cantagalli, Siena, Contro
lo scientismo. Una esperienza di vita, in Gesù Di Nazareth all’UniversitàAzzaro,
Libreria Editrice Vaticana, Roma,. Libertà di coscienza e religione, in Martha
C. Nussbaum, in Nel mondo della coscienza: verità, libertà, santità, Centro
Internazionale di Studi Rosminiani, Stresa, Individuo Stato e comunità in Pigliaru,
in Le radici del pensiero sociologico-giuridico, A. Febbrajo, Giuffré, Milano,.
La pace e la guerra nel pensiero di Cimbali e Vecchio docenti nell’Sassari in
Scrittura e memoria della Grande Guerra, A. Delogu e A.M. Morace, Pisa,
ETS, Questioni di senso- Breviario
filosofico, Donzelli, Roma,. La vita e il diritto nell’opera di Satta, Nuoro, Lezione
di commiato di Antonio Delogu, La Nuova Sardegna, 02 marzo, su
lanuovasardegna.gelocal. Remo BodeiAntonio Delogu, su youtube.com. Festival di
filosofia. Wikipedia Ricerca Sardegna e Corsica provincia romana Lingua
Segui Modifica Sardegna e Corsica Sardegna e Corsica Un pavimento a
mosaico proveniente da Nora (in alto a destra), le rovine romane di Aleria (in
basso a destra), le terme romane di Fordongianus (in basso a sinistra), e le
rovine dell'anfiteatro romano di Cagliari (in alto a sinistra). Informazioni
generali Nome ufficialeSardinia et Corsica CapoluogoCaralis Dipendente
daRepubblica romana, Impero romano Amministrazione Forma amministrativa Provincia
romana GovernatoriGovernatori romani di Sardegna e Corsica Evoluzione storica
Inizio237 a.C. CausaPrima guerra punica Fine456 CausaInvasione dei Vandali
Preceduto daSucceduto da Domini cartaginesiRegno dei Vandali Cartografia
Corsica et Sardinia SPQR.png La provincia nell'anno 120 La Sardegna e Corsica
(in latino: Sardinia et Corsica) fu una provincia romana di età repubblicana e
imperiale. La Sardegna entrò nella sfera d'influenza romana dal 238 a.C. La
Corsica due anni più tardi ed entrambe vi rimasero fino all'invasione dei
Vandali del 456. Roma occupò la Sardegna nell'intervallo fra la prima e la
seconda guerra punica. Già nei primi anni del grande conflitto, precisamente
nel 259 a.C., il suo esercito aveva tentato la conquista dell'isola, giungendovi
dalla Corsica, ma il console Lucio Cornelio Scipione, dopo essersi impadronito
di Olbia, aveva dovuto ritirarsi. Statuto Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Province romane e Lista dei pretori
di Sardegna e Corsica. La Sardegna (in greco Σαρδώ, Sardò) e la Corsica (Κύρνος,
Kýrnos),[1] furono annesse, sottraendole alla dominazione punica. I buoni
rapporti che intercorrevano tra le popolazioni locali e i Cartaginesi,
contrapposti ad un regime di conquista introdotto dai Romani, determinarono una
serie di rivolte (in Sardegna. in Corsica) e un'incompleta pacificazione in
particolare delle tribù dell'interno, con continue azioni, considerate
brigantaggio dai Romani. L'intera provincia era governata da un
pretore(attestato a partire dal 227 a.C.), con capoluogo a Carales (Cagliari),
in Sardegna. Probabilmente l'intero territorio della Sardegna fu
considerato ager publicus populi Romani e sottoposto all'esazione di una
decima, a cui potevano aggiungersi altre requisizioni e si ritiene che ad un
regime simile sia stata sottoposta anche la Corsica. Di una certa importanza
era la produzione di grano della Sardegna mentre altre esportazioni erano
costituite dal sugheroe da prodotti della pastorizia e dalle saline. La
proprietà terriera mantenne in Sardegna il carattere di latifondo, già impostato
sotto la dominazione punica. La situazione della provincia rimase
marginale con una scarsa romanizzazione, soprattutto dovuta alla presenza dei
reparti militari, e con una forte permanenza della cultura locale. Una prima
consistente immigrazione si ebbe nel I secolo a.C. in seguito alle proscrizioni
delle guerre civili. Durante il periodo della guerra civile tra Mario e Silla
vi vennero dedotte in Corsica le colonie di Mariana (presso Biguglia) e di
Aleria. Dopo la morte di Silla, vi riparò Marco Emilio Lepido, che in seguito,
sconfitto dal governatore Gaio Valerio Triario, si spostò in Spagna con alcuni
seguaci. Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo la provincia fu
abbandonata dai pompeiani, ma le diverse città accolsero diversamente le truppe
cesariane e furono di conseguenza punite o ricompensate. Cesare fondò la
colonia di Turris Libisonis (Porto Torres, sulla costa settentrionale) e
attribuì a Carales lo stato di municipio. Parallelamente, in funzione del loro
appoggio, a diversi influenti personaggi locali era stata concessa la
cittadinanza romana. La romanizzazione non si estese tuttavia mai del tutto
nell'interno delle due isole. Con la riforma augustea nel 27 a.C. la
provincia divenne senatoria, ma nel 6 d.C., la necessità di mantenervi un presidio
armato contro il persistere del brigantaggio indusse lo stesso Augusto a
passarla a provincia imperiale. Fu amministrata sempre da un praefectus
Sardiniae a partire da Tiberio, e da Claudio al titolo principale di praefectus
Sardiniae fu aggiunto l'attributo procurator Augusti. Passò a varie riprese da
senatoria, governata da un propretore, a imperiale, a seconda delle necessità
contingenti. La provincia fu occupata da alcuni latifondi di proprietà
imperiale e interessata dallo sfruttamento delle minieree fu spesso utilizzata
come luogo di confino (per esempio per Seneca). Storia delle due isole
romaneModifica Il Mediterraneo occidentale nel 348 a.C. al tempo del
secondo trattato tra Roma e Cartagine. Frattanto gli Etruschi subiscono
l'attacco dei Galli e di Roma Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Storia della Sardegna, Storia della Corsica e Trattati
Roma-Cartagine. Sembra che il primo serio interessamento di Roma alla Corsica
si ricavi da un testo di argomento insospettabile: è infatti in Teofrasto, il
botanico greco, che si legge di una spedizione romana in Corsica finalizzata
alla fondazione di una città. Le 25 navi della spedizione incorsero però in un
inatteso inconveniente, rovinandosi le vele con la selvaggia e gigantesca
vegetazione, i cui rami crescevano e si sporgevano dai golfi e dalle insenature
dell'isola sino a lacerarle irrimediabilmente; e, per completare il disastro,
la zattera che caricava 50 vele di ricambio affondò con tutto il carico[5]. La
spedizione sarebbe avvenuta intorno al IV secolo a.C., a questo periodo infatti
diversi studiosi, fra i quali il Pais[6], riferiscono il brano del
botanico. Fallita la prima spedizione, non era cessata l'attenzione
dell'Urbe per il mare e le due isole. Per questo interesse giunse anche,
all'incirca nel 348 a.C.[7], a stipulare due trattati con Cartagine, entrambi
riguardanti Sardegna e Corsica; ma se rispetto alla prima isola i passaggi dei
trattati sono ben chiari[8], i patti sulla seconda sono tutt'altro che nitidi,
al punto che Servio osserva che in foederibus cautum est ut Corsica esset medio
inter Romanos et Carthaginienses[9]. Anche Polibio, narrando dei trattati[10],
non menziona la Corsica e da questo silenzio, insieme al fatto che l'isola non
figurava nemmeno nelle descrizioni dei territori a controllo cartaginese, il
Pais ed altri dedussero che la facoltà di controllarla che tempo prima
Cartagine aveva pattuito con gli Etruschi, si fosse da questi trasmessa a
Roma[6]. Tuttavia lo stesso Pais ricorda, per converso, che Cartagine non aveva
mai rinunziato a mire sull'intero Mediterraneo, e che riponeva nella Corsica un
interesse specifico, giacché a partire dal 480 a.C.ne assoldava periodicamente
fidati mercenari; questa circostanza, unita ad una facile riflessione
sull'importanza strategica di un'isola a vista, anzi dirimpettaia delle rive
liguri, toscane e laziali, punto quindi di osservazione e di attacco, parrebbe
smentire l'ipotesi di un disinteressamento di Cartagine come causa del silenzio
dei trattati[6]. L'occupazioneModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Prima guerra punica. Dopo lo scoppio della prima
guerra punica nel 264 a.C., il console romano Lucio Cornelio Scipione nel 259
sbarcò in Corsica presso lo stagno di Diana[11], a circa 3 km da Aleria, e
assediò la città; sebbene l'invasore contasse sull'effetto sorpresa,
Aleriaresistette a lungo e dopo la capitolazione Scipione la fece saccheggiare
con ferocia, ciò che secondo Floroavrebbe diffuso lo sgomento fra le
popolazioni corse[12]. Prima di aver consolidato l'occupazione della Corsica,
Scipione passò in Sardegna dove secondo Giovanni Zonara i locali erano in
rivolta contro Roma in quanto sobillati dal generale cartaginese Annone[13].
Sulla rivolta non vi sono dubbi, ma sono state espresse perplessità a proposito
dell'asserita fomentazione cartaginese, ad esempio il Dyson definì l'asserzione
di Zonara a cryptic passage.[14]. A ogni buon conto, Scipione uccise Annone[15]
e ne organizzò il funerale. Al suo rientro a Roma, il console celebrò il
trionfo[17] per la vittoria su Cartaginesi, Sardi e Corsi. Le
Bocche di Bonifacio che separano le due isole L'anno successivo, nel 258 a.C.,
Gaio Sulpicio Patercolo sbarcò nella zona di Sulci in Sardegna, ma nei venti
anni che seguirono non sono riportate attività dell'esercito Romano in
Sardegna. La pace lasciò così l'isola sotto l'egemonia di Cartagine, anche
perché la suddivisione del Mediterraneo in sfere d'influenza aveva portato i
Cartaginesi, una volta persa la Sicilia, a spostare la propria attenzione verso
altre zone al di fuori della sfera d'influenza Romana. Ma in quello stesso
anno, seguendo l'esempio dei commilitoni d'Africa, i mercenari stanziati da
Cartagine in Sardegna si ribellarono e s'impadronirono del potere nell'isola,
compiendovi ogni sorta di efferatezze finché i Sardi, esasperati, insorsero e
li cacciarono dalla loro terra. L'orda dei sanguinari invasori si rifugiò
allora in Italia dove invitò i Romani a prendere possesso della Sardegna,
momentaneamente indifesa. L'invito fu accolto: Roma, cogliendo l'occasione dei
preparativi punici per la rioccupazione dell'isola, accusò Cartagine di
preparare l'invasione del Lazio e, nel 238 a.C., inviò le sue legioni in
Sardegna. Cartagine, che non era allora in condizioni di intraprendere una
nuova guerra contro Roma, subì il sopruso. Il senato romano dichiarò
guerra ai Corsi[18] ed inviò una spedizione di conquista guidata da Licinio
Varo, non coerente con l'avvenuta occupazione dell'isola attestata in alcuni
storici romani[19]. Il comandante Varo, comunque, conscio dell'esiguità della
flotta assegnatagli, fece precedere l'attacco principale da un'operazione
decentrata meno impegnativa, onde fiaccare le difese corse, facendo sbarcare
sull'isola un corpo separato di spedizione al comando dell'ex console Marco
Claudio Clinea. Prima di questa operazione, Clinea aveva già compromesso la sua
reputazione presso i Romani, avendo osato andare in battaglia contro l'avviso
degli àuguri[20] e avendo pure commesso un sacrilegio consistente nell'avere (o
aver fatto) strangolare dei galli sacri; ansioso di riguadagnare prestigio,
egli mosse da solo contro il nemico e ne fu sconfitto.I Focei lo obbligarono a
siglare un umiliante trattato presto sconfessato da Varo, che lo ignorò o lo
infranse, a seconda dei punti di osservazione, e attaccò quando gli avversari,
i quali dopo la firma del trattato non si attendevano un attacco e avevano
quindi smobilitato.[21]. Varo li vinse facilmente e conquistò territori nella
parte meridionale dell'isola; poi tornò a Roma dove chiese la celebrazione del
trionfo, che gli fu però negato. Quanto allo strangolatore di galli, Clinea,
Roma decise di lasciarlo in mano ai Corsi presumendo che lo avrebbero ucciso
per esser in qualche modo venuto meno (con l'attacco guidato da Varo) al
trattato sottoscritto, ma questi lo liberarono ed anzi lo rinviarono a Roma
indenne; il Senato tuttavia non cambiò idea e, dopo averlo riportato in città,
lo condannò a morte, inducendo Valerio Massimo a chiosare che hic quidem
Senatus animadversionem meruerat[21]. Le tribù Nuragiche (XVII-II
secolo a.C.). Le prime rivolteModifica Così come i Corsi, anche le popolazioni
sarde che se in precedenza avevano finito con l'accettare la presenza dei
Cartaginesi collaborando parzialmente con loro, ora non erano affatto disposte
a subire il dominio di questa nuova gente, anch'essa venuta d'oltremare con le
armi in pugno, ed intrapresero subito un'accanita resistenza all'invasore nei
modi di una ostinata e persistente guerriglia. Essi infatti erano armati alla
leggera: utilizzavano le pelli di muflonecome corazze naturali, oltre ad un
piccolo scudo ed una piccola spada.[1] Già nel 236 infatti, due anni dopo
la conquista da parte romana del centro sardo-punico della Sardegna, i Romani
condussero varie operazioni militari contro i Sardi che rifiutavano di
sottomettersi. Nel 235, sobillati dai Cartaginesi che "agivano
segretamente", i Sardi si ribellarono, ma la rivolta fu soffocata nel
sangue da Manlio Torquato, che avrebbe celebrato il trionfo sui Sardi il 10
marzo del 234. Nel 233 altre rivolte furono sanguinosamente represse dal
Console Carvilio Massimo, il cui trionfo sarebbe stato celebrato il 1º aprile
dello stesso anno. Nel 232fu il console Manio Pomponio a sconfiggere i Sardi ed
a ricevere gli onori del trionfo il 15 marzo. La resistenza, però, era ben
lungi dall'essere stata sedata ed anzi il clima si fece rovente. Sempre nel 233
a.C. i consoli Marco Emilio Lepido e Publicio Malleolo, di ritorno da una
spedizione in Sardegna in cui avevano razziato dei villaggi, furono costretti
da una tempesta a prendere terra in Corsica; gli abitanti li assalirono,
massacrarono i soldati e li depredarono del bottino sardo[13]. Il Senato di
Roma inviò allora nell'isola il console Caio Papirio Maso, il quale dopo una
serie di buoni successi nelle zone costiere, si diede ad inseguire i corsi (per
Roma "i ribelli") sulle montagne. Qui i padroni di casa ebbero
facilmente la meglio, dovendo il romano fare i conti anche con la scarsità di
rifornimenti e perdendo uomini, oltre che per le azioni militari, anche per la
denutrizione delle sue truppe[22]. Papirio fu costretto ad una resa e
sottoscrisse un altro trattato i cui dettagli non sono noti, ma che assicurò un
buon periodo di pace.[13][23] In seguito Roma completò l'occupazione della
Corsica durante la prima guerra punica, dando l'avvio ad una fase di
dominazione che durò ininterrotta per circa sette secoli. Nel 231, data
la grave situazione di pericolo, furono inviati addirittura due eserciti
consolari: uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone, e uno, guidato da
Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non ottennero il trionfo, dati
i risultati fallimentari conseguiti. E a poco valse a Papirio Masone celebrare
di sua iniziativa il trionfo, negatogli dal senato, sul monte Albano anziché
sul Campidoglio e con una corona di mirto anziché di alloro. La provincia
di Sardegna e CorsicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Lista dei pretori di Sardegna e Corsica. Nel 226 e 225 si
verificò una recrudescenza dei moti, ma ormai Roma era fortemente intenzionata
ad assicurarsi il dominio del Mar Mediterraneo, e dunque il possesso della
Sardegna e della Corsica, che continuavano ad essere di decisiva importanza;
così, già dal 227, le due isole (perlomeno le parti controllate da Roma)
ottennero la forma giuridica ed il rango di Provincia - la seconda dopo la
Sicilia - e vi fu inviato il pretore Marco Valerio Levino (?) per
governarla[24]. Per domare gli ultimi focolai, stavolta fu inviato l'esperto
Console Gaio Atilio Regolo, con 2 legioni, ai primi di maggio del 225
a.C. La rivolta sarda di Ampsicora e gli anni della guerra
AnnibalicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Seconda guerra punica. Mappa della rivolta di Ampsicora in
Sardegna (215 a.C.) Verso la fine del 216 a.C. giunse a Roma una lettera del
propretore Aulo Cornelio Mammula, il quale si lamentava del fatto che non erano
stati corrisposti gli stipendia ai suoi soldati di stanza nell'isola, e che vi
erano gravi carenze di approvvigionamenti di grano. Allo stesso fu risposto di
dover provvedere con i propri mezzi, poiché al momento non vi era alcuna
possibilità di soddisfare tali richieste.[25] In assoluto, la più
importante rivolta dei Sardi fu quella del 215 a.C., scoppiata all'indomani
delle grandi vittorie di Annibale in Italia. Livio sostiene che: «[...]
l'animo dei Sardi era stanco della lunga durata del dominio romano, spietato ed
avido [...]; erano stati oppressi da pesanti tributi e con ingiuste imposizioni
di rifornimenti di frumento.» (Livio) Il nuovo pretore inviato
nell'isola, Quinto Mucio Scevola, si ammalò probabilmente di malaria dalla
descrizione che ne fece Tito Livio.[26] E quando si venne a sapere della sua
malattia a Roma, gli vennero inviati dei rinforzi (pari a 5.000 fanti e 400
cavalieri), posti sotto il comando di Tito Manlio Torquato.[27] Un
autorevole esponente dell'aristocrazia terriera sardo-punica, quell'Amsicora (o
Ampsicora) che Tito Livio definì: «qui tum auctoritate atque opibus longe
primis erat» (colui il quale in quel tempo era largamente primo per autorità e
per ricchezze), era infatti riuscito non solo a mettere in campo un esercito
sardo abbastanza consistente, ma anche ad ottenere rinforzi militari da
Cartagine, inviandovi ambasciatori in segreto. Secondo alcune fonti insieme ad
Amsicora a condurre la rivolta si trovava pure Annone, un ricco cittadino
punico di Tharros[28]. Cartagine sostenne la rivolta inviando una flotta forte
di 15.000 armati, sotto il comando di Asdrubale il Calvo.[28][29] Il piano di
Amsicora era quello di dare battaglia solo quando tutte le forze disponibili si
fossero riunite. Per continuare il reclutamento tra i sardi dell'interno,
lasciò il comando al figlio Iosto a Cornus con una parte dell'esercito. I
rinforzi di Cartagine però non arrivarono in tempo per colpa di una tempesta
che dirottò le navi sulle isole Baleari dove rimase per molto tempo per essere
riparata;[30] e i Sardi dell'interno indugiarono troppo prima di unirsi al suo
gruppo. Iosto accettò imprudentemente la battaglia offerta dal comandante
Manlio Torquato. L'esercito sardo fu sconfitto subendo la perdita di 3.000
soldati, 800 furono fatti prigionieri[28]. Asdrubale il Calvo intanto
raggiunse la Sardegna, sbarcò a Tharros e respinse i Romani verso Caralis[31].
A loro si unì Amsicora con il resto dell'esercito sardo. Lo scontro con i
Romani avvenne nella piana del Campidano meridionale, tra Decimomannu e
Sestu[28]. Dopo una cruenta battaglia la coalizione sardo-punica fu duramente
sconfitta, morirono 12.000 tra Sardi e Cartaginesi e 3.700 furono fatti
prigionieri fra i quali Asdrubale il Calvo ed Annone[28]. Iosto morì in
battaglia. Amsicora affranto dal dolore per la morte del figlio, non volendo
finire nelle mani dei Romani si uccise[28]. Alla fine dell'estate del 210
a.C., una flotta cartaginesedi 40 navi, comandata da Amilcare apparve davanti
alla città di Olbia, situata nella costa nordest della Sardegna e la
devastò;[32] poi quando apparve il pretore Manlio Vulsone con l'esercito, il
comandante cartaginese si affrettò ad allontanarsi fino a raggiungere Caralis
(Cagliari), che saccheggiò e da lì fece ritorno in Africa con un ingente
bottino.[33] Le rivolte del II secoloModifica Romania e Barbaria Il
II secolo a.C. fu, specialmente nella sua prima parte, un periodo di importanti
fermenti insurrezionali. Nel 181 a.C. ci fu una rivolta dei Corsi, sedata nel
sangue dal pretore Marco Pinario Posca, che ne uccise circa 2.000 e fece un
certo numero di schiavi[34]. Nel 173 a.C. una nuova rivolta fece intervenire
Attilio Servato, pretore in Sardegna, che fu battuto e costretto a ripararsi
sull'altra isola[35]; Attilio chiese rinforzi a Roma, questa inviò Caio Cicerio
che, dopo aver fatto voto a Giunone Moneta di erigerle un tempio in caso di
successo, ottenne un nuovo sanguinoso successo, con 7.000 corsi uccisi e 1.700
fatti schiavi[36]. Nel 163 a.C. a domare una nuova rivolta fu invece Marcus
Juventhius Thalna, delle cui gesta non è stato tramandato. Oltre al silenzio
letterario sulla spedizione, colpiscono due aspetti anche più singolari del
poco che ne è stato tramandato: il primo è che dopo aver avuto notizia del
successo il senato romano indisse delle preghiere pubbliche, il secondo è che
saputo a sua volta di quanto importante fosse stato considerato il suo
successo, Thalna ne trasse tanta emozione da addirittura morirne[37]. Morto
Thalna, la ribellione dovette riprendere immediatamente, sostiene il
Colonna[21], poiché Valerio Massimo, pur senza parlare di altre rivolte,
segnala che dalla Sardegna dovette allungarsi sull'isola corsa anche Scipione
Nasica a completare la pacificazione; circa la complessiva azione romana di
repressione delle insurrezioni, lo stesso Colonna suggerisce inoltre che in
nessun caso debba essersi trattato di successi pieni poiché, oltre che al
primo, a nessun altro condottiero fu poi più concesso il trionfo[21]. La
resistenza dei Sardi si protrasse ancora nel II secolo a.C. Per sedare la
ribellione dei Balari e degli Iliesi del 177/176 a.C., il Senato inviò il
console Tiberio Sempronio Gracco al comando di due legioni di 5.200 fanti
ciascuna, più 300 cavalieri, cui si associarono altri 1.200 fanti e 600
cavalieri fra alleati e Latini. In questa rivolta persero la vita 27.000 sardi
(12.000 nel 177 e 15.000 nel 176); in seguito alla sconfitta, a queste comunità
fu raddoppiato il gravame delle tasse, mentre Gracco ottenne il trionfo. Tito
Livio documenta l'iscrizione nel tempio della dea Mater Matuta, a Roma, dove i
vincitori esposero una lapide celebrativa che diceva:« Sotto il comando e gli
auspici del console Tiberio Sempronio Gracco, la legione e l'esercito del
popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa provincia furono uccisi o
catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo
Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro
l'esercito sano e salvo e ricco di bottino; per la seconda volta entrò a Roma
trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a
Giove.» La Sardegna in epoca romana aveva appena 1/5 dei suoi abitanti attuali
(300.000 contro 1.600.000 attuali) e la Barbagia (più o meno la provincia di
Nuoro) poteva avere allora appena 55 000 abitanti (1/5 dei suoi attuali
280.000). Se l'epigrafe raccontava il vero, i Romani avevano ucciso la metà
degli abitanti, per di più tutti maschi e adulti[31]. Le rivolte dei
Sardi non si erano concluse, ma bisognò attendere gli anni 163 e 162 a.C. per
vederne di nuove (13-14 anni dopo lo sterminio compiuto da Sempronio
Gracco)[28]. Non si sa molto su queste rivolte poiché andarono perduti i testi
di Tito Livio successivi al 167. Si sa però da altre fonti che le sollevazioni
causate dall'eccessiva pressione fiscale dei pretori romani continuarono e gli
eserciti e i generali romani che si susseguirono nel compito di domare questa
terra utilizzarono sempre la stessa strategia: eliminare il maggior numero di
Sardi possibile. Tra le ultime rivolte di una qualche importanza vanno
citate quelle del 126 e del 122: quest'ultima permise a Lucio Aurelio di
celebrare l'8 dicembre il penultimo trionfo romano sui Sardi. L'onore però
dell'ultimo fu dato dal Senato al console Marco Cecilio Metello che nel 111
a.C., dopo 127 anni di lotta, sconfisse l'ultima resistenza dei Sardi uniti
(quelli delle coste e dell'interno)[38]. Da questo momento, i Sardi delle zone
costiere e delle pianure dell'Isola smisero di ribellarsi e col passare del
tempo si romanizzarono. Continuarono invece le ribellioni delle seguenti tribù
dell'interno che costrinsero le guarnigioni romane a estenuanti campagne
militari. Ilienses (siti tra il Marghine ed il Goceano) Balari (abitanti
il Monteacuto e parte della Gallurameridionale) Corsi (ubicati nella estremità
settentrionale della Sardegna) Olea - "Sardi Pelliti" o Aichilensens
(così definiti dall'erudito geografo Tolomeo, dal greco aix, aigòsovvero
vestiti di pelli di capra), abitanti la regione del Montiferru: arroccati nelle
fortezze di sa Pattada Cunzada (959 m) - Scano di Montiferro -, Badde Urbara
(900 m) - Santu Lussurgiu -, nei nuraghi di Leari (850 m), su Crastu de sa Chessa
(745 m), Funtana de Giannas (690 m) - Scano di Montiferro - , Silbanis e Monte
Urtigu (1050 m) - Santu Lussurgiu Celsitani, Nurritani, Cunusitani, Galillensi
(odierna Barbagia), Parati, Sossinati e Acconiti (nel Monte Albo e nei Monti
Remule) costituenti la cosiddette Civitates Barbariae, dimoranti nell'area
chiamata Barbària e probabilmente facenti parte dell'etnia degli Ilienses[39].
In queste epoche, un gran numero di Sardi che erano stati fatti prigionieri
furono venduti come schiavi nei mercati di Roma, al punto che divenne
proverbiale la frase di Livio: "sardi venales" (sardi a basso
costo). Mario fondò in Corsica la città di Mariana (Colonia Mariana a
Caio Mario deducta), sita presso l'attuale comune di Lucciana verso la foce del
Golo, nel 105 a.C. Da questo momento iniziò la colonizzazione vera e propria e
sull'isola fiorirono ville rustiche e suburbane, villaggi e insediamenti di
ogni tipo, incluse le terme di Orezza e Guagno. Le Guerre SocialiModifica
Durante le guerre civili romane la Sardegna fu dapprima spinta verso la fazione
mariana dal suo governatore Quinto Antonio e poco dopo indotta a schierarsi nel
campo opposto dal sopraggiungere del rappresentante di Silla. Nell'81 a.C.
furono i legionari di Silla a trovare in Corsica il luogo di pensionamento,
stavolta presso Aleria. Morto Silla, il pretore Caio Valerio Triario
mantenne la Sardegna fedele al partito senatorio capeggiato da Pompeo (l'isola
pagò a quest'ultimo un enorme tributo in acciaio per le armi del suo esercito
nel 47 a.C.), finché Carales (Cagliari) non si schierò con Cesare, imitata poco
dopo da tutto il resto dell'isola. Fu scacciato il luogotenente di Pompeo,
Marco Cotta, e fu accolto favorevolmente quello di Cesare, Quinto Valerio Orca.
I pompeiani non si diedero per vinti e iniziarono una serie di azioni
guerresche intese alla riconquista delle città costiere. Sulci si arrese mentre
Carales resistette: per questo motivo, Cesare punì la prima e premiò la
seconda[40]. La situazione si capovolse di nuovo nel 44 a.C., quando la
Sardegna, assegnata ad Ottaviano, e invece occupata da SESTO POMPEO MAGNO che
la tenne come preziosa base per la sua lotta contro i cesariani fino al 38
a.C., quando, tradito dal suo luogotenente, fu definitivamente soppiantato da
Ottaviano nel possesso dell'isola. Con quella data finalmente ebbe
termine per la Sardegna il periodo delle lotte violente e dei bruschi
sovvertimenti politici, con le loro funeste conseguenze economiche, durato
esattamente duecento anni. Nel 44 a.C. Diodoro Siculo visitò la Corsica e
notò che i còrsi osservavano tra loro regole di giustizia e di umanità che
valutò più evolute di quelle di altri popoli barbari; ne stimò il numero in
circa 30.000 e riferì che essi erano dediti alla pastorizia e che marchiavano
le greggi lasciate libere al pascolo. La tradizione della proprietà comune
delle terre comunali non fu eradicata del tutto se non nella seconda metà del
XIX secolo. I primi due secoli dell'ImperoModifica Busto di
Augusto, museo archeologico nazionale di Cagliari Il 13 gennaio del 27 a.C. le
province dell'Impero romano furono ripartite tra le province affidate
all'Imperatore Augusto, governate da legati di rango senatorio, e province
affidate al senato, tra cui la Sardegna e Corsica[41], governate da proconsoli
(proconsules) di rango senatorio . Anche nelle province senatorie l'Imperatore
aveva suoi rappresentanti di rango equestre detti procuratori
(procuratores) Presso Aleria e Mariana si approntarono basi secondarie
della flotta imperiale di Miseno. I marinai còrsi arruolati presso i porti
dell'isola furono tra i primi a ottenere la cittadinanza romana (sotto
Vespasiano, nel 75). Analogamente a quanto avveniva in altre province, i Romani
si guadagnarono il rispetto e la collaborazione dei capi locali (a cominciare
dai Venacini, tribù del Capo Corso), riconoscendo loro funzioni di governo
locale ed apportando ricchezza con la messa a profitto delle terre sfruttabili
in collina e lungo le coste. Nel 6 d.C. i Sardi si ribellarono, non solo
all'interno ma anche nelle pianure, e manifestarono il loro malcontento
unendosi ai pirati del Tirreno[41]. La violenza di questa rivolta costrinse
Augusto a rimuovere i senatori dal comando della Sardegna ed a prenderne lui
stesso il controllo diretto[41]. Fu inviato un distaccamento di legionari,
comandati da un prolegato (al posto del legato) di rango equestre[41] o da un
prefetto, a rinforzare la presenza militare sull'isola che prima era affidata
solo ad alcune coorti ausiliarie. La rivolta fu così violenta che alcuni
storici hanno ipotizzato che la Sardegna e la Corsica fossero state divise e
affidate a 2 governatori di pari grado indipendenti l'uno dall'altro; è infatti
attestata l'esistenza di un praefectus corsicae. Più accreditata è però
l'ipotesi che vuole che questo prefetto di Corsica fosse un subordinato del
governatore della Sardegna. Svetonio ci dice che Augusto visitò tutte le
province tranne la Sardegna e l'Africa poiché le condizioni del mare non glielo
permisero, mentre quando il mare non glielo impediva non c'era bisogno che
partisse: questo fa capire che la rivolta pur essendo violenta non durò molto.
Infatti nel 19 Tiberio sostituì il distaccamento di legionari con 4000 liberti
(o figli di liberti) ebrei. La situazione ritornò tranquilla e Claudio ridette
il comando al senato. Nerone mandò in esilio in Sardegna Aniceto, ex
precettore dell'imperatore ed ex prefetto della flotta di Miseno. Aniceto, su
istigazione di Nerone ne aveva ucciso la madre, Agrippina e qualche anno dopo,
per spianare la strada a Poppea "confessò" una relazione con Claudia
Ottavia moglie legittima di Nerone e fanciulla di specchiata virtù[41].
La Tavola di Esterzili risalente al 69, durante regno di Otone, e
riportante un decreto del Proconsole della Sardegna Lucio Elvio Agrippa atto a dirimere
una controversia tra i Gallilensi e i coloni Patulcenses Campani Probabilmente
per evitare fughe di notizie o ricatti Aniceto fu spedito in Sardegna dove
visse fra gli agi al sicuro anche da eventuali sicari
dell'imperatore.[42]Seneca, il tutore di Nerone, passò dieci anni in esilio in
Corsica a partire dal 41[41]. Nel 73 Vespasiano, tolse al senato il
controllo della Sardegna - forse di nuovo in fermento - e la affidò a un
procuratore[43]. L'imperatore Traiano tra il 115 e il 117ristrutturò e potenziò
il centro di Aquae Hypsitanaeche assunse in suo onore il nome di Forum
Traiani[43]. Il II secolo fu un momento di sviluppo e di prosperità anche
per la Sardegna: tutti gli abitanti, anche i barbaricini, si mostravano
contenti della politica romana (almeno secondo la storiografia ufficiale) e ben
presto tutta l'isola avrebbe parlato latino (la lingua dei Cartaginesi è
attestata fino al principato di Marco Aurelio). In questo periodo non ci furono
rivolte ed i Romani ebbero la possibilità di ricostruire e migliorare la rete
stradale punica spingendola anche all'interno, costruirono terme, anfiteatri,
ponti, acquedotti, colonie e monumenti. La ricchezza della Sardegna era
dovuta ad uno sfruttamento agricolo e minerario senza precedenti: l'isola
infatti esportava piombo, ferro, acciaio e argento grazie alle sue miniere, e
grano per 250.000 persone. Ma nonostante tutto la Sardegna venne sempre
considerata, e non solo sotto i Romani, come una terra lontana e utile solo per
isolare prigionieri e nemici dell'impero. Tra le varie persone che giunsero in
Sardegna dal mare vi erano numerosi criminali, rivoluzionari ma anche
tantissimi cristiani tra cui anche i papi Callisto (174) e papa Ponziano (235)
e il famoso prete Ippolito[44]. I governatori, in questa fase, sembravano
di fatto dei coordinatori manageriali, con esperienza nel rifornimento e nel
trasporto del grano, più che uomini d'arme. Sappiamo ora con certezza che, nel
170, la Sardegna era sotto il controllo senatoriale. Se Ippolito è preciso
nella sua terminologia, il governatore della provincia era chiamato procurator.
Questi governatori (procuratori) gestirono il territorio in modo pacifico fino
al 211, ma dopo, come del resto in tutto l'impero, riprese il malcontento della
popolazione, che costrinse i governatori a reprimere le rivolte con l'uso della
forza, nei casi più gravi. Gli ultimi tre secoli dell'ImperoModifica Nel
226 la situazione era cambiata rispetto a quella del secolo precedente; i
governatori erano quasi tutti militari ed alcuni, come Tizio Licinio Hierocle e
Publio Sallustio Sempronio, erano anche uomini con esperienze di guerra. Il
malcontento andò aumentando poiché le tasse erano alte, il latifondo si
diffondeva e gli agricoltori erano sempre più legati alla terra. Il fatto che
nel 212 grazie a Caracalla i Sardi e i Corsi, come tutti gli abitanti
dell'Impero, avessero ottenuto la cittadinanza romana[44], passò in secondo
piano poiché questo onore era in concreto legato a tasse aggiuntive. Tra
il 245 e il 248, durante il regno di Filippo l'Arabo, fu intrapresa la
ristrutturazione e risistemazione dell'impianto viario della provincia che
cominciò con Publio Elio Valente e continuò anche durante il breve regno di
Emiliano[45]. Ricordiamo, inoltre, di numerosi martiri del periodo. San
Simplicio, San Gavino, San Saturnino, San Lussorio e Sant'Efisio in
Sardegna[46] mentre Santa Devota (martire attorno al 202, persecuzione di
Settimio Severo, o al 304, persecuzione di Diocleziano) è, assieme a santa
Giulia, una delle prime sante còrse di cui si sia avuta notizia. Secondo la
leggenda, la nave che ne trasportava il feretro verso l'Africa fu gettata da
una tempesta sul litorale monegasco. Per questo sarebbe divenuta la patrona del
Principato di Monaco e della famiglia Grimaldi. Santa Giulia (martire durante la
persecuzione di Deciodel 250, o quella di Diocleziano), è la patrona di Corsica
e di Brescia, città dove riposano le sue reliquie dopo che vi fu fatta
trasportare da Ansa, moglie del re longobardo Desiderio nel 762. Santa Giulia è
patrona anche di Livorno, dove le spoglie della santa avrebbero fatto tappa
provenendo dalla Corsica. A queste martiri se ne aggiunge un'intera schiera,
tra i quali san Parteo, che fu forse il primo vescovo di Corsica. Il primo
vescovo còrso di cui si abbia notizia certa è Catonus Corsicanus, che
partecipò, così come il vescovo di Caralis Quintinasio[45], al Concilio di
Arlesindetto da Costantino I nel 314. I domini dei Vandali attorno
al 456, dopo la conquista di Sardegna e Corsica. Nel 286 Diocleziano unì la
provincia alla Dioecesis Italiciana[47]. Dopo la divisione della diocesi
attuata da Costantino, venne compresa nell'Italia Suburbicaria. Sardegna
e Corsica rimasero sotto Roma per tutto il convulso IV secolo e i primi decenni
del V (nell'impero romano d'Occidente), fino a quando nel 456 i Vandali, di
ritorno dalla penisola, dove avevano saccheggiato Roma, en passant le
conquistarono e le annessero al loro regno. Ma vinsero solo sulle coste, poiché
i Sardi dell'interno, ormai pratici, immediatamente si ribellarono ai Vandali
impedendo loro di entrare nella loro zona. Aleria, in Corsica, fu saccheggiata
e, abbandonata, finì in rovina, lo stesso destino toccò ad Olbia. La
parte romanizzata della Sardegna, grazie ad un certo Goda, che era un
governatore vandalo dell'isola di origine gotica, dopo essersi ribellato al
potere centrale nel 533 resistette per un certo periodo ai Vandali assumendo il
titolo di "Rex"[48]. Difesa ed esercitoModifica I Sardi
entrarono anche a far parte dell'esercito romano dando il loro modesto
contributo ovunque vi fossero truppe; infatti, per quanto riguarda i legionari,
non essendo un'isola molto popolata, e dato che i cittadini non avevano avuto
la cittadinanza (ottenuta dopo la riforma di Caracalla), il numero fu sempre
bassissimo ed entra nelle statistiche solo nell'epoca successiva ad
Adriano. Per quanto riguarda gli ausiliari, i Sardi fornirono (come isola
Sardegna) 3 coorti, mentre come provincia (Sardegna e Corsica) 6 coorti, 3 per
ciascuna isola con un numero maggiore dei Sardi sui Corsi. La
"Cohors I Sardorum" era probabilmente stanziata a Cagliari nei primi
tre secoli d.C., mentre la "Cohors II Sardorum" fondata al tempo di
Adriano, era stanziata a Sur Djuab, a circa 100 km a sud di Algeri. Il
riscatto della Sardegna avvenne con la flotta; infatti i Sardi erano la prima
fonte di reclutamento occidentale della flotta di Miseno. Considerando invece
tutto l'impero, l'isola diventa la quarta fonte di reclutamento della stessa
flotta, battuta soltanto dalle province d'Egitto, d'Asia e della Tracia che
avevano una popolazione molto più grande. Geografia politica ed
economicaModifica Corsica Strabone, che scrisse durante il principato di
Augustoe Tiberio, descriveva la Corsica come un'isola scarsamente abitata, con
un territorio sassoso e per lo più impraticabile.[1] I suoi abitanti
risultavano ancora dei selvaggi che vivevano di rapine.[1] «Quando i
generali romani vi fanno incursioni e [...] prendono una gran parte della
popolazione, rendendola schiava, che poi la si trova a Roma, fa meraviglia per
quanto in loro vi sia di bestiale e selvaggio. E questi o non riescono a
sopravvivere, o se rimangono in vita, logorano talmente i loro proprietari per
la loro apatia, che questi si pentono [di averli acquistati], anche se li hanno
pagati poco.» (Strabone, Geografia, V, 2, 7.) Sardegna Strabone descrive
la Sardegna come un territorio roccioso e non ancora del tutto pacificato. Essa
possiede un territorio interno molto fertile di ogni prodotto, in particolare
di grano.[1] Purtuttavia, così come nei confronti delle popolazioni corse,
anche di quelle sarde le fonti romane (a differenza dei miti greci[49]) non
riportano generalmente una buona opinione. (LA) «A Poenis admixto
Afrorum genere Sardi non deducti in Sardiniam atque ibi constituti, sed
amandati et repudiati coloni.» (IT) «Dai Punici, mescolati con la
stirpe africana, sorsero i Sardi che non furono dei coloni liberamente recatisi
e stabilitisi in Sardegna, ma solo il rifiuto di cui ci si
sbarazza[50][51].» (Cicerone, Pro M. Scauro, 42) Il passaggio dei Romani
lasciò numerose tracce nella geografia della Sardegna per l'importante opera di
mappatura del territorio, del quale si ebbero le prime serie catalogazioni, ed
ovviamente nella toponomastica, di cui parte non è stata ancora soppiantata
nonostante il tempo trascorso. Le Bocche di Bonifacio, che separano la Sardegna
dalla Corsica, erano un tratto di mare molto temuto dai romani per via delle
correnti che potevano far affondare le loro navi ed erano dette Fretum
Gallicum. L'isola dell'Asinara, famosa per il carcere chiuso solo pochi anni
fa, era detta Herculis mentre le isole di San Pietroe di Sant'Antioco erano
dette rispettivamente Accipitrum la prima e Plumbaria la seconda; Capo Teulada,
la punta meridionale dell'isola era chiamata Chersonesum Promontorium mentre
Punta Falcone, l'opposto settentrionale di Capo Teulada, era detta Gorditanum
Promontorium; l'attuale fiume Tirso era chiamato Thyrsus. Le
antiche tribù còrse e le principali città e strade in epoca Romana. Maggiori
centri provinciali e tribù autoctoneModifica Corsica Prima Strabone[1] e poi,
intorno al 150, il geografoClaudio Tolomeo, nella sua opera cartografica, offrì
una descrizione piuttosto accurata della Corsica preromana, elencando: 8
fiumi principali, tra i quali il Govola-Golo e il Rhotamus-Tavignano; 32 centri
abitati e porti, tra i quali Blesino,[1]Centurinon (Centuri), Charax,[1]
Canelate (Punta di Cannelle), Clunion (Meria), Enicomiae,[1]
Marianon(Bonifacio), Portus Syracusanus (Porto Vecchio), Alista (Santa Lucia di
Porto Vecchio), Philonios(Favone), Mariana, Vapanes[1] e Aleria; 12 tribù
autoctone (in greco, latino e loro localizzazione): Kerouinoi (Cervini,
Balagna); Tarabenoi (Tarabeni, Cinarca); Titianoi (Titiani, Valinco); Belatonoi
(Belatoni, Sartenese); Ouanakinoi (Venacini, Capo Corso); Kilebensioi
(Cilebensi, Nebbio); Likninoi (Licinini, Niolo); Opinoi (Opini, Castagniccia,
Bozio); Simbroi (Sumbri, Venaco); Koumanesoi (Cumanesi, Fiumorbo); Soubasanoi
(Subasani, Carbini e Levie); Makrinoi (Macrini, Casinca). Sardegna Plinio ci
informa che "In essa (la Sardegna), i più celebri (sono): tra i popoli,
gli Iliei, i Balari e i Corsi"[52]; vengono inoltre menzionati più volte
altri popoli minori come i Parati, i Sossinati e gli Aconiti, che secondo gli
storici romani abitavano nelle caverne e depredavano i prodotti degli altri
Sardi che lavoravano la terra e che con le loro navi si spingevano fino alle
coste dell'Etruria per depredarla.[1] Tuttavia bisogna tener presente che
i luoghi abitati da questi popoli minori videro molti secoli prima dell'arrivo
dei Romani il fiorire della civiltà Nuragica, come in tutto il resto della
Sardegna, l'apparente arretratezza di tali popoli fu probabilmente dovuta alle
grosse perdite subite contro Cartaginesi e soprattutto contro i Romani, che
portarono alla relegazione di alcune popolazioni ribelli nei monti interni,
creando una divisione tra i Sardi abitatori di città e di villaggi nelle
pianure e nelle coste e i Sardi montanari che in gran parte si
"imbarbarirono" e si diedero al banditismo. Sempre i Romani,
nei secoli in cui dominarono la Sardegna, fondarono alcune nuove città come
Turris Libisonis (oggi Porto Torres) e fecero sviluppare molti centri abitati
soprattutto nelle coste, come Carales,[1]Olbia, Fanum Carisii (oggi Orosei), Nora
e Tharros, ma anche nell'interno, come Forum Traiani (oggi Fordongianus), Forum
Augusti (oggi Austis), Valentia (oggi Nuragus),Colonia Julia Uselis (oggi
Usellus), ed infine elevarono diverse città al rango di municipio.
BithiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Bithia (sito archeologico). BonorvaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Bonorva. Il generale sabaudo Alberto La Marmora,
in esplorazione presso San Simeone di Bonorva, aveva identificato un forte
romano che era stato dimenticato per tutto questo tempo. Il Tetti indica in
realtà che si trattava di una fortificazione punica, che era stata occupata dai
romani. Nulla però dimostra una presenza militare in questo luogo per i primi
secoli dell'Impero romano. BosaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Bosa. L'anfiteatro romano di
Cagliari. Colonna nella Villa di Tigellio. CagliariModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia di Cagliari.
Cagliari (Carales o Karalis[1]) era la città più importante della Sardegna. Il
fatto che da qui partissero ben quattro strade che attraversavano l'intera
isola dal sud al nord, la circostanza che il suo porto fosse un centro strategico
importante per le rotte commerciali del Mediterraneo occidentale (che
oltretutto ospitava un distaccamento della flotta di Miseno ed era il porto dal
quale partiva il grano per l'approvvigionamento di Roma) e che la sua
popolazione fosse all'incirca di 20.000 abitanti, rendeva Carales una tra le
più importanti città marittime della zona occidentale dell'Impero romano.
La zona abitata si sviluppava sulla costa per circa 300 ettari, il centro di
questa città era il foro, dove sorgevano numerosi edifici come la curia
municipale, l'archivio provinciale, la sede del governatore, la basilica, il
tempio di Giove Capitolino. La città fu interessata da una serie di interventi
edilizi di pubblica utilità come la realizzazione di una complessa rete fognaria
e la pavimentazione di strade e piazze, la costruzione di un acquedotto (nel
140 d.C.) che molto probabilmente prendeva l'acqua dalla sorgente di
Villamassargia e, attraverso Siliqua, Decimo, Assemini, Elmas, arrivava in
città passando per il quartiere di Stampace. Nel I secolo d.C. la città
fu dotata di eleganti passeggiate coperte da portici mentre nel II secolod.C.
fu costruito l'anfiteatro, ancora utilizzato per gli spettacoli al giorno
d'oggi, semi-scavato nella roccia, che poteva ospitare fino a 10.000 persone.
Il titolo di municipium fu ottenuto solo sul finire del I secolo a.C.; era un
titolo importante perché le consentiva di essere una città autonoma con
cittadinanza romana. Per quanto riguarda le differenze tra i vari
quartieri, quelli signorili sorgevano nel territorio a nord di Sant'Avendrace e
nell'area di San Lucifero; al loro interno sorgevano le terme, i templi, alcuni
teatri e numerose ricche abitazioni; i quartieri mercantili si trovavano nella
zona della Marina e i quartieri popolari vicino al porto, fra l'odierna via
Roma e il Corso Vittorio Emanuele. Claudio Claudiano, nel IV secolo,
descrisse così la città di Caralis: «Caralis, si distende in lunghezza ed
insinua fra le onde un piccolo colle che frange i venti opposti. Nel mezzo del
mare si forma un porto ed in un ampio riparo , protetto da tutti i venti , si
placano le acque lagunari» (Claudio Claudiano, I,520) CalangianusModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Calangiani.
Nell'attuale Calangianus è identificato l'oppidum di Calangiani o Calonianus,
citato nella Geographia del Fara. Oltre alle diverse tracce di strada romana
per Olbia e Tibula, sono state ritrovate rovine dell'oppidum nei pressi di
Monti Biancu e della località Santa Margherita, un busto di Demetra a Monti di
Deu ed un'anfora all'interno del nuraghe Agnu. Inoltre, il toponimo deriverebbe
dalla divinità Giano, il cui culto era molto diffuso in Sardegna.
CornusModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Cornus (Sardegna). FordongianusModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Fordongianus. Fordongianus, Forum Traiani, si trova
oggi in provincia di Oristano ed è particolarmente importante per la sua
posizione geografica che lo vede incuneato tra i monti della Valle del Tirso,
naturale via di penetrazione dalla pianura all'entroterra e punto di contatto
tra i due diversi mondi. Fin dalla sua fondazione fu un centro rinomato per le
sue terme, che sfruttavano una fonte naturale di acqua calda e curativa.
Qui si trova un'iscrizione che testimonia come l'attività delle genti della
Barbaria fosse ancora viva nel I secolod.C. poiché furono queste a dedicare
un'iscrizione ad un imperatore, probabilmente Tiberio, rinvenuta nel Forum Traiani.
Terme del Forum Traiani Come già accennato in precedenza, tra le
motivazioni originarie dell'insediamento, si pone la presenza di una fonte
d'acqua naturalmente calda e curativa. Sfruttando la fonte sorse, proprio
presso il fiume, un vasto edificio termale (che costituisce oggi il nucleo
dell'attuale area archeologica) caratterizzato da una grande piscina, in
origine coperta, in cui giungono le acque calde temperate con un'aggiunta di
acqua fredda. L'aspetto curativo delle terme è sottolineato dal rinvenimento di
due statue del dio Bes, divinità legata ai culti salutiferi, e la loro
importanza è messa in evidenza dalla recente scoperta di un piccolo spazio
sacro dedicato alle ninfe, divinità delle acque. In un'area vicina
all'attuale centro abitato è stato rinvenuto l'anfiteatro, vicino alla
necropoli tardo-antica sulla quale fu edificata nell'XI secolo la chiesa di San
Lussorio. MamoiadaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Mamoiada. Mamoiada (o Mamujada) era probabilmente uno
stanziamento militare romano nell'isola, infatti diversi studiosi moderni sono
propensi a far derivare il suo nome da mansio manubiata (stazione vigilata,
sorvegliata). Altra prova a favore di questa ipotesi è il nome del quartiere
più antico della città "su Qastru" (dal lat. castrum, campo
fortificato, accampamento militare). Mamoiada in effetti si trova in una
zona centrale e quindi strategica della Barbagia, e precisamente al centro
della cerchia dei seguenti villaggi: Orgosolo, Fonni, Gavoi, Lodine, Ollolai,
Olzai, Sarule ed Orani, e dunque questa sua posizione strategica non poteva non
essere sfruttata dalle truppe romane nelle loro azioni di sorveglianza e di
repressione. MacomerModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Macomer. Fondata tra il VI e il V secolo a.C. dai
Punici Macopsissa costituiva un importante centro per il controllo del
territorio. La sua importanza aumentò durante il periodo romano, divenendo un
importante snodo fra Calares e Turris Libisonis. Macomer era un importante nodo
della rete viaria creata dai Romani sull'Isola. Meana SardoModifica Anche
Meana Sardo, villaggio della Barbagia, era probabilmente un presidio romano
poiché il suo nome potrebbe derivare da mansio mediana (stazione mediana o
intermedia) di una tra le più importanti arterie stradali romani nell'isola
quella che da Carales porta a Olbia. Meana si trova esattamente a metà
strada di quel lungo tracciato ed anche a metà strada tra la costa orientale e
quella occidentale della Sardegna. MetallaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Metalla. NeapolisModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Neapolis (Sardegna).
NoraModifica Rovine di Nora Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Nora (Italia). Il preesistente abitato punico non ha
condizionato in maniera particolare l'assetto urbano di epoca romana. I Romani
hanno effettuato infatti pesanti interventi per la costruzione di strade,
edifici e aree pubbliche come il teatro e il foro, demolendo i precedenti
edifici, in un piano di forte rinnovamento urbanistico. I Romani modificarono a
tal punto la città probabilmente perché Nora fu la prima sede del governatore
della provincia. Numerose erano le ville e le case dei nobili e della
plebe; degli edifici non rimane molto poiché erano costruiti con zoccolo in
pietra e l'elevato in mattoni crudi. A differenza delle case e delle ville le
strutture pubbliche erano costruite col cemento e rivestite di laterizi o
grossi blocchi di pietra. Le più importanti opere della città erano: il teatro,
costruito in età augustea, e le terme a mare, edificate tra la fine del II e
gli inizi del III secolo d.C. NuoroModifica Sono scarne le notizie sulla
città di Nuoro in epoca romana. Secondo alcuni proprio all'inizio della
dominazione romana la città fu fondata con l'unione di vari gruppi nuragici,
inizialmente legati contro il nemico comunque, successivamente spinti
all'unione dalla possibilità di arricchirsi col commercio dei prodotti
locali. Furono due i primi nuclei cittadini, infatti i primi due gruppi
si insediarono in parti diverse: un gruppo si stanziò nel monte Ortobene,
l'altro nel quartiere di Seuna, l'altro nel quartiere di San Pietro. In seguito
i due gruppi si riunirono dando origine alla vera e propria città. Importante è
anche il fatto che a Nuoro nella zona più ricca dal punto di vista agricolo,
oltre Badu e'Carros, ci fosse un presidio militare. Questa zona infatti si
chiama "Corte", e ricorda molto la Coorte, che nel periodo romano era
un gruppo di soldati. La città ha avuto una grande importanza strategica
poiché è situata proprio al centro della Barbagia, i cui abitanti per secoli si
ribellarono ai Romani prima di essere romanizzati parzialmente. Nuoro sorge
infatti lungo l'antico percorso principale (asse nord-sud) della a
Olbia-Karales per Mediterranea, nello snodo con la via Transversae (la
trasversale mediana) che attraversava la Sardegna lungo un asse est-ovest (con
quattro stazioni nodali negli incroci con le 4 principales: Cornus - Macopsissa
- Nuoro - Dorgali/Orosei). La Trasversale mediana era utilizzata anche per il
trasporto del grano della valle del Tirso verso la costa di Dorgali e Orosei,
per l'imbarco del prodotto destinato al porto di Ostia. Sempre a Nuoro
terminava anche una strada vicinale per l'odierna Benetutti. NureModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Nure (città).
OlbiaModifica Busto di Nerone del 54/55-59 d.C. da Olbia, (museo archeologico
nazionale di Cagliari). Olbia occupò in età romana gli stessi spazi della città
punica fino alle soglie dell'età imperiale. Infatti non pare che durante la
repubblica si siano verificati sostanziali mutamenti nell'assetto urbanistico
che continuò a mantenere, intatto, il primitivo impianto ortogonale dei
fondatori cartaginesi. Successivamente la città si arricchì di opere pubbliche:
vennero lastricate le strade, si edificarono due impianti termali e un
acquedotto, i cui resti sono tuttora visibili a nord della città, e si
rinnovarono alcune strutture templari. Una concubina di Nerone di nome
Atte fece erigere ad Olbia un tempio a Cerere, e grazie all'imperatore ebbe
latifondi nell'agro e fu anche proprietaria di un'officina che fabbricava
laterizi. Busto di Traiano da Olbia, (museo archeologico nazionale
di Cagliari) Il porto, in contatto con i principali scali del Mediterraneo, fu
di primaria importanza nell'ambito della Sardegna settentrionale poiché da qui
partivano per Roma buona parte dei prodotti, soprattutto cerealicoli, del nord
dell'isola che confluivano nella città grazie a tre grandi strade. Per questo
motivo nel 56 a.C., soggiornò nella città Quinto, fratello di Marco Tullio
Cicerone, che controllava i commerci per ordine di Pompeo. La necropoli,
che si estese uniformemente oltre la cinta urbana a occidente della città,
restituì ricchi corredi funerari. In particolare, nell'area della collina oggi
occupata dalla chiesa di San Simplicio (santo qui martirizzato, secondo la
tradizione locale, durante le persecuzioni di Diocleziano), l'utilizzo per le
sepolture avvenne fino a età medioevale e vi si rinvennero preziose oreficerie,
sarcofagi istoriati e iscrizioni. Intorno alla metà del V secolo Olbia fu
saccheggiata dai Vandali come dimostrano gli straordinari ritrovamenti avvenuti
nel 1999 nell'area del porto vecchio. Furono infatti ritrovati 24 relitti di
navi romane e medievali e da questo scavo è stato possibile accertare l'attacco
dei Vandali e il crollo della città anche se l'abitato non fu abbandonato e
rifiorì in età medievale. OschiriModifica Una mattonella o un mattone
trovata a Oschiri porta l'iscrizione COHR P S per "coh(o)r(tis)
p(rimae)" o "p(raetoriae) S(ardorum)", ma non è impossibile che
provenga da Nostra Signora di Castro poiché non è conosciuto bene il modo in
cui è stato scoperto questo mattone. Per il resto il luogo non ha nulla che
faccia pensare ad una presenza militare romana. OthocaModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Santa Giusta (Italia).
Porto TorresModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Colonia Iulia Turris Libisonis. Mosaico dell'Orfeo
Presumibilmente il sostantivo con cui veniva identificata la città, in epoca
romana, era Turris Libysonis. Questo lo si deduce grazie a Plinio il Vecchio,
il quale, nella sua Naturalis Historia(nel I secolo d.C.) cita "Colonia
autem una que vocatur ad turrem libisonis", letteralmente; "mentre
v'è (in Sardegna) una sola colonia romana, presso la torre di libiso".
Tale scrittura fa pensare ad un riferimento artificiale, probabilmente una
torre nuragica (Nuraghe). È invece grazie all'anonimo Ravennate che si evince
lo status dell'insediamento, il quale sostiene; "Turris Librisonis colonia
Iulia", da che si nota l'aggettivo Iulia, dovuto verosimilmente a Giulio
Cesare, probabile fondatore della colonia, durante il viaggio di ritorno
dall'Africa o ad Ottaviano delegatore di un tale, Marco Lurio, che potrebbe
aver fondato la colonia intorno al 42\40 a.C. Statua romana da Porto
Torres Oltre a ciò l'importanza del centro, nell'isola, era notevole,
paragonabile solo a quella di Carales. L'importanza politica è deducibile dalla
"Passio Sanctorum Martyrum Gavini Proti et Jianuarii", nel quale si
esterna la presenza di una residenza del governatore della provincia romana,
tale Barbaro. L'importanza economica invece è palese dalle rovine
restanti, terme imponenti è una impressionante maglia urbana, il centro per
altro era in comunicazione diretta con Roma, tant'è vero che nella Ostia antica,
si trova un mosaico che riporta "Naviculari Turritani", riconducibile
ai commercianti di Turris. Infatti le esportazioni di cereali erano notevoli,
grazie alla grande pianura della Nurra, in diretta comunicazione con la colonia
mediante il "ponte romano" (costruzione più imponente del suo genere
nell'intera provincia), sovrastante il fiume Riu Mannu, che tra le altre cose
era utilizzato come via alternativa per i traffici con l'interno dell'isola, si
ipotizza la presenza di un porto fluviale, oltre a quello marittimo. Ma oltre
alle esportazioni cerealicole, erano massicce anche quelle minerali, e salini,
provenienti dai vicini siti. cosa particolare era la presenza del culto di
Iside. Altre prove storiche sono dovute a Cicerone in una sua lettera la
chiama "Collina" ma, visti i ritrovamenti archeologici trovati,
possiamo affermare con sicurezza che Turris Libisonis non fu per Roma solo una
collina. Non è un caso che la città continuò ad esistere nei secoli successivi
tenendo inalterata la sua importanza strategica al centro del mediterraneo. Di
importante interesse non architettonico non fu solo il ponte romano e le terme
fortemente mosaicate ma anche le strade: in alcuni tratti l'attuale Strada
statale 131 Carlo Felice risulta affiancata dalla vecchia strada romana, che
seguiva il medesimo percorso fra i due poli dell'isola. Quartu
Sant'ElenaModifica Il termine Quarto, ai tempi dei romani, stava a indicare la
distanza in miglia che separava l'antico insediamento quartese da Cagliari.
Infatti distava 4 miglia romane da Carales. È stata da sempre una meta ambita,
viste le possibilità che offriva, grazie ad un'economia agricola stabile e
fruttuosa integrata alla pesca e alla caccia. SarcaposModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sarcapos. SassariModifica
Nonostante la città di Sassari sia stata fondata in periodo Medioevale, il suo
territorio conserva ricche testimonianze d'epoca romana, a partire da opere
infrastrutturali di rilievo come i resti della strada che collegava Cagliari a
Porto Torres e le rovine dell'acquedotto romano che serviva la colonia romana
di Turris. L'area ricca di vegetazione e sorgenti, era un luogo amato
dalle famiglie patrizie della vicina colonia di Porto Torres, per cui oggi sono
presenti nel territorio le rovine di alcune residenze d'epoca romana, la più
famosa delle quali situata nei sotterranei della cattedrale di San Nicola,
molti edifici medioevali sono stati costruiti riutilizzando materiali
provenienti da abitazioni romane, le colonne presenti nel piazzale del
santuario di San Pietro di Silki, provengono da un tempio romano smantellato
che sorgeva nella zona. Sulci (Sant'Antioco)Modifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sulki. Statua di Druso
minore da Sulci del I secolo d.C. Tharros In epoca romana Sulci continuò
a fiorire sino a diventare, a detta del geografo greco Strabone, la città più
florida della Sardegna romana insieme a Caralis[1]. Lo sfruttamento dei bacini
minerari dell'Iglesiente, dove pare sorgesse l'insediamento di Metalla[53], non
era infatti cessato, e con esso l'intenso traffico nel porto sulcitano: di qui
l'appellativo dell'antica Sulci "Insula plumbea". La città dovette
disporre di ingenti risorse finanziarie se all'epoca della guerra civile tra
Cesare e Pompeo (I sec. a.C.) poté pagare una multa di circa 10 milioni di
sesterzi inflittale da parte di Cesare, giunto nel frattempo nell'antipompeiana
Caralis. Sulci si riprese ben presto dallo smacco subito, forte anche
della floridezza del suo porto e dunque della sua economia, sino quando,
intorno al I sec. d.C., sotto Claudio, fu riabilitata sul piano politico e
elevata al rango di Municipium[54]. Secondo il Bellieni, la città tra
tarda Repubblica e prima fase imperiale doveva essere popolata da circa 10.000
persone, cifra effettivamente plausibile se si tiene conto della popolazione
media nei centri italiani di età augustea calcolata dal Beloch[55].
L'antico centro romano sorgeva, come si può desumere facilmente ancora oggi
prestando attenzione alla disposizione degli assi viari maggiori e minori,
nell'area comprendente le attuali vie Garibaldi, XX Settembre, Mazzini,
Eleonora d'Arborea, Cavour, in località detta "Su Narboni". Qui, e
precisamente all'incrocio tra le attuali via XX Settembre e Eleonora d'Arborea
(presumibilmente nell'area dove sorgeva il foro, non ancora localizzato), si
trova un mausoleo noto come Sa Presonedda o Sa Tribuna databile al I sec. a.C.,
grosso modo coevo al ponte romano, situato in corrispondenza dell'istmo, e al
tempio d'Iside e Serapide le cui rovine non sono oggi più apprezzabili.
TharrosModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Tharros. TibulaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Tibula. UsellusModifica Usellus godette di grande splendore
soprattutto nel periodo romano. Fu nel II secolo a.C. che venne fondata
l'antica "Colonia Julia Uselis" il cui centro si trovava molto
probabilmente sopra al colle di Donigala (Santa Reparata) non lontano da quello
attuale. Venne fondata soprattutto come baluardo militare per contrastare
le continue incursioni dei mai domi barbaricini dell'interno dell'isola. Poté
usufruire dello splendore di Roma che la innalzò dapprima a municipium e poi la
elesse Colonia Julia Augusta sotto l'Imperatore Cesare Augusto, in onore della
propria figlia Giulia ed eleggendo nel contempo i propri abitanti a
"cives". Quinto Cicerone, fratello di Marco Tullio, vi fu
Pretore. Quest'ultimo stato giuridico è accertato nella Geografia di Tolomeo ed
in una preziosissima tavola di bronzo dell'anno 158 d.C., come si desume dal
nome dei consoli, contenente un decreto d'ospitalità e clientela, riguardante
l'antica Usellus. La città doveva estendersi per circa sette ettari ed i
suoi fertili terreni vennero assegnati ai veterani delle guerre. In questo
periodo Uselis sfruttando la sua favorevole posizione geografica subì
un'importante evoluzione economica e militare divenendo centro nevralgico di
un'intensa attività economica e crocevia dell'importante rete viaria che la
metteva in comunicazione a sud con Aquae Neapolitanae (terme di Sardara), a
nord con Forum Traiani e una terza via la univa a Neapolis, vicino alla costa
occidentale. Nel suo territorio sono ancora presenti due ponti romani, ci
cui uno in ottimo stato di conservazione, lunghi tratti dell'importante via di
comunicazione e resti delle imponenti mura che la cingevano. Risorse
economiche provincialiModifica Mosaici concernenti i
"Navicularii et negotiantes Karalitani" e i "Navicularii
Turritani" dal piazzale delle corporazioni di Ostia antica. Il
commercioModifica La Sardegna si integrò nel sistema economico e commerciale
dell'Impero soprattutto per quanto riguarda il commercio del grano, del sale,
del legname e dei metalli grazie ad ottimi porti quali Olbia, Tibula, Turris
Libisonis (Porto Torres), Cornus, Tharros, Sulci (Sant'Antioco) e
Carales. L'importanza di questi porti è testimoniata da due mosaici
trovati ad Ostia con la menzione dei "navicularii Turritani e Calaritani",
mercanti marittimi di Porto Torres e Cagliari. Soprattutto in età imperiale la
Sardegna divenne una tappa obbligatoria per i viaggi dalla penisola all'Africa
e alle Mauretanie. L'agricolturaModifica L'agricoltura era diffusa
nell'isola soprattutto nelle aree pianeggianti e in particolar modo nella
pianura del Campidano nella parte meridionale della Sardegna. Il grano era
prodotto in quantità tali che solo quello che si esportava bastava a sfamare
250.000 persone. Per questo motivo la Sardegna, durante la repubblica, assunse
il titolo di "granaio di Roma". Si dice che la quantità di
grano preso dai Romani dalla Sardegna non solo bastò per riempire tutti i
granai dell'Urbe, ma per contenerlo tutto se ne dovettero costruire di nuovi.
La coltivazione di cereali era sviluppata in particolar modo nella parte
settentrionale, mentre quella dell'ulivo e della vite era diffusa in tutta
l'isola. L'allevamentoModifica L'allevamento per esportazioni era
un'attività economica diffusa in tutta la Sardegna. Tra suini, bovini e ovini
(in particolare i mufloni[1]) solo i primi erano venduti in buone quantità al
resto dell'impero. Gli ovini erano importanti per la lana e i latticini che i
sardi pelliti dell'interno vendevano a Roma; infatti la pastorizia era una
pratica molto diffusa nella parte centrale della Sardegna. Sappiamo con
certezza che i popoli dell'interno, grazie a questa pratica, furono in grado di
arricchirsi trasformando la pastorizia da attività di sussistenza ad attività
d'esportazione. L'estrazione minerariaModifica (LA) «India ebore,
argento Sardinia, Attica melle» (IT) «L'India è famosa per
l'avorio, la Sardegna per l'argento, l'Attica per il miele.» (Archita)
Importante era anche l'estrazione mineraria, diffusa in tutta la Sardegna.
Argento e piombo erano estratti nelle miniere dell'Iglesiente in quantità tali
da far scendere il costo di questi metalli in tutto l'impero; veniva cavato
anche il ferro e il rame, quest'ultimo dai giacimenti nei pressi di Gadoni[53].
Per l'estrazione non erano usati solo schiavi di guerra ma anche personaggi
scomodi nel campo della politica o per la religione da essi professata.
La pietra e il granito erano invece estratti nell'interno e lungo le coste. La
pietra che gli isolani avevano sempre utilizzato per la costruzione dei nuraghi
e dei loro templi megalitici era ora destinata ad arricchire gli edifici dei
ricchi Romani. Ancora oggi, sulle isole della Marmorata e lungo le spiagge di
Santa Teresa di Gallura, nella parte nord-orientale dell'isola, non è difficile
imbattersi in blocchi "tagliati" con regolarità oppure in frammenti
di colonne, sfuggiti ai numerosi carichi fatti dai Romani durante tutto il
periodo della loro dominazione, durato quasi settecento anni. Non era facile
infatti imbarcare sulle navi da carico i blocchi di pietra nei tratti di mare
antistanti i promontori rocciosi. Le correnti e le condizioni atmosferiche
provocavano spesso dei naufragi o costringevano i marinai a liberarsi dei
pesanti carichi per evitare che le imbarcazioni affondassero. Principali vie
di comunicazioneModifica Le principali città e strade della Sardegna in
epoca Romana. Quando i Romani iniziarono la conquista della Sardegna vi
trovarono già una rete stradale punica; questa però collegava tra loro solo
alcuni centri costieri, tralasciando completamente la parte interna; d'inverno
era impraticabile a causa delle piogge e i Romani furono quindi costretti a
costruirne una nuova che si sovrapponeva a quella precedente solo
parzialmente. Antica strada romana Nora-Bithiae I Romani costruirono
4 grandi arterie stradali: 2 lungo le coste e 2 interne. Le viae principales
erano le cosiddette strade antoniniane, tutte con direzione nord-sud.
Ricordandole in ordine da est a ovest: la litoranea occidentale (a
Tibulas-Karales), da Carales(Cagliari) a Turris Libisonis (Porto Torres); la
interna occidentale (a Turre-Karales); la interna orientale (a Olbia-Karales
per Mediterranea); la litoranea orientale (a Tibulas-Karales), da Carales a
Olbia.[56] A questa ossatura longitudinale si congiungevano sia le
"Viae Transversae" come la Cornus-Macopsissa-Nuoro-Orosei e molte
altre strade più modeste (vicinali) che collegavano i piccoli centri
dell'interno tra loro e con le più grandi città costiere. Questo sistema di
comunicazione era molto efficiente e creò le condizioni favorevoli alla
penetrazione culturale romana presso le popolazioni locali. La rete
stradale, inizialmente costruita per motivi militari, fu poi mantenuta e
continuamente restaurata per motivi economici; grazie a questa, infatti, i
Sardi dell'interno vendevano i loro prodotti ai commercianti romani che
provvedevano poi a spedirli nei più grandi porti del mediterraneo occidentale.
La rete stradale romana è stata talmente efficace e costruita in zone
strategiche che alcune strade sono utilizzate ancora oggi; ne è un esempio la
statale Carlo Felice. In epoca Antonina si perfezionarono le vie di
comunicazione interne della Corsica (strada Aleria-Aiacium e, sulla costa Est,
Aleria-Mantinum - poi Bastia - a Nord e Aleria-Marianum - poi Bonifacio - a
Sud): l'isola era pressoché completamente latinizzata, salvo qualche enclave
montana. Arte e architettura provincialeModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Arte provinciale romana. La
religioneModifica Il tempio di Antas, nei pressi di Fluminimaggiore I
Romani, come è noto, permettevano una certa libertà di culto[57]; questo
consentì alle popolazioni interne di continuare a praticare le loro religioni
preistoriche di ispirazione naturalistica, ed a quelle delle coste la religione
punica con tutti i suoi dei (Tanit, Demetra e Sid, ribattezzato Sardus Pater
dai Romani, venerato nel Tempio di Antas); ma col passare del tempo trovarono
spazio anche i culti di Giove e Giunone poi soppiantati dal
Cristianesimo. Sappiamo che alcune divinità, come un demone brutto ma
benefico rappresentato come il Dio Bes (divinità egiziana assimilata nel
pantheon cartaginese), vennero associate ad alcuni Dei Romani (in questo caso
ad Esculapio, divinità salutare romana). In età romana era diffuso a
Carales, Sulci e Turris Libisonis il Culto di Iside, costantemente associato ad
una cospicua presenza mercantile. Lingua e romanizzazioneModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua
paleosarda, Lingua sarda, Lingua paleocorsa, Lingua corsa e Romanizzazione
(storia). La Sardegna, fortemente punicizzata, fu interessata da un processo di
latinizzazione, ma le zone interne restarono a lungo ostili ai nuovi
dominatori, come d'altronde lo furono in passato nei confronti dei cartaginesi.
L'opera di romanizzazione, affidata al latino, fu completata con l'introduzione
delle divinità, dei sacerdozi, e dei culti tipicamente romani. Le aree più
intensamente romanizzate furono quelle costiere dedite alla coltura dei cereali
(Romània), mentre nell'interno montuoso rimase fortemente radicata la cultura
indigena (Barbària). La lingua delle genti sarde, così, subì profonde
trasformazioni con l'introduzione del latino che, soprattutto nelle zone
interne, penetrò lentamente ma, alla fine, si radicò a tal punto che il sardo è
quella cui più aderisce; in particolare, si ritiene che nella zona
centro-settentrionale la variante parlatasia quella maggiormente affine per la
pronuncia. Nonostante questo, c'è da dire che il latino non si diffuse subito:
è ancora presente un'iscrizione risalente al regno di Marco Aurelio (fine II
secolo) in punico e, se questa era la situazione quando si scriveva, è
possibile che nell'ambito familiare la lingua dei Cartaginesi fosse ancora
abbastanza diffusa. Interessante è il fatto che, a volte, si trovino delle
ceramiche riportanti il nome del proprietario in latino scritto con caratteri
punici. Sembra accertato che la Corsica fu anch'essa romanizzata e
colonizzata dai Romani soprattutto per mezzo delle distribuzioni di terre a
veterani provenienti dall'Italia meridionale - o dai soldati provenienti dagli
stessi strati sociali ed etnici cui furono similmente assegnate terre
soprattutto in Sicilia - il che aiuterebbe a spiegare alcune affinità
linguistiche riscontrabili ancor oggi tra còrso meridionale e dialetti
siculo-calabri. Secondo altre ipotesi, più recenti, gli influssi linguistici
potrebbero essere dovuti a migrazioni più tarde, risalenti all'arrivo di
profughi dall'Africa tra il VII e l'VIII secolo. La stessa ondata migratoria
sarebbe approdata anche in Sicilia e in Calabria. NoteModifica Strabone,
Geografia, V, 2,7. ^ AE 1971, 123; AE 1973, 276 dell'epoca di Massimino Trace.
^ AE 1992, 891 di epoca Traianea o Adrianea; AE 1991, 908 forse di epoca
Antonina; AE 2001, 1112 sotto gli Imperatori Caracalla e Geta; AE2002, 637 al
tempo di Filippo l'Arabo. ^ AE 1971, 122. ^ Teofrasto, Hist. plant., V 8, 2. ^
a b c Ettore Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio
romano, Nardecchia editore, 1923 ^ Datazione approssimata secondo le cronologie
di Tito Livio e Diodoro Siculo ^ Ad esempio sull'espresso divieto imposto ai
Romani di fondare città in Sardegna ed in Africa ^ Servio, Ad Aen., IV 628 ^
Polibio, I 24, 7 ^ questo era l'antico porto della cittadina, citato da Tolomeo
^ Florus, Epist. Liv., 89 ^ a b c Giovanni Zonara, Epitome, libro VIII ^ S.L.
Dyson, Comparative Studies in the Archaeology of Colonialism, 1985; anche,
dello stesso autore, The Creation of the Roman Frontier, 1985 ^ Oros. IV 1: hostibus
se immiscuit ibique interfectus est. ^ Valerio Massimo, V 1, 2 - Sil. Ital., VI
669 ^ 11 marzo 259 - Scipione eresse inoltre un tempio di ringraziamento alla
dea Tempestas, che Ovidio (Fasti, VI 193) celebra così: Te quoque, Tempestas
merita delubra fatemur / Cum paene est Corsis obruta classis aquis ^ Fra le
numerose fonti, Valerio Massimo, Tito Livio, Ammiano Marcellino e poi Zonara. ^
Nei Fasti trionfali si registra il trionfo di Scipione come L. CORNELIVS L.F.
CN.N. SCIPIO COS. DE POENEIS ET SARDIN[IA], CORSICA V ID. MART. AN. CDXCIV ^ Il
risultato della battaglia non è noto ^ a b c d e Pierre Paul Raoul Colonna de
Cesari-Rocca, Histoire de la Corse, Boyle, 1890 ^ Valerio Massimo, III, 65 ^
Anche in Plinio, Nat.Hist., libro XIV ^ Ettore Pais, p.70. ^ Livio, XXIII,
21.4-5. ^ Livio, XXIII, 34.11. ^ Livio, XXIII, 34.12-15. ^ a b c d e f g
Francesco Cesare Casùla, p.104. ^ Livio, XXIII, 32.7-12. ^ Livio, XXIII, 34.17.
^ a b Francesco Cesare Casùla, p.107. ^ Livio, XXVII, 6.13. ^ Livio, XXVII,
6.14. ^ Tito Livio, XL 43 ^ Tito Livio, XLI 21 ^ Tito Livio, XLII 7 ^ Vaerio
Massimo, IX 12 - Plinio, Nat.Hist., libro VII ^ Ettore Pais, p.73. ^ Raimondo
Zucca, Le Civitates Barbariae e l'occupazione militare della Sardegna: aspetti
e confronti con l'Africa ^ Francesco Cesare Casùla, p.108. ^ a b c d e f Ettore
Pais, pp. 76-77. ^ cfr.Tacito, Annali, XIII, BUR, Milano, 1994. trad.: B. Ceva.
^ a b Francesco Cesare Casula, p.116. ^ a b Ettore Pais, p.81. ^ a b Attilio
Mastino, Cronologia della Sardegna Romana ^ Francesco Cesare Casula, p.119. ^
Ettore Pais, p.82. ^ Ettore Pais, p.86. ^ Mastino, Attilio (2005). Storia della
Sardegna antica, Il Maestrale, pp.15-16. ^ Mastino, Attilio (2005). Storia
della Sardegna antica, Il Maestrale, pp.82. ^ Attilio Mastino, Natione Sardus:
una mens, unus color, una vox, una natio ( PDF ), su eprints.uniss.it, Rivista
Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizioni Romane. ^ Plinio, Naturalis
Historia, III, 7, 85. ^ a b Francesco Cesare Casùla, p.111. ^ cfr. per es.
F.Cenerini, Sulci romana, in: Sant'Antioco, annali 2008. ^ M.Zaccagnini,
L'isola di Sant'Antioco: ricerche di geografia umana, Fossataro, Cagliari 1972
(integraz. M.T.) ^ Iscrizione M Sardegna 8; MELONI P., La Sardegna romana,
Chiarella, Sassari, 1987, pp. 339-374. ^ Francesco Cesare Casùla, p.114.
BibliografiaModifica Fonti primarie ( GRC ) Appiano di Alessandria, Historia
Romana (Ῥωμαϊκά). (traduzione inglese). ( LA ) Eutropio, Breviarium ab Urbe
condita, vol. III.(testo latino Wikisource-logo.svg e traduzione inglese
Wikisource-logo.svg). Livio, Ab Urbe condita libri. (testo latino
Wikisource-logo.svg e versione inglese Wikisource-logo.svg). Polibio, Storie (Ἰστορίαι).
(traduzione in inglese qui e qui). Strabone, Geografia. (traduzione inglese).
Fonti storiografiche moderne Francesco Cesare Casula La storia di
SardegnaDelfino Editore, Sassari, Storia dei Sardi e della Sardegna, Milano, La
Sardegna romana e altomedievale. Storia e materiali. Sassari, Carlo Delfino, Il
tempo dei Romani. La Sardegna dal III secolo a.C. al V secolo d.C., Nuoro,
Ilisso, Lilliu, La civiltà dei Sardi, Torino, Edizioni ERI, Pais, Storia della
Sardegna e della Corsica durante il periodo romano Edizioni Ilisso, Nuoro.
Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Milano. Attilio Mastino, Storia della Sardegna
antica, Il Maestrale, Piero Meloni, La Sardegna romana, Ed Chiarella,Taramelli,
La Sardegna romana, Istituto di studi romani, Portale Antica Roma
Portale Corsica Portale Sardegna Battaglia di Sulci battaglia
della prima guerra punica Espansione cartaginese in Italia tentativi
espansionistici di Cartagine nelle isole mediterranee di Sicilia e Sardegna
Battaglia di Decimomannu Antonio Delogu. Delogu. Grice: “I wouldn’t consider
Sardegna part of Italy, as Sicily isn’t – they are part of the Italian republic
– the ‘stato’ – but geographically, they are not part of the peninsula – the
Greeks are especially precise about that: “Graecia magna” EXCLUDED Sicily!” The
logo of his review, “Segni e comprensione” is a rebus, in that a few letters
are missing. The idea is that the thing STILL SEGNA the proposition that this
is about signs and comprehension. Keywords: semiotica romana, “segno e
comprensione” s_gn_ e c_mp-rension-“ “segni e comprensioni” le corpori nella
perizia morale, etica comunitaria, etica universale, universalita,
universabilisabile -- -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Delogu” – The Swimming-Pool Library. Delogu
Grice e DemariaL l’implicatura conversazionale degl’organismi
– implicatura dinantorganica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vezza d’Alba). Filosofo. Grice: “Demaria is what we
at Oxford would call a philosophical theologian! And a dynamically realist at
that!” Famoso per numerosi studi sulla tomistica. Frequenta il seminario
di Alba, entrò come aspirante presso i salesiani di Penango Monferrato (Asti).
Continua gli studi nel liceo di Valsalice (Torino). Studia a Roma. Insegna a
Torino e a Roma. Nel corso della sua carriera fu docente di: Storia delle
religioni, Missionologia, Filosofia dell’educazione, Teologia Fondamentale,
Teologia Dogmatica, Dottrina sociale della Chiesa, Sociologia
dell’Educazione. Negli anni cinquanta avviò una feconda condivisione
spirituale, teologica e filosofica con don Paolo Arnaboldi, fondatore del
Fraterno Aiuto Cristiano FAC con l'attivo incoraggiamento di San Giovanni
Calabria. Frequentò assiduamente le sedi del FAC sia a Vezza D'Alba sia a Roma.
Strutturò la sua metafisica realistico organico dinamica. Negli anni
sessanta fonda con Costa il Movimento Ideoprassico Dinontorganico M.I.D., oggi
divenuto l'associazione Nuova Costruttività. Insieme con Arnaboldi fecero opera
di formazione e divulgazione del realismo organico dinamico presso ambienti
imprenditoriali collegati all'U.C.I.D.. Costa strutturò volutamente la grande e
innovativa impresa dell'Interporto di Scrivia (il così detto "porto
secco" di Genova) come applicazione dell'"organico dinamico"
differenziandola dalle imprese tipicamente liberiste. Negli anni settanta
fu il referente culturale delle "Libere Acli" movimento dei lavoratori
cattolici fuoriusciti dalle Acli a seguito della "ipotesi socialista"
che portò alla "sconfessione di Paolo VI" e alla frattura del
movimento. Continuò nell'ambiente dei lavoratori cattolici con la formazione e
la diffusione della "ideoprassi" (modello di sviluppo) "organico
dinamica", una vera ideologia cristiana alternativa a quella liberal
capitalista e a quella marxista comunista. Tommaso Demaria tiene un
seminario sul realismo Dinamico a Verona presso il Centro Toniolo. Intensamente
attivo nella formazione alla nuova cultura cristiana organico dinamica a
Torino, Verona, Vicenza, Roma con corsi, seminari e numerose pubblicazioni. Tra
tutti i corsi tenuti merita una specifica menzione per la testimonianza
documentale completa tramite registrazione video, presso il Centro Toniolo di
Verona su invito di don Gino Oliosi. Proseguì il lavoro di AQUINO (si
veda) e affermava l'incompletezza del tomismo, incapace di cogliere l'organismo
come categoria ontologica a sé stante. L'integrazione della metafisica realista
con l'organismo alla metafisica realistica integrale, strumento di
straordinaria importanza per la vita quotidiana. Lo studio dell'organismo in
quanto tale, in particolare nella sua dimensione di "struttura organica
funzionale", si rivelerà infatti importantissimo per lo studio e lo
sviluppo della società in generale ma in particolare per quella prassi economica
nota col nome di "Sistemi di Qualità" che fa appunto dell'organicità
il proprio fondamento. La possibilità di percepire l'organismo in quanto tale
entità diversa dall'organismo fisico, specifica D., passa attraverso la
percezione dell'ente dinamico. Grande importanza assume l'organicità nella
gestione del sociale perché esso consente di definire con precisione il bisogno
di razionalità dell'umanità che supera le possibilità dell'essenza della persona.
Questa necessaria unità dell'agire della persona nell'umanità che ne perpetua
la presenza, in campo politico/ideoprassico egli stesso la definisce come
comunitarismo all'interno del suo testo "La società
alternativa". L'indagine sui dinamismi profondi della società
industriale e l'osservazione con metodo realistico oggettivo della realtà
storica globale nella sua consistenza ontologica portano Demaria a sviluppare
una metafisica per molti aspetti nuova ed originale. Aderisce al tomismo
e conferma la validità del realismo di Aquino per tutto ciò che è in “rerum
naturae” quindi per gli enti che esistono già in natura. Coglie la necessità di
innestare sul realismo tomista nuovi strumenti metafisici per comprendere la
realtà degli enti che non esistono in natura perché costruiti o generati
dall'uomo, le trasformazioni dell’essenza della persona operata dalla liberà
delle sue scelte, la natura profonda degli enti interumani (famiglia, azienda,
stato, …), l'interpretazione della realtà storica e il suo indirizzamento. Il
cambio d’epoca Individua un cambiamento d’epoca con valore ontologico (che
cambia l’essere, la forma della società) nella rivoluzione industriale che con
l’apporto della energia meccanica a integrazione e sostituzione del lavoro umano
dinamizza la società oltre una soglia mai varcata prima nella storia. La
società dinamizzata dalla rivoluzione industriale giunge a una radicale
trasformazione da “statico sacrale” a “dinamico secolare”. Si tratta di una
trasformazione qualitativa e non solo quantitativa dei cambiamenti sociali che
coinvolge l’”essere” della società. La differenza fondamentale sta in questo:
la società preindustriale (statico sacrale) era dominata dalla natura e in
questo modo ripeteva sempre sé stessa nonostante i cambiamenti fenomenici (la
vita di un romano non era così diversa da quella di un medievale), la società
industriale invece si è in larga parte sganciata dal condizionamento della
natura ed è obbligata a progettare e costruire continuamente il proprio
futuro…. Ma con quali criteri? È a questo livello che interviene l’indagine
metafisica della realtà storica il cui scopo è proprio scoprire l’essenza
profonda della realtà storica appunto. Il realismo dinamico ontologico
Riconosce nel tomismo e nella metafisica di San Tommaso la validità nel
contesto “statico sacrale” ma limiti nella interpretazione della nuova realtà
storica “dinamico secolare”. Osserva che l’interpretazione data alla storia da
Hegel prima e da Marx dopo, sono entrambe errate e ne critica il fondamento soggettivista
e la natura ateo materialista. Integra quindi il tomismo tradizionale
inaugurando la nuova metafisica dinamica ontologica organica fondata sulla
scoperta dell’ente dinamico o anche ente di secondo grado. Dalla osservazione
di ciò che nasce di una relazione umana (entre uomo 1 e uomo 2) scopre che
oltre agli “enti di primo grado”, gli
enti la cui essenza già è (tutti quelli che già sono in natura – uomo 1 e uomo
2), esistono altri “enti di secondo grado”, gli enti la cui essenza non è, ma
si fa attivisticamente nello spazio e nel tempo, e la cui nascita, vita e morte
sono costituite dalla esistenza di una relazione tra le persone (ad esempio il
concetto colletivo di ‘diada’ conversazionale, la famiglia, l’azienda sono enti
inter-umani. Una diada e un “ente dinamico” il cui comportamento è simile a
quello della monada – l’uomo, il soggeto,
un organism – ma la diada non e un ente fisico, ma costituito
dall’insieme di cose e di persone. Una diada e ugualmente animato da un
principio vitale, in cui le due parti (soggeto S1 e soggeto S2) e il tutto (la
diada) sono in reciproco equilibrio che ne genera e ne conserva la vitalità.
Quando viene meno questo reciproco equilibrio tra l’organismo di secondo grado
(la diada) tutto e le sue parti (le membra, gli organi, le cellule – uomo 1 e
uomo 2 – le monade) l’organismo perde la sua vitalità, si ammala e può arrivare
alla morte (e così avviene per la diada, la famiglia, l’azienda, la
comunità). Indaga osservando la realtà con metodo metafisico, realistico,
oggettivo sulle “regole”, sulla “razionalità”, o il razzionale, che sottende la
vita e la vitalità di un “ente dinamico” individuando cinque “trascendentali
dinamici” che sono le caratteristiche necessarie e sufficienti in un “ente
dinamico” per restare vivo e vitalmente operante. Sul fronte della
interpretazione della “storia” osserva che la sua complessità non può essere
indagata con un metodi analitico partendo dalla suddivisione del tutto della
diada nelle sue monade. Serve il metodo della “sintesi” e quindi dalla
sommatoria, aggregazione, integrazione dei singoli “enti dinamici” in realtà e
altri organismi via via più complessi e ampi, giunge al tutto che definisce
come “un ente universale dinamico concreto” senza il quale il singolo ente
dinamico non avrebbe né senso né valore metafisico. Del resto è abbastanza
intuitivo comprendere che nessun ente storico può esistere fuori dal contesto
che l’ha generato. Per esempio una semplice azienda di scarpe non può esistere
nel deserto separata da tutte le vie di comunicazione, dagli operai, dai
clienti, dalle fonti di energia eccetera. Raccoglie e coordina le sue
scoperte nella nuova metafisica realistico-dinamica che aggregata alla
metafisica eealistico-statica di Aquinocostituisce nell’insieme delle due
componenti, la statica e la dinamica, la metafisica realistico-integrale.
Con il nuovo strumento della metafisica realistico-integrale individua la
giusta forma della società che definisce organico dinamica – o “dinontorganica”
-- come vera alternativa alle due forme di società “false”, la capitalista e la
marxista di cui stende una dettagliata critica. Comprende che la nuova
società dinamica secolare avviatasi per l’effetto della rivoluzione industriale,
è costruita in vero dalla ideo-prassi, ossia dalla ideologia come prassi
razionalizzata. Una definizione corrente che sia avvicina al concetto di ideo-prassi
è modello di sviluppo, intendendo con questo la necessità di un cambio di
paradigma strutturale nella costruzione della società. Precisa meglio questa
terminologia chiarendo che il tipo di sviluppo riguarda il cambiamento di
essenza profonda di una società mentre invece il modello riguarda le
innumerevoli e forse infinite varianti all’interno del medesimo tipo che si
devono calare nei concreti ambiti temporali e geografici. Le
“ideoprassi”, cioè i tipi di società, riconosciute da Tommaso Demaria sono tre
(3): capitalista, marxista, “dinontorganica” e queste sono costruite secondo i
rispettivi modelli. Perciò all’interno della società di tipo capitalista avremo
molteplici modelli anche molto diversi tra loro dal punto di vista fenomenico
ma identici dal punto di vista dell’assoluto di riferimento (cioè del tipo), in
questo caso il denaro con la relativa competitività necessaria per
conquistarlo. Analogamente avviene per le altre due ideoprassi: la ideoprassi o
società di tipo marxista, con l’assoluto della dialettica oppresso/oppressore
(la vecchia lotta di classe) e la ideoprassi o società di tipo dinontorganico
con il proprio assoluto costruttivo radicato nella dialettica della sintesi in
funzione della vita. Nella società dinamica secolare, che è laica e
profana, la religione non è più accettata come fondamento. Così anche la persona
libera e sovrana che ha il suo posto nella società statico sacrale non può esistere
in quanto nella società dinamica secolare fin dalla nascita la persona umana
viene continuamente ri-manipolata dalla ideo-prassi corrente (capitalista o
marxista). La persona umana trova la sua giusta collocazione nella società se
riconosce la sua nuova natura di persona cellula, componente libera in un
organismo sociale più grande. Come persona cellula rimane sempre persona umana
libera ma al contempo svincolata dalle logiche servo/padrone, oppresso/oppressore
del marxismo. L’Economia e un tema ampiamente trattato dal Demaria che
individua tre tipi di economia: la capitalista, la marxista/comunista, la economia
dinontorganica. Dopo aver profondamente analizzato e criticato le prime
descrive in dettaglio i fondamenti della economia dinontorganica. Per brevità
riportiamo qui la differenza del concetto di impresa capitalista ed impresa dinontorganica.
L’impresa capitalista è un'attività economica professionalmente organizzata al
fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. Si avvale di un complesso
di beni strumentali, il mezzo concreto (l’azienda): immobili, sedi,
attrezzature, impianti, personale, metodi, procedure, risorse. Si tratta di
“cose” e tra queste anche il personale/forza lavoro. Anima suprema dell’impresa
capitalista è il profitto e secondariamente la creatività imprenditoriale a
servizio del profitto. La socialità dell’impresa diviene un fatto ambientale ed
incidentale innegabile ma secondario. Quindi l’impresa (con la relativa
azienda) capitalista sè una “cosa” ridotta a capitale e lavoro. L’impresa
dinontorganica, la vera natura profonda dell’impresa, è organismo dinamico
economico di base dell’attuale società industriale o postindustriale. E’un vero
organismo dinamico, una realtà complessa, non fisica ma prodotta dall'uomo,
costituita dalla sintesi di cose e di persone autonome e cellule dell’organismo
impresa, animata da un proprio principio vitale e perciò capace di vivere ed
agire a titolo proprio. E’quindi impresa umanissima, affrancata dal
materialismo capitalista. Anima dell’impresa è la costruttività nel suo
triplice aspetto economico, sociale e “ideo-prassico”, che eleva la creatività
al di sopra del solo profitto e che soddisfa ad un tempo la le esigenze della società
globale e della impresa, quali il profitto, comunque necessario ma non
sufficiente. In ambito ecclesiologico le scoperte come da sua frequente
dichiarazione, si collocano nel solco del Magistero della Chiesa Romana
Cattolica. Cinque delle sue saggi, che contengono nell’insieme il corpo della
sua opera, portano impresso l’imprimatur che attesta l’assenza di errori in
ambito di fede e morale cattolica. La scoperta dell’“ente di secondo
grado” (ente generati dalle relazioni tra le persone) e della persona “cellula”
(individuo libero che riconosce di essere parte di un organismo più grande)
sono in analogia scaturite dalla riflessione sull’essere della Chiesa
(l’insieme dei cristiani) in comunione con il corpo mistico di Cristo. Il
cristiano con il battesimo cambia il suo essere e diviene uomo nuovo. Quindi la
persona umana (in questo caso il cristiano) è contemporaneamente “ente di primo
grado (“in rerum naturae”) che ente di secondo grado (ente dinamico) come
membro della Chiesa che costituisce il corpo mistico di Cristo. La Chiesa così
concepita è il primo ente dinamico sacro della storia. Mentre il primo ente
dinamico laico e profano dell’epoca dinamico secolare post rivoluzione
industriale è l’azienda industriale. Pur accogliendo nella sua
“metafisica realistica integrale” (la metafisica realistica “statica” più la
“dinamica”) il tomismo in toto, il suo pensiero genera dispute con i tomisti
classici del tempo che non riconoscono alla Chiesa (e nemmeno alla azienda
industriale ) la natura di “ente di secondo grado” ma unicamente la
caratteristica di “ente di relazione” che per Demaria è insufficiente per
interpretare la complessità della realtà storica industriale e la relativa
mobilitazione. La Dottrina Sociale della Chiesa e L’Ideoprassi Dinontorganica
Alla Dottrina Sociale Della Chiesa riconosce ogni validità. Ne segnala tuttavia
la incompletezza in quanto costituita da norme etiche e morali rivolte
principalmente alla persona libera e sovrana ed atte ad incidere sul suo
comportamento come singolo per migliorare in senso cristiano la società. Rileva
che la società non è più solo costruita dalle norme morali di persone libere e
sovrane ma anche e soprattutto dalla “ideoprassi” (ideologia come prassi
razionalizzata sintesi di persone e strutture) corrente, dal suo dinamismo e
dalle sue razionalità interne autocostruttive proprie della società “dinamica
secolare”. Pertanto per incidere sulla società contemporanea che è “dinamica
secolare”, laica e profana, serve una vera e propria nuova e completa “ideoprassi”,
certamente laica e profana ma compatibile con i valori cristiani cardinali.
All'interno di questa nuova “ideoprassi” Demaria vede inseriti tutti gli
insegnamenti della Dottrina Sociale Cristiana. Da soli e senza una propria
“ideoprassi” tali insegnamenti tendono a generare delle “para-ideologie” che
hanno effetti locali e temporanei. Per ottenere effetti di trasformazione
duraturi ed è necessario avviare azioni che contengano la giusta razionalità e
caratteristiche (i 5 trascendentali dinamici) capaci di innescare cicli
autocostruttivi. Altre opere: “Catechismo missionario” (Torino, SEI, La
Religione, Colle Don Bosco, Elledici); “Il fiume senza ritorno. Dramma
missionario, Colle Don Bosco, Elledici, La pedagogia come scienza dell'azione,
Salesianum, Sintesi sociale cristiana. Metafisica della realtà sociale
(presentazione di Aldo Ellena), Torino, Pontificio Ateneo Salesiano, Senso
cristiano della rivoluzione industriale, Torino, CESPCentro Studi don Minzoni, ca.
Strumento ideologico e rapporto fede-politica nella civiltà industriale,
Torino, CESP Centro Studi don Minzoni, ca. Presupposti dottrinali per la
pastorale e l'apostolato, Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Cristianesimo
e realtà sociale, Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Realismo
dinamico, Torino, Istituto Internazionale Superiore di Pedagogia e Scienze
Religiose, Il Decreto sull'apostolato dei laici: genesi storico-dottrinale,
testo latino e traduzione italiana, esposizione e commento, Torino, Leumann
Elle Di Ci, Catechismo del cristiano apostolo: la Salvezza cristiana, Torino,
Istituto Internazionale Superiore di Pedagogia e Scienze Religiose, Punti
orientativi ideologico-sociali (a cura del Movimento Ideologico Cristiano
Lavoratori), Bologna, Parma, Pensare e agire organico-dinamico, Milano, Centro
Studi Sociali); “Ontologia realistico-dinamica” (Bologna, Costruire); “Metafisica
della realtà storica. La realtà storica come ente dinamico” Bologna, Costruire,
La realtà storica come superorganismo dinamico: dinontorganismo e dinontorganicismo,
Bologna, Costruire, L'edizione Realismo dinamico, Bologna, Costruire, L'ideologia cristiana, Bologna, Costruire, Sintesi
sociale cristiana. Riflessioni sulla realtà sociale, Bologna, Costruire); “La
questione democristiana, Bologna, Costruire, Il Marxismo, Verona, Nuova
Presenza cristiana, Ideologia come prassi razionalizzata, Arbizzano, Il Segno, Per
una nuova cultura, Verona, Nuova Presenza cristiana, La società alternativa,
Verona, Nuova Presenza cristiana, Verso il duemila: per una mobilitazione
giovanile religiosa e ideologica, Verona, Nuova Presenza cristiana, Un tema
complesso sullo sfondo dell'ideologia come strumento ideologico, Verona, Nuova
Presenza cristiana, Confronto sinottico delle tre ideologie. Quarta serie, Roma,
Centro Nazareth, Scritti teologici inediti. Roma, Editrice LAS. Letteratura su
Tommaso Demaria Ugo Sciascia, Per una società nuova:inizio di una ricerca
partecipata., Bologna, L. Parma, Sciascia, Crescere insieme oltre capitalismi e
socialismi: rifondazione culturale dall'Italia, per l'Europa, al mondo. Napoli,
Edizioni Dehoniane, Mario Occhiena, Riscoperta della realtà: un itinerario
filosofico esistenziale, Torino, Gribaudi, Pizzetti Luigi, Culture a confronto.
Sussidio per l’educazione religiosa e civica nelle scuole medie superiori, La
voce del popolo edizioni, Brescia, Fontana, Apertura a “tutto” l’essere, in
Nuove Prospettive, Palmisano, Nicola, Quanto resta della notte?: analisi e
sintesi del medioevo novecentesco all'alba del Duemila, Roma, LAS, Tacconi, La
persona e oltre: soggettività personale e soggettività ecclesiale nel contesto
del pensiero di Tommaso Demaria, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, Gruppo studio
scienza cristiano-dinontorganica di Vicenza, Realismo dinamico: il problema
metafisico della realtà storica come superorganismo dinamico cristiano riduzione
dell'opera di D., Altavilla (Vicenza), Publigrafica, Gruppo studio scienza
cristiano-dinontorganica di Vicenza,L'ideo-prassi dinontorganica: la
costruzione dinamica realistico-oggettiva della nuova realtà storica: revisione
del saggio L'ideologia Cristiana, Altavilla (Vicenza), Publigrafica, Mauro
Mantovani, Sulle vie del tempo. Un confronto filosofico sulla storia e sulla
libertà, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, Cretti, La quarta navigazione: realtà
storica e metafisica organico-dinamica, Associazione Nuova Costruttività
-Tipografia Novastampa, Verona, Bagnardi, Costruttori di una Umanità Nuova.
Globalizzazione e metafisica, Bari, Edizioni Levante, Riggi, L'ideoprassi
cristiana per una società alternativa; implicanze filosofiche, Roma, Università
Pontificia Salesiana, Pirovano, Roggero, Uniti nella diversità, UK, Lulu
Enterprise, Mantovani, Pessa e Riggi, Oltre la crisi; prospettive per un nuovo
modello di sviluppo. Il contributo del pensiero realistico dinamico (atti
dell'omonimo convegno tenuto a Roma), Roma, Libreria Ateneo Salesiano, Stefano
Fontana, Filosofia per tutti: una breve storia del pensiero da Socrate a
Ratzingher, Verona, Fede & Cultura. Nuova Costruttività, La Vita, su
dinontorganico. Scritti teologici
inediti, Roma, Editrice LAS, Mario Gadili, San Giovanni Calabria: biografia
ufficiale, Cinisello Balsamo, San Paolo, Per la ri-educazione all'amore
cristiano nel campo economico-sociale: per una valida teoria della pratica e
una adeguata pratica della teoria; Genova: Crovetto, Atti del convegno: Per la
ri-educaziaone all'amore cristiano tra le aziende, tenustosi a Rapallo e atti
del convegno: Programmazione economico-sociale e amore cristiano, tenutosi a
Rapallo, Massaro, I problemi dell'economia ligure: un'unica iniziativa ma
buona. A Rivalta Scrivia la succursale del pletorico porto di Genova., in LA
STAMPA, C.G.N., Il ministro Andreotti inaugura il nuovo complesso della
Rivalta, in Sette Giorni a Tortona, LIBERE A. C.L.I., Sette domande sulle
A.C.L.I. e la svolta di Vallombrosa e sette risposte delle Libere A.C.L.I.,
Milano, Centro Studi, Acli "federacliste", Per un impegno ideologico Cristiano,
Torino, ALC-FEDERACL, Tacconi, La persona e oltre: soggettività personale e
soggettività ecclesiale, LAS, Realismo dinamico, Bologna, Costruire, Il
Marxismo, Verona, Nuova Presenza cristiana, Confronto sinottico delle tre
ideologie. Roma, Centro Nazareth, La società alternativa, Verona, Nuova Presenza
Cristiana, Sintesi sociale cristiana. Metafisica della realtà sociale
(presentazione di Ellena), Torino, Pontificio Ateneo Salesiano, Presupposti
dottrinali per la pastorale e l'apostolato., Velate di Varese, Edizioni Villa
Sorriso di Maria, Cristianesimo e realtà sociale., Velate di Varese, Edizioni
Villa Sorriso di Maria, Paolo Arnaboldi, Demaria e Morini, I consigli
pastorali, diocesani e parrocchiali alla luce di una pastorale
organico-dinamica, Velate di Varese, FAC-Villa Sorriso di Maria, Luigi Bogliolo
e Stefano Fontana, Prospettive del Realismo Integrale. Pensare il trascentente.
La questione metafisica dell'ente dinamico. Dialogo con Bogliolo. Apertura a
tutto l’essere in Nuove Prospettive, Realismo
dinamico Giacomino Costa Realismo Tomismo Neotomismo Comunitarismo, Vita, opere
e ragionata a cura dell'Associazione
Nuova Costruttività., su dinont-organico. Opere di Tommaso Demaria
L’opera fondamentale di T. Demaria è la Trilogia del Realismo Dinamico ,
si tratta di tre volumi in cui l’autore spiega in modo completo e preciso la
metafisica realistico dinamica. Se vuoi farti un’idea di quello che ha
scritto T. Demaria, di seguito trovi tutta la sua bibliografia, per
scaricare invece alcuni dei suoi testi devi andare sul nostro blog
Trilogia del Realismo Dinamico: Volume 1: Ontologia
realistico-dinamica = Collana Spid – Realismo dinamico Ed. “Costruire”, Bologna (di questo testo è
stata redatta anche la traduzione in lingua spagnola, vedi sezione 2.1 di
questa bibliografia.) Metafisica della realtà storica. La realtà storica come
ente dinamico = Collana Spid – Realismo dinamico, Ed. “Costruire”, Bologna: La
realtà storica come Superorganismo Dinamico. Dinontorganismo e
Dinontorganicismo = Collana Spid – Realismo dinamico Ed. “Costruire”, Bologna, Altri
due volumi integrano la Collana Spid. L’ideologia cristiana, Collana Spid
– Ed. “Costruire”, Bologna, Sintesi sociale cristiana. Riflessioni sulla realtà
sociale, Collana Spid – Ed. “Costruire”, Bologna, Gli altri scritti di T.
Demaria non aggiungono nulla di fondamentale rispetto ai volumi principali ma
sono importanti perchè ne esplicitano alcuni aspetti. La sequenza dei testi è
in ordine temporale. Sintesi sociale cristiana. Metafisica della realtà
sociale, «Quaderni di Cultura e Formazione Sociale», a cura dell’Istituto di
Scienze Sociali del Pontificio Ateneo Salesiano, Torino Cristianesimo e realtà
sociale, Edizioni FAC – Villa Sorriso di Maria, Velate di Varese. I Consigli
Pastorali Diocesani e Parrocchiali alla luce di una Pastorale organico-dinamica
Arnaboldi, Paolo Maria – Demaria, Tommaso – Morini, Bruno, edizioni FAC – Villa
Sorriso di Maria, Velate di Varese. “L’impegno morale del cristiano” documento
pastorale dell’episcopato italiano. Premessa illustrativa dedicata agli
operatori cristiani in campo sociale = Centro Fanin – Collana La fonte, Vicenza
Pensare e agire “organico-dinamico”, Varese s.d, Punti orientativi
ideologico-sociali = a cura del MICL, Ed. Luigi Parma, Bologna. La “questione
democristiana”, Ed. “Costruire”, Bologna Ideologia come prassi razionalizzata,
Il Segno Ed. = NPC, Verona Per una nuova cultura, NPC Ed.,Verona (di questo testo è stata redatta anche la
traduzione in lingua inglese, vedi sezione 2.1 di questa bibliografia.) La
società alternativa, NPC Ed., Verona Verso il Duemila. Per una mobilitazione
giovanile religiosa e ideologica, NPC Ed., Verona, Un tema complesso sullo
sfondo dell’ideologia come strumento ideologico, NPC Ed., Verona Strumento
ideologico e rapporto fede-politica nella civiltà industriale = Minidossier
culturali per una nuova presenza cristiana I, Vicenza s.d., Rivoluzione
Industriale e Cristianesimo = Minidossier culturali per una nuova presenza
cristiana II, Vicenza s.d., Riflessioni spirituali. Tipografia Unione, Vicenza (pubblicazione
postume che raccoglie alcune riflessioni spirituali di don Tommaso Demaria,
ricavate da lettere inviate a suor G.A. di cui era direttore spirituale.)
Scritti Teologici Inediti a cura di M. Mantovani e R. Roggero. Las – Roma.
Atti Convegni di Rapallo Per la rieducazione all’amore cristiano tra le
aziende. Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese Atti Convegni di Rapallo. Visioni
chiave di questo nostro mondo dinamico. Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese.
Atti Convegni di Rapallo. Il mondo di oggi come questione sociale. Ed.
FAC Villa Sorriso, Velate di Varese Atti Convegni di Rapallo 1970/71,
Democrazia nuova per una nuova società.Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese
1972. Riportiamo anche i titoli di una serie di articoli sulla rivista
quadrimestrale veronese «Nuove Prospettive» (in ordine cronologico: 1988-1991)
La metafisica aristotelico-tomista come sistema metafisico realistico
oggettivo; sua crisi e suo rifiuto, in NP I (1988) 1, 2-10. Metafisica e
metodo, in NP Metafisica realistica integrale, in NP Valore della dottrina
sociale cristiana nell’attuale contesto storico dinamico secolare, in NP II
(1989) 1, 2-3. Integrazione della dottrina sociale cristiana con l’ideoprassi
organico-dinamica. Dottrina sociale cristiana e progetto organico-dinamico di società,
in NP Sapienzialità, in NP La “nuova creatura”: un problema
teologico-ecclesiologico risolto solo a metà, in NP I trascendentali, in NP Metafisica
dell’azienda industriale, in NP Dinontorganicità, in NP La famiglia oggi in una
visione organico-dinamica, in NP Articoli su altre riviste o su miscellanee (in
ordine cronologico) La pedagogia come scienza dell’azione. Appunti per
una epistemologia pedagogica, in Salesianum Sociologia positiva o
positivo-razionale? A proposito di una introduzione alla sociologia, in
SalesianumPer una Ecclesiologia organica, in AA.VV., De Ecclesia, PAS, Torino Concezione
religiosa dell’educazione, in Rivista di Pedagogia e Scienze Religiose, Dio e
la Religione, in AA.VV. De Deo, PAS, Torino Il posto e il compito dei laici
nella Chiesa, in AA.VV. Per la rieducazione all’amore cristiano nel campo
economico-sociale. Per una valida teoria della pratica e una adeguata pratica
della teoria = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Industriali e
Dirigenti Velate di Varese 1965, Prima parte 29-40. Dalla Sociologia cristiana
normativa alla Sociologia cristiana costruttiva, ibid., Parte seconda 23-38.
Aspetti sociologici, religiosi e morali della programmazione economico-sociale,
La formazione all’apostolato, in AA.VV.,
Il Decreto sull’Apostolato dei Laici (Apostolicam actuositatem). Genesi
storico-dottrinale. Testo latino e traduzione italiana. Esposizione e commento
= Collana Magistero Conciliare LDC 4, Torino Le leve segrete che dominano il
mondo. I – Leve dinamiche per un mondo dinamico, in AA.VV., Visioni chiave di
questo nostro mondo dinamico. Per una valida teoria della pratica e una
adeguata pratica della teoria = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per
Imprenditori e Dirigenti Velate di Varese Le leve – non più segrete – che
dominano il mondo. Leve cristiane per un
mondo cristiano, Vengono trattati, nelle relazioni 10 e 11, i trascendentali
dinamici della religiosità, socialità, moralità, educatività e
missionarietà. Società e persona umana in un mondo dinamico. Mondo
dinamico e società, Società e persona umana in un mondo dinamico. Mondo
dinamico e persona umana, Fede e vita spirituale, in Giornate di studio per
predicatori di Esercizi Spirituali. Approfondimenti teologico-pastorali, Roma –
S.Cuore, Società in trasformazione e trasformazione dell’uomo I. Società nuova
in un mondo nuovo, in AAVV, Il mondo di oggi come questione sociale. Per una
valida teoria della pratica e una adeguata pratica della teoria = Raccolta
degli Atti dei Convegni di Rapallo per Imprenditori e Dirigenti del 7-10 Marzo Velate
di Varese 1970, Parte prima, 27-41. Società in trasformazione e trasformazione
dell’uomo II. Uomo nuovo in una società nuova, Mondo dinamico e questione
sociale I. La questione sociale e le sue vicende, ibid., Parte seconda, 33-50.
Mondo dinamico e questione sociale II. La questione sociale e la sua soluzione,
Democrazia e mondo dinamico, in Democrazia nuova per una nuova società =
Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Imprenditori e Dirigenti,Velate
di Varese, Impresa e società, Studio sul
piano teologico essenziale, in Arnaboldi Paolo Maria – Demaria Tommaso – Morini
Bruno, I Consigli Pastorali Diocesani e Parrocchiali alla luce di una Pastorale
organico-dinamica, Edizioni FAC – Villa Sorriso di Maria, Velate di Varese Testi
ciclostilati a) Relazioni ai Corsi Mid di sviluppo Per
una autentica società giusta: una concreta nuova presenza cristiana = Atti del
corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma (testi dattiloscritti). La famiglia oggi in una
visione organico-dinamica. La scuola oggi in una visione organico-dinamica
della società. L’impresa organico-dinamica. Sindacato organico-dinamico. Stato
e società. Ideologia organico-dinamica ed Unione Europea Le tre
ideologie. Confronto sinottico = Atti del corso di studio Mid di Roma – Centro
Nazareth, Roma L’Assoluto ideologico primario. L’Assoluto ideologico derivato. La
religione. Uomo e società. L’economia. La politica. Etica a matrice
ideologica Le tre ideologie. Confronto sinottico. Seconda serie = Atti
del corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma Stato e società. La
democrazia. La libertà. La socialità. La cultura. I valori. Scienza e
tecnica Confronto sinottico delle tre ideologie. Terza serie = Atti del
Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma 1984 (Quaderno poligrafato).
Richiamo orientativo. La sapienza umano storica ideoprassica. La scelta
energetica. Lo sviluppo. Il futuro del pianeta Confronto sinottico delle
tre ideologie. Quarta serie = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro
Nazareth, Roma Quaderno poligrafato), Guerra e pace. Cultura come civiltà. La
civiltà dell’amore Confronto sinottico delle tre ideologie. I
trascendentali dinamici = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro
Nazareth, Roma (Quaderno poligrafato) 42 pp. AA.VV., EDUCazione e formazione
oggi = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma Relazioni a
Corsi di esercizi o di studio promossi dal FAC La parrocchia). “Su questa
pietra…” – Il nostro sacerdozio: donde veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (Corso
Fac – esercizi spirituali per sacerdoti). Chiesa e mondo Fede – Speranza –
Carità Rimessa a punto teorico-pratica dei Consigli pastorali La Chiesa localeI
Consigli pastorali in se stessi e nella loro articolazione e rapporti (Corso
Fac 1972). La fede cristiana; Il problema ecclesiologico e le anime; La Chiesa
e la persona-cellula; Costruire la Chiesa; La parrocchia nella Chiesa
universale; La Chiesa come anima del mondo; Parrocchia in trasformazione I.
Dalla parrocchia statico-sacrale alla parrocchia dinontorganica religiosa; Parrocchia
in trasformazione II. La parrocchia dinontorganica religiosa; Conoscere la
Chiesa = Corso Fac di Esercizi-Studio di tipo C, Roma – Centro Nazareth, Come
programmare la costruzione di una parrocchia “Famiglia di Dio” oggi, in una
visione ecclesiale profonda = Corso Fac di Esercizi-Studio di tipo C, Roma –
Centro Nazareth, Altri testi ciclostilati Realismo dinamico, Istituto
Superiore di Scienze Religiose, Torino (Dispense), La Chiesa cattolica in stato
di missione, Le tesi delle Libere ACLI = a cura delle L.A.C.L.I. Italia
Settentrionale, Milano, Per una nuova cultura religiosa e sociale = a cura di
Nuova Presenza Cristiana – Centro culturale “G. Toniolo”, Verona, Il Marxismo =
Quaderni di Nuova Presenza Cristiana – Centro culturale “G. Toniolo”, Verona. Tommaso
Demaria. Demaria. Keywords: organismo, organismi, super-organismo, Tuomela,
we-thinking, cooperation and authority -- Luigi Cipriani, communicazione e
cultura, dynontorganico – o dinontorganico -- dinamico ontico organico -- l’implicanza
di Speranza, implicanza, implicatura, implicazione. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Demaria” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Demetrio: il Lizio a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A lizio, a friend of Catone Minore and was with him in his final
days. Demetrio.
Grice e Demetrio: il portico a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Friend of Seneca, Trasea and Apollonio. Banished from Rome at least
once. He defends the Porch philosopher Publio Egnazio Celer against another
one, Musonio Rufo. Demetrio.
Grice e Demetrio: l’accademia a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Member of the Accademia, cited by Antonino.
Grice e Demetrio: l’orto a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A notable Gardener. Writes a number of essays on various aspects of
the school’s teachings. Fragments of his writings at Herculaneum reveal a
concern that some teachers were oversimplifying the philosophy in order to make
it easier for their pupils to understand. Demetrio Lacone. Demetrio.
Grice e Demetrio: l’implicatura conversazionale del culto
di marte, la mascolinità, ed il sentimento taciuto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “Demetrio and the semiotic tacit’ – “Grice: “Demetrio
philosophises, in a Grecian, way, on the ‘tacit’ – literally, the unuttered
--.” Grice: “While ‘tacit’ may implicate that the vehicle is phonic, it need
not be – any non-expression is a tacit act --.” “And like me, Demetrio holds
that there is a whole communication involving the un-expressed, or tacit – or
‘suprressed’ as the scholastics preferred. Grice: “I like Demetrio. You see,
Demetrio is sa good one. – and he enriches the Griceian vocabulary. I use
‘imply’ for implicatum and implicitum; but Demetrio, due to the richness of the
Italian language, can play with the ‘tac’ root. I often refer to the implicit
as the tacit – and the tacit is nothing but the ‘silent’ –Demetrio has this
brilliant essay on the ‘sentiments’ wich are ‘taciuti’. A ‘sentimento’ is
taciuto’ when it is tacit, implicit, not explicit – his favourite scenario is a
loving couple – the silence of love – he has also played with the ‘senses’ of
‘silent,’ but it is the ‘tacit’ root that he explores most and relates to my
explicit/implicit, tacit/non-tacit distinction!” – Le sue ricerche promuovono
la scrittura di se stessi, sia per lo sviluppo del pensiero interiore e auto-analitico,
sia come pratica filosofica. Insegna a Milano, è ora direttore scientifico del
Centro Nazionale Ricerche e studi autobiografici della Libera università
dell'Autobiografia di Anghiari e dei “Silenziosi”. Altre opere: “Educatori di
professione. Pedagogia e didattiche del cambiamento nei servizi
extra-scolastici” (Scandicci, La Nuova Italia, Tornare a crescere); “L'età
adulta tra persistenze e cambiamenti” (Milano, Guerini, La ricerca qualitativa
in educazione” (Scandicci, La Nuova Italia); Apprendere nelle organizzazioni.
Proposte per la crescita cognitiva in età adulta, Roma, NIS); “Immigrazione e
pedagogia interculturale. Bambini, adulti, comunità nel percorso di integrazione,
Firenze, La Nuova Italia); “L'educazione nella vita adulta. Per una teoria
fenomenologica dei vissuti e delle origini, Roma, NIS, Raccontarsi); “L'autobiografia
come cura di sé, Milano, Cortina, Educazione degli adulti: gli eventi e i
simboli, Milano, C.U.E.M., Viaggio e racconti di viaggio. Nell'esperienza di
giovani e adulti, Milano, C.U.E.M.); “Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e
didattica interculturale nella scuola dell'infanzia e nella scuola elementare,
Scandicci, La Nuova Italia, Agenda interculturale. Quotidianità e immigrazione
a scuola. Idee per chi inizia, Roma, Meltemi, Il gioco della vita. Kit autobiografico.
Trenta proposte per il piacere di raccontarsi, Milano, Guerini); Pedagogia
della memoria. Per se stessi, con gli altri, Roma, Meltemi); “Elogio
dell'immaturità. Poetica dell'età irraggiungibile, Milano, Cortina, Una nuova
identità docente. Come eravamo, come siamo, Milano, Mursia); “L'educazione
interiore. Introduzione alla pedagogia introspettiva, Scandicci, La Nuova
Italia, Di che giardino sei? Conoscersi attraverso un simbolo” (Roma, Meltemi);
“Preparare e scrivere la tesi in Scienze dell'Educazione, Milano, Sansoni); “Istituzioni
di educazione degli adulti. Il metodo autobiografico” (Milano, Guerini); “Istituzioni
di educazione degli adulti” (Milano, Guerini); Album di famiglia. Scrivere i
ricordi di casa, Roma, Meltemi, Scritture erranti. L'autobiografia come viaggio
del se nel mondo, Roma, EDUP, Ricordare a scuola. Fare memoria e didattica
autobiografica, Roma, Laterza, Manuale di educazione degli adulti, Roma,
Laterza, Filosofia dell'educazione ed età adulta. Simbologie, miti e immagini
di sé, Torino, POMBA Liberia, L'età adulta. Teorie dell'identità e pedagogie
dello sviluppo, Roma, Carocci, Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e
scrittura di sé, Milano, Cortina); “Istituzioni di educazione degli
adulti. Saperi, competenze e
apprendimento permanente, Milano, Guerini, Didattica interculturale. Nuovi
sguardi, competenze, percorsi, Milano, Angeli, In età adulta. Le mutevoli
fisionomie, Milano, Guerini, Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione
mediterranea, Milano, Cortina, La vita schiva. Il sentimento e le virtù della
timidezza” (Milano, Cortina, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e
fragilità esistenziali, Milano, Cortina, L'educazione non è finita. Idee per
difenderla, Milano, Cortina); “Ascetismo metropolitano. L'inquieta religiosità
dei non credenti, Milano, Ponte alle Grazie); “L'interiorità maschile. Le
solitudini degli uomini” (Milano, Cortina, La religiosità degli increduli. Per
incontrare i «gentili», Padova, Messaggero, Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di
una passione, Milano, Cortina, Senza figli. Una condizione umana, Milano,
Cortina,,Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura, Milano, Mimesis);
“Beati i misericordiosi. Perché troveranno misericordia, Torino, Lindau); “I
sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora, Milano, Mimesis, La religiosità
della terra. Una fede civile per la cura del mondo, Milano, Cortina, Silenzio,
Padova, Messaggero, Green autobiography. La natura è un racconto interiore,
Anghiari, Booksalad, Ingratitudine. La memoria breve della riconoscenza, Milano,
Cortina, Scrivi, frate Francesco. Una guida per narrare di sè, Padova, Messaggero,
La vita si cerca dentro di sé. Lessico autobiografico, Milano, Mimesis, Terra,
Milano, Dialogos, Foliage. Vagabondare in autunno, Milano, Cortina. Wikipedia
Ricerca Marte (divinità) dio romano della guerra e dei duelli Lingua Segui
Modifica Marte (in latino: Mars[1]) è, nella religione romana e italica[2], il
dio della guerra e dei duelli e, secondo la mitologia più arcaica, anche del
tuono, della pioggia e della fertilità. Simile alla divinità greca Ares, col
tempo ne ha assorbito tutti gli attributi, fino a venire completamente
identificato con esso. Statua colossale di Marte: "Pirro"
nei Musei capitolini a Roma. Fine del I secolo d.C. CultoModifica Venere
e Marte, affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. È una divinità sia
etrusca[4] che italica (Mamers nei dialetti sabellici[5]); nella religione
romana (dove era considerato padre del primo re Romolo) era il dio guerriero
per eccellenza, in parte associato a fenomeni atmosferici come la tempesta e il
fulmine. Assieme a Quirino e Giove, faceva parte della cosiddetta "Triade
arcaica", che in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece
costituita da Giove, Giunone e Minerva. Più tardi, identificandolo con il greco
Ares, venne detto figlio di Giunone e Giove e inserito in un contesto
mitologico ellenizzato. Alcuni studiosi del passato (Wilhelm Roscher,
Hermann Usner, e soprattutto Alfred von Domaszewski) hanno parlato di Marte
anche nei termini di divinità "agraria", legata all'agricoltura,
soprattutto sulla scorta del testo di una preghiera rimastaci nel De agri
cultura di Catone, che lo invoca per proteggere i campi da ogni tipo di
sciagura e malattia. Secondo Georges Dumézil tuttavia il collegamento fra Marte
e l'ambito campestre non farebbe di lui una divinità legata alla terra, in
quanto il suo ruolo sarebbe esclusivamente di difensore armato dei campi da
mali umani e soprannaturali, senza diversificazione dalla sua natura
intrinsecamente guerresca. Il dio, inoltre, rappresentava la virtù e la
forza della natura e della gioventù, che nei tempi antichi era dedita alla
pratica militare. In questo senso era posto in relazione con l'antica pratica
italica del uer sacrum, la Primavera Sacra: in una situazione difficile, i
cittadini prendevano la decisione sacra di allontanare dal territorio la nuova
generazione, non appena fosse divenuta adulta. Giunto il momento, Marte
prendeva sotto la sua tutela i giovani espulsi, che formavano solo una banda, e
li proteggeva finché non avessero fondato una nuova comunità sedentaria
espellendo o sottomettendo altri occupanti; accadeva talvolta che gli animali
consacrati a Marte guidassero i sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo
(hirpus) aveva guidato gli Irpini, un picchio (picus) i Piceni, mentre i
Mamertini derivavano il loro nome direttamente da quello del dio. Sempre a
Marte era dedicata la legio sacrata, cioè la legione Sannita, detta anche
linteata, poiché era bianca.[senza fonte] Marte, nella società romana, assunse
un ruolo molto più importante della sua controparte greca (Ares), probabilmente
perché considerato il padre del popolo romano e di tutti gli Italici in
generale: Marte, accoppiatosi con la vestale Rea Silvia generò Romolo e Remo,
che fondarono Roma.[6] Di conseguenza Marte era considerato il padre del popolo
romano e i romani si chiamavano tra loro Figli di Marte. I suoi più importanti
discendenti, oltre a Romolo e Remo, furono Pico e Fauno. Marte comparve
spesso sulla monetazione romana, sia repubblicana che imperiale, con vari
titoli: Marti conservatori (protettore), Marti patri (padre), Mars ultor
(vendicatore), Marti pacifero (portatore di pace), Marti propugnatori
(difensore), Mars victor (vincitore). Il mese di marzo, il giorno di
martedì, i nomi Marco, Marcello, Martino, il pianeta Marte, il popolo dei
Marsie il loro territorio Martia Antica (la contemporanea Marsica) devono a lui
il loro nome. Leggenda sulla nascita di MarteModifica Secondo il mito,
Giunone era invidiosa del fatto che Giove avesse concepito da solo Minerva
senza la sua partecipazione. Chiese quindi aiuto a Flora che le indicò un fiore
che cresceva nelle campagne in Etoliache permetteva di concepire al solo
contatto. Così diventò madre di Marte, che fece allevare da Priapo, il quale
gli insegnò l'arte della guerra. La leggenda è di tradizione tarda come
dimostra la discendenza di Minerva da Giove, che ricalca il mito greco. Flora,
al contrario, testimonia una tradizione più antica: l'equivalente norreno Thor
nasce dalla terra, Jǫrð e così le molte divinità elleniche.
NomiModifica Statua di Marte nudo in un affrescodi Pompei. Marte era
venerato con numerosi nomi dagli stessi latini, dagli Etruschi e da altri
popoli italici: Maris, nome Etrusco da cui deriva il nome del Dio
Romano;[4] Mars, nome Romano; Marmar; Marmor; Mamers, nome con cui era venerato
dai popoli italicidi stirpe osca[7]; Marpiter; Marspiter; Mavors.
EpitetiModifica Diuum deus: 'dio degli dei', nome con cui viene designato nel
Carmen Saliare. Gradivus: 'colui che va', con valore spesso di 'colui che va in
battaglia', ma può essere collegato anche al ver sacrum, quindi 'colui che
guida, che va'. Leucesios: epiteto del Carmen Saliare che significa 'lucente',
'dio della luce', questo epiteto può essere anche legato alla sua
caratteristica di dio del tuono e del lampo. Silvanus: in Catone, nel libro De
agricultura, 83 Marte viene soprannominato Silvanus in riferimento ai suoi
aspetti legati alla natura e collegandolo con Fauno. Ultor: epiteto tardo, dato
da Augusto in onore della vendetta per i cesaricidi (da ultor, -oris:
vendicatore). RappresentazioniModifica Gli antichi monumenti rappresentano il
dio Marte in maniera piuttosto uniforme; quasi sempre Marte è raffigurato con
indosso l'elmo, la lancia o la spada e lo scudo, raramente con uno scettro
talvolta è ritratto nudo, altre volte con l'armatura e spesso ha un mantello
sulle spalle. A volte è rappresentato con la barba ma, nella maggior parte dei
casi, è sbarbato. È raffigurato a piedi o su un carro trainato da due cavalli
imbizzarriti, ma ha sempre un aspetto combattivo. Gli antichi Sabini lo
adoravano sotto l'effigie di una lancia chiamata "Quiris" da cui si
racconta derivi il nome del dio Quirino, spesso identificato con Romolo.
Bisogna dire che il nome Quirinus, come il nome Quirites, deriva da *co-uiria,
cioè assemblea del popolo e indicava il popolo in quanto corpus di cittadini,
da distinguere con Populus (dal verbo populari = devastare), che indica il
popolo in armi. Il ruolo di Marte a RomaModifica Venere e Marte,
affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. A Roma Marte era onorato in modo
particolare. A partire dal regno di Numa Pompilio, venne istituito un consiglio
di sacerdoti, scelti tra i patrizi, chiamati Salii, chiamati a vigilare su
dodici scudi sacri, gli Ancilia, di cui si dice che uno sia caduto dal cielo.
Questi sacerdoti erano riconoscibili dal resto del popolo per la loro tunica
purpurea. I sacerdoti Salii, in realtà erano un'istituzione ben più antica di
Numa Pompilio, risalivano addirittura al re-dio Fauno, che li creò in onore di
Marte, costituendo così i primi culti iniziatici latini. Nella capitale
dell'impero, vi era anche una fontana consacrata al dio Marte e venerata dai
cittadini. L'imperatore Nerone, una volta, si bagnò in quella fontana, gesto
che fu interpretato dal popolo come un sacrilegio e che gli alienò la simpatia
popolare. A partire da quel giorno, l'imperatore iniziò ad avere problemi di
salute, secondo la gente dovuta alla vendetta del dio. FestivitàModifica
Era venerato fastosamente in marzo, il primo mese dell'anno nel calendario
romano, che segnava la ripresa delle attività militari dopo l'inverno e che
portava il suo nome, con le feriae Martis, Equirria, agonium martiale,
Quinquatrus e tubilustrum. Altre cerimonie importanti avvenivano in febbraio e
in ottobre. Gli Equirria si tenevano. Erano giorni sacri con significato
religioso e militare; i romani vi mettevano molta enfasi per sostenere
l'esercito e rafforzare la morale pubblica. I sacerdoti tenevano riti di
purificazione dell'esercito. Si tenevano corse di cavalli nel Campo Marzio.
Le feriae Martis si tenevano dal 1º marzo al 24 marzo. Durante le feriae Martis
i dodici Salii Palatinipercorrevano la città in processione, portando ciascuno
un Ancile, uno dei dodici scudi sacri, e fermandosi ogni notte ad una stazione
diversa (mansio). Nel percorso i Salii eseguivano una danza con un ritmo di tre
tempi (tripudium) e cantavano l'antico e misterioso Carmen Saliare. Il 19 marzo
si teneva il Quinquatrus, durante il quale gli scudi venivano ripuliti. Il 23
marzo si teneva il Tubilustrium, dedicato alla purificazione delle trombe usate
dai Saliie alla preparazione delle armi dopo la pausa invernale. Il 24 marzo
gli ancilia venivano riposti nel sacrario della Regia. L'October Equus si
teneva alle idi di ottobre (15 ottobre). Si svolgeva una corsa di bighe e
veniva sacrificato a Marte il cavallo di destra del trio vincente tramite un
colpo di lancia del Flamine marziale. La coda veniva tagliata e il suo sangue
sparso nel cortile della Regia. C'era una battaglia tradizionale tra gli
abitanti della Suburra che volevano la coda per portarla alla Turris Mamilia e
quelli della Via Sacra che la volevano per la Regia. Il 19 ottobre si
teneva l'Armilustrium, dedicato alla purificazione delle armi e alla loro
conservazione per l'inverno. Ogni cinque anni si tenevano in Campo Marzio
le Suovetaurilia, dove davanti all'altare di Marte (Ara Martis) il censo veniva
accompagnato da un rito di purificazione tramite il sacrificio di un bue, un
maiale e una pecora. Luoghi di cultoModifica Marte e Venere, copia
settecentesca da I Modi di Marcantonio Raimondi Tra le popolazioni italiche, si
sa di un antico tempio dedicato al dio Marte a Suna,[8] antica città degli
Aborigeni, e di un oracolo del dio, nella città aborigena di Tiora.[9]
Animali e oggetti sacriModifica Lupo: si ricorda il nipote Fauno, il lupo per
eccellenza è la lupa che ha allattato Romolo e Remo[6] Picchio: il picchio è
l'uccello del tuono e della pioggia oracolare, ha nutrito Romolo e Remo insieme
alla lupa Cavallo: simbolo della guerra (si ricorda Nettuno e gli Equirria)
Toro: altro animale molto importante per il ver sacrum e per tutti i popoli
italici Hastae Martiae: sono le lance di Marte che si scuotevano in caso di
gravi pericoli, tenute nel sacrario della Regia Lapis manalis: la pietra della
pioggia, in quanto dio della pioggia OfferteModifica A Marte si offrivano come
vittime sacrificali vari tipi di animali: dei tori, dei maiali, delle pecore e,
più raramente, cavalli, galli, lupi e picchi verdi, molti dei quali gli erano
consacrati. Le matrone romane gli sacrificavano un gallo il primo giorno del
mese a lui dedicato che, fino al tempo di Gaio Giulio Cesare, era anche il
primo dell'anno. Identificazioni con dei celticiModifica Mars Alator:
Fusione con il dio celtico Alator Mars Albiorix, Mars Caturix o Mars Teutates:
Fusione con il dio celtico Toutatis Mars Barrex: Fusione con il dio celtico
Barrex, di cui si ha notizia solo da un'iscrizione a Carlisle Mars
Belatucadrus: Fusione con il dio celtico Belatu-Cadros. Questo epiteto è stato
trovato in cinque iscrizioni nell'area del Vallo di Adriano Mars Braciaca:
Fusione con il dio celtico Braciaca, trovato in un'iscrizione a Bakewell Mars
Camulos: Fusione con il dio della guerra celtico Camulo Mars Capriociegus:
Fusione con il dio celtico gallaico Capriociegus, trovato in due iscrizioni a
Pontevedra Mars Cocidius: Fusione con il dio celtico Cocidio Mars Condatis:
Fusione con il dio celtico Condatis Mars Lenus: Fusione con il dio celtico Leno
Mars Loucetius: Fusione con il dio celtico Leucezio Mars Mullo: Fusione con il
dio celtico Mullo Mars Nodens: Fusione con il dio celtico Nodens Mars Ocelus:
Fusione con il dio celtico Ocelus Mars Olloudius: Fusione con il dio celtico
Olloudio Mars Segomo: Fusione con il dio celtico Segomo Mars Visucius: Fusione
con il dio celtico Visucio Marte nell'arteModifica PitturaModifica Marte, di
Diego Velázquez (1640) Marte che spoglia Venere con amorino e cane, di Paolo
Veronese Marte e Venere sorpresi da Vulcano, di François Boucher (1754) Minerva
protegge la Pace da Marte, di Pieter Paul Rubens (1629-1630) Venere e Marte, di
Sandro Botticelli NoteModifica ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su
Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Pallotino, pp.
29, 30; Hendrik Wagenvoort, "The Origin of the Ludi Saeculares," in
Studies in Roman Literature, Culture and Religion (Brill, 1956), p. 219 et
passim; John F. Hall III, "The Saeculum Novum of Augustus and its Etruscan
Antecedents," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.3 (1986),
p. 2574. ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Strabone, Geografia, V 3.2. ^
Nota sul dio Mamerte (o Mamers), in Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, I 14.3. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.5.
BibliografiaModifica Andrea Carandini, La nascita di Roma, Torino, Einaudi,
1997, ISBN 88-06-14494-4. (L'archeologo Andrea Carandini dà la definitiva
rivalutazione del dio Marte). Renato Del Ponte, Dei e miti italici, Genova,
ECIG, Dumézil, La religione romana arcaica, Milano, Rizzoli, Libro del grande
storico delle religioni, che per primo rivalutò Marte da feroce dio emulo di
Ares a divinità più originale e importante). James Hillman, Un terribile amore
per la guerra, Milano, Adelphi, Un libro che dimostra come questo dio sia
presente nelle guerre contemporanee). Jacqueline Champeux, La religione dei
romani, Bologna, Il Mulino, Ares Divinità della guerra Flamine marziale Fauno
Marte (astronomia) Mamerte Pico (mitologia) Hachiman, Fano di Marmar
[collegamento interrotto], su latinae.altervista.org. Portale Antica Roma
Portale Mitologia Ultima modifica 2 mesi fa di 79.30.61.157 PAGINE CORRELATE
Salii collegio sacerdotale romano per il culto di Marte Mamuralia
festività Triade arcaica, Duccio
Demetrio. Demetrio. Keywords:il sentimento taciuto, maschile, omossesuale,
perseo, medusa, solitudine, filosofia del maschile, il maschile,
homo-socialite, lo sguardo maschile, virilita, virus, virtu, il concetto del
maschile nella roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Demetrio” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Democede:
la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Captured by the
Persians, helps to cure an ankle injury that is plaguing Dario. He eventually
escapes and returns to Crotone. Giamblico says he has a Pythagorean, one of
those who fled Crotone during an uprising against the sect. If this is true, if
presumably happens after his return from Persia. Democede.
Grice e Demostene
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. A pythagorean according
to Giamblico di Calcide.
Grice e Desideri: l’implicatura conversazionale dei consenzienti
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo. Grice: “I like Desideri; he would be what we at Oxford call a
‘philosopher of perception,’ and therefore his keywords have been aisthetsis,
sensation, and the rest – he has also played with some Latinate, like ‘imaggine
dell’imagine’ and with ‘empathy.’ He endorses a Griceian sort of empathetic
theory, as evidenced in the idea of ‘comprehension,’ a latinate term for
English ‘understanding.’ “He has beautiful handwriting,’ while there is a
hygienic interval between I and thou, thou getest what I mean! That he is
HOPELESS at philosophy.” Insegna a Firenze. Cura Nietzsche, Kant, Benjamin,
Kafka. Altre opere: “Il tempo e la forma” (Roma, Editori riuniti); “Il fine del
tempo” (Genova, Marietti); “La scala della giustizia” (Bologna, Pendragon); “Il
velo di Iside: coscienza, messianismo e natura nel pensiero romantico”
(Bologna, Pendragon); “L'ascolto della coscienza” (Milano, Feltrinelli);
“Aporia del sensibile” (Genova, Il melangolo); “Il passaggio estetico” (Genova,
Il melangolo); “Forme dell'estetica: dall'esperienza del bello al problema
dell'arte” – “L’esperienza del bello”
(Roma-Bari, Laterza); “L’ esperienza e la percezione riflessa: estetica e
filosofia psicologia (Milano, Raffaello Cortina); “La misura del sentire: per
una ri-configurazione dell'estetica” (Milano-Udine, Mimesis); “Origine
dell'estetico: dall’emozione al giudizio” (Roma, Carocci); “Percezione ed estetica” (Brescia,
Morcelliana). A Francesco e Nicola Il fascismo e il
consenso degl’intellettuali Il Mulino, Bologna. Quando ho iniziato
le ricerche condensate in questo saggio, testimonianze e giudizi storiografici
erano unanimi nel riflettere la nota negazione crociana dell’esistenza di
una cultura o filosofia fascista: un giudizio che trova ancora oggi il suo
principale e più autorevole sostenitore in Bobbio, ma che ritorna anche in
protagonisti della lotta anti-fascista e in studiosi di altre aree
politiche e culturali, come Amendola e Rosa. I motivi del persistere
di questa negazione, in chi pur si è dedicato da tempo a indagare con
severo impegno civile sulla funzione politica della cultura, richiederebbero
una ricerca apposita, che metterebbe probabilmente in luce, accanto alla
fortuna del crocianesimo e alla diffidenza verso
l’intellettuale-funzionario di supposta matrice fascista, o all’originaria
riduttiva lettura di Gramsci, una decisa sottovalutazione, su un piano
pit generale, del peso del fenomeno della filosofia fascista nella storia
italiana. È forse quest’ultimo l’elemento che continua a opporre maggiore
resistenza alla corretta impostazione di un’indagine su una stagione
culturale che non si esauri nel ventennio, ma proietta le sue ombre anche
sul periodo postfascista: con un bilancio, si badi bene, che non
può ridursi a distinguere vera e falsa filosofia o cultura, o a chiedersi
quali prodotti di vera filosofia o cultura promosse il fascismo. Per affermare
che il fascismo non ha legami colla filosofia è necessario adoperare il termine
in modo puramente valutativo, escludendo dal suo ambito tutto ciò che
viene giudicato dannoso, oppure minimizzare sistema. Su alcuni di questi temi
un primo spunto di ricerca è stato fornito da E. Galli della Loggia,
Ideologie, classi e costume, Castronovo, Torino, Einaudi. ) ticamente il numero
di punti di contatto esistenti tra il regime e la filosofia, opportunamente
osserva Lyttelton, e la notazione potrebbe essere estesa ad altre
discipline, come quelle giuridiche ed economiche, per considerare, accanto a
ciò che di non caduco fu prodotto nel campo dell’alta cultura, oltre che
nel terreno inesplorato della mentalità dei diversi strati sociali —,
anche i « pensieri che non furono pit pensati. Ma a una valutazione
complessiva di questa tematica è di ostacolo un giudizio simmetrico a
quello crociano, teso a mettere in dubbio l’esistenza di ur fascismo
italiano: in questo senso Felice ha fatto veramente scuola presso quanti hanno
avallato la tesi propria del fascismo, di possedere una ideologia non
reazionaria, o hanno tratto spunto dalle doti intellettuali di Bottai per
presentarlo come filosofo fascista critico. Solo pochi studiosi hanno
cominciato, in questi ultimi anni, a presentare un diverso approccio al
problema, tenendo presenti i nessi tra la cultura, l’ideologia e gli obiettivi
politici del fascismo, e sfuggendo quindi al rischio di esaminare le idee
dei singoli intellettuali in modo separato dal contesto in cui operarono:
rischio di un genere bio- Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo,
Bari, Laterza, A. Momigliano, Gli studi italiani di storia greca e romana, in
La vita intellettuale italiana, scritti in onore di Croce, a cura di Antoni e
Mattioli, Napoli, Edizioni scientifiche italiane. E. Gentile, Le origini
dell’ideologia fascista, Bari, Laterza, e Guerri, Giuseppe Bottai, un
fascista critico, prefazione di U. Alfassio Grimaldi, Milano, Feltrinelli, Cosî
L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del
fascismo, Bari, Laterza, Montenegro, Politica estera e organizzazione del
consenso. Note sull’Istituto per gli studi di politica internazionale, in
«Studi storici»; M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali
funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi. Né più
produttiva appare una lettura solo apparentemente rovesciata, come quella di un
Cantimori tutto politico che niente ci dice sul suo « mestiere » di
storico: cfr. M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio
Cantimori, Bari, De Donato, e le
puntuali osser- grafico che — pur sempre utile e auspicabile —
anche nei suoi esempi migliori tende a « eroicizzare » alcune
perso- nalità anticipando spesso nel tempo gli esiti della loro ri-
cerca culturale e politica. Abbiamo quindi ritenuto neces- sario — ai
fini di una lettura « politica », per quanto pos- sibile, della cultura e
degli orientamenti dei suoi produttori nel ventennio — porre al centro
dell’indagine le istituzioni culturali del regime, di cui l’Enciclopedia
italiana è, per l’alta cultura, l’espressione pit significativa, in
quanto momenti di aggregazione degli intellettuali di cui il fasci-
smo voleva acquisire il consenso. Istituzioni culturali che non si
limitano a una « gestione » puramente esterna della cultura preesistente
”, ma producono anche contenuti nuovi, mettendo in circolazione modi di
pensare o temi di studio funzionali all’ideologia dominante. Con ciò non
vogliamo negare che il fascismo recuperi motivi già presenti
nell’Ita- lia liberale — come il nazionalismo o le tendenze corpo-
rative —, secondo l’« ideologia eclettica » del Pnf, prima «
organizzazione politica unificata » della borghesia ita- liana, pronta a
raccogliere ogni « prestito » capace di raf- forzarla *: motivi che
tuttavia la borghesia prefascista — a meno di non darle credito di una
coerenza e di una « preveggenza » che non ci pare abbia av uto nel
suo com- plesso ® — non era riuscita a connettere saldamente
insieme in quella sorta di koiné che nel periodo fascista, se pur
si avvale di apporti diversi, non è meno omogenea per gli obiettivi che
si pone e per la continua interscambiabilità tra cultura e ideologia. Un
«linguaggio » alla cui formula- vazioni di G. Santomassimo in «
Italia contemporanea »,In questo senso si esprime, oltre ad Asor Rosa (citato
nel testo), A.L. de Castris, Gramsci e il problema dell’egemonia negli anni
trenta, in « Lavoro critico » (il
numero è dedicato a « Le culture del fascismo »). 8 P.
Togliatti, Lezioni sul fascismo, prefazione di E. Ragionieri, Roma,
Editori Riuniti Su questo collegamento tra Italia liberale e fascismo insiste
Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia,
Padova, Marsilio (su cui cfr. gli interventi di R. Romanelli, M.L. o
Toniolo in «Quaderni storici zione contribuiscono, in misura e con capacità di
manovra insusitate, i cattolici. È appunto considerandone la parte-
cipazione massiccia alle istituzioni del regime — dove i collaboratori si
confondono con i critici dell’idealismo e, qualche volta, del fascismo
stes- 80 —, che è possibile cogliere un aspetto non secondario
della « trasformazione della presenza cattolica in Italia, non più
caratterizzata, come nel prefascismo, da un rapporto preminente col mondo
contadino, ma profondamente inse- rita a tutti i livelli nella moderna
società industriale » !° con un insieme di « scambi » culturali che,
anche in una prospettiva di lungo periodo, ha un peso ben maggiore
della riflessione più propriamente religiosa di quei gruppi élitari
nei quali si è voluto cogliere il nucleo della classe dirigente
democristiana " Un'indagine approfondita sulla politica
culturale del regime ci pare preliminare anche per valutare quelli
che .abbiamo chiamato i « limiti del consenso ». Solo partendo
dalla considerazione dell’esistenza di una vasta rete di isti- tuzioni
fasciste che producono e trasmettono cultura — contro la quale si
infrangono i sogni di una cultura « al di sopra della mischia » propri di
un Formiggini — è possi- bile impostare un discorso sulla cultura «
sommersa » du- rante il ventennio e sui suoi sbocchi nel 1945 — e
anche in questo caso, più che affidarci ai « lunghi viaggi » dei
«singoli, che rischiano di ridursi a personali esami di co- scienza senza
grande risonanza, abbiamo rivolto l’atten- zione ad altri centri di
aggregazione degli intellettuali e di diffusione della cultura, le case
editrici, pur senza essere stati in grado di fornite quei preziosi dati «
materiali » Rossi, La Chiesa e le organizzazioni religiose, in La Toscana
nel regime fascista, Firenze, Olschki, Come ha fatto, analizzando la Fuci e il
Movimento laureati cattolici, Moro, La formazione della classe dirigente Cattolica,
Bologna, il Mulino; contro una prima formulazione di questa tesi ha
polemizzato Pietro Scoppola che però, per esaltare l’impronta di rinnovamento
impressa da De Gasperi alla DC, ha ribaltato la sua tesi originaria
sostenendo il « sostanziale consenso al regime », senza incrinature, dei
cattolici (Le proposta politica di De Gasperi, Bologna, il Mulino,
dell’azienda editoriale che sono stati pionieristicamente fatti oggetto
di studio, per un altro periodo, da Marino Beren- go !. Il mancato
riferimento alla forza condizionante delle istituzioni del regime è
infatti all'origine sia di facili asso- luzioni di una cultura che
sarebbe passata indenne « attra» verso il fascismo, sia di altrettanto gratuite
reprimende contro l’incapacità di rinnovamento delle forze di sinistra.
Fra l’accusa al PCI di essersi fatto carico del- l’« ideologia della
ricostruzione » — per cui si sopravva-' luta il significato dell’«
inquietudine politica » de « Il Politecnico » —, e la riproposizione crociana
di una cultura che, sotto il fascismo, si era chiusa su se stessa,
rivendicando la propria autonomia: e da una tacita contrattazione col potere
aveva ottenuto il permesso di vivere e di svilupparsi nella sua (pseudo)
separatezza», vi è infattiuno iato profondo che non permette di spiegare
storicamente gli indubitabili ritardi registrabili nel rinnovamento culturale. Il
processo di affrancamento degli intellettuali dalla cultura del regime fu
in realtà assai complesso, anche quando passò attraverso la difesa
dell'autonomia della cultura. Vi può essere stata, da un lato, l’indifferenza
di fronte alla politica di molti intellettuali che è all’origine sia
di un loro acritico allineamento al fascismo, sia di un arroccamento
attorno alla tradizione accademica, che nelle Università trovò alcuni spazi per
mantenersi separata dalla militanza politica richiesta dal fascismo,
anche se col rischio di un progressivo inaridimento. D'altro canto, in
un Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione,
Torino, Einaudi Cosi Luperini, Gl’intellettuali di sinistra e l'ideologia della
ricostruzione nel dopoguerra, Roma, edizioni di « Ideologie. Ne ha parlato Tranfaglia,
Intellettuali e fascismo. Appunti per una storia da scrivere, ora in Id.,
Dallo stato liberale al regime fascista. Problemi e ricerche, Milano,
Feltrinelli; G. Turi, Le istituzioni
culturali del regime fascista durante la seconda guerra mondiale, in Italia
contemporanea, e, con ottica diversa, Bongiovanni - Levi, L’università di
Torino durante il fascismo. Le Facoltà umanistiche e il Politecnico, Torino,
Giappichelli. periodo in cui, e la soppressione completa della
dialettica politica, il terreno culturale divenne nel paese un importante
termine di confronto per verificare anche l’esistenza di schieramenti
tendenzialmente politici, la rivendicazione dell’autonomia della cultura
co- stituî negli intellettuali più consapevoli uno strumento per
segnare una rottura nei confronti del regime, in vista della
ricostituzione di un rapporto nuovo fra politica e cultura: fu questo il
senso della battaglia di Croce, di alcuni dei principali collaboratori di
Einaudi in un primo luogo Ginzburg, e di alcuni settori di
ascendenza democratica, socialista e positivista per altro ancora
da indagare in tutte le loro ramificazioni, che abbiamo esemplificato nel
gruppo raccolto attorno alla casa editrice Formiggini. Non bisogna
tuttavia dimenticare che la cultura elabo- rata dagli intellettuali del
fascismo impose un arretramento del punto di partenza di una battaglia
culturale e politica che nel campo degl’avversari fu necessariamente sfumata,
ma anche non priva di oscillazioni, contraddizioni e riflussi tanto che poté
apparire anticon- formista la ripresa di motivi sostanzialmente non
antitetici al fascismo, come nel caso del liberismo di Einaudi, e che perciò
non può essere immediatamente classificata nella categoria dell’antifascismo.
Se è quindi possibile constatare come tanta parte della “intelligenza” italiana
sboccasse nell’Italia postfascista senza che le trasformazioni di superficie
corrispondessero a reali rinnovamenti di fondo, ciò è addebitabile, più che a
uno zdanovismo che in realtà non conculcò alcuna esistente cultura rivoluzionaria!, al ben più
drastico condizionamento Garin, Intellettuali italiani, Roma, Riuniti. Elementi
contraddittori si mescolano a interessanti suggerimenti di ricerca nella
testimonianza di Franco Fortini: « Quando si farà la storia dello
stalinismo italiano e si documenterà la repressione avvenuta ai danni di una
cultura rivoluzionaria non conformista che, incerta e confusa, pur si
veniva formando; e quando si chiarirà fino a qual punto la debolezza
intellettuale degli usciti dal fascismo, cioè di noi stessi, abbia
cospirato obiettivamente con talune debolezze morali e con operato da
tempo dal fascismo: con il risultato che il pro- cesso di rinnovamento
degli intellettuali italiani si presen- terà assai più lento delle
trasformazioni politiche del paese. Non ci sentiamo tuttavia in grado di
dare giudizi definitivi sulla controversa questione, anche in questo
campo, relativa alle continuità o alle rotture nella storia d’Italia. Ci
preme aver indicato un approccio di ricerca che ci sembra fruttuoso, e
auspicare che i risultati raggiunti stimolino ulteriori indagini e
riflessioni. Primo a seguire e incoraggiare questa ricerca è
stato Ragionieri, il cui ricordo è difficilmente cancella- bile in
chi ne ha conosciute e apprezzate le doti umane, intellettuali,
politiche: a lui va il mio principale debito di riconoscenza, nella
speranza di essere rimasto fedele, almeno in parte, alla sua eccezionale
lezione di rigore scientifico. Fra quanti hanno letto interamente o
in parte il datti- loscritto, ‘aiutandomi con correzioni e suggerimenti,
ringrazio in particolare Garin, Mori, Palla, Ranchetti, Soldani e Torrini; e, con loro, i numerosi
studenti e amici che hanno discusso la tematica di questa ricerca nei
seminari tenuti presso l’Istituto di storia della Facoltà di Lettere e
Filosofia di Firenze. Né posso dimenticare chi, regalandomi una stagione
felice, ha reso più leggera la mia fatica. Il lavoro non sarebbe
stato possibile senza la preziosa collaborazione del personale della
Biblioteca nazionale di Firenze e di quanti mi hanno facilitato la
consultazione di fondi archivistici: Cappelletti per l’Archivio
dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana; Milano e Selmi per l'Archivio Formiggini
presso la Biblioteca estense di Modena; la politica culturale
stalinista, polemizzando contro quest’ultima da destra e cioè da
posizioni radical-liberali invece che da posizioni marziste, allora sarà
possibile farsi un’idea meno mitica di certi tentativi, come quelli del
neorealismo cinematografico, del “Politecnico”, ecc.» (Verifica dei
poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Garzanti. il
personale della Fondazione Einaudi; Einaudi, Vivanti e l’archivista Gava per.
i documenti della casa editrice Einaudi; Balbo che mi ha concesso la
visione delle carte di Balbo da lei tanto amorevolmente custodite, e Bobbio che
ha messo a mia disposizione il suo archivio personale. Non è stata
invece possibile la consultazione dell’Archivio Gentile, ancora in attesa di
una sistema- zione che permetta l’accesso agli studiosi. In questo
volume si riproducono, con alcune modifiche, i seguenti saggi: Il progetto
dell’Enciclopedia italiana: l’organizzazione del consenso fra gli
intellettuali, in « Studi storici » (si limita a riprodurre la
tematica di questo articolo, senza nulla aggiun- gere, la maggior parte del
volumetto di Lazzari, L’Enciclopedia Treccani. Intellettuali e potere
durante il fascismo, Napoli, Liguori, tributario del mio saggio anche per
le fonti); Ideologia e cultura del fascismo nello specchio
dell’Enciclopedia italiana, in « Stu-di storici; l'introduzione alla
ristampa non integrale di Formiggini, “Storia della mia casa editrice”, Modena,
Levi. Il saggio I limiti del consenso: le origini della casa editrice
Einaudi è inedito: per questo ho potuto utilizzare il contributo CNR Ideologia
e cultura del fascismo: l’« Enciclopedia italiana. Opere come
l’Ernciclopedia, cui Gentile da cosi valido impulso, hanno nella vita di un
tempo un peso singolare. E innanzi ad esse, e alla loro penetrazione
profonda, conviene chiedersi se, per avventura, taluni giudizi correnti
non debbano essere rivisti e corretti. L’osservazione di Garin, fatta per
inciso in una ricostruzione generale di LA FILOSOFIA ITALIANA, comport una
verifica dell'equazione crociana fascismo-anticultura e cultura-antifascismo,
e quindi quel più attento riesame delle vicende culturali fra le due
guerre, in stretto rapporto con l’obiettivo del regime di organizzare il
consenso dei FILOSOFI, che attende ancora di essere compiuto sistematicamente.
Cosi non solo l’Enciclopedia italiana, utilizzata da studiosi stranieri
come fonte sulla dottrina filosofica del fascismo o come espressione
dell’orientamento prevalente nella cultura italiana -- ma anche l’opera
di Gentile teorico del periodo di consolidamento del fascismo, come lo ha
definito Lukàcs, con espressione ben piu corretta della generica formula
di filosofo del fascismo, sono rimaste avvolte in un silenzio che
è già per se stesso elemento di riflessione sui profondi condizionamenti
subiti a lungo dalla cultura italiana del secondo (Garin, CRONACHE DI
FILOSOFIA ITALIANA. Bari, Laterza, Efirov, La filosofia borghese italiana,
Firenze, Sansoni, Hobsbawm, Il contributo di Marx alla storiografia, in Marx
vivo. La presenza di Marx nel pensiero contemporaneo, Milano, Mondadori, Lukàcs,
La distruzione della ragione, Tortino, Einaudi] dopoguerra, che negli anni
venti e nel fascismo, e nel giudizio che ne da Croce, hanno la loro origine. Il
discorso sulla FILOSOFIA di Gentile, condotto in prevalenza da suoi allievi nel
“Giornale critico della filosofia italiana”con particolare lucidità da SPIRITO,
che ha ricostruito le tappe del suo distacco dal maestro come sviluppo degli
stessi principi attualisti, è rimasto limitato a un recupero agiografico o
a un anacronistico rilancio, privo di prospettive
storiografiche perché astratto dall’analisi del fascismo, in cui SPIRITO
ha voluto individuare, con un giudizio che richiede di
essere specificato, pensiamo in particolare al peso che ha anche sul piano
culturale il connubio regime/culto — “la ragione effettiva della crisi
dell’idealismo italiano” tale, quindi, da non consentire quell’esame della
personalità di GENTILE come promotore e organizzatore di alta cultura sul
piano nazionale cui pur richiama il gentiliano Bellezza. Le stesse CRONACHE
DI FILOSOFIA ITALIANA, di Garin, mosse dall’intento di considerare uomini
e dottrine come espressioni di un tempo e, insieme, come forze che in
un tempo agirono, e attente a non cadere nella troppo sche- [Il primo
studio moderno con intenti di completezza è quello di Harris, “La filosofia di Gentile”
(Roma, Armando), condotto però nella costante preoccupazione, come
afferma Harris nella prefazione all’edizione originale — di vedere “how far his
“actual idealism” may be disentangled from its fascist connections”, or
implicatures [entanglement, Lewis/Short, ‘in-plicatura’]-- , da cui discende il
giudizio sull’oggettività dell’Enciclopedia italiana. Per una confutazione
della critica a Gentile sulla linea liberale condotta da Harris cfr.
Cerroni, “La filosofia politica di Gentile”, “Società”. Per una
ricostruzione storica della figura di GENTILE
sono di grande utilità gli accenni, non tanto incidentali, di Colapietra,
“Croce e la politica italiana” (Bari, Santo Spirito, Edizioni del centro
librario, le osservazioni di Schiavo, “La filosofia politica di Gentile” (Roma,
Armando), e, pur con alcuni accenti apologetici, Lalla, “Gentile” (Firenze,
Sansoni). Spirito, “Gentile” (Firenze, Sansoni), in particolare
l'articolo qui raccolto su Gentile nella prospettiva storica di oggi. Di
Spirito cfr. anche “Memorie di un incosciente” (Milano, Rusconi). Bellezza,
Rassegna degli studi gentiliani più recenti, “Giornale di metafisica.” L’Enciclopedia
italiana] matida antitesi Gentile-fascismo e Croce-antifascismo,
non colgono compiutamente la funzione mediatrice dei filosofi— lasciando
spesso indeterminato il tempo nel quale operarono, come nota Cantimori
auspicandoneluna specificazione. La società, le classi, le università, le
istituzioni in generale, i partiti, le tradizioni culturali locali oltre
che quelle nazionali, ecc. Ccsi che, anche nel periodo da noi
considerato, in cui quella funzione e particolarmente valorizzata dal fascismo,
lasciano imprecisati i condizionamenti del potere politico e gli stessi debiti
dei filosofi. Per chiarire non solo l’utilizzazione ideologica di diverse
correnti culturali da parte del regime in vista della creazione de l
consenso, ma anche in che misura e perché mutarono nel ventennio i contenuti
culturali della filosofia, accolti o tenuti ai margini o respinti dal fascismo anche
in questo campo l’Italia non si trova nelle stesse condizioni del periodo
liberale, lo studio dell’ “Enciclopedia italiana” può essere particolarmente
fruttuoso. Per il momento in cui e ideate, preparate, e realizzata quello dello
stato totalitario, l’autorità dei suoi promotori, basti pensare a GENTILE
o a VOLPE, l’ampio ventaglio di collaboratori qualificati e
il carattere ufficiale che le e impresso fin dall’inizio, rappresenta lo
strumento forse più importante, accanto alla scuola, della politica
culturale del fascismo, e quindi un test assai significativo per valutarne
gl’effetti di lungo periodo, non riducibili all’ideologia o alla propaganda del
regime, anche se con queste connessi. Ma solo tenendo presenti gli obiettivi
politici del governo di MUSSOLINI e la
decisa sconfitta, anche sul piano culturale, degli avversari
liberali e socialisti, è possibile spiegare come a GENTILE e
possibile dare avvio alla colossale impresa enciclopedica, e
l'ampiezza dell’adesioni da lui raccolte anche da parte di FILOSOFI non
fascisti. Se ancora nell’articolo Forza e consenso, Mussolini puo porre
l'accento unicamente sul primo termine poiché il consenso è mutevole core
le formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere
sempre. Né mai può essere totale, si fa strada una linea politica più
articolata e di più lunga durata che, se affida a FARINACCI l’esecuzione
del momento della forza e della co-ercizione — mantenendolo come
necessario presupposto del consenso, punta, dopo la sconfitta delle forze
politiche avversarie, ad acquisire l'adesione, non solo passiva, di
quegli FILOSOFI ormai senza partito, o incerti, la FILOSOFIA dei quali
avrebbe potuto costituire, in assenza di alternative politiche, un fronte
di resistenza al regime. Non è un caso che uno degli esponenti del
fascismo che più si impegneranno nel tentativo di formare una nuova classe
dirigente, BOTTAI, dichiara su “Critica fascista” che il Pnf dove rivedere la
sua azione per conquistare il consenso, e, se pure la crisi conseguente
al delitto Matteotti vede le prime incrinature fra quegli FILOSOFI che non hanno
ancora preso le distanze dal fascismo in quanto vedeno nella
collaborazione di GENTILE una garanzia non solo per le sorti della
riforma della scuola, ma anche per quelle del paese — basti pensare al pessimismo
che si fa strada in OMODEO, o a quello che è stato chiamato l’aventino
di Radice, la situazione si presenta favorevole al fascismo per il
disorientamento FILOSOFICO che permea le file dei FILOSOFI liberali e
socialisti. Quando si apri fra questi FILOSOFI un vasto dibattito sulla
sconfitta dello stato liberale e del movimento operaio, mentre GRAMSCI
accusa il socialismo di non avere avuto una ideologia, non averla diffusa [Mussolini,
Scritti e discorsi (Milano, Hoepli). Bottai, “Arzo nuovo: il partito e la sua
funzione” “Critica fascista”- [Cantimori, Studi di storia, Torino,
Einaudi]. Cfr. ad esempio la lettera di OMODEO a Gentile in Gentile-Omodeo, Carteggio, a cura di
Giannantoni (Firenze, Sansoni). Margiotta, “Radice: tra attualità ed
irrisoluzione storica” (Reggio Calabria, Edizioni parallelo). L'Enciclopedia
italiana tra le masse » , quasi con le stesse parole GOBETTI afferma che i partiti
d’opposizione non hanno alimentato alcuna grande ideologia. Il socialismo
non ha trapiantato Marx in Italia, per cui il trionfo fascista si connette
a queste condizioni di impreparazione. Mondolfo sostene che da una ripresa di
idealismo il nostro movimento non può che trarre nuova forza e nuovo
impulso, o cerca di dimostrare che poteva essere morale e vantaggiosa
quella che si chiama la collaborazione di classe. Più in generale, la
discussione sul marxismo che si svolse su “Critica sociale”, “Rivoluzione
liberale” e “Quarto stato”, rimane condizionata più che mai dall’IDEALISMO
HEGELIANO dominante, e non poco ancora, da quello più accentratamente
soggettivistico, l’attualismo gentiliano. Cosi, se ancora “Il Mondo,” dopo
aver negato l’esistenza di un nesso tra le riforme gentiliane e le ideologie
fasciste, puo registrare il fallimento del fascismo nel tentativo d’attrarre
nella sua orbita FILOSOFI di studio e di dottrina, di circondarsi della
sua classe, dopo il Manifesto degli FILOSOFI fascisti, Croce, pur osservando
che il fascismo non solo è indifferente alla filosofia, ma
intimamente ostile, sentendo che dalla filosofia sono venuti i
pericoli all'ordine sociale, era costretto a notare gl’afaccendamenti
inutili e mal graditi di un certo numero di filosofi e fra questi parecchi
nostri ex-compagni di studi ed ex-amici che si sono messi al servizio del
fascismo in una situazione d’assoggettamento [Gramsci, Che fare? Per la
verità, Scritti, Martinelli (Roma, Editori Riuniti). Gobetti, La mostra cultura
politica, in Scritti politici, Spriano (Torino, Einaudi). Mondolfo, Una
battaglia per il socialismo, Bassi (Bologna, Tamari). Luporini, Il marxismo e
la cultura italiana, in Storia d’Italia, Torino, Einaudi. Il fascismo e
la cultura, in « Il Mondo »] a ferrea disciplina. A Croce sfugge tuttavia
l'ampiezza e la qualità del fenomeno, in quanto rimane convinto che tra
fascismo e FILOSOFIA ci fosse un’opposizione in termini. Come partito
medio, come idealità che richiede esperienze e meditazione, senso storico
e senso delle cose complesse e complicate, e insomma finezza mentale e morale,
il liberalismo, è il partito della cultura; e liberale e il nostro
Risorgimento, nel quale cultura e amor di patria confluirono. Socialismo e
autoritarismo, invece, in quanto partiti estremi, ritengono non poco di
astratto e di semplicistico, e perciò, come sono facilmente ricevuti dagl’animi
e dalle menti dei pupilli, cosi presentano i segni caratteristici della scarsa
o unilaterale cultura, osserva Croce in un articolo che gli era valso da parte
di GENTILE, teso a presentare il fascismo come vero liberalismo,
l’appellativo di schietto fascista senza camicia nera. Si era alla vigilia
della rottura politica tra Croce e Gentile, e il partito
della cultura del primo e destinato a rimanere un programma per il future.
Le sue preoccupazioni sono tutte volte al future, osserva Gobetti
esaltandone l’antifascismo identificato con la ribellione dell’europeo e
dell’uomo di cultura, e sottolineando la differenza tra GENTILE DOMMATICO,
autoritario, dittatore di provinciale infallibilità e Croce politico,
capace di riflessione e di dubbio, detentore di una chiara idea dello stato,
che è forza soltanto in quanto è consenso. Ma, se giustamente venne colta
in Croce la separazione impossibile tra filosofia e politica, due elementi
sfuggeno agl’osservatori contemporanei: la capacità dimostrata dal
fascismo, e in particolare da Gentile, proprio [Di Croce, Pagine sparse,
Bari, Laterza, Croce, Liberalismo, in
Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza. Gentile, “Il
liberalismo di Croce” in Che cosa è il fascismo, Discorsi e polemiche,
Firenze, Vallecchi. Gobetti, Croce oppositore in Scritti politici, cli
RUN (Garin, Croce o della separazione impossibile fra filosofia e politica
in Filosofi italiani (Roma, Editori uniti)] di combinare forza e CONSENSO nel
dar vita a istituzioni tendenti a centralizzare e organizzare le più
diverse energie FILOSOFICHE, e la tendenza di molti FILOSOFI che facilita
l’opera di Gentile a separare (a differenza di Croce) filosofia e politica,
nell’illusione di poter continuare a coltivare la prima, anche all’interno
delle istituzioni del regime, senza contaminarla politicamente. Esemplare
in questo senso appare la vicenda dell’Enciclopedia italiana: opera di FILOSOFI
non alla opposizione, come gl’enciclopedisti francesi, ma ceto dirigente
al governo, nata subito sulla base di uno stretto rapporto di
compenetrazione fra FILOSOFI e potere politico, pur senza rompere
immediatamente, secondo l’impostazione gentiliana, con alcuni esponenti
dello stato liberale, la SUMMA PHILOSOPHIAE del fascismo riusci a convogliare
verso un unico fine — con la parziale eccezione dei cattolici, al
tempo stesso collaboratori e critici anche FILOSOFI che non si
riconoscevano nel fascismo. Per questo è possibile individuare nell’ “Enciclopedia
italiana”, oltre che nella riforma della scuola, un eccezionale strumento
di diffusione della ricostruzione gentiliana della tradizione filosofica
italiana, di una storia della filosofia italiana che è capace di
penetrare dovunque, che è presente nei luoghi più impensati, presso gli
avversari più acerbi, raggiungendo sottilmente una egemonia non esaurita,
capace di sopravvivere al fascismo. La prima idea concreta di una grande
enciclopedia [Cosi Garin nell’introduzione a Gentile, STORIA DELLA
FILOSOFIA ITALIANA, Firenze, Sansoni. L'idea era in tantissimi e si agitava da
un trentennio negli ambienti editoriali italiani, ricorda Formiggini
rispondendo all’ex ministro della P.I. Anile che gli aveva attribuito la
paternità del progetto (« L’Italia che scrive »). Un accenno a un non
lontano tentativo di Treves, Demarsico e Barbèra, in Formiggini, “La FICOZZA
FILOSOFICA del fascismo e la marcia sulla Leonardo. Libro edificante e
sollazzevole, Roma, Formiggini] nazionale italiana e concepita
nell'immediato dopoguerra, in ambienti di interventisti culturalmente
estranei all’idealismo imperante. Comincia a prospettarla Martini, coadiuvato
da Menghini, l’appassionato
curatore dell’edizione nazionale degli Scritti mazziniani. Ad essi si
associerà in un estremo tentativo di attuare il progetto, l’editore
Formiggini, attivissimo nell’organizzazione e nella propaganda della cultura
italiana. l progetto, riconosciuto pi tardi punto di partenza per
l’enciclopedia gentiliana, non e cosa modesta come tutto ciò che si
poteva concepire in quel tempo di smarrimento politico, come cerca di far
credere TRECCANI alludendo alla crisi della democrazia liberale precedente la
marcia su Roma e all’incertezza dei primi tempi del fascismo. Il momento
in cui nacque e la personalità del promotore ne testimoniano l’ampiezza
delle prospettive, anche se falli per essere rimasto su un piano
puramente editoriale, privo di un generale criterio informatore dal
punto di vista culturale ed esposto a quelle difficoltà finanziarie e
politiche che TRECCANI e il fascismo faranno superare a Gentile. Si
tratta di dare all’Italia, che non l’ha, una Enciclopedia nazionale come
l’hanno la Francia, l'Inghilterra, e la Germania, scrive Martini al fedele
Donati, appena insediato il ministero di Giolitti, suo principale
obiettivo polemico assieme a Nitti e ai socialisti. Facciamo, per
consolarci, qualcosa che vada al di là dei giorni che viviamo —
tristissimi giorni. Dalla constatazione della inferiorità italiana . Cfr.
Biblioteca nazionale centrale di Firenze (d’ora in avanti BNF), Fondo
Martini, lettere di Menghini, e G. Treccani, Enciclopedia italiana. Treccani.
Idea esecuzione compimento, Milano, Bestetti. Discorso in occasione della
presentazione al duce dell’Enciclopedia italiana -- d’ora in avanti E.I.,
Treccani, Enciclopedia italiana Treccani. Idea esecuzione
compimento, Martini, Lettere, Milano, Mondadori. Su Martini cfr., per un
parziale tentativo d’interpretazione, la prefazione di Rosa a Martini,
Digrio, Milano, Mondadori. L’Enciclopedia italiana] nel campo
dell’organizzazione della cultura rispetto ai maggiori paesi europei,
scaturisce la necessità, e la possibilità, di ovviarvi dopo la guerra
vittoriosa. Necessità che non è solo espressione dell’orgoglio per la
forza politica recentemente acquistata dal paese, da tradursi
nell’affermazione della filosofia italiana davanti al resto d’Europa. Essa
indica anche un’opera preliminare ancora da compiere, indispensabile
alla conservazione di quella forza. Combattere i contrasti interni
costruendo, come strumento unificante di egemonia, una cultura razionale.
La fierezza per l’unità, indipendenza e sicurezza finalmente conseguite, e
la coscienza che l’Italia e arrivata, dopo secoli di asservimento, ad
eguagliare le grandi potenze europee, si une nel dopoguerra al tentativo
della disgregata classe dirigente liberale — timorosa di perdere le sue
conquiste con l'avanzata delle masse popolari organizzate e d’ispirazione
neutralista, socialiste e cattoliche di rafforzarsi egemonicamente; di qui
l’importanza che la battaglia culturale, prescelta anche dalle nuove forze
antagoniste, rappresentò per la borghesia: l’insistenza sul significato
nazionale o italiano della cultura « tradizionale, esaltato dalla guerra, mira
a unificare e controllare, a difesa dell’ordine costituito, i filosofi
in gran parte già individualmente politicizzati, spesso in senso
conservatore, dal clima bellico. Il programma di rivolgimento spirituale
sotto il segno dell’ordine e della disciplina gerarchica, su cui insiste
Gentile di Guerra e fede, di Dopo la vittoria e dei Discorsi di
religione, e sostenuto da pi voci nelle pagine di « Politica », programma
critico del giobittismo come malattia italiana, e in questo senso solo la
espressione piu articolata e coerente della borghesia reazionaria che si
riconosce nel fascismo, definito sforzo rivoluzionario da VOLPE che lo
contrapporta polemicamente a un'immagine di comodo del socialismo. Muove
dalla % Ci limitiamo a segnalare Garin, Cronache, e, per un quadro
europeo, Hughes, “Coscienza e società: storia della filosofia in Italia” (Torino,
Einaudi). Per un settore particolare cfr. Simonetti, Storici italiani e
rivoluzionari in Russia, in « Il movimento di liberazione in Italia »] accettazione
della guerra, anzi dall’esaltazione di quella guerra, e si alimenta di
quelle energie morali, di quel senso di disciplina, di quella capacità di
iniziativa, di quel coraggio e spirito combattivo che la guerra ha educato negl’italiani,
nella borghesia italiana. Accetta ben presto i valori tradizionali della
nazione italiana, cioè si nutre di sostanza italiana: condizione
necessaria per poter far presa su di essa, per poter avere la collaborazione o
anche solo la benevola neutralità delle forze migliori del paese. L’idea
di una grande Enciclopedia nazionale, non semplice opera compilativa e
divulgativa come le enciclopedie popolari » prebelliche, rientra in questo
programma di rafforzamento della borghesia italiana, in linea con la
ten: denza degli Stati moderni a darsi, dopo crisi di crescita e di
ricostruzione, una rinnovata organizzazione culturale (si pensi, per fare
un esempio contemporaneo anche se riferito ad un’esperienza opposta a quella
italiana, alla Grande enciclopedia sovietica iniziata a Mosca nell’anno
stesso in cui il dibattito sui caratteri della cultura socialista vide
prevalere i sostenitori della tesi della « cultura proletaria). La
disponibilità di Martini a questo programma VOLPE, Storia del movimento
fascista, Milano, Ispi, Come l’Enciclopedia popolare illustrate e la
Grande enciclopedia popolare, entrambe di Sonzogno. Se la Britannica fu
l’enciclopedia da emulare, modello du seguire per un’opera nazionale e
piuttosto il Touring Club Italiano, giudicato dall’E. I. nettamente nazionale
per la sua vasta penetrazione in tutte le classi sociali (44 vocerm): il suo Atlante Internazionale e
utilizzato dall’E. I. in seguito ad apposito ac- cordo editoriale (cfr.
anche R. Almagià, Una grande opera italiana di cultura, in « Educazione
fascista ». AIUT.C.I, si richiamarono Formiggini e Martini come modello
per la Fondazione Leonardo (cfr. « L’Italia che scrive » e A.I°. Formiggini).
Al carattere essenzialmente nazionale, del ‘T.C.I. accenna Gramsci,
Quaderni del carcere, edizione critica dell'Istituto Gramsci a cura di V.
Gerratana, Torino, Einaudi, Sui caratteri generali del dibattito sulla cultura
svoltosi in U.R.S.S. cfr. l’introduzione di V. Strada a Rivoluzione e
lettera tura. Il dibattito al Congresso degli scrittori sovietici, Bari,
Iuterza. « La storia dimostra che ogni classe ha creato la sua
enciclopedia, aveva affermato Bogdanov proclamando la necessità: di preparare
una Enciclopedia operaia (cfr. Fitzpatrick, Rivoluzione e cultura in
Russia. Lunabarskij e il Commissariato del popolo L’Enciclopedia
italiana sarà testimoniata dalla sua presenza nel consiglio
direttivo dell’Istituto Treccani che ne riprenderà l’idea, ma è
rintracciabile anche in tutta la sua attività di uomo politico e di cultura:
auspice della impresa libica cui attribuiva questo inapprezzabile rinnovamento
nostro, questa concordia di popolo di cui l’Italia non ha esempio
nella sua storia, la sua azione per l’intervento era stata
determinante tanto da guadagnargli l'appellativo di grande apostolo di
italianità », come lo chiamò Treccani in occasione della fondazione del suo
Istituto. Nel corso della guerra aveva però saputo cogliere la
profonda spaccatura tra la classe dirigente liberale e le masse
popolati affette dalla « tabe del materialismo, il popolo minuto
non ha capito il perché della guerra: della patria sente più poco,
tormentato com’è dalle aspirazioni a migliori condizioni sociali, annotava nel
Diario, che, a suo giudizio. Nitti e Giolitti non erano riusciti a
colmare per debolezza verso gl’elementi torbidi socialisti. Nel dopoguerra si
ripresentava il pericolo che di fronte ai primi passi del movimento
operaio organizzato, aveva spinto l’ex ministro della Pub- blica
Istruzione a manifestare a Carducci i suoi dubbi sugli effetti del
laicismo liberale: per l’istruzione, Roma, Riuniti). L’E. I. giudica la
Grande enciclopedia sovietica condotta secondo un criterio rigorosamente bolscevico, e particolarmente
curata nella. parte scientifica e tecnologica (alla voce Enciclopedia). Nella
prefa- zione al vol. I dell’E. I., Gentile sottolineerà il « pregio delle
vaste opere collettive, che danno disciplina agl'ingegni e forma concreta
e definita al pensiero di un popolo. fr. il brano del
discorso citato in Croce, dhe d’Italia, Bari, Laterza. Martini, Diario
cit., e Gifuni, Lettere inedite di Martini a Salandra, in L'osservatore
politico letterario.Treccani. Kirk del Diario, cit. Giustamente Isnenghi
giudica Martini, fra i protagonisti politici, «uno dei più franchi o meno
reticenti nel collezionare gli indizi di insubordinazione nel paese e di
messa in crisi del rapporto tradizionale d’autorità » (Il mito della
grande guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza). Cfr. Martini,
Lettere, cit., di ciò che il Quinet dice con grande efficacia di parole e
dimostra con grande autorità di esempi, che cioè le rivoluzioni
politiche, le quali non accompagnino un rinnovamento religioso, perdono
di vista l’origine loro e i primi intenti e finiscono a scatenare
ogni cattivo istinto delle plebi; di ciò io sono convinto da un
pezzo. Ma dopo il male che woî, tutti noi, caro Giosuè, abbiamo
fatto, siamo in grado di provvedere a’ rimedi? A chi predichiamo?
Noi, borghesia volteriana, siam noi che abbiam fatto i miscredenti,
intanto che il Papa custodiva i male credenti; ora alle plebi che
chiedono la poule au pot, perché non credono più al di lè, ritorneremo fuori a
parlare di Dio, che ieri abbiamo negato? Non ci prestano fede... abbiam
voluto distruggere e non abbiamo saputo nulla edificare. La scuola
doveva, nelle chiacchiere de’ pedagoghi, sostituire la chiesa. Una bella
sostituzione! La sua estromissione dal parlamento dopo quaranta-cinque anni —
in seguito alle elezioni, e le agitazioni sociali culminate
nell’occupazione delle fabbriche, convinsero Martini dell’impotenza del
me- (Chabod, Storia della politica estera italiana, Bari, Laterza, da
integrare però col discorso di Martini alla Camera, contro l’introduzione
dell'insegnamento religioso nelle scuole elementari (« opporre una
religione di classe alla lotta di classe», come vorrebbe «una borghesia
sgomen- tata dalle minacce del proletariato, sarebbe come trattenere coi
fuscelli la corsa delle locomotive »: citato da S. Cilibrizzi, Storia
parla mentare politica e diplomatica d’Italia da Novara a Vittorio Veneto,
Milano-Genova-Roma-Napoli, Società editrice Dante Alighieri). Ma sarebbe da
studiare tutta la sua posizione sulla scuola, da prima quando fu ministro
della P.I. nel primo gabinetto Giolitti (su cui cfr. Bertoni Jovine, La
scuola italiana, Roma, Editori Riuniti), a quando dichiarò a Crispolti di
essere favorevole all'esame di stato per le scuole medie (Lettere). Né è
da trascurare, nello scrittore, l’aristocratica toscanità della prosa, guidata
da un provinciale buon senso, che si attirò i giudizi negativi di Croce
(ora in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari,
Laterza) e di Gobetti (ora in Scritti storici, letterari e filosofici, a
cura di P. Spriano, Torino, Einaudi), da approfondire nel senso
indicato da Asor Rosa (Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura
contemporanea, Roma, Samonà e Savelli) che ha incluso Martini fra i
rappresentanti di una fase «regionale », ma non per questo meno
nazionale, del populismo; tenendo tuttavia presente la vicinanza di Mar-
tini ad Ojetti, il cui libro Mio figlio ferroviere (Milano, Treves) fu
giudicato dall’amico la vera storia d’Italia, dalle ultime fucilate dei
combattenti alle prime bastonate dei fascisti » (Lettere), e da
Prezzolini « uno dei segni precursori della reazione al disordine e alla
debolezza dei governi italiani parlamentari del dopoguerra » (La cultura
italiana, Milano, Corbaccio). L’Enciclopedia italiana todo
liberale a risolvere i problemi che il paese aveva ere- ditato dalla
guerra, e lo spinsero a seguire Salandra nel cammino che lo porta ad
aderire al fascismo. Lo spirito di riscossa nazionale da cui si senti
animata la borghesia liberale interventista nell’immediato dopo-
guerra e, insieme, i pericoli oggettivi per i suoi propositi e la sua
stessa posizione, condizionarono anche l’Ewciclopedia nazionale, nelle
aspirazioni come nel fallimento. Per il suo progetto quello di Treccani
ne prevederà all’inizio 32, diventati poi 36 — Martini ottenne il patrocinio
della Società italiana per il progresso delle scienze (S.I.P.S.), la
maggiore organizzazione scientifica del paese che univa alla diffidenza
per il neoidealismo una decisa impronta « nazionale » ‘; ma per quattro
anni cercò invano di assicurargli un’adeguata copertura finanziaria.
Menghini — interventista e antigiolittiano, non nuovo ad imprese
enciclopediche, che a Roma tenne i contatti con Volterra, Bonfante e
Almagià — membri del consiglio direttivo della S.I.P.S., inizia trattative
con Bonaldo Stringher, direttore della Banca d’Italia e amministratore
della S.I.P.S. fin dalla fondazione. Nel Martini, Lettere, (per le
elezioni). Per la sua concordanza con Salandra nel giudizio sul fascismo
cfr. anche R. De Felice, Mussolini il fascista, I. La conquista del
potere La, Torino, Einaudi e Gifuni ._ % Cfr. F. Martini, Leztere, cSulla
S.I.P.S. cfr. R. Almagià, La società italiana per il progetto delle
scienze, in « L’Italia che scrive, e il breve cenno di L. Bulferetti, Gli studi
di storia della scienza e della tecnica in Italia, in Nuove questioni di
storia contemporanea, Milano, Matzorati. Scriveva a Martini: «Il popolo,
pur troppo, agisce male: ma come agir bene con l’esempio che ha di tanti
malgo- verni? Cosa debbono pensare le madri dei cinquecentomila figli
morti, quando sentono che la guerra si doveva evitare? »; cfr. anche,
contro Giolitti, la lettera. Sulle stesse posizioni era Ales-
sandro Donati, ad es. nelle lettere a Martini (BNF, Fondo Martini). Aveva
diretto l’Enciclopedia contemporanea illustrata edita da Val- lardi,
Milano (fra i collaboratori, Emilio Bodrero e Ro- «berto Paribeni).
% Per l’elenco delle cariche sociali
della S.I.P.S. dal 1907 cfr. ad es. Atti della Società italiana per il
progresso delle scienze. Undicesima riunione, Trieste, Roma, Società italiana
per il progresso, attenuatesi le difficoltà economiche dell’anno precedente,
Stringher — che aveva cointeressato anche Pogliani della Banca Italiana
di Sconto, Fenoglio della Commer- ciale e il finanziere Della Torre che
controllava un’imponente catena editoriale — promise il suo appoggio; fu
incaricato della realizzazione l’editore Bemporad, mentre Menghini
cominciò ad interpellare gli eventuali direttori dell'impresa fra cui,
sembra, Gentile. Ma le incertezze delle banche non erano ancora vinte —
anche dopo la presentazione da parte di Bemporad di un progetto molto
ridotto rispetto a quello originario —, per cui Martini accettò il
consiglio di Stringher di affidare la realizzazione dell’enciclopedia a
un gruppo editoriale da promuoversi attorno a un editore « di prima
grandezza ». La scelta cadde su Angelo Fortunato Formiggini e sulla
Fondazione Leonardo da lui creata: fu questa la via per la quale l’idea
passerà a Gentile. I propositi culturali nazionali della Leonardo,
analoghi a quelli di Martini che ne fu il primo presidente, si
affiancavano a quelli dei numerosi istituti di propaganda culturale nati
o nuovamente sviluppati nel dopoguerra, ma con un'impronta originaria —
prima dei condizionamenti governativi e dell’intervento di Gentile —
nettamente diversa dal deciso accento politico e nazionalistico che
fin dall’inizio aveva avuto, ad esempio, la Alighieri ‘
delle scienze. Si profilò il pericolo di una concorrenza al progetto di
Martini, da parte di un editore di Bergamo, che sembra si fosse
assicurata la collaborazione di Gentile, Chiovenda, Paribeni (BNF, Fondo
Martini, lettere di Menghini, e di Donati). Per tutto l'andamento
delle trattative cfr. le lettere di Menghini a Martini. Sulle
compartecipazioni editoriali di Pogliani, Fenoglio e Della Torre, utili
notizie in V. Castronovo, La stampa italiana dall'Unità al fascismo,
Bari, Laterza. Menghini a Martini. Passando per Firenze non potrebbe
interrogare il Cadorna? Io potrei incaricarmi del Gentile: Martini, Stringher,
Volterra son già de’ nostri. Come fare per Marconi, Luzzatti, Ciamician e
Murri? » (BNF, Fondo Martini). Su Bemporad editore negli anni venti di «
Critica sociale », cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, e l'intervento di
Piero Treves in La Toscana nel regime fascista, Firenze, Olschki, Sulla
funzione di « grande milizia civile » svolta dalla Dante Ali- ghieri,
fondata da Ruggero Bonghi, cfr. P. Barbèra, La Dante. L’Enciclopedia
italiana l'opera di Formiggini si rivolgeva soprattutto all’interno,
in un tentativo di unificazione culturale che con la rivista bibliografica «
L’Italia che scrive », trovava in tutta la sua attività prebellica i
motivi della sua estraneità all’idealismo e dell’avversione per
la setta filosofica gentiliana giudicata tirannide dottrinale contraria
alla manifestazione delle diverse correnti culturali *
L’intento di sviluppare all’estero la conoscenza della cultura
italiana aveva portato. Formiggini ad un incontro con le prospettive
nazionalistiche degli organi statali pre- posti alla stampa e alla
propaganda * e, su queste basi, alla creazione dell’Istituto per la
propaganda della cultura ita- liana che, dopo aver ottenuto un sostegno
anche da parte degli industriali, fu inaugurato ufficialmente a Roma ed
eretto in ente morale, col nome di Fon- dazione Leonardo, nel novembre
dello stesso anno, con Alighieri, relazione storica al Congresso
(Trieste-Trento), Roma, Società nazionale Alighieri, e Id., Quaderni di
memorie stampati ad usum delphini, Firenze, Barbèra, dove è anche una
professione di fede di Barbèra, segretario del Consiglio centrale della Dante
(« non son socialista, perché credo la essenza di tal dottrina contraria
a natura e giustizia, e poiché essendo essa necessariamente
internazionale è contraria al principio di nazionalità che è anch'esso
legge di natura), conforme ai fini della Dante, nata a rinnovare il «
pensiero della Patria » negli emigrati e nel proleta- riato che, «
ansioso di migliorare le sue penose condizioni, sentî il bisogno di
organizzarsi per le rivendicazioni dei suoi diritti e di allearsi al proletariato
degli altri paesi con vincoli internazionali » (Barbèra, L’Alighieri). E
consigliere della Società anche Martini. Formiggini, La ficozza
filosofica del fascismo. Sulla figura e l’opera di Formiggini. Formiggini
ottenne per le Guide bibliografiche il patrocinio della Commissione per la
propaganda del libro italiano all’estero, presieduta dal nazionalista
Gallenga Stuart (L'Italia che scrive), suscitando i dubbi di Gobetti
sull’efficacia e l’imparzialità culturale dell’iniziativa (ora in Scritti
politici); cfr. anche L. Tosi, Romeo A. Gallenga Stuart e la propaganda
di guerra all’estero, in « Storia contemporanea ». E annunciata la
costituzione dell’Istituto per la propaganda della cultura italiana sotto
la presidenza di Martini e Comandini (commissario per la propaganda
all’In- terno) e, fra i consiglieri, il direttore del Giornale d’Italia
Bergamini, Buonaiuti, Formiggini, Croce, Einaudi, Prezzolini (L’Italia
che scrive; cfr. anche il frontespizio). Martini presidente, Orso M.
Corbino vice-presidente, Gentile e Amedeo Giannini delegati rispettivamente del
ministro della Pubblica istruzione e di quello degli Esteri, Almagià e
Chiovenda consiglieri, Formiggini consigliere delegato alle pubblicazioni. I
nuovi accordi e le nuove compagnie si dimostrarono subito pericolosi
e condizionanti, tali da non permettere che l’ente svolgesse quel
compito di equilibrata armonizzazione di correnti opposte che Formiggini
sperava ereditasse dalla sua rivista. Il suo ideale di imparzialità si rivelò
un’arma a doppio taglio, permettendo in questa fase che altri utilizzasse
l’iniziativa per i propri fini. Il consiglio direttivo della Leonardo,
dicendosi convinto che la forza di espansione necessaria alla cultura
italiana non possa derivare da artificiali argomenti di propaganda,
ma soltanto dal valore stesso della nostra cultura, affermava con
linguaggio trasparentemente gentiliano che creare la cultura è la prima
condizione della sua propaganda; ma la cultura non esiste se non nello
spirito che l’alimenta accogliendola e sentendola »; considerava quindi
necessario organizzare un lavoro di propaganda interna diretto a
ravvivare negli animi il concetto di quanto nella cultura italiana fu
veramente originale e arrecò un contributo incontestabile al patrimonio
spirituale dell'umanità, e affidava questo compito a una serie di
conferenze tenute da Gentile, Croce, Scialoia, Farinelli, Rossi, Ricci.
Era un chiaro rifiuto del programma culturale di Formiggini e della sua casa
editrice. L’iniziativa di quest’ultimo divenne « impersonale », cioè
« nazionale », come egli stesso dichiarò, e la Fondazione si propose,
secondo le dichiarazioni di Martini, di « propagare il pensiero nazionale fra i
popoli civili e ciò non con intenti imperialistici, ma unicamente col
proposito di far sapere chi siamo e che cosa facciamo ». Ma in breve
tempo Gentile, forte dell’appoggio governativo, riusci ad assu-
mere il controllo della Fondazione presieduta da Bonomi —, separandola
progressiva- mente da « L'Italia che scrive », sull’esempio della quale
— e utilizzando molti dei suoi collaboratori modellerà L’Enciclopedia
italiana più tardi il « Leonardo » affidato a Prezzolini e
poi a Russo. L'assemblea sociale della Fondazione, manipolata da Gentile
promotore della « marcia sulla Leonardo, stando alle accuse di
Formiggini® —, rovesciò il consiglio direttivo, che fu ristrutturato
sotto la presidenza del nuovo ministro della Pubblica istruzione
del primo gabinetto Mussolini L’ente e
il suo patrimonio saranno assorbiti nel ’25 dall’Istituto nazionale
fascista di cultura”, mentre Formiggini continuerà ne L'Italia che
scrive a inseguire ingenuamente il suo sogno di rispec- chiare, in una
Italia in cui molte voci andavano ormai spen- gendosi, tutte le correnti
della cultura nazionale, senza comprendere come fosse ben diversa
dall’opera di armonizzazione da lui auspicata la volontà esplicita del
Governo di assumere la diretta gestione di tutti gli organismi di
propaganda nazionale. La parabola della Leonardo segna il destino
dell’Enciclopedia nazionale progettata da Martini: proprio nella seduta che
sanzionò — ad opera di Gentile — il definitivo distacco dell’Istituto da
« L’Italia che scrive », Formiggini comunicò al consiglio direttivo
della Leonardo di essere stato incaricato da « un gruppo di amici che
facevano capo a Martini », rima- sto presidente onorario della
Fondazione, di realizzare una Grande Enciclopedia Italica per sodisfare
la lunga attesa della Nazione e dar vita ad un’opera che, mercé una
larga diffusione in Italia e nei centri culturali stranieri, giovi
gagliardamente al progresso intellettuale del nostro Paese Cfr. «L'Italia
che scrive. Formiggini. Con Gentile presidente e A. Giannini vice-presidente,
erano con- siglieri R. Bottacchiari, G. Calabi, Codignola, Giglioli,
F. I Massuero, Radice, V. Rossi (Leonardo). Cosî afferma Formiggini,
ancora in epoca fascista (Venticinque anni dopo, Roma, Formiggini; cfr.
anche Trent'anni dopo. Storia di una casa editrice, Amatrice,
Formiggini). Ancora come attesta Salvemini, Scritti sul fascismo,
Milano, Feltrinelli. Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo. e al buon nome dell’Italia nel mondo ».
Ritenendo impos- sibile ricalcare le orme della Britannica, Formiggini
ridusse, come già aveva fatto Bemporad, il progetto originario di
Martini — 18 invece di 24 volumi, e ne affidò la realizzazione a un costituendo
consorzio editoriale librario (con la partecipazione anche dei maggiori
periodici italiani), sempre sotto il patrocinio della Società italiana
per il pro- gresso delle scienze. I redattori sarebbero stati scelti fra
i membri di quest’ultima, dell’Accademia dei Lincei e della
Leonardo, che avrebbero lavorato sotto la direzione non di un filosofo o
di uno scienziato, ma di un tecnico, un bibliografo e bibliotecario, per
rendere la Grande Enciclo- pedia Italica, come voleva Formiggini,
specchio completo e obiettivo dello stato presente della nostra cultura,
opera espositiva e di coordinamento delle varie dottrine »: era respinto il
consiglio di Croce di non fare opera eclettica, perché « una Enciclopedia
deve avere un’a- nima sua, una sua coerenza, condiviso anche da
Gentile Ma la marcia sulla Leonardo travolse Formiggini, che fu
abbandonato da Martini”; questi continuerà a coltivare la speranza di attuare
l’enciclopedia, finché non confluî nell’iniziativa gentiliana, mentre
Formiggini, abban- donato il vecchio progetto ”, riuscirà a dare inizio a
una nuova Enciclopedia delle Enciclopedie divisa per sog- [All'annuncio
dell’E.I., Formiggini scriverà che il Gentile di oggi (l’ho detto) non è più
quello di ieri. Egli allora era in piena armonia con Croce, il quale
avrebbe voluto una enciclopedia, tutte le ‘pagine della quale
concorressero ad uno stesso fine concettuale » (« L'Italia che scrive
»). Menghini scriveva a Martini che il trionfo «della tesi
del Formiggini fu quello di Bemporad, e che non si tratta pit di una
enciclopedia scientifica, ma di una a base Larousse », e concludeva: « appena
potrò, vedrò il Gentile, a cui narrerò tutto: e spero interessare il Governo
alla impresa (BNF, Fondo Martini). Martini, Lettere (a
Formiggini). Formiggini, Programma editoriale della collezione e
L'Enciclopedia Italica, in «L'Italia che scrive». L’Enciclopedia italiana
getti ®: ma quando ormai l’idea della Enciclopedia italiana,
ereditata da Gentile assieme alla Leonardo, era stata rilanciata dall’Istituto
Treccani. L'intervento di Treccani e Gentile Il progetto di Martini
fu realizzato fuori del ristretto ambito editoriale in cui era stato
confinato da Formiggini e con la forte impronta culturale di Gentile; ma
il rapido successo dell’iniziativa privata di Treccani e Gentile fu
reso possibile soprattutto dalla nuova realtà creata dal fa- scismo, che
favori una stretta compenetrazione tra interessi politici industriali
culturali, e fece sentire l’opera utile, anzi necessaria © alla cultura e
alla forza dello Stato nel quadro di una più generale riorganizzazione
del potere: il carattere « nazionale » dell’enciclopedia non si
presentò più solo come aspirazione da raggiungere — espressione di
italianità frutto di tutte le forze intellettuali del paese —, ma anche
come conseguenza del « nuovo ordine » che si autodefiniva « nazionale. Gentile,
presidente della Leonardo e, fino al giugno di quell’anno, ministro della
Pubblica istruzione, riprese e sviluppò il progetto di Martini, trovando
un pronto aiuto economico nel senatore Giovanni Treccani , la cui
figura Cosî annunciata ne «L'Italia che scrive». È noto che avevo
studiato il piano di una Grande Enciclopedia Italica e che altri sta
realizzando con grande abbondanza di mezzi quello che era stato il mio
proposito. Mi si rimproverava allora di voler dare uno specchio fedele di
tutte le correnti del pensiero degne di considerazione senza asservire
l’opera ad una particolare tendenza: oggi ho la giusta soddisfazione di
vedere che quel mio concetto è stato pienamente accolto. Le mutate
condizioni della vita culturale italiana mi fanno però rime- ditare su
quanto Croce ebbe a dirmi in proposito: egli affer- mava che una
Enciclopedia deve assolutamente avere un’anima sua propria, ed io allora non
vedevo quale delle tendenze spirituali avrebbe potuto imporsi come perno
di tutto lo scibile: oggi mi apparisce ben chiaro e non dubbio quale
debba essere il nucleo ideale di una simile impresa. L’E.I. è
qualificata «necessaria » in tutti i discorsi di Treccani (Enciclopedia
Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento). Entrato io in
Senato, il sen. Gentile (al quale mi legavano rapporti di cordialità per la
parte da lui avuta come Ministro della di industriale-mecenate rappresenta
il più ampio e politicamente nuovo intervento dei grandi gruppi economici nell’attività
editoriale. Alla morte di Rossi, il protezionista considerato precursore
dell’ideologia corporativa, cui Treccani dedicherà un significativo
ritratto nell’Enciclopedia, era entrato nel Rossi di cui divenne
presidente, e opera come amministratore delegato il salvataggio del
Cotonificio Valle Ticino, « intorno al quale sorsero altre aziende
tessili, tutte basate sui principi, cari al Treccani, della divisione del
lavoro e dell’indipendenza della funzione industriale, a tutti gli
effetti giuridici ed economici, da quella commerciale, anche allo scopo
di mettere le maestranze al riparo dai disastri eventuali della
speculazione, ma soprattutto, come Treccani dichiarò di fronte allo
spettro della rivoluzione leninista apparso con l'occupazione delle
fabbriche — allo scopo di raggiungere la « conciliazione sociale spoliticizzando
gli operai, cooptati nella direzione di aziende « puramente industriali di
tipo corporativistico, private dei più vasti poteri decisionali delle
aziende « pura- mente commerciali » ©. Presidente di numerose società
tes- Pubblica Istruzione, — allora si diceva cost — al recupero
della Bibbia di Borso d’Este) mi segnalò quel naufragato progetto,
affinché io vedessi se avevo la possibilità di attuarlo », ricorda Treccani.
Il progetto prevedeva 32 volumi, diventati poi 36, e un “Dizionario biografico
degl’italiani”; furono spesi circa 15 milioni per i soli collaboratori, e 100
per tutta l’opera di 25.000 copie. Lanaro, Nazionalismo e ideologia del
blocco corporativo-pro- tezionista in Italia, in «Ideologie». Nazione e
lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia, Padova, Marsilio. Di
Rossi Treccani scriverà nell’E.I. che « considerava primo elemento di
potenza e di ricchezza nazionale il capitale uomo, preparato con
sentimenti cristiani alla collaborazione fra le classi sociali. Ebbe
vivissima la coscienza dei doveri degl’imprenditori verso i dipendenti e
considerò l’interesse dei proprietarî non disgiunto da quello degli
operai e da quello della nazione »: dove, pur fatte le dovute concessioni
alla data di stesura della voce, sono accennate le origini nazionaliste e
cattoliche del corporativismo. % Cfr. l’anonima voce Treccani in
E.I., e P. Rossi, Dall’Olona ai Ticino. Centocinquant’anni di vita
cotoniera, Varese, La tipografica Varese. In modo che «l’operaio
industrializzato perderebbe l’abito di far L’Enciclopedia
italiana sili, chimico-meccaniche, agricole — membro
fondatore della società agricola italo-somala — ed editoriali, Treccani si
prodigò in quell’opera di mecenatismo che, soprattutto con l’acquisto e il dono
allo Stato della Bibbia di Borso d’Este, gli valse a nomina a senatore.
Il mecenatismo di Treccani, e di altri industriali o finanzieri quali
Gualino, non era, come osservava Gramsci, disinteressato: le loro iniziative
culturali erano illuminate autoprotezioni che, dichiarando
paternalisticamente di favorire l’interesse generale nazionale, aiutavano di
fatto quello delle classi dirigenti e l'ordine sociale costituito. A
Enciclopedia compiuta Treccani affermerà che si può contribuire al
progresso delle lettere, delle scienze e delle arti, anche senza essere
letterati, scienziati o artisti, proteggendo quelle e aiutando questi; e
spetta specialmente a coloro che, in un determinato momento, detengono la ricchezza
promuovere atti di gene rosità e di rischio, perché solo facendo compiere
al capitale un'alta del lavoro una funzione politica, e questa
eserciterebbe soltanto come cittadino e cioè all'infuori e al di sopra di
quella che sarebbe la lotta economica. Tanto all’infuori e al di sopra,
che un qualunque movente politico, in una eventuale lotta, non sarebbe
possibile concepire se non attraverso a un tentativo criminale di
sovvertimento sociale, o meglio a una aberrazione della coscienza
operaia, la quale vorrebbe allora precipi- tare nel baratro di una
eclissi storica la nazione e la società. Treccani, Capitale e lavoro, in «
Risorgimento ». Il diritto nuovo. La rivista « Risorgimento », fondata da
Treccani e diretta da Arrivabene, e su cui scrisse anche Corradini, è definita
dall'E.I. «di spiriti nettamente nazionali » (alla voce Treccani).
Per tutta la sua attività culturale e benefica cfr. Treccani,
Enciclopedia Italiana Treccani. Come e da chi è stata fatta, Milano,
Bestetti, (tutto il volume è concepito
come difesa dalle accuse di fascismo rivolte all’E.I. dopo la Liberazione).
La nomina di Treccani a senatore, avvenuta nella « infornata (cfr. Rossi,
Padroni del vapore e fascismo, Bari, Laterza), era stata raccomandata da GENTILE
a MUSSOLINI (Archivio centrale dello Stato, Roma (d’ora in avanti ACS),
Segreteria particolare del Duce, CARTEGGIO RISERVATO). Quaderni del carcere.
Accenni a Gualino — il fondatore della Snia-Viscosa e vice-presidente
della Fiat che finanziò le ricerche di Egidi e Chabod a Simancas — in AA.VV.,
ln memoria di Pietro Egidi, Pinerolo, Unitipografica pinerolese, Volpe,
Storici e maestri, Firenze, Sansoni. funzione sociale, esso può essere
benedetto anziché odiato. Gli industriali poi devono riconoscere che
l’industria è debitrice di tutto alla scienza: del suo fondamento, del
suo progresso, del suo divenire; e che la scienza, alimentando le
applicazioni pratiche — cioè in definitiva l’industria e l’agricoltura —
è largitrice di beni morali ed economici, che elevano la dignità del
popolo e il suo tenore di vita. Frutto del rafforzamento e della
concentrazione dell’in- dustria accelerati dalla guerra e dal fascismo ”,
l’impresa della Enciclopedia testimonia la stretta compenetrazione
dei gruppi di pressione economici — Treccani vi interessò anche il
segretario dell’Associazione cotoniera Riva, e per la realizzazione dell’opera
diverrà socio di Rizzoli, quindi di Tumminelli e Treves”? — con
interessi politici e culturali, affermatasi su larga scala in Italia
per la prima volta dopo la grande guerra, condizionando in modo
mediato l’editoria — divenuta, come la definî Vallecchi, industria delle
industrie —, e immediato la stampa quotidiana. La libera iniziativa di
Treccani poté cosî realizzare ciò che non era riuscito alla Banca
d’Italia di Stringher. Altrettanto decisiva per la ripresa e
l'ampliamento del vecchio progetto di Martini fu la coerente opera di organizzazione
culturale promossa da Gentile, che dopo l’esperienza bellica era venuto
accentuando il valore politico della Enciclopedia Italiana Treccani. Idea
esecuzione compimento. Mori, Per una storia dell’industria italiana durante il
fascismo, ora in Il capitalismo industriale in Italia. Processo
d'industrializzazione e storia d’Italia, Roma, Editori Riuniti. L’E.I. fu
realizzata « con grande fede nella disciplina e produttività delle forze
intellettuali italiane nonché nella resistenza dell'economia nazionale »,
affermò anche dopo la grande crisi Gentile (Tribolazioni di un
enciclopedista. Come si distribuisce l'immortalità, in «Il Corriere della
sera). Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento, e U.
Ojetti, I taccuini. Firenze, Sansoni,
che parla anche di trattative tra Fracchia e Treccani su un nuovo giornale
letterario, probabilmente « La fiera letteraria ».Vallecchi, Ricordi e idee di
un editore vivente, Firenze, Vallecchi. L’Enciclopedia italiana cultura,
la critica alla scienza spettatrice della vita e all’arcadia, in vista
della formazione di una nuova classe dirigente. La direzione gentiliana
di Accademie e Istituti, di riviste e collane editoriali, il controllo di
case editrici, affermatisi nel periodo fascista, ebbero nel campo
dell’alta cultura un’incidenza pari se non superiore, perché
stabili per un quindicennio, alla stessa riforma della scuola nel
settore educativo. Quando questa comincia ad essere svuotata dei suoi
caratteri originari, GENTILE inizia proprio con l’Exciclopedia — e per
mezzo del vasto potere di controllo su un gran numero di intellettuali da
essa conferitogli — ad esercitare una vasta egemonia culturale che induce
a riconsiderare, nel quadro di tutta LA FILOSOFIA ITALIANA del ventennio e del
secondo dopoguerra, l’opera svolta da Croce attraverso « La Critica » e
la Casa Laterza, opera su cui finora si è insistito in modo esclusivo e
spesso pregiudiziale, identificando polemicamente la cultura con l’antifascismo.
Se la semplice somma numerica delle organizzazioni e degli FILOSOFI controllati
materialmente da GENTILE non è sufficiente, allo stato attuale degli
studi, a Fra gli innumerevoli esempi possibili, basti ricordare La
moralità della scienza, in Scritti pedagogici, La riforma della
scuola in Italia, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli; Che cosa
è il fascismo, cit.; Fascismo e cultura, Milano, Treves; Origini e
dottrina del fascismo, Roma, Istituto nazionale fascista di cultura. Quello del
contatto organico tra l’intelligenza e le classi dirigenti era allora il
problema sostanziale di LA FILOSOFIA ITALIANA posto fin dall’inizio della
rinascita idealistica, ma rimasto insoluto per la vittoria della vecchia
Italia, osservava Togliatti a proposito de coltura italiana di Prezzolini
(Opere, a cura di E. Ragionieri, Roma, Editori Riuniti). Ricordiamo solo
la Commissione Vinciana, la Leonardo e l’Istituto nazionale fascista di
cultura, la Scuola Normale Superiore di Pisa, l’Istituto italiano di studi
germanici, l'Istituto italiano per il medio ed estremo Oriente, la
casa editrice Sansoni, le collane di Le Monnier, il GIORNALE CRITICO
DELLA FILOSOFIA ITALIANA, Educazione fascista. ACS, Segreteria
particolare del Duce, Carteggio riservato. Bellezza, Bibliografia degli
scritti di GENTILE – LA FILOSOFIA DI GENTILE -- Firenze, Sansoni, Lalla, GENTILE,
Firenze, Sansoni). Cosi Garin, “La Casa Editrice Laterza la
filosofia italiana,” ora in LA FILOSOFIA ITALIANA, Bari, Laterza, che pur
avverte sempre la larga interdipendenza delle filosofie crociana e gentiliana.
spodestare Croce dal suo trono di papalaico — ciò implicherebbe
negare la persistenza dell’influenza crociana —, è da tener presente
almeno l’importanza pratica delle iniziative gentiliane: esse mirarono
a coagulare attorno a un nucleo di tradizione nazionale e fascista — e quindi
contribuirono a far sopravvivere nel quadro dell’ideologia eclettica del regime
— forze intellettuali operanti in campo filosofico. È significativo
chequando le revisioni interne e gli attacchi contro il ATTUALISMO si erano in
gran parte già consumati, un rapporto anonimo inviato a MUSSOLINI
presentasse GENTILE come pericoloso inquisitore nel campo dell’organizzazione della
filosofia. Si va determinando nel campo dell’Editotia Italiana, specialmente
attraverso le sovvenzioni dell’I.R.I., un accaparramento sempre più
sensibile di case editrici da parte del Senatore GENTILE. Egli già
dirige direttamente o indirettamente le Case Editrici Lemonnier e Sansoni: le
quali, a loro volta, dispongono delle case dell'Arte della Stampa e di
Ariani in Firenze. Dirige l’Enciclopedia Italiana e controlla, perciò, un esercito
di FILOSOFI collaboratori che debbono per forza di cose obbedirgli. Sono
note le vicende delle case Treves e Tumminelli in cui Gentile era grande
parte. Sano noti i rapporti con le altre case attraverso i contatti con
allievi o amici, quali CARLINI e CODIGNOLA. Può
dirsi quindi che oggi è molto difficile fare uscire un saggio di FILOSOFIA in
Italia senza il visto di questo nuovo Sant’Ufficio di nuovo tipo.
Si dice, inoltre, che presto la casa Bemporad e diretta da GENTILE,
venendo cosî ad aumentare il numero delle case affiancate o
asservite. Occorrerebbe vedere, con opportuni e delicati approcci,
se non fosse il caso di studiare il modo di immettere nella vita della filosofia
fascista la Casa Laterza di Bari che per la sua reputazione potrebbe, una
volta immessa nella vita del Regime, rappresentate un certo contrappeso
all’attuale disquilibrdio di forze editoriali
Rapporto anonimo pervenuto a MUSSOLINI, in ACS, Segreteria
particolare del Duce, Carteggio riservato; per l’accusa a GENTILE di estendere
la sua EGEMONIA FILOSOFICA attraverso l’E. I. GENTILE forma, più di CROCE, una SCUOLA
FILOSOFICA. Ed ha FILOSOFI discepoli entusiastici e fedeli, forse anche troppo;
ed appare un animatore e Documento di parte, certo, ma che — accanto ai
limiti della opposizione crociana e alla spregiudicatezza
ideologica del regime pronto a strumentalizzarla — indica solo per
difetto i canali differenziati di diffusione culturale di GENTILE e di I
GENTILIANI. Nei primi anni del fascismo l’opera di GENTILE e funzionale alla
necessità politica del regime di unificare e organizzare le disperse forze
della FILOSOFIA della borghesia liberale. Soprattutto dopo l’unificazione col
nazionalismo — pit attento ai problemi di politica FILOSOFICA proprio
perché da una tradizione filosofica nazionale vuole trarre i motivi della
sua collocazione nella storia della filosofia italiana, il fascismo
accompagna l’azione repressiva dello squadrismo con quell’opera di
graduale allargamento del consenso, fatta di concessioni ai gruppi
capitalistici e alle forze culturalmente egemoni che gli permette di
schiacciare le opposizioni. Valido strumento e dapprima la gentiliana riforma
della scuola — con FEDELE resa p DIS conforme alle istanze della
borghesia —, poi, superata la crisi Matteotti e instaurata la dittatura,
l’opera di appropriazione di correnti filosofiche diverse assegnata a GENTILE,
parallela a quella svolta contemporaneamente sul piano politico verso i
fiancheggiatori, e dopo sostituita dalla ricerca dell’appoggio dei borghesi.
Non è un caso che Treccani per la pubblicazione dell’Enciclopedia
Italiana e costituito. Salutato con entusiasmo da GENTILE, segna la fine
dei governi di coalizione. FARINACCI divenne segretario del Pnf, carica che
terrà fino al marzo direttore spirituale. Sostiene le sorti della
sua scuola e dei suoi scolari con la fede di un uomo di parte, ricorda
ancora PREZZOLINI (La filosofia italiana). Tomasi, Idealismo
e. fascismo nella scuola italiana, Firenze, È Nuova Italia. Gentile a
Mussolini. Eccellente il discorso di ieri. Il paese tutto si sveglia e
torna a Lei. La prego poi di ricordarsi che in questi giorni bisognerebbe
dar forza ai Quindici, emanando il Decreto Reale -- copia in ACS,
Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato. Sebbene l’opera si
assicurasse l’alto patronato del re e
le dichiarazioni ufficiali di Treccani e Gentile non facessero quasi
parola del fascismo, la sua data di nascita indica il peso determinante
che nella sua realizzazione ebbe l’avvento della dittatura. La segreteria
Farinacci sembrerebbe contrastare con lo spirito informatore
dell’impresa; in realtà la linea estremista del fascismo, pur polemizzando con
l’iniziativa gentiliana, non riusci a condizionarla. Anche in campo filosofico
le due anime del fascismo, tradizionale e rivoluzionaria, trovarono
ciascuna un proprio spazio e una propria funzione. Che la nascita
dell’Enciclopedia e l’indirizzo da essa rappresentato non fossero casuali,
frutto esclusivo di un’iniziativa individuale, ma rientrassero in
un più vasto programma di politica culturale del regime, è dimostrato
anche dal sorgere accanto ad essa di numerosi altri istituti di alta
cultura, quali l’ISTITUTO DI STUDI ROMANI di Paluzzi, l’ISTITUTO
NAZIONALE FASCISTA DI CULTURA Istituto nazionale fascista erede materialmente
della Leonardo di Formiggini o delle varie Università popolari e affidato
a GENTILE, la SCUOLA DI STORIA di VOLPE e L’ACCADEMIA D’ITALIA, tutte
istituzioni rivolte, con programma e su piano filosofico, a promuovere
studi e ricerche ispirati sempre ad IL PRIMATO DELLA CIVILTA ROMANA nel mondo, con una funzione interna analoga a
quella svolta, all’estero, da appositi organismi culturali che, in modo
graduale e illuminato, miravano a orientare favorevolmente verso
il fascismo l’opinione pubblica, Come appare dal Manifesto al pubblico (in
Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento).
Ministero dell'Educazione Nazionale, Accademie e Istituti di
cultura. Cenni storici, Roma, Palombi, Una prima ricerca è quella sul CNR
di Maiocchi, Scienza, industria e fascismo, in « Società e storia ». Sulla
figura di VOLPE v. Cervelli, VOLPE, Napoli, Guida, e, per qualche cenno
sulla sua vasta opera di organizzazione degli studi storici nel periodo
fascista, ancora da studiare, Turi, Il problema VOLPE, Studi storici. Frezza
Bicocchi, Propaganda fascista e comunità italiane in Lo « specchio
fedele e completo della cultura scientifica italiana. Il governo facilita
economicamente la realizzazione della Enciclopedia, intervenendo — su
sollecitazione di GENTILE — per l’accordo editoriale fra l’Istituto
Treccani e il Touring Club Italiano che fornisce il corredo cartografico
dell’opera, e costituendo l’ente nazionale ISTITUTO DELL’ENCICLOPEDIA ITALIANA.
E sempre il regime condiziona direttamente l’impresa, garantendone il controllo
ecclesiastico, e utilizzandola poi come canale di diffusione della sua
ideologia, come nella voce Fascismzo. Ma l’Enciclopedia si presenta come opera
nazionale, testimonianza di un primato italiano da rivendicare di fronte
agli altri paesi, nel senso già indicato da MARTINI. Solo con l’uscita e in una
diversa situazione politica, il suo carattere nazionale e precisato con
l’istituzione del rapporto di continuità risorgimento/grande-guerra-fascismo.
La Casa Italiana, Columbia, Studi storici. La prefazione alla E.I. ricorda come
il maggior tentativo di una enciclopedia italiana e stato fatto in Italia negli
anni forieri del Quarantotto, nel più vivo fermento della ridesta
coscienza nazionale del popolo italiano, come il disegno e il proposito
dell’Enciclopedia siano maturati dopo la grande guerra in cui gl’italiani, per
la prima volta dacché raccolti in unità nazionale, fecero esperimento di tutte
le loro forze materiali e morali, e superarono la prova con una grande
vittoria, e che il clima che rende possibile un'opera come questa è il
nuovo spirito esploso con l'avvento del Fascismo. E Treccani. Ad ogni movimento
nazionale concluso, si è sempre sentito il bisogno di questo esame delle
proprie possibilità filosofica. Anche Filiberto, restaurato lo stato, idea
un’Enciclopedia col nome di “Teatro Universale”, rimasta però allo stato
di Progetto. Ed altrettanto fanno gl’uomini del nostro Risorgimento, che
ci diedero l’Enciclopedia Popolare Pomba, chiamata l’Enciclopedia del
Risorgimento, opera lodevole. Il grandioso movimento spirituale prodotto
dalla guerra vittoriosa e dal fascismo, non puo rimanere sterile in
questo campo. Negli stessi termini Bosco, Enciclopedia Italiana, in “Panorami
di realizzazioni del fascismo”. Gl’Istituti del Regime, Roma, Panorami di
realizzazioni del fascismo. Già il Manifesto ricorda, oltre al clima
della vittoria, il tentativo fatto in Torino negli anni più maturi
L’insistenza sul significato nazionale dell’impresa — di cui solo pochi
colsero gli equivoci, e il pericolo di una riduzione nazionalistica della
filosofia — si dissolve presso gl’incerti o gl’oppositori del fascismo o
di Gentile il dubbio che l’opera e politicamente e FILOSOFICAMENTE
di parte. Tutte le dichiarazioni di Treccani e Gentile — rispettivamente PRESIDENTE
DELL’ISTITUTO e DIRETTORE dell’Enciclopedia — sono ispirate a questa
preoccupazione. L’atto costitutivo dell’Istituto auspicava che l’opera e scritta
con la collaborazione di quanti filosofi sono in Italia competenti in
ogni ordine di scuole, e governata da un alto concetto di quello che è
stato ed è il carattere ed il valore della civiltà italiana nel
mondo, nonché dal desiderio e proposito che tutte le forze filosofiche
della nazione siano, per questo lavoro che interessa tutta la nazione,
messe a profitto, in modo che riuscisse opera, cosî dal rispetto filosofico,
come da quello nazionale, degna delle più nobili tradizioni del popolo italiano.
L’art. 4 si preoccupa di specificare che l’Istituto s’inspira bensi alla
coscienza del glorioso passato del popolo italiano e degl’alti destini a
cui esso può e deve aspirare. Ma è “a-politico” nel *senso assoluto* della
parola. Anche il del Risorgimento nazionale, quando tutto lo
spirito italiano senti piu urgente il bisogno del suo rinnovamento e di una
vita più intense. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione
compimento. Sulla Nuova enciclopedia popolare del Pomba cfr. Bottasso, Le
edizioni Pomba, Torino, Biblioteca civica, Cfr l’articolo Nel mondo della
coltura borghese. Una Enciclopedia, in « L'Unità » (lo pseudonimo
dell’autore non è completamente leggibile. Gl’uomini della dominante borghesia
italiana vorrebbero adesso nazionalizzare la internazionale della filosofia,
facendo un grande monumento di dottrina filosofica INDIGENA, mentre una
enciclopedia, per servire degnamente alla filosofia, deve essere opera
vastissima di filosofia universale, enorme massa di parole e di voci che
vanno distribuite fra quanti filosofi dotti possono più sicuramente
parlare su ciascuna di esse. Se si farà, sarà, pur troppo, un documento di
fragorose chiacchiere e di malfatte compilazioni, conclude l’articolista
esprimendo il dubbio sulla capacità del fascismo di realizzare un’opera di
tanta mole e di cosi universale sapete. Treccani, Exciclopedia Italiana
Treccani. Idea esecuzione compimento. Treccani dichiara: « La politica
qui non c'entra, né deve entrarci. E il caso anzi di dire che se la
politica può dividere gl’uomini, LA FILOSOFIA li deve tutti unire -- parole che
ricordano quelle di GENTILE nell’articolo Contro Manifesto al
pubblico dichiarava l’IMPARZIALITA filosofica e politica dell’Enciclopedia,
quasi con gli stessi termini già usati da FORMIGGIN. A questa ENCICLOPEDIA che e
specchio fedele e completo della filosofia italiana, sono chiamati
a collaborare tutti i FILOSOFI d’Italia; e dove sia opportuno non
si tralascerà di invitare a fraterna collaborazione i filosofi d’altri
paesi, come la GERMANIA, più particolarmente versati, com’è naturale, nelle
materie – e. g. HEGEL -- riguardanti le
rispettive loro nazioni. Ma di quanti sono in Italia che abbiano in una
disciplina e in uno speciale argomento una loro competenza, l’Istituto
confida che nessuno vuole negare il proprio contributo e il proprio nome
a questo lavoro, che vuol essere opera nazionale superiore a tutti i
partiti politici come a tutte le scuole filosofiche, e puo riuscire, per
la sua complessità, la maggior prova filosofica dell’Italia nuova Le dichiarazioni di imparzialità convinsero FORMIGGINI
— che giudica l’ATTUALISMO ormai privo di aggressività per aver esaurito
la sua funzione, non chi vede, l’agnosticismo della scuola: la politica
divide, e la filosofia unire (Che cosa è il fascismo). Treccani,
Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento. Cosi VOLPE
cerca di sostenere l’obiettività dell’E.I.: Se per Enciclopedia fascista si
intende un’opera in cui ogni articolo, pagina, rigo sia coordinato e SUBORDINATO
AD UNA DETERMINATA VEDUTA FILOSOFICA e politica, questa nostra non è
l’Enciclopedia del Fascismo. Non è, come la Enciclopedia FRANCESE, la
Enciclopedia dell’ILLUMINISMO. La Enciclopedia italiana neppure se lo è
proposto. Né e forse possibile proporselo. Ma l’Enciclopedia presenta un
quadro PERFETTO della filosofia. E questo ha il suo valore per il Fascismo. L’Enciclopedia
italiana, per quel tanto che può avere una veduta filosofica, ha una
veduta che perfettamente ingrana col Fascismo: la filosofia come
movimento e divenire, come lotta e, insieme, solidarietà di forze. L’Enciclopedia
è un monumento all’Italia, in piena rispondenza al pensiero e all'anima del
Fascismo. L’Enciclopedia italiana. Nuova Antologia -- articolo rifuso,
accentuando l’apoliticità dell’E.I., col titolo Giovanni Gentile e
l’Enciclopedia Italiana, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero,
Firenze, Sansoni. Ciò che IL SENATORE TRECCANI E IL SENATORE
GENTILE hanno detto circa gli spiriti filosofici che dovranno animare la
grande impresa, pienamente mi soddisfa. I nomi dei filosofi collaboratori
scelti sono gli stessi che io avrei scelto. Gentile d’oggi ha fatta sua la concezione
formigginiana che una enciclopedia nazionale deve essere il quadro completo
dello spirito filosofico della nazione – come a Bologna -- e non la
espressione di una particolare tendenza. L'Italia che scrive. al contrario, aumentare il pericolo di
un’egemonia gentiliana. TILGHER sulle pagine de « Il Mondo » svolge in
quei mesi una serrata polemica anti-attualista, mise in guardia — senza
tuttavia tener conto del complesso gioco politico e culturale condotto dal
fascismo — contro l’« IMPERIALISMO filosofico » dell’ATTUALISMO di Gentile:
spirito chiuso, violento e SETTARIO, pontificale e teologale, tabula rasa
all’infuori di argomenti rinascimentali e risorgimentali, cui avrebbe
preferito, alla direzione dell’opera, CROCE, o CHIAPPELLI, FARINELLI,
OJETTI. L’Enciclopedia che usce dalle mani del senatore Gentile non e una
Enciclopedia, ma un “Index librorum et virorum ad majorem Actus Puri
gloriam.” Il senatore Gentile specula un po’ troppo sulla vigliaccheria filosofica
del nostro bel paese se crede che gli si lascia compiere tranquillamente
una simile impresa di annessione filosofica. Se no, se l'Enciclopedia dovesse
rimanere affidata a Gentile, credo che non trova FILOSOFI collaboratori
disposti ad aiutarlo nella sua opera d’imperialismo intellettuale. E già
so che più d’un FILOSOFO, RICHIESTO, RIFIUTA di collaborare. Le
previsioni di TILGHER — di un’energica reazione contro l'impresa gentiliana da
parte della corrente filosofica, gli indirizzi, i movimenti, le scuole, i
filosofi massacrati dalla ignoranza e dalla faziosità settaria di Gentile,
non si realizzarono. A critiche del genere — limitate a una polemica
culturale scadente spesso sul piano personale, Treccani puo facilmente
opporre la diversità di indirizzi rappresentata dai direttori di
sezione dell’Enciclopedia. In occasione della loro prima riunione,
il presidente dell’Istituto si preoccupa di confutare attacchi esterni e
diffidenze interne sull’opera ritenuta dogmatica, settaria, faziosa,
asserendo che Gentile è uomo di partito e di idee sf, ma è uomo
leale e di fede. Tra lui e l’Istituto sono poi stati stabiliti patti ben
chiari ed egli ha già dato prova, nella indicazione dei FILOSOFI, di aver
tenuto fede a tali patti: basta uno sguardo alle persone qui presenti per
convincersi dell’infondatezza di ogni accusa. Tilgher, Giovanni Gentile e
l'enciclopedia italiana, in Il Mondo. Del resto, Vi assicuro che io, che
ho dato il mio nome a quest’impresa, non permetto mai ad alcuno di venir meno
al concetto fondamentale, che molto chiaramente è espresso nell’atto
costitutivo. Ma io ho fede nel Sen. Gentile. Lo stesso suo carattere
energico è garanzia di successo. La campagna ingiusta, iniziata contro di
lui a proposito dell’Enciclopedia, cade non appena pubblicammo i
nomi dei FILOSOFI collaboratori, i quali, italiani di sicura fede,
rappresentano la idea, la scuola, e la tendenza filosofica. Tutti gl’interpellati
finora hanno aderito con parole confortanti e lusinghiere. Se qualcuno
fosse tentennante, bisogna illuminarlo, persuaderlo dell’obiettività del lavoro
e convincerlo a dare il suo nome, sia pure per una sola voce. Nessun
nome di insigne FILOSOFO italiano deve mancare nell’Enciclopedia, anche perché,
dato il duplice scopo che io miro a raggiungere — Enciclopedia come opera di
valorizzazione della filosofia nazionale e Fondazione per l'incremento della
filosofia con gli eventuali profitti — non sarebbe simpatica la voluta assenza
da parte di qualcuno A Bologna si era appena chiuso il convegno sulle
istituzioni fasciste di cultura in cui Gentile presenta il fascismo come
erede di tutta la storia italiana, rivolgendo un appello all’unità e alla
conciliazione che avrebbe dovuto rafforzare, sul piano del consenso, la
drastica conclusione della crisi Matteotti. Anche l’Enciclopedia viene indicata
con insistenza come opera nazionale, in cui ogni filosofo italiano di sicura
fede conserva la sua opinione filosofica – e politica. Alcuni degl’avversari
del regime riconosceno il suo sforzo, ma anche la difficoltà, di
acquisire l’appoggio di ogni filosofo. Cosi l’Avanti!, per il quale, anche se
il mondo filosofico italiano si è fascistizzato molto presto,
antifascista è la filosofia, la vera filosofia, quella disinteressata, quella
cioè che ha sempre odiato l’accademia, la chiacchiere, la rettorica, gl’alalà.
L'Unità » invece, ritenendo che anche ideologicamente gl’intendimenti
fa- Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione
compimento. Da Ireneo ad Arpinati..., in « Avanti! », a proposito del discorso bolognese di
Gentile; cfr. anche I filosofi e Farinacci, in Avanti! Fra il manifesto dei
filosofi del fascismo, leggi Gentile, e i discorsi di Farinacci, bisogna
confessare che c’è piu intelligenza nei discorsi di Farinacci.
scisti di fascistizzare gli altri partiti social-democratici possono col
tempo realizzarsi — come afferma esaminando il Manifesto dei filosofi del
fascismo” —, coglie proprio nell’Enciclopedia la capacità del regime di
ottenere consensi fra i filosofi. Conosciamo bene quel che sia la
spregiudicatezza scientifica dei sapienti del fascismo e quel che sia
l’antifascismo della gente accademica. In tempi calamitosi per le pubbliche
libertà uomini di scienza hanno talora opposto le loro proteste, gravi e
sensibili, se anche rare o taciturne. Oggi non abbiamo di questi esempi
in Italia, fra tanti uomini di dottrina che pure fanno professione di
indipendenza o di avversione ai poteri dominanti » ”"; dove però, più che
l'individuazione della forza del fascismo — che stava proprio allora
organizzandosi come regime reazionario di massa —, vi è quella polemica
contro gli aventiniani, che porterà ancora a negare ogni differenza fra
le varie componenti della borghesia. L’imparzialità che l’Enciclopedia tendeva
ad accreditare sotto l’etichetta « nazionale » era comunque
strettamente condizionata dalla situazione reale del paese, e si
traduceva in una « passività » di stampo prezzoliniano: nello
% Sintomi di decadenza. Un manifesto degli intellettuali fascisti,
in « L'Unità ». .Nel mondo della coltura borghese. Una
Enciclopedia, in « L'Unità. Divagazioni sull'ideologia del
fascismo, in « L'Unità, a proposito della polemica Gentile-Interlandi
sull’E.I., che esami- neremo. Evidentemente differenze fra i gruppi
borghesi non esistono nelle idee fondamentali, ma nel modo di fare. Il
fascismo ha in tutti i modi l’energia di attrarre l’attuale borghesia:
ecco i confini “tecnici” fra “pensiero” ed “azione” ». Nell’organo
della gentiliana Fondazione Leonardo, Prezzolini an- nunciò l’E.I. come
«l’esame di stato della coltura italiana » e «lo sforzo dell’Italia
nuova, in paragone degli altri paesi. Il programma è ottimo. Lo sforzo è
il più nazionale che si sia tentato dopo l'unità italiana, ma
l’Enciclopedia non sarà nazionalistica »; si sarebbero superate le enciclopedie
straniere «se la scelta dei collaboratori, com'è stata quella dei
direttori delle singole sezioni, sarà severa e non dipendente da criteri politici
o di meno che serena volontà scientifica. Sarà un altro dei meriti di
Gentile verso la cultura italiana » (Leonardo, redazionale); e, pubblicando le
Avvertenze ai collaboratori dell’E.I.: « meglio di ogni altro documento,
varranno a fare scompatire nel pubblico ogni ombra di dubbio sul valore
scientifico che l’Enciclopedia avrà, e a dissipare le voci malevoli che
pretendevano l’Enciclopedia fosse poteva riflettersi solo, la
cultura e l'ideologia del blocco borghese chiamato a collaborare col
regime nel momento in cui questo schiac- ciava le opposizioni. Era
significativa, del resto, la presentazione « ufficiale » che dell’Enciclopedia
dava la rivista di Mussolini, Gerarchia. Dopo aver affermato la necessità di «
un’affermazione di intellettualità collettiva che rivelasse al mondo ciò
che l’Italia era nel dominio del sapere universale », e che « in Italia
non possediamo ancora la nozione di quel sapere nazionale che in- vece
posseggono e da secoli altre nazioni », l’autore dell’articolo auspicava che
l’Enciclopedia, « libro di un popolo », fosse « libro politico, ma
soprattutto libro di conquista », espressione dell’« intelligenza
dominante » della collettività; essendo « giunta l’ora che il mondo la
pensi anche all’ita- liana », compito dell’opera avrebbe dovuto essere
quello di « chiamare a raccolta tutto quanto l’anima italiana ha in
questo momento di lume e di ardimento e farlo collaborare a questa grande
azione che se ben mossa può segnare il primo passo verso quel dominio
intellettuale del mondo che noi da tanti secoli abbiamo perduto e può segnare,
prima ancora, il definitivo sfrancamento italiano dalla coltura straniera”. La politica
di conciliazione di Gentile
La componente tradizionalista del fascismo, rappre- sentata in primo
luogo dai nazionalisti, cercò — come ricorderà Bottai che della necessità
di conferire al regime una sua dignità culturale fu il principale
sostenitore dalle pagine di « Critica fascista » e poi di « Primato » —
di opera di parte, concepita con angusti criteri di scuola. Nella
seconda ediz. de La cultura italiana si limiterà a dire che V’E.I. dovrà
rappresentare la capacità della coltura italiana del dopo-guerra. Venturini,
La nuova e mirabile fatica italiana. L'Enciclopedia Nazionale, in «
Gerarchia », costruirsi una sua Weltanschauung che fosse, da un lato,
frutto della mediazione e del superamento delle diverse correnti di
pensiero dalle quali o contro le quali il movimento fascista era sorto — non
rollandianamente 4% dessus de la mélée, ma con un suo impegno
autonomo d’arbitro tra due mondi in lotta —, dall’altro, valorizza-
zione del primato storico-culturale italiano ®. Per questo era
necessario, inizialmente, fare appello a tutti quanti erano disposti a
collaborare con un regime che cercava di mostrarsi erede di una tradizione
« nazionale »: si pensi alla presentazione di Croce precursore del
fascismo, o ai tentativi, non ultimo quello dell’Enciclopedia, di
acca- parrarsene l'appoggio. In quest'opera di assorbimento di
intellettuali incerti, fiancheggiatori od oppositori, ana- loga a quella
attuata in campo politico dagli ex nazionalisti Rocco e Federzoni,
artefici della simbiosi organica del Pnf col vecchio Stato monarchico, il
regime « si rivesti piuttosto dei panni del moderatore che dell’eversore
» — per usare le parole di Bottai riferite a Mussolini, evitando i
vuoti paurosi, e poté quindi trovare uno strumento adatto in Gentile, la
cui concezione dello Stato e della storia italiani ne sottolineavano —
con motivazioni antitetiche a quelle che egli riteneva il naturalismo
deterministico, conservatore e illiberale dei nazionalisti * — alcuni
presunti elementi di continuità e sviluppo che facevano del fascismo il «
vero liberalismo ». G. BOTTAI, Vent'anni e un giorno, Milano, Garzanti. Di
Bottai è da vedere tutta l’antologia di Scritti, Bologna, Cappelli (dove è
riportata, ad es., la conferenza nella quale notò come «attraverso il
Nazionalismo si avviasse il Fascismo a compiere il primo passo della sua
rivoluzione intellettuale, inserendosi in una tradizione politica, che
potrà essere discussa, ma non negata »). Di uno «sforzo
intellettualistico di tipo e di gusto crociano » da parte del gruppo di
Bottai parla R. Colapietra, Benedetto Croce e la politica italiana,
Bari-Santo Spirito, Edizioni del Centro librario. Sul « revisionismo » di Bottai,
ma con una inaccet- tabile sopravvalutazione del suo ruolo «critico »
all’interno del regime, cfr. G.B. Guerri, Giuseppe Bottai un fascista
critico, Milano, Feltrinellie A.J. De Grand, Bottai e la cultura fascista,
Bari, Laterza. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, L’Enciclopedia
italiana Nei numerosi interventi compiuti da Gentile sui rapporti
tra fascismo e cultura non vi sono né le contraddizioni che vi ravvisò
Formiggini”, né la difesa dell’autonomia della cultura vista da Harris
nella gentiliana « politica di conciliazione » !: comune a tutti è
la necessità — già sostenuta a proposito del problema scolastico!— di
organizzare e legare al « nuovo ordine, indirizzandole se possibile verso
esiti attualisti, tutte le forze culturali del paese, con la
consapevolezza che ciò è possibile solo con la forza politica del
fascismo. A Firenze, di fronte a un uditorio politicamente composito,
Gentile sostenne la possibilità che ognuno intendesse il fascismo a
suo modo: « L’unità risulta da questa molte- plicità, da questa infinità
di temperamenti e psicologie e sistemi di cultura e concezioni della
vita. La forza del fascismo deriva da questa ricchissima inesauribile
fonte d’ispirazioni e connessi bisogni ed energie spirituali. Ed
esso si essiccherebbe e inaridirebbe nella monotonia mec- canica delle
formule vuote se potesse definirsi e restringersi negli articoli di un credo
determinato!”. Il giorno dopo, parlando all’Università fascista di
Bologna di pros- sima inaugurazione, ribadî il suo concetto di libertà
che si attua nello Stato come negazione dell’individualismo egoi-
stico, e di fascismo come « ultima e più matura forma del nuovo concetto
della libertà, figlia. Un appello ai liberali e uno ai fascisti, per far
tutti partecipi di un unico processo storico sfociante nello Stato etico,
ritenuto « la forma suprema e la unità cosciente e possente di tutte le
forze nazionali nel loro maggiore sviluppo successivo », che « deve rampollare
dalla stessa realtà e perciò Gentile ha contraddetto a Roma ciò che aveva
detto a Bologna, perché, affrontando qui un grande problema culturale,
quello della Enciclopedia, ha dichiarato che intende di affratellare,
formigginianamente, nella grande impresa tutti i competenti senza
distinzione di scuole e di partiti » (« L'Italia che scrive ». Gentile,
Scritti pedagogici, La riforma
della scuola in Italia, cit. Che cosa è il fascismo, in Che cosa è
il fascismo, Libertà e liberalismo, aderirvi; e da questa aderenza derivare la
sua forza e la sua potenza » ! sebbene criticato da Treccani per le
pubbliche dichiarazioni di fascismo che avrebbero potuto pregiu-
dicare l’impresa cui si erano accinti, Gentile svolgeva anche se in
maniera più scoperta riguardo al fine — le stesse idee poste a base
dell’Enciclopedia. Cosî nel discorso di chiusura del convegno per le
istituzioni fasciste di cultura — col quale Croce motivò il suo rifiuto
di collaborare all’Enciclopedia, Gentile obiettò a PANUNZIO che « il Partito
fascista ha un suo vasto contenuto ideale, senza bisogno di definire la
sua dottrina e di fissare il suo sillabo », e sostenne la necessità
di immettere il fascismo (critico degli intellettuali che stanno alla finestra)
nella filosofia, senza bisogno di promuovere una « filosofia del fascismo,
poiché « il nostro partito non è SETTA, né chiesuola. Il nostro partito
vuol essere ... il popolo italiano; nell’attesa, tanta parte del passato
doveva essere rispettata e utilizzata: oggi nelle università dello
Stato insegnano tanti vecchi uomini, a cui molto la nazione deve: tanti,
che formarono la loro mente e l’animo loro quando nel cuore
degl’italiani, degl’italiani giovani e della guerra, non s'era accesa la
scintilla della nuova fede; e non c’intendono, e noi guardiamo ad essi con
sospetto, ed essi verso di noi con un sorriso sulle labbra, con l’anima
chiusa. Ebbene, questa è l’università italiana in gran parte: questa è la
vecchia Italia, che noi non possiamo cancellare; che anzi dobbiamo pur
rispettare 1°. Che cosa è il fascismo. Treccani a Tumminelli. Non
condivido il Suo ottimismo. La macchina v4 scossa affinché funzioni
rapidamente. Vengo a sapere che non una delle lettere ai collaboratori è
partita. Ma vi è di più: Ojetti ha scritto più volte a Gentile chiedendo
schiarimenti e non ha mai avuto nemmeno un rigo di risposta. Ma che razza
di modo di fare è questo? ... Le devo dire il vero che a me spiacciono le
conferenze che Gentile va a tenere sul fascismo nelle varie città:
l'enciclopedia non è, e non deve essere, di marca fascista... Mi sbaglierò,
ma con Gentile non incominciamo bene: egli non si rende conto dell’enorme
sacrificio e rischio mio e prende la cosa alla leggera. Dovrebbe aver
capito, indipendentemente dal contratto che ho firmato, che io non mi sono
cacciato nell’im- presa per il gusto di buttar via quattrini » (ACS,
Segreteria particolare del Duce, CARTEGGIO RISERVATO). Il fascismo
nella cultura, in Che cosa è il fascismo. Nessuna concessione alla « barbarie »
dell’estremismo fascista. Anche il Manifesto degli intellettuali del
fasci- smo, frutto di quel convegno, ebbe valore di documento
politico anche perché fu, da parte di Gentile, « un ennesimo tentativo di
aggancio all’idealismo, a tutto l’idealismo », compreso quello crociano,
come ha osservato Colapietra !”, e presentò il fascismo come riconsacrazione
delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel
flusso e nella perennità delle tradizioni. Anche in seguito Gentile riaffermerà
la sua concezione dei rapporti fascismo-cultura. Nel DISCORSO TENUTO IN
CAMPIDOGLIO PER L’INAUGURAZIONE DELL’ISTITUTO NAZIONALE FASCISTA DI CULTURA, in
cui ricorda ai liberali la ben più drastica opera riformatrice attuata
dal liberale Sanctis a Napoli (documentata da Russo), riprese e sviluppò
motivi già affermati '”, invitando
a non discono- scere « una certa cultura strumentale, a norma della
quale due più due farà sempre quattro, sia che si sommino carezze sia che
si sommino bastonate. E di questa cultura stru- mentale, che è mero
sapere, organizzazione di cognizioni bene accertate, critica, erudizione,
dottrina, non può essere il fascista a volersi disfare!, Concetti
ripetuti. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura
italiana, Milano, Feltrinelli. Possiamo spogliarci di certe passioni della
prima ora, e ricono- scere pertanto il valore nazionale cosi di certe
forme di cultura, che a noi riescono false in quanto insufficienti, come
di tanti uomini che non ebbero occhi né cuore per vedere in alto il segno
a cui avrebbero dovuto guardare e trarre gl’italiani, ma lavorarono pur
seriamente, one- stamente, a recare in campo quelle pietre, con cui la
giovane Italia ha cominciato a costruire il suo grande edifizio. Noi a
quelle pietre, i non dirlo?, non possiamo, non vogliamo rinunziare »; ma
il senso di questa apertura che Gentile raccomandava era chiarito più
avanti. Transigenza che diverrà ogni giorno più facile, via via che, adempiuto
il secondo termine, apparirà sempre più opportuno e più giusto il
primo termine del grande monito romano: parcere subiectis et debellare
superbos. Poiché non è lontano, se io non m’inganno, il giorno, in cui
tutta l’Italia sarà fascista (Discorso inaugurale dell'Istituto Nazionale
Fascista di cultura, in Fascismo e cultura. al Senato a
proposito dell’Accademia d’Italia nata a « promuovere e coordinare il
movimento intellettuale ita- liano » (nessuna dittatura, assicurò!', come
fa MUSSOLINI quando l'ACCADEMIA D’ITALIA iniziò i suoi lavori !); ad essi
Gentile rimarrà sempre fedele, indicando come forza del fascismo fosse la
sua capacità di assorbire e superare la tradizione !5: lo stesso criterio
seguito dalla Commissione dei Diciotto per lo studio delle riforme costituzionali,
da lui presieduta !‘. Rispettare, utilizzare e organizzare intellettuali
di vario orientamento politico e culturale era più difficile che
inquadrare nell’apparato amministrativo dello Stato fascista la
burocrazia di estrazione liberale; ma era opera [Per l'Accademia d'Italia
Mussolini indicava fra i filosofi « uomini di origini, di temperamenti,
di scuole diverse; uomini rappresentativi di un dato momento sono al
lato di uomini rappresentativi di un momento successivo, o attuale, o
futuro. L’Accademia è necessariamente eclettica, perché non può essere
mono- corde... Nell’Accademia è l’Italia con tutte le tradizioni del suo
passato, le certezze del suo presente, le anticipazioni del suo avvenire (in
Mussolini, Scritti e discorsi, Milano, Hoepli. Scriveva che il Regime si viene
pacificamente guadagnando gli animi nelle scuole, nelle università, nelle
accademie, e in ogni libero campo di attività letteraria od artistica.
Cresce insieme spon- taneamente l’interesse di esso per ogni forma di cultura
nazionale, e si fa sempre più profonda la sua consapevolezza, che la sua
forza, che è la forza e la potenza del popolo italiano, non si può
consolidare senza l’ade- sione e la libera collaborazione delle più
rappresentative intelligenze e di tutte le forze morali del Paese » (Il
fascismo e gli intellettuali, ora in Origini e dottrina del fascismo). Afferma
che il fascismo «è progresso in quanto è restaurazione: consolidamento
delle basi per edificarvi su un solido edifizio, alto, nella luce. Ogni
origi- nalità senza tradizione, come ogni spontaneità senza disciplina, è
velleità sterile, non VOLONTÀ VIRILE (Risorgimento e fascismo, ora in
Memorie To e problemi della filosofia e della vita, Firenze, Sansoni. Nella
relazione presentata da Gentile a Mussolini, si affermava che la
commissione non ha pensato un solo momento che fosse da sovvertire lo
Stato italiano sorto dalla rivoluzione del Risor- gimento. E cosî ha
creduto di rendersi fedele interprete dello spirito del fascismo, nato a
costruire, non a distruggere » (Relazioni e proposte della Commissione
per lo studio delle riforme costituzionali, Firenze, Le Monnier. Sul
significato non eversore delle proposte della Commissione dei Diciotto,
cfr. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi.
necessaria, non esistendo una « cultura del fascismo ». Né Volpe alla Scuola di
storia moderna e contemporanea, né Gentile all’Enciclopedia, quindi,
chiesero tessere di partito. Dopo la costituzione dell’Istituto Treccani,
la prefazione all’ Enciclopedia — in cui è evidente la mano di Gentile
— poteva già vantare i risultati raggiunti, smentendo le previsioni degli
oppositori: Il clima che ha reso possibile un’opera come questa, alla
quale non parve in passato possibile in Italia pensare, è il nuovo
spirito esploso con l'avvento del Fascismo, che scosse idee e sentimenti
e accese una passione inestinguibile di rinnovamento e di affermazione
della potenza dell’Italia nel mondo... Il primo segno di questa crisi
gagliarda di rinnovamento fu la radicale riforma della scuola compiuta;
alla quale seguirono molte altre riforme orga- niche, onde si venne
trasformando la struttura dello Stato e si gettarono le basi di una nuova vita
nazionale demografica, economica, morale e religiosa. Mai, per nessuna
opera, in Italia si unirono come per l’Enciclopedia Italiana migliaia di
scrittori a collaborare con un disegno prestabilito, sotto una costante
disciplina E il fatto che tanti e si può quasi dire tutti gli studiosi
d’ogni scuola e indirizzo, letterati, scienziati ed artisti, si siano per
la prima volta accordati non in un’idea da vagheggiare, ma in un lavoro
da eseguire, e che a tutti chiedeva disinteresse e sacrificio, per lo
meno d’altri lavori di maggior soddisfazione personale, questa
grande morale concordia degli scrittori italiani è il primo e il non
meno importante frutto che in vantaggio dell’alta educazione
nazionale l’Enciclopedia potesse produrre. Affinché fosse possibile
tale concordia fin da principio la Direzione dell’Enciclopedia riconobbe
l’opportunità di un ragionevole eclettismo e di una scrupolosa imparzialità. Un’opera
non di rapida consultazione e volgarizzamento, come il LAROUSSE, ma a
carattere monografico come LA BRITANNICA, non avrebbe potuto avere carattere
impersonale, come vuole Treccani: l’ampiezza di una voce
monografica Formiggini osserva che l’E.I. riusce la più antifascista
delle enciclopedie fasciste, e ciò non per mancanza di buona volontà di
render servizio al partito che gli ha dato ricchezze ed onori, ma perché
Gentile si è accorto che se avesse voluto fare una Enciclopedia fascista
avrebbe trovato come unico collaboratore volontario (e lo ammettiamo per
pura e generosa ipotesi) l’on. Farinacci (« L'Italia che scrive » implica
una presa di posizione scientifica da parte di ogni autore. Ma la
molteplicità e diversità di giudizi che ne derivava avrebbe dovuto essere
ridotta a unità: l’unità che è il principio vitale di ogni libro vivo,
pare esclusa per definizione da un'enciclopedia, che, per essere cosa
seria, è di necessità opera a molte mani, e ognuno vi mette il suo
pensiero, il suo stile, la sua anima. Ed è bene che cosî sia; e noi, per
parte nostra, ci siamo studiati di fare che ognuno, entro certi
limiti, restasse, come scrittore dell’Enciclopedia, lo scrittore che egli
era. Il che per altro non abbiamo creduto che fosse per produrre l’effetto
d’un coro selvaggio di voci stonate e discordi. Non c’è solamente l’anima
del singolo. Nello stesso individuo c’è anche l’anima della sua famiglia,
del suo popolo, del suo tempo; c’è il punto di vista e l'interesse
spirituale che è suo come dei connazio- nali e dei coetanei che vivono la
stessa vita e si sono formati nello stesso mondo spirituale. Da
quest’anima più vasta, non meno reale dell’altra che varia da individuo a
individuo, scaturisce l’unità di una scuola ben organizzata e diretta, e scaturisce
l’unità di un’enciclopedia ben disegnata e condotta. Un’enciclopedia
è infatti l’espressione del pensiero di un popolo e di un’epoca; e
propriamente degli elementi positivi, vitali ed attivi di questo
pensiero. Il quale evidentemente non consta della somma di tutte le idee
di tutti gl’individui, dotti e indotti, consapevoli e ignari degl’ideali
della nazione a cui appartengono e a cui sono indissolubilmente
congiunti; ma si raccoglie in sistema dalle menti che dirigono e perciò
rappresentano tutti. E il loro pensiero, presso ogni popolo, sbocca e si
fonde nella coscienza nazionale, e in ogni periodo storico ha una forma e
certi caratteri, ha un’individualità, in cui mille e mille voci si
adunano in un grande concento. Concordia discors [Concordia non facilmente
raggiungibile anche nel nuovo clima del fascismo, come ricorderà Gentile
in termini meno idillici! Mezzo per attuarla, per ridurre a unità
argomenti E.I. Ricorderà « prime difficoltà e diffidenze, ostilità
coperte e palesi » (Tribolazioni di un enciclopedista, cit.), e battaglie
concluse con la vittoria sempre della Direzione, ossia dell’Enciclopedia,
e cioè di tutti. Ma, evidentemente, vittoria difficile» (Ancora delle
tribolazioni di un enciclopedista. Come si taglia e si cuce il libro per
tutti, «Il Corriere della sera »). Pincherle osserva: differenze di
opinioni e di scuola, che spesso esplodono in battute polemiche, ora più
ora meno abilmente dissimulate » (L’Enciclopedia italiana, in « La Cul-
tura»; e Bosco, redattore capo dell’E.I., ricorda. Il primo compito fu
quello della raccolta delle voci: diversi e autori di vario orientamento
filosofico, e il criterio storico: affinché tale discorde concordia si
stabilisca e conservi, occorre una regola che tutti gli scrittori capaci
di contribuirvi mantenga nei limiti ciascuno del proprio carattere, non
pure per la materia che coltivano, ma anche per l’indirizzo mentale con
cui la coltivano, in guisa che tutti gli aspetti della cultura vengano a
comporsi armonicamente in un quadro coerente, com'è nelle sue note
principali il pensiero di un popolo e di un’epoca... Nessuna
intolleranza, nessuna ombrost angustia di mente. A ogni avvenimento, a
ogni dottrina, a ogni persona il suo merito e il posto in cui ciascuno
per sua virtà s'è collocato. Perciò non dottrine esclusive, come sono per
lo pi tutte le dottrine nelle menti di singoli; ma l’ordine piuttosto in
cui le varie dottrine sono possibili, malgrado le loro divergenze,
ciascuna con i suoi motivi, La stessa grande imparzialità della storia,
in cui non c'è nulla che non abbia la sua ragion d’essere. La
storia, in verità, suggerisce il metodo della trattazione che si conviene
a una enciclopedia: la storia con la sua sovrana potenza conciliatrice
delle più contrastanti esigenze dello spirito e degli aspetti più diversi
del vero. Ogni concetto o istituto, ogni religione o dottrina, ogni mito
o teoria, ogni popolo o schiatta esiste e vive nella sua storia, con la
sua origine e col suo sviluppo. E nella storia si spezza ogni dommatismo.
II metodo pertanto dell’Enciclopedia Italiana è il più largo metodo storico,
cosi in ogni singolo articolo come nel sistema generale. Grazie a questo
metodo, la Direzione ha ambito di raccogliere in- torno a sé, assegnando
a ciascuno la parte sua, gli scrittori della più varia mentalità.] compito
dei più delicati, perché era in questa fase che si potevano concretare le
fondamenta dell’edificio, e che si doveva decidere il carattere
dell’Enciclopedia: dizionario di cose, o raccolta di monografie, o
qualche cosa di mezzo? Non sono infatti mancate le divergenze: chi
consultasse oggi i primi elenchi delle voci proposte da ognuno dei
direttori di sezione e, poi stampati in forma di bozze, diffusi tra gli
studiosi per raccogliere suggerimenti, troverebbe che molto è stato
cambiato Già nelle Avvertenze ai filosofi collaboratori, (Treccani,
Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento), si diceva:
«I - Nella compilazione degli articoli, anche se teorici e dottrinali
filosofici, si avrà cura di attenersi a un’esposizione storica di quello
che è stato pensato o si pensa dagli scrittori della materia meritevoli
di considerazione; evitando al possibile ogni forma subbiettiva che dia
rilievo alla persona di chi scrive e adoperando uno stile semplice e sobrio.
ISono dall’Enciclopedia BANDITE LE POLEMICHE. Ogni discussione vi dev'essere
mantenuta nei termini di un dibattito di valori puramente ideali, con la
cura più scrupolosa di mettere in luce anche le ragioni delle dottrine,
che lo scrittore stimi più deboli. Il metodo seguito nella trattazione
dell’Enciclopedia è quello storico, cosî in ogni singolo articolo come
nel sistema generale. I filosofi collaboratori, aggiungeva Gentile, operando
anch’essi nella cultura dell’epoca, hanno nella loro stessa formazione
spirituale la misura del giudizio »; ma avrebbero dovuto elaborare gli
elementi « vivi e vitali » della cultura propria della « classe elevata e
dirigente, la quale s'incontra e s’intende, in un dato tempo, sullo
stesso terreno, in una comune vita intellettuale e morale » !’.
Enciclopedia, quindi, figlia del proprio tempo !?, che come tale — avverte
Gentile — avrebbe rispecchiato i
progressi della scienza e i cambiamenti storici avvenuti nel corso
della sua realizzazione!!. L’asserita imparzialità dell’opera — corrispondente
ad uno stretto legame con « un dato tempo » — comportava, accanto al clima
del fascismo, il ricorso all’opera di intellettuali di varia estrazione
culturale e, anche, di diverso orientamento politico: una sapiente
azione di assorbimento, testimoniata dall’ampia scelta dei
direttori di sezione e dei collaboratori, che spingerà Salvemini —
incapace di comprendere i motivi se non addirittura le manifestazioni della
politica articolata del regime — a giudicare l’Enciclopedia « quasi
esclusivamente opera di uomini ap- partenenti alla generazione maturata
prima che il fascismo giungesse al potere », di cui Mussolini —
aggiungeva semplicisticamente — si era attribuita la maggior parte
dei meriti » avverte l'opuscolo di propaganda Enciclopedia Italiana pubblicata
sotto l’alto patronato di S. M. il Re d’Italia Imperatore d'Etiopia, Roma.
Già nel vol. I CALOGERO osserva il carattere essenzialmente storicistico delle
voci giuridiche, economiche e politiche (Nuovi studi di diritto, economia
e politica). L’Enciclopedia sarà il monumento della cultura dell’Italia di
Mussolini, afferma Treccani (Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione
compimento; e l'opuscolo di propaganda sopra citato. L’Enciclopedia è al tempo
stesso documento fedele del periodo storico in cui è nata e contributo
certo non ultimo alla formazione di quella cultura intensa, vitale,
capace di espandersi e d’imporsi che dovrà essere la cultura italiana di domani. E.I.,
Appendice, ma già apparsa: cfr. Bellezza, Bibliografia. L’Enciclopedia
Italiana, che è senza dubbio superiore a tutte le [ L’Enciclopedia
italiana I collaboratori e le proteste del fascismo estremista
Il consiglio direttivo dell’Enciclopedia costituiva una specie di fronte
nazionale, unendo, sotto la giunta di direzione composta da Treccani,
Gentile e Tumminelli, il primo ideatore dell’opera, Martini; glorie
(diversamente fortunate) della grande guerra come Cadorna e Thaon di REVEL
— quest’ultimo ministro della Marina, e STEFANI, ministro della Finanze;
rappresentanti della tradizione liberale lontani dal fascismo quali Einaudi
e Ruffini — che non parteciparono più all'opera —, o cattolici come
Sanctis; e, ancora, Bonfante, Ojetti e
Salata, accanto a Grassi, Longhi, Marchiafava !. Nel comitato tecnico —
composto dai direttori delle 48 sezioni e già formato — vi erano i maggiori rappresentanti
della cultura italiana, da Sanctis (Antichità classiche) a Pettazzoni (Storia
delle enciclopedie pubblicate dall’inizio di questo secolo, è opera di
studiosi italiani la cui formazione aveva avuto luogo già prima
dell’avvento di Mussolini. Poiché essa cominciò ad essere pubblicata,
Mussolini se ne è attribuita la maggior parte dei meriti. In realtà, essa fu
progettata quando, secondo la leggenda fascista, l’Italia era “alle prese
col bolscevismo”. È il più gran monumento che si sia potuto erigere
durante il regime fascista alle due generazioni di uomini che rico-
struirono la cultura italiana durante il regime prefascista » (G.
Salvemini, Il futuro degli intellettuali in Italia, Scritti sul fascismo,
Milano, Feltrinelli, Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea
esecuzione compimento, Einaudi (che era stato consigliere
dell’Istituto di Formiggini) appare nel Manifesto e nel Primo elenco di
collaboratori; Ruffini solo in quest’ultimo, anche come direttore, con
Santi Romano, della sezione « Diritto pubblico ». Sulla partecipazione
puramente decorativa di Martini cfr. le lettere di Gentile a lui, (BNF, Fondo Martini); per la diffidenza
sua e dei suoi amici verso l’opera — nella cui preparazione non furono
ascoltati —, la lettera di Menghini e tutte quelle di Donati, che giudicava Gentile spirito «
dogmatico » e « profonda- mente «ztiscientifico », dubitando che «la
scienza italiana possa subor- dinarsi a quel vaniloquio sciagurato
ch’egli chiama la sua filosofia, ma riconoscendo che l’idealismo è tanto
“attualista” da trovar milioni che i positivisti non sapevano mettere
assieme » religioni), da Federico Enriques (Matematica) a Nicola Pende
(Medicina), da Carlo Nallino (Letterature e civiltà orientali) a Santi
Romano (Diritto pubblico) a Gioacchino Volpe (Storia medioevale e
moderna). Ad essi era deman- data la scelta dei collaboratori e delle
voci ! La consultazione dei collaboratori previsti iniziò subito dopo la
costituzione dell’Istituto; nonostante la sua ampiezza, Treccani poteva già
annunciare che « gli uomini migliori che l’Italia vanta in tutti i
campi del sapere hanno aderito con entusiasmo; i collaboratori sono
già circa 1200 » !. In realtà, i rifiuti che possiamo documentare — ma
significativi per le motivazioni poli- tiche — sono solo quelli di Croce
e Silva. Il primo, interpellato, tramite Alessandro Casati, da Volpe — la cui
fun- zione all’interno dell’Erciclopedia fu all’inizio probabilmente più
vasta di quella di direttore di una sezione storica, in linea con la
funzione di primo piano da lui svolta, accanto a Gentile, nell’organizzazione
della cultura durante il fascismo —, nella risposta preannunciò quel
distacco da Gentile e dal regime che un mese dopo sarà reso
definitivo dalla protesta contro il manifesto degli intellettuali fascisti:
«come volete — scrive a Volpe — che io collabori a una Enciclopedia
diretta da chi ha pur testé, a Bologna, osato proclamare che la cultura
deve essere fascista? » ! Motivi politici furone alla base anche
del [Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione
compimento, e Primo elenco, Tutto il lavoro di preparazione (scelta dei
collaboratori e formazione dello schedario) terminò. Treccani, Racelonone
Italiana Treccani. Come e da chi è stata fatta). Su una riunione di
alcuni direttori di sezione per impostare il lavoro, cfr. la
testimonianza di Ojetti (I taccuini, Gentile
non conclude mai, chiede che i direttori si accordino, Per i successivi
rapporti di Ojetti con la Società Treves-Treccani-Tumminelli, editrice di
« Pègaso » e Dedalo, cfr. ACS, Segreteria particolare del Duce, CARTEGGIO
RISERVATO. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione com-
Dincato. Croce, Epistolario, Napoli, Istituto italiano per gli studi
storici, E a Casati, Dopo il discorso di Gentile a Bologna, credo
che mi avrai dato ragione nel rifiuto che opposi a partecipare
all’Enciclopedia. Come sarei potuto stare alla dipen- rifiuto di Silva
che, dopo aver inizialmente accettato di collaborare — cinque giorni dopo
l’arresto del maestro SALVEMINI — scrisse a Gentile una lettera che
rappresenta, come per l’autore che solo un anno dopo accetterà la
redazione di voci importanti dell’Enciclopedia, le illusioni, le
incertezze, le conversioni di tanti. Voglia consentirmi di
ritirarmi dal gruppo dei collaboratori dell’ Enciclopedia. Nell’appello
che Ella rivolse ai filosofi, quando la grande impresa fu decisa, suonava
alta e nobile la parola della conciliazione degli spiriti nel campo degli
studi e della scienza. E tale parola, che acquistava anche maggior valore
perché pronun- ciata da Lei, mi persuase. Ma ora, purtroppo,
la mia fiducia nella possibilità di tutte le forze in una impresa di
scienza, è molto scossa per i fatti che stanno accadendo. Vedo arrestato SALVEMINI,
il che significa l’inizio di persecuzioni ai filosofi non fascisti. Vedo
presentata una legge per la dispensa dei funzionari, che mira, come hanno
rilevato l’on. SALANDRA e l’on. VOLPE, a colpire la libertà di pensiero e
l’integrità delle coscienze, anche in quel campo che Ella, nel Suo
memorabile discorso inaugurale, voleva rimanesse libero a tutte le
opi- nioni: il campo dell’insegnamento superiore. In tali
condizioni, noi che da quella legge verremo colpiti, come possiamo
rimanere a collaborare a un’opera di scienza, come possiamo continuare a
credere che in tale opera le divergenze di pensiero e di partito verranno
superate? Ecco perché le chiedo di rinunziare alla mia modesta opera. Son
certo che Ella apprezzerà al giusto valore questo mio atto...1? GENTILE
dovette apprezzare piuttosto le pronte e numerose adesioni che assicurarono
all'impresa l’appoggio dei principali rappresentanti della cultura
italiana. Il Prizzo elenco di collaboratori dell’Enciclopedia Italiana,
pubblicato, ne annoverava 1.410, quasi la metà dei 3.266 che daranno il
loro contributo a tutta l’opera ! Non appaiono ancora alcuni dei
denza di un direttore, che ha quelle idee sulla cultura? »
(Epistolario, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, Archivio
dell'Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma [d'ora in avanti AEI],
Lettere, Silva. Su Silva storico e sui suoi rapporti col fasci- smo cfr.
il ritratto che ne ha fatto nel 1954 Volpe (Storici e maestri, Firenze,
Sansoni, La data di pubblicazione del Prizzo elenco (non. indicata) si
deduce dalle polemiche giornalistiche che suscitò, futuri pilastri
dell’Erciclopedia, come Pincherle, Pagliaro, Enriques. Si leggono già,
invece, i nomi di Aliotta e Carlini, Calò e Codignola, o di Caggese,
Ciasca, Chabod, Banfi, Calamandrei, Mondolfo, Allmayer, Augusto Guzzo, e
ancora tanti, da JEMOLO a Russo, da Cortese a Schipa, oltre a Venturi e Rosa, e
Gemelli. Il Primo elenco registra anche il nome di quanti,
dopo essere stati invitati e aver accettato, non collaboreranno
all'opera. La maggioranza di essi è costituita da persone culturalmente poco
rappresentative. Accanto a professori di scuola media superiore o
scarsamente noti professori universitari, troviamo militari, professionisti, o
non qualificati cultori della filosofia. La loro cospicua scomparsa ( sui 1.410
annunciati) dall’elenco finale degli effettivi filosofi collaboratori, per
essere sostituiti da studiosi pit qualificati, potrebbe indicare, da un
lato, un aumento reale dei settori accademico e di ricerca, dall’altro,
una maggiore progres- siva adesione da parte degli esponenti dell’alta cultura,
dapprima diffidenti verso l’iniziativa gentiliana. Vi sono tuttavia, fra i
collaboratori previsti dal Primzo elenco che poi non parteciperanno
all’opera, anche perso- naggi la cui iniziale accettazione val la pena di
essere sotto- Caggese scriveva a Volpe, che lo aveva invitato
a collaborare. Niente pregiudiziali politiche, anche perché io sono completamente
fuori di ogni attività politica, ben sicuro come sono che è nostro primo
dovere d’italiani non complicare in alcun modo una situa- zione non
lieta. Vivo nella solitudine pivi assoluta, lavoro molto e, in
confidenza, non potrei in alcun modo partecipare alle vicende politiche
perché sono troppo indulgente e, ahimè!, ancor troppo sentimentale e
bonario. Passare con i forti non posso perché non è lecito a noi, uomini
di studio, dare lo spettacolo di voler profittare comunque; esaltare i
cosi detti deboli non posso, perché moralmente sono proprio essi quelli
che nell’immediato dopo-guerra hanno scatenata la guerra civile. Non mi
resta che fare il buon cittadino che rispetta tutte le leggi del suo paese,
e augurare che presto ritornino i saturnia regna!, e che i deputati si
somiglino. Dunque, collaborerò volentieri, anche perché non vorrei dire
di no proprio a te. AEI, Lettere, Caggese. L'Enciclopedia italiana
lineata: non tanto le personalità politiche chiamate a dar lustro
all’impresa, la cui adesione è una riprova — assieme alla presenza di
uomini poco rappresentativi nel campo scientifico — del significato non
strettamente culturale che l’Enciclopedia voleva avere !, quanto liberali
come Casati e Malagodi, o uomini come Baratono, Berenson, Caramella, Limentani.
Pochissimi fin d’ora gli stranieri, conforme al criterio ispiratore
dell’opera. La pubblicazione del Primo elenco di
collaboratori provoca le proteste del fascismo estremista. Su Il Tevere da
lui diretto Interlandi, dopo aver
approvato le dichiarazioni di imparzialità e apoliticità
dell’Enciclopedia, affermava: Prima che l'Istituto Treccani, superiore a
tutti i partiti politici s'è dichiarato il Fascismo, che è superiore allo
stesso partito che fascista si intitola; appunto perché il partito
fascista ha una fun- zione tattica contingente e mutevole, laddove il
Fascismo è quella tale coscienza nazionale di cui più su si parla. Cosî
stando le cose, l'onorevole Consiglio direttivo dell’Istituto ha fatto
bene ad espellere i partiti politici dall’Enciclopedia, ma benissimo
avrebbe fatto ad accogliervi il Fascismo. È stato accolto il Fascismo, in
un’opera che vuole essere il monumento culturale dell’età nostra e. alla
quale attingeranno per i loro bisogni spirituali molte e molte
genera- zioni di italiani e di stranieri?; vi erano ugualmente
rappresentati, continuava Interlandi, fascismo e antifascismo,
impersonato quest’ultimo da almeno 90 firmatari del Manifesto degli
intellettuali antifascisti, come Einaudi, o Caramella in procinto
di essere allontanato dalla scuola « per le sue prodezze al
congresso dei filosofi: era necessario fare a meno di simili
collaboratori, per evitare un’enciclopedia imparziale in cui avrà posto
l’esaltazione delle categorie democratiche e di quelle fasciste! Belluzzo,
Boselli, Ciccotti, Giuliano, Giuriati, Loria, Mosca, Salandra, Stringher,
ecc. Considerazioni sopra un elenco di enciclopedici, in «Il Tevere
», (editoriale). L’articolo
di Interlandi, parzialmente ripreso da La Tribuna — che da poco si era
fusa con « L’Idea Nazionale » ed era passata sotto la direzione del
nazionalista Forges Davanzati '* —, dette modo a Gentile di
precisare le sue idee sul rapporto cultura-fascismo: in una lettera
aperta inviata al direttore de « La Tribuna » affermò che, su questo
problema, il Pnf aveva « ormai direttive precise, come dimostrava
l’approvazione, da parte del duce e de «L’Idea Nazionale, del
discorso gentiliano tenuto per l’inaugurazione dell’Istituto
nazionale fascista di cultura. Il fascismo, obiet- tava a
Interlandi, non è venuto a distruggere, ma a edificare. Intende bensî
ani- mare tutta la vita nazionale di un’ardente passione politica,
che è passione morale e religiosa di creazione di superiori valori;
ma non tollera, non può tollerare che questa passione abbia a
disperdersi e inaridire in vuote formule superstiziose, e in gare ein
cacce di persone od esibizioni di tessere tante volte, ahimé, turpemente
abu- sate e sfruttate! Quasi che l’Italia fascista da noi vagheggiata
potesse essere quella che si avrebbe il giorno in cui i famosi quaranta
milioni d’ogni sesso od età fossero iscritti tutti nel Partito. Gli
uomini da adoperare », quindi, dovevano essere « quelli che per
attitudini e preparazione potranno più utilmente aiutarci nella
realizzazione della nostra idea. Cosî ha fatto sempre MUSSOLINI con la
sua sicura volontà realizzatrice. E chi fa della politica dove c’è
da risolvere un problema tecnico, non fa politica, ma spropositi;
io — continuava Gentile facendosi forte della sua posizione
politica — mi riterrei indegno della tessera che il Partito Fascista mi
offri [Polemizzando con Forges Davanzati critico del culturalismo (cfr.
il suo Fascismo e cultura, Firenze, Bemporad), Vita nova — la rivista di
Arpinati molto vicina a Gentile — affermava le carenze del nazionalismo
in campo culturale, mentre « per fare della cultura bisogna sul serio
mettersi al lavoro, e quindi in vece di parlare di essa da un punto di vista
strettamente politico, cosa più saggia sarebbe indicare i mezzi valevoli
per promuovere efficacemente un vero rinnovamento cul- turale », perché
la cultura « deve essere la più grande forza del nostro regime »
(Rusticus [SAITTA], Politica e cultura, in « Vita nova »). quando ravvisò in me
uno dei precursori e un fascista che faceva sempre sul serio, se
scoprissi in me una mentalità cosi gretta da non distinguere la politica
dalla tecnica in un’opera che riuscirà un grande esame sostenuto dal
pensiero e dal carattere degl’ Italiani innanzi a tutte le nazioni
civili, la maggior parte delle quali ci precedette in questo arringo: se
per gusto inopportuno di chiudermi nella rocca forte dei miei camerati,
trascurassi di adoperare tutti gli elementi e tutte le forze che l’Italia
può fornirmi alla costruzione di questo gran monumento nazionale Questo,
per me, è fasci- smo. È quel fascismo che può affermare con giusto
orgoglio: ic non sono partito, ma sono l’Italia, È il fascismo che può e
deve chiamare a raccolta per ogni impresa nazionale tutti
gl’Italiani: anche quelli dell’anzizzazifesto. I quali, se risponderanno
all’appello, non verranno (stia pur tranquillo Interlandi) per fare
dell’antifascismo: verranno, almeno nell’Enciclopedia, a portare il
contributo della loro competenza: a far della matematica o della chimica
o della fisica, e insomma della scienza [La distinzione gentiliana di
scienza e politica non con- vinse Croce !*, né, per ragioni opposte,
Interlandi, il quale replicando a Gentile affermò che «in nome della
com- petenza [...] oggi si affida a molti, a troppi competenti antifascisti,
la compilazione d’un’opera che a parer nostro non dovrà essere solamente
un monumento di tecnica, ma L’Enciclopedia italiana e il fascismo,
ora in Fascismo e cultura. Croce scrive a Casati. Hai visto come Gentile
tratta i filosofi collaboratori non fascisti? Hai visto che li considera
apportatori di pietre al monumento culturale del fascismo? Io previdi
chiaramente quello che sarebbe avvenuto, quando rifiutai l’adesione, che
tu mi chiedevi, all’Enciclopedia. Epistolario. E in una recensione
critica di un articolo di Ruiz su L'individuo e lo Stato, osservò come, anche
chi, in questi tempi, è andato incautamente predicando che scienza e politica
sono tutt'uno e che la cultura dev'essere asservita a un partito o a una
frazione, debba in fretta e furia, per salvare le proprie intraprese,
tentar di ristabilire la differenza, come si è visto nei giorni scorsi,
nelle discussioni levatesi a proposito di una certa enciclopedia. La
Critica. In risposta a Croce, « Vita nova » difese tutta la concezione di
Gentile sui rapporti scienza-politica, concludendo con l’identificazione
gentiliana e fascista del partito con lo stato. Si dice che l’intento
dell’enciclopedia italiana è politico perché la filosofia, lî, vuol
riuscire a un monumento nazionale, e il nazionalismo del Gentile è il
fascismo? Ebbene Croce, lui, ch’è cosî fino nelle distinzioni quando gli fanno
buon giuoco, sa benissimo che questo fascismo non è più un partito o una
fazione. Egli sa benissimo, dunque, che è del tutto erroneo affermare che
il Gentile sia andato predicando che la filosofia debba essere asservita al
fascismo inteso in quel senso » (Urbanus, Piccolezze di un grand’uomo, in
« Vita nova ». un monumento del nostro tempo che, se non erriamo, è
tempo fascista Se l’“Enciclopedia” i
fascisti non la sanno fare, perché non sono “competenti”, ebbene,
non la facciano; ne faremo a meno. Non perirà per questo né il
Fascismo, né l’Italia Affermazione decisamente contestata da La fiera
letteraria che — pur assicurando sulla scarsa libertà di movimento dei 90
firmatari dell’antimanifesto, sottoposti come tutti i collaboratori al
controllo dei direttori di sezione, e quindi dei « loro capi gerarchici »
Treccani e Gentile, che « rispondono del loro operato dinanzi alla
Nazione e al mondo » — difese la posizione gentiliana e la necessità di
una vasta politica culturale da parte del fascismo: nessun
Governo come l’attuale ha fatto dei problemi della cultura nazionale
oggetto di tanti progetti e di cosî evidenti preoccupazioni. Una cosa è
dunque polemizzare e altra cosa è agire. Cosi una cosa è criticare
l’operato degli Enciclopedisti, e altra cosa è fare una Enciclopedia. Da
questa specie di dilemma non si esce se non dichiarando, come qualcuno ha
fatto, che qualora l’Enciclopediu Italiana non possa farsi senza il
concorso dei novanta reprobi, è meglio che non si faccia. Ma non può
sussistere una politica intel- lettuale o culturale di un grande partito
fondata sopra simili para- dossi 1%, La polemica tra
Interlandi e Gentile, tra il fascismo « rivoluzionario » e quello «
tradizionalista, si concluse a favore di quest’ultimo. La lettera —
provocata proba- bilmente dal primo articolo de Il Tevere — inviata
il 7 maggio dal segretario particolare del duce, Chiavolini, al
segretario del Pnf Turati, con « un elenco dei collabo- [} senso
del Fascismo e l’Enciclopedia, in « Il Tevere » Gli attacchi contro
l'Enciclopedia. Politica e Cultura, in « La fiera letteraria », Gli
attacchi dovettero continuare, se Codignola avvertiva Gentile che i
suoi avversari, ostili alla sua permanenza nel Consiglio superiore della
Pub- blica istruzione, « potrebbero forse chiedere e ottenere anche il
tuo ‘allontanamento dall’Istituto di Cultura e dall’Enciclopedia. Tutto
questo sarebbe molto grave per te e per le nostre idealità comuni, ma
sarebbe ‘ancora più grave per le ripercussioni che avrebbe nel paese, già
troppo po Vem e perplesso in questo momento » (Archivio Codignola,
Firenze). L’Enciclopedia italiana ratori
dell’Enciclopedia Treccani già firmatari del noto manifesto degli
intellettuali aventiniani », non ebbe grande effetto, anche se ad essa —
e non a un ripensamento dei collaboratori previsti — fosse da attribuire
l’abbandono dell’Enciclopedia da parte di 23 (fra cui Einaudi e Ruffini)
degli 85 intellettuali nominati '”. I principali filosofi collaboratori non
fascisti annunciati — cui altri se ne ag- giunsero —, firmatari o meno
del contromanifesto crociano, parteciperanno all’opera, e tre firmatari,
Carrara, De Sanctis e Levi della Vida, vi rimarranno anche dopo il
rifiuto del giuramento fascista richiesto nel ’31 ai professori
uni- versitari !*, Le polemiche del fascismo estremista
contro l’Enci- clopedia cessarono nel 1926, quando proteste come
quelle del contromanifesto o del CONGRESSO NAZIONALE DI FILOSOFIA non
ebbero più possibilità di sbocchi politici; « non c'è più un’opposizione
antifascista; e tutti son pronti a servire il Regime, che è lo Stato »,
affermerà Gentile invitando gli iscritti al Pnf ad « accettare la
collabo- razione degli italiani capaci ed onesti, anche non fascisti »:
Anche l’Italia intellettuale ha fatto molto cammino, e l’antifascismo va
buttato, finalmente, in soffit- ta » ! Tuttavia, se l’opposizione
politica era schiacciata, la stessa opera gentiliana di conciliazione sta
diventando meno necessaria con l’inizio della costruzione dello Stato
totalitario. Ma l’Enciclopedia era ormai avviata, e poté continuare con
la collaborazione di quanti — seppure in alcuni casi critici verso il suo
direttore o verso il regime — avevano aderito all’impostazione «
na- zionale » che Gentile aveva dato all'opera nel ’25!. ACS,
Segreteria particolare del Duce, CARTEGGIO RISERVATO. Per i rapporti di De
Sanctis e Levi Della Vida con Gentile e YE.I. cfr. G. De Sanctis, Ricordi
della mia vita, Firenze, Le Monnier, e G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati,
Venezia, Neri Pozza. Gentile, Fascismo e Università, in « Educazione fascista
», Volpe nega l’esistenza di contrasti politici fra i collaboratori, che
erano «di ogni colore politico» (Giovanni Gentile, cit., p. 359); cosî
Pintor (che fu direttore della sezione « Biblioteche »), per il quale
Gentile « raccolse intorno a sé e indirizzò ad un concorde e disci-
Discussioni o contrasti si trasferirono per il momento all’interno
dell’Enciclopedia, nell’ambito delle scelte culturali: il punto di maggior
frizione — su cui ci soffermiamo perché essenziale alla comprensione dei
condizionamenti esterni dell’opera — fu il settore religioso, dove
Gentile dove fronteggiare la pressione del mondo cattolico, che per
acquistare un ruolo egemonico nella cultura italiana fu pronto a
sfruttare la politica di riavvicinamento alla Chiesa promossa da
Mussolini. Le dichiarazioni di imparzialità di Treccani e Gentile
avevano trovato subito un esplicito correttivo nell’accettazione del controllo
ecclesiastico. Nella prima riunione del consiglio direttivo
dell’Istituto, Treccani — dopo aver ricordato le incomprensioni e le
critiche con cui l’iniziativa era stata accolta — aveva precisato:
L’Enciclopedia nostra deve corrispondere ai sentimenti tradizionali degli
Italiani e perciò, deve essere non solo patriottica, ma anche bene
accetta alla Chiesa. Per raggiungere questo scopo, un accordo è già
intervenuto; Venturi dirige la sezione per le materie ecclesiastiche e
sotto la sua guida collaboreranno altri ecclesiastici, tra i quali
Gramatica e Rosa !4%. plinato lavoro migliaia di studiosi italiani e
stranieri, di ogni credenza e di ogni scuola: accolti con uguale fiducia
i dissenzienti dalla sua filosofia, gli avversari delle sue idee
politiche » Gentile negli studi storici e letterari, in Giovanni Gentile.
La vita e il pensiero, Firenze, Sansoni. Più sfumata la testimonianza di
Momigliano: se Giglioli, Fedele, Volpe e Gentile « non chiedevano, e
nemmeno desideravano, che si diventasse fascisti per lo stesso fatto di
entrare nelle Università, nelle Scuole storiche e nella Enciclopedia, ci
si inseriva in organismi fascisti, dove l'imbarazzo era costante e la
cautela diventava abito. Il motto che Croce ci dava il pane spirituale e
Gentile ci dava il pane materiale ricorse allora più di una volta in conversazione.
Una solidarietà implicita si stabiliva tra coloro che erano di sentimenti
antifascisti alla Università o alla Enciclopedia » (Appunti su F. Chabod
storico, in «Rivista storica italiana. Treccani, Enciclopedia Italiana
Treccani. Idea esecuzione compimento. Le Avvertenze ai collaboratori
assegnavano agli argo- [La presenza stessa di ecclesiastici de « La
Civiltà cattolica, in posizione privilegiata e non in nome del tanto
invocato criterio della competenza, indica — prima ancora di poter
esprimere un giudizio sulla sua efficacia — una forte incrinatura
nell’impostazione gentiliana dell’opera. L’accordo di Treccani
corrispondeva al processo di avvici- namento in atto fra Stato e Chiesa —
il gesuita Tacchi Venturi fu in quel periodo trait-d’urzion fra Mussolini
e il Vaticano !' —, ma contrastava con la concezione agonistica dei rapporti fra i due poteri propria di
Gentile, fedele alla formula cavouriana e contrario alla
conciliazione di diritto . L’ingerenza della Chiesa, che proprio scagliò
la sua offensiva in campo culturale contro l’idealismo come principale
obiettivo da colpire, fu con- trastata ma, soprattutto dopo il ’29,
sempre più subîta da Gentile. L'impostazione iniziale data
all’Enciclopedia, per cui avrebbe dovuto registrare tutti gli indirizzi
culturali e affidarsi ai competenti di ogni materia, fu — unita all’accordo
di Treccani — un’arma a doppio taglio di fronte alla organizzazione vasta
e articolata della cultura cattolica che sotto la protezione politica »
dei gesuiti poteva ora utilizzare la capacità di penetrazione della
neoscolastica, istituzionalmente rafforzata col riconoscimento
statale della Cattolica di Gemelli. Ma è anche menti religiosi il
primo posto nel punto III: « Delle materie religiose e filosofiche,
morali e politiche gli scrittori dell’Enciclopedia avran cura di parlare
con rispetto assoluto dell’altrui pensiero e coscienza, in modo da
consentire che all’Enciclopedia insieme collaborino uomini di ogni fede e
di ogni dottrina che abbia un suo valore. A tutti i collaboratori
dev’esser possibile incontrarsi sopra un medesimo terreno, dove ognuno,
pur mantenendo, com'è necessario, i propri convincimenti, usi tuttavia un
linguaggio che gli altri possano ascoltare. Tutti i collaboratori
sentiranno che soltanto cosî l’Enciclopedia Italiana potrà riuscire,
com'è suo propo- sito, un lavoro a cui partecipano tutte le forze vive
della scienza e dell’ingegno italiano. Broglio, Italia e Santa Sede
dalla grande guerra alla Conciliazione, Bari, Laterza, e Scaduto].,
Venturi. La Civiltà Cattolica. Felice, Mussolini il fascista, II.
L'organizzazione dello Stato fascista, Torino, Einaudi, Vasoli, I
neoscolastici e la cultura italiana, ora in Tra cultura e ideologia, Milano,
Lerici, e Rossi, La filosofia vero che, nonostante le polemiche molto
accese proprio con i neoscolastici, il « laicismo » gentiliano conteneva
molte falle: l’importanza crescente assunta nella filosofia di Gentile da
una religione ambiguamente intesa, dai Discorsi su fino alla voce enciclopedica
e alla conferenza su La mia religione; la coscienza, matu- rata dopo la
guerra, del « problema politico » della religione necessaria al
rinnovamento della cultura da parte di uno Stato non più agnostico che, «
senza combattere in nessun modo nessuna particolare forma religiosa,
riconosca ed affermi il valore della religione com’essa vive
attraverso tutte le forme » !9; il generico spirito religioso attribuito
ai profeti del Risorgimento (non solo Mazzini e Gioberti), sottolineando
però — come per Capponi — l'impossibilità di astrarre una indeterminata e
vaga reli- giosità mistica dal complesso concreto della vita storica italiana,
intimamente cattolica !f: tutto ciò
favoriva la trattazione di temi religiosi — in un’opera rivolta a valorizzare
la civiltà romana e italiana, e costituiva almeno la premessa per uno
scontro duro e incerto nei risultati, fra l’attualismo che si considerava
« vera religione », e le forze cattoliche chiamate a dare il loro
contributo. Ma l’accordo citato da Treccani era destinato a far pendere
la bilancia a favore di queste ultime, per cui è probabile che l’Enciclopedia
abbia assolto, nel campo dell’alta cultura, la stessa funzione
favoreggiatrice del pensiero confessionale svolta dalla riforma
scolastica nel settore dell’educazione elementare (e poi media)”.
neoscolastica e i suoi orientamenti storiografici, ora in Storia e
filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, Torino, Einaudi, Discorsi
di religione, ora in La religione, Firenze, Sansoni, Si pensi agli interventi
di Gentile a difesa della riforma scolastica (Scritti pedagogici, La
riforma della scuola in Italia, cit.), nei quali prevale, sull’idea del
confronto fra pensiero laico e cattolico, il concetto dello Stato non
agnostico ma educatore, per concludere che «in Italia, se lo Stato è
coscienza attiva nazionale, coscienza dell’avvenire in funzione del passato,
coscienza storica, esso è coscienza religiosa cattolica » Sul laicismo e
la concezione gentiliana come elemento essenziale della tradizione nazionale
italiana, cfr. L'Enciclopedia italiana Gentile cercò di contrastare
l’offensiva cattolica, come dimostrano l’organizzazione iniziale delle
sezioni di argo- mento religioso e i loro successivi cambiamenti. La
sezione materie ecclesiastiche affidata a Tacchi Venturi, di cui
aveva parlato Treccani, non compare nel Primo elenco di collaboratori
dell'inizio quando le trattative col Vaticano segnavano il passo;
appaiono invece quella di « Filosofia, Educazione e Religione »
sotto la direzione di Gentile, conforme alla concezione per cui «
la religione solo idealmente è distinta da LA FILOSOFIA, laddove in
realtà ogni religione è sempre una filosofia, e ogni filosofia, se degna
del suo nome, è una religione » !, la sezione « Geografia sacra » sotto
la guida di Gramatica, e quella di « Storia delle Religioni » con Pettazzoni,
che fra i primi aveva introdotto stabil- mente in Italia la
corrispondente disciplina, cui Gentile riconosceva, sia pur con alcune
cautele, validità scientifica. Nel primo volume dell’Enciclopedia invece,
uscito subito dopo i Patti Lateranensi, la generica sezione Materie
ecclesiastiche diretta da Venturi (probabilmente non limitata all’agiografia
sacra o alla liturgia) si affianca a quelle già citate di Gramatica e
Pettazzoni, alla sezione diretta da Gentile che assunse il titolo «
Storia della Filosofia e Storia del Cristianesimo » dove, accanto alla
significativa scomparsa della « Pedagogia » e della « Religione » (non
sappiamo se come la prima assort- bita dalla « Filosofia » o dalle «
Materie ecclesiastiche »), si registra il tentativo gentiliano di
controllare — tramite Omodeo, come vedremo — la « Storia del
Cristianesimo ». «Filosofia e
pedagogia » e « Storia del cristianesimo » risultano distinte,
entrambe sempre dirette da Gentile; ma poco dopo, nei primi mesi
del 1931 (vol. XI), « Storia del cristianesimo » è scom- le
osservazioni di A. Lo Schiavo, La religione nel pensiero di Giovanni
Gentile, in « La Cultura. Il carattere religioso dell’idealismo italiano, ora
in La religione, la recensione alla Storia delle religioni di G.
Foot Moore. parsa: assieme al ritiro di Omodeo, ciò può essere
inter- pretato come un indebolimento della posizione gentiliana in
questo settore, e un rafforzamento delle « Materie eccle- siastiche » di
Tacchi Venturi. L'offensiva ecclesiastica è evidente anche nel campo
dei collaboratori: mentre nel Prizzo elenco gli ecclesiastici sono 34
(pari al 2,4% del totale dei collaboratori), di cui solo 5 gesuiti (di
fronte a 13 francescani), nell’Enciclopedia sono già nella percentuale in cui
parteciperanno a tutta l’opera — oltre il 4%, di cui il 27% è
formato di gesuiti che costituiscono il gruppo più numeroso; ap-
paiono fin da ora i più eminenti: oltre a Venturi, Bricarelli, Rosa e
Vaccari — e, se si eccettuano Omodeo e Pincherle (storia del
cristianesimo), egemonizzano gli argomenti religiosi (agiografia e
storia della chiesa in particolare); accanto agli ecclesiastici,
nel I volume appaiono anche professori di Istituti cattolici romani
e della Cattolica — questi ultimi in numero di 6 — che, osservava La
Civiltà cattolica, per sincerità di fede affidano chi consulti quest’o-
pera » 1°, L'assalto cattolico all’Enciclopedia era cominciato
meno di un mese dopo la costituzione dell’Istituto Treccani e prima
ancora che fosse annunciato l’accordo intervenuto con le autorità
ecclesiastiche: Gemelli — fondatore della Cattolica e paladino della
neoscolastica, e uno dei maggiori critici dell’attualismo — aveva offerto
il contributo suo (gratuito) e dei suoi « amici » — proponedo per sé temi
di psicologia !, di cui si occu- perà nell’Exciclopedia assieme all’altro
argomento in cui era « competente », la Neoscolastica,' voce tutta
impostata in senso anti-idealistico —, confutando coi fatti il
giudizio negativo espresso politicamente su di lui e su tutta la cul-
tura cattolica dal gentiliano Giuseppe SAITTA!”. Busnelli], L’«
Enciclopedia Italiana », in «La Civiltà cattolica. AEI, Lettere, Gemelli.
152 Rusticus [Saitta], L’Enciclopedia cattolica, in «Vita nova ». L’infaticabile
Gemelli ha lanciato Gentile accetta la collaborazione di Gemelli e
del gruppo neoscolastico, seguendo il criterio per cui l’opera
doveva essere specchio fedele di tutte le correnti intellet- tuali del
paese. A questo criterio si ispirò anche Omodeo, cui Gentile affidò fin
dall’inizio l’organizzazione del settore religioso da lui diretto. Lo
storico del cristianesimo, le cui lettere e la cui nota vicenda personale
sono guida illuminante per seguire il peso crescente assunto all’
interno dell’Enciclopedia da Venturi e dagli ecclesia stici (soprattutto
gesuiti), preparò elenchi di voci sull’esempio della Britannica — cercando di
impedire, con una trattazione storica degli argomenti, gli interventi
dogmatici dei collaboratori cattolici —, e assicurò il contributo
di esponenti dei diversi indirizzi religiosi: gli allievi di Buoniaiuti
con in testa Pincherle !, e il gruppo l’idea di contrapporre alla
enciclopedia “Treccani” diretta dal Gentile una enciclopedia cattolica.
L’idea è buona, anzi ottima, e noi l’approviamo, perché cosi l’illustre
frate che ha il merito di aver fondato un Istituto Universitario del
Sacro Cuore, di cui ancora ignoriamo i risultati, dimostrerà per l'ennesima
volta che il pensiero cattolico nulla ha da dire di veramente nuovo nel
dominio scientifico. Si fa presto a trovare i milioni, ma ciò che è
difficile, difficile assai, è trovare le teste, e di teste colte,
sapienti, con tutta la buona volontà, non ne scopriamo molte nel campo
cattolico ». Scrive a Gentile: « Non sono riuscito a intendere bene
il criterio secondo cui è stabilito lo sviluppo da dare alle singole
voci. Noto che anche gli argomenti cattolici sono contenuti entro limiti
molto pi ristretti che nell’Enciclopedia Britannica. Ciò non può
dipendere dal fatto che sono aumentate le voci. Le voci aggiunte non mi
pare che superino i nomi di teologi e pastori protestanti da me depennati
l’anno scorso dagli elenchi dell’Enciclopedia Britannica. Può darsi che questo
sia un criterio già fissato (di restringere gli argomenti di storia
cristiana ed ecclesiastica). Badi però che c’è un pericolo, specialmente
con la collabo- razione dei cattolici: di rendere questa parte dell’Enciclopedia
completamente insignificante come i trattati e i manuali correnti nei seminari,
che nessuno consulta. Massima obbiettività e pura esposizione dei
problemi: sta bene. Ma quella gente non si contenta di questo. Vuole che
i problemi siano ignorati, il che significa tradire lo scopo principale
dell’Enciclopedia. È di ieri la condanna d’un manuale ortodossissimo di
storia ecclesiastica corrente nei seminari, pel solo fatto che
onestamente informava dei punti + Ag dei non ortodossi (Gentile-Omodeo,
Carteggio). A Gentile: Ognuno del loro gruppo sceglierà le voci che
meglio rispondono alla loro preparazione e le tratterà. Ciò non vincola
menomamente l’atteggiamento che noi o essi crederemo o crede ranno di
prendere in altre opere, negli apprezzamenti reciproci. L’Enci- di «
Bilychnis per la storia del protestantesimo. Ma le sue lettere a Gentile
rivelano le pressioni e poi il deciso intervento censorio degli
ecclesiastici, che forti degli accordi, costringeranno Omodeo ad
abbandonare il lavoro all’Enciclo- pedia, dove sarà sostituito da
Pincherle '*, Da questo momento i gesuiti predomineranno nel
set- tore, e « La Civiltà cattolica », stendendo un bilancio dei
primi tre volumi dell’opera, poteva profondersi in lodi, pur lamentando
che parecchie voci fossero state affidate «a laici non solo, ma di sensi
non cattolici, quali il Pincherle e l’Omodeo. Una particolare menzione merita
il saggio consiglio preso dall’Istituto Treccani di affidare in avvenire
la direzione della Sezione Materie ecclesiastiche e la compilazione
degli articoli nei quali più facilmente possono trascorrere abbagli ed
errori, ad ecclesiastici dell’uno e dell’altro clero, italiani e
stranieri, uomini tutti di sicura dottrina nel campo della sacra
letteratura. C'è dunque ragione di stare a buona speranza che per
quel che riguarda direttamente la Chiesa, il dogma, la storia
ecclesiastica, la liturgia e le altre parti della dottrina e della
scienza cattolica, non s'incontreranno quei difetti, talora gravissimi,
che scemano il valore e la stima di altre enciclopedie, compilate con
troppa assoluta indi- pendenza, ignoranza o anche disprezzo del pensiero
cristiano e cattolico. Oltracciò convien notare come i Direttori
dell’Enciclopedia, Gentile e Tumminelli,
insieme col Consiglio direttivo dell’Istituto Treccani, mentre lasciano
agli scrittori la piena libertà d’esprimere il concetto cristiano e
cattolico e il giudizio dei fatti secondo il criterio della soda indagine
ecclesiastica, promettono di invigilare che anche in altri articoli
indirettamente attinentisi alla religione cattolica e alle materie
ecclesiastiche non vengano soste- nute o insinuate sentenze o critiche
contrarie o malfondate !9?. Il giudizio dell’autorevole rivista suonava
monito per il futuro, non solo per le voci di argomento religioso. L’enciclopedia
rifletterà obiettivamente la situazione presente della cultura italiana. A
Gentile. Cfr. ibidem, ed Omodeo, Lettere,
Torino, Einaudi, in particolare la lettera a Gentile [G. Busnelli], L’Enciclopedia
italiana cacia del controllo ecclesiastico, su cui esistono
testimo- nianze di contemporanei e che sarà verificata più avanti,
poggiava ormai sulla nuova situazione politica e culturale creata dalla
Conciliazione. Con il contrasto fra cattolici e idealisti si
trasformò in aperta frattura, registrata immediata- mente dal CONGRESSO
DI FILOSOFIA che vide lo scontro fra Gentile e Gemelli. Il pericolo
dell’ingerenza cattolica fu avvertito subito da Gentile, che cercò di
reagire attac- cando il dogmatismo neotomistico '? e sottolineando
il carattere religioso dell’attualismo, La funzione da lui svolta
era tuttavia destinata a indebolirsi con la nuova alleanza stabilita dal
regime, e l’Enciclopedia diverrà luogo di uno scontro sempre più duro con
i cattolici apertamente incoraggiati dalla messa all’indice delle opere
di Croce e Gentile. Il quadro storico generale in cui nacque e fu
realizzata l’idea dell’Enciclopedia — fin qui tracciato — ha contribuito
a spiegare le sue origini nel clima di riscossa nazionale del dopoguerra,
e la funzione di assorbimento di intellettuali di diversa formazione da essa
svolta, e in vista della creazione dello Stato totalitario;
cercheremo ora, attraverso la lettura interna dell’opera, di
chiarire le scelte culturali operate, che non possono essere
dedotte Minimizzato da Volpe, il controllo ecclesiastico è invece
ritenuto esteso a tutti gli argomenti da Calogero, Mussolini, la
Conciliazione e il congresso filosofico in « La Cul- tura », e
testimoniato da Vida, Cfr. ad es. le dichiarazioni di Gentile riportate
in « Educazione fascista » Alla lettera con cui Salvadori rifiutò
l’invito gentiliano di collaborare all’E.I., «opera dove la filosofia
domi- nante nega Dio vivo e vero per adorare la divinità dell'uomo »
(pubblicata postuma da A. Frateili, Vita e poesia di Salvadori, in «
Pègaso »; ora in Lettere di Salvadori scelte e ordinate da Trompeo e
Vian, Firenze, Le Monnier), Gentile rispose qualificando « giudizi
temerari: 1) che nella detta Enciclcpedia domini una filosofia (che non è
vero); 2) che la mia filosofia neghi il divino vivo e vero (che è falso);
3) che adori il divino dell’uomo (che è un equivoco molto grosso) (“Giornale
critico della filosofia italiana”). meccanicamente dal rapporto col clima
politico in cui ven- nero attuate, anche se di questo dovremo tenere
conto. Centro di raccolta dei maggiori studiosi italiani, rappre-
sentanti non solo — quando li uni la politica di « conciliazione » di
Gentile — differenti indirizzi di pensiero !, l’Enciclopedia fu
considerata allora come uno strumento capace di promuovere studi e
ricerche in campi fin allora inesplorati dalla scienza italiana. Nell’impossibilità
di controllare questa affermazione, ci limiteremo a verificare il
giudizio di quanti vi hanno visto l’espressione di una cultura accademica
impermeabile al fascismo, « positiva », costituita di fatti e di informazioni,
contro la quale polemizzeranno, in un ambiente sempre più chiuso
alle moderne esperienze contemporanee, i nuovi mistici della fede
cattolica o della « dottrina fascista ». Sarebbe tuttavia da verificare
l’accenno di Volpe alla diminuzione del numero dei collaboratori per volume,
che potrebbe indicare una maggiore progressiva uniformità di voci. Cfr.
ad es. Pincherle, per il quale l’E.I. riproduce in sostanza lo stato
odierno della cultura italiana, con i suoi pregi e anche, è naturale, con
le sue deficienze: a riparare alle quali la preparazione di un'Enciclopedia è
appunto stimolo efficace più di tanti discorsi, e Gentile: è già
interessante vedere come quest’alta cultura italiana abbia avuto
dall’Enciclopedia uno sprone e uno stimolo a misurarsi in campi finora
trascurati. L’Enciclopedia ha fatto sî che, p. es., ci siano ora degli
storici italiani (e questo è un fatto nuovo) che si occupano di proposito
di storia delle altre nazioni, dall'Europa all’Estremo Oriente. Non uno o
due specialisti, ma parecchi, e, quel che più importa, giovani »
(L’Enciclopedia Italiana, in « Rassegna italiana politica e letteraria ». Tanto
che Volpe potrà dire che l’E.I. «fu, per dieci anni, un gran porto di
mare; fu la vera Universitas studiorum non di Roma o d'altra città ma di
tutta Italia e, un poco, di tutta Europa. E un uomo di nome europeo, e
pit che europeo, Gentile, ne era il Rector Magnificus, sempre presente,
anche se non ingombrantemente presente. Di voci «partigiane ma dignitose » ha
parlato G. Devoto (Ur ricordo, in Il Corriere della sera). Significativi
il giudizio di Speranza [Luca, uno dei principali collaboratori
ecclesiastici dell’enciclopedia], Temzpo d'Enciclopedia?, in Il Frontespizio, Chi
domanda all’Enciclopedia il corso dei propri giorni e la regola della
vita terrestre ed eterna? L’Enciclopedia è ormai cosa da positivisti »), e il
modo in cui venne annunciato dalla stessa « Critica fascista » il
Dizionario di politica del Pnf che sarà pubblicato : prezioso
repertorio dottrinale, a base del quale non sarà tanto l'informazione
quanto la valu- tazione di idee e fatti “dal punto di vista fascista”:
opera, cioè, come ben A molti dei filosofi che hanno valutato
complessivamente i contenuti dell’Enciclopedia, emblematica delle vicende
culturali del periodo fascista, è parso che in essa permanessero i valori
di una cultura impermeabile al fascismo, sia per la presenza di eminenti personalità
antifasciste, come SOLARI e MONDOLFO, sia per l’ampiezza di settori
ritenuti difficilmente influenzabili dall’ideologia del fascismo, e dal
carattere puramente espositivo, come quelli geografico e artistico. È il caso
di BOBBIO, per il quale l’opera è indiscutibilmente la più grande
rassegna che sia mai stata tentata sino ad oggi della cultura accademica
del nostro paese, e non è, se non in qualche frangia marginale, che appare una
stonatura, un’opera fascista, in quanto tutto ciò. che vi fu di
fascistico, anzi disquisitamente fascistico, nei trentasei volumi, fu
concentrato nella voce Fascismo: un’interpretazione che, mentre coglie
nell’impresa la presenza di tutto o quasi tutto lo stato maggiore della
cultura. accademica post-fascista, tende a negare qualsiasi
influenza dell’ideologia del fascismo sulla cultura, secondo la
nota tesi crociana. Né si discosta molto dalla sostanza di questa
interpreta- zione, pur con giudizio di valore rovesciato, Rosa,
che, attento a sottolineare la continuità del carattere di classe
della cultura borghese prima e durante il fascismo, si limita — con Momigliano
— a rimproverare agli intellettuali che parteciparono all’impresa che, collaborando, si colla- borava
inequivocabilmente ad un’opera del regime », osser- vando tuttavia che in
questo caso « la fascistizzazione della cultura non comportò neanche
un’“appropriazione” ideo- logica, come quella verificatasi nel campo
della scuola, ma soltanto la gestione istituzionale di ampi settori
d’intellet- sanno i collaboratori che vi attendono fervidamente,
“di impostazione e di finalità politiche, e non di una pura e semplice
enciclopedia cultu» rale” » (Mattei, Cultura fascista e cultura dei
fascisti. Bobbio, La cultura e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e società
italiana, a cura di Quazza, Torino, Einaudi, tuali di tendenze e opinioni
diverse. Solo Badaloni, cogliendo la novità rappresentata dal fascismo
anche in campo culturale, ha avanzato l’ipotesi di un legame fra l’ideologia
del regime reazionario di massa e la cultura di cui l’opera fu
espressione, pur affermando che l’Enciclopedia « si caratterizza
certamente per l’aspetto della continuità rispetto alla tradizione precedente,
assicurata dal ruolo svolto da Gentile, Un esame ravvicinato
dell’opera permette in realtà di individuare, accanto ai forti
condizionamenti politici del regime — divenuti espliciti con il
riconoscimento ufficiale dell’iniziativa di Treccani — e alla
elaborazione di una cultura propria del fascismo '”, l'impossibilità dei
non molti intellettuali non allineati al regime di mantenersi
autonomi all’interno di una istituzione fascista; e, infine, il carattere
non univocamente gentiliano dell’opera, non tanto perché, come ha
affermato Momigliano, Gentile si limitava in alcuni casi a dare ai
collaboratori il pane mate- riale mentre Croce forniva quello spirituale,
quanto perché, più in generale, l'impresa enciclopedica si pose come
coro- namento di quel processo di selezione di una cultura di
destra — su cui ha insistito Amendola — che si era venuta rafforzando a
partire dall’età giolittiana, e, se vi fu un elemento non completamente
omogeneo a questa cul- tura, esso non fu rappresentato dal liberalismo di
Croce, bensî dalla componente cattolica che, Rosa, La cultura, in Storia
d'Italia, Dall'Unità a oggi, Torino, Einaudi, Badaloni-C. Muscetta, LABRIOLA,
Croce, Gentile, Bari, Laterza, Sulla cultura del fascismo. cfr.
l’introduzione di Garin a Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori
Riuniti, e la recensione di Amendola al volume di Garin (ora in Fascismzo e
movimento operaio, Roma, Editori Riuniti). Amendola, che ha tuttavia
negato l’esistenza di una cultura fascista. Non c’è stata una cultura
fascista. C'è stata una adesione politica degli intellettuali al
fascismo, una accettazione del regime sulla base di posizioni culturali
molto diverse. Al fascismo aderiscono positivisti e idealisti. Uomini di varie e
contrastanti correnti artistiche mantengono, nel quadro politico fornito dal
regime, le proprie posizioni culturali, e il regime lasciava correre (Id.,
Intervista sull’anti- fascismo, a cura di Melograni, Bari, Laterza, mirò
a sostituirsi all’attualismo e al debole « laicismo » di Gentile.
Definire idealistica l’Enciclopedia, come da più parti è stato fatto !’,
è insufficiente a comprenderne la complessità e, probabilmente, la stessa
capacità di durata nella cultura italiana. Per far ciò è necessario
ricordare che l’opera di organizzazione del consenso intrapresa da Gentile
e integrata, non senza forti contrasti, dall'intervento cattolico: la
constatazione acquista tutto il suo valore, ove si pensi che all’impresa
furono interessati 3.266 collaboratori — quel piccolo e rissoso e
indisciplinato mondo dei filosofi — il più riottoso, individualista, disgregato
— ha dato e dà da anni un esempio di adattamento al lavoro collettivo,
ricorderà il revisore-capo Bosco—, e che, ad avvalorare (in
positivo e in negativo) il giudizio di alcuni studiosi sulla continuità
tra fascismo e postfascismo, l’Enciclopedia ha attraversato impunemente
la caduta del regime per presentarsi ancora oggi, immutata nei contenuti dopo
cinquanta anni dalla sua apparizione, come strumento di lavoro di
studiosi e di studenti. Le Appendici che sono cominciate a uscire non
hanno potuto modificare i contenuti generali dell’opera che, ristampata
fotoliticamente mentre PRESIDENTE dell’Istituto era diventato Sanctis, non ha
sentito il bisogno, a differenza dell’Enciclopedia britannica, di
rinnovarsi col mutare della società, degli orientamenti politici e delle
prospettive culturali, attuando cosî, molto al di là delle sorti del regime
al quale è legata la sua nascita, l’auspicio, formulato da Gentile, di
veder prolungare la nostra vita in un’opera che continuerà ad essere ricercata
e apprezzata dagl’Italiani per cui essa è stata specialmente pensata e
compilata e per gli stranieri che noi ci lusinghiamo di Essa fu
qualificata un «enorme e informe cibreo idealistico-fascista » da Togliatti,
Gramsci e don Benedetto, ora in I corsivi di Roderigo, Bari, De Donato. Di
enciclopedia dell’idealismo parlano Piovani, Il pensiero idealistico, in Storia
d’Italia, V.I documenti, 2, Torino, Einaudi, Spirito, Memzorie di
un incosciente, Milano, Rusconi (dove l’opera è consi- derata « una
prosecuzione del fascismo), Bosco, Enciclopedia Italiana, aver legati all'Italia con nuovi vincoli di
simpatia e di stima, mentre l’Italia per l’azione potente d’un grande
Uomo e d’una grande Idea risorgeva per la terza volta a imperiale potenza
e riafferma nel mondo la sua missione. Il regime non si era limitato a
condizionare dall’esterno l’opera, ma ne aveva facilitato la
realizzazione facendo propria l’iniziativa di Treccani. Le difficoltà
economiche dell’Istituto originario insorte e aggravatesi con la grande
crisi portarono ad una sua fusione nell’ente editoriale
Treves-Treccani-Tumminelli, e infine all’inter- vento in prima persona
del governo che, riconoscendo l’opera di interesse nazionale, con d.l. costituî,
con il finanziamento di banche parastatali, l’Istituto della Enciclopedia
Italiana fondata da Treccani, sotto la presidenza di Marconi. A queste
vicende editoriali si accompagnò un pit stretto controllo da parte del
regime e l’abbandono della « poli- tica di conciliazione » perseguita da
Gentile; cosî, se ancora Gentile poteva riconoscere, nella
prefazione al primo volume dell’opera, l'opportunità di un ragionevole
eclettismo e di una scrupolosa imparzialità », spentesi le « battaglie che si
erano svolte nella fase preparatoria — e di cui la vicenda di Omodeo
è l'esempio più significativo —, il direttore dell’Enciclopedia
notava che, perduta per via qualche forza anche ingente, non fatta per
questa disciplina indispensabile a un lavoro di questo genere, e formata
ormai la famiglia, quale io la sento intorno a me, dei direttori e
redattori, si tratta piuttosto di scaramucce e di semplici avvisaglie !?. Due
anni dopo, intervistato all’indomani del d.l., Gentile marcava la
differenza fra la situazione attuale e quella di otto anni prima,
ricordando che nel 1925 WI E.I., Appendice, ACS, Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Ministero della cultura popolare, Treccani,
Enciclopedia Italiana Treccani. Come e da chi è stata fatta, ciGentile,
Ancora delle tribolazioni di un enciclopedista. Come d Dee e si cuce îl
libro per tutti, in « Il Corriere della sera », la collaborazione alla
Enciclopedia venne aperta a quanti avevano una fama sicura ed una
competenza accertata nei vari rami delle lettere, delle arti e delle
scienze. Forse fu un errore. Ma allora, mentre vivevano ancora i vecchi
partiti, si pensava che la nostra Enciclopedia potesse fare opera di
concordia, accogliendo uomini che, benché non fascisti, avevano accettato
il programma dell’Istituto che si inspirava alla coscienza del glorioso passato
del popolo italiano e a quegli alti destini cui esso può e deve
aspirare; seguiremo fedelmente le direttive che il Duce ci ha impartito,
concludeva rispondendo a una domanda sui propositi per l’avvenire !*. È
naturale che « Il Tevere » non riprendesse le polemiche, ma si limitasse
a notare come l’opera per l'ampiezza del testo e per la profonda
dottrina della compilazione » avesse assunto « il carattere di grande
Enciclopedia nazionale. Tanto pi che, a con- validarne l’aderenza al
regime agli occhi di quanti vi ave- vano criticato uno spirito quanto
meno afascista, meno di un anno prima della costituzione del nuovo
Istituto sull’Enciclopedia era stata pubblicata la voce Fascismo firmata
da Mussolini, subito presentata come la massima espres- sione della
dottrina del fascismo. Non mancarono tuttavia, anche in questa
fase, feroci attacchi all'opera da parte de « La Vita italiana » di
PREZIOSI e de « Il Secolo fascista » di G. A. Fanelli ‘”, l’anti-gentiliano
ben visto negli ambienti cat- tolici ‘* e autore del pamphlet “Contra
Gentiles” nel quale sosteneva che nell’Exciclopedia «i gentiliani Origini
e finalità della monumentale opera, in «La Stampa» Il nuovo atto costitutivo
dell'Istituto dell’Enciclopedia italiana firmato alla presenza del Duce,
in « Il Tevere » All’apparizione dell’enciclopedia il giornale aveva
commentato: «quanto ai gesuiti, si può star tranquilli: giacché a curare,
dell’Enciclopedia, la parte di cultura religiosa è stato propriamente
Venturi. Nel cantiere dell’En- ciclopedia, in « Il Tevere. La Vita
italiana » IT? Cfr. Il Secolo fascista ad es. la recensione di Bobbio a Contra
Gentiles di Fanelli. Studium.. hanno organizzato con una perfidia senza
precedenti, la con- trorivoluzione, demolendo sistematicamente tutti i
valori esaltati dal fascismo, mistificando e stravolgendo il significato
delle sue istituzioni. Ma furono voci minoritarie, espressione di
divergenze ideologiche e culturali, non politiche. Dubbi di natura politica,
probabilmente collegati a lotte di potere scatenatesi per il controllo
dell’Istituto, furono avanzate solo in un rapporto anonimo a MUSSOLINI, secondo
il quale fra i collaboratori dell’opera vi erano parecchi anti-fascisti,
e veniva lasciata troppo mano libera ai compilatori di cui son note le idee
antifasciste. Ma Gentile poté replicare di essere stato autorizzato
esplicitamente da Mussolini a mantenere le collaborazioni di Sanctis e di
Vida, che avevano rifiutato il giuramento imposto ai professori
universitari, e di esercitare un ferreo controllo sulla redazione e
sull’esecuzione di tutta l’opera. Nella scelta dei collaboratori
esterni posso assicurare che si tiene il massimo conto delle
tendenze politiche degli scrittori scartando tutti gli antifascisti.
Come posso altresi assicurare che nessun collaboratore, in nessuna
materia, ha mano libera; e tutti gli articoli sono soggetti a rigorosa
revisione, Nelle sue memorie, del resto, Sanctis non si mostra cosciente del
significato politico dell’Enciclopedia e quindi della sua partecipazione !,
mentre Levi Della Vida ricorderà di essere stato convinto a collaborare —
dopo un primo rifiuto — dalla promessa di non politicità dell’opera fatta
da Gentile, pur riconoscendo che senza dubbio non può non avvertirsi in
alquante voci del- Fanelli, “Contra Gentiles”. Mistificazioni
dell’idealismo attuale nella rivoluzione fascista, Roma, Biblioteca del
Secolo fascista, Cfr. anche, per l’accusa mossa all’E.I. di aver « massacrato
» la storia di Roma, Bortone, Mito e storia di Roma durante il fascismo,
in « Palatino » Felice, Mussolini il duce, I, Gli anni del consenso
Torino, Einaudi, Sanctis, Ricordi della mia vita. Scrivendo a Ricciotti, in
qualità di presidente dell’Istituto, Sanctis dirà di voler continuare
l’Ernciclopedia «evitando peraltro, grazie al nuovo clima di libertà,
quelle sia pur lievi concessioni che la prima edizione ha dovuto fare ai
tempi » (AEI, Lettere, Ricciotti). l’Enciclopedia il clima peculiare
all’Italia di quel tempo, ma direi che ciò è fatto con una tal
discrezione, colla preoccupazione, si direbbe, di non dar troppo nell’occhio: a
ogni modo confesso che mi sentirei forse più in pace colla mia
coscienza se avessi persistito nel rifiuto. Ciò che emerge con chiarezza
dalla vicenda dell’Enciclopedia è lo sforzo del regime, che appare in larga
parte riuscito, di organizzare il consenso degli intellettuali. Questa
novità del fascismo era colta con difficoltà dagli antifascisti; più attenti ai
problemi della cultura e degli intellettuali furono gli esponenti di
Giustizia e Libertà, fra i quali Venturi, che afferma: Sono
abbastanza noti i provvedimenti presi dal fascismo per organizzare i corpi
armati contro gli italiani oltre che contro gli stranieri, e gl’istituti
finanziari ed economici a favore di pochi arrivati al potere. Ma non è ancora
stato analizzato il successo del fascismo nel promuovere la cultura in
Italia. Mussolini ha compreso l’importanza di una cultura foggiata a
sostegno del regime, e, privo di ogni ideale da offrire come meta
all’intelligenza, convinto che solo il denaro può interessare gli uomini,
ha largheggiato di mezzi verso gl’intellettuali in un modo inconsueto in Italia.
Ma anche gli esponenti di Giustizia e Libertà non coglievano il contenuto
di classe di questa nuova cultura, e la capacità del regime — e poi dei
cattolici — di improntarla delle proprie ideologie. Può quindi essere
utile un sondaggio che, pur limitandosi a tre settori di voci dell’Enciclopedia
— politiche, storiche, religiose —, cerchi di valutare i contenuti
culturali dell’opera nel più generale contesto politico in cui fu
realizzata: non tanto per rilasciare patenti di fascismo e di antifascismo a
singoli colla- boratori, quanto per vedere se nei loro contributi
emerges- sero o meno elementi funzionali all’ideologia che il
fascismo veniva elaborando. Con ciò non si potrà ritenere esaurito,
del resto, l’esame dell’opera, in cui ampio è l’apparato di voci
illustrative (tecniche, geografiche e artistiche); anche Vida, Fantasmi
ritrovati, Travi (Venturi), La cultura italiana sotto il fascismo, in Quaderni
di Giustizia e Libertà, se un ulteriore approfondimento dovrà valutare fino a
qual punto queste ultime possano essere considerate esposizioni
asettiche, dal momento che, ad esempio, un geografo come Almagià, ben
inserito nelle istituzioni culturali e negli organismi politici del
regime — e direttore, con Biasutti, della sezione « Geografia »
dell’Enciclopedia —, poteva affermare che le trenta pagine dedicate alla
geografia dell'Albania costituivano uno « spazio non certo soverchio,
relativamente alla importanza che questo paese ha oggi per l’Italia. Resteranno
fuori dalla nostra analisi, fra gli altri, due settori molto
importanti, quello filosofico e quello scientifico. Il primo, com'è naturale,
fu più direttamente controllato da Gentile, la cui influenza è facilmente
avvertibile; ma può essere interessante notare come in esso non manchino
anche riferimenti all’at- tualità politica: la trattazione
dell’Idealismzo offre ad esempio a Calogero l’occasione per osservare
che dalla sinistra hegeliana muovevano quei pensatori che, come
Marx, Engels e Lassalle, tradussero il dialettismo genetico
dell’idealismo in un evoluzionismo naturalistico, condannando ogni spiegazione
delle cose che non si riferisse nudamente alle ferree leggi della natura e traman-
dando tale fiero odio per ogni ideologia e idealismo fino ai giorni nostri, in
quei paesi, come la Russia, che da essi hanno mutuato la concezione
politica. D'altro lato, Spirito considera come filosofia del fascismo, sia
pur allusivamente, l’Attualismo, che « ha condotto alla definitiva
negazione della filosofia come metafisica e alla sua identificazione con
la storia e con la vita. Questo spiega come l’attualismo non sia rimasto
un puro sistema filosofico, ma sia penetrato in tutti i campi della
cultura e della vita politica, e abbia condotto a un profondo
rinnovamento della coscienza nazionale. Almagià, La geografia nella
Enciclopedia Italiana, in Bollettino della R. Società geografica italiana.
Biasutti-Almagià, Le geografia nella nuova Enciclopedia italiana, in Atti
del X congresso geografico italiano, Milano, Capriolo e Massimino. Particolari
cure sono rivolte all’Italia, alle sue colonie, ed ai paesi che sono in
più stretti rapporti col nostro. Nel settore scientifico, in particolare per
quanto riguarda la storia della scienza — dove fu dato largo spazio al
genio italiano —, si assiste invece a una divisione del lavoro tra
studiosi non attualisti e gentiliani. Spirito aveva sostenuto, al CONGRESO DI
FILOSOFIA, l’identificazione di filosofia e scienza, spingendo Gentile
a riconoscere l’importanza della storia della scienza per la stessa
ricerca scientifica; ed è proprio Spirito l’autore della voce Scienza
nella quale, dopo aver tratteggiato storicamente il problema dell’unità o
della distinzione tra scienza e filosofia, oppone a CROCE, teorico del
dualismo, il Gentile negatore di ogni distinzione tra concetti puri e
concetti empirici, e rivendica a se stesso e ad Volpicelli il merito di aver
tentato di dimostrare che la distinzione dialettica dei momenti, essendo
implicita in ogni procedimento logico non può caratterizzare in concreto
la differenza di determinate scienze empiriche e filosofiche, e che la
distinzione di diversi gradi filosofici, naturalistico e idealistico, deve
essere superata anche nel campo delle scienze particolari. Il dualismo fu
allora su- perato solo apparentemente, nonostante la volontà degli
attualisti di impadronirsi della tematica scientifica da un punto di
vista filosofico. Enriques, lo storico della scienza che dirigeva la
sezione « Matematica, concludeva significativamente cosî una lettera a
Gentile in cui illustrava le proprie idee sulla redazione della
voce Scienza: niente impedisce — se l’articolo Le apparirà
manchevole — che sia integrato da un successivo articolo filosofico, nel
senso che la parola ha per Lei, diverso dal mio. Fu questo il criterio
che, se non fu adottato per questa voce, guidò la redazione di molte
altre di carattere storico-scientifico, che vennero suddivise in due
parti: una Gentile, Introduzione alla filosofia, Milano-Roma,
Treves-Treccani-Tumminelli, A1 fatto che Gentile dette «una certa
estensione » alle voci di storia della scienza nell’Enciclopedia accenna
Bulferetti, Gli studi di storia della scienza e della tecnica in Italia,
in Nuove questioni di storia contemporanea, Milano, Marzorati, AEI,
Lettere, Enriques. più propriamente scientifica, riservata a studiosi di
formazione positivistica, e una filosofica, affidata ad attualisti, come
nel caso di GALILEO, scritta da Marcolongo e Allmayer, o di VINCI, dove
accanto ai vari specialisti della multiforme attività dello scienziato
volle apporre la sua firma lo stesso Gentile. L’esame delle
principali voci di carattere politico conferma pienamente l’esistenza non solo
di una ideologia, ma anche di una cultura fascista, attraverso la quale
il regime cerca di costruirsi una legittimazione storica. Resta ancora da
compiere una ricognizione degli studi di scienze politiche che si vennero
elaborando in Italia tra le due guerre mondiali e che, non limitandosi a
ricostruire le discussioni metodologiche sulla storia delle dottrine politiche,
sia attenta al legame con la tradizione inaugurata da Mosca, Pareto e
Michels, e a quello tra elaborazione teorica e ricostruzione storica, al
rapporto con la politica sviluppata dallo Stato fascista e alle istituzioni in
cui questi studi si concretizzarono, in un momento in cui, proprio
a partire dal 1924, furono create le prime Facoltà di scienze
politiche dalle quasi ci si attendeva la formazione di una nuova classe
dirigente. Le voci enciclopediche sono solo una spia della estrema
ideologizzazione cui era soggetta questa tematica, e della fortuna della
concezione gentiliana dello Stato, che più di quella di Croce cercò di
affrontare il problema dell’emergere delle masse sulla scena
politica nazionale, Non ci sembra di poter condividere
l’opinione di Bob- ad es. Testoni, La storia delle dottrine
politiche in un dibat- tito ancora attuale, in «Il Pensiero politico » Un
interessante tema di ricerca suggerisce in questo senso Montenegro, Politica
estera e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto per gli studi di
politica internazionale. , in « Studi Storici » Cfr. le osservazioni di
Racinaro, Intellettuali e fascismo, in Critica marxista-- Bob bio che la
presenza dell’ideologia fascista nell’Enciclopedia sia avvertibile solo
nella voce Fascismo. Anche se gia Treccani aveva potuto affermare, ringraziando
Mussolini per la promessa fatta a Gentile di collaborare per questa voce,
che « l’Enciclopedia non poteva ottenere pit importante e significativo
suggello del carattere suo, di opera italiana del regime » !”, la voce,
scritta frettolosamente da Gentile per la prima parte (« Idee
fondamentali ») e da Mussolini per la seconda (Dottrina politica e
sociale) !", non è, all’interno dell’opera, l’unica né, forse, la più
articolata espressione dell'ideologia e della cultura politica del regime.
Uscita nello stesso anno in cui Croce pubblicava il manifesto del
libera- lismo, la Storia d’Europa, quella che i contemporanei
considerarono la summa dottrinale del fascismo colpisce infatti per la
sua genericità, dovuta probabilmente anche alla vo- lontà di non dare
appigli a quanti, all’interno del regime, cercavano di appropriarsene la
dottrina. Se la « mano » di Gentile è indubitabile, come rilevarono
subito i commenti degli antifascisti — La Libertà sottolineò nella voce
la concezione dello Stato propria del filosofo della Enciclopedia Treccani,
mentre Lo Stato operaio colse nella prima parte dello scritto « la marca
di fabbrica della ditta intitolata a Gentile » !” —, non è meno significativo
il fatto che i commentatori di parte fascista non dessero un particolare
rilievo alla influenza attualista, e ciò non solo per piaggeria verso
Mussolini, che aveva firmato tutta la voce. Un accenno, sia pure sfumato,
vi è solo in Bottai — più vicino al filosofo siciliano — il quale osservò
che con la Dottrina del fascismo la cultura moderna era giunta a Treccani a Mussolini (ACS, Segreteria
particolare del Duce, Carteggio riservato). Cfr. Segreteria
particolare del Duce, Carteggio ordinario, e la testimonianza di A.
Iraci, Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni. A parte questo
caso, l’attribuzione di alcune voci non firmate si basa sulle lettere e
sullo schedario per autori conservati presso l'Archivio dell’Enciclopedia
italiana. IL DUCE-FILOSOFO E LO STATO FASCISTA, in «La Libertà»; Donini,
Il fascismo secondo Mussolini, in Lo Stato operaio quella critica del
socialismo e del liberalismo, a quel senso realistico della storia e a
quel pensiero idealistico, che sono stati, prima oscuramente ora
chiaramente, i caposaldi del pensiero mussoliniano. Gli anti-gentiliani
furono invece assai espliciti nel distinguere la dottrina del fascismo
dall’attualismo: non solo, naturalmente, Fanelli, ma anche Carlo
Costamagna, autore di parte della voce Corporazione: dopo aver affermato che il
fascismo, pur possedendo una dottrina, non può e non deve possedere una
filosofia, perché « non esistono verità assolute, eterne e universali,
fuori del dogma religioso per il credente, nota che « l’attivismo fascista è lo
sforzo ad impadronirsi della realtà e a dominarla, e nulla ha di comune
con quel- l’attualismo neo-hegeliano che, nell’illusione di assorbire
e superare il razionalismo e il materialismo, coi soliti espedienti
dell’astrazione, non ha saputo apprestare se non una esercitazione di
parole, buona a giustificare qualsiasi comportamento pratico, ricadendo negli
eccessi dialet- tici propri ad ogni filosofia delle epoche di decadenza »
!* E particolare significato assume il commento della rivista
ufficiale di Mussolini, Gerarchia, che sembra attaccare, oltre a Gentile, gli
esiti di sinistra del gentiliano Spirito quali si erano manifestati, nel
maggio [ II secolo di Mussolini, in Critica fascista. Bottai insisteva su
una presentazione « di sinistra » della dottrina del fascismo: nega
l’ideologia marxista, ma accoglie il movimento operaio, dandogli un posto
giuridico-politico nello Stato; nega l'ideologia democratica, ma non intende
restituire gli individui alla condizione di bruti privi di dignità
spirituale, come sarebbe in uno Stato di polizia »; « La dottrina del
fascismo, che non ignora né l’esperienza democratica né quella
socialista, concepisce lo Stato come il sistema dei diritti-doveri degli individui
organizzati per raggiungere i più alti fini etici della personalità umana
(nella sua concretezza nazionale), e non può fare a meno di tendere verso
una giustizia sociale che, in regime liberale, non poteva non essere
calpestata. In questo senso se il nostro secolo, come dice Mussolini,
sarà un secolo di destra, esso, proprio perché è il secolo dello Stato
(se lo Stato non è, e non dev'essere, strumento della prepotenza dei pi
forti), sarà un secolo di sinistra. E l’organizzazione corporativa
italiana ne è una prova ». Bottai sarà autore della voce Corporativismo
nell’Appendice. Fanelli, Contra Gentiles. Costamagna, Pensiero ed azione, in Lo
Stato, precedente, al II Convegno di studi corporativi di Ferrara: la
parola di Mussolini poneva fine, secondo la rivista, al tentativo delle
varie correnti culturali italiane di monopolizzare la dottrina del fascismo, la
quale fu identificata anche con il benedetto, onnipresente
liberalismo: sia con quello vero, che, partendo dal mito delle
intangibili libertà individuali, si ferma allo stato come complesso di
servizi utili e giungeva, al massimo, ad accettare un forte stato di
polizia, guardiano notturno dell’ordine pubblico; sia col liberalismo
ancora pié vero, che dalla base della fantastica acrobazia dialettica
della identità assoluta fra stato e individuo, finiva, logicamente, con
l’identificare la dottrina fascista con l’utopia comunista. Colpisce infatti,
soprattutto nella parte sulla « Dottrina politica e sociale, che alle istituzioni
corporative sia fatto solo un cenno assai rapido, nonostante che
l’elaborazione della dottrina corporativa fosse an- data molto avanti”, e
nella voce si insista sul fatto che proprio dopo la crisi chi può risolvere le drammatiche
contraddizioni del capitalismo è lo Stato ». Il motivo, suggerito da Gerarchia,
è reso esplicito da Vita nova, la rivista del gentiliano Saitta, per
il quale dopo il mirabile articolo del Duce sulla dottrina del
fascismo, pubblicato nell’Enciclopedia Treccani, discutere sulla struttura
filosofica e politica della relazione Spirito al Convegno di studi corporativi,
è non solo vano ma temerario, in quanto la corporazione proprietaria ci
riporterebbe pari pari all'esperienza bolscevica. Nonostante queste prese di
distanza — ma è da ricor- dare che anche Gentile precisò il suo pensiero
rispetto a quello di Spirito —, risulta evidente la marca di fabbrica gentiliana
della voce, anche se alcuni passi possono ricordare formulazioni di Rocco:
cosî nella dichiara- [Caparelli, La dottrina fascista nel decennale, in Gerarchia
Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Noi, La corporazione
proprietaria, in Vita nova, ad es. il discorso di Rocco, La dottrina
zione del carattere assoluto dello Stato e nell’affermazione della
preminenza dello Stato sulla nazione — fatta in implicita polemica con i
nazionalisti” —, che sarà ripetuta da Battaglia in Nazione, e non sarà negata
nella voce Nazionalismo di D'Andrea e Federzoni, preoccupati solo
di dimostrare le origini antidemocratiche del nazionalismo europeo, e
contestare la primogenitura francese sul nazionalismo italiano di
Corradini; o nel paragrafo sulla religione cattolica, in cui si dice che
« il fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche
il Dio cosi com'è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo del
popolo ». Pi accentuata che non in Gentile è invece la negazione del secolo
del liberalismo, che vide, al contrario, la vittoria di Napoleone III e
di Bismarck il quale non seppe mai dove stesse di casa la religione
della libertà e di quali profeti si servisse, e, nel Risorgimento italiano,
l’apporto decisivo di Mazzini e Garibaldi, che liberali non furono. Ciò
che comunque interessa rilevare, al di là della ricerca delle sue fonti
teoriche, è il fatto che la voce, pur nella sua genericità, condensa quei
capisaldi dell’ideologia del fascismo che circolarono ampiamente negli
scritti di studiosi di scienze politiche, di giuristi, storici, economisti; né
sarà da dimenticare che, oltre a essere diffusa e commentata in
numerosissime edizioni, essa nella sua parte propriamente mussoliniana (Dottrina
politica e sociale), fu premessa allo statuto del Pnf. Non vanno
quindi considerate semplici enunciazioni propagandistiche la.negazione del
materialismo storico e della lotta di classe — con espressioni in cui
Gramsci coglieva l’in-flusso di Loria —, o quella del pacifismo — ribadita
in Pacifismo di Vecchio —, l’affermazione della vocazione
impetrialistica dell’Italia fascista, e la pretesa del fascismo di
presentarsi come il superatore, e l’inveratore, politica del fascismo, in
Scritti e discorsi politici, La formazione dello Stato fascista, Milano,
Giuffrè, Per una polemica esplicita cfr. Gentile, Origini e dottrina del
fascismo, Gramsci, Quaderni del carcere, del liberalismo classico e del
socialismo: un punto, que- st’ultimo, sul quale insisterà anche Volpe
nella parte della voce dedicata alla storia del movimento fascista, in
cui cercherà di dimostrare che, nell’età della politica delle masse,
il fascismo era l’erede genuino del socialismo: come il socialismo di MUSSOLINI
— che era specialmente una posizione di lotta — si aprî all’accettazione piena
dei valori nazionali, cosf questi valori non misero troppo nell’ombra
quel socialismo: il quale, respinto energicamente come partito, respinto
anche come dottrina e come filosofia a fondo materialistico, rimase come
senti- mento, rimase come simpatia per il mondo del lavoro, come aspirazione
a liberare le masse dal giogo del partito e dalla corruzione della
politica, allo scopo di promuoverne l’autoeducazione, farne l'artefice
diretto della propria fortuna, come del resto era nella concezione dei
sindacalisti. Con questa mistificazione si completava cosî quella soprastruttura
ideologica della borghesia italiana che, osservò Lo Stato operaio, usa
ora nuovi e pit raffinati mezzi di oppressione e di sfruttamento per consolidare
il proprio dominio e prolungare la propria esistenza, Alle
formulazioni di Fascismo si fa un rinvio non solo formale nelle
principali voci politiche e politico-economi- che affidate a esponenti
dell’attualismo come Battaglia e Spirito. Battaglia, che fu uno degli
animatori del dibattito sulla storia delle dottrine poli- tiche
sviluppando la distinzione crociana fra teoria e prassi politica, tanto
da ritenere che la storia delle dottrine politiche non debba direttamente
servire alle nostre attuali finalità, dimostra in realtà, in voci come
Democrazia, Partito, Stato, una stretta dipendenza dall’elaborazione gentiliana
e una precisa strumentalizzazione di questi concetti in funzione
dell’ideologia fascista. Occupandosi della Demzocrazia nel periodo
medievale e moderno, dopo aver sostenuto, sulla traccia degli studi di
Ercole sui Testoni, Battaglia, Oggetto e metodo della storia delle
dottrine politiche, in «Rivista storica italiana, comuni e sulle signorie
venete — che, come osserverà Chabod, anch'egli debitore di Ercole,
influirono largamente sul pensiero storiografico fra le due guerre, con
il loro assillo di cercare, ad ogni costo, lo stato moderno già nel
passato italiano —, che la signoria non è « negazione sic et simpliciter
del principato popolare, ché anzi le sue origini in Italia derivano
proprio dal popolo, di cui il tiranno si atteggia difensore contro le
classi privilegiate, e dopo ‘aver osservato che l'ideale di piena
democrazia vagheggiato dal Rousseau era inattuabile, un regime di
dei più che di uomini », Battaglia nota che anche nelle società
moderne la democrazia ha bisogno di alcuni presupposti senza i quali non
solo non fiorisce, bensî decade e conrrompe i popoli. Facendo sue le tesi
espresse dal liberale Bryce in Democrazie moderne — un’opera tradotta in
italiano da Occhi, e che è nella sostanza una critica da secondo le quali « la
democrazia si sviluppa su un sostrato di diffuso benessere collettivo e fiorisce
solo nei paesi abituati al governo locale », pur essendo in crisi anche
in paesi evoluti come la Francia, Battaglia conclude che in
Italia la democrazia intesa come pratica di autogoverno non ha avuto una
tradizione e una linea. Lo stesso processo unitario ci spiega ciò.
L’unificazione amministrativa imposta da Torino tolse in fondo la possibilità
di quell’autogoverno locale che costituisce il fondamento della vera
democrazia e inutile fu anche l’allargamento del suffragio, perché Chabod,
Gli studi di storia del Rinascimento, in AA.VV., Cinuant'anni di vita
intellettuale italiana, Scritti in onore di Croce per a cura di
Antoni e Mattioli, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, Per
l’influenza di Ercole su Chabod, all’inizio della sua attività, cfr. Pizzetti,
Chabod storico delle Signorie, in Nuova rivista storica, Lu Sebbene la
democrazia si sia diffusa, e quantunque nessun paese, che ha provata, dia
dei segni di abbandonarla, noi non siamo autorizzati a ritenere, cogli uomini,
che essa sia la forma di governo naturale, e, perciò, a lungo andare
inevitabile (Bryce, Democrazie moderne,
Milano. L'opera sarà ristampata da Mondadori, sempre a cura di Occhi, c’è
rappresentanza vera solo dove c’è coscienza, ciò che in Italia mancava
[...; cosi] la democrazia italiana continuò la sua vita stentata e in
fondo illiberale nel trasformismo, che palliava conati di dittature
singole, finché si dimostrò impotente ad arginare un moto come il
fascismo, in parte espresso da quelle stesse forze sindacalistiche che
essa aveva ignorato. Parallela a questa svalutazione della
democrazia con- dotta sul piano storico, è la negazione dell’esistenza di
una vera e propria tirannia nelle moderne società di massa (Tirannia e
tirannicidio; da notare che nell’Exciclopedia manca la voce Dittatura:
c’è solo Dittatore per l’età romana): infatti, spiega Battaglia, a
parte che la pratica possibilità della tirannia è ognora più ridotta,
oggi il sistema dei controlli giuridici e politici e la pressione dell’opinione
pubblica sono tali che la figura del despota exercitio appare affatto
letteraria, Le moderne dittature facendo appello al popolo, non solo per
costituirsi attraverso i plebisciti i titoli giuridici del potere o per
sanarli se difettosi, bensi anche per suffnagare del consenso nazionale
ogni loro attività, appaiono poggiare sulle masse più che le stesse
democrazie. Insomma i fenomeni e le teorie ac- cennate a proposito della
tirannia hanno significato con riferimento a piccole società politiche e
non agli enormi aggregati statali moderni. Mentre Ghisalberti svaluta la
funzione svolta dal Parlamento nella storia dell’Italia liberale — col
fascismo invece « il parlamento, che si avvia a un'ulteriore riforma in
senso corporativo, superiore alle piccole lotte d’un tempo, restituito alla sua
naturale funzione, ha svolto attiva, proficua opera legislativa » —, e
Volpicelli sviluppa una dura critica del concetto di rappresentanza »
(Rappresentanza politica)”, che nella esposizione della storia del
principio maggioritario Ruffini non è in grado di controbilanciare, Battaglia Lo
Stato in quanto « organizzazione totalitaria del corpo sociale, non può
né deve agire iure repraesentationis, ma iure proprio »; solo lo Stato
corporativo fascista «si afferma e si attua sempre più come uno stato
coincidente con la stessa e intera collettività nazionale corporativamente
organizzata », « perciò appunto sarà davvero libero e generale. Anche la prima
parte della voce, scritta da Luigi Rossi, critica i vari sistemi di
rappresentanza politica. Nella voce Maggioranza Ruffini, autore svolge
(Partito) la concezione del partito unico, che sembra legarsi in parte
alla tendenza oligarchica rilevata dalla scienza come necessaria nel
partito. Non rinnegando l’ampio fondamento democratico, esalta
l’aristocrazia militante dei primi confessori dell’idea e sublima
religiosamente il capo (Duce, Fiihrer). Il partito divien stato; acquista
rilievo giuridico, assurge personalità morale; è cosî composto,
gentilianamente, il contrasto individuo- Stato: l’esperienza del fascismo
e del nazismo non elimina la dialettica delle tendenze, sempre
operosa nel gruppo nazionale unitariamente inteso. Appunto perché il
partito unico s'identifica con lo stato, la dialettica non è fuori dallo
stato e questo sopra di essa, indifferente, ma nello stato in quanto
formazione etica, quindi nel partito in quanto, spiritualmente viva, si
svolga, si trasformi arricchendo i suoi strumenti, i suoi organi, le sue
funzioni. Elidere ogni varietà di motivi in un’instaurazione dogmatica di
prin- cipi rigidi è vano sogno, ché oltre gli schemi irrompe la vita e
il contrasto. Ciò non esclude che questa debba ricondursi
nell’ambito totalitario dello stato, nell’unicità etica che questo
rappresenta, Dove più esplicito e dispiegato è il debito di
Battaglia verso Gentile, è nella voce Stato, riprodotta negli Scritti di
teoria dello Stato, a testimonianza che l’influenza gentiliana non fu
limitata entro i confini del- l’Enciclopedia”. La storia dell'idea di
Stato è ricostruita de Il principio maggioritario, si limita ad affermare
che il principio maggioritario ha avuto contro di sé nel secolo scorso
tutti gli avversari delle istituzioni democratiche, i quali spesso
commisero l'errore di colpire il concetto tecnico giuridico di maggioranza
quando volevano colpire quello generico politico di moltitudine, di
massa, dal punto di vista aristocratico ». Questa voce ci sembra
sopravvalutata in senso antifascista da S. Caprioli nella riproposizione
di Ruffini, Il principio maggiori- tario, Milano, Adelphi. Nei termini
della concezione dello Stato assoluto è condotta anche la voce Reazione
politica, in cui Battaglia afferma che sia la rivo- luzione sia la
reazione hanno «un motivo di verità. I! loro contrasto è la vita dello
stato, che ha sempre in sé rivoluzione e reazione come libertà e
autorità, diritto ideale e diritto positivo da riaffermare. Sempre di
Battaglia, ma più espositiva e con una nota polemica contro gli assurdi
del superuomo » e il razzismo affermatisi nella Germania nazista, è
Politica, rifusa in F. Battaglia, Lineamenti di storia delle dottrine
politiche, Roma, Foro italiano, dove però la nota polemica ora accennata
viene attenuata In una lettera a Bosco Battaglia dichiarava in funzione della
concezione attualista, difesa da Gentile, contro le critiche dei cattolici,
come una delle poche dottrine o miti elaborati dal fascismo. Cosi,
all'affermazione che senza l’inversione di valori, non si sarebbe mai
potuto addivenire all’idea di uno stato interiore ai soggetti,
quale l’età moderna esige e svolge, segue la critica del giusna-
turalismo, che conosce l’individuo, astrazion fatta dai gruppi nei quali
pur vive. La società nelle sue forme molteplici gli è estranea. Si spiega
quindi come esso, liberale e indifferente, ritenendo nella tutela
giuridica esaurito il suo compito, finisca per rivelarsi impotente a
disciplinare la vita delle classi inferiori, allorquando queste nel sec.
XIX cominciarono ad acquistare il senso della propria importanza. Donde
ciò che si è detto «crisi dello stato », come l’esigenza di
un'ulteriore integrazione, che, se nell’ordine pratico ha trovato la sua
realtà solo di recente con il fascismo, nell’ordine teorico già era
stata proclamata necessaria da più di un autore come Fichte e Hegel («
avere riconosciuto la spiritualità dello stato è il suo grande merito. I
suoi problemi ripren- derà al principio del secolo presente il
neoidealismo italiano, rivivendoli in una esperienza affatto nuova »).
Assai estesa è l’esposizione della concezione gentiliana dello Stato
etico, tanto che Carlini accusa Battaglia di aver voluto
accreditare la filosofia di Gentile come filosofia del Pnf, rivendicando
invece l’originalità della dottrina fascista, non solo « integrazione »
pratica di quella gentiliana; di avervi « messo le mani due volte come la
Direzione desiderava » (AEI, Lettere, Battaglia). Gentile, Ideologie correnti e critiche facili,
in « Politica sociale. Ci dicono statolatri. Dacché è venuta la moda del
fascismo cattolico, frazione più o meno peticolosa ed eretica in seno al
fascismo, taluno ci parla con grande compunzione della necessità di non
lasciarsi attrarre dalla diabolica filosofia dello Stato etico. Uno spunto in
questo senso era stato fornito da Gentile, I fondamenti della filosofia del
diritto, Firenze, Sansoni, Cfr. anche F. Battaglia, I/ corporativismo come
essenza assoluta dello Stato, in « Archivio di studi corporativi,
che rinvia al capitolo sulla concezione dello Stato di Solari, Ts
etica e filosofica dello Stato moderno, Torino, L'Erma, Carlini-Battaglia,
Orientamenti, in Critica fascista, mai come ora, specialmente in Italia, lo
stato è reale nell’intendimento speculativo. La filosofia non solo ne ha
approfondito l’essenza ideale ma ha contribuito a potenziarlo nella sua
funzione storica, promuovendone il sentimento nel popolo e l’uomo
sociale, che la sua socialità dispiega nello stato, è vicino a Dio, certo
di Dio ha l’animo preso e i divini comandamenti fa suoi per
celebrarli ogni giorno; e Battaglia conclude la voce con
l’esposizione della dottrina fascista — continui sono i rinvii a
Fasciszzo —, nell’intento di dimostrare che lo Stato fascista non è
teocratico o assolutista, che, « opponendosi a due posizioni tradizionali
del pensiero politico, il giusnaturalismo liberale e il socialismo,
da questi rileva i motivi non perituri e li trasvaluta, e che la «
corporatività è la nota dominante dello
stato fascista », nel quale «cittadino lavoratore e soldato si
convertono assolutamente. Nella delineazione di aspetti essenziali
dell’ideologia e della cultura del fascismo spiccano, per alcuni accenti
per- sonali, le voci di Ugo Spirito Economia politica e
Liberalismo, scritte nel periodo in cui più intensa fu la sua
partecipazione al dibattito sul corporativismo, che si collegò
strettamente con la direzione, assieme ad Arnaldo Volpicelli, dei « Nuovi
studi di diritto, economia e politica. L’importanza di queste voci è
evidenziata anche dal ruolo centrale avuto da Spirito nell’Enciclopedia,
nella quale fu redattore per ben otto materie (filosofia, economia,
statistica, finanza, diritto, storia del diritto, materie ecclesiastiche e,
storia del culto), finché divenne segretario generale dell’opera, sempre
in un rapporto strettissimo con Gentile, ciò che dovette costituire
un motivo di preoccupazione per quanti temevano che la sua concezione del
corporativismo, quale si era espressa al convegno di Ferrara,
influenzasse Sulla collaborazione di Spirito all’Enciclopedia cfr.
Santomassimo, Spirito e il corporativismo, in Studi storici. Cfr. U. Spirito,
Memorie. gran parte dell’opera. Echi della sua posizione si avvertono in
effetti in queste due voci, in cui Spirito, pur senza riprendere la
proposta della « corporazione proprietaria », rivendica il « carattere
pubblicistico della proprietà privata. Nella parte storica delle voci l’autore
svolge, più che una descrizione delle concezioni precedenti quella
fascista, una serrata discussione con queste, diretta a condannare
l’individualismo delle teorie fisiocratiche, liberali e socialiste. Come quella
fisiocratica — si dice in Economia politica —, la scuola classica rimase «
tutta informata dal principio individualistico e liberistico proprio
dell’illuminismo, e anche quando « l’economia nazionale o il socialismo
affermavano la superiorità dell’ente nazione o classe o società su quello
d’individuo, muovevano tuttavia dal presupposto illuministico e liberale
che l’individuo particolare in qualche modo esistesse e avesse una realtà propria
diversa da quella dell’organismo di cui faceva parte, affermavano cioè
una superiorità della nazione o della società sull’individuo o una
subordinazione di questo a quelle, ma non giungevano a riconoscerne
l’essenziale identità dialettica. Solo in Italia il rinnovamento dell’economia
poli- tica « ha raggiunto politicamente e scientificamente uno
sviluppo d’importanza fondamentale. Proprio in Italia, infatti, la critica del
pensiero illuministico era stata più perentoriamente condotta e i suoi
risultati erano stati più decisivi. Né le nuove affermazioni idealistiche erano
state al margine della vita politica, ché anzi questa ne ha risen-
tito fortemente l’influsso, giungendo ad affermazioni pra- [Cosf
Preziosi, Spirito, in La Vita italiana, È da ricordare che nel corso dei lavori
preparatori del Codice civile vastissimo fu il dibattito sulla « funzione
sociale » della proprietà: uno dei suoi partecipanti più insigni e Pugliatti,
di cui cfr. ad es. la raccolta di saggi La proprietà nel nuovo diritto,
Milano, Giuffrè. Gl’economisti italiani come Galiani, aveva notato
Spirito, « anche quando più si discostano dalle teorie mercantilistiche e
più decisamente concordano con i fisiocrati, non accettano senza riserva
il dogmatismo individualistico e liberistico di questi ultimi e spesso
fanno posto a considerazioni di carattere che potremmo già definire
storicistico ».tiche addirittura rivoluzionarie »: con la Carta del
lavoro, ad esempio, « si dava il colpo di grazia al tradizionale
libe- rismo individualistico. Affermato il carattere pubblicistico
della proprietà privata, cadeva il fondamento dell’economia liberale -- l’homo
oeconomicus guidato dall’ofelimità -- , e ragione della vita economica
diventava l’identità del fine sta- tale e del fine individuale. In questa
ultima formulazione si riflette il ripiegamento di Spirito rispetto alla
sua primitiva proposta, che era decisamente accantonata, anche se in
Mussolini continuò a manifestarsi « una comprensione dei vantaggi che il
regime poteva trarre dal vigilato dispie- garsi di tendenze come quella
impersonata da Spirito, presentando Capitalismo e corporativismo, Spirito
affermava che nessuno più ardisce di scandalizzarsi se si parla di crisi
del capitalismo e di trasformazione in senso pubblicistico della pro-
prietà. Quell’economia programmatica, che allora non si sapeva scindere
dal sistema bolscevico, è ormai accettata come propria dal corporativismo
». La fondazione dell’Iri dimostrava che l'iniziativa privata non è più
l’idolo intangibile; rimarrebbe la terribile formula della corpo- razione
proprietaria, quella che ha generato tanto putiferio. Ebbene, lasciamola
pure da parte e non ci pensiamo pit. Io per conto mio ci ho pensato su
fino ad oggi e mi son convinto che, se si accetta tutto il resto, la
corporazione proprietaria può addirittura sembrare sorpassata. Ana-
loga a quella della voce, e tutta interna alla tematica gentiliana di individuo
e Stato, è la conclusione di Liberalismo, di cui è posto fin dall’inizio il
problema del suo sbocco nel corporativismo. La concezione che colloca
l’individuo al centro dell’uni- verso è seguita attraverso il
Rinascimento e la Riforma, il razionalismo cartesiano che è già il
principio della demo- [Santomassimo, Spirito, Capitalismo e
corporativismo, terza edizione riveduta ed ampliata, Firenze,
Sansoni, La voce era già stata
pubblicata in «Nuovi studi di diritto, eco nomia e politica», Nella nota
bibliografica Spirito giudica libri sbagliati la Storia del liberalismo
europeo di Ruggiero e la Storie d’Europa di Croce.] crazia del pensiero, la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dove è il nucleo dell’individua- lismo
liberale e insieme il limite che il liberalismo non riuscirà mai a
superare davvero, con l’affermazione del- l’ANTI-STATALISMO e della
proprietà privata. Conseguenza del liberalismo sono considerati il
dualismo tra governanti e governati, che si manifesta attraverso
l’istituto della rappresentanza, trionfo materialistico del numero, e la
democrazia, che in Rousseau mostra i suoi aspetti deteriori, convertendosi nel
suo contrario e generando, nella sete della libertà, la peggiore
schiavità ». Le contraddizioni del liberalismo, sorte col riconoscimento
della necessità di uno Stato e di un suo intervento soprattutto nel campo
economico, impongono secondo Spirito « una revisione radicale del
problema, e questa è individuata nella tradizione italiana di pensiero,
ricostruita secondo l’ottica gen- tiliana, e nel corporativismo:
I precedenti di tale revisione vanno ricercati nel pensiero idealistico,
che comincia a contrapporsi all’affermazione del pensiero illuministico,
razionalistico ed emiristico. Il pensiero del Rinascimento italiano, di un
individualismo n più profondo e spirituale, per cui l’individuo stesso
coincide con l’universale e l’universale in esso s’incentra, comincia a
dare i suoi frutti migliori, in contrasto con l’astrattismo del pensiero
franco-inglese. Nei pubblicisti della nostra tradizione vichiana, nei
filosofi dell’idealismo tedesco, negli spiritualisti italiani della prima
metà dell'Ottocento, comincia a farsi strada un concetto di libertà
politica, in cui il dualismo di libertà e autorità, e quindi di individuo
e stato, è riconosciuto come il fondamento necessario della superiore
sintesi in cui consiste la vera libertà. In particolare, da
Spaventa a Gentile, la tradizione del pensiero italiano ed europeo viene
determinata nelle sue linee essenziali, e in essa si ritrovano gli
elementi della nuova e più profonda fede nella libertà, che avrà poi il
suo sbocco nella rivoluzione fascista. Con il «corporativismo integrale il
fascismo si avvia infatti a risolvere, afferma Spirito, le antinomie del
liberalismo: l’individuo deve realizzare la sua libertà e la
sua iniziativa nella collaborazione, e riconoscere il carattere
pubblicistico della proprietà, mentre si svuotano cosî di contenuto tutti
i concetti tradizionali del liberalismo individualistico e della
democrazia, da quello di rappresentanza a quello di maggioranza, da quello di
eguaglianza a quello di elettoralismo; iniziativa privata e
intervento statale, e in conseguenza il problema dei rispettivi
limiti, diventano termini e problema senza significato. Il corporativismo
di Spirito sposta cosî l’accento sulla costruzione gerarchica dello
Stato, e negli anni seguenti, dopo la chiusura dei Nuovi studi, si
ridurrà, in campo economico, alla difesa della economia programmatica, in
cui l'affermazione del « carattere pubblicistico della proprietà — che come la proposta della corporazione
proprietaria mostra di non collocarsi al
di fuori della logica capitalistica — si precisa nella richiesta
dell’in- tervento statale reso necessario dalla crisi, A scanso di
equivoci, comunque, Maroi ricordò nella
voce Proprietà che « alcuni filosofi (Spirito, A. Volpicelli) hanno
sostenuto che in regime fascista il lavoro non può produrre una proprietà
privata perché l’individuo, come tale, in regime corporativo non esiste, e
che il sistema corporativo sboccherà nella corporazione proprietaria:
questa concezione è però autorevolmente com- battuta », concludeva,
rinviando alla nota su Individuo e Stato nella quale Gentile — allora
impegnato a redigere le Idee fondamentali della voce Fascismo, a
commento della posizione assunta da Spirito a Ferrara precisava che la
socializzazione e statizzazione corporativa importa sempre un mar- gine
individualistico, in cui il processo corporativo deve operare. In Cfr., nell’Appendice, Autarchia, Capitalismo
(tutta la voce è dedicata alla «crisi del capitalismo), Economia
programmatica. «I precedenti delle nuove teorie — scrive Spirito in
quest’ultima voce — vanno ritrovati per una parte nei postulati del
socialismo e per l’altra nelle indagini circa l’organizzazione
scientifica del lavoro. Sul fordismo di Spirito cfr. Lanaro, Appunti sul
fascismo di sinistra. La ASA, corporativa di Spirito, in Belfagor questo
margine, ineliminabile, il rispetto dell’individuo è lo stesso rispetto
della corporazione: l’autolimitazione conseguente dello Stato è la sua
effettiva autorealizzazione. Lo Stato che inghiottisse davvero
l'individuo, riuscirebbe un pallone destinato subito a sgonfiarsi. Il corporativismo,
sente, sia pure confusamente, questo pericolo, anzi questo destino del
comunismo; e se ne vuol distinguere non annullando quella sorgente di vita
economica e morale che è nell’individuo. Il timore che la posizione di
sinistra di Spirito influenzasse la trattazione delle materie economiche dell’Enciclopedia,
non aveva quindi ragion d’essere, come dimostrano del resto le voci di Graziani
— fra cui Bisogni, Capitale, Lavoro, Salario —, il quale aveva sostenuto
che il Capitalismo e nel rispetto della produzione e in quello della
distribuzione, manifesta superiorità spiccata sugli altri sistemi che lo
precedettero, e su tutti i sistemi imperniantisi sulla collettivizzazione
dei mezzi produttivi, nei quali si urterebbe contro la fondamentale difficoltà
dell’assegnazione rispettiva dei compiti e si dovrebbe ad ogni modo
attuare una distribuzione che toglierebbe i maggiori impulsi
all’operosità e all’accumulazione; se si aggiunge la forte coercizione,
intollerabile in paesi avanzati di civiltà, si scorge come essi
necessariamente addur- rebbero a decremento enorme di produzione e ad
arresto di progresso economico e sociale. Può essere infine interessante
notare come, almeno nell’Enciclopedia, vi fosse negli anni 30 un’intensa
corrispon- denza fra le formulazioni di questi studiosi di scienze politiche
e storico-economiche, e quelle di alcuni storici. Men- tre ad esempio
Spirito svolgeva una critica a fondo del libe- ralismo, nella voce
Borghesia Chabod avvalorava la pretesa del fascismo di presentarsi
antiborghese, negando l’esistenza, nell’età contemporanea, di quella
classe che del liberalismo aveva fatto la propria bandiera politica.
Come il primo utilizza Gentile, il secondo riprende, con alcune
correzioni, le osservazioni di Croce intese a distinguere « la borghesia
in significato spirituale, la borghesia che è detta cosîf per metafora (e
per non felice metafora) dalla bor- [Gentile, Individuo e Stato, in «
Giornale critico della filosofia italiana » ghesia in senso economico,
con la quale la prima si suole scambiare, e, peggio ancora,
deplorevolmente contaminare, con danno non solo della storiografia ma del
sano giudizio morale e politico. Mentre Croce respinge i termini «
borghese e borghesia per indicare « una
personalità spirituale intera, e, correlativamente, un’epoca storica, in
cui tale formazione spirituale domini o predomini, Chabod — che in quegli
anni fa sua la negazione ottoka- riana del criterio di classe nella
storiografia, e partecipa del largo interesse che circondò nell’Italia
fra le due guerre, non solo fra gli studiosi cattolici, l’opera di
sociologi come Weber e Sombart che in opposizione al marxismo
avevano dato la « dimostrazione “scientifica” della priorità dello spirituale
sul materiale, della religione sulla economia — ritiene che storia dello spirito borghese
non è altro se non storia dello spirito moderno, che ha certo
permeato di sé dapprima un certo ceto sociale, gli bomzines novi,
contrapposti alla feudalità e ai chierici, e con ciò alle concezioni medievali;
ma non è più oggi identificabile, sic et simpliciter, con un solo,
determinato gruppo sociale. E se oggi ancora certi atteggiamenti
spirituali e morali fonda- mentali paiono più strettamente connessi con
“la borghesia”, classe sociale; in effetto sfuggono al dominio di
un’etichetta sociologica, e sono atteggiamenti anche di molti di coloro
che combattono la borghesia in quanto ceto sociale ». A differenza di
Croce, e pur distinguendo fra borghesia e capitalismo — rimane, mal- [Croce, Di un equivoco
concetto storico. La « borghesia », ora in Etica e politica, Bari,
Laterza, Garosci, Sul concetto di «borghesia». Verifica storica di un
saggio crociano, in Miscellanea Walter Maturi, Torino, Giappichelli,
Croce. Pizzetti, Federico Chabod storico delle Signorie. ZI È un'osservazione
riferita a Weber da D. Cantimori (ora in Storici e storia, Torino,
Einaudi. L'etica protestante e lo spirito del capitalismo di Weber fu
presentata nei « Nuovi studi » di Spirito e Volpicelli da Sestan, che vi
notava una reazione al marxismo (cfr. l’introduzione di Sestan alla nuova
edizione, Firenze, Sansoni, Chabod recensi Der Bowrgeois di Sombart
in « Rivista storica italiana » grado tutto, l’ideale della vita ordinata
e scevra di troppo gravi turbamenti: onde i borghesi si trovarono fuori
del trionfo pieno di quella stessa mentalità capitalistica, di cui
pure avevano nei secoli precedenti costituito il prodromo —, Chabod ammette
quindi per l’età moderna l’esistenza di una « mentalità borghese », proiezione
spirituale della borghesia come classe (idee di tolleranza religiosa
e di libertà civile, ma anche, nel periodo della rivoluzione
francese, idee astratte, antistoriche — talora anche pue- rili »), ma
ribadisce che di essa non è più possibile parlare nell’età contemporanea,
nella quale siffatta mentalità non è più esclusiva della
borghesia, come ceto sociale. Ché, anzi, proprio per l’influsso della
borghesia — cioè del ceto socialmente, politicamente, culturalmente
dominante nell’Europa — tale mentalità
ha permeato largamente di sé parte della vecchia nobiltà, e specialmente
gran parte degli strati inferiori della popolazione. Il lavoratore si è
contrapposto al borghese, nell’Europa: ma quanti punti di contatto tra la
men- talità dell’uno e quella dell’altro: quale influsso del secondo
sul primo! I miti di progresso e d’umanità, di fratellanza e
d’uguaglianza, che ai borghesi avevano servito di arma contro le
vecchie classi privilegiate, sono ritorti dagli agitatori socialisti contro la
borghesia stessa e divengono ancora arma di lotta, con altro bersaglio.
Ma per ciò appunto quanta affinità tra gli uni e gli altri! La forma
mentis del borghese ha permeato di sé assai pit ampio strato sociale; si
è imposta, anche quando pareva combattuta; e, se prima aveva potuto
costituire veramente la forma mentis carat- teristica d’un determinato
ceto sociale, ora si dissolve come tale, perde le sue peculiarità «
classiste ». Dove si evidenzia l’affinità con la conclusione della
voce Borghesia scritta per il Dizionario di politica del Pnf da
Salvatore Valitutti: « La società fascista che nello Stato totalitario ha
la sua espressione ignora l’esistenza di ceti o classi a sé stanti e
pertanto la parola borghesia è destituita di ogni significato attuale. La
voce di Chabod dimostra quindi come la mistifi- cazione arrivasse, per
forza di cose, fino alle sfere più rare- fatte di quella cultura che
pure, soggettivamente, si ritene del tutto indipendente dai volgari messaggi
rivolti alla massa, secondo quanto ha osservato Badaloni, e indica
come molteplici fossero — in questo caso Weber e Sombart, e la stessa
riflessione crociana — i contributi utilizzati per definire un’ideologia
e una cultura del fascismo. Sempre nell’ambito delle voci politiche
incontriamo due casi particolari, quelli degli antifascisti Solari
e Mondolfo, utilizzati per le loro competenze specifiche — argomenti di filosofia del
diritto, connessi con la tematica della libertà, il primo; storia del
socialismo e del movimento operaio, il secondo —, e la cui presenza
potrebbe confermare il giudizio di quanti hanno negato la connessione fra
la vera cultura e il fascismo, ricavandone, in particolare, una valutazione «
assolutoria » nei confronti dell’Enciclopedia. Ci sembra tuttavia
azzardato dedurre dalla presenza di antifascisti in un’opera
collettiva il carattere oggettivamente antifascista della loro collaborazione
scritta, senza cercare di cogliere lo spazio dei loro contributi rispetto
ad altri, e di approfondire gli eventuali punti di convergenza — o di non
contraddizione — fra la loro produzione scientifica e quanto
probabilmente lo stesso Gentile, in assenza di una specifica sezione
dedicata alla Politica, chiede loro. [La partecipazione di Solari, il
quale aveva accettato con entusiasmo di collaborare
all’Enciclopedia, che vuol essere espressione del pensiero italiano nei
suoi più alti esponenti e nelle sue più alte manifestazioni, pone forse
più problemi di quella di MONDOLFO. Solari è infatti impegnato, in quegli
stessi anni, in un’importante ed equilibrata opera di delucidazione della
concezione liberale dello Stato e dei concetti di liberalismo,
costituzionalismo, Badaloni -Muscetta, Labriola, Croce, Gentile,
Solari a Gentile,(AEI, Leztere, Solari. democrazia nelle dottrine
politiche, che contrasta col metodo inquisitorio con cui questi erano
esa- minati ad esempio da Spirito nell’Enciclopedia — non è giusto
fare il Rousseau responsabile della degenerazione in senso realistico e
materialistico dell'ideale democratico, sembra rispondergli Solari —;
egli oppone nel 1931, alla valorizzazione de I/ concetto dello Stato in
Hegel fatta da Gentile, la scoperta hegeliana della società civile —
«la scoperta della società civile come concetto autonomo fu il
grande merito di Hegel, maggiore di quello che solitamente gli si
attribuisce di aver rinnovato il sentimento e la dignità dello Stato » ?!
—, e confutando la concezione dello Stato corporativo espressa da
Volpicelli osserva che il neoidealismo ha deviato dalla
tradizione hegeliana (almeno quale io la intendo) circa la natura e i
fini dello Stato. Il neo-hegelismo tende, a mio credete, verso un
individualismo idealistico quando concepisce lo Stato non in sé e per sé,
ma nelle forme e nei limiti dell’individuo concreto, singolo o associato
che sia. Lo Stato è etico non perché vive in inte- riore homine, ma
perché è esso stesso realtà e sostanza etica che non si concreta solo
negli individui, ma progressivamente nella famiglia, nelle associazioni,
nella nazione, nell’umanità. E tuttavia sarebbe necessario valutare come poté
inse- Solari, La formazione storica e filosofica dello Stato
moderno, Torino, Giappichelli, DI Solari, Il concetto di società civile
in Hegel, in «Rivista di filosofia », ora in La filosofia politica, a
cura di Firpo, Bari, Laterza, Cfr. anche Solari, Lo Stato conse
libertà, in Rivista di filosofia : come organo di valori universali e non
solo di interessi nazionali o corporativi, lo Stato può dirsi anche
storicamente etico, purché sia ben fermo che esso non è valore supremo e
neppure esclusivo, che la sua eticità è misurata dal grado con cui
realizza esteriormente, cioè coi mezzi imperfetti e limitati dal diritto,
la socialità che è la forma concreta nella quale individui e popoli
affermano la loro libertà. Per una riflessione sulla società civile
parallela a quella di Solari cfr. Zaccaria, L'itinerario politico di
Capograssi. Il problema del rapporto tra la società e lo Stato, in da
Pensinto politico, Solari, Stato corporativo e Stato etico (Lettera aperta al
prof. A. Volpicelti in Nuovi studi di diritto, economia e politica; cfr.
anche la Risposta dl prof. Solari di Volpicelli. rirsi nell'impresa diretta da
Gentile la sua ricerca di una filosofia sociale del diritto, « fermissima
sempre nel respin- gere l'egoismo implicito nelle varie dottrine
individuali stiche, germogliate dal giusnaturalismo e dall’utilitarismo,
ma impenetrabile altresi al materialismo dialettico marxiano, e vedere se ciò
fu possibile solo per l’esistenza di comuni negazioni — l’individualismo
e il marxismo —, o anche perché la sua riflessione, dopo aver
abbandonato, all’inizio del secolo, i suoi presupposti positivistici (e
ten- denzialmente filosocialisti), sviluppandosi come idealismo
sociale trova più che un semplice correttivo ** nel neo- idealismo
italiano. In questa sede si può solo propendere per la prima ipotesi,
constatando come nella maggior parte delle voci di Solari vi siano — con
la messa in sordina del tema della società civile — forti scarti rispetto
a quanto scriveva contemporaneamente fuori dell’Ewciclopedia, per
cui esse non turbano l’immagine generale dello Stato for- nita
dall'opera, anche se esprimono in maniera più equili- brata e
problematica di quanto non facciano gli attualisti il problema dei
rapporti fra diritti individuali, società e Stato. Una
esplicita distinzione fra il proprio idealismo sociale e quello di Croce e di
Gentile si ha solo in una delle prime voci, Filosofia del diritto,
sottovoce di Diritto. L’idealismo del Croce e del Gentile, fondandosi su una
dialettica dello spirito individuale, portava logicamente a risolvere il
diritto nell’attività utilitaria o in quella etica dello spirito.
Legittima pertanto deve apparire l’esigenza di cercare al diritto un fondamento
suo proprio, d’intendere l’attività giuridica come attività autonoma
dello spirito. Come espressione di questa esigenza fu in ogni tempo
il diritto inteso come attività dell'uomo storico e sociale, come
rela- [Cosî Firpo nella Introduzione a Solari, La filosofia politica,
Bobbio non vede nel passaggio di Solari all’idealismo un rivolgimento dei suoi
principi (L'insegnamento di Solari, ora in Italia civile,
Manduria-Bari-Perugia, Lacaita). Per una valutazione complessiva
dell’opera di Solari cfr. anche AA.VV., Solari Testimonianze e bibliografia nel
centenario della nascita, Torino, Memorie dell’Accademia delle scienze,
in particolare il saggio di Bobbio su Lo studio di Hegel. L'Enciclopedia
italiana] zione, come proporzione personale e reale, come manifestazione
della coscienza collettiva. In Italia la scuola giobertiana, rivissuta
dal CARLE nelle sue applicazioni al diritto, sostiene che in tal senso si
affermò la costante tradizione della filosofia italiana. Il dogma della
nazionalità e socialità del diritto è incompatibile con l’idealismo
economico e morale, l’uno e l’altro fondati sul presupposto che il
diritto è attività dello spirito individuale. Ma a liberare l’idealismo
nazionale e sociale dagli elementi empirici e contingenti con i quali va
congiunto, è necessario elaborare una dialettica dello spirito collettivo
e ripren- dere la tradizione storico-romantica del periodo post-kantiano,
la quale pose le condizioni di una concezione idealistica del
diritto come espressione dell’Io sociale. Ma la posizione di Solari
non ebbe poi modo di dispie- garsi. In alcune voci l’accento cade, come
in quelle di Battaglia e di Spirito, sulla condanna delle teorie individualistiche
cui viene opposto il valore supremo dello Stato: mentre il contrattualismo
tende logicamente a una teorica individualista dello stato, in modo da «
giustificare cost l’estremo assolutismo, come l’estremo liberalismo,
in Giustizia ci si sofferma sulla concezione di Hegel, per dire che
in lui la giustizia è libertà ma questa non esclude, anzi postula la
necessità e la naturalità; essa si attua astrat- tamente nell’individuo e
nei rapporti interindividuali, ma solo nello stato si afferma in forma
concreta e universale »; in modo altrettanto conciso si sostiene che eticità
per Hegel è sinonimo di socialità, e questa è il risultato di un
processo dialettico che culmina nello stato (Naturale, diritto). Ma anche
per Diritti di libertà, citata da Bobbio come esempio di antifascismo, è
da notare che è solo una sottovoce di Libertà — affidata nei suoi
termini generali, ed esclusivamente filosofici (per la bibliografia
si rinvia a Etica), ad Guzzo, un attualista mosso da una forte
esigenza religiosa, per il quale « la libertà è oggi considerata come la
spiritualità stessa —, e che in
essa Solari non esprime un’opinione personale: pur partendo
dall’affermazione che condizione di sviluppo della personalità è la libertà, vi
espone infatti la teorica dei diritti di libertà elaborata da Locke e da
Kant, e quindi la reazione Bobbio, Le cultura e il fascismo. da essa
suscitata, prima con Hobbes, Spinoza e Rousseau, poi nel periodo
postkantiano, fra gli altri da Hegel, che poneva in rilievo il processo
dialettico per cui la libertà astratta dell’individuo diventa reale nello
stato. Un discorso per certi versi analogo a quello di Solari può essere
fatto per la collaborazione di Mondolfo, autore delle voci principali
relative alla storia del socialismo e del movimento operaio. La scelta di
quello che era stato l’animatore del dibattito sul marxismo riapertosi in
Italia, dopo la sconfitta del movimento operaio ad opera del fascismo,
corrisponde anche in questo caso al criterio della « competenza », ma non
appare in contraddi- zione con i motivi ispiratori dell’Enciclopedia: era
lo stesso criterio che aveva suggerito a Bevione e a Salata di
affidare a Bonomi la biografia di Bissolati, poi redatta dall’ex
bissolatiano Cabrini, che aveva messo in risalto l'orientamento nazionale
pit che quello socialista del biografato. Le voci di Mondolfo, che non
sembra abbiano subîto censure, sono lontane dal taglio anonimo, anche se
cor- [Luporini, Il marxismo e la cultura italiana del Novecento, in
Storia d’Italia, V,I documenti, 2, Torino, Einaudi. Bevione scrive a
Salata, che dirigeva allora la sezione « Storia contemporanea »: «penso
che qualcuno può scrivere l’articolo con ben maggiore ricchezza di dati e
intima conoscenza del tema: ed è Bonomi né obbiezioni potranno venire
alla Direzione del- l’E.[nciclopedia] da alcuno per questo incarico, data
la purezza e la sere- nità di Bonomi, da tutti riconosciuta. A Bonomi
avevo pensato an- ch'io, fin da principio — scriveva Salata a Menghini. Ma
allora mi era parso di dover evitare la scelta di un uomo cosî in vista
nelle vicende politiche post-belliche. Ora il giudizio su Bonomi è —
credo anche nelle altissime gerarchie del partito fascista — più calmo »
(AFI, Lettere, Salata). Cabrini era stato cancellato nel 1929 dall’elenco
dei « sovversivi (cfr. la voce di A. Rosada in F. Andreucci - T. Detti,
Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori
Riuniti). Mondolfo, da me interpellato sulla sua partecipazione
all’Enciclopedia, risponde.Per la mia collaborazione ho avuto solo
rapporti diretti con Gentile, che era mio amico personale, come antico
condiscepolo a Firenze, e che sempre rimase tale benché io polemizzassi
con lui a proposito di Feuerbach e Marx e di Bruno e Tocco. Ciò non impedî
che egli m'’invitasse a collaborare alla Enciclopedia proprio su un
tema (Bruno) che e oggetto di una nostra polemica.] retto, di voci come
Exgels scritta da Manfredi Gravina, alto commissario per la Società delle
Nazioni a Danzica, o da quello polemico del Marx di Graziani, che
mette in rilievo le censure gravi cui andrebbe incontro ad esempio
la teoria marxiana del valore; esse invece, mentre ambiscono ad avere un
andamento espositivo ed obiettivo, riflettono al tempo stesso la
concezione dell’autore de I/ materialismo storico in Engels e di Sulle
orme di Marx, per cui evidenziano, al di là della « competenza, la
profonda consonanza di Mondolfo con l’impostazione idealistica e gentiliana.
Anche se queste voci rappresentano dopo la biografia di Labriola di Dal
Pane e l'edizione Croce de La concezione materialistica della
storia di Labriola, l’esposizione più ampia della teoria e della prassi
del socialismo e del comunismo, è quindi dif- ficile convenire con
l’opinione di chi ha affermato che esse erano « le fonti più accessibili,
senza suscitare sospetti, alle quali i giovani, che studiavano sul serio,
potevano attingere per cercare una spiegazione e una giustificazione alle
con- tinue denigrazioni che il fascismo faceva di quelle idee e dei
loro movimenti. Per chi studiava sul serio dovette. avere maggiore
efficacia la diretta riproposizione crociana di Labriola, che non la
valutazione mondolfiana della concezione marxista e socialista, profondamente
influenzata dalla lettura di Gentile, e scissa da una positiva considerazione
dei movimenti reali. Parlando dell’influenza di LABRIOLA (si veda) su Mondolfo, Garin ha osservato che in
quest’ultimo. l’equilibrio della filosofia della prassi è tanto insidiato
in E debbo dire che né per questa né per le altre voci si limitò affatto
la mia assoluta libertà di trattazione (unico limite fu quello dello
spazio dispo- nibile), di giudizio e di espressione; né mai mi chiese o
propose il minimo cambiamento, neppure di una virgola. Credo pertanto di
dover rico- noscere che Gentile si mantenne con me al di sopra dei
dissensi politici e filosofici che ci dividevano, e credo che ispirò a
criteri ed esigenze di carattere scientifico i rappotti con i
collaboratori, nella sua direzione dell’impresa dell’Enciclopedia Bassi, Mondolfo
nella vita e nel pensiero socialista, Bologna, Tamari Suggerimenti per
una corretta lettura delle voci di Mondolfo ha fornito Garin, Mondolfo e
la cultura italiana, in Filosofia e marxismo nell'opera di Mondolfo,
Firenze, La Nuova Italia, direzione idealistica, da suscitare in lui una
sintomatica in- terpretazione in senso deterministico della concezione
dell’autocritica delle cose, che, a parte l’espressione verbale, aveva
ben altro valore. E non a caso , riproponendo sulle pagine della Rivista di
filosofia la lettura mondolfiana del materialismo storico, Levi osserva
che la « gnoseologia del calunniato materialismo storico coincide in
alcuni punti fondamentali con quella di una delle più celebrate correnti
dell’idealismo storico, cioè con la gnoseologia di VICO (si veda), e,
infine, che il concetto marxistico della umwélzende Praxis sembra
convenire con quella, che io chiamerei l’orientazione storicistica del
liberalismo. Come non si conosce e non s’intende se non facendo (ripete
Marx con VICO), cosi non si mutano le condizioni esteriori se non mutando
se stessi, e reciprocamente non si muta se stessi se non mutan- do
le condizioni del proprio vivere, afferma Mondolfo trattando del Muaterialismo
storico — sottovoce di Materialismo di Allmayer, ribattezzato « con-
cezione critico-pratica della storia. Dopo aver opposto alle
interpretazioni economicistiche quella di Man, Mondolfo sottolinea infatti il
carattere soggettivistico, e quasi vitalistico, ma non per questo meno
deterministico, del materialismo storico: « Vita che è lotta, in cui né
le forme e condizioni esistenti possono arrestare le forze vive che
si volgono contro di esse, né le forze innovatrici possono operare
se non tenendo conto delle forme e condizioni esi- stenti, sia pure per
rovesciarle e superarle ». Ne risulta un’ accentuazione gradualistica del
processo storico, che si rias- sume nella definizione di Sorel del
materialismo storico come « consiglio di prudenza ai rivoluzionari
». Manifestazione della continuità della storia, che non A,
Labriola, La concezione materialistica della storia, a cura e con un'introduzione
di E. Garin, Bari, Laterza, Nella voce Labriola Mondolfo scriveva: «C'è
una dialettica della storia e autocritica delle cose; ma le cose sono la
praxis stessa umana Levi,
Um'interpretazione del materialismo storico, in «Rivista di filosofia ». Anche
Levi aveva considerato sbagliato il termine « materialismo storico.] conosce
fratture rivoluzionarie — nel progresso, che è incremento, non è il caso
di andar cercando assoluti cangiamenti qualitativi ossia creazioni di novità
assolute e senza precedenti, aveva affermato Mondolfo sulla base del
pensiero di Bruno, in discussione con Barbagallo , è la stessa storia del comunismo e del
socialismo: i due termini sono dilatati cronologicamente fino a
comprendere l’antichità. Ciò vale in primo luogo per il comunismo,
che non è soltanto programma di rivendicazione e d’azione di una
classe proletaria, ma si presenta nella storia anche come stato di
fatto, dovuto sia alla primordialità indifferenziata della società umana,
sia a necessità belliche (Lipari), sia ad ascetismo religioso che svaluta
i beni terreni e reprime il desiderio del possesso individuale
(es., comunità monastiche), e può anche essere un ideale etico-politico
di società, che voglia eliminati gli interessi particolari fonte di
conflitti, per la solidale ricerca del bene comune (come in utopie
antiche e moderne) (Socialismo). Il comunismo, mentre è in certe
forme storiche estra- neo alle esigenze socialistiche di elevazione ed
emancipazione di classi, nella società contemporanea rappresenta la forma
estrema del socialismo, che alle altre si oppone per il radicalismo
dogmatico del suo programma, per la fede nell’efficacia risolutiva della
violenza, per la decisione rivoluzionaria della sua azione, e trova espressione
nella dottrina — più mista di bakuninismo, blanquismo e sindacalismo, che
aderente al marxismo — professata dai socia- listi maggioritari (Comunismo).Ma
anche per [Mondolfo, Razionalità e irrazionalità della storia. Per una
visione realistica del problema del progresso, in Nuova rivista storica A
proposito di BRUNO (si veda) Mondolfo scrivea Gentile. Vedrai dal manoscritto
che le mie opinioni sulla distinzione delle fasi del pensiero bruniano,
fatta da TOCCO, si sono modificate per cedere il posto allo sforzo di coglierne
l’unità e continuità, pur fra le contraddizioni ed oscillazioni (AEI,
Lettere, Mondolfo). La concezione critico-pratica del marxismo — conclude la
voce —, che per ogni esperimento storico domanda la maturità delle condizioni
oggettive e soggettive, non risulta per ora smentita dall’esperienza, in
favore della concezione blanquistica, che tutto riduceva alla conquista
del potere. E le difficoltà, che rendono tempestoso il cammino della rivoluzione
bolscevica, non lasciano prevedere ancora a quale porto essa sia
destinata ad approdare ». Per i giudizi di Mondolfo sulla Rivoluzione
d’ottobre cfr. Studi sulla rivoluzione russa, Napoli, Morano, il socialismo è
necessario risalire all’antichità classica e al cristianesimo, « contro
l'opinione dei non pochi studiosi che dichiarano il socialismo sviluppo
esclusivamente mo- derno, prodotto della doppia rivoluzione — politica e
industriale — con cui si passa dalla società feudale alla capitalistica »
(Socialismo). Già prima della duplice rivoluzione una tappa decisiva per lo
sviluppo del socialismo e del comunismo moderni è costituita dal pensiero
degli illuministi, Montesquieu e Turgot in primo luogo. E l’elemento
costitutivo del socia- lismo era individuato da Mondolfo nella
buzzanitas, cioè nella « affermazione storica più vasta e universale di
quella coscienza e dignità della persona umana in quanto tale, che
è l’essenziale concetto di Rousseau, inspiratore degli immortali principi della
rivoluzione francese 2%, ora la sua essenza è vista in quella esigenza
morale di libertà, di affermazione e sviluppo della personalità umana nel
lavoratore, che costituisce la forza viva e il valore etico del
socialismo moderno, con le sue rivendicazioni di autonomia dei lavoratori
e di eliminazione delle differenze di classe (Socialismo). Scissa da una
precisa identificazione con un movimento reale, la concezione socialista
consiste in ultima analisi in una generica aspirazione alla giustizia che
percorre, in forme diverse, tutta la storia dell'umanità: era una
presentazione che, indipendentemente dalle intenzioni dell’autore,
poteva trovare punti di convergenza, o quanto meno di confusione,
con quella fatta dalla voce Fascismo, secondo la quale, colpito il socialismo
nei suoi due capisaldi del materialismo storico e della lotta di classe,
« di esso non resta allora che Sul rapporto di continuità-rottura fra
illuminismo e storicismo cfr. quanto Mondolfo scrive nella voce Helvétius.
Osserverà Marx contro Owen, discepolo di Helvétius: “l’educatore stesso
deve venire educato. Il coincidere del variare dell'ambiente e dell’attività
umana può essere inteso razionalmente solo come praxis che si rovescia”,
ossia come concreto processo dialettico della storia, in cui di continuo
l’effetto si converte in causa e l’uomo non è prodotto passivo, ma antitesi
operosa alle condizioni esistenti. La contraddizione in cui Helvétius
resta impigliato si risolve nello storicismo. Mondolfo, Umanismo di
Marx. Studi filosofici, introduzione di Bobbio, Torino, Einaudi l'aspirazione
sentimentale — antica come l’umanità — a una convivenza sociale nella
quale siano alleviate le soffe- renze e i dolori della più umile gente. Il
socialismo come umanesimo universalistico, già affermato in polemica con
Rosselli, fino ad accettare la trasformazione della lotta di classe in
collaborazione di classe, trova nell’Enciclopedia una delineazione concreta
nella trattazione del movimento operaio italiano. Lo smarrimento e la confusione
sorgono più gravi nell'immediato dopoguerra, per l’irruzione improvvisa
di masse caotiche nelle organizzazioni a portarvi l’ondata dei malcontenti
incomposti e la suggestione del mito russo: il rivoluzionarismo delle
nuove reclute sopraffà d’un tratto i vecchi cauti condottieri. Ma
questo sindacalismo rivoluzionario è presto sgominato dal- l'insorgente
sindacalismo fascista; la nuova legislazione si avvia grado a grado a
convertire il sindacalismo in corporativismo, che al principio della lotta di
classe sostituisce quello della solidarietà nazionale. Con la Carta del
lavoro il corporativismo fascista afferma recisamente la dignità e
la nobiltà del lavoro e l’importanza e i diritti della classe operaia. I
fini universali del movimento operaio si realizzano nel potenziamento
della nazione: La stessa lotta contro il capitalismo avido di profitti è
affermazione di un più alto concetto della ricchezza: non privilegio e dominio,
rientrante nella sfera dell’arbitrio individuale, ma bene sociale che
deve essere usato e volto a fini di utilità nazionale. E nell’atto stesso
che le rivendicazioni operaie hanno portato a una limitazione dei
profitti capitalistici, hanno anche impresso all’industria e all’agricoltura un
fecondo impulso di rinnovamento, che ha significato un accrescimento
della produzione e, quindi, un elevamento generale Mondolfo,
Ursanismo di Marx, Sulla base di un ampio esame degli scritti di
Mondolfo, Marramao ha affermato che « saranno proprio le categorie di coscienza
di classe e di rovesciamento della prassi i cardini teoretici della difesa ad
oltranza della collaborazione, e che è sintomatico come il nostro autore
trascorra dal concetto di totalità della classe a quello di collaborazione,
logica conseguenza politica dell’universalismo che si realizza
progressivamente nella “coscienza di classe (Marxismo e revisionismo in Italia,
dalla « Critica sociale » al dibattito sul leninismo, Bari, De Donato,
delle possibilità e dei tenori di vita nazionali (Operaio movimento, In
questo modo le contraddizioni sociali si annullano, e ai fini della
produzione e della distribuzione della ric- chezza nazionale il movimento
operaio viene a svolgere una funzione analoga a quella delineata da Michels
per Li LI , di equilibrato rafforzamento di tutte e classi:
È evidente, in realtà, che dall’impetialismo economico possono
nascere, per le classi inferiori, vantaggi effettivi anche dal lato del
consumo, qualora esso abbia per effetto l’incremento dell’importa- zione
di materie di prima necessità il cui buon mercato faccia calare i prezzi
locali aumentando correlativamente la capacità d’acquisto dei salari e dei
piccoli redditi. Gentile, Volpe e il nazionalismo storiografico Se
operiamo un’altra verifica nel settore storico, con particolare riguardo
alla storia italiana moderna e con- temporanea, troviamo confermata
l’impressione che il rapporto fra gli intellettuali e le scelte politiche o
politico-cul- turali del periodo fascista sia stato assai stretto e
passasse attraverso mediazioni culturali che sono precedenti al fascismo
ma che col fascismo si chiariscono, come nel caso di Volpe; e ciò vale
anche per quegli intellettuali che, per abito scientifico o per temi
studiati, sono stati considerati più lontani da una compromissione con
l’ideologia del fascismo. Lo stesso Momigliano, che alle voci sto- [In Sindacalismo
Mondolfo afferma: Del sindacalismo rivoluzionario parve per un momento
allo stesso Sorel figlia la rivoluzione dei Sovieti, coi consigli degli
operai e contadini; ma ben presto è apparso evidente che tutto quanto il
sistema sindacale è posto in essa sotto la ferrea direzione e dominazione
dello stato. E nell’affermazione del valore supremo dello stato è agli
antipodi del sindacalismo rivoluzionario anche il sindacalismo fascista,
imitato poi dal socialnazionalismo tedesco. Nel concetto fascista rivive
l’esigenza dei valori eroici, rivive il concetto di una società di
produttori, in cui l’uomo è cittadino in quanto produttore; ma è respinta
la lotta di classe: i sindacati di datori e prestatori di lavoro sono
unificati nella corporazione, tutte le corporazioni nella nazione, la cui
personalità morale si riassume nello stato.] riche dell’Exciclopedia dette un
larghissimo contributo e fu in stretto contatto con gli storici che vi
lavoravano, ha parlato di un bilancio in perdita » per tutto quel
gruppo di storici, fatta eccezione per Cantimori e Chabod?: osservazione
probabilmente troppo drastica, ma che invita ad un approccio alla
storiografia del periodo fascista non solo in termini di pura storia
delle idee; anche attenendosi a questo solo piano, comunque, da un esame
di alcune voci vedremo che molteplici sono le influenze che agiscono su
storici come Chabod e Maturi, per i quali le testimonianze e gli
studi hanno finora valorizzato esclusivamente l’insegnamento di
Croce. Non è infatti possibile non tener conto del quadro complessivo di
cui fa parte lo stesso settore storico dell’Erciclopedia, cioè di quella vasta
opera di organizzazione della cultura storica che si ebbe durante il
fascismo e che attende ancora di essere studiata. Protagonista ne fu, per
la storia moderna e contemporanea, Gioacchino Volpe, che riuscî a
coinvolgere pienamente nei suoi programmi di lavoro anche storici che,
come Morandi, avevano già manifestato un diverso e autonomo orienta-
mento culturale, e che sotto la sua guida, o negli istituti, nelle
riviste e nelle collane da lui diretti, si dedicarono a una intensa
attività di ricerca in campi diversi — per poi concentrarsi attorno alla
storia della politica estera italiana, in un momento in cui
l’imperialismo fascista esaltava la politica di potenza dello stato —, risentendo in varia misura dell’«
eclettismo » storiografico e di singoli giudizi di Volpe. Negando contro
l’opinione di Maturi l’esistenza di una svolta nella storiografia
italiana, Ottokar lamenta la persistenza dei vecchi preconcetti della
scuola giuridico-economica (È illusione credere che la formula del
materialismo storico sia superata nella produzione storiografica odierna),
e indicava a modello Volpe, fin dall’inizio del secolo « sostanzialmente
immune Momigliano, Appunti su Chabod storico, Cfr. le osservazioni di E.
Ragionieri, Carlo Morandi, in « Belfagor, da questi semplicismi
materialistici, perché sembra che nel marxismo egli abbia soprattutto
sentito la parte più profonda e pit feconda, vale a dire l’idea
dell’unità e dell’interdipendenza, e non l’esagerazione delle antitesi e dei
contrasti che porta ad una visione isolatrice e materializzatrice. Comunque si
voglia giudicare la storiografia di Volpe, nel segno della continuità o
del cambiamento, nel periodo fascista essa si propose effettivamente come
modello di una storiografia politica di impronta nazionalistica ed esaltatrice
dello Stato-potenza, pur mantenendo alcuni « residui » del precedente
interesse per la storia sociale. Essa ebbe modo di imporsi attraverso gli
istituti storici di cui magna pars fu Volpe, impegnato fra l’altro a
dissolvere anche istituzionalmente la storia del Risorgi- mento nella
storia secolare della nazione italiana sorta col Medioevo, pur se a
questo programma fece resistenza la Società nazionale per la storia del
Risorgimento: la Scuola di storia moderna e contemporanea, collegata
fin dalle origini con il COMITATO NAZIONALE PER LA STORIA DEL
RISORGIMENTO, si propose infatti la pubblicazione delle fonti di storia
italiana, programma che fu fatto proprio dal Comitato sotto la direzione
di Gentile, per poi passare all’Istituto storico italiano per l’età moderna e
con- temporanea che assorbi il Comitato. Oggi infatti — scrive
Gentile riecheggiando Volpe — il quadro della storia del Risorgimento
italiano, malgrado la superstite specializzazione di alcuni suoi cultori, si
slarga; e comprende non solo gli immediati antecedenti del secolo delle
riforme, ma tutta la storia moderna d’Italia dal declinare di quella
frammentaria vita comunale, che è il primo erompere della vita nazionale
ancora in- [Ottokar, Osservazioni sulle condizioni presenti della storiografia
in Italia, in « Civiltà moderna », Inte- ressanti notazioni sul rapporto
Volpe-materialismo storico anche in Volpicelli, Volpe, in La Fiera letteraria. Cfr.
Cervelli, Volpe, cit., e le mie osservazioni in Il problema Volpe, Una
prima riflessione su questa complessa rete organizzativa è stata fornita
da S. Soldani, Risorgimento, ne Il mondo contemporaneo, Storia d’Italia, Firenze,
La Nuova Italia, conscia e incurante della propria unità e ignara di ogni
esigenza di organizzazione, fino alla formazione del regno d’Italia e
alla prima grande prova della sua volontà e della sua potenza
nella guerra mondiale. Le sezioni enciclopediche su alcune delle cui voci ci
soffermeremo, quella di Storia medievale e moderna diretta da Volpe, e quella
di Storia del Risorgimento diretta da Menghini — legato a Gentile anche per
altre iniziative editoriali, come la collana « Studi e documenti di
storia del Risorgimento di Le Monnier —, si presentano come uno dei
frutti di questa vasta opera di organizzazione culturale, e videro
impegnati quasi tutti gli storici che prestavano la loro opera negli
istituti di ricerca del regime. Con ciò non si vuol dire che questi
intellettuali si ridussero a « funzionari » del regime”, ma solo indicare
la loro relativa omogeneità raggiunta negli anni ’30 e la permea-
bilità di molti di loro all’ideologia nazionalistica propagan- data dal fascismo
— e che nell’Enciclopedia si manifestò nel larghissimo spazio concesso
alla storia di Roma e a quella d’Italia —, pur nella varietà delle
influenze sul piano del metodo e dei giudizi: per cui la presenza
della lezione crociana non è di per sé un segno, in molti casi, di
differenziazione ideologica dall’orientamento nazionalistico. Sul piano
metodologico nell’Enciclopedia, come in quasi tutta la storiografia
italiana del periodo, trionfa quella concezione idealistica, sia etico-politica
alla Croce sia « reali- stica alla Volpe, che aveva trovato un
elemento unificatore nel concetto di «classe politica ». « Sul concetto
di classe politica — osserva Maturi —, inteso eticamente o realisticamente,
sono tutti d’accordo: Croce e Gentile, Salvemini e Ottokar. Ad esso
si riduce in fondo anche il concetto di nazione nel Volpe,
Prefazione di Gentile all’Annuario del Comitato nazionale per la
storia del Risorgimento, Bologna, Zanichelli. Cfr. anche G. Gentile, Dal
Comitato nazionale per la storia del Risorgimento dl R. Istituto storico
italiano per l’età moderna e contemporanea. Relazione a S.E. il Ministro
della Educazione nazionale, Sancasciano Val di Pesa, Stianti, Secondo
quanto afferma invece M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio
Cantimori, Bari, De Donato, ad es. a p. 15. come si vede dal suo libro L'Italia
in cammino, ove, al centro della narrazione, è l’analisi dei ceti dirigenti del
Risorgi- mento e della nuova Italia, Non a caso alcuni anni dopo
nella voce Storia Antoni annoverava fra i rinnovatori della storiografia
italiana, accanto a Croce e Gentile, Mosca e Volpe. È indubitabile dunque
che, al di là di scuole o di parti politiche, agli storici
dell’Erciclopedia fosse ben presente anche la lezione di Croce, come
testimonia il fatto che Nicolini, incaricato di predisporre un piano di
voci di storia della storiografia, si sentisse autorizzato a chiedere
consiglio a Croce, che nel- l’argomento è forse lo studioso più
competente di Europa », e a proporre per sé una sottosezione di storia
della storio- grafia, in modo che le voci passerebbero sotto gli occhi
di Benedetto. Ma non permette di cogliere la complessità delle
influenze che si esercitarono sui maggiori storici operanti fra le due guerre,
ridurre tutto il problema alla questione del metodo e privilegiare quindi
l’insegnamento di Croce, per affermare che l’attualismo gentiliano « nel
campo degli studi storici non esercitava che un’influenza limitata,
e in nessun modo tale da far sf che esso fosse accolto in prima persona
dagli storici migliori della nuova generazione idealistica » #*. Se
spesso, come nel caso di Maturi cui in particolare si ‘riferisce questa
osservazione, il metodo è quello di Croce, scelte tematiche e singoli giudizi
nad fonti diverse e talvolta contrastanti, e rinviano in molti
casi, come vedremo, a Volpe e a Gentile. Volpe aveva del resto cercato di
orientare il lavoro dei collaboratori della sua sezione suggerendo delle Norme
e criteri per la redazione degli articoli di storia medioevale e
moderna, in cui invitava alla valorizzazione della storia italiana , ma
richiamava anche la necessità — come già Maturi, La crisi della
storiografia politica italiana, in Rivista storica italiana. AEI,
Lettere, Nicolini. Cosî Salvadori, Maturi, in «Nuova rivista
storica. Per alcune considerazioni sugli interventi storiografici di
Gentile cfr. A. Negri, L’interpretazione del Risorgimento di Gentile, in
Critica storica. Non apologie, né propaganda, né polemiche. Tuttavia,
poiché aveva fatto nel Programma per una storia d’Italia — di combinare
storia politica e storia sociale, attenzione per lo Stato e per la vita
economica, e avvertiva ditener conto delle implicazioni politiche ed economiche
della storia della Chiesa. Sembra che a queste indicazioni, in cui
si intrecciavano le varie componenti della storiografia volpiana — se pur
spicca l’accento posto sulla ricerca dello Stato anche nell’età comunale
—, ci si sia attenuti in molti casi, ad esempio in alcune voci giudicate
esemplari da Cha- bod nei primi volumi, come Amburgo di Luzzatto,
attento alla vita economica della città, o la Storia dell’America di Doria,
dove l’autore si sofferma sulle caratteristiche della colonizzazione e
sulla riduzione in schiaviti degli indios, senza nascondersi gli interessi
economici dei missionari, che in taluni casi furono « piu spietati
dei conquistatori ». Pi in generale, nelle voci dedicate agli Stati
non italiani — che costituirono un banco di prova si tratta di una
Enciclopedia Italiana, ai collaboratori incaricati di trattare la storia
degli altri paesi si chiede che si compiacciano di dar rilievo a quella
che può essere stata la ripercussione di avvenimenti e personaggi
italiani su la vita dei paesi stessi ». Le Norme sono riprodotte in Le
predisposizione del lavoro in una grande impresa scientifico-editoriale.
L'Enciclopedia italiana dell'Istituto Treccani, in L'organizza-zione
scientifica del lavoro, Gli articoli sugli Stati, piccoli o grandi, medioevali
e moderni, non siano il quadro delle vicende dinastiche (apposite voci
sono dedicate alle dinastie e famiglie regnanti), né il mero racconto
degli avvenimenti politico-militari, ma presentino la storia politica,
largamente intesa, di una nazione o popolo, ne mettano in luce la
struttura economica e sociale e le vicende demografiche. Un posto
maggiore che non le altre opere simili l’Enciclopedia Italiana darà alla
storia delle città, e in particolare di quelle italiane, specialmente
nell’epoca in cui le città furono centri autonomi di energica vita,
piccoli Stati di fatto, se anche giuridicamente limitati. Quindi si devono
presentare queste città nel loro nascere o rinascere medioevale e anche
moderno, le forze sociali che in esse si raccolgono, la loro vita
economica, le loro istituzioni, i personaggi più notevoli, Negli articoli
di Storia della Chiesa, che è quasi sempre anche storia civile e
politica, sarà da tener conto dell’uno e dell’altro elemento, salvo i
casi speciali in cui sarà espressamente avvertito che dell’elemento
religioso debba trattare a parte un altro scrittore. Discorrendo di
missio- nari, non si trascurino le finalità, i moventi e i riflessi
culturali, econo- mici, spesso politici e nazionali della loro azione.
Degli ordini monastici si metta in luce l’importanza civile ed economica.
Archivio storico italiano, completamente
nuovo per gli storici dell’Enciclopedia — si può osservare un’attenzione
per i molteplici aspetti della loro storia e un notevole equilibrio di
giudizio — come in Stati Uniti di Sestan e in URSS (anonima) —, anche
se, quando ci si avvicina alle vicende contemporanee (e quindi
soprattutto nell’Apperndice), si avverte l'influenza della propaganda
politica del fascismo: ad esempio occupandosi della Francia di Morandi — che
faceva cosî la sua prima esperienza di commentatore politico, nelle
cui vesti sarà particolarmente attivo sulle pagine de Il Mondo — minimizzerà il significato dell’esperienza
del Fronte popolare. Quando invece si tratta di valu- tare i momenti
rivoluzionari o i punti cruciali del dibattito storiografico, si tende a
tacere — è il caso della Comune di Parigi, cui è dedicato appena un
accenno da Georges Bourgin (« governo municipale di radicali e socialisti »)
sotto la voce Parigi, storia —, o a evidenziare i motivi ideolo-
gici nella ricostruzione storica, come nelle voci dedicate alla
Rivoluzione francese e alla storia italiana. Appare naturale che il
significato della Rivoluzione francese sia sottoposto a severa critica
nell’Enciclopedia, data la diffusa polemica, da Croce al fascismo, contro
i principi. Né stupisce, pur apparendo in un’opera scientifica, la rozzezza con
la quale Francesco Ercole tratteggia la figura di Danton (La sua
crescente influenza sugli elementi più torbidi e inquieti del popolo parigino era
dovuta, non meno alle sue qualità fisiche, alla massiccia vigoria della
persona, alla bruttezza suggestiva del volto butterato dal vaiolo, alla
voce stentorea, che alla suggestione morale esercitata dalla sua consueta
audacia di parole e di gesti. Ciò che interessa notare è invece, da un
lato, Chabod giudicò l’Enciclopedia mezzo e incentivo ad
arricchire gli interessi della nostra cultura, ad ampliare lo sguardo dei
nostri studiosi a determinare — sia pure in pochi uomini — volontà e
proposito di affrontare, finalmente, problemi che non siano quelli
soliti, cari alla nostra storiografia. Cfr. anche Gentile,
L'Enciclopedia Italiana, Eppure Bourgin era autore di vari studi sulla
Comune, dall’Histoire de la Commune a Les premières journées de la
Commune l'ampiezza dei giudizi negativi su di essa che sono fatti propri
anche da Chabod — « Ma le idee, una volta messe in circolazione, sfuggono
al controllo di chi le crea: e cosî fu che all’illuminismo, alienissimo
dalle violente e aperte rivoluzioni politiche e sociali, s’appellassero quelli
che, poco più tardi, dovevano far sorgere il novus ordo: alquanto
diverso, in verità, da quello auspicato dai filosofi, e grondante di sangue (Illuminismo); e, dall’altro, la stretta
interscambiabilità fra posizioni scientifiche e ideologiche, per cui
tornano alla mente i contenuti di alcune voci poli- tiche. L'importanza
della Rivoluzione francese nella storia europea non è certo disconosciuta
da Ghisalberti che, dopo aver analizzato le differenti posizioni delle
varie classi sociali nell’89, afferma che essa recò a termine con la sua
violenza l’opera condotta nei secoli dalla monarchia dell’antico regime e
abbatté le sopravvivenze feudali e le disparità sociali, consacrò
l’importanza e la forza della borghesia, accentuò e unificò il governo e
l’amministrazione, accelerò il già iniziato trapasso della proprietà,
rese uguali gli uomini davanti alla legge (Francese, rivoluzione). Anche nella
voce Rivoluzione Crosa cita del resto la Rivoluzione francese accanto
alla rivoluzione fascista come « rinnovamento essenziale d’idee e di
principi per cui, o direttamente o indirettamente, si produssero trasformazioni
politiche di suprema importanza. Ma, come in Fascismo si era detto che «
il fascismo è contro tutte le astrazioni individualistiche, a base
materialistica; ed è contro tutte le utopie e le innova- zioni giacobine,
cosf Ghisalberti precisa subito la sua valutazione della Rivoluzione francese
affermando che mezzo secolo di dogmatismo ideologico prepara il
dogmatismo democratico dei giacobini »; e, mentre alle critiche
all’ordi- namento sociale fondato sulla proprietà mosse da Morelly
o Brissot contrappone, come « più rivoluzionarie, le proposte dei fisiocratici,
coglie il difetto della Dichiarazione dei diritti nel fatto che l’umanità è
anteposta alla Francia, l’individuo alla società: un giudizio che
ricorda quello espresso da Spirito in Liberaliszzo, e che
Ghisalberti ribadisce quando afferma che con la costituzione figlia della
paura », «la rivoluzione ha trovato la sua soluzione borghese e alla
disuguaglianza del privilegio ha sostituito quella del censo, gettando
cosi i germi di futuri conflitti sociali S, Il giudizio limitativo dei
principi coinvolge naturalmente l’illuminismo e i suoi esponenti,
affacciandosi anche in Illuminismo di Chabod, che pur ne riconosce tutta
l’importanza per la storia del progresso umano: quello che non andò
perduto — cosî conclude la voce — fu il nocciolo stesso dell’illuminismo
e cioè l’aver fissato su basi puramente umane e razionali la vita
dell’uomo e dell’umanità. In questa concezione d’insieme — che corona e
completa e sistema definitivamente le prime conquiste del Rinascimento
italiano — è il valore ideale dell’illumini- smo ». Eppure Chabod insiste
anche in altri passi sul collegamento col Rinascimento italiano e, mentre sulla
trac- cia di Philosophie der Aufklirung di Cassirer trascura l’opera dei
pensatori sensisti, non nasconde la sua diffidenza per l’elemento che
distinguerebbe l’illuminismo dal Rinascimento, cioè l’interesse dei
philosophes per la dif- fusione universale della cultura, anche presso
quella molti- tudine che doveva sentirsi facilmente e pienamente
appagata dalla chiarezza e linearità delle idee che le venivano poste
innanzi, da una filosofia che s’appellava alle leggi di una ragione molte
volte identificabile col buon senso comune, e quindi di facilissima
recezione, e che in nome di questa ragione-buon senso bandiva le sue
crociate contro certa storia, vicina o remota: proprio come piace alle
moltitudini, per le quali il senso storico rappresenta il più difficile e
complicato del misteri, e proprio com’era necessario allora, dato il
clima storico di quell’età, Ancora più evidente è il carattere ideologico
della ricostruzione storiografica — per cui quest’ultima si trasforma
nell’« apologia » che Volpe aveva invitato ad evitare — Per trovare una
valutazione complessiva della politica di Robe spierre bisogna ricorrere
non alla voce dedicatagli da Francesco Lemmi, e ne fa il
responsabile del carnaio, ma a Terrore di Maturi. Anche l’opera di
Federico II di Prussia è opposta da Chabod al « dottrinarismo astratto di
un Giuseppe II ». nella voce Italia, scritta proprio da Volpe, da
Rodolico, e Ghisalberti. La voce non affronta esplicitamente, come è
stato osservato, il problema dell’unità della storia d’Italia, ma riproduce
tuttavia la periodizzazione posta a base del Programma, che vedeva
profilarsi la nazione italiana fin dall’alto Medioevo. In essa assai più
marcato è però il motivo della continuità con la storia romana — alla
quale, con la prei- storia, è dedicata la prima parte della voce —, in
modo da far risaltare come l’Italia, culla della civiltà latina e
sede della Chiesa cattolica, abbia avuto fin dall’antichità il privilegio
di essere il centro del mondo: è lo stesso Momigliano ad affermare che con la
dissoluzione di L’IMPERO ROMANO l’Italia si avviò a una nuova sua storia. La
quale continua bensi e non dimentica quella di Roma e del suo impero,
anzi, con la Chiesa, che continua l’universalità dell'impero, mantiene la
sua funzione di primato spirituale; ma solo dalla caduta dell'impero la
storia italiana si svolge autonoma e con propri destini: la faticosa
conquista d’una forma politica per l’unità nazionale del popolo
italiano. L’anticipazione dell’esistenza di una coscienza nazionale
e di una tradizione politica unitaria è in Volpe assai netta, anche
rispetto a suoi giudizi precedenti:nella prefazione al Medioevo italiano, egli
coglieva nell’età comunale « uno dei momenti di più energica fecondità
della storia d’Italia, anzi come l’inizio ricco e promettente di
questa storia, segnato appunto dal sorgere dello Stato (Stato di città
nel Nord e nel centro d’Italia, Stato monarchico e territoriale nel sud)
e della borghesia italiana, e dal delineatsi di un popolo italiano che è
creatura nuova e pur sente lo stimolo a crearsi una tradizione e trovarla
in Roma, nella voce enciclopedica, dopo aver affermato che già con
Odoacre, si ha il restringersi alla sola penisola del senso politico
della parola Italia », Volpe insiste — più Sestan, Per la storia
di un'idea storiografica: l'idea di una unità della storia italiana, in «
Rivista storica italiana, Ora in Volpe,
Storici e maestri, di quanto non avesse fatto Solmi — sull’importanza del
dominio longobardo che « fondò in Italia una tradizione politica di unità
». Tutta la storia successiva gli appare un progressivo disvelamento
della coscienza nazionale, soprattutto a partire dal secolo XI c
dalla nascita dei Comuni, e quindi con ALIGHERI e Cola di RIENZO, con la
« crescente unificazione dello spirito ita- liano » promossa
dall’Umanesimo, visto come un
momento del Risorgimento, che è cosa del pasato ed è cosa presente e immanente
a tutta la storia italiana, dalla caduta di Roma e dalle invasioni in poi
— afferma Volpe che tendeva appunto a una d ilatazione e
dissoluzione del concetto di Risorgimento —, finché a Vittorio Amedeo II appare
chiaro « il fine ultimo della politica sabauda: che era quello di
chiudere le porte d’Italia a francesi e tedeschi e rendersi signori
col tempo di gran parte della penisola ». Accanto alla precoce
affermazione di una coscienza nazionale, Volpe individua nel Comune e nel
podestà « il delinearsi più netto di un ente, lo stato che nasce », e
sottolinea in più punti, come aveva avvertito nel Programma per una
storia d’Italia, la « funzione italiana e quasi nazionale che assolve il
papato: questa comincia ad apparire già al tempo di Carlo Magno, ritorna
all’epoca di Federico II, per poi affermarsi con la Controriforma quando
« il pontificato romano, nella lotta al protestantesimo, si mosse nella
direzione segnata dallo spirito del popolo italiano, e l’Italia, politicamente divisa, ma unita nella
cultura, priva ancora come è di più intimi e propri centri, si appoggia,
nel lento maturare della sua coscienza nazionale, al papato. Come aveva
tratto nel suo cerchio ideale Roma antica, cosi ora Roma papale,
nella quale vedeva, accanto a una funzione cattolica, anche una
funzione nazionale e italiana. Molti altri aspetti potrebbero essere
sottolineati nella ricostruzione volpiana — come l’ampio rilievo dato
alla rivolta antispagnola —,
mentre non mette conto Solmi, Discorsi sulla storia d’Italia,
Firenze, La Nuova Italia, soffermarsi sulle parti della voce redatte da
Rodolico e Ghisalberti — improntate a una storiografia puramente
événémentielle e aproblematica, in cui le preoccupazioni ideologiche si
fanno via via prevalenti —, se non per rilevare, nel primo, l’esaltazione del
sanfedismo (« pagine di fierezza di popolo) e della missione nazionale
assolta da Carlo Alberto ancor prima del 1848, e, nel secondo, la
caricatura del peggior Volpe de L'Italia in cammino che si conclude con
una apologia del fascismo. Due contributi, questi, che non reggono il
confronto con la narrazione volpiana, capace in alcuni momenti di presentare la
complessità del processo storico e di aprirsi alla considerazione di
aspetti economici e sociali: con più forza nella connota- zione delle
origini del Comune — già Ottokar aveva rile- vato come esso fosse «
composto di elementi economica- mente e socialmente assai eterogenei »
(Comune) —, ma anche nella valutazione delle basi sociali della
Signoria, per cui Volpe accetta nelle linee generali la tesi di
Ercole della sua origine « popolare » anche se poi opera delle differenziazioni
fra Venezia e Firenze e tra le vatie fasi della storia fiorentina; ma
sempre con un certo interesse per la correlazione tra storia politica e
storia sociale, che manca invece in Giorgio Falco, il quale nella
Signoria — un tema su cui si concentrò l’attenzione di gran parte della
storio- grafia italiana tra le due guerre, in cerca dell’origine
dello Stato moderno e di una nuova classe dirigente — sotto- linea
« la tendenza all’affermazione di potenti individualità » e la prefigurazione
della futura storia d’Italia: il Principe di MACHIAVELLI, infatti, « con
la sua esaltazione della sovrana virt4 fondatrice di stato, liberatrice
d’Italia, riassume i due motivi dell’età delle signorie: ciò che
essa aveva prodotto, lo stato creazione dell’uomo; ciò che essa
aveva invocato, la nazione, ed era il compito dell’avve- nire » Pizzetti,
Chabod storico delle Signorie, Se alla radice delle signorie sta, non di rado —
afferma Falco —, un conflitto di natura sociale ed economica e se, com'è
ovvio, gl’interessi economici hanno parte in maniera generica
nell’origine e nello svolgi- Se infine, in questo assai rapido e
incompleto esame del settore di storia moderna e contemporanea, prendiamo
in considerazione alcuni contributi di storia italiana di due
intellettuali, come Chabod e Maturi, per i quali più spesso si è
sottolineata l’ascendenza crociana, possiamo notare che nei loro giudizi
essi sono largamente debitori di Volpe e di Gentile e quindi, almeno
indirettamente, dell’impronta nazionalistica di questi ultimi; con ciò
non si vuole espri- mere, com’è naturale, un giudizio generale sull’opera
di Chabod e di Maturi nel periodo fascista — che dovrebbe tener
conto ad esempio, per il primo, e per limitarsi all’Ex- ciclopedia, anche
del contributo su Machiavelli, che nel suo rigore scientifico si
contrappone alla presentazione deci- samente nazionalistica che ne aveva
fatto Ercole —, ma solo contribuire a chiarire le caratteristiche
complessive dell’Enciclopedia come manifestazione cultu- rale del
fascismo. Accenti nazionalistici sono presenti, infatti, in
Rimascimento di Chabod, che pur qui (come nella comunicazione su Il
Rinascimento nelle recenti interpretazioni) si preoccupa di negare — in un
periodo in cui assai accese, e non immuni da preconcetti ideologici,
erano le controversie sulla periodizzazione — la continuità col
Medioevo, contestando la tesi di quanti, come Thode e Burdach, hanno
messo in luce « gli elementi storico-ideologici che ricollegano il trionfante
movimento dei secoli XIV e XV ad aspirazioni, credenze, idee dell’età
precedente, e di quanti, come Volpe, hanno operato un analogo
allargamento del quadro cronologico mettendo in rilievomento della nuova
istituzione, caratteristica di essa, quando riesce a mettere radice, è
essenzialmente l’affermazione e il trionfo di una volontà politica, una
dissociazione dell’esercizio del potere dalle attività della produzione e
dello scambio, dalle organizzazioni di arte e di classe, una soggezione
lenta e progressiva di queste e di quelle agli scopi dell’uomo di
governo, infine, dello stato » (Signorie e Principati,Per alcune indicazioni
sul dibattito su Machiavelli nel periodo fascista cfr. M. Ciliberto,
Appunti per una storia della fortuna di Macbhiavelli in Italia: Ercole e Russo,
in Studi storici, Ora in Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino,
Einaudi, « gli elementi storico-pratici che collegano età dei
comuni e Rinascimento tradizionale, e hanno prospettato il Rinascimento
come il moto stesso di ascesa del popolo italiano, nella sua coscienza di
nazione, nella sua attività politica ed economica oltre che culturale e
artistica, e hanno pertanto fatto tutt'uno fra Rinascimento e storia del
popolo italiano a partire dal sec. XI ». In realtà il distacco da Volpe
si manifesta soprattutto nella sostanziale esclusione degli aspetti
politici ed economici rilevati da Volpe già in Bizantinismo e Rinascenza, e
ancora nella voce Italia, e nella caratterizzazione kulturgeschichtlich
del periodo, per cui se il Rinascimento è divenuto una categoria
storica, lo è — al pari degli altri e simili concetti di Illuminismo
e Romanticismo — nell’unico significato possibile, e cioè di un
momento storico della vita spirituale europea, di un periodo filosofico,
letterario, artistico, che si origina certo da una determinata realtà
politica e sociale nuova, ma che, ad un certo momento, si dispiega per
cosî dire in modo autonomo e, tratto da quella realtà il succo vivo di
cui alimentarsi, lo elabora poi concettualmente e immaginativamente, ne fa un
mondo a sé, mondo di idee di dottrine di creazioni artistiche che si
dispiega sino ad esaurimento della sua interiore virtà. Ma nella voce
enciclopedica, a differenza della comunicazione, la distinzione
iniziale tra il Rinascimento e il periodo precedente, affermata nell’analisi
delle interpretazioni, è contraddetta quando Chabod passa a enucleare gli
elementi costitutivi dell’ epoca. Mentre nega la tesi di un «
rinnovamento spirituale europeo » che si sarebbe verificato in Francia e
nei Paesi Bassi, riprende il motivo della continuità e insiste sul
carattere esclusivamente italiano e perfino nazionale del Rinascimento,
preparato lentamente, che vide in Italia lo sviluppo dei Comuni e della
borghesia: Nel Rinascimento, afferma Volpe, «è come se la società
italiana, la borghesia italiana nata dalle città, celebri se stessa
riuscita a essere, da nulla che era, tutto o quasi tutto; come se celebri
la signoria e il signore, che era pur egli, a modo suo, creatura di
quella borghesia e, a modo suo, attuava quell’ideale dell’uomo che si fa
da sé » (Italia). E la graduale conquista di un proprio mondo spirituale
da parte di chi aveva, già prima, dato nuove basi alla propria attività
pratica e alla propria vita quotidiana. Era infatti una società nuova,
quella ch’era venuta affermandosi nell’Italia, e specialmente
nell’Italia settentrionale e centrale. Come ceio sociale, era già ben
robusto e capace quello che, con termine moderno, chiameremmo borghesia, ormai
differenziato nettamente dai chierici e dai feudatari. Questo gagliardo e
irrompente fiotto di vita nuova trovava presso che subito una sua prima,
grande espres- sione morale e spirituale, ma non sul terreno della
cultura cosiddetta laica, bensf su terreno prettamente religioso.] ora,
all’inizio del secolo XIII, era la società italiana tutta quanta che
appalesava le sue rinnovate esigenze di vita morale nel movimento
francescano. Che era il grande apporto della nuova nazione italiana alla
storia della religiosità europea. In questo recupero
dell’interpretazione volpiana — anche Cantimori, sul Dizionario di
politica, aveva individuato nel Rinascimento la presenza di un «
senti- mento nazionale unitario italiano » — il trasferimento nell’ambito prettamente
umano di idee che prima avevano trovato la loro ragion d’essere nella
fede in Dio è seguito nel suo lento cammino, che dal francescanesimo
porta a Dante, a Cola di Rienzo, a Petrarca e infine a Machiavelli, cioè
attraverso l’erompere delle nuove, giovani forze che danno vita alla
nazione italiana, con una genealogia che richiama quella proposta da
Gentile nella sua ricerca della nazionalità della filosofia. Per
converso, il tra- monto del Rinascimento si ha, afferma Chabod in un
passo finale della voce in cui già Cantimori ha colto il ripiegare
sul piano della storia nazionale dell’interesse precipuo dello storico
valdostano per il fenomeno europeo e cosmopolitico del Rinascimento, Cola
di Rienzo e oggetto di grande attenzione nel periodo fascista in quanto
espressione — come afferma Falco nella voce a lui dedicata — lella
« coscienza italiana. Cfr. le osservazioni di Garin in Gentile, Storia della
filosofia italiana, Firenze, Sansoni, Cantimori, Chabod storico della
vita religiosa italiana, ora in Storici e storia, Analizza la voce, come
« caratterizzazione “spirituale” del Rinascimento, E. Sestan, Rinascimento e
crisi italiana del Cinquecento nel pensiero di Chabod, in Rivista storica
italiana, in stretta connessione con l’infiacchimento della vita italiana, con
la iniziantesi decadenza politica ed economica, con il venir meno
delle grandi speranze e della volontà d’azione, in una parola con il tramonto
delle forze creatrici che avevano dato alimento ed essere alla muova
civiltà e ne avevano fatto l’espressione piena del vigoroso sorgere della
nazione italiana. Pit precisa ancora è l’influenza di Volpe e di
Gentile che — accanto a una forte sensibilità per il conflitto tra
ethos e kratos su cui aveva attirato l’attenzione Meinecke —, si può riscontrare in alcune voci
risorgimentali di Maturi, che pur Volpe giudicherà « liberale,
liberalissimo, come in politica, cosi in storiografia, assai aperto alle
in- fluenze di Benedetto Croce », e tra i suoi allievi forse il più distaccato, nell’intimo,
dal mondo del fascismo, Tornando a valutare la sua celebre voce Risorgimento,
Maturi la presentò come una decisa ri- sposta alla tesi nazionalistica ?;
tuttavia, se è vero che in essa l’autore si opponeva alla dissoluzione
del Risorgimento nella secolare storia italiana, non è sufficiente
limitarsi a definirla una interpretazione « rigorosamente
etico-politi- ca » senza precisarne le fonti ?. Assai netta appare
infatti la sottolineatura delle origini autoctone del Risorgimento,
L’idea della ragion di Stato di Meinecke era stata fatta conoscere da
Chabod in un articolo (ora in Lezioni di metodo storico, a cura di L.
Firpo, Bari, Laterza), mentre Cosmopolitismo e Stato nazionale era stato
tradotto da La Nuova Italia : sono testi probabilmente presenti a Maturi,
che anche nelle voci enciclopediche avverte il contrasto tra politica e
morale, tra Stato e idea di nazionalità, soprattutto nella Restaurazione,
nella quale «si elaborano da un lato i concetti di stato forte e di potenza,
dall'altro quelli di libertà e di civiltà (Restaurazione). L’opera degli Svizzeri e dei
Tedeschi fu immensa per la formazione delle coscienze nazionali europee,
ma fu opera essen- zialmente culturale: per fare trionfare in pratica il
principio ci volevano diplomatici e rivoluzionari. Alessandro fu il primo
ad agitare l’idea della nazionalità » (Storia del principio di
nazionalità, sottovoce di Nazione di Battaglia). Volpe, Storici e
maestri, Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquanta
anni di vita intellettuale italiana, La sua interpretazione è stata fatta
propria da E. Sestan, Maturi, in « Rivista storica italiana, (l’articolo esamina anche le altre voci di
Maturi), e da Salvadori, Maturi, cSalvadori, Walter Maturi, cit.,
sganciato da ogni rapporto con la Rivoluzione francese. Ma, allora,
avrebbero ragione gli storici francesi, che fanno ancora risalire alla
rivoluzione francese il nostro Risorgimento, si chiede Maturi una volta
confutate le tesi sabaudista e diplomatica delle origini del
Risorgimento: Ciò che distingue la nostra tesi da quella francese,
rappresentata ancora dal Bourgin, è il valore che noi diamo all’epoca del
dispotismo illuminato e al principio della lotta delle nazioni. Senza le
riforme del Settecento, senza l’insoddisfazione dei nostri elementi
regionali pit intelligenti verso lo stato regionale, senza lo stacco che
l’opera rifor- matrice aveva posto in Italia tra minoranze sovvettitrici
di vecchi ordini statali e masse meccanicamente attaccate a quegli
istituti, la rivoluzione francese non si sarebbe potuta inserire tra le
lotte poli- tiche e sociali italiane e non avrebbe trovato il germe
fertile, il terreno fecondo. D'altro canto le grandi lotte settecentesche
tra Francia e Inghilterra avevano insegnato agl’Italiani la fecondità
delle lotte nazionali. Diversamente da quanto dirà nel
saggio su Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento,
Maturi considera quindi il Risorgimento un movimento che affonda le sue
radici nell’età delle riforme. Anche Volpe aveva sottolineato i Principi di
Risorgimento italiano; ma il richiamo a Volpe si fa ancora più preciso
quando Maturi coglie l'elemento propul- sore del Risorgimento in un
piemontese non conformista, Alfieri — col quale « si afferma il primo
presupposto d’una nazionalità: la volontà di essere uno stato-nazione. In
Problemi storici e orientamenti storiografici, raccolta di studi ‘a cura
di Rota, Como, Cavalleri, Romeo ha invece scritto: Fermissimo, anzitutto, nel
Maturi, il rifiuto delle posizioni nazionalistiche e, dunque, di ogni
tesi sul carat- tere pre-risorgimentale del Settecento o peggio, sulla
funzione risorgimentale dei Savoia; e nessuna adesione, «di conseguenza,
al tentativo di negare il nesso Rivoluzione francese-Risorgimento (Maturi
storico della storiografia ora in L'Italia unita e la prima guerra
mondiale, Bari, Laterza. Il pensiero riformatore fu giudicato astratto da Rota,
fuorché in Italia, dove avrebbe avuto carattere «autonomo e nazionale (Riforme,
età delle, Rivista storica italiana (il tema del- l'articolo era
stato anticipato da Volpe al Congresso per la storia del Risorgimento
sulla base del celebre passo di Del principe e delle lettere in cui si auspica
che l’Italia, inerme, divisa, avvilita, non libera, impotente, possa
risorgere « virtuosa, magnanima, libera e una: lo stesso passo parafrasato da
Volpe per dimostre che con Alfieri « il lento processo storico che
da secoli veniva costruendo l’Italia diventa veramente coscienza e
volontà. È questo un tema, del resto, che nell’Enciclopedia circola
ampiamente, da Rodolico, che vede in Alfieri « i primi albori del
Risorgimento nazionale » (Italia), a Manfredi Porena, per il quale il
letterato piemon- tese ebbe con maggior chiarezza di ogni altro suo
precur- sore il concetto dell’unità politica d’Italia fondata
sull’indi- pendenza e sulla libertà, e con maggior ardore e fiducia
la profetò (Alfieri). Ma le date e il linguaggio di queste
voci ci suggeriscono che all’origine dell’interpreta- zione di Maturi non
c’è soltanto Volpe; e se pensiamo alle: altre tappe della creazione del
mito risorgimentale, tutte segnate da letterati, da Foscolo a Cuoco, ci
accorgiamo che la matrice è il Gentile de L'eredità di Alfieri, I
profeti del Risorgimento italiano, Vincenzo Cuoco. Cuoco — scrive Maturi
riprendendo la genealogia gentiliana della « nuova Italia — accolse tutto
l'insegnamento che si poteva cogliere dalla rivolta delle plebi italiane
e predicò come dovere morale l’opera di colmare l’abisso tra popolo e minoranze
intellettuali. E un altro grande contributo portò il Cuoco al concetto di
Risorgi- mento: il culto del VICO (si veda). Se Alfieri insegnò
agl’Italiani ad agire in grande, Vico insegnò loro a pensare in grande;
se con l’Alfieri l’Italia s’individuò come volontà di essere stato tra
gli stati europei, col Vico acquistò coscienza di avere una propria personalità
nella cultura europea. Dalla fusione delle dottrine di questi due grandi
nacque la nuova Italia, pensante e operante con una sua particolare
fisionomia. nel seno dell'Europa. Può essere curioso notare che, pur
polemizzando con l’interpretazione autoctona di Gentile, anche Gobetti
aveva visto in Alferi l’iniziatore di «un Risorgimento e un liberalismo
che ben si può dire originale, e in cui si trovano le premesse della
nuova cultura politica italiana » (La filosofia politica di Vittorio Alfieri,
tesi di laurea in filosofia del diritto discussa con Solari, ora in P.
Gobetti, Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di Spriano, con
due note di Venturi e Strada, Torino, Einaudi). Anche per Battaglia Cuoco
aveva avuto il merito di mettere in circolazione Vico, in particolare
«quella posizione storicistica, che in Se quindi Maturi rifiuta la tesi
sabaudistica e quella diplomatica delle origini del Risorgimento, è per
costruirne un’immagine etico-politica che rinvia a Gentile, ma
anche a Volpe. Non è del resto possibile dimenticare che non di
vero e proprio antisabaudismo si tratta nel caso di Maturi, uno dei «
patiti » del Piemonte ?”. Nell’ampia voce Savoia, il giudizio positivo
sull’opera di riorga- nizzazione dello Stato di Filiberto e di Emanuele I
diventa entusiastico per il ’700 (« Da molte- plici punti di vista lo
stato sabaudo nel Settecento appa- riva uno stato perfetto »), mentre
Carlo Alberto è definito « un principe paterno modello » e la sua opera
prima del 1848 è qualificata come nazionale; per cui sembra
corretta la critica che di lf a poco Cortese muoverà a Risorgimento
di Maturi (« non crediamo che ci siano ele- menti che ci autorizzino a
fare della classe politica piemon- tese della fine del Settecento la
creatrice del mito del Risorgimento nazionale. Un altro motivo che
torna anche in alcune voci enciclo- pediche di Maturi, laureatosi in
filosofia con Gentile con una tesi su De Maistre, è quello della
religione e dei suoi rapporti col potere politico. Proprio nell’opera di
De Mui- stre egli coglie « i primi germi di alcune eresie: del
moder- nismo con i suoi accenni all’evoluzione dei dogmi e delle
credenze religiose; del nazionalismo francese di Ch. Maur- ras con la sua
eccessiva Politisierung della Chiesa nel Du a », e, più in generale, in Restaurazione
nota che per rendere più docili le nuove generazioni e
amalgamarle con le vecchie non si seppe pensare ad altro mezzo che
all’educazione eccle- siastica e si commise l’errore di abbassare la
Chiesa a instrumzentum regni in un’età di delicatissima sensibilità
etico-religiosa, con l’unico parte si fonde con la filosofia
antilluministica », e aggiungeva che « l’opera sua resta nei limiti della
tradizione nazionale, che egli riconquistò alla filo- sofia ed elaborò
con alta coscienza, tanto che al suo insegnamento si ricolle- garono gli
uomini del Risorgimento: Mazzini e Gioberti stesso Cantimori, Studi di storia,
Torino, Einaudi, Cortese, Orientamenti storiografici intorno alle origini del
Risor- gimento, in Problemi storici e orientamenti storiografici, frutto di provocare per reazione la genesi
del cattolicesimo liberale e d’insinuare con esso il nemico nella
cittadella religiosa del passato. Queste affermazioni non sono
tuttavia univoche, come dimostra — oltre alla valutazione positiva dei Patti
lateranensi (Romana questione) — il giudizio sul Neoguelfismo, che
trasformò in sentimento politico nazionale il sentimento politico locale,
facendo confluire nella cultura nazionale le culture regionali, e quindi
compî, sotto certi aspetti, un’opera d’educazione nazionale maggiore di quella
di Mazzini, perché operava dal seno stesso delle vecchie formazioni
statali italiane e ne produceva la crisi morale. Del neoguelfismo, restò,
trasformandosi ed evolvendosi, il liberalismo nazionale o partito
moderato col nuovo ideale d’Italia e casa Savoia, elaborato dalla
storiografia piemontese; restò il cattolicesimo nazic- nale, che
abbandonò le idee di riforma cattolica, si restrinse ad aspi- rare alla
conciliazione tra il papato e la patria italiana e ha visto realizzato il
suo sogno dalla nuova politica ecclesiastica di B. Musso- lini; restò
l’ideale del primato, che è stato ripreso dal fascismo Dove in quel « si restrinse » traspare
comunque una posizione laica, alla quale fa riscontro per alcuni aspetti
il giudizio su Gioberti di Saitta, il direttore di Vita nova che
ospitò, come vedremo, alcune critiche alle voci religiose
dell’Enciclopedia: un Gioberti a propo- sito del quale, in linea con
l’interpretazione gentiliana ?°, non si cita mai la funzione da lui
assegnata al pontefice, ma è visto come l’esponente di una « visione
laica e democra- tica » e « il maggior teorico del liberalismo, che è in
anti- tesi col mazzinianesimo antimonarchico e col guelfismo dei
conservatori che consigliavano il re ad una politica di mode- Di Sanctis
Maturi evidenziò gentilianamente il fatto che, « vichiano, senti il
valore della religione per il popolo, ma criticò fino in fondo il
principio della libertà ecclesiastica e molto si adoperò, di con- serva
col Mancini, per far mantenere nel sistema separatista italiano alcune
cautele giurisdizionaliste. Comprese, invece, la funzione dialettica,
altamente educativa per ambo le parti, d'un insegnamento religioso coesi-
stente con quello laico.] Gentile parla di «un incessante svolgimento del
programma gio- bertiano verso quella concezione nettamente laica e
democtatica, o in una parola, liberale dello Stato, innanzi alla quale i
neoguelfi ricalcitrano » (I profeti del Risorgimento italiano, Firenze,
Vallecchi.] razione e di prudenza, la quale si risolveva nella diserzione
dalla causa nazionale », ed è esaltato per il suo « tentativo di
conciliare la spiritualità dello stato con la spiritualità della chiesa
». Busnelli, un critico severo dell’ attualismo che troviamo fra i
collaboratori dell’Enciclo- pedia, recensendo su « La Civiltà cattolica »
i primi volumi dell’opera notava con compiacimento, come abbiamo
visto, che i suoi direttori, « mentre lasciano agli scrittori la
piena libertà d’esprimere il concetto cristiano e cattolico e il giudizio
dei fatti secondo il criterio della soda indagine ecclesia- stica,
promettono di invigilare che anche in altri articoli in- direttamente
attinentisi alla religione cattolica e alle materie ecclesiastiche non
vengano sostenute o insinuate sentenze o critiche contrarie o malfondate.
Il giudizio rispecchiava il posto privilegiato riservato
nell’Enciclopedia ai cattolici, l’unica voce organizzata non
completamente omogenea con la cultura del fascismo quale era auspicata da
Gentile, ma tale, per ampiezza e incisività, da caratterizzare
nettamente l’opera nel suo complesso, che non può perciò essere
quali- ficata solo come idealista o attualista. Questo aspetto non
è stato messo nel dovuto rilievo dai testimoni di allora, nemmeno da
quanti hanno ammesso la presenza della censura ecclesiastica ??; del
resto nelle stesse ricostruzioni generali della cultura nel periodo
fascista solo di recente — se prescindiamo dalle Cronache di Garin — è
stato messo l'accento sull’intervento dei cattolici come componente es-
Busnelli], L’« Enciclopedia
Italiana », in La Civiltà cattolica. Busnelli aveva pubblicato. I
fondamenti dell’idealismo attuale esaminati. Cosî Vida, Fantasmi
ritrovati, e Calogero, Mussolini, la Conciliazione e il congresso filosofico in
«La Cultura. Sulla tematica affrontata in per pagine cfr. M. De
Cristofaro, Le voci di argomento religioso nel- °Enciclopedia italiana,
tesi di laurea presso la Facoltà di Lettere e Filo sofia di Firenze, anno
acc. senziale del regime, anche se in concorrenza con l’attualismo. Ma
l’esistenza di una loro vasta organizzazione intellettuale e il loro
incontro con altri settori conservatori della cultura laica sono forse
rav- visabili già prima del Concordato. Proprio le vicende del-
l’Enciclopedia suggeriscono infatti una prospettiva di più lungo periodo,
capace di individuare le tappe decisive della « riconquista » cattolica
anche in campo culturale — in un confronto continuo con la cultura laica
con- temporanea — nell’iniziativa neoscolastica all’indomani della
sconfitta del modernismo, nella prima guerra mondiale che offri ai
cattolici numerosi spazi di intervento in tutti i settori della società,
e nella soluzione della crisi Matteotti, in cui anche Pietro Scoppola ha
visto l’origine di un regime clerico-fascista Le osservazioni sul
Concordato e sui neoscolastici svolte da Gramsci nel breve periodo che
intercorre fin allal messa all'indice delle opere di Croce e di Gentile*,
possono probabilmente essere anticipate di alcuni anni, al momento in
cui, nell'immediato dopoguerra, il celebre appello di Gemelli al «
medioevalismo » — « Noi siamo medioevalisti; lo siamo perché riconosciamo
che la cosî detta cultura moderna è il nemico pit fiero del
Cristia- nesimo e perché riconosciamo che è vano parlare di adattamenti,
di penetrazione » ?° — diventa prospettiva concreta di attacco in tanti
interventi di cattolici, fra cui spicca per L. Mangoni, Aspetti
della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista « Il Frontespizio
», in Modernismo, fascismo, comu- nismo, a cura di Rossini, Bologna, Il
Mulino. L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo,
Bari, Laterza, e Ranfagni, I clerico fascisti. Le riviste
dell'Università Cattolica negli anni del regime, Firenze, Cooperativa
editrice universitaria. Su un altro aspetto, non meno importante, cfr. S.
Pivato, L’orga- nizzazione cattolica della cultura di massa durante il
fascismo », in « Italia contemporanea. Scoppola, Sviluppi e differenti
modalità della presenza cultu- rale e politica dei cattolici nelle
vicende italiane, in «Quaderni di azione sociale » Gramsci, Quaderni del
carcere. L'articolo è riprodotto in A. Gemelli, Idee e battaglie per la
cultura cattolica, Milano, Vita e pensiero] chiarezza l’invito rivolto da don
Giuseppe De Luca allo stesso Gemelli: Nelle nostre file s'è
troppo indugiato sulla difesa. Che fanno oggi i cattolici studiosi se non
difendere dagli attacchi dei nostri nemici? Perché non occupare noi primi
le scienze, le lettere? Perché non dar neppure il motivo agli avversari?
Pigliamo la cultura, e studia- mola e facciamola nostra: quali timori? Una
università cattolica, non una chiesuola; o meglio ancora dare degli elementi
vigorosi e inserirli negli istituti laici. Si assiste infatti a uno
sforzo cospicuo dei cattolici di organizzare una propria cultura per il
clero e per il laicato: dal rilancio del tomismo prospettato dal-
l’enciclica Studiorum ducem — che troverà una espressione organizzativa
nella costituzione Deus scientiarum dominus —, alle tante iniziative che —
come l’Università cattolica o la fondazione della casa editrice
Morcelliana — si ispirano al suggerimento di Gemelli, secondo il quale « perché
i cattolici italiani abbiano da esercitare una influenza culturale, quale
la tradizione cattolica in Italia rende possibile, è necessario
innanzitutto che i cattolici non siano reclutati solo nelle classi
popolari, ma anche nelle classi elevate. Gentile aveva cominciato ad
avvertire il pericolo della concorrenza cattolica’, che diventerà
sua preoccupazione costante. Eppure proprio nel- l’Enciclopedia da
lui diretta egli aveva dovuto accettare fin dall’inizio la presenza
condizionante dei cattolici, fino a perdere ogni controllo sulle sezioni
« Religione » e Storia del cristianesimo, e a conferire uno spazio
larghissimo a « Materie ecclesiastiche » di Tacchi Venturi e a «
Geografia sacra » di Luigi Gramatica. La vicenda di Omodeo, cui
Luca et l’abbé dr Bremond, Roma, Edizioni di storia e letteratura,
Gemelli, I/ compito colturale dei SE, in Idee e battaglie, Le università
cattoliche dovrebbero, secondo loro, col tempo e col favore di Dio,
sostituirsi interamente alle università laiche dello Stato » (discorso al
Congresso di cultura fascista di Bologna, in Gentile, Che cosa è il fascismo. Gramatica,
direttore della Rivi- L’Enciclopedia italiana inizialmente era
stata affidata la Storia del cristianesimo, è indicativa del tentativo di
Gentile — affiancato da altri direttori di sezione — di contrastare
l’offensiva ecclesiastica, ma anche della sua sconfitta. La scelta
di Omodeo da parte di Gentile era coerente all'impostazione
critico-storica che la direzione avrebbe voluto dare alla trattazione di
tutte le voci; ben note erano del resto le aspre critiche che da parte
cattolica avevano accompagnato gli studi di Omodeo sul cristianesimo
antico, come il Paolo di Tarso, giudicato dalla « Civiltà.
cattolica » opera di un « compilatore di seconda o terza mano. La sua rivendicazione
della storia del cristianesimo e in genere della vita religiosa come storia
etico-civile, come storia della società umana, da studiare, ricer- care e
ricostruire prescindendo da preoccupazioni confessionali di ogni genere » *%,
non era infatti tale da accatti- vargli le simpatie degli studiosi
cattolici; la sua imposta- zione idealistica e storicistica era avversata
anche da Buo- naiuti che, pur giudicando la Mistica giovannea un
sensibile progresso sulla precedente produzione del- l’Omodeo », la
considerava tuttavia «una mal digesta sta illustrata della
esposizione missionaria vaticana », aveva chiesto a Gentile di affidargli
la Geografia sacra: Per Geografia Santa o Sacra io non intendo solo la
Geografia Biblica o la descrizione dei paesi che immediatamente o
mediatamente prepararono la diffusione del Cristianesimo; ma intendo parlare
altresi di tutte le regioni o località del mondo in rapporto al governo
della Chiesa e in quanto sono assegnate alla cosiddetta geografia sacra »
(AEI, Lettere, Gramatica). Sanctis scrivendo ad Antonino Pagliaro, redattore
della sezione Antichità classiche, si dichiarava deluso dell’elenco di
voci di « Geografia sacra »: « mi pare che non si tratti se non di
geografia ecclesiastica, cioè l’indicare Stato per Stato le circoscrizioni
ecclesiastiche, il numero dei preti e dei fedeli ecc. Invece sarebbe
stato bene che la geografia sacra registrasse i centri importanti di
culto, i luoghi di pelle grinaggio, i luoghi famosi nella storia
evangelica o nella storia della Chiesa » (AEI, Lettere, De Sanctis. Intorno
a un libro su S. Paolo del prof. A. Omodeo, in «La Civiltà. Cattolica. Di
«retorica romanzesca » era tacciato anche il volume di Omodeo su L’età
moderna e contemporanea (Storicismo socialista e fantasie retoriche e
modernistiche, in « La Civiltà cattolica », Cantimori, Commemorazione di Omodeo,
ora in Storici e storia, accozzaglia di elementi eterogenei ed avventizi.
Le preoccupazioni cattoliche erano giustificate anche dall’orientamento
che Omodeo avrebbe voluto dare alla sezione enciclopedica, puntando
essenzialmente su collaboratori laici in modo da salvaguardare un
approccio critico-storico ai problemi. Egli scriveva a Gentile che «
molte voci, anche quelle di sapore strettamente ecclesia- stico non si
possono neanche affidare a preti, senza il pericolo di perdere l’informazione
sugli studi critici e protestanti, e per converso non si possono affidare
neppure a protestanti sia italiani che stranieri », pur aggiungendo
che si sarebbe rivolto al gruppo di « Bilychnis » per la storia
protestante e a Loisy per la storia della critica e la storia del canone
Gentile approvava, ma lo avvertiva che, mentre la trat- tazione dei papi
sarebbe spettata alla sezione diretta da Volpe, « dei Sanzi, salvo
contrario avviso, penserei dare la cura ad ecclesiastici, con cui sono in
trattative. Largo restava comunque l’intervento dei laci nelle voci di
storia religiosa ®*; le stesse voci riguardanti dottrine
teologiche, riti e culti, aggiungeva Omodeo avrebbero bisogno d’una
trattazione “laica” anche quando pare si riferiscano a concetti teologali
o liturgici, pur, ben inteso, rispettando quelle norme di prudenza ed
obiettività di cui abbiamo parlato. Il piano delle voci e dei collaboratori
era completato, Omodeo poteva già presentare un abbozzo della voce
Apostoli, che poi corresse seguendo il consiglio di Gentile Ricerche
religiose. Gentile-A. Omodeo, Carteggio. Gentile scrive che l’altera pars
[gli ecclesiastici] mi consegna in questi giorni tutte le sue proposte
sulle materie ecclesiastiche. Omodeo prevedeva ad es. la partecipazione
di Marchesi per la patristica latina, di Pasquali per quella greca, di
Co- gnasso per la storia religiosa bizantina, L. F. Benedetto per il
gianseni- smo francese, Rota e Rodolico per quello italiano, Macchioro
per Lutero e la Riforma, Spampanato e Capasso per la Controriforma, e
inoltre la partecipazione dei collaboratori di Bilychnis, di Caramella e Minocchi.
L’Enciclopedia italiana di lasciare aperte alcune questioni;
quantunque sia già molta la prudenza da te adoperata: cautele che non impediranno,
una volta pubblicata, le critiche de « La Civiltà cattolica. Ma, in
coincidenza con la pubblicazione del Primo elenco di collaboratori, a Omodeo
era giunta voce di un veto del Vaticano alla sua
partecipazione, tanto da suggerirgli il proposito di « tirarsi da
parte. Gentile continuò tuttavia a ricercare la collaborazione di Omodeo
solo tre giorni dopo il Concordato, intervenne per criticare varie voci,
fra cui Apocalisse e Apocalittica, letteratura, perché « alcune
frasi danno come risolte definitivamente in senso che i cat- tolici
non approvano, alcune questioni critiche, a proposito delle quali
occorrerebbero almeno delle delucidazioni. La risposta di Omodeo, del 16
febbraio, è articolata nella difesa delle sue ragioni scientifiche, ma
intransigente: L’obiettività d’un’enciclopedia, è una forma di buona
creanza, ma non può offendere l’intima sostanza della scienza. Metter
d’ac- cordo indirizzo critico e tesi cattolica è impresa disperata, come
con- ciliare sistema tolemaico e sistema copernicano. La scienza ha il
suo cursus, e un’enciclopedia deve riconoscerlo ed affermarlo. Io
per conto mio nella scienza sono intransigente e non mi sento
l’animo per concordati e compromessi. Mi creda, professore, a dar
retta ai preti si finisce a impazzire. Nella scienza erano sono e
saranno capita mortua Per la «Storia delle religioni » Gentile
aveva fatto preparare da Pincherle «le proposte dei collabora- tori da
incaricare per le voci, che non conviene affidare alla redazione degli
ecclesiastici. Escluso solo Buonaiuti. Busnelli]. Gentile-A. Omodeo, Carteggio,
cit., p. 365. Nel giugno 1927 anche Pincherle minacciò di abbandonare
l’impresa facendo cosî, osser- vava Omodeo, «con un’impulsiva rinuncia,
il gioco dei gesuiti che lui mostra di temere. Apocalittica letteratura
di Omodeo non fu pub- blicata, e apparve a firma di padre Giuseppe
Ricciotti, redattore di « Ma- terie ecclesiastiche ». Omodeo pubblicherà
due voci su «Civiltà mo- derna. Le lettere dell’Apostolo
Paolo alla Chiesa di Corinto e La lettera dell’Apostolo Paolo ai
Colossesi). Sulla « mutilazione » di cui furono oggetto altre voci cfr.
A. Omodeo, Lettere Gentile-A. Omodeo, Carzeggio, Gentile cercò di
dirottarlo su argomenti di storia civile, ma Omodeo dichiarava che non
avrebbe continuato la collaborazione: « Son sicuro che anche nella
storia civile non avrei maggior libertà che in quella reli- giosa, una
volta ammesso il principio del controllo di una parte sul lavoro dell’altra
»; se fosse stato possibile accor- darsi su « un principio di completa
libertà », « io avrei lasciato liberi i preti di gabellare, come han
fatto, Abramo quale personaggio storico, o di far l’apologia, se
crede- ranno, del miracolo di S. Gennaro: a condizione che essi non
avessero inquisito nei miei lavori. L’enciclopedia avrebbe fotografato la
cultura italiana, in cui c'è P. Vac- cari, e c'è A. Omodeo » ?!.
Cosî le voci di Omodeo restano una delle poche testi- monianze di
trattazione critica dei problemi religiosi nell’Enciclopedia, in genere
appiattiti dall’impostazione ‘dog- matica e apologetica degli autori
cattolici. Ammiratore della scuola storica di Tubinga fondata da
Ferdinand Chri- stian Baur — la cui opera era definita « uno dei maggiori
monumenti dello storicismo hegeliano » —, Omodeo cercò di attenersi ad
una esposizione obiettiva dei fatti e delle diverse interpretazioni, ma
senza riuscire a nascondere la sua preferenza per i risultati
dell’indagine critica rispetto alle affermazioni aproblematiche degli
studiosi cattolici: in Apocalisse, ad esempio, dopo aver esposto
l’opinione di quanti negavano l’apostolicità dello scritto concludeva
che « in opposizione a questi indirizzi critici, il cattolicesimo
si mantiene saldo nell’affermare l’apostolicità dell’opera — ormai
abbandonata quasi da tutti nell’altro campo — e nel ribadirne l’ispirazione divina,
e l’esegesi spiritualiz- zante ». Rispetto a un giudizio del genere, si
può notare un vero e proprio capovolgimento di segno nella voce,
esecrata da Omodeo, in cui padre Eerembeemt aveva soste- nuto la
storicità della figura di Abrarzo affermando la insussistenza » delle
teorie di chi la negava, o in Abramo è un personaggio storico? Pei
credenti, si; e sotto Abra- mo trovi un paragrafo dove sono
oggettivamente esposti gli argomenti per la storicità di Abramo, osservò
Ugo Ojetti, I primzi ser volumi del- L’Enciclopedia italiana
Deuteronomio — voce prima affidata a Omodeo e poi respinta dalla
direzione dell’Enciclopedia —, in cui il. gesuita Tramontano avvalorava
le tesi degli studiosi catto- lici che attribuivano l’ultimo libro del
Pentateuco a Mosè, confutando recisamente quelle dei critici acattolici. Omodeo avrebbe dovuto trattare
anche la storia della Chiesa dalle origini al concilio di Nicea, ma il 29
giugno 1929 egli aveva avanzato delle riserve per i limiti,
molto ristretti, di libertà di parola che consente l’enciclo- pedia, Se
per le voci bibliche io arrivo spesso a cavarmi d’impaccio esponendone il
contenuto e narrando la storia della critica, per [questa] voce non è
cosî. Non posso narrar la storia della chiesa, senza prender posizione,
altrimenti la narrazione non procede. Nelle questioni spinose
dell’origine dell’episcopato, del primato romano, della struttura
dogmatico-disciplinare della chiesa, della prassi peni- tenziale, dei
sacramenti ecc. non potrei non dare scandalo ai preti, divenuti cosî
intolleranti, Subito dopo Gentile lo cavava d’« impaccio »
affidan- done la stesura a don Giuseppe De Luca, che senza troppe
preoccupazioni spiegava la rapida diffusione del cristiane- simo con i
caratteri della dottrina stessa (« per tutti che sentissero lo stimolo di
una vita non solamente animale, [la dottrina cristiana significava] la
formula risolutiva della propria umanità in ciò che ha di buono e di
cattivo, con la tecnica della propria cultura interiore »), giustificava
l’im- piantarsi della gerarchia e del primato romano, e spiegava
come « da contaminazioni e compromissioni della dottrina cristiana,
consumate per opera di menti ansiose e irrequiete, nacquero le prime
eresie. Alla luce della vicenda di Omodeo è facile presumere che
l’ingerenza degli ecclesiastici si sia estesa ben presto a
l’Enciclopedia italiana, in « Il Corriere della sera. In Pentateuco il gesuita
Alberto Vaccari espose i motivi per cui «la scienza [può] trovare nel
Pentateuco un buon nucleo auten- ticamente mosaico frammezzo ad
accrescimenti d’età posteriore. Né pi sembra domandare la fede cattolica,
quando vuol salva la sostanziale autenticità e integrità del Pentateuco,
e lascia passare aggiunte, purché ispirate, e mutazioni accidentali
posteriori a Mosé (v. il decr. della Com- missione biblica. Gentile-A.
Omodeo, Carteggio, c tutti i settori in cui erano presenti voci o riferimenti
reli- giosi, vanificando l’impronta laicista che non solo Gentile e
Volpe, ma anche, con particolare forza, Francesco Salata avrebbe voluto
dare alla sezione « Storia contemporanea », di cui perderà la direzione
nel corso della preparazione del- l’opera: « senza invadere il campo
riservato alle sezioni “Filosofia, educazione, religione” e “Storia delle
religioni” », scriveva Salata in un promemoria, ritengo che la
parte prevalentemente politica della storia contempo- ranea delle
religioni e specialmente della Chiesa cattolica, e quindi, ad esempio le
voci personali dei papi, dei cardinali segretari di Stato, dei nunzi,
quelle dei concili, di alcune istituzioni amministrative della Chiesa, di
alcune dottrine politico-religiose ecc. trovino posto più proprio nella
mia sezione. Per alcune voci relative alla Chiesa cattolica ciò non può
mettersi in dubbio per il periodo precedente, ma anche per il periodo
successivo è troppo chiara l’impor- tanza politica del papato non solo
per l’Italia ma anche in tutta la politica internazionale, perché tali
voci siano sottratte alla sezione che ha cura e responsabilità della
storia politica di questo periodo Ma, quando Salata avanzava queste pretese, la
presenza dei cattolici tendeva già a dilatarsi all’interno
dell’Enciclo- pedia, favorita dalla singolare concezione
dell’obiettività propria di Gentile, consistente nel rivolgersi ai « compe-
tenti », ma in ultima istanza ai diretti interessati *, Cosi le voci sui
gesuiti furono attribuite prevalentemente a esponenti dell’ordine — con un
cospicuo intervento di Tacchi Venturi —, Rosmini al rosminiano
Caviglione, con l’inter- pretazione del quale Gentile aveva polemizzato,
Scolastica e S. Tommaso ai neoscolastici Francesco Pelster e Martin
Grabmann, Neoscolastica a Gemelli, e a Niccoli, allievo di Buonaiuti,
voci come Gioacchino da Fiore e Mo- dernismo. Il fatto che queste voci di
storia religiosa fos- sero affidate a rappresentanti di vari indirizzi di
pensiero AFI, Lettere, Salata. Da Barnabiti particolarmente
desidererei gli articoli relativi ai Barnabiti », aveva scritto il 18
aprile 1925 Gentile a padre Semeria (AEI, Lettere, Semeria).
39 G. Gentile, Storia della filosofia italiana, La voce fu riprodotta,
assieme a quella Rosminiani, congregazione dei di Bozzetti, in « Rivista
rosminiana »comportò l’esistenza di inflessioni diverse nel giudizio e
nel taglio metodologico: ad esempio, presentando la figura di
Gioacchino da FIORE (si veda) Niccoli non solo riprese l’in-
terpretazione che ne dava Buonaiuti in quegli stessi anni °° — « una
delle figure più notevoli della spiritualità cristiana durante il
Medioevo », la cui opera ha un « contenuto inti- mamente sovversivo nei
riguardi della Chiesa ufficiale » —, ma si differenziò anche da altri
autori spiegando in termini economici e politici la genesi della sua
profezia sull’avvento della Chiesa della realtà spirituale sostituita a
quella della gerarchia e dei simboli. Tuttavia, al di là di queste
distin- zioni interne, l'intervento dei cattolici comportò, da un
lato, la dilatazione dello spazio concesso alle voci religiose —
come dimostra anche un rapido confronto tra l’Enciclopedia britannica e
l’opera diretta da Gentile, in cui voci specifiche sono attribuite, ad
esempio, a Concezione immacolata o a Comunione dei santi —; e,
dall’altro, l’apologia del cattolicesimo più tradizionale, che non investe solo
la storia della Chiesa medievale sulla quale la cultura cattolica
vantava anche allora una ricca tradizione di studi — « il fascismo
inquinò anche la storiografia medievalistica con un clerica- lismo
nauseante nell’esaltazione in blocco di tutta la storia della Chiesa
medievale (tutti i papi medievali vengono esaltati nell’Enciclopedia
italiana) », ha osservato Gabriele Pepe ** —, ma riguarda tutti i periodi
storici. Basti pensare alla voce su S. Gerzaro in cui il gesuita Romano
Fausti sostiene la veridicità del miracolo, secondo quanto aveva La
voce ha molte assonanze, ad es., con E. Buonaiuti, Gioacchino da Fiore,
in « Rivista storica italiana », Gioacchino, con tutta probabilità servo della
gleba per nascita, è giunto al suo riscatto e alla formulazione del suo
messaggio attraverso l'iniziazione in una riforma monastica, quella
cisterciense, di origine e caratteristiche squisitamente latine, la cui
importanza sul terreno sociale come fattore di disgregazione dei
superstiti istituti feudali — anche nell'Italia Meridionale — si palesa
oggi sempre più evidente. Sarà infine necessario tener presente che il
ciclo fattivo della vita di Gioacchino coincide con quello della maggior
fortuna del regno normanno in Italia: tendenze, aspirazioni e crisi del
quale, studi recenti hanno mostrato riflettentisi sulla complessa
esperienza di Gioacchino. Pepe, Gli studi di storia medioevale, in Cinquant'anni
di vita intellettuale italiana, cprevisto Omodeo, o allo sconcertante giudizio
con cui Palmarocchi minimizza il ruolo di un personaggio « scomodo » come
Savonarola, spiegandone la condanna: secondo alcuni essa ricade
sui fiorentini, secondo altri sulla corte di Roma. È certo che il
Savonarola stesso diede ai suoi nemici l’occasione di abbatterlo,
immischiandosi e invischiandosi nelia politica e avallando con la sua
autorità morale i fatti e i misfatti di una fazione. Ma la causa più
profonda della sua caduta fu la sua illusione di arrestare il cammino dei
tempi, il suo sforzo d’impotre agl’italiani del quattrocento una
concezione di vita ormai superata. In questo quadro non mancano
tuttavia delle eccezioni, costituite non solo dagli interventi di Chabod
e di Cantimori su figure di protestanti e di eretici, ma anche da alcune
voci di Pincherle e di Jemolo che affrontano tematiche più ampie di
storia della Chiesa, con un’attenzione particolare ai collegamenti fra
storia religiosa e storia politica. Questi evitano infatti di
pronunciarsi sulle questioni propriamente teologiche seguendo la via
proposta da Gentile quando, inviando a Jemolo delle istruzioni per la
compilazione di voci di storia della Chiesa, osservava che « anche delle
sin- gole controversie teologiche sarà da rilevare il significato intimo,
le azioni e reazioni sulla politica anche degli Stati,
sull’organizzazione gerarchica, sulla pietà e le manifestazioni del sentimento
religioso, pit che non l’aspetto tecnicamente teologico e le singole fasi
della disputa?. A un ambito di intervento laico sono infatti
riconducibili le voci di Jemolo che, pur esprimendo un giudizio
severo sul carattere malevolo o petsecutore del liberalismo
ottocentesco che « non tollera i conventi, vuol spogliare la Chiesa dei
suoi beni e sottometterne tutta la vita a un re- gime di polizia »
(Chiesa), forni un’interpretazione del Ga/-licanismo che lo espose a interventi
censori, Gentile a Jemolo (AEI, Lettere, Jemolo). 34 Lamentandosi
con la direzione per le varianti apportate alla sua voce, il 22 giugno
1932 Jemolo osservava che « a mio avviso non risponde al vero nascondere
la decadenza del gallicanismo nel settecento, e dargli parte prevalente
in quel complesso fatto europeo che fu la soppressione della Compagnia di
Gesti » (ibidem). E la decadenza del gallicanismo è riaffermata nella
voce. cercò di distinguere aspetti religiosi e aspetti politico-cultu-
rali nella valutazione della Controriforma: Chi da un punto di vista
strettamente religioso instauri raffronti tra lo spirito dei primi secoli
del cristianesimo, quello della cristia- nità medievale, e quello della
controriforma, potrà pur non preferire quest’ultima età alle due precedenti. Ma
è certo che la contro- riforma ebbe, accanto alle sue pagine sanguinose,
pagine bellissime segnate dal rapido miglioramento del costume cattolico;
fu una ricca sorgente d’iniziative religiose, di opere di carità e
d’intraprese culturali, che a quasi quattro secoli di distanza sono
ancora lungi dall’esaurirsi; soprattutto diede alla Chiesa un’intima
struttura che, da quasi quattrocento anni, si palesa sempre meglio adatta
a difen- derla contro ogni tentativo, esterno e interno, di
disgregazione, contro ogni influenza perturbatrice che miri a deviarla dal suo
cam- mino. Complesso e articolato appare anche il giudizio
di Pin- cherle sulla Riforzz4, che su un piano religioso è « in
asso- luta antitesi » con la teologia umanistica — nulla più della
libera critica è alieno dallo spirito di un Lutero »; Lutero è « un uomo
nettamente di tipo medievale —, mentre sul piano della storia politica e
culturale essa « preannuncia veramente il mondo moderno » perché
raf- forza l’assolutismo dei principi e costituisce, con il calvi-
nismo, « il mondo ideale entro cui nacque e si sviluppò lo spirito
capitalistico e, pertanto, il capitalismo moderno ». E assai distante da
toni apologetici e dogmatici si dimostra Pincherle — accomunato da «
Civiltà cattolica » a Omodeo come ugualmente « di sensi non cattolici—
nella voce Cristianesimo, in cui giudica con simpatia l’opera dello
storicismo che aveva considerato il cristianesimo come fatto storico,
osservando che « la mentalità storicistica ha nello stesso tempo distolto
lo scienziato dall’identificare senz'altro il cosiddetto “cristianesimo
di Ges” con quello praticato nel seno della sua particolare confessione e
dal giudicare e condannare dogmaticamente; in questo stesso Busnelli],
aMussolini si lamentò che alla voce Cristianesimo fossero dedicate solo 3
pagine, contro le 66 di Cotone (appunto ms., s.d., in ACS, Segreteria
particolare del Duce, Carteggio riservato, senso agiva il nuovo clima
culturale, con la larga diffusione delle idee di tolleranza e di libertà
religiosa ». Accanto a questi interventi, il tentativo di Gentile
di salvaguardare la pretesa di obiettività dell’Enciclopedia è
ravvisabile anche nella suddivisione di alcune delle voci maggiori tra
autori cattolici da un lato, laici o attualisti dal- l’altro: è il caso
ad esempio di Dio, dove la dottrina cattolica è esposta dal gesuita
Giuseppe Filograssi mentre « Dio nelle varie concezioni filosofiche » è
opera di Banfi — per il quale « la pit totalitaria trasposizione in senso
razionale dell’idea di Dio è quella compiuta da Hegel, per cui Dio è il
processo eterno in cui l’idea — come prin- cipio razionale del mondo —
giunge a coscienza della sua assoluta universalità e autonomia —; e di
Religione (1936) in cui il gesuita Enrico Rosa analizza il «
concetto cattolico » che « raccoglie in sintesi, integra e chiarisce
gli elementi di verità che si possono trovare sparsamente con- fusi
anche nei concetti pagani o eterodossi », e Gentile in persona ne esamina
l’aspetto filosofico per affermare la « universalità e indefettibilità
della religione » — « la ne- cessità e l'universalità della religione
sono la più efficace convalidazione del suo valore, e cioè della sua
verità » — e per ribadire, contro materialisti e mistici, che «
l’uomo che non si può concepire senza concepire Dio è l’uomo che
attua l’esperienza della sua umanità, realizzando nella vita spirituale
quella coscienza di sé ond’egli in fatti si distingue dalle cose ».
Significativa è, già nel primo volume, anche la voce Agostino — il santo
al quale saranno dedicati vari studi — riservata all’agostiniano Casamassa
per la vita e le opere (e « La Civiltà cattolica » si esprimeva
positivamente per questa parte), ad Guzzo per lo « sviluppo del
pensiero » e ad Alberto Pincherle per la critica e le edi- zioni. Su di
essa si soffermava la « Rivista di filo- sofia », che coglieva la «
notevole sproporzione tra la parte che riguarda la vita e le opere
(esattissima di certo, ma utile solo allo specialista) estesissima, e
quella che riguarda il pensiero e le controversie critiche sui testi
agostiniani, di interesse più universale, ma molto più breve, e
soprattutto alquanto disordinata e incompleta ». Dopo aver notato che la
voce iniziava con la « strana dizione » « Agostino Aure- lio, santo »,
l’autore dell’articolo sosteneva che « manca del tutto la filosofia di
Agostino, come manca la considera- zione filosofica della teologia
agostiniana », e accusava di illecita lettura attualistica un passo in
cui Guzzo affermava che nel De vera religione « si legge quel celebre
appello: Noli foras ire; in te redi, in interiore bomine habitat
veritas (De vera religione), che non sarà più dimenticato né dalla
mistica medievale e moderna, né da quante filosofie, nell’età moderna e
contemporanea, riterranno di dover ri- chiamare l’uomo dalla dispersione
del mondo esterno al rac- coglimento dell’analisi interiore ». Accusa non
immotivata, se pensiamo che anche in Pedagogia Codignola, trattando
di Agostino, riprenderà lo stesso concetto, che Gentile stesso aveva
contribuito a diffondere: L’intuizione religiosa della filiazione
divina, approfondendosi e interiorizzandosi, diventa in Agostino un
concetto speculativo, la prima affermazione filosofico-teologica della
soggettività e immanenza del vero, con cui il cristianesimo tentava di
svincolarsi, anche nel- l'ambito della speculazione, dall’antinomia che
aveva alimentato lo scetticismo del tardo pensiero classico: ineliminabile
individualità di ogni atto di conoscenza, ultra-individuale oggettività
del vero. Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore bomine habitat
veritas. Un’interpretazione alla quale la « Rivista di filosofia
» poteva opporre che « per Agostino la veritas presente all’io è
Dio stesso, oggetto rel soggetto, mentre ciò è alieno essen- zialmente
dalla dottrina idealistica. Tuttavia, nonostante questi accorgimenti, Gentile
non poté impedire che nell’Enciclopedia fosse assai marcata
l'impronta del cattolicesimo ortodosso e che, addirittura, in alcune voci
i cattolici operassero un forte ridimensiona- mento, o una critica
aperta, del neoidealismo italiano. Gemelli, dopo aver definito la Neoscolastica
la restaurazione del pensiero medievale nell’ambito della ci- viltà
moderna, considerando il pensiero medievale non Firenzi, Note
sulla storia della filosofia medioevale, in « Rivista di filosofia »,
come espressione transitoria di una civiltà, ma, quanto alla sostanza,
come definitiva conquista della ragione umana nel campo della metafisica
», ne accentuava il carattere antiidea- listico: « La restaurazione
scolastica doveva in Italia affer- marsi non tanto in relazione al
positivismo, quanto in rela- zione all’idealismo, che in Italia maturava
con Croce e con Gentile. Ne sarà criticata la metafisica
(immanenti- stica) e accettata invece quella valorizzazione della
storia, che è caratteristica dell’idealismo stesso: non però come
filosofia, sibbene come storia. Niccoli difendeva il Modernismo contro i
suoi critici, in primo luogo i rappresentanti di quella « filosofia che,
negando possa conoscersi un reale fuori dell’uomo e del pensiero,
non solo si è iscritta in falso contro quelli che erano stati in passato
i cardini di ogni metafisica, ma ha scrollato le basi stesse della fede
religiosa; e l’allievo di Buonaiuti cercava di rafforzare la sua difesa
opponendo il movimento modernista al socialismo e all’idealismo:
Chi avesse accettato come dati di fatto incontrovertibili i risul-
tati negativi ai quali la critica storica, filosofica e sociale affermava
di essere giunta, non poteva avere che due alternative: o ripudiare
net- tamente tutto il patrimonio religioso cattolico e cristiano, sia
affermando di contro ai valori cristiani i nuovi valori sociali, sia
conside rando il cristianesimo e il fatto religioso in genere come un
momento ormai superato della vita dello spirito (fu questo in sostanza il
punto di vista difeso dall’idealismo italiano); o affermare che il
cattolicesimo si raccomanda a valori più alti, non toccati dai colpi
portati dalla critica moderna all’interpretazione scolastica del
cattolicesimo e quindi costruire su di essi una nuova apologetica, che
mantenesse al cattolicesimo la sua efficacia fra gli uomini. E fu questo
l’atteggiamento assunto dal movimento modernista. Nel complesso, e
tenuto conto di alcune assenze signi- ficative — come Clericalismo, che
Carlo Morandi non accettò, o Laicismo, voce che è invece presente, a firma
di Maturi, nel Dizionario di politica —, si comprende quindi la
soddisfazione dimostrata per il settore religioso Cfr. la lettera
di Morandi (AEI, Lettere, Morandi). da « Civiltà cattolica » quando
pit forte era l’influenza di Gentile e di Omodeo, e, per converso,
la preoccupazione di « Vita nova » del gentiliano Giuseppe Saitta
che, prendendo spunto dalla critica della voce Adazzo di Ricciotti,
allargava il discorso per lamentare « la intrusione nell’Enciclopedia di
questa pseudo-scienza teologica. I gesuiti sanno troppo bene a che cosa
mirano, e qual forma ed estensione assumerà, nel loro campo, la sezione
di materie ecclesia- stiche. La Bibbia intera e specialmente il Nuovo
Testamento, le ori- gini del cristianesimo, la storia dei dogmi e della
Chiesa, anzi dell: Chiese, tutto vi dovrà essere mostrato e rappresentato
dal punto di vista cosiddetto cattolico, cioè teologico, in contrasto e
negazione con la vera scienza storica del cristianesimo, quale si insegna
nelle nostre scuole universitarie. È la teologia esclusa dalle
università definitivamente con la legge del Concordato, che rientra, come
unica scienza della religione, nella nostra coltura nazionale.
L’Enciclo- pedia avrebbe tutelato meglio i diritti della scienza e quelli
della nazione, rimanendo italiana, come è il titolo semplicemente,
senza resumer di voler anch’essere cattolica nel senso della
Civiltà cattolica. Le voci di carattere propriamente religioso, oggi svolte con
dif- fusione anche eccessiva, potevano ridursi al puro necessario; ed
entra quei limiti, avrebbero dovuto essere redatte da un punto di
vista. EE scientifico, evitando di accettare i presupposti della teologia.
Non solo i timori di « Vita nova » non erano infondati,. come abbiamo
visto, ma possiamo supporre che molte altre sezioni, oltre quelle
direttamente interessate alle que- stioni religiose, furono oggetto del
controllo ecclesiastico. « Per la Questione Romana informati — scriveva
Maturi a Morghen —, perché la mia polizia segreta mi ha avvertito:
che essa con tutto il gruppo di voci romane è stata sottratta. alla
giurisdizione della sezione storica. E Nicolini
scriveva a Gentile, a proposito della voce Giannone, che si sarebbe posto
da Anche Gemelli notava nel 1930 che Gentile « ha chiamato a
colla- borare all’Enciclopedia studiosi cattolici ed ha affidato loro la
trattazione di delicati problemi religiosi » (L'Università cattolica e
l’idealismo, in Idee e battaglie, cit., p. 391). . Rensis,
Ancora dell’Enciclopedia Italiana, in «Vita nova. AEI, Lettere, Maturi.
un punto di vista che non potrà piacere al certo a chi, nell’Enciclo-
pedia, soprintende alle materie ecclesiastiche. Se dunque mi si promette
formalmente piena libertà di parola, e sopra tutto che la mia prosa,
quale che essa sia, non sarà riveduta, corretta o attenuata in senso
clericale, sono prontissimo a fare l’articolo. Ma se codesta promessa
formale non mi può essere fatta e mantenuta, anziché sotto- pormi
all’alea di trovare (come accadde a Omodeo) stravolto e muti- lato il mio
pensiero, preferisco rinunziare a scrivere l’articolo. Tu, che mi conosci,
sai bene che non sono uomo da porti nell’imbarazzo facendo
dell’anticlericalismo intempestivo. Ma, alla fin dei conti, debbo pur
dire pane al pane e vino al vino, e presentare il Giannone quale egli fu,
cioè quale un martire dell’anticurialismo. Non posso elogiare l'agguato
di Vesnà come un’azione pulita o l’imposta abiura e la dodicenne prigionia come
atti di carità cristiana Questi
propositi non sembrano tuttavia essersi tradotti in pratica nella stesura
della voce, dove le ultime vicissitu- dini di Giannone sono presentate in
maniera anodina e, pur riconoscendo che l’Istoria civile del Regno di
Napoli è stata per decenni la « bibbia dell’anticurialismo » — « un anti-curialismo
lontano, nella lettera, dall’eterodossia, ma già volterriano nello
spirito » —, si coglie in essa una « astratta e fantastica configurazione
dello stato come bene assoluto, progresso, civiltà, forza generosa, e
della chiesa come male, regresso, oscurantismo, malizia frodolenta ».
Analogamente nella voce Romana questione Maturi, pur valutando
assai positivamente la Legge delle guarentigie, concludeva l’esame dei
rapporti tra Stato italiano e Chiesa elogiando i patti:
Mussolini coronava con un concordato la sua nuova politica ecclesiastica, con
l’ininzio della quale aveva scompigliato le file del partito popolare e
assorbito nel fascismo il cattolicesimo nazionale; d’altra parte, nella
politica estera egli tolse all’Italia una passività diplo- matica. Da
parte della Chiesa il riconoscimento dello stato nazionale italiano
s’inquadra nel riconoscimento di molti stati nazionali europei avvenuto
coi concordati postbellici. Dove sono ripresi alcuni dei giudizi
più favorevoli di parte fascista — anche per Volpe i patti erano
tesi, per il fascismo, a « togliere una non piccola causa di nostra
debo- AEI, Lettere, Nicolini. lezza internazionale —, senza
tuttavia i timori, pur assai diffusi, che lo Stato potesse abdicare al
suo spirito laico. I patti lateranensi dovettero del resto
riflettersi pesan- temente sull’Enciclopedia, rafforzando il controllo
ecclesia- stico e arrivando fino a minacciare l’esistenza di
singole voci: Angelo Sraffa, che curava con Mariano D’Amelio la
sottosezione « Diritto privato », giunse infatti a proporre la
soppressione della voce Divorzio, già in bozze, perché era «cosa
estremamente delicata trattarla oggi a parte, date le interferenze con
l'annullamento del matrimo- nio, che è diventato di fondamentale
importanza di fronte al trattato del Laterano, ed alla estensione che
dinanzi ai Tribunali ecclesiastici l'annullamento sta prendendo. La sua
proposta non fu accolta e la voce rimase, a soste- nere però la
particolarità dell’ordinamento italiano e a rico- noscere che « gli
stessi contrattualisti a oltranza », cioè quanti erano favorevoli al
divorzio, « compresi della serietà delle contrarie obiezioni, sono
d’accordo nel ridurre a un piccolo numero di casi la facoltà di ricorrere
al divorzio. Dove non arrivò il diretto intervento ecclesiastico — padre
Gemelli non scrisse la voce Psicanalisi, che si era offerto di fare e che a sua
firma apparirà invece nel Dizionario di politica (« Distruttiva della
religione, della quale nega ogni valore, nel dominio politico la
psicoanalisi orienta le sue speranze verso il comunismo ») —, giunsero
puntuali le critiche dell’organo dei gesuiti. Carlo Brica- relli,
collaboratore della sezione artistica dell’Enciclopedia, intervenne
sull’esposizione dell’arte medievale e moderna fatta in Arte da Schlosser,
al quale Gentile aveva suggerito di « parlare dell’arte come conseguenza
di bisogni materiali e spirituali delle varie fasi di civiltà, e quindi
dei compiti e delle forme dell’arte in relazione alle mutate condizioni
sociali, similmente, in un certo senso, a quanto ha fatto il Dvorak nel
suo saggio sull’idealismo e Volpe, Il patto di S. Giovanni în
Laterano, in « Gerarchia), ora in Pagine risorgimentali, Roma, Volpe, SRAFFA
(si veda) a Spirito (AEFI, Lettere, Sraffa). naturalismo nell’arte
gotica » **. « La tendenza di tutto ridurre all’umano, e nell’opera della
Chiesa interpretare ogni cosa a uso d’intenti terreni propri, oppure a
lei impo- sti per forza, è un altro preconcetto che turba anzi
scon- volge addirittura il giudizio storico », osservava Bricarelli
appuntando la sua critica, fra l’altro, su di un passo in cui Schlosser
affermava che la crisi di questo cristianesimo primitivo cominciò
nel secolo IV col suo riconoscimento ufficiale come religione di stato,
sotto la forma universale del « cattolicismo ». L’al di qua reclamava
oramai i suoi diritti. Il vecchio Impero, divenuto cristiano, rivestito
di tutta la pompa della sua missione divina e di tutto il suo fasto,
nella sua qualità di potenza protettrice della Chiesa, determinò anche il
con- tenuto iconografico dell’arte che si rivela nei fastosi musaici
parietali delle grandi basiliche post-costantiniane Cosî Busnelli
criticava il giudizio su Leonardo dello storico della medicina Giuseppe
Favaro — secondo il quale « di fronte alla rigida concezione
teologica dell’origine del mondo, Leonardo non si peritava di confutare
il racconto biblico della genesi, la storia della terra creata da seimila
anni e la leggenda del diluvio universale —, sostenendo invece che « la fede e
dottrina cattolica di Leonardo è fuori d’ogni dubbio e accusa, chi voglia
scandagliarne senza preconcetti le espressioni »; e, passando a esaminare
la parte della voce su Leonardo ‘filosofo — che Gentile considerava
figlio dell’umanesimo e negava fosse un antesignano della filosofia
sperimentale, perché in lui « il pensiero comincia dall’esperienza, ma
per affrancarsene e tornare alla ragione » —, Busnelli affermava che in
Leo- nardo l’appello all’esperienza sensibile era il frutto
dell’in- segnamento dei peripatetici e degli scolastici, e che «la
ragione che infusamente vive nella natura, come attuante la sua
efficacia, non è, conforme alla dottrina dell’Aquinate, Gentile a
Schlosser, (AEI, Lettere, Schlosser). La voce era introdotta da una parte
redatta da Gentile (su cui cfr. le osser- vazioni di Croce in «La Critica
», Bricarelli, L'arte nell’Enciclopedia Treccani, in «La Civiltà
cattolica », la ragione umana, ma la
divina. Infine « La Civiltà cattolica », affermando recisamente che «
ogni altra pedagogia, fuori della cattolica, è ampiamente divergente
e dispersiva nei sistemi fino alla confusione babelica, e nei
metodi è angusta, ristretta ed unilaterale », criticava che nella voce
Pedagogia Codignola avesse interpretato ideali- sticamente, come
evolutiva, la pedagogia cristiana, e all’uni- tarietà di questa opponeva
la « babilonia di antitesi e con- trasti, di ideali e sistemi »,
imperante nel campo idealistico esaltato da Codignola, per il quale le
opere di Gentile sul- l'educazione, « accanto a quelle del Croce sui
problemi del- l'estetica e della storiografia, segnano il culmine cui si
è sol- levata la speculazione contemporanea » *”. La durezza del-
l’attacco, e l’ampiezza della difesa di Codignola compren- dente Croce,
non necessaria per l'argomento trattato, pos- sono forse spiegarsi con la
condanna da parte del S. Uf- ficio, avvenuta l’anno precedente, delle
opere di Croce e di Gentile. Un documento anonimo osserva come, secondo
gli ambienti ecclesiastici, obiettivo princi- pale da colpire fosse
Gentile: Si nota che la condanna in ordine cronologico è stata fatta
prima per la opera del noto antifascista Croce, per poter poi
giustificare anche la condanna delle opere del Gentile. Si aggiunge che
oramai era inutile la condanna del Croce [...], cui la gioventii italiana
è ben lungi dal ricorrere come un tempo, come ad un oracolo
indiscutibile. Oggi la gioventù italiana ha altro da fare e, c’è da
scommettere, che moltissimi giovani, delle classi più acerbe ignorano
l’uomo, o, se non l’uomo, almeno la quasi totalità delle sue opere. Anche
questa volta la Chiesa, volendo colpire uno — cioè il Gentile — è
andata alla ricerca di un cadavere per poter avere un alibi, nel quale
nessuno crede. Pi grave è la condanna di Giovanni Gentile, che in
qualche centro è giudicata come una mossa contro le teoriche accettate
dallo Stato fascista. Si indica come il principale postilatore di questa
con- danna padre Gemelli Busnelli, Leonardo da Vinci nel vol. XX dell’«
Enciclopedia italiana », in « La Civiltà cattolica Barbera], Intorso dl concetto della pedagogia
cattolica, in « La Civiltà cattolica », ACS, Segreteria particolare del
Duce, Carteggio riservato. Anche «Giustizia e Libertà », dopo aver individuato
in padre Gemelli l’ispiratore della condanna di Gentile, aggiungeva: «
biso- Molte osservazioni potrebbero farsi a questi giudizi,
riprendendo le notazioni di Gramsci sulla diversa « popo- larità » delle
filosofie di Croce e di Gentile. Appare proba- bile comunque che la
condanna del 1934 colpisse più dura- mente Gentile, che in qualche caso
aveva cercato un ac- cordo con i cattolici, coronando l’indebolimento della
sua posizione interna al fascismo iniziato nel 1929. Consape- vole
di questo fatto — di cui gli scontri avvenuti nell’Enci- clopedia erano
stati una riprova —, nel 1936 Gentile con- cludeva un articolo su
L’ideale della cultura e l’Italia pre- sente mettendo in guardia contro
il « pericolo [...] che può derivare dalla restaurazione religiosa
desiderata e promossa dal fascismo come corroboratrice della coscienza
civile e delle morali istituzioni. Restaurazione, che in massima
parte non poteva essere che un ritorno alle tradizioni cattoliche
del popolo italiano, col rischio di riassoggettare la cultura nazionale a
forme praticistiche e meccaniche d’una religio- sità esteriore, e a
conseguenti limitazioni dell’interna libertà spirituale, dalle quali
gl’italiani avevan durato secoli a ri- scattarsi. gna vendicarsi e
fingere l’equità: sono messi all’Indice i libri non di Gentile soltanto
ma anche di Croce. Croce sorride e Gentile si spaventa » (Preti e
fascisti. Gentile, Mezzorie italiane e problemi della filosofia e della
vita. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo La
parola, veicolo di « fraternità universale » « Né ferro, né
piombo, né fuoco / posson salvare la Li- bertà, / ma la parola soltanto.
/ Questa il tiranno spegne per prima, / ma il silenzio dei morti /
rimbomba nel cuore dei vivi »!. Cosî scrive , fra tante altre «
epigrafi » messe a suggello della propria vita e a testimonianza degli
ideali che l’avevano ispirata, Angelo Fortunato Formiggini, lucidamente
deciso a chiudere con un sacrificio personale che servisse a « dimostrare
l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti » — come scriveva alla
moglie? — un’esistenza dedicata a perseguire, primo fra tutti, l’ideale
della fratellanza universale attraverso la forza di convinzione della
parola. Se la stampa del regime mantenne il più rigoroso silenzio sul
suicidio dell’editore modenese, gettatosi dall’alto della Ghirlandina il
29 no- vembre 1938, impedendo cosî che Formiggini potesse rag-
giungere lo scopo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle
leggi razziali, il suo gesto fu sottolineato dagli ambienti
dell’antifascismo, non solo ebraico, che ne dettero l’annuncio: « Molti
italiani d’Italia, costretti pur- troppo a mantenere l’incognito, amici e
ammiratori di A. F. Formiggini Maestro Editore annunciano, straziati ma
fieri, il Suo sublime sacrificio. Questo annuncio non ha potuto
comparire sui giornali italiani, ove le leggi razziste impediscono persino di
dar notizia dei decessi degli ebrei ». E Giustizia e Libertà » annunciava in
una corrispondenza dall’Italia l’atto di protesta di Formiggini,
Formiggini, Parole în libertà, Roma, Edizioni Roma, ricordando che egli «
non era mai stato un conformista » e che « ogni suo piano, tendente alla
difesa e alla elevazione della cultura italiana, aveva trovato nel
fascismo una oppo- sizione aperta o una resistenza insidiosa. E ai «
posteri », « perché gli orrori e le iniquità di oggi non abbiano a
rinnovarsi mai più nel più lontano avvenire », Formiggini volle lasciare
in eredità alcune sue Parole in libertà, testa- menti spirituali
indirizzati ai familiari, ai concittadini modenesi, agli « ebrei d’Italia » e
al tiranno in persona, tutti ispirati, più che da una chiara presa di
coscienza politica, da una fede quasi religiosa nell’amore fra tutti gli
uomini, secondo quella visione del mondo che egli aveva condensato nel
motto arzor et labor vitast. Fra i « testamenti possiamo annoverare
an- che il bilancio del suo lavoro editoriale, Trenta anni dopo,
che, seppur scritto pensando alla pubblicazione, è signifi- cativamente
considerato dall’autore il suo « canto del ci- gno », steso « a giuoco finito
», quando un motivo di spe- ranza può essere visto solo « al di là della
tormenta ». Ac- canto alla testimonianza delle proprie idee non poteva
man- care quella della propria fatica, in un uomo in cui la scelta
dell’attività editoriale si era saldata fin dall’inizio con il perseguimento di
obiettivi che non esiteremmo a definire etici prima ancora che culturali
o politici, ma tali da divenire punto di riferimento di indirizzi di
pensiero determinati ‘. A scrivere il bilancio dei trenta anni
della casa editri- ce — e di sessanta anni della sua vita Formiggini
aveva pensato da tempo, fornendo via via parziali anticipazioni. Convinto
che anche « lo scrit- 3 L'editore Formiggini si uccide a Modena
per protestare contro il razzismo, in « Giustizia e Libertà (e, per l’annuncio
di morte); cfr. anche Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il
fascismo, Torino, Einaudi] censura fascista colpirà con particolare
accanimento la produzione dell’editore modenese ed anche i libri della
Biblioteca circolante da lui fondata a Roma, di cui qualche volume è
escluso dalla lettura per motivi politici — come il Capitale —; ma si
atrivò perfino a impedire la diffusione di molti testi dei « Classici del
ridere », come il Decamerone, o L'arte di amare di Ovidio (come si ricava
dall’esemplare, conservato in BNF, della terza edizione del Catalogo
della biblioteca circolante Formiggini, Roma, Formiggini, Formiggini: un editore tra socialismo e
fascismo tore più mediocre e più oscuro farà sempre cosa
interes- sante scrivendo la propria autobiografia, specie se
questa, anziché circoscriversi a fatti puramente personali (che
avrebbero pur sempre un interesse umano e psicologico) si innesterà nella
storia viva del suo tempo » era stato spinto dal contrasto con Gentile a
scrivere « una parte dell’opera » in un curioso volume che, oltre a
pre- sentarci alcune fra le più interessanti iniziative
dell’editore e il suo carattere caustico seppur non intransigente, costi-
tuisce un efficace documento della « marcia » del fascismo alla conquista
delle istituzioni culturali: « da quando ini- ziai la mia attività
editoriale — scriveva proprio allora Formiggini — non ho mancato di
raccogliere materiale per una autobiografia che avrebbe dovuto riuscire
qualche cosa di mezzo fra le Memorie di un editore di Gaspero
Barbèra e il Catalogo ragionato delle edizioni Barbèra, fusi insie-
me » i. Nel modello indicato — e al quale Formiggini cercherà
di mantenersi fedele in Trenta anni dopo come già in un pre- cedente, più
conciso bilancio della sua attività editoriale — non vi era certo la
presunzione di avere svolto un’opera di promozione della cultura
nazionale paragonabile a quella dei maggiori editori ottocenteschi, da
Vieusseux a Pomba, da Barbèra a Le Monnier, ma pur sempre la consapevolezza
di aver reso un « servizio » alla cultura del proprio paese, e di essere
fra i pochi editori del suo tempo che, come i « grandi » dell’ottocento,
riunissero nella propria persona le qualità dell’imprenditore e del
principale animatore delle iniziative culturali della casa editrice.
Quello che fu carat- terizzato, poco dopo aver tratteggiato i primi
venticinque anni della sua attività, come « un editore che scrive »
7, non avrebbe condiviso l’opinione di un Luigi Russo, che Formiggini,
La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo. Libro
edificante e sollazzevole, Roma, Formiggini, Formiggini, Venticinque anni dopo.,
seconda edizione con prefazione di Giulio Bertoni, Roma, Formig- gini, .
Costantino, Smorfe e sorrisi. Scritti critici, Catania, Casa del libro,
di una casa editrice non si fa storia. Da uomo « positivo » che vuole
documentare il duro e contrastato lavoro da lui compiuto, Formiggini ci
ha lasciato con i Trenta anni dopo una testimonianza d’eccezione, la cui
lettura può risultare utile non solo per precisare il giudizio sulla
cultura italiana del primo novecento — alla luce anche di vicende
indivi- duali minori —, ma anche per riproporre il problema della
storia delle case editrici, spesso disattesa perché considerata una
classificazione forzata di prodotti culturali il cui marchio di fabbrica » sarebbe dato solo dalla
collocazione intel- lettuale dei singoli autori, uniti o in maniera
casuale o da vincoli ideologici tanto stretti da vanificarne le
differenze. Ma, come è stato giustamente osservato, proprio per-
ché luogo organizzato d’incontro di più generi di colla- boratori, e di
più fattori e interessi, una casa editrice di tipo ancora tradizionale rispecchia
orientamenti e programmi di gruppi di intellettuali che verificano sul
piano dell’azione pubblica la loro consistenza, e dichiarano tutti
i loro sottintesi nel punto in cui, mettendo in circolazione strumenti
concreti come libri e riviste, si scontrano con poteri reali, economici e
politici, in situazioni di fatto, per modificarle (o per accettarle e
conservarle). Per questo la responsabilità di una casa editrice di cultura,
a qualsiasi livello essa operi, è grandissima. Inserita in un tessuto sociale
ed economico definito, è legata ad ambienti e istituti di istruzione, e
di ricerca, per attingervi, ma anche per reagire su di essi, in una trama di
rapporti la cui dialettica è necessario mettere in luce quando si voglia
ricostruire il corso degli eventi di un determinato periodo storico » 5.
È un campo, questo, per il quale assai scarse sono le nostre
conoscenze, e non solo per la difficoltà a scendere concreta- mente su un
terreno per tanti versi accidentato. In realtà, se in linea di massima
può essere accettato il giudizio di Russo, che significato e valore di
una casa editrice sono con- segnati nei suoi cataloghi, e che in alcuni
casi, come in Garin, Un capitolo di rilievo singolare, in 50 anni
di attività editoriale (Venezia Firenze): La Nuova Italia, Firenze,
La Nuova Italia, Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo
quello della Laterza, se ne può seguire la storia ripercor- rendo
l’opera di organizzazione della cultura sviluppata da una personalità
come Croce, è da respingere quel pregiu- dizio idealistico che,
considerando il processo storico come germinazione di idee da idee o
proclamando in astratto la separazione tra cultura e politica — fino a
vedere la « pro- pria » produzione culturale come un sistema chiuso e
per- fetto, per cui la storia reale può confondersi con una « cri-
tica di se stessi — esclude dall’oggetto privilegiato del suo interesse
le istituzioni culturali. Non è un caso che proprio un’analisi che
— come oggi si comincia a fare — abbia al suo centro il tema
dell’orga- nizzazione della cultura e della sua diffusione, permette
di articolare meglio nei tempi e nei modi, per quanto riguarda il
novecento, il giudizio che il neoidealismo italiano dette di sé, e che
ritroviamo facilmente ripetuto come un canone interpretativo indiscusso
’, sulla rottura netta da esso ope- rata all’inizio del secolo nei
confronti delle « vecchie correnti di pensiero, e sul suo deciso trionfo che
non avrebbe lasciato spazio ad alcuna « sacca di resistenza » che non
si ponesse in termini di superamento dell’idealismo stesso. In
realtà ci sembra estremamente valida, tanto più ove la si riferisca non
solo alla cultura di élite, ma anche al più vasto e intricato substrato
ideale che percorre nei primi decenni di questo secolo tutti i settori
della cultura ita- liana — riflettendo la « disgregazione sociale » del
paese e, insieme, le contraddizioni o le resistenze che accompa-
gnano la « rifondazione » dell’egemonia borghese —, l’os- servazione di
Garin, per il quale una delle deformazioni prospettiche più
diffuse, e più dannose per un’esatta comprensione delle vicende culturali
italiane di questo secolo, è quella che proietta alle origini il
risultato di una battaglia — non solo « ideale » — che si concluse, almeno in
una sua fase, intorno agli anni venti, dopo la prima guerra mondiale,
con l’ascesa del fascismo. L’egemonia idealistica, piuttosto gentiliana
che crociana, non era affatto affermata, e tanto meno scontata,
prima della guerra libica. Solo se
ci si liberi fino in fondo dell’eredità 9 Cosî ancora A. Asor
Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1 del
provvidenzialismo idealistico, col suo trionfalismo storiografico, sarà
possibile evitare l’appiattimento uniforme di posizioni contra- stanti, e
insieme una polemica sterile, forse interessata soltanto a simmetrici
rovesciamenti !°, Per il periodo che dalla « svolta » del nuovo
secolo arriva al fascismo le vicende delle case editrici, anche di
quelle minori o comunque non in grado di « rappresentare un intero
movimento d’idee » — come appariva a Gobetti la Treves, « simbolo [...]
di tutta la vuotezza italiana per il suo « eclettismo positivistico di cosî
lunga e infausta durata e memoria » !" —, possono costituire una
guida assai utile per disaggregare e ricomporre una trama culturale
complessa, per stabilire accostamenti o distinzioni ideali o politiche
altrimenti non sempre evidenti o per valutare la capacità di penetrazione
e di orientamento di correnti di pensiero — non necessariamente lineari —
in un pubblico colto che proprio nell’età giolittiana cresce enormemente
e in parte si rinnova diversificandosi dal punto di vista sociale, con
l’apparizione sulla scena di una « opinione pubblica » alla quale si
richiede sempre più un consenso agli obiettivi politici perseguiti dalla
classe dirigente. Aumentano per numero e tiratura i quotidiani, ci si
rivolge a un più vasto pubblico popolare attraverso la scuola, i corsi
organizzati dalle università popolari o le biblioteche circolanti, ma si
assiste anche all’espandersi di una « classe media colta » che desidera
legittimare sul piano culturale il peso politico cui aspira, o al
tentativo della borghesia di affinare gli strumenti del suo dominio. Fra
questi piani diversi esistono connessioni e influenze, nel quadro di
una lotta per l’egemonia che vede un’ampia mobilitazione di forze;
ed è ora, dopo la « crisi » di fine secolo e la « svolta » giolittiana,
che alle case editrici accademiche e a quelle di orientamento « popolare
» o dichiaratamente socialista — come Sonzogno e Nerbini !! — se ne
affiancano nuove e pi Garin, Intellettuali italiani, Roma, Editori
Riuniti. Gobetti, La cultura e gli editori, in Scritti storici, letterari
e filosofici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi. Cfr.Tortorelli, Una casa
editrice socialista nell'età giolittiana: agguerrite, il cui interlocutore
privilegiato è un pubblico colto e medio-colto in grado di acquistare
libri e riviste: da Laterza a Ricciardi a Rizzoli a Mondadori a Vallecchi
editore di « Lacerba ». In assenza di ricerche specifiche si
comprende quindi l’importanza di testimonianze come quella di
Formiggini che illustra, anche se solo parzialmente, le vicende di
una casa editrice fondata negli stessi anni in cui videro la luce
altre destinate ad acquistare un peso ben maggiore, ma allora di
dimensioni ancora ridotte. L’unico testo a cui si possa in qualche modo
avvicinare sono i Ricordi e idee di un editore vivente scritti da
Vallecchi, che tuttavia, pur trovando concordanze significative
nella difesa di una cultura italiana intesa come strumento di «
rinnovamento nazionale », ripercorre lo stesso arco cronologico con l’ottica
del protagonista precursore vittorioso dell’ideologia fascista in cui
l’editore fiorentino si vanta di aver contribuito a convogliare
nazionalisti, sindacalisti rivo- luzionari, futuristi, vociani,
cattolici. Secondo il proposito dell’autore, i Trenta anni dopo
si presentano invece come una sorta di catalogo ragionato, in cui
la personalità dell’editore è ridotta al minimo, e, a differenza del pamphlet,
restano sullo sfondo anche i « tempi » in cui ha operato: spentasi la
carica polemica di quindici anni prima suscitata dalle vicende della
Leonardo e che si era manifestata in feroci attacchi antiattualisti
(con alcuni spunti antifascisti), escluse espressamente le testimo-
nianze morali che Formiggini veniva consegnando ai suoi scritti privati,
nel volume non appaiono nemmeno —- se non incidentalmente — i nomi dei «
numi tutelari » della cultura italiana del primo novecento. Accanto
alla difficoltà, ma anche al rifiuto di prendere nettamente posi-
zione !, in questo silenzio si riflettono, più che i risultati di una
parabola politica, alcuni limiti di fondo di un editore la
Nerbini, in « Movimento operaio e socialista », Una testimonianza in questo
senso in Trevisani, Le fucine dei libri. Gli editori italiani, Bologna,
Barulli. che i contemporanei — Prezzolini in testa! — giudica- rono non
tanto un uomo di cultura quanto un grande arti giano e propagandista del
libro, e che per primo amava presentarsi come il sostenitore dei valori
universali di una « cultura » senza ulteriori determinazioni, quasi al di
sopra della mischia, ideale morale e religioso, più che politico. «
Riconosco di avere avuto certe qualità che sono essen- ziali per
rappresentare efficacemente un indirizzo, un pen- siero, per portare
nella fucina intellettuale del paese un non inutile soffio di ossigeno »,
scrive Formiggini, ma sa- rebbe vano cercare di identificare questo
indirizzo nell’am- bito della classificazione usuale delle correnti
culturali ita- liane all’inizio del secolo. Per comprendere cosa
questo fosse concretamente, o come fosse possibile che determi-
nati indirizzi di pensiero, spesso confusi e intersecantisi tra loro,
confluissero e si riconoscessero nella sua casa editrice, bisogna risalire
ancora una volta ai motivi ispiratori della sua vita. « Il libro mi
apparve allora, e mi è apparso poi sempre — scrive ricordando gli inizi
della sua attività —, il vincolo delle intese, il vincolo del parallelo
cammino verso mete elevate e concordi. Questa mia fede di fraternità
universale, alla quale s’ispirò fin dagli inizi la mia attività
editoriale, era già trionfante nel mio animo fin dalla prima giovinezza »
5, ed era una fede religiosamente sentita, se teneva a riaffermare —
ponendo a coronamento della sua fatica la collana delle « Apologie delle
religioni » — che suo intento era stato « non di insidiare le fedi
senti- tamente professate, ma soltanto di divulgare l’intima essenza
delle varie religioni, per affrettare quel mutuo rispetto e quella mutua
comprensione fra gli uomini che condurranno l’umanità a
quell’affratellamento universale che fu il car- dine massimo della
dottrina del Cristo e che mi ostino a credere che sia la più alta e la
più benefica di tutte le aspi- Prezzolini, La cultura italiana,
Milano, Corbaccio. Formiggini « ha particolarmente sviluppato, oltre le sue
collezioni, il lato direi tecnico della propaganda libraria. Formiggini,
Trenta anni dopo. Storia di una casa editrice, Amatrice, Formiggini,
razioni umane » !. Ma questo ideale di fratellanza non dovette essere poi
tanto anonimo o neutrale, se nel periodo che dall’affermarsi del
neoidealismo e dalla nascita de « La Voce » arriva fino al fascismo e
alla « dittatura » gentiliana la casa editrice Formiggini poté
rappresentare — riunendo soprattutto quanti nell’idealismo non si
riconoscevano — un capitolo significativo e abbastanza determinato, anche
se minore, della cultura italiana. Nato a Modena, dove
contrasse affetti e amicizie che — come quella con il futuro
ministro della giustizia di Mussolini, Solmi — lo accompagneranno nei
successivi spostamenti della casa editrice, da Bologna a Modena, quindi a
Genova e infine a Roma, Formiggini apparteneva a una famiglia ebraica di
cui molti rami erano cattolici da genera- zioni remote; e in questa
origine è forse da ricercarsi uno dei motivi della sua insistenza sulla
necessaria unità tra ariani e semiti e sul tema della fratellanza
universale. In gioventi aveva compiuto indagini di storia delle
religioni, le quali — ricorderà con parole certo immodeste, ma che
testimoniano di un clima culturale intensamente vissuto — mi portarono ad
affermare, su dati puramente giuridici ed etici, quella identità di
origine degli ariani e dei semiti che l'Ascoli aveva già riconosciuto
nello stretto campo della filologia e che gli scritti del Delitzsch, in
Germania, sei anni dopo di me, con grande autorità confermarono. Il
suo interesse per questo campo di studi è infatti attestato dalla
tesi di laurea in legge discussa a Modena, dal titolo programmatico (La
donna nella Thorà in raffronto col Mandva-Dbarma-Séstra. Contributo
storico-giuridico ad un riavvicinamento tra la razza ariana e la semita),
e da un intervento del 1902 nel quale Formiggini lamentava l’as-
senza nel nostro paese di un « insegnamento critico » delle religioni
nonostante gli sforzi di Gaetano Negri, David Ca- stelli, Raffaele
Mariano, Alessandro Chiappelli e, soprat- tutto, di Baldassarre Labanca,
pur avvertendo che il desi- Formiggini, Parole in libertà, Formiggini,
Parole in libertà, derio di una ripresa degli studi storico-religiosi non
deve essere interpretato come l’efflorescenza di un sentimento
nostalgico verso un passato mistico per me e per altri molti ‘ormai
superato. Richiamandosi cosî alla concretezza degli ideali terreni —
aliena, più che in uomini a lui vicini, come Buonaiuti o Quadrotta, da
asce- tismi medievali e da ogni forma di spiritualismo —, Formig-
gini seguîf con interesse quel parziale sviluppo di una scienza delle
religioni che si ebbe in Italia fra la fine dell’ottocento e l’inizio del
nuovo secolo, ad opera inizial- mente di studiosi non cattolici e sulla
base di quella identificazione fra idee teologiche e religiose e pensieroche
divenne « tradizionale negli studi storici italiani dai tempi del Tocco e
del Labanca in poi. Frequentando i corsi di lettere e filosofia
dell’università di Roma (conseguirà poi la seconda laurea in
filosofia morale a Bologna), Formiggini e infatti attento soprattutto
alle lezioni di storia del cristianesimo di Labanca, critico di ogni dogmatismo
e — almeno nelle intenzioni — del misticismo, in nome di un Dio concepito
come ragione e coscienza. Meno avvertibile risulta la traccia
dell’insegnamento romano di Labriola, anche se proprio alla
trascri- zione di Formiggini dobbiamo la conoscenza del suo corso
di filosofia della storia Sul materialismo sto- rico, e se fu proprio il
futuro editore a portare il saluto degli universitari italiani alla salma
del « buon Maestro La coltura religiosa in Italia, Modena, Forghieri e
Pellequi, Cantimori, Storici e storia, Torino, Einaudi; un ‘accenno ai
legami di Formiggini con Labanca e Quadrotta in P. Scoppola, Crisi
modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna, il Mulino, Cfr.
le notazioni di G. Gentile, Storia della filosofia italiana, a cura di E.
Garin, Firenze, Sansoni, «Tu, buon Maestro, ti servivi della mia voce per
trasmettere il tuo pensiero alla scuola » (« Corda Fratres Allieva di
Labriola fu anche la moglie di Formiggini, Emilia Santa- maria, la cui
tesi di laurea su Le idee pedagogiche di Leone Tolstoi fu pubblicata nel
1904 da Laterza con una breve prefazione di Labriola (ora in Labriola,
Scritti politici, a cura di V. Gerratana, Bari, Laterza, A.F. Formiggini:
un editore tra socialismo e fascismo suoi « maestri »
dell’università di Roma dovettero comun- que contribuire a rinsaldare
quello spirito democratico — di matrice, ripetiamo, pit etico-religiosa
che politica — al quale è improntata l’attività svolta da Formiggini, come
console e poi presidente della sezione ita- liana dell’associazione
internazionale studentesca Corda Fratres, di stampo radical-massonico,
che si proponeva di raggiungere amore e fratellanza fra tutti i popoli e
le classi prescindendo dalla politica ”. All’interno
dell’associazione Formiggini si batté infatti contro le tendenze che ne
inter- pretavano le finalità in chiave nazionalistica, sviluppando
le sue convinzioni soprattutto a proposito del movimento sionista: «
secondo me, e vorrei che cosî fosse — scrive a commento del sesto congresso
sionista di Basilea —, molti di quelli che in Italia hanno aderito al sionismo,
non furono spinti dal sentimento di solidarietà di razza, ma da quello
molto più ampio e liberale di solidarietà umana. Per costoro non
dovrebbero aderire al sionismo gli ebrei soltanto, ma anche tutti quelli
che hanno il pensiero sufficientemente evoluto per riconoscere che ad
ogni uomo, indipendentemente dalla razza cui appartenga e dalla
fede che professi, deve esser riconosciuto il diritto alla vita ed
alla dignità umana » ?. Concetti che saranno letteralmente ripresi per
negare ogni fondamento all’antisemiti- smo, che avrebbe potuto essere
meglio combattuto e vinto ove il sionismo fosse rimasto una corrente
umanitaria, senza trasformarsi in un movimento nazionalista inteso a «
ricostruire la potenza politica d’Israele. Questo ideale etico-umanitario
veniva ribadito da Formiggini, assieme a preoccupazioni per l’insorgere delle
cor- renti irrazionalistiche e idealiste, in una recensione a L’anarchia del modenese Ettore Zoccoli nella
quale, dopo aver condiviso il giudizio dell’autore sulle « teorie
immo- rali e antigiuridiche » degli anarchici, lo rimproverava di
Non era ancora un'associazione puramente « corpotativa », come
apparirà negli anni venti a Giorgio Amendola (Una scelta di vita, Milano,
Rizzoli). Corda Fratres Formiggini, Parole in libertà, non aver
mostrato « la efficacia, per quanto indiretta e non voluta, che ha avuto
l’anarchia per sospingere l’umanità verso un’era di giustizia sociale, di
libertà politica e religiosa e di universale affratellamento », e
aggiungeva: Dobbiamo ad ogni modo auguratci che la crisi che sta
attraver- sando il pensiero filosofico contemporaneo, il quale, mosso
appunto dalla preoccupazione etica, si è già annunciato come una vivace
rea- zione contro la filosofia della seconda metà del secolo XIX, si
possa risolvere, non in un ritorno a forme mistiche, la cui inconsistenza
è già stata provata dall’esperienza storica, ma in una confortante e
serena consacrazione di una morale intesa come necessità imprescin-
dibile della vita: necessità non d’ordine logico né d’ordine fisico, ma
però tale da avere rispetto alla vita delle coscienze: quello stesso
imperio assoluto che hanno le necessità logiche per il pensiero e le
necessità fisiche per tutto l’ordine meraviglioso della natura Dove sono
espressi sinteticamente non solo la conce- zione ottimistica del
progresso e l’ideale di conciliazione di quei « positivisti in crisi »
che graviteranno attorno alla casa editrice di Formiggini, ma anche il
senso di un assedio che si andava stringendo da parte degli idealisti.
Ben diverso, quasi contrapposto, era il giudizio sull'opera di Zoccoli
formulato da Croce, che la considerava moralistica (mentre una teoria
filosofica sarà esatta o sbagliata, ma non mai morale o immorale ») e, da
osservatore apparentemente distaccato, ne traeva spunto per notare
nell’affermarsi di tendenze sindacaliste rivoluzionarie contro il
riformismo socialista l’influenza dell’anarchismo, che forse, considerato
nel suo insieme, giova a mante- nere quel sentimento di scissione tra il
proletariato e la borghesia, che i teorici del sindacalismo stimano
indispen- sabile al progresso sociale » ; lo stesso Croce che in un
momento decisivo dello scontro col positivismo, bandiva dal vocabolario di «
coloro i quali anelano a un risveglio della filosofia e della cultura,
salutare alla patria italiana », i termini di « tolleranza » e «
temperan- za », sinonimo, quest’ultimo, di « debolezza, incapacità
di 3 « Rivista italiana di sociologia, La Critica », Formiggini:
un editore tra socialismo e fascismo sintesi, tendenza alla
combinazione e conciliazione estrin- seca, che porta ad affermare cose
tra loro ripugnanti, ha paura delle opinioni della gente volgare, cerca
di non sve- gliare opposizioni, e rifugge dai partiti che richiedono
riso- lutezza e responsabilità Positivisti, modernisti, socialisti
La fisionomia alla quale la casa editrice rimarrà sem- pre fedele
venne definendosi nel giro di pochi anni, tanto che Serra, tracciando i
caratteri distin- tivi dei due editori-tipo italiani, Laterza e Treves,
espres- sione il primo del « libro di cultura » e, il secondo, di
quello di bella letteratura, ma con la tendenza sempre più marcata «
a entrar nel campo della cultura », poteva anno- verare in quest’ultima
categoria le edizioni Formiggini, di cui metteva in evidenza le «
intenzioni brillanti » e « un certo decoro » ”. Notevole
rilievo ebbero infatti anche le collane lette- rarie, significative di
una scelta e di un gusto: i « Poeti ita- liani » si apre nel 1910 con le
Odi di Massimo Bontempelli — uno degli autori pi cari a Formiggini, fino
alla rottura —, proprio in quell’anno schieratosi nella « polemica
carducciana » con Ettore Romagnoli con- tro Croce e Prezzolini in difesa
della critica di tipo lettera- rio contro quella di impianto filosofico,
e annovera altri poeti che inseguono il modello del « grande artiere »
di Carducci con accenti tenui ed eleganti, come Francesco Chiesa,
Francesco Pastonchi e Severino Ferrari (ma c’è anche Pirandello, che
ritornerà con Liolà); e grandissima fortuna ebbero i « Classici del
ridere » — cui Formiggini af- fiancò la raccolta « Casa del ridere » — ”,
che raccogliendo Croce, Il risveglio filosofico e la cultura
italiana, in Cultura e vita morale, Bari, Laterza, Serra, Le lettere, in
Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. Isnenghi, Torino,
Einaudi, Cfr. Bontempelleide, con interventi di Formiggini e Fernando Pa.
lazzi, in «L’Italia che scrive, Cfr. gli interventi di E. Manzini ed E. Milano
in Formiggini testi italiani e stranieri, riflettono l’utopistica
speranza del- l’editore che l’« universale fusione di spiriti che deve
essere la meta costante di ogni più alta manifestazione di civiltà,
sarà affrettata di altrettanto di quanto l’affrettarono la mac- china a
vapore e il telegrafo » ®. L’impronta culturale e ci- vile della casa
editrice è data tuttavia dal largo spazio accor- dato ad argomenti
filosofici, pedagogici e religiosi, con un orientamento che, se
difficilmente può essere definito in positivo, può essere considerato
schematicamente come espressione di gruppi non-idealisti.
Positivisti e modernisti di varie venature, e spesso di
orientamento politico socialista e socialisteggiante, contrad- distinsero
le origini della casa editrice, che continuerà ad annoverarli tra i suoi
collaboratori anche quando le convin- zioni di alcuni si vennero
modificando sensibilmente (ma altri si aggiunsero, come Giuseppe Rensi e
Adriano Tilgher, nel momento del loro distacco dall’idealismo). I nomi
di Achille Loria e Alessandro Levi, di Emilia Formiggini San-
tamaria e Giuseppe Tarozzi, di Ernesto Buonaiuti e Felice Momigliano,
ricorrono con frequenza, anche per l’intero trentennio di vita delle
edizioni Formiggini, a conferma di una scelta e di una adesione non
casuali. Sui gruppi positivisti di questi anni, di filosofi e
peda- gogisti in particolare, come sui vari filoni modernisti e sui
loro esiti, sono state scritte pagine illuminanti che hanno colto gli
itinerari di ciascuno sotto l'impatto del neoidealismo. Restano tuttavia da
verificare le convergenze e le alleanze che, contro lo stesso nemico, si
stabilirono tra cor- renti e uomini per vari aspetti spesso culturalmente
e politi- camente diversi e distanti, e che videro seguaci di Ardigò,
neokantiani e fautori di un rinnovamento della chiesa — laici e
religiosi, mistici e razionalisti — confluire insieme a combattere per la
loro sopravvivenza, uniti solo, nel co- mune disorientamento, da condanne
idealiste o pontificie. Editore. Mostra documentaria, Modena,
S.T.EM. Mucchi, Formiggini, Trenta anni dopo, cit., Garin, Cronache
di filosofia Sialiona Bari, Laterza, Formiggini: un editore tra
socialismo e fascismo Di questi e altri accostamenti, come quello
tra socialismo e religione in cui si impegnarono ad esempio Alfredo
Poggi e Felice Momigliano, sono documento evidente proprio le
edizioni Formiggini. E forse a molti collaboratori della casa editrice
può essere esteso il giudizio che è stato espresso per Momigliano: «
Profetismo, Mazzini, socialismo rima- sero per Felice tre nozioni
difficilmente separabili. La purificazione dell’ebraismo, il rinnovamento
spirituale d’Italia e lo stabilimento della giustizia sociale in Europa
erano nella sua mente tre aspetti di un problema solo. Un vivo
senso della nazionalità e un vago socialismo sconfinante nel populismo borghese
e inteso come prosecuzione della democrazia risorgimentale sono infatti
le caratteristi-. che di uno dei più assidui collaboratori di Formiggini,
Ales- sandro Levi *, e si ritrovano in molte delle iniziative del-
l’editore modenese. Nelle collane di saggistica si possono comunque
individuare tre filoni principali di interesse: quello religioso, pre-
sente ovunque ma che per un certo periodo ebbe il suo posto privilegiato
nella « Biblioteca di varia coltura » dove usci il Mosé e i libri mosaici
dell’ex prete moderni- sta Salvatori Minocchi — in questo momento
convinto che « il futuro cristianesimo ha da cercarsi nelle vie del
socialismo —; quello pedagogico, che
vide l’intervento assi- duo di Emilia Formiggini Santamaria con studi
storici è didattici ispirati alle teorie di Fròbel ed ebbe un punto
di riferimento costante — non quando. fu pubblicata dall’editore
modenese — nella « Rivista pe- dagogica », l’organo dell’Associazione
nazionale per gli studi pedagogici fondato nel 1908 da Luigi Credaro e
che, Momigliano, Momigliano, ora in Terzo contri- buto alla
storia degli studi classici e del mondo antico, Roma, Edizioni di storia
e letteratura, Poggi cfr. Socialismo e religione. Modena, Formiggini,
1911, e, sull’autore, la voce di M. Torrini in F. Andreucci - T. Detti,
Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori Riuniti,Cfr.
le osservazioni di Piero Treves nel numero speciale di « Cri- tica
sociale » dedicato a Levi Cit. da A. Agnoletto, Minocchi, vita e opera;
Brescia, Morcelliana, seppur influenzato dall’herbartismo del futuro
ministro della pubblica istruzione, fu aperto ai collaboratori delle
più varie tendenze (da Colozza a Calò, da Varisco alla Formig- gini
Santamaria) *. Il terzo filone, e forse il più significativo perché
comune denominatore anche degli altri, fu rappre- sentato da un generico
interesse per i temi filosofici, mu- tuato dalla Società filosofica
italiana e dalla « Rivista di filosofia » attenta, del resto, anche alle problematiche
reli- giose e pedagogiche. L’inizio dell’attività di
Formiggini è infatti stretta- mente connesso con la fase di
riorganizzazione della Società filosofica italiana, di orientamento
prevalentemente (anche se vagamente) positivista, apertasi — in
concomitanza con l’intensificarsi del programma culturale di Croce e di
Gentile attorno alla casa editrice Laterza — con il congresso di Parma
della società. In questa sede fu deliberata — in vista di « una degna
affermazione dell’atti- vità filosofica italiana » al terzo congresso
internazionale di filosofia di Heidelberg — la preparazione di quel
Saggio di una bibliografia filosofica italiana che, compilato da
Ales- sandro Levi con la collaborazione di Bernardino Varisco e,
per la parte pedagogica, di Emilia Formiggini Santamaria, apparve nel
1908 per i tipi di Formiggini e fu giudicato da Gentile la prima
manifestazione di « qualche cosa di con- creto e di utile agli studi di
filosofia » da parte della Società filosofica ’. Il Saggio inaugurò la «
Biblioteca di filosofia e di pedagogia » che accolse, oltre agli atti dei
congressi della società, scritti della Formiggini Santamaria, I/
materialismo storico in Federico Engels di Rodolfo Mondolfo — di cui
è possibile cogliere l'origine tormentata nelle lettere dell’au-
tore all’editore * —, e altri testi in cui l'impronta antiidea- Cfr.
D. Bertoni Jovine, La scuola italiana, Roma, Editori Riuniti, « La
Critica » Attendo presentemente a un lavoro su La filosofia del comunismo
critico. Una parte di questo, I/ materialismo dialettico e il
materialismo storico di F. Engels spero averla pronta entro brevissimo
tempo », scrive Mondolfo proponendone la pubblicazione. Ma ancora confessava:
« La parte che ancora rimane per il termine del lavoro io l’avevo molto
tempo addietro abbozzata e in Formiggini: un editore tra
socialismo e fascismo lista è, almeno prima della guerra, ben
documentabile. Se meno precisamente definibile è la posizione di
Ludovico Limentani, assertore del metodo positivo ma aperto alle
istanze idealistiche, che pubblica due volumi (I presupposti formali
dell'indagine etica del 1913, e La morale della simpatia) in cui, come in tutta
la sua opera, è filosofi- camente argomentato e approfondito l’ideale
stesso di Formiggini, in quanto l’autore fa l’« esaltazione, sul piano
poli- tico-sociale, del diritto ad esistere di ogni spinta ideale,
che scenda a collaborare sul piano della concreta discussione con
le altre idealità » *; assai netta è, nel 1913, la posizione di Erminio
Troilo, seguace del pensiero ardigoiano e uno dei più continui
collaboratori della casa editrice, che pre- sentando le Pagine scelte di
Ardigò lancia un violento atto d’accusa contro idealisti e pragmatisti,
in una difesa patetica di quella cultura positivista che stava
scomparendo: « Sin- ceramente, — scriveva — chi scorra senza spirito di
parte o di setta e senza quel vanissimo orgoglio di superfiloso-
fismo che è oggi venuto di moda, e che infuria, talora con veri accessi
di epilessia metafisica e pit spesso con inqua- lificabile volgarità,
specialmente, si capisce, contro il posi- tivismo, le pagine che il
Gentile e l’Orano, il Papini e, ultimo venuto, il De Ruggiero hanno,
bontà loro, dedicato a Roberto Ardigò, dovrà convenire che non mai
parzialità e superficialità, trivialità e accanimento hanno intessuto
una trama di più fatue leggerezze e di più dolorose malizie,
intorno ad un uomo e ad un pensatore che ha pur il diritto di vivere e di
pensare; mentre quei critici stessi si svociano parte stesa in una
forma però che, essendo stato poi da me modificato tutto il piano del
lavoro, non può più affatto andare. È dunque da rifar da capo bisogna che
torni a rivivere il mio tema ». Finalmente 1°11 ottobre dello stesso anno
poteva annunciare: «Ho scritto l’ultima car- tella »; ma i dubbi non
erano finiti, se, approfittando della necessità di cambiare il
frontespizio del volume per il trasferimento dell'editore da Modena a
Genova, Mondolfo suggeriva di togliere dal titolo « Il materialismo
dialettico lasciando le parole « Il materialismo storico, che
costituiscono la parte più importante e interessante del titolo. Archivio
editoriale Formiggini presso la Biblioteca Estense di Modena [d”ora in
avanti AF], Mondolfo Garin, I/ pensiero di Ludovico Limentani, in « Rivista di
filosofia. In/ e si sbracciano ad osannare i
pretenziosi ma altrettanto inconcludenti fra professori e conferenzieri
di marca tedesca e anglo-americana, e francese, i cui nomi sono ormai
sulle bocche di tutti; o i più ciarlatani, tipo Sorel; o pit
insulsi tra gli affiliati nostrani della congrega hegelianoide Fuori
collana apparvero altri testi filosofici, di particolare rilievo i primi
due volumi degli Scritti di Michaelstidter; non andò in porto, invece, la
pro- posta di Levi di pubblicare gli scritti di Vailati, avanzata
subito dopo la morte di questi. Questi contributi erano il frutto
di un rapporto diretto con la « Rivista di filosofia, l’organo della
Società filosofica italiana, per i tipi di Formiggini, dalla fusione della «
Rivista di filosofia e scienze affini » di Giovanni Marchesini con la «
Rivista filosofica » fondata da Carlo Cantoni; e che non si trattasse di
un rap- porto puramente tecnico o commerciale, è dimostrato dalla
notevole consonanza di accenti tra la rivista e tutta l’atti- vità della
casa editrice. Non costituiamo una scuola; siamo una collezione d’uomini,
unit: dal comune amore della verità, ma che non abbiamo tutti lo
stesso concetto di quello che la verità sia Ma tutti siamo persuasi
che, per arrivare a conoscere la verità e a farla trionfare, la discussione seria de’
problemi, sotto ciascuno de’ loro aspetti, sia l’unico mezzo possibile:
un mezzo che, prima o poi, ci farà conseguire il fine desiderato £:
cosi dichiaravano nel 1909 i redattori della rivista criti- cando
il programma della « Rivista di filosofia neo-scola- stica » che si
diceva « espressione dei pensamenti di una scuola determinata ». Questo
vago « amore della verità » era il segno, più che della « temperanza »
combattuta da Croce e dai neoscolastici, di uno sbandamento e di una de-
bolezza di fondo, appena mascherati da un ottimismo inge- nuo e perdente,
data l’indeterminatezza del fine da
rag- Ardigò, Pagine scelte, a cura di E. Troilo, Genova,
Formiggini, PED 4 AF, « n di filosofia, Formiggini: un
editore tra socialismo e fascismo giungere: un « amore della
verità » tale non solo da provo- care il rapido manifestarsi di contrasti
interni alla redazione tra i due gruppi di Pavia e di Padova, ma anche da
permet- tere che già nel 1910 padre Gemelli venisse accolto fra i
membri della società. E tuttavia il programma dei fondatori, inteso a dare
all’Italia « una rivista autorevole aperta ugualmente a tutte le opinioni
e perciò adatta a chiarire le profonde ragioni ideali, da cui le scuole
filosofiche trag- gono origine », introduceva subito sintomatiche puntualiz-
zazioni: la patria nostra, risorta da cinquanta anni ad unità di
nazione, vuole rivendicare le alte tradizioni del suo pensiero che
informa tutta la cultura e la vita moderna. Infatti, dobbiamo
costantemente ricordare che naturalismo ed umanismo, i due atteggiamenti
fondamentali della speculazione euro- pea, sorgono ugualmente col
rinascere degli studii per opera del genio italiano, universale e
concreto; sicché tutta la filosofia posteriore può rannodarsi ai nomi di
Galileo e di Vico, che ne simboleggiano gli spiriti. Da
questi eroi tragga incitamento ed auspicio la nuova filosofia che deve
ravvivare l’opera e la coscienza ideale degli italiani! In realtà,
nonostante l’auspicio che sulle sue pagine « tutti gli indirizzi del
pensiero filosofico trovassero libera espressione » ‘, e i passi compiuti
in questo senso verso i circoli di filosofia di Roma e di Firenze di
tendenze preva- lentemente idealistiche *, la rivista diretta da Faggi,
Juval- ta, Levi, Marchesini, Vailati (sostituito dopo la morte da
Calderoni e Troilo), Valli e Varisco — ai quali si aggiun- geranno
in seguito Pastore e Buonaiuti— risultò voce di « positivisti » il cui
eclettismo trovò un limite di fronte all’idealismo. Ci sembra assai
valido — ed estensibile alla casa editrice — il giudizio di
Santino Caramella, per il quale la rivista accoglieva I due circoli
aderirono alla Società filosofica nel corso, ma quello di Firenze ritirò
la propria adesione tramite il suo segretario Giovanni Amendola: fra il
Circolo e la Società, dichia- rava, « non esiste affinità alcuna, né di
scopo, né di tendenze, né di me- todi d’azione » (« Rivista di filosofia
», I tutti, « dal neopositivismo del Troilo all’hegelismo del Losacco,
dal misticismo del Rensi al fichtismo del Til gher e del Ravà,
dall’ardigioianesimo al neokantismo — e chi più ne ha più ne metta, ogni
indirizzo poté salire in tri- buna. Ma non per questo cessava la
intolleranza verso gli intolleranti di questa amorfa tolleranza: il
Croce, Gentile restarono sempre i maligni avversari che avevano gua-
stato l’Eden filosofico: e specialmente i positivisti ebbero cura di non
lasciar mai spegnere il fuoco della battaglia » *. Possiamo aggiungere, a
integrazione del quadro solo in negativo fornito da Caramella,
l’esplicita connessione di in- teressi filosofici e religiosi — ne è
testimonianza anche l’in- gresso nella redazione di Buonaiuti, subito
impegnato a confutare sulle pagine della rivista la pretesa gentiliana
di individuare in Vico un precursore dell’attualismo 4 — e
l'insistenza sul « genio italiano » che, pur senza assumere fin
dall’inizio precisi connotati nazionalistici — come cer- cherà invece di
far intendere Troilo —, era indice di una chiusura nei confronti del
pensiero contem- poraneo non italiano. È un aspetto, questo,
che risalta con forza ove si con- frontino i « Classici della filosofia
moderna » che Croce iniziò per Laterza
con l’Enciclopedia di Hegel, e l’iniziativa formigginiana dei « Filosofi
italiani », la collezione promossa dalla Società filosofica italiana e diretta
da Felice Tocco. Le differenze, naturalmente, non sono segnate solo
da confini geografici, pur importanti. Il fatto è che, come riconosceva e
paventava la stessa « Rivista di filosofia » *, il programma crociano si
proponeva la valorizza- Caramella, Le riviste filosofiche italiane
nell'ultimo quarto di secolo, « La Cultura Buonaiuti, Il carattere
storico della filosofia italiana, in « Rivista di filosofia In « L'Italia
che scrive »Recensendo positivamente — per l’accesso diretto alle fonti
che offrivano — i « Classici della filosofia moderna », Michele Losacco
osser- vava: « È ben difficile «creare un movimento speculativo che lasci
tracce profonde, se l’ambiente in cui si lavora non è sufficientemente
preparato ad intenderlo; ne fu prova non dubbia l'indirizzo idealistico,
promosso a Napoli da Bertrando Spaventa, e che non trovò il meritato
seguito, perché si concentrò in alcuni pochi spiriti, solitari e
incompresi. Ora ogni nuovo Formiggini: un editore tra socialismo e
fascismo zione di una linea di pensiero che assegnava all’Italia
un ruolo centrale con Spaventa, De Sanctis, Labriola e Croce, ma
era tanto pi forte in quanto riproposta attraverso una determinata
lettura di Vico, di Kant e di Hegel, mentre Tocco si preoccupava di
riportare alla luce soprattutto la filosofia della Rinascita che è
nella maggior parte italiana, come italiano è quel movimento umanistico
che la promosse. E questo periodo cosi arruffato della speculazione, che
in mezzo al rifiorire della scienza e della medicina antica, in mezzo al
ripullulare dell’an- tica magia alchimia ed astrologia prepara l’avvento
della nuova scienza e della coscienza nuova, merita di essere studiato
. Ben diversa da quella di Croce e Gentile fu anche la
capacità di promozione della Società filosofica italiana: bastò la morte
di Tocco a impedire che avesse seguito, dopo i primi due volumi del De
rerum natura di Telesio curati da Vincenzo Spampanato la proposta
avan- zata in prima persona dall’editore modenese al terzo con-
gresso della società (Roma, ottobre 1909), e da questa assunta in proprio
con l’impegno del suo presidente di « dare ogni aiuto possibile », di «
raccogliere in una accu- ratissima edizione i testi critici dei maggiori
filosofi italiani, per rendere accessibili a tutti le opere meno
agevolmente ostili e più importanti per la storia del pensiero
nazio- nale » ”, e serio conato speculativo, come fu, per
esempio, quello della Rinascenza, presuppone sempre lo studio e il
riconoscimento delle migliori tradizioni filosofiche, e nazionali e
straniere, da cui deve trarre la ragion d’essere e l’ispirazione » («
Rivista di filosofia », Prefazione di Tocco al vol. I del De rerum natura di
Telesio (Mo- dena, Formiggini, Cfr. anche E. Garin, Per un'edizione dei
filosofi italiani, in « Bol- lettino della Società filosofica italiana Perché
la direzione dei « Filosofi italiani » fosse affidata a Tocco intervenne
Croce, come si ricava dalle sue lettere a Formiggini e dal suo commento
al congresso di Roma, in cui dichiarò « in piena liquidazione » il
positivismo (ora in Pagine sparse, Bari, Laterza, Contro le « fauci ingorde »
di Formiggini, che per l’edizione di Telesio avrebbe cumulato i
contributi finanziari del Comitato telesiano di Cosenza e dello Stato,
cfr. lo sfogo di Gentile nella lettera a Croce (G. Gentile, Lettere 4 Croce, a
cura di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni Gentile scriveva a Croce
degli « spropositi vergognosi » presenti nella prefazione di Spam- panato
Accanto a una cultura in varia misura positivista che si organizza sul
piano accademico che è proprio della « Rivista di filosofia » — e anche
su questo terreno sarebbe da valutare la « resistenza » opposta dai
positivisti al neo- idealismo, testimoniata dalle lagnanze ricorrenti
nelle let- tere di Croce, Gentile, Omodeo —, è da segnalare la «
vocazione » illuministica di questi gruppi a farsi educa- tori di masse
le più larghe possibili. Se l’idealismo incontrò forti limiti ad una sua
penetrazione o « traduzione » popo- lare, ciò non si dovette solo a sue
carenze originarie o éli- tari rifiuti, ma anche all’esistenza di una
cultura media o « popolare » resa impermeabile alla sua influenza da
prece- denti incrostazioni di segno diverso o contrario, depositate
lentamente — attraverso periodici, università popolari o certe collane,
non solo di istruzione tecnica o di lettera- tura d’appendice — ad opera
dei positivisti che avverti- vano « il dovere di divulgare tra il
“popolo” quella scienza che consideravano parte integrante della realtà
», fiduciosi « che individui appartenenti a ogni strato sociale
potessero rispondere al richiamo illuminante e liberatore della
verità, la stessa verità in cui essi credevano » " Alla
divulgazione erano appunto rivolti, come altre iniziative contemporanee e
sulle orme della « Biblioteca del popolo » di Sonzogno, i « Profili » di
Formiggini, nati nel 1909 con l’intento di soddisfare il più nobilmente
possi- bile alla esigenza caratteristica del nostro tempo, di voler
molto apprendere col minimo sforzo » *. E non a caso « Cri- tica sociale
» la giudica una « utilissima colle- zione » ®. Alla tendenza allora
predominante di dare una immagine del passato o del presente attraverso
singole figure di protagonisti — gli « eroi » di cui parlava la «
Rivi- sta di filosofia » nella sua pagina d’apertura, gli uomini
sim- boli di un’epoca su cui era costruita la prima storia del
Rosada, Le università popolari in Italia, Roma, Editori Riuniti, A.F.F
, Trenta anni dopo, cit., 53 V. Osimo, ‘arlo Porta, in « Critica
Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo socialismo
tentata da Angiolini e Ciacchi — si ispirarono numerose collezioni, la
più nota ed aulica di tutte, ma di breve durata, quella dei «
Contemporanei d’Italia » intrapresa da Ricciardi sotto la direzione di
Prezzolini; ma fu soprattutto Formiggini a preoccuparsi di divulgare
i suoi « Profili » attraverso le biblioteche popolari, « queste
istituzioni — scriveva presentando la collana — che stanno ora sorgendo e
moltiplicandosi e che saranno i focolai donde uscirà la dignità nuova e
la nuova fortuna della patria », rivolgendosi in particolare al mondo
della scuola*. E i « Profili » raggiunsero un pubblico per quei tempi
molto va- sto: uno dei primi titoli, il Ges di Labanca, di cui nel
1918 fu stampata la terza edizione, solo nella prima ebbe una tiratura di
2.500 copie Nel capitolo de Le lettere dedicato alla « critica letteraria
», Serra faceva un bilancio delle collane comprendenti « l’essaî
dedicato a una questione o a una figura », e annotava: Ne
abbiamo parecchie: i Profili, i Contemporanei, gli Uomini d’Italia, i
moderni, gli antichi e che so io. Ma o si sono arrestate, 0 han dato la
solita roba; conferenze da una parte, e dall’altra tesi e avanzi di corsi
scolastici, che non riescono a fare il libro. L’unica serie che va avanti
bene è quella dei Profili; appunto perché il suo modulo, anche
materialmente, modesto e facile da riempire, si im- pone alla personalità
degli autori con una certa economia necessaria di notizie e di disegno,
che non lascia posto a digressioni o erudi- zioni o analisi, come dicono,
originali. Potrebbe parere un difetto; ed è, tra noi, una fortuna. Senza
dire che anche in quei limiti si pos- sono ottenere cosette buone; per un
esempio, l’Esiodo del Setti o il Bodoni del Barbera *. La
mancanza di originalità di questa produzione non impediva tuttavia che
essa avesse un taglio preciso per gli autori o i biografati prescelti.
Anche se il criterio della % Illustrando sulla « Rivista di
filosofia » un suo progetto sull’istitu- zione di biblioteche per gli
studenti delle scuole medie, già accennato al congresso per le
biblioteche popolati di Roma nel dicembre 1908, Gio- vanni Crocioni
affermava: «Non vi mancheranno le opere d’arte, le vite di uomini
insigni, le edizioni popolari; vi troveranno, ad esempio, luogo opportuno
i Profili che il nostro coraggioso e geniale editore vien pub- blicando
con fine gusto di arteAF, Labanca. 5% Serra, competenza suggeri in
un primo tempo a Formiggini di rivolgersi a Croce e poi a Gentile per il
ritratto di Hegel, a Papini per quello di Sarpi o a Prezzolini per
Baretti — contatti che non ebbero poi esito positivo —, gli autori
dei Profili furono e rimarranno in maggioranza esponenti di ambienti
positivisti o modernisti, e spesso « toccati dal materialismo storico. Per i
personaggi-chiave, dove le « di- gressioni » erano pit facili e
significative, troviamo Achille Loria autore del Malthus — « uno dei più
ricer- cati della mia fortunata collezione », gli scriveva Formiggini —
che raggiunse la quarta edizione, dei ritratti di Marx e Ricardo; Tarozzi con
Rousseau, Ardigò e Socrate ed Troilo con TELESIO (si veda), Bruzo e Kaxt; Labanca
con Ges# di Nazareth, Momigliano con Tolstoi e Buonaiuti con una
lunga serie di ritratti: Sant'Agostino, San Girolamo, Sant'Ambrogio, AQUINO
(si veda), San Paolo, Gest il Cristo (che sostituî il profilo di Labanca)
e San Francesco; Barbagallo tracciò i profili di Giuliano l’Apostata e
Tiberio, mentre Concetto Marchesi delineò quelli di Marziale, Giovenale e
Petronio. Alcune, poche « concessioni » del periodo fascista
non alterarono le caratteristiche originarie della collezione, che
accanto alle figure principali della letteratura italiana e stra- niera
dava largo spazio — più di quanto ne concedessero la « Collana biografica
universale » delle edizioni Quattrini di Firenze o i « Pensatori celebri
» e i « Pensatori d’oggi » del- la milanese Athena — ad esponenti del
pensiero filosofico- scientifico (Telesio, Bruno, Galileo, Newton,
Lavoisier, Morgagni) e ai pensatori dell’ottocento cari alla
genealogia positivistica e socialista (Malthus, Darwin, Marx,
Lombro- so, Ardigò). Mentre per meglio esaltare la dottrina
di Darwin l’au- tore del suo ritratto, il naturalista Alberto Alberti,
rite- neva necessario fissare fin dall’inizio le fattezze del
biogra- AF, Loria. Formiggini: un editore tra socialismo e
fascismo fato (« cupola immensa il cranio. Dentro, un cervello
che come quello di Volta e forse come quello di Leonardo, non
pesava meno di due mila grammi), convinto, in base a un ingenuo
positivismo, che i tratti fisici giovano a far intendere come per la
larga, possente grandiosità del lavoro intellettuale compiuto da Darwin
ben occorresse anche una struttura fisica non diversa ma più vigorosa di
quella onde è congegnata la moltitudine degli uomini » *;
l’autorevo- lezza delle biografie di Malthus e di Marx è affidata al
loro autore, quell’Achille Loria tanto disprezzato da Labriola e da
Gramsci, ma che rimane pur sempre, come è stato sotto- lineato di
recente, « una figura rappresentativa dell’età del positivismo
evoluzionistico e del nascente movimento socia- lista » alla quale si
deve « la diffusione in Italia della no- zione di un’economia non
immutabile, non governata da leg- gi esterne, ma mossa dalla lotta delle
classi sociali e perciò suscettibile di evoluzione al di là dello stadio
proprietario e capitalistico » ”. I giudizi e gli accostamenti di Loria
non sono per questo meno disinvolti: la teoria della popola- zione
di Malthus, « sorta quale teoria di regresso », se « de- bitamente svolta
ed ampliata, si torce invece nella più radi- cale fra le teorie sociali.
Dacché essa insegna che il flutto incessante della popolazione è il
fermento irresistibile di distruzione delle forme sociali successive » 9;
invece Marx, nonostante la « grandiosità michelangiolesca » del suo
pen- siero, sta « di molto al disotto dei grandi maestri della
scienza positiva »: « Se invero è mirabile e enorme que- sttuomo — notava
Loria —, il quale riesce a contenere tutto un mondo fra le pieghe di un
semplicissimo principio iniziale, e la cui vita non è pi che lo sviluppo
di una equa- zione, che egli ha posta agli esordi — quanto più
onesto, più leale, più scientifico il procedere di Darwin, il quale
non pone principj aprioristici, ma accoglie senza preconcetti 5 A.
Alberti, Darwin, Modena, Formiggini, Faucci, Revisione del marxismo e teoria
economica della pro- prietà in Italia, Loria (e gli altri), in « Quaderni
fio- rentini, Loria, Malthus, Roma, Formiggini, i fenomeni nell’ordine di complessità
progressiva che la vita stessa gli affaccia! La storia italiana recente
era illustrata con un forte senso della nazionalità, accentuato dalla
grande guerra, ma con tonalità democratiche: al ritratto dei fratelli
Bandiera seguivano -16 quello di Abba, e un Cavour di Murri che —
presentato da una Lettera ai com- battenti del « capitano Formiggini »
come « una potentis- sima sintesi » non solo delle concezioni dello
statista pie- montese, « ma di tutte le correnti del pensiero
collettivo che portarono al trionfo della idea nazionale » — si
preoc- cupava di definire valore e limiti del realismo politico del
biografato per dare sbalzo alla fede mazziniana (« solleci- tando, con il
suo titanico ardimento, la storia ed i fatti, [Cavour] disperse, in
parte, quel tesoro di energie spiri- tuali che Mazzini aveva preparato
per pi lunga e pro- fonda e dolorosa opera Cavour ha avuto ragione
per il suo tempo, Mazzini torna ad aver ragione oggi.
Elemento caratteristico della collezione formigginiana resta
comunque l’ampio interesse per la storia religiosa, toccata sia
attraverso le figure di Ges, di Savonarola £ e dei santi, sia per inciso
nei profili degli imperatori romani che videro l’affermarsi del
cristianesimo o nel ritratto dedi- cato a Tolstoj da Felice Momigliano. «
Pi che l’editore, tu sei il critico degli autori tuoi », scrive Marchesi
a Formiggini *: e il rapporto dell’editore con gli autori di profili
religiosi si rivela particolarmente stretto e franco, come nel caso di
Labanca e di Buonaiuti; indice della sua diretta partecipazione è ad
esempio l’affettuoso rimpro- A, Loria, Marx, Genova, Formiggini, Murri,
Camillo di Cavour, Genova, Formiggini, Rispetto al giudizio minimizzatore di
cui sarà oggetto nell’Enciclo- pedia italiana, come abbiamo visto,
Savonarola era eroicizzato da Galletti come colui che «riconciliò la libertà
colla religione, ravvivò negli animi il sentimento cristiano offuscato o
pervertito, ordinò un governo libero e onesto sul fondamento della
dignità morale », dimo- strandosi, con tutto ciò, « veramente italiano »
(Savonarola, Roma, Formiggini, AF, Marchesi. Formiggini: un editore
tra socialismo e fascismo vero mosso a quest’ultimo, che aveva
sottolineato la con- tinuità tra ebraismo e cristianesimo:
Mi sono letto il profilo del Cristo — gli scrive, contemporaneamente all’uscita
di Gesz il Cristo di Buonaiuti,. un titolo che Labanca aveva
esplicitamente rifiutato per il suo Gesg di Nazareth — e ti confesso che
non mi è piaciuto e che non piacerà. Non è il profilo del Cristo rispetto
ai Farisei ma il profilo tuo ri- spetto a padre Gemelli e hai fatto senza
volere un’apologia del fari- seismo che non la meritava e hai fatto del
povero Cristo uno scoc- ciatore e tale forse non fu. Ho
rimorso di aver fatto un corno al povero mio maestro Baldas- sarre
Labanca, tu sai scrivere in modo meraviglioso, egli non sapeva scrivere
ma nel suo ruvido libretto c’era pur qualche cosa che restava. in tasca a
chi lo leggeva. Insomma se vieni ti parlerò di Dio, perché mi sento
di poterti dare qualche utile consiglio ©. Per la loro
destinazione e per lo stretto rapporto edi- tore-autori che rivelano, i «
Profili » risultano quindi una guida utilissima per seguire le tematiche
allora più largamen- te diffuse e gli orientamenti politici e culturali
della casa edi- trice: dal giudizio formulato da Felice Momigliano
su Tolstoj subito dopo la sua morte che corrisponde a una diffusa «
lettura » del romanziere e pensatore russo (« un distruttore ben pit
radicale di Marx » 4), a quello di FrLosini, che al presunto carattere
della rivoluzione d’ottobre — « suppellettile d’importazione »
senza radici nella tradizione russa — oppone l’ammoni- mento del suo
biografato, Turgenev, « a non prescindere: dalla nazionalità nella preparazione
dell'avvenire della Russia » ‘, fino ai mutamenti significativi che, da
un’edizione all’altra, possono registrarsi nello stesso profilo. Come
nel Telesio di Troilo, che nella prima edizione si conclude con il
rimprovero alla filosofia contemporanea di dare espressione al suo
antiintellettualismo ricorrendo al pragmatismo — che è solo « un getto,
un po’ morbido, del saldo profondo tronco antico » del « radicale empirismo
Buonaiuti. 6 F. Momigliano, Leone Tolstoi, Modena, Formiggini, Losini,
Ivan Turghenieff, Roma, Formiggini, presocratico » —, laddove nella seconda
edizione del 1924 termina affermando che vedere nel pensiero del
cosentino l’avvio del processo che sfocierà nella dialettica
trascenden- tale kantiana è « più legittimo che non fare di
Bernardino Telesio qualché di simile ad un idealista assoluto » £.
Anche in periodo fascista la collana cercò di mantenersi fedele
all’ideale di « equilibrio » e di « conciliazione » di Formiggini: e se
non mancarono concessioni alla retorica fascista, come nell’esaltazione
del ricostruttore dello Stato sabaudo, Filiberto, fatta da Silva, Levi
traccia un profilo di Roma- gnosi, il severo giudice dell’assolutismo il
quale nella Scienza delle costituzioni — ricordava Levi in pieno
re- gime — aveva affermato che « la luce del vero e del giusto
appartiene al genio onnipossente e beatificante della libertà, le tenebre
dell’ignoranza appartengono al dèmone della tirannia, d’onde sorge la
discordia e la distruzione degli Stati. Una cultura « al di sopra della
mischia » Il breve e tormentato periodo del dopoguerra, fino
al pieno affermarsi del fascismo, vide il massimo sviluppo del-
l’iniziativa di Formiggini, e il suo tentativo di allargare l’ambito di
intervento dall’editoria a più ambiziosi programmi di organizzazione della
cultura. Ma è proprio nel clima teso di questi anni, fortemente
condizionato dal nazionalismo e poi dal fascismo, che egli subirà la più
cocente delle sconfitte, la sconfitta di una utopia, di un ideale
non ancorato a un preciso orientamento politico. Il capitano Formiggini
aveva partecipato con entusiasmo alla guerra, «momento di doveroso lavoro
per tutti, ricorderà la moglie. Troilo, Bernardino Telesio, Modena,
Formiggini; seconda edizione, Roma, Formiggini, Levi, Romagnosi, Roma,
Formiggini, Formiggini Santamaria, La mia guerra, Roma, Formiggini, Formiggini:
un editore tra socialismo e fascismo E la guerra non fece che
rafforzare l’ideale di Formiggini di una « Europa nuova », « civile e fraterna
», fondata sulla « comunione di cultura tra i popoli, ma come
presupposto per la sua piena realizzazione si fece sempre pit frequente
in lui — come in tanti altri intellettuali di fronte alla prima grande vittoria
dello stato ita- liano — la rivendicazione dei valori nazionali e
patriottici (simboleggiati dai fregi classicheggianti di Adolfo De
Ka- rolis, già illustratore di « Leonardo » ed « Hermes, contro il quale
si scaglieranno in nome dello « spirito popola- resco » i giovani del «
Selvaggio »). L’insistenza su questi ultimi farà ben presto relegare in
secondo piano l’ideale originario, e si tradurrà in un servizio reso alle
forze che con maggiore coerenza puntavano ad una « riscossa nazio-
nale » della borghesia italiana. Un eclettismo culturale fiduciosamente
perseguito (ma di rado realizzato) e la man- canza di un netto
orientamento politico furono infatti i motivi della sostanziale debolezza
— nonostante i successi iniziali — delle ambiziose iniziative concepite
da Formig- gini al termine della guerra. Il suo sarà un destino
analogo a quello della « Rivista di filosofia », che si apriva con
un Programma di lavoro in cui Bernardino Varisco rin- correva l’ideale di
una suprema « armonia » tra gli stati le classi e le singole « culture »,
fino a incontrare, per la sua genericità, il consenso di quel Gentile ?
che poche pagine dopo, sulla stessa rivista, era duramente attaccato da
Buo- naiuti. Frutto del modo col quale Formiggini avverti le
lace- razioni prodotte dalla guerra in campo internazionale, e
della volontà di difendere e rafforzare anche sul piano spiri- tuale l’unità
nazionale pienamente conseguita sul terreno politico, sono il progetto,
poi non attuato, di una colle- zione italiana di classici greci e latini
— « i mostri classici Formiggini, Trenta anni dopo. Era una speranza
formulata confusamente anche da Troilo, che pur non tralasciava
l’occasione per lanciare una nuova accusa contro l’« idealismo assoluto,
una vera e propria Metafisica di guerra » (La conflagrazione. E storia
dello spirito contemporaneo, Roma, Formiggini, Cfr. G. Gentile, Guerra e fede, Napoli,
Ricciardi, per i quali doveva finire il « vassallaggio » nei confronti
della Germania” — e, soprattutto, il mensile « L’Italia che scrive »,
forse la creatura più cara a Formiggini. Uscito nell’aprile 1918, « agli
albori di una età nuova », il perio- dico nutriva, sotto le vesti di una
semplice rivista biblio- grafica, ambizioni culturali più ampie,
riproponendosi di « registrare nelle sue colonne un magnifico rifiorire
degli studi nel nostro paese e di farsene eco diligente e fedele, a
vantaggio di quanti, in Italia o fuori, apprezzano e vogliono conoscere
il lavoro intellettuale degli italiani » *. La strut- tura agile e
articolata che sarà presa a modello dal « Leo- nardo » e da « La Nuova
Italia » — editoriale, profilo di un contemporaneo, inchieste su
istituzioni culturali, recen- sioni, confidenze degli autori, spoglio di
libri e articoli per argomento, « libri da fare », eccetera — fece ben
presto affermare il mensile (che nei primi anni ebbe una tiratura
non inferiore alle 10.000 copie, giungendo a toccare le 30.000 ”) come un
esempio di quelle riviste-tipo che Gram- sci catalogherà nel genere «
critico-storico-bibliografico »: legata all’attualità e a carattere
divulgativo, rivolta a quel « lettore comune » al quale non basta dare «
concetti » storici, ma occorre fornire « serie intiere di fatti
specifici, molto individualizzati » ?. E proprio « Il grido del
popo- lo » segnalò la « vivace, varia » rivista di Formiggini — «
uno dei più giovani ed intelligenti industriali italiani del libro » —
come quella che « prometteva di diventare un ottimo ed utilissimo
strumento di cultura, quale in Italia non esisteva ancora, e la cui
mancanza era uno dei segni delle manchevolezze intellettuali del nostro
paese, della Formiggini, Trenta anni dopo Sulla funzione
attri- buita ai classici di « mantenere vivo il senso di continuità col
passato e nello stesso tempo contribuire a un compito di rinnovamento
nazionale », richiama l’attenzione A. La Penna a proposito di una
successiva iniziativa sansoniana (La Sansoni e gli studi sulle
letterature classiche in Italia, in AA.VV., Testimonianze per un
centenario. Contributi a una storia della cultura italiana, Firenze,
Sansoni, Formiggini, Trenta anni dopo, Formiggini, La ficozza filosofica del
fascismo, Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell'Istituto
Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, Formiggini: un editore tra
socialismo e fascismo poca diffusione dei libri e quindi delle
idee, della nostra spaventosa impreparazione spirituale » ”.
Prefiggendosi il compito di « armonizzar le varie cor- renti della
cultura nazionale » perché potessero concor- rere al fine comune della «
valorizzazione nel mondo del- l’attività intellettuale italiana »,
Formiggini sostenne anche nel momento della sua sconfitta che « un
giornale edito- riale nazionale non può essere che un giornale eclettico
», contro il consiglio di Ettore Romagnoli di « avere un par- tito,
essere con qualcuno o contro qualcuno » *. Ma, nono- stante
l’idealizzazione della capacità unificante di una « cul- tura » al di
sopra delle parti — nel marzo 1917 Formig- gini aveva offerto la
condirezione della rivista a Prezzolini che stava per assumere
un'iniziativa analoga, ma che rifiutò l'invito perché, rispondeva « le nostre concezioni differiscono
ancora troppo » ” —, le scelte de « L’Italia che scrive » furono fin
dall’inizio precise: pedagogia con Emilia Formiggini Santamaria e
filosofia con Tarozzi e Troilo, il quale dedica un ritratto ad
Ardigò in cui riafferma la « funzione storica, tutt'altro che esaurita,
del positivismo » con maggior convinzione di quanto non facesse nello
stesso momento sulle pagine della « Rivista di filosofia »; storia con
Pietro Silva autore di un commosso ritratto di Salvemini — « mazziniano
per l’alto idealismo che informa la sua propaganda, e per la sua fede nel
progressivo cammino dell’umanità verso la giustizia » ® —, con Barbagallo
che traccia i profili di Ferrero e di Ciccotti e informa sulla « Nuova rivista storica »
da lui diretta, Falco ed Michel.
Un largo spazio è accordato agli argo- menti scientifici trattati da Mieli,
Almagià, Timpanaro, Vacca, e
soprattutto ai problemi religiosi, ove l'intervento di Formiggini è
spesso « Il grido del popolo. A.F. FOGnIEziol, La ficozza filosofica del
fascismo, cdiretto ®, e di cui si occupano Turchi, Pincherle e con particolare
frequenza, fino al 1926, Ernesto Buonaiuti, autore di rassegne su riviste
di cultura religiosa e di inchieste su istituzioni culturali, di articoli
sul neoto- mismo o sull’insegnamento della religione nella « nuova
» scuola, e di recensioni tanto sferzanti da essere ri- chiamato
all'ordine dal direttore della rivista @. Ma è da notare anche, nel
settore politico-culturale, la presenza dell’antigentiliano Tilgher e di
un altro collaboratore de « Il Mondo » oltre che de « La Rivoluzione
liberale », Mario Ferrara, autore dei ri- tratti di Turati, Treves e
Salandra, e quella di Prezzolini, che si segnala per la tempestività dei
suoi interventi: nel maggio del 1920 illustra la grandezza di Croce e nel
dicembre del 1922 vede in Gentile il crea- tore della « filosofia delle
filosofie » e colui che « ha imme- desimato lo sviluppo della coscienza
nazionale con lo svi- luppo della speculazione nazionale » *. Ma questa
che For- miggini defini « l’apologia di Gentile che ha avuto più
larga eco in tutto il mondo » *, non salverà l’editore mode- nese
dall’attacco del nuovo ministro della pubblica istru- zione, verso il
quale la rivista aveva mantenuto fino ad allora un critico
distacco. 81 Presentando sul primo numero della rivista le
recensioni alle « di- scipline critico religiose », affermava: « poiché
la terribile prova spirituale che stiamo traversando impotrà, dopo la
bufera [della guerra], una revi- sione immancabile dei valori su cui era
poggiata la nostra vecchia vita etica, noi possiamo essere sicuri che le
indagini consacrate a rintracciare il corso storico della vita cristiana
nel mondo avranno una fioritura inspe- rata e diverranno fattore
notevolissimo di una coltura veramente nazio- nale » (« L'Italia che
scrive Formiggini faceva rilevare a
Buonaiuti che alcune sue recensioni « non rispondevano né per misura né
per intona- zione a quell’ideale sereno a cui vorrei che si ispirasse
“L’Italia che scrive”. Dovresti perciò, per non mettermi in un imbroglio
spirituale, recensire quelle opere che si riferiscono alla storia del
cristianesimo come scienza e tralasciare quelle che possono darti adito a
sfogare i tuoi senti- menti politici o la tua passionalità religiosa »
(AF, Buonaiuti). L'Italia che scrive Formiggini, La ficozza filosofica
del fascismo, Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo La
sconfitta di un'illusione e una tenue « resistenza » Il programma
de « L’Italia che scrive » di essere « specchio fedele della intellettualità
italiana » si scontrò infatti con l’« intolleranza » gentiliana quando
Formiggini cercò di fare della sua rivista il nucleo di un Istituto per
la diffu- sione della cultura italiana. I suoi propo- siti si erano
saldati con le prospettive nazionalistiche del sottosegretariato per la
propaganda all’estero e la stampa presieduto da Romeo Gallenga Stuart:
chiamato a far parte della commissione per la proganda del libro italiano
all’este- ro — nell’ambito della quale propose la pubblicazione di
Guide bibliografiche per materie dove uscirono, fra l’altro, la Geografia
di Roberto Almagià e i Narratori di Luigi Russo —, Formiggini stabili i
contatti politici necessari a lanciare un’impresa — l’Istituto per la
propaganda della cultura italiana, poi Fondazione Leonardo — che
doveva rappresentare « non l’ultimo atto dell’Italia in guerra, ma
il primo dell’Italia che dopo una lunga guerra combattuta con onore
vorrà, senza invidia delle altre nazioni, mettere in valore equamente il
contributo non trascurabile e finora trascurato che essa ha portato,
anche negli ultimi decenni, al progresso del sapere Abbiamo visto come
l’iniziativa passasse nelle mani di Gentile. Invano Formiggini lodò Croce
per aver « denun- ciato la balordaggine di chi vorrebbe istituire una
filosofia di stato e denunciò la « marcia sulla Leonardo di
Gentile, che assieme alla fondazione gli aveva sottratto l’idea di una
Grande enciclopedia italica — l'editore mode- nese cercherà di
realizzarla per suo conto con l’aiuto dei suoi collaboratori abituali e,
in particolare, di Ernesto Buonaiuti . Mentre l’ente e il suo patrimonio
erano desti- Formiggini, Trenta anni dopo, L’Italia che scrive », Dalle
lettere Buonaiuti appare impegnato a redigere il piano generale della
formigginiana Enciclopedia delle enciclopedie; ne usciranno soltanto i
volumi I, Economia domestica; turismo-sport-giuochi e passatempi, Modena,
Formiggini e II, Pedagogia, Modena, Formiggini, quest’ultimo coordinato da Fornati
ad essere assorbiti, nell’Istituto nazionale fascista di cultura, «
rassegna mensile della coltura italiana pubblicata sotto gli auspici
della Fondazione Leonardo » diventava, il « Leonardo » diretto da
Prez- zolini — al quale l’anno successivo subentrerà Luigi Rus- so
— ed esemplato su « L’Italia che scrive » « con un contornetto (si capisce) di
4ff0 puro, se no il cataclisma non avrebbe avuto ragion d’essere »,
osservava Formiggini * che ruppe con Prezzolini riaffermando in pubblico,
e in una lettera privata a lui i propri ideali: Voialtri
attualisti avete innegabile dottrina, robusto ingegno, e disponete della
forza formidabile di quel partito che giudicaste cosî aspramente prima
che esso subisse in pieno la vostra influenza nefa- sta. Voi godete ormai
persino di una insperata agiatezza che non vi invidio. Io non
ho né dottrina, né ingegno, né forza politica. Lavoro per passione e per
una esasperata volontà di bene e il lavoro mi costa tutta la sostanza e
mi costringe ad una vita sobria. Ma ho qualche cosina che voi non
avete: il cuore. La parola « umanità » vi fa ridere, e sarà l’umanità a
fregarvi®9. Dove, accanto a una profonda amarezza, è
espressa tutta la carica etica di una battaglia culturale ma anche,
nella confusione del giudizio sul fascismo, i limiti di una sua
traduzione sul terreno politico. Tracciando un doloroso bilancio della sua
sconfitta, Formiggini insisterà tuttavia in un invito alla conciliazione,
con parole che richiamano l’insegnamento morale di Limentani: « so-
prattutto di pace c’è bisogno oggi. Occorre che l’uomo ritrovi nell’uomo
il proprio simile e che ciascuno rispetti nell’altrui dignità la propria.
Quella di Formiggini può essere considerata una vi- cenda esemplare, da
un lato, dei modi e dei tempi con i quali il fascismo procedette
all’accaparramento delle istitu- miggini Santamaria (fra i
collaboratori, che gli conferirono un'impronta antiattualista, Calò,
Credaro, R. Mondolfo, Tarozzi, Vartisco L’Italia che scrive AF,
Prezzolini. L'Italia che scrive », Formiggini: un editore tra
socialismo e fascismo zioni culturali esistenti per acquisire un
consenso sempre più vasto e, dall’altro, delle reazioni degli
intellettuali di fronte al tentativo fascista di utilizzarli. L’insidiosa
« poli- tica di conciliazione » affidata dal fascismo a Gentile, e la
stessa dichiarata assenza di una « cultura fascista », aprirono facili
varchi al consenso presso molti intellettuali senza precisa collocazione
politica o portati a distinguere nettamente la politica dalla cultura e,
spesso, a privilegiare quest’ultima per le loro scelte. Ma,
proprio per questi stessi motivi, non sarebbe nem- meno corretto
considerare come incondizionato il consenso cosî estorto, o vederlo come
un blocco uniforme senza in- crinature fin dall’inizio, al cui interno
non permanessero adesioni esteriori o ambigue capaci di ribaltarsi,
attraverso maturazioni personali, dove il comportamento politico
im- mediato era contraddetto dal legame con una cultura che voleva
mantenersi in qualche modo autonoma. In questo quadro sono
collocabili molti collaboratori della casa editrice e lo stesso
Formiggini, che in nome del suo antico ideale di fratellanza pubblica un
pun- gente pamphlet antigentiliano nel quale il giovane cattolico
Carlo Morandi riconosceva « il coraggio e la schiettezza di una difesa
»”. Giustificando il proprio intervento pole- mico contro la « marcia
sulla Leonardo », Formiggini scri- veva ne La ficozza filosofica del
fascismo di avere « rea- gito per legittima ritorsione e per il pericolo
d’ordine gene- rale che ci sarebbe per la cultura italiana se l’assurdo
di una dittatura e di una tirannide dottrinale dovesse farsi piede
nel nostro paese ». Ma i limiti della sua impostazione non si rivelano
soltanto nella contrapposizione fra il ruolo di « armonizzatore » di
varie correnti culturali, da lui im- personato, e quello di Gentile «
capo partito » o nella ridu- zione dell’attualismo a una semplice « moda
filosofica » dai larghi consensi e di Gentile a un « giocoliere di idee
», bensi anche nel giudizio sulla filosofia gentiliana vista come «
una fortuita e non felice escrescenza [“ficozza” in roma- 9 «
Studium » nesco] del fascismo » ”. La distinzione operata da Formig- gini
è netta: da un lato gli attualisti, « sostanzialmente estranei ed
equidistanti sia dal fascismo che dal naziona- lismo » che si sono
assunti ix foto il « problema cultu- rale » di un movimento puramente
politico *, dall’altro il fascismo che, come scriverà anche in seguito, «
nelle sue prime manifestazioni, non negò affatto i diritti
dell’uomo. Si annunciò come un ristabilimento energico dell’ordine
sociale che era stato scosso. Nulla di strano che dei citta- dini liberi
vedessero questo movimento con simpatia. Il mescolare il sapere con la politica
è per noi cosa delit- tuosa », affermò Formiggini motivando il suo
rifiuto di sot- toscrivere il manifesto Croce, pur firmato da molti
colla- boratori della casa editrice ”; l’unica condanna esplicita
di fascismo e attualismo, uniti sul piano morale, fu formulata
sulle pagine de « L’Italia che scrive » in occasione della crisi
Matteotti, in un articolo significativamente intitolato La filosofia del
manganello in cui, dopo aver ironizzato su Mussolini — « egli sa di
filosofia e di pedagogia qualche cosa meno di una vacca spagnuola —
Formiggini affer- mava che per il fascismo la « delusione più amara fu
quella di non aver potuto trovare una teoria morale che ne giu-
stificasse i metodi e si comprende quanta riconoscenza sen- tisse per il
moralista di professione che, applicando il suo visto: si manganelli agli
atti violenti del fascismo, dava a questi una sanatoria di incalcolabile
valore » *. In realtà, una sia pur tenue difesa dalla scaltra «
politica di conciliazione » di Gentile e del fascismo verso gli
intel- lettuali poteva essere consentita da iniziative che si
propo- Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, Il libro non ci
sembra quindi, per la sua distinzio- ne tra politica e cultura, « uno dei
primi e più caustici pamphlets contro il fascismo », come è apparso a R.
De Felice (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, c L’Italia che
scrive », Formiggini, Parole in libertà, cCome è falso che gli ebrei
costituiscano una razza, è anche falso [...] che abbiano una loro forma
mentis che li renderebbe ostili congenitamente e irriducibil mente alle
forme politiche cosi dette totalitarie. L'Italia che scrive », L’Italia che
scrive »Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo nessero
come apolitiche, ma fossero aperte a intellettuali accomunati
dall’opposizione alla « filosofia del manganel- lo ». Fu questo il caso,
denso di compromissioni e contrad- dizioni profonde, di Formiggini, che
dopo la polemica anti- gentiliana sembra non desiderasse discostarsi
dall’ideale di equidistanza e di « armonia » perseguito in passato. Cominciano
ad apparire le « Apologie » che al posto delle religioni costituite
intendevano valorizzare « il senti- mento religioso in astratto, come
quello che può fare l’uma- nità migliore e più fraterna » ”, e che
annoverarono, accanto a quelle dell’ebraismo di Dante Lattes e del
cattolicesimo di Buonaiuti (provvista ancora dell’imprimatur
ecclesiastico nella seconda edizione poco prima della scomunica del
marzo, quelle dell’ateismo di Giuseppe Rensi e del positivismo di
Tarozzi, il quale affermava che « la poste- rità prossima e lontana non
vedrà fra l’idealismo e il posi- tivismo, specialmente italiani, quella
divergenza assoluta e totale che oggi apparisce per la violenza della
polemica. Nella collana delle « Medaglie », brevi profili di contem-
poranei all’elogio di Mussolini (« una forza venu- ta nel momento storico
opportuno ») scritto da Prezzolini ”, Levi opponeva quello di Turati,
esaltato — nonostante l’autore dichiarasse all’editore di essere
stato « molto sobrio negli accenni all’ora presente » — per « la
probità della sua coerenza, la coerenza della sua probità Con questa
forza, che ignora, che sdegna i funambo- lismi di tutte le demagogie, ma
ha il coraggio e la pazienza delle lunghe vigilie, non s’improvvisano più
o meno effi- mere fortune o dittature personali, ma si squadra
almen qualche pietra per costruzioni destinate alla storia » !°,
Co- Formiggini, Trenta anni dopo, cit., p. 124. Cfr. anche il
giudizio di Vida, Apologie religiose, in « La Cultura », ITarozzi,
Apologia del positivismo, Roma, Formiggini, Prezzolini, Benito Mussolini, Roma,
Formiggini, Levi, Turati, Roma, Formiggini,
Levi si ado- però anche per la diffusione del volumetto: «
duecento ne hanno prese — di “copie”, in attesa delle immancabili
bastonature — gli eroici lavora- tori di Molinella, che riscattano col
loro contegno di fierezza la vile acquie si, accanto al D'Annunzio di Antonio
Bruers e allo Sturzo di Mario Ferrara, Prezzolini dedicava nel 1925 un
ritratto ad Amendola che, nonostante l’elogio del suo coraggio «
fino al rischio della vita » e le successive proteste di equa- nimità
dell’autore !”, si rivelava impietoso e cinico: « co- stringendolo a
tacere nel parlamento, restituendolo al giornalismo militante e
all’opposizione attiva [il fasci- smo] gli ruppe quella specie di
ingessamento parlamentare, che pareva averlo stretto e immobilizzato
entro le formule e gli interessi di Montecitorio » !”. E la collana
« Polemiche » presentava insieme alle Battaglie giornalisti che del «
teorico del “governo dei migliori” », Mussolini, Je Invettive di Marat,
il « teorico del “governo dei molti” ». Con questa sorta di do uf
des si parlava comunque di uomini politici e personaggi storici invisi al
fascismo, pur con quell’ambiguità che è la nota caratteristica anche
di molti giudizi apparsi ne « L’Italia che scrive ». È sintomatico ad
esempio che La libertà di Stuart Mill pubblicata da Gobetti con la
prefazione di Luigi Einaudi sia segnalata come « opportuna non solo
per gli avversari della libertà, ma per moltissimi dei suoi ditensori di
oggi », o che, mentre La rivoluzione
liberale era giudicata « programma di ardi- mento morale della borghesia
», « come un violento spa- lancar d’usci all’irrompere di una nuova
coscienza proletaria » — e il ritratto di Matteotti « una vita esemplare
della Rivoluzione liberale » —, nell’annuncio della morte di Gobetti il
giudizio sul « suo anelito di ritrovare e d’im- porre un fondamento etico
al pensiero in tutte le sue espres- sioni » sia limitato da quello sulla
sua cultura, costruita « su basi filosofiche e storicistiche un po’
astratte, per quanto profonde, che lo allontanarono dal veder la
vita scenza del popolo italiano », scriveva a Formiggini il 16
febbraio 1925 (AF, Levi). Prezzolini affermerà di aver scritto la
biografia di Mussolini solo «a patto che il Formiggini ne pubblicasse
anche una dell’Amendola. Prezzolini, Amendola e « La Voce », Firenze, Sansoni,Prezzolini,
Giovanni Amendola, Roma, Formiggini, Formiggini: un editore tra socialismo e
fascismo nella sua complessa realtà effettiva e gliela fecero
giudicare per schemi e teorie ». E in settori più strettamente
cultu- rali, mentre Finzi — divenuto colla- boratore assiduo del
periodico — considerava interessante l’interpretazione marxista del
marinismo fornita da Zino Zini in Poesia e verità, dal Mazzini e Bakunin
di Nello Rosselli — col quale « finalmente anche in Italia si
comin- cia a studiare seriamente il movimento operaio come fatto
storico, all’infuori di ogni preoccupazione di propaganda politica » — si
traeva motivo per mettere in luce « l’azione insidiosa di Carlo Marx » che
si sarebbe servito dell’anar- chico russo per gettare « i primi germi
malsani onde poi in Italia, unica tra le grandi nazioni, il socialismo
nasceva e cresceva colorito di quell’antipatriottismo che doveva
es- sergli fatale durante e dopo la grande guerra » !°. Analoga ambiguità
è riscontrabile negli interventi — che richiede- rebbero tuttavia un
discorso a parte — di alcuni collabo- ratori della rivista provenienti
dalle file del socialismo. « Bisognerebbe poter seguire tutte queste
recensioni di simili libri, specialmente se dovute a ex socialisti
come l’Andriulli », notava Gramsci '* a proposito della recen-
sione di quest’ultimo al volume di Bonomi su Bissolati, uscito a Milano
presso ere ma originariamente proposto dall’autore a Formiggini Ora la grande
maggioranza dei giovani è sotto l’impressione recente della disfatta prima
morale che politica del socialismo italiano — scriveva l’ex collaboratore
de « La Difesa » Andriulli —, e con semplicistica generalizzazione pensa
ad esso come ad una delle forme di maggiore aberrazione della vecchia
Italia prebellica. Eppure, L'Italia che scrive », Gramsci.
ts «Il libro è... purgatissimo — scriveva Bonomi Il fascismo non esisteva
ancora durante l’attività politica di Bissolati, il quale gode — non so
se goda veramente...! — le simpatie fer- vidissime dei fascisti cremonesi
e anche quelle del Duce che inaugurò con un discorso nel 1923 una lapide
in memoria di lui ». Ma Formiggini, che già nel ’24 era stato l’editore
di Ddl socialismo al fascismo di Bonomi, non aveva potuto accettare
l'offerta anche se — gli scriveva — «un libro scritto da lei non può
essere che interessantissimo e tale da non procurare fastidi a chi lo
pubblicasse » (AF, Bonomi).solo che si pensi come il socialismo italiano è
stato la grande matrice di tutti i movimenti rinnovatori del tempo nostro
— non esclusi né il nazionalismo né il fascismo — si sarà tratti a
sospettare che ben altro fenomeno che non quello apparso nell’ultimo
ventennio deve essere stato il partito socialista italiano, e che
soprattutto esso deve essere stato una grande forza ideale se ebbe tanta
virtà espansiva da diffondersi rapidamente non solo nelle classi operaie
ma in una gio- ventù intellettuale generosa e disinteressata e da
permeare di sé per un quarto di secolo la vita italiana.
Dove l’antica milizia politica del recensore, approdato ciecamente alla «
rivoluzione » fascista, è rivelata dal ri- chiamo alla « forza ideale »
del partito — e non solo all’ef- ficacia pratica del movimento
socialista, come nell’interpre- tazione di un Gioacchino Volpe — e dalla
considerazione finale sul fatto che avrebbero letto il libro « con un
senso di soddisfazione specialmente coloro che, avendo a quel
socialismo consacrato i primi entusiasmi giovanili, anche dopo aver
seguito opposte vie non sanno rinnegare la loro disinteressata giovinezza.
Apparentemente pit distac- cate, ma sempre puntuali e pronte a
sottolineare il valore della persona umana, sono le recensioni di
argomento filo- sofico e giuridico — con un interesse precipuo per i
rap- porti Stato:chiesa — di un altro socialista, Alfredo Poggi,
che da « Critica sociale » e dalla « Rivista di filosofia » passa in
questi anni al gruppo di « Pietre », per poi rispun- tare come
responsabile del partito socialista subito dopo 1°’8 settembre, e che
collabora assiduamente a « L’Italia che scrive » fino all’ anno in cui fu
denunciato e arrestato per antifascismo. E mentre Rensi, al termine del
viaggio dal « socialismo idealista » allo scetticismo, insiste in un «
profilo » di Spinoza sui limiti dello stato di fronte alla libertà di
pensiero dei cit- tadini, sul suo « dovere di non comandare cose che urtino
le leggi della natura umana » — al « coordinamento per- fetto di autorità
e libertà, alla determinazione cioè della misura di libertà che
l’autorità deve concedere appunto per poter essere e conservarsi autorità
» quale indicata da Spinoza, « anche oggi potrebbe forse essere rivolto
util- L'Italia che scrive Formiggini: un editore tra socialismo e
fascismo mente lo sguardo » !” —, sulla rivista faceva una fugace
ma incisiva apparizione Paolo Milano con una recensione, giu-
dicata « notevole e acuta » da Gramsci, che costitui una delle poche
stroncature del Superamento del marxismo di De Man pubblicato da Laterza,
di cui si metteva in luce lo psicologismo incapace di contrastare
realmente il mar- xismo e di spiegare i fatti storici. Sono pochi esempi
che sarebbe errato sopravvalutare, considerata anche la sempre minore
incisività della casa edi- trice, che di lî a poco accuserà duramente i
contraccolpi della grande crisi. Essi indicano tuttavia, accanto a
un’estrema confusione, la esistenza di dubbi e di una prima presa di
distanza non solo culturale, nella quale certezze sempre coltivate si
incontrano con altre maturate di recente. At- torno a Formiggini troviamo
uomini emarginati dal fascismo, come prima erano stati emarginati
dall’idealismo: anche attraverso questo canale passa quindi una
cultura, seppure minore, che non si riconosce in quella ufficiale
del regime. Le scelte di venti anni prima dimostrano una loro tenuta
anche dopo l’avvento del fascismo, pur
dovendo nascondersi tra le righe di una rivista bibliografica o
sotto il più antico degli espedienti mimetici. Al linguaggio degli
animali ricorre infatti un amico di vecchia data dell’editore modenese,
forse il più caro, Concetto Marchesi. « Conosco le tue vicende: e
perciò ti ho voluto bene », gli scrive Marchesi. Le lettere
dell’in- tellettuale comunista all'editore che ha sempre aborrito
la politica gettano luce sull’antifascismo del primo e sull’iro-
nico distacco dalla realtà del secondo, non alieno tuttavia dal gioco
dell’allusione politica. Le Favole esopiche — « il tuo più che mio, Esopo
», scrive il curatore — escono con una prefazione in cui Marchesi si «
sbizzar- risce a capriccio; e non ci sarà niente da ridire perché
siamo nel mondo fantastico delle bestie » !, inserendovi un ri-
Rensi, Spinoza, Roma, Formiggini, « L’Italia che scrive », Gramsci,
Marchesi. Per la figura politica di Marchesi cfr. la mia voce in F.
Andreucci - T. Detti, Il movi cordo autobiografico sul periodo del primo
arresto, studente socialista: ‘odiavo la macchina, l’ornamento
civile del nostro tempo. La mac- china era per me, allora, lo strumento
maledetto onde la ricchezza dei pochi si era impadronita di tutte le
povere braccia della terra: era il vortice metallico in cui la miseria
del mondo precipitava per farne uscire torrenti di oro e di sangue, a
ristoro della superbia e dell’avarizia. Si chiariscono cosi
in tutta la loro ironia, per acquistare valore di impegno civile, le
parole con le quali Formiggini si rivolgeva al lettore nella nota che
apre il volume: « se tu leggerai questa versione del magnifico Marchesi
col sospetto che egli, nelle scabre sinuosità della sua prosa asciutta,
vi abbia nascosto dentro se stesso, ti parrà di aver fra le
mani un libro pericoloso e rivoluzionario » !°. mento
operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori Riuniti, ed E.
Franceschini, Concetto Marchesi. Linee per l’interpretazione di un uomo
inquieto, Padova, Antenore, In una lettera Rossi commentava dalla galera
fascista la notizia del suicidio di Formiggini, con parole che ci sembra
possano riassumere tutta la sua esperienza: « Pare ci sia una vera
epidemia di suicidi. Quello che a me ha fatto più impressione è stato il
suicidio del vecchio Formiggini. Aveva fatto per l’incremento della
cultura italiana più di quanto hanno fatto molti illustri personaggi, che
si danno l’aria di Padri Eterni. Lui non aveva mai posato a Padre Eterno,
ma le sue iniziative editoriali eran sempre intelligenti e di buon gusto.
La collezione dei “Classici del ridere” era la migliore espressione della
sua mentalità umanistica, europea, della sua serena saggezza sempre
spumante di fine umorismo. M'era spiaciuto molto che, anche lui, si fosse
adattato alle circostanze piiî di quanto gliel’avrebbero dovuto
permettere la sua dignità e la sua condizione di “chierico” della
cultura. Ma, insomma, non si può pretender troppo dagli uomini quando non
trovan più in alcun luogo un po’ di terreno saldo su cui poggiare i
piedi. E lui era vecchio [...] ed era sempre rimasto estraneo il più
possibile alle lotte della politica, vivendo solo fra i suoi libri e per
i suoi libri » (E. Rossi, Elogio Ft ia Lettere, a cura di M. Magini,
Bari, Laterza, I limiti del consenso: le origini della casa editrice
Einaudi Il futuro verrà da un lungo dolore e un lungo
silenzio. Presuppone uno stato di tale ignoranza e smarrimento che sia
umiltà, la scoperta in- somma di nuovi valori, un nuovo mondo »
(Ce- sare Pavese, Il mestiere di vivere) 1. Iniziative
editoriali negli anni 30 Il problema della formazione della
cultura post-fa- scista, quale si venne elaborando non nell’antifascismo
del- l'emigrazione, ma nell’Italia degli anni ’30 e a cavallo della
seconda guerra mondiale, non è stato ancora affrontato con puntualità
nell’ambito storiografico: siamo infatti in presenza di uno iato assai
profondo fra le ricerche su intel- lettuali o riviste del ventennio, che
culminano nell’espe- rienza di « Primato », e alcuni sondaggi sulla cosiddetta
« ideologia della ricostruzione » del dopoguerra. Il mancato collegamento
fra i due momenti si traduce, ovviamente, in carenze interpretative, che
si manifestano in tesi troppo rigidamente contrapposte, sia che insistano
— ma con sem- pre minore frequenza — sugli elementi di « rottura »,
sia che sottolineino, in negativo o in positivo, quelli di « continuità »
tra fascismo e post-fascismo. La questione è certo assai complessa, ma
non può essere risolta dando credito a improvvise « conversioni » di
coscienze indivi. duali, né applicando — ad esempio — a Cantimori il
nico- demismo da lui studiato negli eretici del ’500, né ricorrendo alle
categorie del « trasformismo » o del « popu- lismo » degli intellettuali,
senza tener conto, in tutti questi casi, del rapporto dialettico fra la
posizione degli intellet- tuali e le trasformazioni sociali e politiche
del paese. La complessità del problema storiografico, è
necessario riconoscerlo, corrisponde alla complessità del processo storico
reale, a un aspro scontro politico e culturale insieme che non solo oppose
fascisti e antifascisti, ma divise anche le varie correnti
dell’antifascismo italiano, con quegli ele- menti di incertezza e di
contraddizione di fronte all’ideali- smo che ricorderà anche Togliatti !. E, pur ammettendo l’esistenza di
differenziazioni culturali che si van- no manifestando in particolare
con l’inizio della guerra di Spagna, non possiamo prescindere dal
forte condizionamento, culturale e politico, esercitato dalle istituzioni
del regime, che raggiunsero il punto pit alto di consenso, almeno
formalmente, nei primi anni di guerra, quando vediamo Salvatorelli e
Omodeo collaborare all’ISPI, o Cantimori al Dizionario di politica del
Pnf ?. Se queste collaborazioni non significavano automaticamente, da
un punto di vista soggettivo, adesione alla politica del regime,
non bisogna tuttavia dimenticare che — come aveva osser- vato Volpe — il
loro « colore » era dato, agli occhi dei let- tori e indipendentemente
dai riposti pensieri degli intellet- tuali, non tanto dai contenuti,
quanto dalla veste ufficiale in cui questi apparivano *. Spesso, inoltre,
collaborare alle ini- ziative del regime poteva spiegarsi con l'illusione
di una apo- liticità della cultura, la cui difesa può aver costituito
per alcuni intellettuali una tappa importante per cominciare ad
allontanarsi dal fascismo, senza essere, per questo, indice di un
antifascismo già maturo politicamente. È infatti solo sotto la veste
culturale che è possibile rinvenire, nell’Italia, il tentativo di
differenziarsi dall’ideologia del regime, anche se con il rischio, come
osservò Marchesi a pro- posito dell’università, di chiudersi nella «
indifferenza poli- 1 Cfr. il suo intervento alla commissione
culturale nazionale in P. Togliatti, Le politica culturale, a cura di L.
Gruppi, Roma, Editori Riuniti, Turi, Le istituzioni culturali del regime
fascista durante la seconda guerra mondiale, in « Italia contemporanea
»,Volpe rispose in fatti a Rosselli, a proposito dei colla- boratori
della « Rivista di storia europea » vagheggiata da quest’ultimo, che
bisognava essere «ben certi che è la rivista a dar loro il colore
desiderato, e non viceversa » (cit. in Rosselli. Uno storico sotto il
fascismo. Lettere e scritti vari, a cura di Z. Ciuffoletti, Fi- renze, La
Nuova Italia, Le origini della casa editrice Einaudi tica e morale
» ‘. Il significato politico di una scelta culturale va quindi verificato
caso per caso, guardandosi dal tradurre immediatamente in consapevolezza
politica una cultura che non si riconosce in quella ufficiale del
fascismo. Per questo preferiamo parlare di « limiti del consenso »
piuttosto che di « antifascismo »: termine — e categotia — che non
è certo da escludere — e allora occorrerà precisarne meglio le
caratteristiche —, ma che per singoli intellettuali o per imprese
culturali collettive costrette a muoversi, come le case editrici, con
estrema cautela sotto il regime, può pre- starsi a frettolose
retrodatazioni di prese di coscienza che acquistarono spesso peso politico
solo con la guerra o dopo il 25 luglio 1943, e che può comportare un
giudizio altret- tanto generico del termine avalutativo di « afascista
» troppo frequentemente usato per qualificare, come fosse una razza
privilegiata, alcuni nuclei di cattolici. Queste cautele ci paiono
necessarie anche nello studio di una casa editrice come quella di Giulio
Einaudi che, centro di attrazione di aderenti a Giustizia e Libertà,
di azionisti e poi di comunisti, all’indomani della Liberazione
potrà vantare i maggiori meriti antifascisti, tanto da fian- cheggiare la
politica del PCI che le affiderà la pubblicazione dei Quaderni
gramsciani. È proprio per queste sue caratte- ristiche « di punta »,
comunemente accettate — tanto da farne ritenere meno interessante
l’analisi, in quanto « anti- conformista » e « antifascista » fin dalla
nascita, per la pre- senza di Cesare Pavese e di Leone Ginzburg® —, che
la scelta di studiare questa casa editrice ci è parsa particolarmente significativa
per verificare « al mas- simo », nei punti più alti, i limiti del
consenso al regime, e gli elementi di continuità o di rottura tra
fascismo e post- fascismo. Un'indagine del genere dovrebbe tener
conto, oltre che dei condizionamenti oggettivi propri di un’azienda
economica e di un’iniziativa culturale rivolta al pubblico 4 C.
Marchesi, Fascismo e università (1945), ora in Umanesimo e co- munismo, a
cura di M. Todaro-Faronda, Roma, Editori Riuniti, Cosî Isnenghi, Intellettuali
militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista,
Torino, Einaudi, sotto il regime fascista, e ai reali obiettivi che la casa
edi- trice si riproponeva, anche del pubblico dei lettori, di cui purtroppo
conosciamo solo la ristretta élite dei recensori, pur assai
significativa, se pensiamo che fra i giudizi favore- voli alla produzione
storiografica meno conformista di Einaudi spiccano quelli della « Nuova
rivista storica » che negli anni ’30, sotto la direzione di Luzzatto,
veniva anch’essa configurandosi come centro di aggregazione di
intellettuali operanti ai margini del regime. Gli obiettivi dell’editore
torinese sono ricavabili, ma solo parzialmente, dal carteggio con i
collaboratori, a differenza di Formig- gini, che fino al 1925 poteva
esporre pubblicamente i suoi programmi e le sue proteste; per le
testimonianze esterne le carenze sono invece comuni, anche se su Einaudi
il ri- cordo di Ambrogio Donini — la sua attività editoriale, «
appena agli inizi, si andava già orientando, tra difficoltà e
persecuzioni di ogni genere, verso temi nazionali e interna. zionali atti
a staccare l’Italia dal disastroso clima di provin- cialismo in cui si
esaurivano le energie dei suoi giovani studiosi »” — concorda con il
giudizio di Cantimori, che in lui vedrà l’inventore dell’editore come educatore.
In assenza di un « campione » di lettori, bisognerà chiedersi, almeno
fino alla caduta del fascismo, come un eventuale lettore poteva
accogliere i messaggi culturali for- niti dalla casa editrice, e se
questi erano traducibili politi. camente; tenere presente, inoltre, il
panorama pi generale dell’editoria italiana, o almeno delle case editrici
meno aderenti alla cultura ufficiale del regime, ove ciò sia possi-
bile, data la mancanza quasi assoluta di studi, oltre che di
testimonianze. Pur nella loro parzialità, anche queste ultime possono
essere indicative di alcune linee di tendenza. Aldo Capitini ricorderà
come, contrario a stabilire un difficile e pericoloso collegamento con
gli antifascisti all’estero, egli 6 Sulla « Nuova rivista storica
» cfr. A. Casali, Storici italiani tra le due guerre. La « Nuova rivista
storica » Napoli, Guida, Prefazione a P. Robotti, La prova, Bari, Leonardo da
Vinci, Cantimori, Conversando di storia, Bari, Laterza, avesse sostenuto la necessità di alimentare
la formazione ideologica dei giovani con i « libri disponibili » in
Italia, e indicherà le case editrici più utili a questo scopo in
Laterza, Einaudi e Guanda: e l’autore degli Elementi di un'espe-
rienza religiosa (editi da Laterza), che fu in con-. tatto anche con
Einaudi, citava fra i testi di Guanda — un editore particolarmente
attento alla tematica religiosa — quelli di Martinetti, Tilgher e Rensi,
espressione di un filone spiritualista, critico dell’ottimismo
storicistico, che si rita- gliò un ampio spazio editoriale nella crisi di
valori. Le iniziative a carattere religioso ebbero certo una
mag- giore libertà di azione, come testimonia la fondazione della
Morcelliana !°, ma probabilmente, a
differenza della politica di stretto controllo usata nei confronti della
stampa periodica, il fascismo lasciò un certo grado di autonomia a
tutto il settore editoriale — che si rivolgeva a un pubblico più
ristretto di quello dei lettori di quotidiani, e compor- tava quindi
minori pericoli —, anche se nel 1926 fu costi-. tuita la Federazione
nazionale fascista dell’industria edito- riale, il cui presidente, Franco
Ciarlantini, lamentando la crisi del libro, inviterà il governo a misure di
con- trollo sulle piccole iniziative private, e a un’opera di
promo- zione economica e « morale »; ma la censura dei libri non fu
condotta con criteri precisi, e rimase affidata alla discre- zionalità
dei prefetti anche quando essa passò, nel 1935, dalla competenza del
ministero dell’Interno a quella del ministero per la Stampa e la
propaganda, mentre la Commissione per la bonifica libraria, concen- trò
la sua attenzione sui testi di autori ebrei !!. Ed è forse questa
parziale autonomia che spiega come nel corso degli Capitini, Antifascismo
tra î giovani, Trapani, Célèbes, 1 Morcelliana «Humanitas » Brescia, Morcelliana, BaroneA.
Petrucci, Primo: non leggere. Biblioteche e pub- blica lettura in Italia,
Milano, Mazzotta, Ciarlantini, Vicende di libri e di autori, Milano,
Ceschina, Cannistraro, Le fabbrica del consenso. Fascismo e mass
media, prefazione di R. De Felice, Bari, Laterza, tanti intellettuali tendano a
divenire organiz- zatori di cultura attraverso l’editoria: accanto alle
edizioni collegate a riviste, e agli effimeri tentativi di Domenico
Petrini con la Bibliotheca editrice di Rieti o di Carlo Pelle- grini con
la Taddei di Ferrara, vediamo che nel 1926 viene fondata da Elda Bossi e
Giuseppe Maranini La Nuova Ita- lia, che nel 1930 passerà a Firenze sotto
la direzione di Codignola, nel 1927 la Slavia dell’ex sindacalista
rivoluzio- nario Alfredo Polledro, nel 1929 la casa editrice di
Valen- tino Bompiani, formatosi alla Mondadori; e, mentre Gentile, già
direttore di due collane, filosofica e storica, presso Le Monnier, assume
la direzione della Sansoni tra- sformandone rapidamente il catalogo
secondo il proprio orientamento culturale e politico !?, due
intellettuali antifa- scisti di diversa matrice ideologica, Franco
Antonicelli e Rodolfo Morandi, trovano nell’editoria uno strumento
per tentare di allargare i sempre più stretti confini culturali del
paese: il primo si associa con il tipografo Carlo Frassinelli per
proporre testi della letteratura straniera contempora- nea, il secondo
con l’editore Corticelli per far conoscere La rivoluzione francese di
Mathiez o il Napoleone di Tarlè, e far riflettere sulle esperienze di
nuove realtà politiche, come la Cina e l’Unione Sovietica . È in questo
contesto che si colloca, alla fine del 1933, la fondazione della
Einau- di da parte di un nucleo originariamente ben definito di
intellettuali, molti dei quali aderenti a Giustizia e Libertà, la cui
opera culturale ha quindi larvati risvolti politici, che imporrebbero un
confronto puntuale con alcune delle case editrici che si sono presentate,
all'indomani della Libera- zione, con una patente antifascista.
Testimonianze per un centenario. Contributi a una storia della
cultura italiana, Firenze, Sansoni, Su Antonicelli editore — che nel 1942
fonderà la casa editrice De Silva (cfr. la sua testimonianza in «
Rinascita, Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a Torino, Torino,
Cassa di Risparmio, Fubini, Il mestiere del lette- rato, in AA.VV., Su
Antonicelli, Torino, Centro Studi Piero Gobetti; un cenno all’attività
editoriale di Rodolfo Morandi in A. Agosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero
e l’azione politica, Bari, Laterza, Le origini della casa editrice
Einaudi Le notizie di cui disponiamo sono però assai scarse e
— promosse da occasioni celebrative o fornite dai diretti inte-
ressati —, pur offrendo utili spunti interpretativi, avreb- bero bisogno
di ulteriori approfondimenti. È il caso, ad esempio, di Laterza, de La
Nuova Italia e di Bompiani. ‘ Nella casa editrice barese, durante il
periodo della « difesa eroica, Croce — è stato scritto — « accolse
anche chi era da lui lontano, e contribuf a preparare non pochi che, poi,
scelsero posizioni a lui avverse. Sui libri che fece leggere agli
italiani, con la collaborazione di Gio- vanni Laterza, si formarono cosi
liberali come socialisti e comunisti, cosî idealisti come materialisti »;
e, riprendendo il discorso, Garin ha individuato nelle opere uscite nel
ven- tennio nella « Biblioteca di cultura moderna » l’accorta
opera d’informazione unita alla difesa di una vocazione umana anteriore a
ogni lotta o differenza di parte. Nei libri, a volte assai mediocri, di
storici, filosofi, critici, economisti, offerti con una apertura
eccezionale [...], c'è sotteso l’invito a non dimenticare mai quella
dimensione umana che, pur nel divenire temporale e nelle dislocazioni
spaziali, è capace di comprendere anche l’avversario. Che fu il valore di
uno storicismo e di un umanismo tutt’affatto particolari, di una difesa
della razionalità e della libertà, che in un’epoca intesa a celebrare
l’hbomo bomini lupus ricordò costante- mente il senso dell’homo homini
deus !8. Giudizio che andrebbe, a nostro parere, sfumato, in
quanto, se accanto a Omodeo, Russo o De Ruggiero, Croce accolse un Rodolfo
Morandi, la linea generale della casa editrice fu orientata in un senso
ben determinato che non si apriva a tutti gli « avversari », come
testimonia nel 1938 il commento crociano alla ristampa dei saggi di
Labriola, 0, nel 1929-31, l'edizione de Il superamento del marxismo
e La gioia del lavoro di De Man. Un discorso analogo può essere
fatto per La Nuova Italia di Codignola: se è vero che fu centro di
aggregazione di esponenti di rilievo del Partito d'Azione e che, col
suo 14 E. Garin, La Casa editrice Laterza e mezzo secolo di
cultura italiana (1961), ora in Id., La cultura italiana tra ‘800 e ’900.
Studi e ricerche, Bari, Laterza, 1963, p. 170, e Id., Il mestiere di
editore, prefazione al Catalogo generale delle edizioni Laterza 1978, p.
XII. 199 « impegno, insieme, di
socialismo, di liberalismo “rivolu- zionario”, di laicismo intransigente
», contributi « all’orga- nizzazione del dissenso » !, è necessario
tuttavia non anti- cipare un orientamento politico che si venne
delineando, e manifestando, a fatica e non senza contraddizioni, se
pen- siamo al persistente legame, ancora negli anni ’30, di Co-
dignola con Vallecchi e con Gentile, o al settore pedagogico configurato
in senso attualista e comunque condizionato dalla politica scolastica del
regime '‘. Cosi Valentino Bompiani, ripercorrendo la storia
della propria casa editrice, pur riconoscendo il suo iniziale « di-
simpegno ideologico », valorizza giustamente la scoperta, alla fine degli
anni ’30, della letteratura americana, con Uomini e topi di Steinbeck e
Piccolo campo di Caldwell, tradotti rispettivamente da Pavese e
Vittorini, due libri che « parlavano dell’uomo, della sua condizione e
miserià, con diretto impegno sociale e politico » ”. Ma come non
riflet- tere di fronte al fatto che, mentre la censura interveniva
duramente e con particolare ottusità '" — come testimonia l'editore
—, lo stesso Bompiani proponeva nel 1940 al Ministero della cultura
popolare un accordo per lanciare una « Biblioteca essenziale
dell’italiano », incentrata sui temi patria, religione, cultura,
famiglia, fra i cui autori dovevano comparire Bottai, Bargellini e De
Luca, costituita 15 E. Garin, Un capitolo di rilievo singolare, in
50 anni di attività editoriale (Venezia 1926-Firenze 1976): La Nuova Italia,
Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. XII; cfr. anche, oltre al ritratto di
Ernesto Codi- gnola tracciato da Garin, Intellettuali italiani del XX.
secolo, Roma, Edi- tori Riuniti, 1974, pp. 137-169, gli interventi di E.
Garin, N. Bobbio e T. Codignola in occasione del cinquantenario della
casa editrice, ne «Il Ponte » Questi elementi sono ben messi in luce da
S. Giusti, La ‘casa editrice La Nuova Italia 1926-1943, di prossima
pubblicazione. . 17 V. Bompiani, Via privata, Milano, Mondadori,
1973, pp. 43, 143. 18 In un rapporto anonimo al duce del 26 giugno
1943 si diceva: « Proprio nei giorni dei massacri di Grosseto, di
Sardegna e Sicilia, l’edi- tore Bompiani mette sfacciatamente fuori un
“mattonissimo” intitolato “Americana”, antologia di scarso valore con
prefazione di un accademico e traduzione di Vittorini; antologia condotta
sui modelli dell’ebreo Lewis. E lo stesso Bompiani continua nelle stampe
e ristampe di Cronin, Stein- ‘beck, ed altri, bolscevichi puri e in ogni
caso perniciosissimi » (AGS, Ministero della cultura popolare, b. 27,
fasc. 403). 200 Le origini della casa editrice
Einaudi da « alcune centinaia di migliaia di volumetti » da
diffon- dere nei centri con popolazione minore a 10.000 abitanti,
distribuendoli ad esempio, « a partire dal Natale di Roma », « a tutti
coloro che si sposano nel corso dell’anno, affer- mando cost il principio
che non si deve costituire una fami- glia senza avere in casa quei pochi
libri che diano a un cit- tadino italiano la conoscenza e la coscienza
della sua Pa- tria »? ! Condizionamenti politici,
autocensure, necessità econo- miche proprie di ogni casa editrice in
quanto azienda indu- striale, costituiscono quindi il quadro entro il
quale deve essere valutata anche l’opera della Einaudi, verificando
puntualmente — senza stabilire schematiche equivalenze — la traducibilità
politica dei suoi messaggi culturali. Con ciò non vogliamo disconoscere,
in linea generale, quanto ha ricordato Giulio Einaudi — « il primo modo
di sfidare il fascismo era quello di non parlarne mai, di fare come
se non esistesse» ? —, anche se in qualche caso il fascismo si
affaccia nella produzione della casa, né, quindi, negare la prospettiva
in cui si muoveva l’editore, che era, come ha osservato Bobbio, « quella
di offrire alla giovane cultura torinese lo strumento più adatto e meno
pericoloso dati i tempi per esprimere la propria voce, e di non lasciare
sva- nire nel nulla la grande esperienza gobettiana » ?. Si tratta
piuttosto di misurare la possibilità o capacità di attuazione di questi
propositi, di vedere se sono univoci o differen- ziati e contraddittori
e, in questo caso, quali voci culturali politicamente significative
predominano, e in quale periodo; verificare, infine, quali elementi di
continuità o di rinno- vamento si manifestano fra gli anni ’30 e il
periodo post- bellico. La decisione di Giulio Einaudi di
fondare la casa edi- trice non è comprensibile se prescindiamo dall’ambiente
torinese, sia quello rappresentato dalla Slavia di Alfredo 19
Ibidem. Alcuni testi furono pubblicati, come, nel 1941, la Storia della
patria di Piero Operti. 2 Testimonianza scritta di Giulio Einaudi
(Archivio della casa edi- trice Einaudi (d’ora in avanti AE), G.
Einaudi). © N. Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a Torino,
Polledro, che nella collana « Il genio russo » presentò per la prima
volta in Italia traduzioni integrali — alcune opera di Leone Ginzburg —
di Turgheniev, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj e Cechov, da cui attingerà in
parte la collana einau- diana dei « Narratori stranieri tradotti »; sia
quello dei gobettiani, con in primo piano l’opera di educatore di
Augusto Monti, ma anche con le iniziative culturali di Anto- nicelli,
Ginzburg e Pavese, o con la pubblicazione de « La Cultura » passata sotto
la direzione di Arrigo Cajumi. Un modello che Einaudi terrà presente fu
la « Biblioteca euro- pea », diretta da Antonicelli, presso il tipografo
Frassinelli, dal 1932 al 1935 — quando fu arrestato —, dove uscirono
L’armata a cavallo di Babel, e, tradotti da Pavese, Moby Dick di
Melville, Riso mero di Anderson e Dedalus di Joyce 2. Ispirandosi a
Gobetti, « l’editore ideale » #, Anto- nicelli raccolse per primo le
forze intellettuali torinesi che si erano formate sotto il magistero di
Monti, ma in una pro- spettiva ancora liberale: « Al di là di Croce non
vedevo. I marxisti non sapevo cosa fossero », ricorderà più tardi,
rico- noscendo che le proprie convinzioni politiche erano matu-
rate solo dopo la Liberazione *. Da un innesto tra crociana «
religione della libertà » e tradizione gobettiana partiva anche Ginzburg,
il quale ebbe gran parte nella fondazione della casa editrice Einaudi *.
Ai numerosi interessi culturali — dalla letteratura russa alla
storia — egli univa, a differenza di Antonicelli, un saldo impegno
politico da quando aveva aderito, nel 1932, a Giustizia e Libertà. « Noi
non crediamo utile ai fini della lotta antifascista che ci si debba
sottoporre a una specie di rinuncia intellettuale », scriveva sul
periodico del movi- mento clandestino, dove invitò ad approfondire « la
pro- Gobetti, L’editore ideale. Frammenti autobiografici con ico-
RO ehe; a cura e con prefazione di F. Antonicelli, Milano, Scheiwiller,
24 F. Antonicelli, Le pratica della libertà. Documenti, discorsi,
scritti politici 1929-1974. Con un ritratto critico di C. Stajano,
Torino, Einaudi, 1976, pp. X-XI. 25 Cfr. l'importante
introduzione di N. Bobbio a L. Ginzburg, Scritti, Torino, Einaudi,
1964. 202 Le origini della casa editrice
Einaudi pria coscienza rivoluzionaria con la meditazione, lo
studio, l’attività clandestina », a riflettere sulla visione
gobettiana della rivoluzione russa e a studiare Cattaneo, scrisse assieme
a Croce il famoso articolo contro la centralizzazione delle istituzioni
culturali operata dal ministro dell’Educazione nazionale Francesco
Ercole, e rivendicò come « principale ragion di vita » di Giustizia e
Libertà « il lavoro, d’orga- nizzazione e di pensiero, che si compie in
Italia sotto i suoi auspici » #. E della sua capacità di mobilitare altre
intelli- genze dette atto nel dicembre 1934, pochi giorni dopo il
suo arresto, « Giustizia e Libertà »: « È uno dei pochi, anzi dei
pochissimi, che in regime legale di fascismo rie- scono ad avere un
pensiero e un'influenza sul pensiero degli altri » 7. Mentre già nel 1930
Cajumi aveva pensato a una casa editrice espressione de « La Cultura » #
— alla quale Ginzburg collaborava dal 1929 —, nel 1933 Ginzburg
tenne contatti fra l’ambiente torinese ed esponenti dell’am- biente
fiorentino tra loro vicini, Nello Rosselli e il gruppo di « Solaria ».
Rosselli, che stava cercando di varare una « Rivista di storia europea »
di cui Ginzburg avrebbe do- vuto essere gerente responsabile e
coredattore, fu contat- tato per preparare un volume su Mazzini per la
progettata « Biblioteca di cultura storica » ?; Alberto Carocci, il
diret- tore di « Solaria » che per le difficili condizioni finanziarie
della rivista stava già cercando l’appoggio di un editore per questa e le
sue edizioni, entrò in rapporto, tramite Ginz- burg, con Giulio Einaudi
che alla fine di novembre del 1933 — quando già, il 15 del mese, si era
iscritto alla Camera di commercio di Torino come editore —, pur
rifiu- 26 Ibidem, in particolare pp. 5, 16, 29. ©
Leone Ginzburg, « Giustizia e Libertà », 16 novembre 1934. ll Tribunale
speciale che il 6 novembre 1934 lo condannò a quattro anni di reclusione,
lo qualificò come « l’anima » di GL a Torino (ACS, Ministero della
giustizia e degli affari di culto. Direzione generale per gli istituti di
prevenzione e di pena, fasc. 46489). 2 «Ginzburg mi ha accennato a
una Sua intenzione di formare una casa editrice “la Cultura” », scriveva
Pavese a Cajumi il 27 settembre 1930 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, a
cura di L. Mondo, Torino, Einaudi, 1966, p. 241). 2 Cfr.
Nello Rosselli. Uno storico sotto il fascismo, cit., in partico lare pp.
139 e 143-45, e AE, N. Rosselli. 203 TI fascismo e il
consenso degli intellettuali tando la proposta di Carocci di
trasformare « Solaria » in casa editrice, fece l’offerta, poi caduta, di
rilevare la sola rivista, osservando che « qualche volta sarebbe bene
trat- tare qualche argomento non puramente letterario, ma che
presenti interesse dal punto di vista sociale contempora- neo » ”°:
un’indicazione di lavoro che darà anche per « La Cultura », e che
testimonia quella volontà di impegno civile che in quello stesso anno era
avvertita anche da Carocci. La casa editrice Einaudi nasceva
infatti proprio quando un decreto prefettizio del 1934 metteva fine a «
Solaria », accusata di contenuto contrario alla morale per un
numero che pubblicava una puntata de I garofano rosso di Vitto-
rini: la rivista che si era rifugiata nella « repubblica delle lettere »
accettando di convivere col fascismo, « nell’illu- sione di conservare
intatta l’autentica superiorità dell’intel- ligenza borghese, l’eredità
lasciata dall’attivismo barettiano e dall’attendismo rondiano », terminava
la sua vita proprio quando cercava, nel 1933-34, di impegnarsi
ideologica- mente, trasformandosi, come era nelle intenzioni di
Carocci, in « rivista d’idee », e quindi di « discussione anche col
fascismo » *. Forse non fu solo una coincidenza, se si pensa che gli
intellettuali fiorentini si dimostrarono per il mo- mento incapaci, come
gruppo, di trasformare la letteratura in impegno. Sarà quanto tenterà di
fare quella che un rap- porto della polizia del marzo 1934 definiva « una
nuova casa editrice torinese la quale avrà il compito di diffon-
dere pubblicazioni antifasciste abilmente compilate e attor- no alle
quali da ora in avanti si andranno raggruppando gli elementi antifascisti
del mondo intellettuale », fra i quali si indicavano i senatori Francesco
Ruffini e Luigi Della Torre, Luigi Einaudi e Nello Rosselli » *. « Che
fisionomia ha que- 30 Lettere a Solaria, a cura di Giuliano
Manacorda, Roma, Editori Riuniti, 1979, passizz, e, per la lettera di
Einaudi a Carocci del 30 no- vembre 1933, p. 461. 31 G. Luti,
Cronache letterarie tra le due guerre 1920-1940, Bari, TARA: 1966, in
particolare pp. 96 e 127, e Lettere a Solaria, cit., p. I 32
Cit. in R. De Felice, Mussolini il duce, I. Gli anni del consenso Torino,
Einaudi, 1974, p. 115 n. Bottai, che durante la guerra 204
Le origini della casa editrice Einaudi sta Casa editrice?
Quale programma si propone di svolgere? Quali sono le sue basi finanziarie?
E tu fino a che punto ci sei interessato? », scriveva il 7 febbraio 1934
Rosselli a Ginzburg *: ad alcune di queste domande non saremo in
grado di rispondere, in particolare a quella relativa al finan- ziamento
della casa editrice, che provenne probabilmente da Luigi Einaudi, al
quale è forse da attribuire anche una fun- zione di copertura politica
all’iniziativa del figlio, come si può dedurre dalla marcata impronta
conservatrice della prima collana, « Problemi contemporanei ». Ci
limitere- mo perciò, anche in assenza, prima del 1945, di dati
sulle tirature e sulle vendite, a una storia prevalentemente inter-
na della casa editrice, dedicando tuttavia particolare atten- zione alle
collane, ai volumi e ai temi culturali nei quali sia più facilmente
ravvisabile un orientamento politico, nell’in- tento, indicato
all’inizio, di verificare, oltre ai « limiti del consenso » al fascismo,
se negli anni ’30 sono rinvenibili alcune delle matrici della cultura del
dopoguerra. 2. L'ideologia conservatrice di Luigi Einaudi
Le prime, cospicue forze della casa editrice furono raccolte
tramite le due riviste di grande prestigio rilevate da Giulio Einaudi nel
1934, « La Riforma sociale » e « La Cultura » — mentre resta eccentrica
rispetto al nostro discorso « La Rassegna musicale », che pur testimonia
come fin dall’inizio l’editore cercasse spazi culturali differen-
ziati. « La Cultura », da cui la nuova impresa editoriale riprese come
proprio segno distintivo il simbolo dello struzzo, costitui nella sua pur
breve esistenza in veste einaudiana, il collegamento dei giovani
sarà in stretto contatto con l’ambiente della casa editrice,
giudicando antifascista la posizione espressa dal crociano
Francesco Flora in Civiltà del Novecento — pubblicato da Laterza
nel 1933 —, osservava che « Laterza è, insieme con Giulio Finaudi
della Riforma sociale, uno degli editori italiani, che ignora che
siamo nell’anno XII dell’Era Fascista » (G. Bottai, Appelli
all'uomo, in « Critica fascista », XII (1934), n. 1, p. 4). Rosselli. Uno
storico sotto il fascismo, cit., p. 150.
allievi di Monti — fra cui Giulio Einaudi — con la tradi- zione
gobettiana, ma solo in una più lunga prospettiva i suoi collaboratori e
le sue curiosità culturali diverranno punto di riferimento per gli
orientamenti della casa. In questa maggiore peso « politico » ebbe
all’inizio, con « La Riforma sociale », il gruppo di liberisti che si
raccoglievano attorno a Luigi Einaudi, nel quale si può forse
ravvisare, se non l’ideatore, la forza decisiva per la nascita della
casa editrice. È questo un elemento di conoscenza che pare
confortato da alcuni documenti e anche da un semplice esa- me del
catalogo editoriale, e che, finora trascurato dalle testimonianze,
fornisce una caratterizzazione meno « prov- videnzialistica », in senso
progressivo, dei primi passi della casa editrice. La rivista
« La Riforma sociale » — suona un avviso di Luigi Einaudi databile al
1933 — allo scopo di contribuire alla illustra- zione dei problemi
sociali ed economici e specialmente di quelli determinati dallo stato
presente di crisi e dai piani di ricostruzione e di regolazione sia nei
rapporti nazionali che internazionali, pubbli- cherà accanto ai fascicoli
bimestrali, destinati ad ospitare studi di mole relativamente tenue,
volumi atti a trattazioni più larghe, di circa 150 pagine e con una
tiratura di 1.000 copie, dal carattere rigorosamente scientifico [...],
tuttavia accessibile al pubblico colto in generale *. «
Votrei preparare un piano di collaborazioni », scri- veva il 31 ottobre
1933, poco prima della fondazione della casa editrice, Luigi Einaudi ad
Attilio Cabiati, l’amico fidato che inaugurerà nel 1934 la collana «
Problemi contempo- ranei » e che si dimostrerà particolarmente attivo nel
sug- gerire all'editore proposte di traduzioni *. « Problemi con-
3 L'avviso dattiloscritto si trova nell’Archivio della Fondazione
Luigi Einaudi di Torino, sezione 2 (d’ora in avanti AFE), nel fasc.
Croce. L’in- tervento di Luigi Einaudi nella casa editrice è testimoniato
anche da una lettera che il figlio gli scrisse il 17 novembre 1942,
inviandogli il progetto di un volume di Sismondi: « Per altri classici
dell'economia, che pos- sono avere un interesse vivo anche in avvenire,
ti sarò grato se mi vorrai favorire i testi originali con un breve
giudizio » (AE, L. Einaudi). 35 AE, Cabiati. Sui suoi interessi,
prevalentemente rivolti al mondo anglosassone, cfr. A. Cajumi, Ricordo di
Attilio Cabiati, in « L'Industria », n.s. (1951), pp. 406-417. « Allorché
capitò la faccenda del giuramento, si consultò con Francesco Ruffini e
con Einaudi, e salvò il salvabile, ossia 206 Le
origini della casa editrice Einaudi temporanei » nasce infatti
come « Biblioteca della rivista “La Riforma sociale” », controllata e
orientata personal mente da Luigi Einaudi fino al 1944, come la «
Collezione di scritti inediti o rari di economisti » (1934), le «
Opere di Luigi Einaudi », la « Collezione di opere scientifiche di
economia e finanza » (1934) e la « Biblioteca di cultura eco- nomica »
(1939); e, nel magro bilancio dei volumi pubbli- cati nei primi anni —
solo con la guetra la casa editrice assumerà proporzioni ragguardevoli —,
tutti i 9 titoli del 1934, e 9 su 11 nel 1935, sono testi economici di
queste collezioni, che nel periodo 1934-44 rappresenteranno sem-
pre un quarto di tutte le pubblicazioni — 55 su 212 titoli —, in cui
spiccano, per il peso del loro messaggio cultu- tale e politico, i 35
volumi di « Problemi contemporanei ». La presenza di Luigi Einaudi aveva
un altro punto di forza nella direzione della « Rivista di storia
economica », pub- blicata per i tipi della casa editrice, cui fu permesso
di con- tinuare — sotto un titolo apparentemente accademico e
asettico — la battaglia liberista de « La Riforma sociale », soppressa
nel 1935 perché coinvolta, solo editorialmente, negli arresti di Giulio
Einaudi e dei suoi amici e collabora- tori appartenenti a GL, alcuni dei
quali animatori de « La Cultura », alla quale la censura fascista non concesse
possi- bilità di reincarnazione, sotto nessuna veste *.
Appare quindi necessario analizzare l’ideologia del grup- po
liberista quale si manifesta non solo nelle collane, ma anche nelle
riviste dirette da Luigi Einaudi — e, in parte, ne « La Cultura » —, alla
cui influenza è forse da attribuire lo stesso orientamento anglofilo di
altre collane storiche o letterarie; non bisogna dimenticare, del resto,
la profonda conoscenza del mondo britannico di colui che durante il
difese in extremis le cattedre non ancora infestate dall’economia
corpo rativa » (ibidem, p. 407). 36 Secondo Francesco A.
Repaci, stretto collaboratore di Einaudi, la soppressione de «La Riforma
sociale » sarebbe invece da addebitarsi alla sua battaglia
anticorporativista (Ricordo di Luigi Einaudi attraverso alcune lettere, «
Giornale degli economisti e annali di economia »; in realtà, come vedremo, la
«Rivista di storia economica » non farà che riprendere la linea de « La
Riforma sociale », senza per questo essere soppressa.
207 ventennio fu collaboratore stabile dell’«
Economist ». La funzione culturale e politica svolta da Luigi Einaudi
durante il periodo fascista resta ancora da studiare, e il tema non
è di poco conto se si pensa che il « partito dei liberisti », «
dopo aver conosciuto dalla fine dell’Ottocento una serie di sconfitte
micidiali da cui sembrava non potesse pit risol- levarsi, riusci nel
secondo dopoguerra a prendersi una cosî piena rivincita », riuscendo « a
influenzare in misura deter- minante i programmi di ricostruzione e
l’impostazione gene- rale della politica economica italiana dei governi
di coali- zione successivi alla Liberazione » ’’. Funzione che
Einaudi si ascriverà a merito nei suoi risvolti anticorporativisti
*, ma che ebbe, più in generale, i suoi obiettivi polemici in tutte
le ipotesi programmatrici o keynesiane che presero piede con la grande
crisi — non è un caso che a tutto ciò egli facesse riferimento
prospettando la pubblicazione di una biblioteca de « La Riforma sociale »
—, e lo vide chiuso in una difesa ostinata della sua « quasi religiosa
» fede nel liberismo, che gli impedî di individuare « la crisi
economica del ventennio tra le guerre come una prova delle fallacie
neoclassiche » ”, le quali saranno invece da lui ri- 37 Cosîf V.
Castronovo nell'intervento in occasione della commemo- razione di Luigi
Einaudi in occasione del centenario della nascita, in Annali della
Fondazione Luigi Einaudi, vol. VIII, 1974, Torino, Fonda- zione Luigi Einaudi,
1975, p. 168. 3 «La scienza economica italiana non ha da
vergognarsi di quel che fece durante il cinquantennio crociano. Carità di
patria vuole si dimentichi quel che fu scritto di falso e di
consapevolmente falso intorno al cosidetto corporativismo. Quegli errori
sono riscattati dalla resistenza dei più », affermerà Einaudi ricordando
« La Riforma sociale » e il « Giornale degli economisti » (La scienza
economica. Reminiscenze, in Cinquant'anni di vita intellettuale italiana
1896-1946, cit., vol. II, p. 313). E ancora: la « Rivista di storia
economica » «forse parve ai governanti del tempo meno fastidiosa a
cagione della sua limitazione a cose passate. Ma già il Sismondi, in una
lettera del 1835 al Brofferio aveva avvertito i vantaggi che la censura
offre agli scrittori costringendoli ad essere avveduti nel dichiarare la
verità invisa ai tiranni [...]. 1 saggi datati dal 1936 al 1941
agevolmente persuadono che il forzato velo storico non vietò mai a chi
scrive di discutere problemi contemporanei » (L. Einaudi, Saggi biblio-
grafici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Edizioni di
storia e letteratura, 1953, p. VII). 39 M. De Cecco, La politica
economica durante la ricostruzione 1945- 1951, in Italia 1943-1950. La
ricostruzione, a cura di Stuart J. Woolf, Bari, Laterza, 1974, p.
291. 208 Le origini della casa editrice Einaudi
prese e attuate dopo il 1945, come governatore della Banca
d’Italia e come ministro del bilancio nel quarto e quinto governo De
Gasperi nel 1947-48. Gli unici studi che hanno affrontato l’opera
di Luigi Einaudi anche nel periodo fascista, compiuti in occasione
del centenario della nascita, si sono preoccupati di ridurre la sua
iniziale adesione al fascismo, fino al 1925, ad un « equivoco » destinato
a dissiparsi quando la politica « li- beristica » di De Stefani sfociò
nel vincolismo e nel corpo- rativismo ‘, o si sono limitati ad
analizzarne le indicazioni per lo studio delle dottrine e dei fatti
economici, senza cogliere i presupposti ideologici della sua posizione
meto- dologica, o arrivando ad espungere volutamente dall’analisi
le sue concezioni antisocialiste e antistataliste, in quanto: non
sarebbero mai state da lui proposte come formule ‘. Per meglio
comprendere la linea interpretativa della col- lana « Problemi
contemporanei » è invece opportuno sof- fermarci su questi presupposti
ideologici, per i quali l’atti- vità di Einaudi durante il fascismo ha
punti di contatto, ma anche di differenziazione, con quella di Croce. Segui-
remo i motivi di questa riflessione sulla storia e la politica economica
fino al 1944, data l'omogeneità di questa tema- tica, che corre parallela
con gli altri filoni di pensiero della casa editrice. È da
rilevare in primo luogo che le indicazioni di Luigi Einaudi sul modo di
fare storia economica sono esplicita- mente basate sulla preoccupazione
di non privilegiare il fattore economico nella ricostruzione storica.
Discutendo il programma di lavoro della « Rivista di storia economica
» con Gino Luzzatto — il direttore della « Nuova rivista storica »
che ribadiva ancora in quegli anni la validità della storiografia
economico-giuridica —, egli sosteneva che allo 4 Cosî R. Romano
nell’Introduzione a L. Einaudi, Scritti econormici,. storici e civili, a
cura di R. Romano, Milano, Mondadori, 1973, pp. XXXILIOXVII.
4 Cfr., per il primo appunto, R. Romeo, Luigi Einaudi e la storia
delle dottrine e dei fatti economici, e M. Abrate, Luigi Einaudi rivisitato,
e, per il secondo, F. Caffè, Luigi Einaudi nel centenario della nascita,
in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, cit., pp. 121-141, 151-163,
39-51 (in particolare, per l’affermazione di Caffè, p. 47).
209 storico era necessario solo il « punto di vista
» economico: « “Punto di vista” e non “prevalenza” né
“specializzazio- e”. Non si diventa storici dell'economia dando,
come fecero molti nel tempo verso il 1900, rilievo a certi fatti
detti economici e mettendoli a fondamento delle spiegazioni da essi date
di certe passate vicende umane. Cosi scrivendo, si fa buona (esistono,
nonostante la cosa tenga del miraco- loso, persino buoni libri di storia
informati al concetto materialistico della storia!) o cattiva storia
politica, non storia economica » *. La storia economica non deve
sup- porte che il fattore economico sia più importante degli altri,
né accettare la tesi che le teorie economiche siano un mutevole frutto
dei tempi, affermava, concludendo che per scrivere storia economica « fa
d’uopo che lo scrittore abbia l’occhio od il senso economico » ‘. Di qui
l'apprezzamento per la Storia economica e sociale dell'impero romano
© Città carovaniere di Rostovzev — pubblicate rispettiva- mente da
La Nuova Italia e da Laterza —, in quanto l’au- tore « ha visto che alla
radice della storia non si trovano l'economia, la macchina, lo strumento
tecnico, la terra arida o feconda, il denaro e simiglianti cose morte, si
invece le 4 G. Luzzatto - L. Einaudi, Per un programma di lavoro,
in « Rivista di storia economica », I (1936), p. 201. Luzzatto, che in
una lettera a Einaudi del 5 novembre 1936 accettò in sostanza la sua
opinione (AFE, Luzzatto), salutò con entusiasmo la nascita della «Rivista
di storia economica », perché « può rappresentare per i giovani studiosi
italiani di storia economica una guida ed uno stimolo, di cui si sentiva
estre- mamente il bisogno, indirizzandoli nella scelta degli argomenti di
ricerca, raddrizzando idee tradizionali errate, chiarendo idee confuse,
creando soprattutto quel contatto fra scienza economica e ricerca
storica, che fino- ra è in gran parte mancato » (« Nuova rivista storica
», XX (1936), p. 282). A Luigi Dal Pane — dal quale non riuscirà tuttavia
ad ottenere una collaborazione — Luigi Einaudi spiegò il 4 luglio 1936 il
tipo di articoli desiderati: « 1) un problema teorico importante studiato
da un econo- mista passato; 2) un problema di fatto interessante in sé,
interessante per qualche attacco al presente, su cui l’esperienza di un
tempo passato dice qualcosa di rilevante » (L. Dal Pane, Il mio carteggio
con Luigi Einaudi, in Annali della Fondazione Einaudi, vol. VI, 1972,
Torino, Fondazione Luigi Finaudi, 1973, p. 194). 43 L.
Einaudi, Lo strumento economico nella interpretazione della storia, in «
Rivista di storia economica », I (1936), pp. 155-156 (in discus- sione
con Lucien Febvre}. Nello stesso senso cfr. T. Codignola, Esiste una
«storia economica »?, in « Rivista di storia economica », idee che la classe
politica si è fatta » #: dove è evidente la polemica contro quella «
vulgatio » del materialismo sto- rico in cui Gramsci rinveniva uno
specifico influsso loriano, presente anche nel commento a Economic
planning and international order di Lionel Robbins, un autore
quanto mai caro a Einaudi e alla casa editrice, lodato per la tesi
che « la continuità della coesistenza di diverse nazioni del mondo è
incompatibile con qualunque piano diverso da quello economico liberale »,
e che un piano è un fatto poli- tico: « È un capovolgere la storia
cercare nell’economia la spiegazione degli avvenimenti politici, sociali,
intellettuali. Bisogna invece cercare nella politica la spiegazione
degli avvenimenti economici » 4. Gli esempi potrebbero moltipli-
carsi, a testimoniare come l’assai vaga asserzione che allo storico
economico necessiti, e sia sufficiente, « l’occhio od il senso economico
», si connetta con la fede nel carattere assoluto ed eterno delle leggi
economiche, con la polemica nei confronti del materialismo storico e del
socialismo, e con la difesa del liberismo come vero liberalismo.
Rispondendo a quanti parlavano di superamento delle teorie economiche, di
quella ricardiana in particolare, Einaudi affermava che « una ideale
storia delle dottrine economiche potrebbe semplicemente consistere nel
ricordo che si facesse, nel trattare sistematicamente la dottrina
oggi ricevuta, del debito da questa contratto verso le precedenti
meno perfette formulazioni che via via la precedettero. Il legittimo uso
della parola “superamento” implica l’accogli- mento contemporaneo
dell’idea che nulla è superato, nulla è fuor del tempo presente ed ogni
teoria che visse vive 4 L. Einaudi, Il valore economico del libro
del Rostovzev, in «La Riforma sociale », XLI (1934), p. 336. Sulla
conoscenza « da orecchiante » del materialismo storico da parte di
Einaudi mediata da Croce e Loria, cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere,
cit., vol. II, pp. 1289-1290. 45 L. Einaudi, Delle origini
economiche della grande guerra, della crisi e delle diverse specie di
piani, in «Rivista di storia economica», II (1937), p. 278. Il 30
novembre 1946 Giulio Einaudi scriverà a Robbins: «se durante la
deprecabile ultima guerra Voi ricordavate con simpatia l’ambiente che
faceva capo a mio padre, noi altri giovani durante quegli anni terribili
non cessammo mai di guardare con venerazione e speranza alla Vostra
Patria e ai suoi uomini più rappresentativi » (AE, Robbins).
241 ancora perfezionata ed affinata nella teoria
attuale » ‘. L’in- sistente difesa di Ricardo, di Smith, di Francesco
Ferrara o della massima di D’Argenson — « pour mieux gouverner, il
faudrait gouverner moins » —, si accompagna a uno sprezzante
giudizio su Keynes, nelle cui pagine si può tro- vare « la esposizione pi
ingegnosa e raffinata che imma- ginar si possa di quella qualunque tesi
egli, con pieno prov- visorio convincimento, sostenga in un dato momento
» “£ all’assunzione a modello dei discorsi di Cavour, in quanto «
mutano i problemi; ma l’arte dell’analizzarli criticamente con spirito
non preoccupato damiti e da formule verbali, non muta » ‘; o, in polemica
col corporativismo fascista — non molto frequente, tuttavia, sulla «
Rivista di storia eco- nomica » —, all’esaltazione delle corporazioni
medievali mai configuratesi come « caste chiuse »: « La lotta, il
tu- multo, le inimicizie, le cacciate e l’esilio sono i segni
distin- tivi di quell’epoca che poi fu voluta idealizzare come tesa
verso la pace sociale. Ma, perché lottava, amava ed odiava, quell’epoca
partori credenti artisti e poeti grandi; ma perché era un’epoca di
rivolgimenti politici economici e sociali, essa creò ricchezza potenza
arte e poesia ». Una difesa della necessità della lotta e del contrasto
che non si traduce mai, però, nella comprensione delle novità del
processo storico, cui l’ottuso conservatorismo di Einaudi oppone
un’imma- gine statica della vita sociale, assai distante dalla
stessa concezione crociana della storia etico-politica ” *
L. Einaudi, Superamento, in « La Riforma sociale», Einaudi, Una disputa a torto
dimenticata fra autarcisti e liberisti, in «Rivista di storia economica
», III (1938), p. 149. 4 Si riferisce ai s aggi di Keynes La
fine del laisser faire e L’autarchia economica tradotti nella « Nuova
collana di economisti stranieri ed ita- liani » diretta da G. Bottai e C.
Arena (« Rivista di storia economica », II (1937), p. 374). Per una
critica agli Essays in Bibliography di Keynes cfr. anche L. Einaudi,
Della teoria dei lavori pubblici in Maltbus e del tipo delle sue
profezie, in « La Riforma sociale », XLI (1934), pp. 221-227. 4 L.
Einaudi, Una nuova edizione dei discorsi del conte di Cavour, in «La
Riforma sociale »,(a proposito dei Discorsi parlamentari di Cavour curati
da Omodeo e Russo per La Nuova Italia). 5 L. Einaudi, Alba e
tramonto delle corporazioni d'arti e mestieri, in « Rivista di storia
economica », VI (1941), pp. 96-97. Einaudi « non riu- sciva ad afferrare
i motivi del movimento storico », ha affermato L. Dal 212
Le origini della casa editrice Einaudi È del resto noto
come, sul piano politico, il liberalismo di Einaudi non sia assimilabile
a quello di Croce, tanto da spiegare — come vedremo dall’analisi di
alcuni volumi della collana « Problemi contemporanei » — un maggior
« possibilismo » del primo nei confronti del fascismo. E ciò, nonostante
il rapporto personale e gli elementi di con- vergenza che legano i due
intellettuali durante il regime. Ne è testimonianza la segnalazione
simpatetica che sulla « Rivista di storia economica » Einaudi fa, in due
occa- sioni, delle edizioni Laterza: valorizza ad esempio l’opera
dei meridionalisti conservatori — Jacini, Turiello, Villari, Franchetti,
Sonnino e Fortunato — analizzati da Enzo Ta- gliacozzo in Voci di
realismo politico dopo il 1870; ap- prezza incondizionatamente — a
differenza di Ginzburg ” — l’immagine fornita da Nicola Ottokar nella
Breve storia della Russia, un paese la cui « tragedia » sarebbe
stata quella di non aver mai avuto un ceto intermedio numeroso, ma
solo padroni e servi, dove i primi erano una volta i nobili, ora la
burocrazia sovietica ”. Sempre per « rendere testimonianza di onore
all’editore colto e tenace, il quale in tempi volti ad altri problemi
persegue un alto ideale di cultura », Einaudi segnala La concezione
romana dell’im- pero di Ernest Barker, accogliendone la distinzione fra
la rivoluzione francese, da cui « discendono lo stato napoleo- nico
ed il comunismo economico », e la rivoluzione puri- tana inglese, da cui
derivano « la libertà di coscienza e di Pane, Commemorazione di
Luigi Einaudi, in Memorie dell’Accademia delle scienze dell’Istituto di
Bologna, classe di scienze morali, e Franco Venturi ha osservato che « la
storia economica, quale egli fa concepî, non produsse in Italia quel
rivolgimento, quella trasformazione profonda che compirono in varie forme
altrove il marxismo, la scuola delle “Annales”, le moderne teorie dello
sviluppo e la cliometria. Personalmente sono convinto che l’elemento
conservatore presente nel pensiero di Einaudi agi da freno, da remora a
questa rivoluzione storio- grafica. Riproporre a modello Le Play nel
secolo XX era un paradosso » (in Annali della Fondazione Luigi Einaudi,
vol. VIII, cit., p. 180). 51 Le osservazioni di Ottokar « sono
giustapposte, e non concatenate, sf che l'avvento del bolscevismo può
configurarglisi come una specie di cataclisma, che interrompa la
continuità storica », notava ad esempio Ginzburg (« Nuova rivista storica
» (1937), ora in Scritti, cit., p. 111). 5 L.E., Edizioni Laterza,
in « Rivista di storia economica », II (1937), pp. 196-198.
pensiero, la società economica a tipo di concorrenza, l’unio- nismo
operaio, il regime di discussione »; ma la « lettura più vantaggiosa » è
per Einaudi la Storia d’Europa di Fisher, nella quale egli vede la
dimostrazione dell’assenza di basi economiche nei diversi ordinamenti
politici. Prende invece nettamente le distanze da un libro laterziano
allora famoso in quanto espressione della crisi dei valori
borghesi, Democrazia in crisi del laburista Harold J. Laski — un
au- tore che la casa editrice accoglierà solo nel dopoguerra, men-
tre nel 1936 Mario Einaudi lo aveva accusato di marxismo per l’opera The
Rise of Liberalism —, in quanto « dalla pa- rificazione laskiana di
“democrazia” ad “uguaglianza” vien fuori un’economia comunistica a tipo
termitario » ”. Il liberalismo di Einaudi aveva infatti un minor
respiro ideale di quello di Croce, come dimostra la discussione tra
loro intercorsa negli anni ’30 e ’40 sui rapporti tra libe- rismo e
liberalismo: mentre Croce, pur nella comune ri- pulsa del comunismo,
negava la necessaria identità dei due termini, Einaudi sosteneva la loro
inseparabilità, in quanto « l’idea della libertà vive, si, indipendente
da quella norma pratica contingente che si chiamò liberismo economico;
ma non si attua, non informa di sé la vita dei molti e dei più se
non quando gli uomini, per la stessa ragione per cui vollero essere
moralmente liberi, siano riusciti a creare tipi di orga- nizzazione
economica adatti a quella vita libera » *. Data questa rigida
identificazione — per cui la presa di distanza di Einaudi dal fascismo ha
il suo motivo di fondo nella politica protezionista e corporativa del
regime —, si com- prende come più numerosi e acri che ne « La Critica
» siano gli attacchi antisocialisti nella « Rivista di storia
economica », condotti in primo luogo dal suo direttore con accenti che
dimostrano la carica politica, prima ancora 53 L. Einaudi, Ancora
a proposito di edizioni e di alcuni libri editi da Giuseppe Laterza in
Bari, in « Rivista di storia economica », III (1938), pp. 349-354; M.
Einaudi, Di una interpretazione puramente economica del liberalismo, in «
Rivista di storia economica », Einaudi, Tema per gli storici dell'economia:
dell’anacoretismo economico, in « Rivista di storia economica », II
(1937), p. 195. I testi del dibattito sono raccolti in B. Croce, L.
Einaudi, Liberismo e libera- lismo, a cura di P. Solari, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1957. Le origini della casa editrice Einaudî che
scientifica, dei suoi obiettivi. Ne è documento esem- plare, nel 1934, la
recensione a Socialism's New Start, tra- duzione di un’opera di
socialisti tedeschi nascosti dall’ano- nimato, critici dei partiti
tedeschi socialdemocratico e co- munista accusati di aver consegnato le
masse operaie al nazismo; con le minacce di simili « untorelli »,
scrive Einaudi, il regime hitleriano può dormire sonni tranquilli:
I socialisti del continente europeo, sia quelli dei paesi come
l’Italia, la Germania e l’Austria, nei quali essi sono stati spazzati
via, sia quelli dei paesi come la Francia, nei quali si danno un gran
da fare per farsi mandare a spasso, non hanno ancora capito che «
il capitalismo » è una irrealtà, uno schema partorito dalla loro
scarsa cultura storica e dalle loro rudimentali attitudini psicologiche;
e quindi, essendo un meccanismo tecnico, una costruzione meramente
amministrativa e contabile, può essere rivoluzionato o riplasmato pit o
meno in meglio od in peggio, senza grandissime difficoltà. La società
tollera chiacchiere socialistiche più o meno interessanti e consente
talvolta che in nome di ideali socialistici si compiano ai margini
sperimenti più o meno costosi intesi a tener quiete le molti- tudini. Ma
le chiacchiere e gli sperimenti non devono andare oltre un certo segno;
non devono toccare istituti che hanno nell’animo umano radici ben più
profonde del capitalismo: la proprietà della terra, della casa,
dell’opificio, il risparmio, la famiglia, la eredità, la tradizione, la
religione. Responsabili della nascita dei regimi totalitari
sareb- bero stati i socialisti, in quanto Blum in Francia, Cripps e Laski
in Inghilterra appaiono a Einaudi « magni- fici alleati e profeti e
sostenitori di nuovi regimi che, sorti in Italia si vanno estendendo,
sotto forme variabilmente adattate alle diverse contrade, un po’
dappertutto » 5. Proprio riferendosi a questa recensione, e alla
raccolta dei Nuovi saggi di Einaudi pubblicata nel 1937 dal figlio,
« Giustizia e Libertà » — espressione del movimento nel quale si
riconoscevano vari collaboratori della casa edi- trice — critica
violentemente l’esponente liberista, nella cui opera non ravvisa né
antifascismo, né liberalismo, né scienza, ma solo i frutti di un «
liberale è /a page », lealista 55 L. Einaudi, Afforno ad una
spiegazione della disfatta dei partiti socialistici, in « La Riforma
sociale », XLI (1934), pp. 713-714. verso il regime, mosso da « una
meschina preoccupazione di antisocialismo, che non ha a che vedere con il
bisogno di libertà che ogni uomo prova, ma semplicemente con un
sentimento originario, più forte di qualunque ragionamento, di disprezzo
per il salariato e per il lavoratore manuale che aspiri a dirigersi da
solo ». Ispirato da un « velenoso » odio di classe — continua articolista
—, Einaudi « arriva a sostenere la legittimità della reazione fascista,
che non sarebbe l’avventura di un gruppo di spostati né rea- zione
di privilegiati, ma la reazione legittima della so- cietà contro quei
faccendoni dei socialisti che le impedi- vano di lavorare »; il suo
«cieco conservatorismo » si spiega con la sua « sfiducia totale in
qualunque tentativo di miglioramento, che tolga gli individui alla classe
in cui essi sono costretti a vivere » ”. È del resto raro
trovare nella seconda metà degli anni ’30, nella « Rivista di storia
economica » o nei volumi della casa editrice ispirati da Luigi Einaudi,
una coerente pole- mica nei confronti della politica economica del regime
o dei testi economici proposti dal fascismo. La critica
all’antiindi- vidualismo della Breve storia delle teorie economiche
di Othmar Spann edita da Sansoni nel 1936 resta un caso isolato ”,
mentre già nel 1934 Einaudi trova modo di lodare Bottai « promotore di
iniziative feconde: come quella dei buoni libri informativi editi dalla
scuola corporativa di Pisa », o la « Nuova collana di economisti » curata
da Bottai e Arena, in cui apprezza in particolare la pubblica-
zione dell’Economia del benessere di Arthur C. Pigou — « non conosco
lettura più adatta a moltiplicar dubbi su qualsiasi provvedimento di
politica sociale » — e gli scritti $% Magrini [Aldo Garosci],
Liberalismo?, in «Giustizia e Libertà », 5 marzo 1937; per un altro
attacco al « fascismo » di Luigi Einaudi cfr. La concezione filosofica
del mondo, in ibidem, 1 aprile 1938. « Di rado compaiono operai — notava
il corporativista Giuseppe Bruguier recen- sendo i Nuovi saggi —. Gli è
che l’Finaudi, man mano che gli anni passano, mi pare si faccia
sentimentalmente sempre più vicino, piuttosto che ai lavoratori delle
calate del porto di Genova o alle maestranze delle officine di Torino, ai
contadini delle sue belle terre piemontesi », osservati con « senso
patriarcale » (« Leonardo », VIII (1937), p. 70). 5? L. Einaudi,
Una storia universalistica dell'economia, in « Rivista di storia
economica », I (1936), pp. 258-263. 216 Le origini
della casa editrice Einaudi sulla tassazione di Wicksell, col
quale Einaudi dichiara di trovarsi « in ottima compagnia nella tendenza a
non pren- dere sul serio certi cosiddetti principî di ripartizione
delle imposte chiamati dell’uguale, proporzionale o minimo sa-
crificio ovverosia della capacità contributiva e simiglianti vacuità
senza contenuto »: la « conquista definitiva teori- ca » di Wicksell è
infatti che « non esiste un principio di giustizia tributaria » *. In una
discussione in cui, accanto a nette differenziazioni, c’era posto per
posizioni intermedie fra corporativismo e liberismo — tipica è la figura
di Marco Fanno, collaboratore al tempo stesso della « Nuova collana
di economisti » e della casa editrice Einaudi” —, ma anche per
significativi incontri su questioni economiche di nodale importanza,
Luigi Einaudi poteva tranquillamente combattere la teoria dell’imposta
progressiva: cosî nel 1934 con la pubblicazione — preceduta da una sua
prefazione ‘elogiativa dell’autore e dell’opera svolta dai liberisti
italiani nel 1880-90 — dei Principi di economia finanziaria di De
Viti De Marco, dalla quale Edoardo Giretti traeva spunto per un giudizio
politico il cui elemento di distinzione dal fascismo era rappresentato da
una /audatio temporis acti ©, 58 L. Einaudi, Del principio della
ripartizione delle imposte (a pro- posito di una nuova collana di
economisti), in « La Riforma sociale », Macchioro, Studi di storia del
pensiero economico e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 644-45,
e il carteggio Fanno-Finaudi in AFE, Fanno. : 6 «Lo storico
che potrà un giorno, all’infuori delle passioni e dei rancori dell’età
contemporanea, discutere ed esaminare a fondo oggetti- vamente e
serenamente le cause che determinarono la crisi del 1922 e la caduta di
un regime politico-parlamentare che del liberalismo cavour- riano aveva
conservato soltanto il nome, ma non l’idea e la sostanza, dovrà
riconoscere che l’unico tentativo serio e coerente, che si era fatto in
Italia, allo scopo di prevenire la catastrofe di quel regime, da gran
tempo preveduta, fu proprio quello del gruppo liberista, del quale il De
Viti fu il capo e l’ispiratore più autorevole e più tenace », colui che
aveva osservato che i liberisti, « avendo pur sempre di mira la difesa e
il consolidamento dello Stato liberale democratico, avevano esercitato
una critica intesa a creare nel paese una più elevata coscienza pubblica
contro tutte le forme degenerative delle libertà individuali e del
sistema rap- presentativo » (E. Giretti, Un uomo e un gruppo, in «La
Cultura », XIII (1934), pp. 28-29). Con quest'opera De Viti De Marco «
aveva dimostrato la natura autofaga dell’imposta progressiva », dità
Einaudi, Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino, Einaudi,
1938, p. 197 n. 217 e, con particolare
forza, nei Miti e paradossi della giustizia tributaria, dove il richiamo
agli economisti classici si accom- pagna ad accenti moralistici che mal
nascondono la sostanza antidemocratica del discorso: Giova —
si chiedeva Einaudi — [...] togliere coll’imposta diffe- renziata a
questi pochi [monopolisti] il guadagno di eccezione che essi
temporaneamente lucrano? No; poiché è vero che quel lucro è ottenuto col
vendere a più basso non a più alto prezzo dei concor- renti. Se si vuole
accaparrare quel lucro a vantaggio della collettività non bisogna
adoperare l’imposta, strumento stupidamente repressivo, ma l’emulazione
gli onori la lode. Giova creare l'atmosfera nella quale il ricco giudichi
se stesso disonorato e sia dall'opinione pub- blica considerato con
spregio se non consacri in vita e in morte parte rilevante dei suoi
redditi a scopi di pubblica utilità: a fondare e dotare scuole ospedali
parchi stadi. Come ammoniva Adam Smith, « un grado assai
consi- derevole di disuguaglianza sembra essere, ove si giudichi
secondo l’esperienza universale dei popoli, un danno di pochissimo conto
in paragone con un piccolissimo grado di incertezza ». La preferenza
accordata alla « certezza » rispetto alla « giustizia » — per cui si
richiamano anche gli scritti economici di Cattaneo — trova infine il suo
natu- rale corrispettivo, sul piano politico, nella critica alla
demo- crazia: « Chi, salvo gli egualitari, intenti ad aprire la via
al governo dei plutocrati, mai seppe che lo stato ideale si confondesse
con il governo del demo? Anche il governo di una minoranza può essere una
approssimazione all’ideale, se la minoranza ha lo sguardo volto verso
l’alto » ©; dove l’individualismo economico e l’antisocialismo ricordano
gli aspetti più propagandistici dell’opera di Pareto, il cui Corso
di economia politica apparirà nel 1943 nella « Col- lezione di opere
scientifiche di economia e finanza ». Anche il richiamo a Cattaneo,
sopra citato, si presenta in Luigi Einaudi nella linea di un discorso conservatore,
difficilmente assimilabile all’interpretazione « illuministi ca » di un
Salvemini o di un Gobetti e ben distante dalla caratterizzazione
democratica che — come vedremo — ne ®! L. Einaudi, Miti e
paradossi, cit., pp. 95, 239, 255. 218 Le origini
della casa editrice Einaudi darà Spellanzon nel 1942. La raccolta
dei Saggi di econo- mia rurale curata nel 1939 da Luigi Einaudi per la «
Biblio- teca di cultura economica » ebbe tuttavia il merito di
rinno- vare l’interesse attorno a una figura di cui l’idealismo si
era sbarazzato rapidamente. « Corrente di vita giovanile », la
rivista di fronda di Ernesto Treccani che prima dell’entrata in guerra
dell’Italia pubblicherà il brano cattaneano Della milizia antica e
moderna in cui la guerra ingiusta era consi- derata preludio di
sconfitta, colse in Cattaneo un modello di serietà e di impegno ©, mentre
su « Primato » Giansiro Ferrata, dopo aver ricordato che « la lotta
politica fino al ’24 ha insistito su questo nome in tutti i toni
possibili, cogliendone ogni impulso all’azione », oppose 1’«
idealismo operativo » di Cattaneo a quello « descrittivo » di Vico
privilegiato da Croce: « se in questi anni — concludeva all’inizio del
1940 —, come sembra vero e necessario, alcuni pregiudizi politici ed
ideologici vanno scomparendo, dovremmo acquistare alla coltura d’oggi
questo nome » £. La riproposizione che ne faceva Einaudi era però, anche
se più puntuale, pit restrittiva, tesa a raccogliere da Cattaneo
l'invito al sacrificio, alla « edificazione della terra colti- vata », e
soprattutto il richiamo alla « certezza che gli uomini debbono possedere
di godere essi i frutti del proprio lavoro », attuabile attraverso i «
mirabili effetti » del cata- sto: « Mentre troppi dottrinari corrono
dietro a false teo- riche di cosidetta giustizia tributaria e vorrebbero
distrug- gere le più belle tradizioni finanziarie italiane, fa
d’uopo 62 S. Pozzani, Quasi una introduzione, in «Corrente di vita
giova- nile », 31 ottobre 1939: «al fondo della sua concezione politica
ed economica stava il convincimento che solo a prezzo di fatiche e
di sacrifici l’uomo può giungere a risultati positivi e fecondi {...]
dalle pagine del Cattaneo emana l’incitamento a meditate preparazioni come
base necessaria per affrontare la paziente e scrupolosa disamina dei
problemi grossi e minuti della nostra vita nazionale ». Il passo di
Cattaneo riportato si concludeva cosî: «Ma la vittoria stessa, destando
la mera- viglia delle genti e l'imitazione, nel decorso eguaglia le
sorti, e riduce il popolo stesso che aveva trascese le condizioni
dell’equilibrio » (ibidem, 31 maggio 1940). Sulla rivista cfr.
l'introduzione di Alfredo Luzi a Cor- rente di vita giovanile
(1938-1940), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1975. 63 G. Ferrata,
Immagine di Cattaneo, in « Primato », I (1940), pp. 27, 29; cfr. anche
Id., Caztareo, in « Oggi », 25 novembre 1939. 219
insistere energicamente sulla virti della imposta ripartita
su basi destinate a non mutare per lungo tratto di tem- po » *
Il Cattaneo einaudiano diventa quindi un’altra arma contro gli «
egualitari » e i socialisti, contro i quali si schie- rano anche altri
collaboratori della « Rivista di storia eco- nomica ». Si distingue fra
questi il giovane allievo di Luigi Einaudi e Gioele Solari, Aldo Mautino,
che nello studio su La formazione della filosofia politica di Benedetto
Croce — pubblicato postumo da Einaudi nel 1941 dopo una « accu-
rata revisione » dello stesso Croce — si farà partecipe espo- sitore della
critica crociana al materialismo storico di La- briola e si schiererà con
Luigi Einaudi nel sostenere l’iden- tità fra liberismo e liberalismo 9.
Commentando la mono- grafia di Dal Pane su Labriola e i Saggi labrioliani
ripro- posti da Croce nel 1938, Mautino osservava che la gran-
dezza del cassinate « non si deve ricercare nel campo specu- lativo,
bensi piuttosto in quello politico », in quanto gli sembrava che i Saggi
tendessero «ad una svalutazione progressiva di quella medesima dottrina
di cui si presen- tano come interpretazione e commento »: « una
costante linea spirituale di svolgimento conduce in effetti a
risol- vere l’opposizione persistente tra la necessità escatologica
del comunismo e la libera volontà rivoluzionaria e, lascian- do da un
canto la trascendenza economica, la dialettica della storia e la
conseguente apocalissi comunistica, a far luogo all’azione, diretta ad
instaurare per convincimento 4 C. Cattaneo, Saggi di economia
rurale, a cura di L. Einaudi, Torino, Einaudi, 1939, p. 31; cfr. anche
L.E., La terra è un edificio ed un arti: ficio, in « Rivista di storia
economica », IV (1939), p. 246. Il richiamo di Einaudi a Cattaneo appare
invece «illuminista » a N. Bobbio, Una flosofia militante. Studi su Carlo
Cattaneo, Torino, Einaudi, 1971, PP. 200-201. 65 Cfr. le
lettere di Giulio Einaudi a Croce del 16 e 23 dicembre 1940 (AF, Croce).
« A suo agio il Mautino avrebbe potuto maggiormente far risaltare gli
elementi della dottrina creduta morta da Croce in se stesso e rimasti al
contrario vivi e fecondi. Se ciò non ha fatto gli è perché non aveva del
materialismo storico, nelle sue affermazioni originali, e nei suoi più
vitali ripensamenti, quella conoscenza che sarebbe stata necessaria »,
osservò F. D'Antonio, A proposito della « filosofia politica » crociana,
in « Nuova rivista storica », XXV (1941), p. 333. 220
Le origini della casa editrice Einaudi morale, fuori da ogni
attesa fatalistica, una nuova forma di vita più umana. Onde la
conclusione ideale, a cui i Saggi medesimi sembrano rivolgersi, finisce
per rinnegare quelle stesse strutture intellettuali di cui la passione
politica aveva tentato di rivestirsi ». Fatta propria la negazione
crociana del materialismo storico come filosofia, e affermato che nel
campo speculativo il marxismo era stato superato da Croce e Sorel,
Mautino notava tuttavia la « comprensione, profonda nel Labriola, del
valore nazionale rappresentato dal movimento operaio. Questo rigido
socialista sognava un’Italia attraverso di quello rigenerata e fatta più
civile [...]. In questo augurio di una Italia nuova consiste una
delle ragioni, e sicuramente non la minore, della “ perpetua giovinezza”
che l’antico e recentissimo editore riconosce nell’opera del Labriola »
£. Se in quest’ultima affermazione può apparire un’acquisizione di stampo
nazionalistico del pensiero di Labriola, analoga a quella compiuta da
Volpe nella prefazione alla monografia di Dal Pane, decisamente
liquidatorio era il giudizio sul socialismo espresso da Mau- tino nella
recensione delle memorie di organizzatori operai pubblicate da Laterza
(Zibordi, Rigola, Riguzzi) e dalla collana dei « Problemi del lavoro »
(Azimonti, Zanella, Bettinotti, Anzi, Rigola): staccato dal marxismo
scienti- fico, « il socialismo fu soprattutto una convinzione mora-
le », ma anche cosî le memorie dei suoi militanti, annotava
Mautino, lasciano trasparire del grigiore spirituale. Pare che
dopo tanto tre- pidar di speranze e divampare di passioni e avvicendarsi
di illusioni e delusioni e travagliarsi e lottare, l’animo tendesse a
volgersi di preferenza a faccende organizzative, e di miglioramenti
economici, e di compromessi politici [...]. Ormai il vecchio socialismo
moriva senza gloria; e anche questi suoi ultimi fedeli, guardando oggi
al futuro, non sanno più ritrovare nei miti troppo facili della loro
gio- venti motivi capaci di animarli e correggerli ancora ,
6 A. Mautino, Intorno a un teorico del materialismo storico, in « Rivi-
sta di storia economica », IIl (1938), pp. 332-334. 6 A. Mautino,
Memorie di organizzatori operai italiani, in « Rivista di storia
economica », IV (1939), p. 76. Recensendo il Concezto cristiano della
proprietà di J. M. Palacio curato da Fanfani per le edizioni di Vita e
pensiero, Mautino trovava modo di condannare anche il cattoli- A
sottolineare le carenze del socialismo e il primato del liberismo
interveniva autorevolmente, nel 1940, Attilio Cabiati: notando come « da
parecchi anni a questa parte il socialismo, che pareva “relegato in
soffitta” », fosse venuto attirando l’attenzione di studiosi tedeschi ed
anglo-ameri- cani, rivolti a vagliare « la possibilità teorica di un
governo economico collettivista », affermava che tutti arrivavano alla
conclusione che « qualunque sistema economico si adotti, ove esso miri a
procurare col minimo dispendio di forze il massimo benessere della
collettività, deve soddi- sfare a quello stesso sistema di equazioni, che
in libera concorrenza garantiscono l’utilità massima ai singoli
opera- tori sul mercato »; perciò solo lottando contro l’interven-
tismo statale, concludeva Cabiati, « l'economia potrà rifio- rire,
dimostrando coi fatti che l’azione privata, malgrado i propri difetti
innegabili, supera senza paragone possibile qualsiasi forma di
costituzione socialistica della società, che costituirebbe l’iperbole del
burocratismo, coi suoi insosteni- bili difetti e con la formazione della
peggiore oligarchia arri- vista » £. La battaglia
antiprotezionistica dei liberisti raccolti at- torno a Luigi Einaudi,
quale si rispecchia non solo nelle sue riviste, ma anche nei volumi di
economia della casa editrice che ora esamineremo, aveva quindi
un’impronta ideologica conservatrice e antisocialista che, se rappresenta
solo una faccia dell’iniziativa culturale di Giulio Einaudi, è
forse quella che meglio spiega la capacità di quest’ultimo di
aprirsi degli spazi di manovra nelle maglie del regime. cesimo
sociale in quanto, «al pari del socialismo democratico, la poli- tica
cattolica si volge alla plebe con le lusinghe della benedizione pubblica
e la promessa d’un paradiso nel cielo », facendosi sostenitrice
dell’interventismo statale (Cattolicesimo e questione sociale, in «
Rivista di storia economica », III (1938), pp. 79-80). 6 A.
Cabiati, Intorno ad alcune recenti indagini sulla teoria pura del
collettivismo, in « Rivista di storia economica »,{prendeva in esame, fra gli
altri, saggi di R. L. Hall e M. Dobb). Di notevole interesse per valutare,
non solo sul piano ideologico, il rapporto fra il gruppo di Luigi Einaudi
e il regime è la collana « Problemi contemporanei », che per dieci
anni — dalla fondazione della casa editrice al 1944 — riflette l'opinione
dei liberisti sulla politica economica ita- liana e internazionale, con
delle valutazioni che, passando quasi sotto silenzio gli indirizzi
corporativi del fascismo, non sono tali da costituire, nella maggior
parte dei casi, un terreno di scontro con gli economisti del regime. Il
tema di maggior rilievo della collana è la crisi del 1929 e il New
Deal rooseveltiano: un punto sul quale l’attenzione dedicata ai problemi
monetari anche dai liberisti « per- mette loro di trovare un terreno di
incontro con i corpora- tivisti, dati gli indirizzi della politica del
regime in questo settore » ©, anche se, ovviamente, da parte fascista si
cerca di assimilare l’esperimento di Roosevelt — in quanto inter-
ventista — al corporativismo e di ricavarne quindi un’ulte- riore
giustificazione di quest’ultimo come terza via tra capi- talismo e
socialismo; mentre l’entourage di Luigi Einaudi, nonostante uno sforzo di
documentazione, manifesta dure critiche nei confronti delle analisi
catastrofiche della crisi e della politica del presidente americano. La
posizione dei liberisti — accanto al gruppo einaudiano è da
annoverare anche quello che si raccoglie attorno al « Giornale
degli economisti » — giustifica « un giudizio di incomprensione e
di mancanza di attrezzatura teorica idonea da parte di questi economisti
rispetto ai problemi posti dalla crisi ame- ricana. È assente la
coscienza del dramma di milioni di disoccupati e non esiste quel
travaglio sull’adeguatezza dei propri strumenti teorici che caratterizza
vari economisti americani. Vi è, soprattutto, una difesa della “scienza eco-
nomica” e delle “leggi economiche” contro la politica eco- nomica e la
politica in generale » ”. Mentre il governo ® M. Vaudagna, New
Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche
italiane, in G. Spini, G. G. Migone, M. Teodori, Italia e sno dalla
grande guerra a oggi, Padova, Marsilio, 1976, p. 108. idem.
fascista accentuava l’intervento dello Stato nell’economia, i liberisti
cercarono di ridimensionare la portata della crisi e di attribuirne le
cause, in ultima istanza, alla politica pro- tezionistica promossa dai
vari Stati dopo la prima guerra mondiale e, quindi, a « errori di uomini
» allontanatisi dalle « leggi economiche ». Già nel 1931
Luigi Einaudi, svolgendo su « La Riforma sociale » delle « riflessioni in
disordine » sulla crisi, aveva individuato nel crack del 1929 la
manifestazione di quei « cicli brevi » che « sono dominati dagli errori
degli uomi- ni » e, in quanto tali, facilmente superabili. L’insorgere di
uno squilibrio fra domanda e offerta, una delle cause della crisi, era
imputato moralisticamente a una deviazione dai modelli tradizionali di
vita delle classi inferiori aspiranti a salire nella scala sociale. Se in
Russia, osservava, « non è concepibile crisi » in quanto domanda e
offerta coincide- vano « forzatamente » per l’intervento dello Stato
soffoca- tore della libertà e delle aspirazioni individuali, il «
mo- dello » americano, che faceva tendere ad un alto tenore di vita
tutte le classi, era un elemento perturbatore dell’equi- librio fra
produzione e distribuzione del reddito: di qui la convinzione che « la
crisi via via si attenuerà a mano a mano che i nuovi ceti diventeranno
vecchi e che il mare sociale in tempesta si acqueterà. Ogni classe ed
ogni ceto ritornerà a poco a poco a pregiar se stesso, a vivere
secondo i propri gusti fondamentali e tradizionali », in modo che «
l’industria potrà assai meglio prevedere la domanda di beni da parte di
una società » meno fluida, meno commossa da mutazioni e commistioni di
ceti inetti a comprendersi a vicenda e furiosamente spinti ad imitare gli
aspetti più ap- pariscenti della vita di ognuno di essi ». E, mentre
negava la « novità» della crisi presente e confutava i suggerimenti
di Keynes cosî come l’utilità di ogni piano economico, mosso dal terrore
per il « gigantismo » industriale ribadiva il suo arcaico ideale di un
mondo economico dominato dai piccoli produttori, che si illudeva di veder
realizzato in Italia, dove « probabilmente il peso relativo della
piccola impresa famigliare, pudicamente condotta fuori degli occhi
curiosi degli statistici, è grandissimo, superiore a quanto
224 Le origini della casa editrice Einaudî si
immagina dai più. Forse quel peso è crescente. Contro i piani
internazionali, contro i consigli dei periti, la sanità fondamentale
italiana ha reagito concentrandosi nella in- frangibile unità famigliare
»: un ideale, il suo, che poteva incontrarsi con alcuni aspetti della
dottrina sociale catto- lica e della propaganda ruralistica del regime
”. Analoga era la posizione di Attilio Cabiati, che in Crisi
del liberismo o errori di uomini? accompagnava l’analisi dei fenomeni
economici, sufficientemente articolata, con un fer- reo dogmatismo,
affermando che « l’abbandono dei prin- cipi economici, messi in disparte
in omaggio a vere o pre- sunte necessità politico-sociali, ha sviluppato
nel mondo intero, come “naturale” conseguenza, una serie di
disastri economici »; l’economia, aggiungeva ricordando Pareto e
Barone, « è una scienza precisa la quale obbedisce a leggi naturali. Per
cui sia che l’organizzazione economica resti abbandonata al self interest
dei singoli, sia che venga data nelle mani dello stato sotto una forma
qualsiasi, una condi- zione è necessaria: che i privati o il ministro
della produ- zione agiscano secondo le leggi nazurali della scienza
eco- nomica » ”. Si comprende quindi come la domanda formu- lata
nel titolo del volume fosse puramente retorica, e come Cabiati considerasse
la crisi, e i mezzi messi in atto da Roosevelt per superarla, come «
errori di uomini », frutto cioè dell’indebita ingerenza della politica
nell’economia. A sostegno di questa tesi viene proposta l’opera di uno
dei più ‘autorevoli esponenti neo-classici della London School of
Economics, Lionel Robbins, che agli insegnamenti di Mar- 7 L.
Einaudi, Saggi, Torino, La Riforma sociale, 1933, parte II, pp. 228, 373,
377, 405-410, 515. Il 17 marzo 1939 Einaudi inviava a Mussolini una
lettera in cui considerava la proposta di introdurre nel codice civile
l’« indivisibilità dei fondi rustici» un freno alla piccola proprietà e
allo sviluppo demografico del paese (ACS, Segreteria parti- colare del
Duce, Carteggio ordinario, fasc. 528771, sottofasc. 2). 7 A.
Cabiati, Crisi del liberismo o errori di uomini?, Torino, Einaudi, 1934,
pp. 9-11. Contro «il ricorso all’immutabilità delle cosf dette leggi
economiche, ripiego in cui si annida il falso presupposto della naturale
armonia degli interessi », espresso in un altro volume di Cabiati (Il finanziamento
di una grande guerra, Torino, Einaudi, 1941), si schierava A. Brucculeri,
Ecomozzia bellica, in «La Civiltà cattolica », shall — cui si rifacevano, a
Cambridge, pur con posizioni diverse, Pigou e Keynes — anteponeva quelli
di Pareto, von Mises e Wicksteed. In Di chi la colpa della grande
crisi? E la via di uscita Robbins, nei cui riguardi i liberisti italiani
dimostravano una speciale venerazione, affermava che dopo la guerra « il
raggruppamento delle imprese indu- striali in consorzi, l’accresciuta
forza dei sindacati operai, il moltiplicarsi dei controlli governativi
hanno creato una struttura economica che, quale che possa essere la sua
supe- riorità etica od estetica, è certo assai meno capace di
rapidi riadattamenti di quanto lo fosse il vecchio sistema pit
aperto alla concorrenza ». E analizzando i provvedimenti dei vari governi
— moneta manovrata e protezionismo — scorgeva il pericolo di uno
scivolamento verso il socialismo, in parte già in via di
realizzazione: Il carattere nettamente socialistico della politica
economica in Inghilterra, e in tutto il mondo moderno, non è determinato
dagli elementi obbiettivi della situazione, o dal fatto che le masse
abbian deciso di riorganizzare socialisticamente la produzione. Se la
politica economica ha questo carattere è perché uomini d’intelletto e di
cul- tura hanno creato la teoria socialistica e hanno gradualmente
conver- tito alle loro idee le masse ?3. Le stesse
preoccupazioni per il « socialismo di Stato » paventato dai liberisti
italiani ”* sono avvertibili nella rac- 7 L. Robbins, Di chi la
colpa della grande crisi? E la via di uscita, prefazione di L. Einaudi,
traduzione di S. Fenoaltea, Torino, Einaudi, 1935 (ediz. originale 1934,
col titolo The Great Depression), pp. 10, 80, 219. Fenoaltea scriveva
all’editore di aver fatto rivedere la traduzione da Luigi Einaudi, e di
aver proposto l’opera « per il desiderio, e quasi per il dovere morale,
che sentivo di far conoscere agli italiani questo libro cosi bello, cosî
coraggioso, e così necessario » (AE, Fenoaltea). Su Robbins cfr. in
italiano C. Napoleoni, I/ pensiero economico del ’900, Torino, Einaudi,
1976, pp. 35-43, e l’introduzione di V. Malagola Anziani a L. Robbins, La
base economica dei conflitti di classe, Firenze, La Nuova Italia,
1980. 74 Il 13 aprile 1934 Vittorio Racca scriveva dagli Stati
Uniti a Luigi Einaudi che « nelle riforme rivoluzionarie presidenziali
americane si fa macchina indietro a tutto spiano; il paese, sia perchè
vede che la recovery sta venendo in modo indiscutibile, sia perchè, come
conse- guenza di ciò, si rifà coraggio, sia perchè si vede che quelle
riforme ritardano, invece di favorire il ritorno della vita normale, non
ne vuole più sapere di socialismo di Stato » (AFE, Racca). Già il
discorso del 1° 226 Le origini della casa editrice
Einaudi colta di saggi degli economisti di Harvard su I/ piano
Roo- sevelt: gli autori, pur dichiarandosi « ben lungi dal credere
che l’individualismo del secolo decimonono rappresenti l’apice della
perfezione per tutti i tempi », si mostrano con- trari all’ingerenza
della politica nell'economia e favorevoli a un laissez faire corretto in
modo tale da impedire lo sfrut- tamento dell’uomo sull’uomo senza cadere
nella soluzione socialista. Mentre per Joseph A. Schumpeter « l’unico
carat- tere distintivo della presente crisi mondiale [...] è il
fatto che i motivi extra-economici recitano la parte principale del
dramma », Overton H. Taylor, trattando esplicitamente del « conflitto fra
economia e politica », sostiene che « l’inte- resse economico effettivo
di ogni gruppo o frazione di po- polo dev'essere riposto in una generale
rinunzia o severissi- ma limitazione della “legislazione di classe” e
della lotta per il potere e l’avvantaggiamento relativo, che vi sta
alla base, salvo che qualche gruppo o classe possa realmente
sperare di condurre a compimento una soluzione sociale secondo il modello
marzistico »; tutto il suo ragionamento è cosi indirizzato a chiedere il
ristabilimento dell’economia di mercato e a confutare i « nuovi radicali
», privi di quel « realismo economico » il quale « deve riconoscere
che, nella nostra presente situazione, l’interesse comune a una
generale ripresa degli affari onesti, dell’agricoltura e del-
l’occupazione operaia è massimamente minacciato dalla stra- tegia del
potere e delle illusioni economiche delle classi mal- contente » *
Il giudizio sul New Deal non è sostanzialmente modifi- cato da
alcune note informative sulle riviste einaudiane o dal reportage
giornalistico di Amerigo Ruggiero *, né dalla novembre 1934 in cui
il segretario di Stato Cordell Hull si dichiarava disposto ad abbassare i
dazi doganali, era salutato come L'atto di contri- zione degli Stati
Uniti (« La Riforma sociale », XLI (1934), pp. 691-696). 7 J.A.
Schumpeter, E. Chamberin, E. S. Mason, D. V. Brown, S.E. Harris, W.W.
Leontiefi, O.H. Taylor, Il piano Roosevelt, traduzione di Mario De
Bernardi, Torino, Einaudi, Cfr. M. Einaudi, Dopo un anno di governo di
Roosevelt, «La Cultura », XIII (1934), pp. 66-67; V. Racca, Il «New Deal»
roosevel- tiano: in che consiste, e Il «New Dedl» rooseveltiano: gli
effetti, in «La Riforma sociale », A. Rug- stessa
pubblicazione di due opere di Henry A. Wallace, ministro dell’agricoltura
dell’amministrazione Roosevelt, che pur dimostrano un intento informativo
da parte della casa editrice. Presentando Che cosa vuole l'America?
— libro nel quale Mussolini vide la conferma che anche gli Stati
Uniti andavano « verso l’economia corporativa » —, Luigi Einaudi
riconosceva per la prima volta che « il New Deal in fondo è un nobile
tentativo di far qualcosa, non perché si sappia che quel qualcosa sarà
fecondo di risultati vantaggiosi, ma perché urge il dovere di lottare
contro la disperazione, di infondere coraggio, di impedire che
milioni di uomini si rivoltino contro la società e distruggano,
nel- l’impeto dell’ira, il risultato di tre secoli di sforzo labo-
rioso »; ma si premurava al tempo stesso di mettere in evi- denza la «
grande illusione » di Wallace 7, un « liberista » costretto dalla realtà
della crisi ad ammettere il controllo statale sull'economia, nella
speranza che la nuova epoca si persuadesse che « l’umanità possiede oggi tanta
potenza mentale e spirituale e tanto dominio sulla natura da
togliere per sempre ogni valore alla teoria della lotta per la vita
e sostituirla con la legge più alta della cooperazione ». Wal. lace
appariva infatti combattuto fra le necessità del mo- mento e le prospettive
di più lungo periodo, prestandosi quindi anche a una lettura non distante
dalla posizione dei liberisti italiani, preoccupati pur sempre delle
tendenze monopolistiche del capitalismo contemporaneo: poiché l’an-
tico sistema, affermava Wallace, « era il prodotto di un’avi- dità e di
un opportunismo sfrenati », siamo stati costretti per forza a
pensare in termini non di produ- zione e di commercio liberi, ma di
produzione e di commercio pro- grammati dentro e tra le nazioni. Il
rifiuto di Adam Smith a trac- ciare meschine piccole linee locali di
confine attorno ai concetti di giero, L’America al bivio, Torino,
Einaudi, 1934. Ruggiero pubblicherà nel 1937 presso Treves un volume
sugli Italiani in America, lodato da «Gerarchia » perchè metteva in
risalto «la grandiosa opera di va- lorizzazione dell’Italia intrapresa
dal Fascismo » Wallace, Che cosa vuole l’America?, introduzione di L.
Einaudi, Torino, Einaudi, 1934 (ediz. originale 1934), p. 25 (Einaudi
dichiara di averlo tradotto lui stesso: p. 12); L. Einaudi, La grande
illusione di Wallace, in «La Cultura », commercio e di civiltà può tuttavia
ancora adesso giustamente inco- raggiare le menti ed i cuori a compiere
sforzi più grandi. Un popolo libero sente vivacemente il dolore del
nazionalismo, cioè del protezionismo e dell’isolamento economico
*. An- che in Nuovi orizzonti, in cui pur si vide la proposizione
di un programma « sostanzialmente identico al sistema corpo- rativo
italiano » ?, Wallace osservava la necessità di « con- troliare quella
parte del nostro individualismo che produce l’anarchia e la miseria
diffusa », assicurando che « affidarsi a simili espedienti di
redistribuzione del reddito e delle possibilità, non ci fa cadere nel
socialismo e nel comunismo. E nemmeno costituisce il metodo dei pirati
capitalistici della scuola economica neomanchesteriana »; ma
affermava anche la temporaneità dei centrolli statali
sull'economia, per concludere con una proposta conforme agli ideali
del New Deal, ma difficilmente assimilabile a quelli del corpo-
rativismo: La democrazia economica dovrebbe forse create i freni e
i mezzi d’equilibrio che caratterizzano la democrazia politica, ma essa
deve anche porre l’accento su un pronto ed attivo apprezzamento
delle relazioni economiche mutevoli. La democrazia economica deve
tro- varsi in posizione tale da resistere a sconsiderate pressioni
politiche. Al tempo stesso, essa deve effettivamente rispondere ed essere
pron- tamente ben disposta verso le necessità urgenti del popolo da
cui sgorga il potere. La proposta da parte di Luigi Einaudi
— che pur si preoccupava di premettervi sue « avvertenze » — di
testi che non riflettevano soltanto le opinioni di liberisti, ma
erano passibili anche di una lettura in senso corporativista, 78
H.A. Wallace, Che cosa vuole l’America?, cit., pp. 75, 100. F. Gazzetti
osservava che «il lettore fascista avrà modo leggendo il libro di vedere
che le più indovinate istituzioni americane sono state imitate da
analoghe iniziative del Regime, persino le migrazioni interne!» {«
Bibliografia fascista », X (1935), p. 495). 79 Cfr. la recensione
di E. Corbino in «Nuova rivista storica », Wallace, Nuovi orizzonti,
traduzione di M. De Bernardi, Torino, Einaudi, 1935 (ediz. originale
1934, col titolo New Frontiers) pp. 25, 30, 244-245.
229 è indice della consapevolezza che il dibattito
mondiale sulla crisi stava assumendo negli anni ’30 tendenze sempre pit
decisamente anticapitalistiche, che in Italia avevano un qualche riscontro
nelle tesi del « corporativismo di sini- stra » e dell’« economia
programmatica », che ai suoi occhi apparivano, in quanto statalistiche,
pericolosamente otien- tate verso il socialismo *. Di qui la
presentazione, accanto a Wallace, di un autore « moderato » come Arthur
C. Pigou, che quanto meno salvasse l’essenza del capitalismo e
desse garanzie in senso antisocialista. In Capitalismo e socialismo il
successore di Marshall nella cattedra di Cam- bridge, al termine
dell’analisi di pregi e difetti dei due sistemi economici, proponeva di
mantenere « la struttura generale del capitalismo » modificandola però
gradualmente con interventi statali al fine di « ridurre le
diseguaglianze più gravi nelle fortune e nelle occasioni di avanzamento
che offendono la nostra presente civiltà » : la proposta non era
certo tale da riscuotere pienamente le simpatie di Einaudi, per il quale
Pigou « oggi sarebbe un “New Dealer” roose- veltiano negli Stati Uniti o
un corporativista in Italia », e appariva ingenuo nell’assumere « come
verità sacrosante le favole raccontate e rammostrate dai comunisti russi,
consu- matissimi mistificatori, ai coniugi Webb, che sono forse
stati nel campo scientifico la conquista più preziosa dei bolscevichi » —
l’allusione era alla celebre opera sull’URSS che nel 1938 la casa
editrice si rifiutò di tradurre —; ma l'intervento dell’economista
inglese si giustificava come solido argine nei confronti dei detrattori
del capitalismo: « gli studenti di Cambridge — affermava infatti
Einaudi —-, sceltissimo fiore del paese reputato il più
aristocratico del mondo, affettano oggi quasi tutti di essere comunisti.
Il libretto di Pigou è una doccia fredda per codesti puri con-
sequenziarii » ®. 81 Cfr. L. Dal Pane, Commemorazione di Luigi
Finaudi, cit., p. 312. 82 A.C. Pigou, Capitalismo e socialismo.
Critica dei due sistemi, tra- duzione di G. Borsa, Torino, Einaudi, 1939
(ediz. originale 1937), pp. 137-138. 83 Ibidem, pp. 2-4
(Avvertenza di L. Einaudi). La traduzione dell’ opera dei Webb, lodata da
Umberto Calosso su « Giustizia e Libertà » 230 Le
origini della casa editrice Einaudi Destinata a una maggiore
risonanza e a ricevere il plauso dei recensori fascisti era la critica severa
della società sovie- tica svolta da William H. Chamberlin in L'età del
ferro della Russia, dove il titolo stava a indicare il periodo del
primo piano quinquennale ma anche i metodi ferrei con cui era stato
condotto. « Il libro è stato scritto prima delle recenti manifestazioni
di terrorismo all’interno e di aiuto dato all’estero ai movimenti
sovvertitori dell’ordine so- ciale — avvertiva nel 1937, nel corso della
guerra di Spa- gna, l'editore italiano — [...]. Ma la potente analisi,
tanto più spietata quanto più obbiettivamente contenuta, dell’ab-
brutimento spirituale della Russia comunista, giustifica la resistenza
che l'Europa oppone vittoriosamente alla propa- gazione del bolscevismo
». Con uno stile vivacissimo e con frequenti — ma scontati e logori —
raffronti fra Stalin e Pietro il Grande, l’autore non si limitava a
illustrare il pro- cesso di industrializzazione dell'URSS, ma dedicava
ampio spazio al soffocamento delle libertà personali, civili e
reli- giose, da parte dell’« autocrate della repubblica rossa », un
paese in cui si poteva notare « il realizzarsi di una teoria fanatica che
arreca grandi mutamenti di vita e di pensiero ed al tempo stesso condanna
alla distruzione milioni di avversari », 0 « il risorgere in nuove forme,
e sotto la ma- schera di frasi nuove, di tipiche antiche concezioni
russe come il diritto assoluto dello stato a servirsi degli
individui e distruggerli, se cosî vuole, per il raggiungimento dei
suoi scopi ». E ciò senza che si fossero raggiunti apprezzabili risultati
dal punto di vista economico, perché, « se con il grano, il caffè e il
cotone distrutti si potrebbe idealmente formare una montagna come
monumento alle follie e alle debolezze del capitalismo, una montagna non
meno grande si potrebbe innalzare nell’URSS con tutte le merci che
sono state sprecate e distrutte non volontariamente, ma per effetto
di incuria e di inefficienza proprio quando la man- canza di viveri si
faceva più acutamente sentire ». Di qui (7 febbraio 1936), era
stata consigliata da Alessandro Schiavi a Giulio Finaudi, che il 18
febbraio 1938 gli rispondeva: « Ma non Le pare che gli Autori prendano
troppo sul serio l’economia programmatica dei Sovieti? » (AE,
Schiavi). l'insegnamento di carattere generale che da questo, come
da altri volumi della collana, poteva trarre il lettore: « L’esperimento
russo ha dimostrato all’evidenza che l’eco- nomia programmatica non è una
panacea, che nel funziona- mento di un sistema economico strettamente
centralizzato e controllato dallo stato possono verificarsi errori non
meno disastrosi delle deficienze e degli attriti di un sistema che
funzioni senza il beneficio di un piano » *. Un giudizio che, se non
poteva incontrare la piena approvazione dei liberisti, poneva sul tappeto
un quesito al quale i corporativisti af- fermavano di aver già risposto,
ma che al tempo stesso era riformulato come ancora irrisolto dalla
rivista di Codignola « Civiltà moderna », secondo la quale « resta uno
dei pro- blemi fondamentali del regime sovietico quello di trovare
quanto individualismo sia necessario pel funzionamento d’un sistema
collettivista, cosî come in altri paesi il pro- blema è quello di trovare
quanto controllo collettivo debba istituirsi per far bene funzionare un
sistema individuali- sta! » ®. i Il quesito verrà riproposto,
addirittura con alcuni arre- tramenti teorici in senso liberista, nei
volumi di economia pubblicati dalla casa editrice nel 1945-46. Non è
quindi da stupirsi che nel 1944, dopo la caduta di Mussolini, appa-
risse come ultimo titolo dei « Problemi contemporanei » curati da Luigi
Einaudi un altro volume di Robbins, Le cause economiche della guerra,
dove, più che la critica 3 W.H. Chamberlin, L'età del ferro in
Russia, traduzione di S. Fenoaltea, Torino, Einaudi, 1937 (ediz.
originale 1934), pp. 11-12, 21, 74, 76. « L'entusiasmo è un po’ gonfiato
a causa delle circostanze, ma in fondo il libro si meritava una buona
accoglienza », scriveva l’editore a Fenoaltea il 16 febbraio 1937 (AE,
Fenoaltea). Chamberlin pubblicò anche, nel 1937, Collectivism, a False
Utopia. 85 Recensione di A. Rapisardi Mirabelli, in «Civiltà
moderna », Per Felice Battaglia il libro mostrava « l’organiz-
zazione concreta, in atto, del regime, la vita dolorosa di un popolo, che
ignora ogni attributo della persona e si consuma in un tono assai basso
di esistenza economica e morale, senza neppure supporre che altri possa
realizzare forme più soddisfacenti » (« Rivista storica italiana », s. V,
I (1936), p. 103); «libro di informazione onesta, spassionata », retto
dall'idea che « alla dinastia degli zar sia subentrata una dinastia di
fanatici sacerdoti marxisti», appariva al «Meridiano di Roma» (II, 24
gennaio 1937). . 232 Le origini della casa editrice
Einaudi svolta dall’autore nei confronti della teoria leninista
dell’im- perialismo e la sua proposta degli Stati Uniti d'Europa in
quanto « non il capitalismo, ma l’organizzazione politica anarchica del
mondo è il male principale della nostra civil- tà », interessa
l’avvertenza dell’editore, che in Robbins vedeva l’esponente di quelle
forze politiche e culturali « che intendono superare gli inconvenienti e
le deficienze della moderna civiltà capitalistica senza apportare
nessuna vera trasformazione strutturale, nessuna modificazione pro-
fonda e rivoluzionaria all’attuale organizzazione sociale »; e, nella
preoccupazione per il futuro, il lettore era invitato a « giudicare ogni
forma di riformismo e la validità degli apporti, che possono ancora
offrire le forze conservatrici nel nuovo mondo che si prepara » Mentre,
nonostante questi limiti, nei testi dedicati agli aspetti internazionali
della crisi poteva passare una polemica indiretta nei confronti della
politica economica del regime, nei volumi della collana che affrontano i
problemi econo- mici italiani è avvertibile, nel migliore dei casi, una
cautela dettata dal timore della censura fascista. Già il 28 marzo
1931, scrivendo a Luigi Einaudi a proposito dei tagli rite- nuti
necessari per un suo articolo, Edoardo Giretti affer- mava che « è molto
mortificante di non sapere più quello che si può dire e quello che invece
bisogna tacere; ma d’al- tra parte è anche giustissima la preoccupazione
di conser- varci il mezzo di poter dire alcune delle cose che si
pen- sano e che, forse, è ancora utile di far conoscere intorno a
noi ». Sempre Giretti, parlando del volume scritto in colla- borazione
col nipote Luciano su Il protezionismo e la crisi, che esprimeva giudizi
sulla politica economica del regime, scriveva di aver « già fatto il
possibile per non dire niente di più di quello che oggi si può dire, ma
vi è sempre il peri- 86 L. Robbins, Le cause economiche della
guerra, traduzione di E. Rossi, Torino, Einaudi, 1944 (ediz. originale
1939), p. 95. Il libro era stato proposto all’editore da Ernesto Rossi il
1° luglio 1942 (AE, Rossi). «È meraviglioso vedere come le menti degli
economisti liberali inglesi siano aperte alle idee fondamentali del
fascismo », come il corporativismo e il concetto dell’« ordine nuovo
europeo antisovietico », affermerà f. p. [Felice Platone] recensendo il
libro su « Rinascita » (II (1945), p. 191). 233
colo di non dimostrarsi abbastanza... reticenti » ”. Tutta-
via, proprio questo volume è fra i più coraggiosi nella pole- mica:
svolgeva, con frequenti citazioni da La condotta e gli effetti sociali
della guerra italiana di Luigi Einaudi, una dura critica dei
provvedimenti protezionistici, lodando le « coraggiose riforme » in senso
liberista di De Stefani, il cui abbandono veniva giustificato con le «
difficoltà inerenti al generale disordine delle relazioni internazionali,
ed ai con- trasti tosto abilmente suscitati dai gruppi organizzati
per la difesa dei loro particolari interessi minacciati ». Ma os-
servava che l’isolamento economico, se poteva non danneg- giare paesi con
ampio mercato interno, era un « assurdo » per l’Italia; in particolare
Luciano Giretti, dopo aver affer- mato che « il raggiungimento
dell’autarchia, portando natu- ralmente con sé la riduzione a zero delle
esportazioni, fa- rebbe incontrare enormi perdite agli interessi
produttivi dipendenti dai mercati mondiali », sosteneva la necessità
di tornare al liberismo, pur con tutti i suoi limiti *. Polemico
era anche il volume di De Viti De Marco che sosteneva l’erroneità della
teoria secondo la quale la banca crea cre- dito, lodato da Einaudi che
notava come « su questa teo- ria, se ben si rifletta, riposano quasi
tutte le modernissime proposte le quali vorrebbero che la banca fosse la
suprema regolatrice del credito e della attività industriale, la
leva necessaria per risanare le crisi e far uscire il mondo dalla
depressione » ® In altri volumi, invece, il giudizio sulla politica
econo- 87 AFE, E. Giretti (lettere del 28 marzo 1931 e del 14
ottobre 1934). 88 E. e L. Giretti, Il protezionismo e la crisi,
Torino, Einaudi, 1935, pp. 54-55, 77, 143; era necessario, si afferma, «
tornare a quel libero scam- bio che, se non rende possibile un alto tenor
di vita in un paese, dove le risorse naturali sono misere, il lavoro poco
produttivo e gli impren- ditori poco geniali; se non impedisce il triste
fenomeno della disoccu- pazione dovuta alle oscillazioni del ciclo
economico; se non porta infine alla prosperità un popolo che per varie ragioni
non può ottenerla, va almeno esente da tutti i mali che della protezione
sono caratteristici, ed ha tuttavia influsso benefico nel far sf che
ognuno sfrutti nel migliore dei modi il proprio lavoro, ottenendo la
massima quantità di beni in cambio di quelli che egli stesso ha prodotto»
(pp. 163-164). 8 A. De Viti De Marco, La funzione della banca.
Introduzione allo studio dei problemi monetari e bancari contemporanei,
Torino, Einaudi, 1934; recensione di L. Einaudi ne «La Cultura », XIII
(1934), p. 136. 234 Le origini della casa editrice
Einaudî mica del regime risulta più favorevole di quanto ci si
sa- rebbe immaginato sulla base dell’impostazione liberista della
collana. Alcuni si presentano come contributi alla solu- zione di
problemi economici concreti, come La questione petrolifera italiana
(1937) di Cesare Alimenti, che pur so- stiene l’insufficienza
dell’autarchia basata sull’uso dei suc- cedanei del petrolio, o
L'agricoltura italiana e l’autarchia (1938) il cui autore, il senatore
Arturo Marescalchi, già sottosegretario all’agricoltura dal 1929 al 1935,
espone una serie di consigli pratici per obbedire all’invito
all’autar- chia alimentare rivolto da Mussolini nel discorso alle
Cor- porazioni del 15 maggio 1937 ”. Meritevole di un premio
dell’Accademia d’Italia è il volume sulle Sanzioni di Luigi Federici,
teso a dimostrare che « la unità di spirito di idee di volontà che oggi
noi possiamo vantare è — assieme al- l’ordinamento corporativo — la
migliore forza posta al ser- vizio del paese per realizzare l’unità di
azione necessaria per resistere e per spezzare il blocco » ”. Comprensivo
verso i provvedimenti governativi culminati nella istituzione del-
l’IRI si dimostra lo stesso Cabiati, osservando che « quando le classi
industriali agricole e finanziarie di un paese recla- mano ad ogni
difficoltà l’aiuto dello stato, è logico che que- sto, per ben
amministrare il danaro pubblico, imponga loro la sua tutela e la sua sorveglianza
» ”. E fino ad un’esalta- % Il 10 febbraio 1938 l’editore,
annunciando a Marescalchi che il suo volume era pronto, scriveva: « Ho
pensato che il volume potrebbe essere distribuito, a cura del Ministero
dell’Agricoltura, alle Cattedre Ambu- lanti, Scuole agricole, biblioteche
provinciali, ecc.» (AE, Marescalchi). 91 L. Federici, Sanzioni,
Torino, Einaudi, 1935 (II ediz. 1936), p. 12; il 19 ottobre 1935 l’autore
scriveva a Luigi Einaudi che avrebbe redatto il volumetto «secondo lo
schema da Lei suggeritomi» (AFE, Federici). Federici, già allievo di
Einaudi, era responsabile della pagina finanziaria de « L’Ambrosiano
». 9 A. Cabiati, Crisi del liberismo o errori di uomini?, cit., p.
173; dando notizia di un altro lavoro di Cabiati (Il finanziamento di una
grande guerra, cit.), Luigi Einaudi affermava che l’autore «ammira la
teoria germanica odierna, per cui la finanza è subordinata alla guerra ed
il ministro delle finanze non fa neppure più parte del Comitato della
politica economica; ma pone le condizioni ed i limiti dello sforzo che il
paese può sostenere per la condotta della guerra. La teoria cosî
continua- mente si rinnova, ma non rinnega, pure perfezionandole e
adattandole alle nuove esperienze, le verità antiche » (« Rivista di
storia economica », VI (1941), p. 146). 235
zione retorica della politica economica del regime si spin-
geva Franco Ballarini, che non si limitava a lodare il di- scorso di
Pesaro e tutta la politica monetaria del governo o l’istituzione
dell’IRI, ma arrivava ad affermare che « in un mondo brancolante fra puro
comunismo alla russa, super- capitalismo dei trusts o cartelli privati e
capitalismo di Stato, la luce venne dall’Italia. Si chiamò
corporativi- smo »”. Ancora più concretamente Francesco Repaci, uno
dei più fedeli collaboratori di Luigi Einaudi, lodava il rior- dinamento
della finanza locale attuato con il testo unico del 1931 e con la legge
comunale e provinciale del 3 marzo 1934, specificando che la riduzione
del 12% sulle retribu- zioni del personale era stato « elemento idoneo a
miglio- rare la situazione finanziaria degli enti locali » *.
La collana non si limitò quindi a una funzione di orientamento
teorico generale, ma svolse anche una serie di interventi su temi
concreti, negando quello che era stato un presupposto originario del suo
ispiratore. Nel 1942, presentando l’Introduzione alla politica economica
di Co- stantino Bresciani Turroni — che dopo la Liberazione avrà
anch’egli un ruolo rilevante, come presidente del Banco di Roma —, Luigi
Einaudi riconoscerà infatti che, dopo avere lungamente creduto
anch’io che ufficio dell’economista non fosse di porre i fini al
legislatore, bensi quello di ricordare, come lo schiavo assiso sul carro
del trionfatore, che la Rupe Tarpea è vicina al Campidoglio, che cioè,
qualunque sia il fine perseguito dal politico, i mezzi adoperati debbono
essere sufficienti e congrui; oggi dubito e forse finirò col concludere
che l'economista non possa distinguere il suo ufficio di critico dei
mezzi da quello di dichiara- 9 F. Ballarini, Dal liberalismo al
corporativismo, Torino, Einaudi, 1935, p. 131. A Marco Fanno, giudicato
da Giuseppe Bruguier molto vicino all’ideologia corporativa (I/
corporativismo e gli economisti italiani, Firenze, Sansoni, 1936, pp.
57-59), e autore de I trasferimenti anormali dei capitali e le crisi
(Torino, Einaudi, 1935), Luigi Einaudi chiese di scrivere «un volumetto
di Economia Corporativa » (AFE, Fanno, 30 luglio 1934). % F.A.
Repaci, Le finanze dei comuni, delle provincie e degli enti corporativi,
Torino, Einaudi, 1936, p. 61. Come giustificazione dell’in- tervento
italiano in guerra fu apprezzato dalla stampa fascista B. Minoletti, la
marina mercantile e la seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi, (na i
Venta fascista », XIX (1940), p. 14, e «Leonardo», XII 1941), p.
62). 236 Le origini della casa editrice Einaudi
tore di fini; che lo studio dei fini faccia parte della scienza
allo stesso titolo dello studio dei mezzi, al quale gli economisti
si restrin- 5 gono 9. La collana da lui diretta
fino al 1944, se non giunse a « porte i fini al legislatore », in alcuni
casi si fece portavoce di quest’ultimo. Ma la situazione cambierà
drasticamente un anno dopo. Nell’ottobre del 1945, dal suo posto di
governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi proporrà al figlio di
pubblicare una serie di volumi sui « Problemi ita- liani » scritti « nel
modo pi oggettivo possibile » — con l’aiuto, per la raccolta dei dati,
dell'Ufficio Studi della Banca — da autori di orientamento liberista,
sotto la super- visione di Bresciani Turroni. Ma il nuovo indirizzo
della casa editrice, che pur dimostrerà una certa fatica a supe-
rare l'impostazione originaria sui problemi economici, non poteva più
accettare le proposte di Luigi Einaudi: trince- randosi dietro il rifiuto
dell’« obiettività » — che i liberisti non avevano certo rispettato — il
consiglio editoriale gli rispose che intendeva « presentare al pubblico
italiano non soltanto un materiale di studio e di lavoro, ma anche
un’opi- nione ben definita, un orientamento costruttivo. Vogliamo
quindi che l’aspetto strettamente economico di un proble- ma non sia
scisso dal suo aspetto politico: perciò, se chie- diamo all’autore
serietà e obiettività di documentazione, gli chiediamo anche di indicare
la sua soluzione politica, che sarà proposta alla libera discussione del
pubblico » *. E nella collana « Problemi italiani » appariranno i
volumi di Dorso, Grifone, Sereni e Grieco. # C.
Bresciani-Turroni, Introduzione alla politica economica, prefa- zione di
L. Einaudi, Torino, Einaudi, 1942, pp. 15-16. A difesa del liberismo di
Bresciani Turroni, e in polemica con un articolo di Guido Carli su
«Civiltà fascista », cfr. anche L. Einaudi, Economia di mercato e
capitalista servo sciocco, in «Rivista di storia economica», VIII (1943),
pp. 38-46. Su Bresciani Turroni cfr. la voce di Amedeo Gambino in
Dizionario biografico degli italiani, vol. XIV, Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1972. 9% Lettera di Luigi Einaudi a Giulio
del 31 ottobre 1945, e risposta a Luigi Einaudi del 7 novembre 1945 (AE,
L. Einaudi). Le firme dei liberisti — da Luigi a Mario Einaudi, a
Cabiati, Giretti e De Bernardi — compaiono anche su « La Cultura », a segnalare
i volumi della collana « Pro- blemi contemporanei », ma non sono tali da
caratterizzare la rivista, centro di esperienze culturali più avanzate,
che ritroveremo in altre collane della casa editrice. Quando appare
nel 1934 per i tipi di Giulio Einaudi, « La Cultura » si presenta
completamente rinnovata rispetto alla serie di Cesare De Lollis e a
quella che le era succeduta dal 1929 al 1933, con Ferdinando Neri e
Arrigo Cajumi: nuova nella veste tipografica, vede alternarsi nel suo
comitato direttivo, accanto a Cajumi e Pavese, Sergio Solmi, Franco
Antoni- celli, Bruno Migliorini, Pietro Paolo Trompeo, Vittorio
Santoli e Norberto Bobbio, a dimostrazione di un legame anche fisico con
la precedente tradizione della rivista ma, al tempo stesso, della volontà
di un cambiamento non solo generazionale. Mentre scompaiono molti
collaboratori di De Lollis, assorbiti dalle iniziative culturali del
regime — pensiamo ad esempio ad Alberto Pincherle, Giorgio Levi
Della Vida, Guido Calogero, Umberto Bosco o Felice Bat- taglia, impegnati
da Gentile nell’Enciclopedia italiana —, fra i nuovi appaiono vari
allievi, al liceo D'Azeglio, di Augusto Monti, Zino Zini e Umberto Cosmo,
che si rial- lacciano per questa via alla tradizione gobettiana,
rivissuta politicamente, da alcuni, nella militanza tra le file di
Giu- stizia e Libertà”. Novità si registrano anche nei
contenuti — non più % Il 27 luglio 1935, riferendo al Ministero
dell’interno sugli arresti del gruppo einaudiano come aderente a
Giustizia e Libertà, il prefetto di Torino scriveva: «Detta setta si
serviva a Torino dell’attività della “Casa Editrice Einaudi” la quale
segnatamente con la pubblicazione della rivista pseudo letteraria “La
Cultura” era riuscita a riunire una cerchia di intellettuali e di antifascisti
ed a servirsi di redattori e collabotatori in maggior parte ostili al
Regime Fascista e noti per aver svolto in pas- sato attiva propaganda
contro il Fascismo »; e aggiungeva che Giulio Einaudi, « all’atto del suo
arresto, non esitò a riconoscere la polarizza- zione intorno alla rivista
‘La Cultura’ di tutto il cosidetto ambiente antifascista torinese» (ACS,
Casellario politico centrale, b. 1877, fasc. 52997). dibattiti
sulla scuola o sulla religione, meno filosofia e più storia, interesse per
i problemi contemporanei * —, pur nella continuità col passato, quale si
manifesta nell’apertura europea — con una particolare attenzione per la
cultura francese — e in una certa oscillazione fra crocianesimo e
anticrocianesimo, anche se quest’ultimo fu presente in mi- sura maggiore.
L’idealismo dei collaboratori della rivista einaudiana, infatti, «
conobbe sfumature molto particolari, si atteggiò in forme proprie, cercò
sempre, pit o meno luci- damente, il contatto con esperienze diverse » ”.
Pi accen- tuata che nella critica estetica di De Lollis è, ad
esempio, l’attenzione per il metodo filologico e per la
collocazione del letterato nel suo tempo, come risulta dalle recensioni
di Cajumi, di Santoli o di Piero Treves !®. E decisamente
anticrociano è il direttore effettivo della rivista, Cajumi, che nel 1934
si scaglia con virulenza contro la critica idealistica rappresentata dai
volumi laterziani di Luigi Russo, Elogio della polemica e Giovanni Verga,
richiamandosi alla batta- glia contro la « critica filosofica » già
condotta nel 1910 da erra: Fierissimi avversari del
cattolicesimo temporale e delle sue pre- tese (tanto da assumere lo
stesso tono stizzoso dei contradditori), ma conservatori con un soupgon
di nazionalismo; riformatori per inse diar la loro filosofia nella
scuola, ma poi estraniati dalla rivoluzione 98 Mario Praz, fedele
agli interessi prevalentemente letterari della vecchia serie della
rivista, il 1° febbraio 1934 annunciava le sue dimissioni da condirettore
a Cajumi, che gli aveva indicato le novità della serie einaudiana:
«Rivista mensile su due colonne, tipo Economist, articoli brevi ed
attuali » (AE, Praz). Il 23 gennaio 1935 l’editore scriveva a Cabiati:
«mi permetto di ricordarLe l’articolo sul piano Roosevelt. E cosi ci
tireremmo un po’ fuori ogni tanto dalla solita zuppa di critica rita ed
estetica di cui il pubblico non vuol più saperne » (AE,
abiati). 9 G. Sasso, La « Cultura » nella storia della
cultura italiana, in «La Cultura », XIV (1976) (numero speciale « Per i
70 anni di Guido Calo- gero »), p. 82. Un accenno a Cajumi e ai
collaboratori de « La Cultura » come «un gruppo di intellettuali ben
definito nella vita culturale ita- liana », in A. Gramsci, Quaderni del
carcere, cit., vol. II, pp. 1332-33. 100 Recensendo Saffo e Pindaro
di Gennaro Perrotta pubblicato da Laterza, Piero Treves riteneva
necessario inquadrare i poeti nel loro tempo: «Qualcosa, dunque, vi è, in
un poeta, oltre la sua poesia, che vale e che dura quanto e come la sua
poesia » (Storia e poesia nella Grecia arcaica, in «La Cultura », in cammino; nemici tanto del letterato puro
quanto di quello politi- cante, i seguaci dell’indirizzo propugnato dal
Russo appaiono a un osservatore imparziale un curioso impasto di
contraddizioni 10, Sul piano filosofico comincia a muoversi contro
l’idea- lismo Eugenio Colorni, pur allievo del « mistico » Marti-
netti e collaboratore della « Rivista di filosofia », già orien- tato
politicamente verso il socialismo di Lelio Basso e di Rodolfo Morandi; la
sua ricerca, incentrata intorno all’ana- lisi del pensiero leibniziano,
ha modo di esprimersi sulla rivista in discussione con La spiritualità
dell’essere e Leibniz del cattolico Giovanni Emanuele Bariè il
quale, notava Colorni, si serviva di Leibniz « a scopi postkantiani
e idealistici », accentuando « la concezione dell’essere come
spiritualità »: era invece «una violenza che il pensiero postkantiano fa
sul nostro potere d’interpretazione e di sviluppo, di considerare tutto
ciò che non è materiale nel senso comune della parola, come
necessariamente svolgen- tesi in forma di soggettività e di pensiero.
Ora, proprio la novità di Leibniz consiste nell’escludere questa
costrizione e nell’additare altre direzioni, diverse da quella
gnoseo- logica » !2, Si manifestava cosi in Colorni, come è stato
osservato, un « consapevole atto di rottura [....] nei riguardi di una
tradizione spiritualistica di cui l’idealismo fu l’ul- tima incarnazione
» !°, Non mancano, talvolta, anche dirette confutazioni della
101 A. Cajumi, La colpa è della critica?, in « La Cultura », XIII
(1934), pp. 45-47; di questo articolo, dove vedeva «la condanna
sommaria di tutto quello che si è fatto negli ultimi trent'anni », si
lamentava Russo con Finaudi il 31 maggio 1934 (AE, Russo).
Sull’insufficienza del « fiuto filosofico per separare la poesia dalla
non poesia » cfr., dello stesso Cajumi, Gustave Lanson, in «La Cultura »,
XIV (1935), p. 19; contrario alla « sostituzione della critica filosofica
alla storica » si dimo- stra anche Enrico Carrara recensendo Il!
Quattrocento di Vittorio Rossi (« La Cultura », XIII (1934), p.
13). 102 E. Colorni, Leibniz e una sua recente interpretazione, in
«La Cultura » Cosî N. Bobbio nell’Introduzione a E. Colorni, Scritti,
Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. VI. Per l’attività politica di Colorni
cfr. la voce di E. Gencarelli in F. Andreucci - T. Detti, Il movimento
operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, vol. II, Roma, Editori
Riuniti, 1976, e il profilo, non privo di accenti agiografici, che gli ha
dedicato Leo Solari, Eugenio Colorni. Ieri e oggi, Padova, Marsilio.
1980. 240 Le origini della casa editrice
Einaud? cultura ufficiale, come quando, di fronte al metodo
attualiz- zante proposto da Gentile ne La profezia di Dante, Um-
berto Cosmo — il docente torinese che nel 1926 era stato costretto a
dimettersi dall’insegnamento per l’« incompati- bilità » fra il suo
pensiero e la politica del regime — osser- vava che « chi voglia
comprendere Dante nella sua inte- rezza discorderà probabilmente da
cotesti criteri », perché « l’infinità dello Stato, la potenza sua
illimitata mi paiono concetti moderni che il teologo Dante non poteva
formulare a se stesso » !*. Ma la più evidente linea distintiva
della rivista dalla cultura del regime, cosi come da Croce, è
ravvi- sabile nel netto richiamo ai valori dell’illuminismo negati
dal pensiero idealistico, e rimasti ai margini anche dell’inte- resse de
« La Cultura » di De Lollis. Se ne fanno interpreti soprattutto, oltre al
Antonello Gerbi !5, Cajumi e Salvato- relli, anche se con accenti molto
diversi. Per Cajumi la rivalutazione del ’700 doveva essere fatta a spese
dell’hege- lismo e dei suoi seguaci, e ricollegando l’illuminismo
all’in- dividualismo del Rinascimento — secondo la linea interpre-
tativa esposta da Chabod nella voce IMuminismo dell’Enci- clopedia
italiana —, attraverso il tramite del libertinismo: La nuova filosofia,
sorta con facilità a cavalcioni di un positi- vismo sfiatato e
vaniloquente, giudicava e mandava dall’alto del suo tedescheggiante
idealismo, ed estranea alla cultura francese ed in- glese, contribuiva al
vituperio. Marxisteggiando, i nostri filosofi pren- devano sotto le ali
il Sorel, e covavano Bergson e Blondel. Per quei poveri sensisti ed
illuministi, che disprezzo! [...]. Il male è che un ritorno al Settecento
non può farsi senza rimandar prima in soffitta Marx, Hegel e compagnia,
castigare la democrazia, dissipar l’equi- voco di certo neoliberalismo,
non aver paura di passare per dei con- servatori e miscredenti vecchio
stampo. 14 u.c. [U. Cosmo], Le profezia di Dante, in «La Cultura»,
XIV (1935), p. 16. Sulla sua figura cfr. la testimonianza di F. Antonicelli,
Un professore antifascista: Umberto Cosmo, in AA.VV., Trent'anni di
storia italiana (1915-1945). Lezioni con testimonianze presentate da F.
Antonicelli, Torino, Einaudi, 1975?, pp. 87-90. 105 « L'entusiasmo,
la buona fede, lo zelo gioioso di quel tempo calun- niato ci investono e
sollevano », osservava Gerbi recensendo Les origines: intellectuelles de
la Révolution Frangaise di Daniel Mornet (Idee del Set- tecento, in « La
Cultura », XIII (1934), p. 41). Ma i suoi accenti élitari si riscattavano
in un sentito laicismo: per salvare l'Europa « malata, non solo
politica- mente ed economicamente, ma, ciò ch'è più grave, nella
sua cultura », era necessario identificare le origini della sua civiltà,
che erano colte, alla luce de La crise de la con- science européenne di
Paul Hazard — il volume sarà tra- dotto dalla casa editrice nel 1946 —,
nell’Umanesimo e — aggiungeva Cajumi riecheggiando forse Gobetti —
nella Riforma, dalla quale erano sorte « la libertà di coscienza,
la discussione del cristianesimo, delle affermazioni ateistiche. Il
peccato originale, l’origine unica delle razze sono battuti in breccia;
s’affaccia l’idea di progresso. La politica si lai- cizza, e si
democratizza, l’idea di Stato si disgiunge da quella feudalisticamente
monarchica. Nasce una nuova economia, mercantile, capitalista » !”.
Pi esplicita e avanzata che in Cajumi risulta, a propo- sito
dell'Illuminismo, la coniugazione di giudizio storico e impegno civile in
Salvatorelli: recensendo nel 1934 La polemica sul Medio Evo di Giorgio
Falco — ma richia- mando anche la Philosophie der Aufklirung di Cassirer
—, egli osservava che la valorizzazione del ’700 operata da Falco
si inseriva « in un processo di pensiero in pieno corso e di importanza
capitale, da cui usciranno ben altro che semplici revisioni
storiografiche e storico-filosofiche, come ben altro che queste revisioni
è uscito dalla svalutazione del ’700 proseguita dal Romanticismo in poi
». E, dopo aver ridimensionato la funzione del Papato e dell’Impero
nella storia della società medievale, con accenti antinazi- sti — «ci si
aggiungono, adesso, le strimpellature misti- cheggianti del Sacrum
Imperium (vedano, gli strimpellatori teutonici, di accordarsi ora con
l’altro misticismo razzista, quello che fa capo a Vitichindo e a Wotan) »
—, Salvato- 106 A. Cajumi, La nascita della civiltà europea e I
libertini del Seicento, in «La Cultura», XIV (1935), pp. 41-43 e 63-67.
Negli stessi anni l’opera di Hazard era accostata da E. Cione alla Storia
dell'età barocca di Croce, anche per il suo taglio etico-politico (« La
Nuova Italia », VIII (1937), pp. 121-123). Sul significato dell’opera di
Hazard, che insiste sul tema della «crisi» anche per il momento in cui fu
scritta, cfr. G. Ricuperati, Paul Hazard, in « Belfagor », relli indicava lucidamente quello che poteva
essere l’inse- gnamento dell’illuminismo: chi volesse con un
solo termine riassumere le caratteristiche del per siero settecentesco,
non potrebbe trovarne altro più adatto che quello di « umanità ». Ed ecco
perché, nella necessità di un nuovo umane- simo per risolvere la crisi in
cui il mondo civile si dibatte, il pen- siero del Settecento ritorna oggi
a splendere più vivo che mai. Per fare, e non subire, la storia futura
occorre giudicare quella passata e non stenderci sopra il polverino
19. Non meno significativo è in Salvatorelli il legame isti-
tuito fra Risorgimento e Rivoluzione francese — analogo
all’interpretazione espressa negli stessi anni da Aldo Fer- rari o da
Baldo Peroni sulla « Nuova rivista storica » —, e la demistificazione
della « leggenda » di Carlo Alberto !*: temi e giudizi che ritroveremo in
alcune opere dello stesso Salvatorelli e di altri collaboratori di Giulio
Einaudi. Attraverso il discorso culturale filtrava spesso anche
un messaggio politico, che si fa talvolta esplicito sulle pagine
della rivista, ma i cui toni pi avanzati sono di stampo liberale. Bobbio
ha dato rilievo a due articoli « feroce- mente antisoreliani » di
Salvatorelli, ricordando come Sorel fosse « uno dei numi tutelari del
fascismo » !’; ma, mentre in uno l’autore rimane sul terreno puramente
culturale della difesa dell’Illuminismo !*, solo nell’altro Salvatorelli
espri- 107 L. Salvatorelli, Storiografia del Settecento, in «La
Cultura », XIII (1934), pp. 3-5. 108 Cfr. L. Salvatorelli,
Napoleone, in « La Cultura », XIII (1934), pp. 95-96, e la sua recensione
a G. F.H. Berkeley, Italy in the making 1815- 1846, in cui Salvatorelli
nega l’esistenza di una politica antiaustriaca di Carlo Alberto prima del
1845 (« La Cultura », XIII (1934), p. 131). Contrario alla tesi autoctona
delle origini del Risorgimento, ma anche a quella che ne legava la
nascita alla Rivoluzione francese, si dimostra invece Cajumi nella
recensione a H. Bédarida - P. Hazard, L’influence francaise en Italie au
dix-buitième siècle («La Cultura», Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a
Torino, cit., p. 69. 110 « Sorel è lo Spengler dell’anteguerra, e
Spengler il Sorel del dopo- guerra [...]. L'opposizione di Spengler al
secolo XVIII, reo di aver iniziato l’epoca del razionalismo, è tale e
quale quella del Sorel, per cui la dottrina del progresso, fondamentale
nell’epoca dell’enciclopedismo c dell’Aufklirung, non era se non la
giustificazione ideale di una socictà datasi tutta alla gioia di vivere,
e Diderot, Voltaire e simili non erano 244
me un giudizio politico attaccando Sorel in nome di quel mondo
prefascista verso il quale abbiamo visto volgersi il rimpianto dei
liberisti: Sorel infatti « non si rese mai conto delle realtà di primaria
importanza su cui giocava, degli interessi sociali che rischiava di
danneggiare, dei valori umani fondamentali che vilipendeva. Tutto questo,
in un periodo storico che richiedeva la massima cautela per non
contribuire, sia pure involontariamente, a scuotere le fon- damenta di
una civiltà grandiosa, ma tutt’altro che conso- lidata » !!!. Un
atteggiamento più arretrato, decisamente aristocratico, manifesta Cajumi
che nel 1934, in polemica con un uomo politico non certo progressista
come André Tardieu, notava in Francia «la progressiva e trionfante
sostituzione della massa all’individuo, mediante la realizza- zione di
democrazie nazionaliste, che tendono a mettersi ognora più nelle mani
dello stato, contro la garanzia di un’assistenza economica e sociale
sempre maggiore » !. Una posizione, questa, in linea con quella già
esaminata dei liberisti; anche su « La Cultura », del resto,
recensendo gli Orientamenti di Croce del 1934 Luigi Einaudi ne
acco- glieva pienamente la « stroncatura da filosofi veri » nei
con- fronti di Spengler e della teoria marxiana della base econo-
mica della società !5; e lo stesso ex ordinovista Zino Zini, discutendo
La crise européenne et la grande guerre di Pierre Renouvin, osservava che
« nell’esame delle cause è messa abilmente in luce la sopravalutazione —
diventata ormai quasi un luogo comune — che si ha l’abitudine di
fare di quelle economiche » !. Né era segno di distinzione dal fascismo,
nel 1934, la critica dell’ideologia nazionalso- cialista, assai diffusa
nelle riviste del regime, e che ne « La Cultura » si manifesta nella
stroncatura del Mein Karzpf stati che dei buffoni della
aristocrazia » (L. Salvatorelli, Spengler e Sorel, in «La Cultura », XIV
(1935), pp. 21-23, a proposito di Anzi decisivi di Spengler pubblicato da
Bompiani). Ul L. Salvatorelli, I/ mito Sorel, in « La Cultura », XIII
(1934), p. 63. 112 A. Cajumi, In punta di penna, in « La Cultura », XIII
(1934), p. 30. 113 « La Cultura », Zini, In margine a una storia della
grande guerra, in «La Cultura », XIV (1935), pp. 26-29. Su di lui cfr.,
fra i vari interventi di G. Bergami, il suo ritratto in « Belfagor»,
XXVII (1972), pp. 678-703. 244 Le origini della casa
editrice Einaudi di Hitler tradotto da Bompiani — libro pieno di
contrad- dizioni e caratterizzato da una « spiccata innocenza
intel- lettuale », scriveva Salvatorelli 5 —, o nella recensione di
Luigi Emery a Friedrich der Grosse und die geistige Welt Frankreichs di
Werner Langer, in cui si metteva in evidenza come l’autore dimostrasse
l’influenza francese su Federico II di Prussia « contro l’aureola di
santone del germanesimo della quale tardi agiografi vogliono
citcon- dare lo spregiudicato Gran Re di Prussia. Dalla sua tomba
nella Garnisonkirche di Potsdam “trasse gli auspici” con rito solenne il
regime che presiede oggi alla vita della Ger- mania » 1°, Non
sarebbe comunque produttivo ricercare in riviste o volumi pubblicati sotto
il fascismo « segni » politici troppo discordanti dagli indirizzi del
regime. L’analisi deve rimanere aderente ai temi culturali, per cogliere
la manife- stazione di eventuali dissonanze o contraddizioni,
aperture ideali o non meno significativi silenzi. Per questo ci
sembra necessario soffermarci, sia pur brevemente, sul « letterato
» Pavese, che con Ginzburg fu il principale collaboratore di Giulio
Einaudi nei primi anni della sua attività editoriale e il legame pit
consistente fra « La Cultura » e le iniziative della casa editrice. Nota
è, come abbiamo visto, la mili- tanza politica di Ginzburg, che gli costò
dapprima il car- cere — dal marzo 1934 al marzo 1936 — e, dall’11
giugno 1940 al 25 luglio 1943, il confino a Pizzoli presso L'Aquila;
nonostante ciò, egli poté dedicare le sue cure, assieme a Pavese, alla «
Biblioteca di cultura storica », ai « Narra- tori stranieri tradotti » e
alla « Nuova raccolta di classici 115 «La Cultura », XIII (1934),
p. 105. 116 L. Emety, Gallicanismo di Federico il Grande, in «La
Cultura », XIII (1934), pp. 58-59; la tesi di Langer era del resto
condivisa anche da Luigi Negri sulla « Rivista storica italiana », LII
(1935), pp. 238-240. Recensendo Le civiltà d’Italia di Giovanni Vidari,
Enrico De Michelis vi notava «un eccesso di sentimento nazionalistico »,
pur aggiungendo che l’opera era « ben lontana [...] da quelle fantasie di
metafisica antro- po-etnica che, dopo un periodo di stasi apparente, son
tornate oggi a predominare nella Germania di Hitler e che purtroppo
costituiscono un pericolo non lieve per la pace e per la civiltà
dell’Europa e del mondo » (« La Cultura », XIV (1936), p. 14).
245 italiani annotati » !”. Non ci restano
tuttavia, al di là delle testimonianze, tracce consistenti della sua
attività edito- riale, che invece è maggiormente documentabile — e
fu probabilmente pi continua — per Pavese, confinato per più breve
tempo, circa un anno, a Brancaleone Calabro. Parlare di Pavese,
all’inizio degli anni ’30, significa soprattutto affrontare il suo
interesse per la letteratura americana contemporanea, individuabile nelle
traduzioni per Frassinelli e negli articoli su « La Cultura » —
soprat- tutto prima del 1934 —, e destinato a esprimersi in nuove
proposte di traduzione per la Einaudi. Il tema è stato af- frontato più
volte, ma spesso con forzature ideologiche o con una insufficiente
storicizzazione, tali da fornire un’im- magine deformata, e in genere
riduttiva, della figura di Pavese !*. La differenza tra lui e Ginzburg,
sul piano poli- tico, è marcata, e lo stesso Pavese ne era cosciente
quando, coinvolto negli arresti del 1935, preparò il suo memoriale
difensivo o scrisse dal confino ad Alberto Carocci — « Uni- co mio
disinteresse — 4 aeterno e parlo colla mano sul cuore — la letteratura
politica » !. Questa affermazione, tuttavia, non può essere
assolutizzata, anche se trova con- ferma nelle più segrete pagine del
diario, in cui la politica o è assente o è rifiutata. Infatti, pur non
essendo « uomo d’azione » ‘°, già nei primi anni ’30 il suo impegno
lette- rario, di traduttore commentatore poeta, ha una trasparente
carica civile, se non propriamente politica. La scoperta della politica
avverrà in lui, come in Giaime Pintor, solo con la Resistenza, ma
l’attenzione per la narrativa americana indica da tempo il suo tentativo
di uscire dagli angusti 117 Pavese appare «revisore» dei
«Narratori stranieri tradotti » e dei «libri di carattere
storico-letterario », nella lettera di Giulio Einaudi a lui del 27 aprile
1938 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di L. Mondo, Torino, Einaudi,
1966, p. 537). 118 Tali caratteristiche hanno, rispettivamente, i
lavoti di N. Catducci, Gli intellettuali e l'ideologia americana
nell’Italia letteraria degli anni trenta, Manduria, Lacaita, 1973, e di
A. Guiducci, I{ mito Pavese, Firenze, Vallecchi, 1967. 119
Lettera del 24 ottobre 1935; cfr. anche la lettera alla sorella del 26
luglio 1935 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., pp. 412, 454). 120
Cfr, D. Lajolo, Il « vizio assurdo ». Storia di Cesare Pavese, Milano,
Mondadori, 1978, p. 133. 246 Le origini della casa
editrice Einaudi limiti di una cultura nazionale provinciale e
soffocante, spinto da un’« ansia di oggettività » che è stata messa
giu- stamente in evidenza, e che lo allontana dall’ermetismo per
sostanziare le poesie di Lavorare stanca della realtà popolare e
contadina delle sue valli piemontesi !!, Come ricorderà dopo la
Liberazione, la cultura americana divenne per noi qualcosa di
molto serio e prezioso, divenne una sorta di grande laboratorio dove con
altra libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di creare
un gusto uno stile un mondo moderni che, forse con minore immedia-
tezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perse-
guivano [...]. Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’Ame-
rica non era un altro paese, un z%ovo inizio della storia, ma soltanto il
gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva
recitato il dramma di tutti !2. Nel modo in cui, già nel 1930,
Pavese parlava degli scrittori americani in una lettera all'amico
Chiuminatto, vi era una sorta di rovesciamento dell’ottica
nazionalistica con la quale Prezzolini spiegava Come gli americani
scopr:- rono l’Italia, e l'individuazione degli elementi del «
dram- ma » comune ', In Sherwood Anderson Pavese coglieva quella
realtà industriale che intimoriva Luigi Einaudi, «i centri fumosi e
fragorosi, fattivi e ottimisti che il mondo conosce: Cleveland,
Springfield, Detroit, Akron, Pittsburg, e, su tutti, gigantesca, la
metropoli, Chicago. Le fabbriche inghiottono tutto ». Dos Passos presenta
le contraddizioni e gli aspetti di « quotidiana tragedia » di questa
società, 121 Cfr. E. Catalano, Cesare Pavese fra politica e
ideologia, Bari, De Donato, 1976, passirmz. 122 C. Pavese,
Ieri e oggi (1947), ora in La letteratura americana e altri saggi,
Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 188-189. Sugli aspetti sociali del
romanzo americano cui si rivolgeva l’attenzione di Pavese cfr. S. Perosa,
Vie della narrativa americana. La «tradizione del nuovo » dal-
l’Ottocento a oggi, Torino, Einaudi, Cfr. la recensione di Pavese a Prezzolini
ne « La Cultura », XIII (1934), p. 14 e la lettera di Pavese ad Antonio
Chiuminatto del 5 aprile 1930: «un buon libro europeo d’oggi è, in
genere, interessante e vitale solo per la nazione che l’ha prodotto,
laddove un buon libro americano parla a una folla più vasta, scaturendo,
come scaturisce, da necessità più profonde e dicendo cose veramente nuove
e non soltanto originali, come quelle che nel migliore dei casi
produciamo noi» (C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 190).
247 la « lotta ch’egli vede combattersi con coscienza
di classe, nel nostro secolo, tra lavoro e capitale ». Attraverso
Walt Whitman, « un gigante dalla camicia d’operaio aperta al collo
e dalla barba dura », un poeta che tanta fortuna aveva avuto nei circoli
socialisti, Pavese scopre che mentre un artista europeo, un
antico, sosterrà che il segreto dell’arte è di costruire un mondo più o
meno fantastico, di negare la realtà per sostituirla con un’altra magari
più significativa, un americano delle generazioni recenti vi dirà che la
sua aspirazione è tutta d' giungere alla natura vera delle cose, di vedere
le cose con occhi ver- gini, di arrivare a quell’ultimzate grip of
reality che solo è degno di esser conosciuto !%, Cost,
attraverso l'America, è possibile la riscoperta della realtà della
propria terra, espressa nel 1936 nelle poesie di Lavorare stanca. Dove
era contenuto un messag- gio di speranza immediatamente colto da una
comunista torinese, con due figli comunisti operanti nella
clandestinità, Elvira Pajetta: Credevo che la poesia fosse
morta — scriveva nel 1936 al mae- stro severo di Pavese, Augusto Monti,
allora in galera —. Cosî siamo noi vecchi: quando non sappiamo più godere
pensiamo volentieri che la gioia di vivere se ne sia partita dal mondo e
quando la prosa quotidiana ha avuto ragione di noi giuriamo tranquillamente
che la poesia è defunta. Ma se il Signor Pavese scrive dei versi, se li
crede pi belli del mondo, se li stampa e li fa leggere — è certo che
ho avuto torto e son felice di ricredermi 15. 5.
Storiografia e impegno civile Giulio Einaudi seppe riprendersi
abbastanza rapida- mente, non solo attraverso le iniziative del padre,
dai duri colpi inferti dal regime, nei primi due anni di attività
della casa editrice, ai suoi collaboratori e alle sue riviste. Prima
della guerra, anche se i titoli pubblicati furono 124 Cfr. C.
Pavese, La letteratura americana, cit., pp. 36, 119, 121, 138, 143.
125 ACS, Casellario politico centrale, b. 3790, fasc. 121672
(Cesare Pavese). 248 Le origini della casa
editrice Einaudi pochi — ancora 8 nel 1937, arriveranno a 16 nel
1938 e a 24 nel 1939 —, egli riusci infatti a impostare quasi tutte
le collane più importanti, che caratterizzeranno le sue edi- zioni fin
dopo la Liberazione: la « Biblioteca di cultura storica » (1935), i «
Saggi » (1937), i « Narratori stranieri tradotti » e la « Biblioteca di
cultura scientifica » (1938), i « Poeti » e la « Nuova raccolta di
classici italiani anno- tati » la rivista « La Nuova Italia »,
espressione della casa editrice di Ernesto Codignola che stava prendendo
sempre più le distanze dal fascismo, poteva lodare la consorella torinese
che nel giro di pochi anni [...] ha messo fronde e radici, e
saldamente stabilita nel mercato e nel pubblico, vanta ora una varietà e
una ric- chezza di iniziative (opere di scienza, classici della nostra
letteratura, una collezione storica, una di romanzi stranieri ecc.) che
tutte concor- rono ad attuare il proposito orgoglioso di riuscire centro
animatore di raccolta della più viva giovane e consapevole cultura
italiana 12%. Già prima del 1940, infatti, le pubblicazioni
dell’editore torinese sono tali da richiamare l’attenzione di
intellettuali di rilievo, e da provocare in questi significative
divisioni nei giudizi, nei quali è possibile intravedere schieramenti
contrapposti non solo sul piano culturale; ed è per questo che ci sembra
opportuno dedicare largo spazio alle nume- rose recensioni ai volumi
della casa editrice. Nonostante la varietà dei temi affrontati dimostri
una ricerca di sempre nuovi spazi culturali che può apparire talvolta
confusa e tale da rischiare il pericolo dell’eclettismo, attraverso
le collane in cui è pi facilmente ravvisabile un impegno civile —
quella storica e i « Saggi » — è possibile seguire gli elementi di differenziazione
dall’ideologia dei liberisti e il lento, faticoso distacco dalla cultura
del regime. La « Biblioteca di cultura storica » è la collana i
cui orientamenti appaiono pit definiti fin dall’inizio, nella ri-
cerca di una valutazione della storia italiana che si diffe- renziasse da
quella nazionalistica di Volpe e della sua scuola o dagli accenti
sabaudistici presenti negli « Studi e docu- 126 «La Nuova Italia
», Xmenti di storia del Risorgimento » curati da Gentile e Menghini per
Le Monnier, e nel tentativo, in un secondo tempo, di aprirsi alla
storiografia straniera, in particolare quella anglosassone. Né è
ravvisabile in questi anni, nel quadro della cultura storiografica che
non si richiama diret- tamente o esclusivamente alle impostazioni di
Volpe e di Gentile, un’altra collana storica che abbia la stessa
consi- stenza e un uguale prestigio di quella einaudiana: questa ha
alcuni punti di contatto con la « Biblioteca di cultura moderna » di
Laterza e con i « Documenti di storia ita- liana » de La Nuova Italia —
dove apparvero i Discorsi parlamentari di Cavour a cura di Adolfo Omodeo
e Luigi Russo —, ma una ben maggiore capacità di svolgere una
funzione civile, in quanto si indirizzava a un pubblico più ampio di
quello degli specialisti, tenendo « la via di mezzo tra la dissertazione
storica meramente accademica ed eru- dita e la storia romanzata », ciò
che costituiva una novità per l’Italia !”. Dell’impostazione della «
Biblioteca di cul- tura storica » si era occupato, prima dell’arresto,
Ginzburg, che, come abbiamo visto, era in contatto con Nello Ros-
selli; a questo si rivolgeva il 4 gennaio 1934 l'editore, chiedendogli un
volume su Mazzini per la collana, « dedi- cata per ora ad illustrare
uomini ed avvenimenti di storia italiana moderna », e che avrebbe dovuto
essere inaugurata da uno studio su Cavour di Salvatorelli. In un primo
tempo Rosselli accettò — «mi sorride che un mio libro esca sotto
l’insegna di un nome che tengo in cosî alta stima », scriveva a Giulio
Einaudi nel febbraio 1934 —, lasciando poi cadere la proposta, cosî come
quella, avanzata dall’edi- tore nel 1935, di riprendere — sia pur
ridimensionan- dolo — il suo progetto di una rivista storica, che
Rosselli giudicò impraticabile per la difficoltà dei tempi":
il 127 Cosi Enzo Tagliacozzo nella recensione al Mazzizi di
Bonomi, in « Nuova rivista storica », XX (1936), p. 430. 128
Il 16 aprile 1935 Rosselli scriveva all’editore che « molte delle ragioni
che m’indussero a rinunziare al progetto in grande della rivista
sussistono anche per questo progetto minore [...]; metto in primo piano
la mia personale situazione e la fifa generale. Anche metto in linea di
conto la tendenza che oggi prevale, in alto, di dichiarare guerra a
coltello alle riviste indipendenti (almeno a quelle storiche), per
concentrare mezzi 250 Le origini della casa editrice
Einaudi regime aveva infatti provveduto da poco a un rigido
con- trollo degli istituti storici, mentre si annunciava, anche in
questo campo, la « bonifica della cultura » di De Vecchi. La collana si
inaugurò quindi con un’opera dell’« auto- re » per eccellenza di Einaudi
in campo storico, Luigi Sal- vatorelli ‘’. Ne Il pensiero politico
italiano dal 1700 al 1870 — che ebbe molta fortuna, testimoniata dalle nume-
rose edizioni — Salvatorelli riprendeva una tematica già affrontata su «
La Cultura », per dimostrare come il pen- siero politico italiano fosse
nato nel 700, con quello « spi- rito di umanità » già presente in
Muratori, nel quale « tro- viamo la nuova tavola di valori
settecenteschi, tavola che ignora la grandezza e la trascendenza dello
stato dominanti nella trattatistica anteriore, e destinata a risorgere
con l’idealismo hegeliano »; sulla stessa linea si muove Beccaria,
che « nega ogni concetto di un interesse, di un valore statale distinto e
superiore all'interesse e al valore degli e appoggi su poche
rivistone ufficiali. Sa che in questi giorni anche la torinese Rivista
storica ha subito una radicale trasformazione (imposta) ed è passata al
Volpe? Rebus sic stantibus, ho paura che la nostra rivista raccoglierebbe
tutti nomi ingrati, e ben presto puzzerebbe. Inoltre per fare una rivista
occorre un gruppo omogeneo di collaboratori abituali, 1) meglio di
redattori. Intorno a me questo gruppo, ora come ora, non c'è; né io mi
sentirei di far tutto da me. Le assicuro che questa mia riluttanza a
imbarcarmi nell’i impresa deriva non già da scarso entusiasmo:
l’entusiasmo in questo caso non mi difetterebbe davvero. Ma proprio
perché sogno, un giorno, di dar vita a una bella e viva rivista di studi
storici, esito a realiz- zare questo sogno in un momento cosî poco
favorevole. Del resto, dovrò recarmi a Roma, fra poco; e lf tasterò di
nuovo il terreno coi miei amici. Senza illusioni, però. Debbo proprio
dirle che questa rinuncia tanto più mi costa da quando ho capito di poter
contare su di Lei come editore? ». Il 3 aprile 1935 gli aveva scritto di
aver parlato della rivista con Salvatorelli, che « vede molto di buon occhio
il progetto ». Ancora nel 1937 Rosselli proporrà a Einaudi un volume su
Montanelli (AE, Rosselli). Il 4 gennaio 1934 l’editore aveva scritto
anche a Luigi Russo proponendogli, per la col- lana storica, « un volume
di carattere sintetico sulle origini storiche e psi- cologiche della
nostra guerra » (AE, Russo). 29 In contatto con Giustizia e
Libertà, il 16 giugno 1937 Salvatorelli scrisse ad Amelia Rosselli che i
suoi figli « vissero nobilmente dediti ad alti ideali, e sono caduti combattendo
come il fratello che li precedette. La loro memoria rimarrà viva e alta
in molti cuori» (ACS, Casellario politico centrale, b. 4549, fasc.
89789). Nel 1938-39 l’editore fu in contatto con un altro storico
di formazione liberale, Nino Valeri, e ancora nell’agosto 1945 si
dimostrerà interessato alla sua proposta di un volume su Filippo Maria
Visconti (AE, Valeri). individui componenti l’aggregato sociale », o
Pietro Verri, per il quale « stati forti sono quelli in cui vi è libertà
indi- viduale, stati deboli quelli dispotici ». E, mentre si
accenna all'influenza della Rivoluzione francese sull’Italia —
anche se l’unico « giacobino » preso in considerazione è Mel-
chiorre Gioia —, la genealogia gentiliana dei « profeti del Risorgimento
» è fortemente ridimensionata e corretta nei giudizi: in Alfieri si
coglie, accanto all’anelito alla libertà politica, un chiaro «
individualismo idealistico », e in Maz- zini l’importanza del problema
sociale; si mette in risalto, prima del ’48, la superiorità politica di
moderati come Balbo rispetto a Gioberti, e, in Cavour, il suo debito
verso la Rivoluzione francese che ha fondato le libertà costitu-
zionali e la teorizzazione della separazione Stato-Chiesa che lo statista
piemontese profetizzava si sarebbe sempre più radicata — mentre « l’era
del dopoguerra ha segnato finora una smentita alla profezia cavouriana ».
Infine, dopo aver rilevato come le antinomie di Giuseppe Ferrari
fra libertà e autorità e il suo abbozzo socialisteggiante di
società futura fossero « miscele confuse ed informi », ma rispon-
dessero a bisogni reali — « e conservano quindi ancora oggi il loro
valore » —, il lavoro di Salvatorelli terminava coe- rentemente con
l’inizio, con la figura di un autore caro agli einaudiani, Cattaneo, che
« concludeva il ciclo del pen- siero politico italiano del Risorgimento.
Lo concludeva ricongiungendosi alle idealità che avevano ispirato la
co- scienza storica del Muratori, il riformismo giuridico del Bec-
caria e del Filangieri, la critica economico-politica del Verri; lo
concludeva riaffermando con meditata coscienza i valori di umanità e di
progresso esaltati dal pensiero del Settecento, italiano ed
europeo » !*. 130 L. Salvatorelli, I/ pensiero politico italiano
dal 1700 al 1870, Torino, Einaudi, 1935, pp. 6, 11, 40, 67, 88, 130, 200,
217, 265, 303, 320, 350, 354. Giustamente Alessandro Galante Garrone ha
osservato che, « nella complessiva valutazione salvatorelliana del
Risorgimento, è data una preponderanza forse eccessiva agli aspetti
dottrinali del pen- siero politico » (Risorgimento e Antirisorgimento
negli scritti di Luigi Salvatorelli, in «Rivista storica italiana »,
LXXVIII (1966), p. 534). Sulla riscoperta dell’illuminismo italiano ne I/
pensiero politico concor- dano comunque Walter Maturi (Interpretazioni
del Risorgimento. Lezioni 252 Le origini della casa
editrice Einaudî Ingiusto appare quindi il commento di chi valutò
cro- cianamente l’opera come « un tipico esempio di storio- grafia
senza problema storico » ‘". Indicativi dell’esistenza di una
precisa tesi interpretativa nel lavoro di Salvatorelli sono infatti, da
un lato, i silenzi della « Rivista storica ita- liana » di Volpe e della
« Rassegna storica del Risorgi- mento » di De Vecchi, cosi come la
distorsione del ragio- namento dell’autore che appare sulla gentiliana «
Leo- nardo » !“, e, dall’altro, il tono dei commenti suscitati
nelle riviste meno conformiste. Sulla « Nuova rivista storica » si
nota che Salvatorelli contrappone alla storia della ragion di Stato la
storia dell’individualismo, e che « notevole è la ricostruzione del
pensiero politico del Cavour, cosa che raramente suole esser fatta;
preziose le notizie sull’illumi- nismo giovanile del Mazzini; il Cuoco ne
guadagna e di- venta più modesto per la interpretazione
riformistico-illu- ministica che di lui si fa (disincagliarsi dalle
esumazioni idealistico-gentiliane è già un bel vantaggio!) » !*. Più
cauti, ma improntati a simpatia per le idee dell’autore, sono i
giudizi che compaiono sulle riviste di Codignola: Enzo Tagliacozzo si
chiedeva, rilevando un limite messo in luce di storia della
storiografia, prefazione di E. Sestan, Torino, Einaudi, 1962, p. 554) e
Leo Valiani (Salvatorelli storico dell'Unità d’Italia e del fasci- smo,
in « Rivista storica italiana », LXXXVI (1974), p. 726). Lionello Venturi
scriveva invece a Salvatorelli il 26 aprile 1935: «I capitoli sul tardo
Gioberti e su Cavour naturalmente mi hanno preso di pit, come quelli dove
il pensiero ha più rapporti con la politica concreta [...]. Ma anche per
Alfieri, il suo atteggiamento verso la rivoluzione, è cosf chiaro e mi
era affatto sconosciuto [...]. Noto la tua convinzione sulla inferiorità
del pensiero settecentesco. Hai ragione? Questo non so. Io sento diversamente
» (ACS, Casellario politico centrale, b. 4549, fasc. 89789). Su
Salvatorelli « educatore antifascista » nella Torino degli anni ?30 cfr.
la testimonianza di Norberto Bobbio in G. Spadolini, Il mondo di Luigi
Salvatorelli, con un’antologia di scritti di Salvatorelli e testimo-
nianze di N. Bobbio, L. Valiani, A. Galante Garrone, L. Compagna, Fi-
renze, Le Monnier, 1980, pp. 65-72. 131 Cosf Ezio Chichiarelli
nella recensione alla seconda edizione (« La Nuova Italia », XIII (1942),
p. 67). 13 « Troviamo i segni del nostro moderno concetto
totalitario di poli- tica proprio in quel di solito disprezzato
settecento », scriveva Raffaello Ramat (« Leonardo », VII (1936), p.
99). 133 Paolo Polese in « Nuova rivista storica », XX (1936), p.
449. Cri. tica è invece la recensione alla seconda edizione dell’opera di
Enrico Guglielmino, sempre in « Nuova rivista storica », XXV (1941), pp.
571-575. 253 anche dalla storiografia,
« se sia veramente possibile cogliere il senso delle dottrine politiche
isolandole dal clima sto- rico che determina il loro sorgere », ma
approvava le nota- zioni di Salvatorelli sul « fondo reazionario
dell’ottimismo storicistico » e sulla « necessità di rivedere alcuni
giudizi idealistici passati in giudicato e non più rimessi in
discus- sione » ‘4; Paolo Treves invece, dopo aver notato che « è
un certo vezzo attuale tentar di sminuire l’importanza del contributo
francese pre e post-rivoluzionario alla specula- zione
filosofico-politica italiana », affermava che il saggio dimostrava «
quanto sia inutile la disputa recente sull’indi- pendenza o meno del
pensiero italiano in quest'epoca, per- ché non si tratta di stabilire
primati, che non esistono nella storia delle ideologie, ma di dimostrare
invece come le idee prime tolte dal lavoro degli illuministi oltremontani
fossero rivissute e concretate con la positiva esigenza della vita
italiana, in una pit solida e netta visione storicistica » !°.
L’impegno civile dimostrato da Salvatorelli ne Il pen- siero
politico italiano — e riaffermato nella seconda edi- zione del 1941, in
cui l’inclusione degli esponenti del pen- siero cattolico non modifica la
« mentalità liberale » del- l’autore, come notava « La Civiltà cattolica
» evidenziando il giudizio troppo severo su Monaldo Leopardi, Solaro
della Margherita, il principe di Canosa e Spedalieri '* —, sembra
attenuarsi nel Sommario della storia d’Italia. In esso Sal- vatorelli
sviluppa quella personale interpretazione dell’unità della storia
italiana che aveva espresso sinteticamente nel 1934, criticando la
concezione politico-statuale di Croce e quella di Volpe che indicava
nell’alto Medioevo il sorgere della nazione italiana — proprio « al
momento in cui l’Ita- lia si risolve in una molteplicità di organismi
autonomi », notava Salvatorelli —, per avvicinarsi alla tesi di
Arrigo Solmi nell’individuazione di una « linea italica » presente
nella penisola già prima della conquista romana, pur ve- dendo, a
differenza di Solmi, delle soluzioni di continuità nell’affermarsi di
quel « piano statale tendenzialmente uni- 134 « La Nuova Italia »,
VII (1936), p. 181. 135 « Civiltà moderna », La Civiltà cattolica
», 93 (1942), vol. II, p. 52. 254 Le origini della
casa editrice Einaudi tario » che, interrotto dalle dominazioni
longobarda e bizan- tina, riprende slancio fra il IX e l'XI secolo !*”.
La sua atten- zione più « allo scomporsi e ricomporsi di un’unità
politico- amministrativa che a una storia del popolo italiano »,
come notava Gabriele Pepe !*, si riflette anche nel Somzzario, nel
quale comunque è difficile cogliere, dietro la fitta cronistoria dei
fatti, dei giudizi caratterizzanti; questi si limitano ad alcune
notazioni sulla diffusione popolare delle idee della Riforma o
sull’influenza dell’Illuminismo francese, cui non segue però un
collegamento tra la rivoluzione dell’89 e il Risorgimento; alla
valutazione positiva sulla « epidemia di scioperi » del primo ’900, che «
fu nell’insieme un fatto fisiologico e benefico, poiché una elevazione
del tenor di vita delle classi operaie era urgente, e perfettamente
possi- bile dato il grande incremento delle condizioni economi- che
»; per terminare con una visione sorprendentemente limitativa dell’età
giolittiana — «l’indirizzo di governo giolittiano fu, pur con empirismo
opportunistico, sostan- zialmente liberale; ma non promosse una
formazione orga- nica di partito, e venne a favorire in una certa misura
la svalutazione del parlamento e l’autoritarismo personale » —, e
con una forzata sospensione di giudizio sul fascismo !. Eppure il
Sormzzzario, forse proprio per il suo taglio manua- listico e asettico,
poteva presentarsi assai distante dalle retoriche deformazioni
storiografiche del fascismo, e spin- gere Mario Vinciguerra — un
intellettuale liberale già vicino a Gobetti e quindi a Luigi Einaudi — a
vedere in Salvatorelli « l’uomo che potrebbe benissimo disegnare,
se volesse, anche un programma politico » come Cesare Balbo nel suo
Sormzzzario, ma che, « vivendo in un’epoca non di 137 L.
Salvatorelli, L’unità della storia italiana, in « Pan », I-II (1933- 34),
vol. I, pp. 357-372. 138 «La Nuova Italia », Di importanza data
da Salvatorelli al « popolo » parla invece A. Galante Garrone,
Risorgimento e Antirisorgimento negli scritti di Luigi Salvatorelli,
cit., p. 529. 139 L. Salvatorelli, Sommario della storia d'Italia
dai tempi preistorici ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 1938, pp. 635,
641. Nel 1940 il Som- mario fu tradotto in inglese, e nel 1941 in tedesco
dalla casa editrice Junker di Berlino (ACS, Segreteria particolare del
Duce, Carteggio ordi- nario, n. 527470). aspettative, ma di
travaglio mondiale, porta necessaria- mente nella storia uno spirito di
revisione e di nuova siste- mazione » !9. Accoglienze
analoghe non mancheranno nel 1942, come vedremo, a un’opera dalle
caratteristiche simili a quelle del Sommario, il Profilo della storia
d'Europa. Frattanto l’atti- vissimo Salvatorelli, che nel 1937 aveva
pubblicato per l’ISPI La politica della Santa Sede dopo la guerra —
lodata da « Gerarchia » per la « larga e seria preparazione » del-
l’autore !! —, alla morte di Pio XI fa seguire immediata- mente, nel
1939, un primo bilancio del suo pontificato, ricco di penetranti
osservazioni personali e ciò nonostante giudicato da « La Civiltà
cattolica », pur con alcune riserve, fra tutti i libri su Pio XI « uno
dei pit seri per copia di informazioni e per sufficiente oggettività di
presentazio- ne » !£. In esso Salvatorelli, attento, come Omodeo,
alle connessioni fra storia religiosa e storia politica, notava che
nel dopoguerra erano stati «i turbamenti sociali, con il “pericolo
bolscevico”, a rimettere in valore presso larghi ceti europei la Chiesa
cattolica quale fattore di ordine e di conservazione sociale », con la
conseguente tendenza degli Stati a cercare l'appoggio della Chiesa. È in
questo clima che si sviluppa l’azione politica, non solo concordataria,
di Pio XI, « Segretario di Stato di sé medesimo », che « ebbe come
criterio direttivo di mettere al primo posto il raf- forzamento
dell’influenza ecclesiastico-religiosa sulla socie- tà » facendo
addirittura, come Bonifacio VIII, « della rega- lità di Cristo il titolo
giuridico per il governo della Chiesa sul mondo » — e qui « La Civiltà
cattolica » replicava 140 « Nuova rivista storica », XXIV (1940),
p. 419 (cfr. anche E. Camurani, La Repubblica pene nelle lettere di
Einaudi e Vinci- guerra (Contributo alla bibliografia di Vinciguerra), in
Annali della Fon- dazione Luigi Einaudi, vol. XII, 1978, Torino,
Fondazione Luigi Einaudi, 1979, pp. 519-520). Invece per Bruno Brunello,
mentre il Sommario di Balbo «era tutto animato da una fede nei destini
della patria », quello di Salvatorelli appariva « più un’esercitazione
letteraria che il risultato di un’indagine appassionata » (« Rassegna
storica del Risorgimento », Il lavoro di Salvatorelli sarà considerato su «
Primato » « molto preciso e concettoso » (I (1940), p. 15).
141 « Gerarchia », XVII (1937), p. 371. 142 « La Civiltà
cattolica », 92 (1941), vol. IV, p. 217. 256 Le
origini della casa editrice Einaudi che, al contrario, la politica
concordataria aveva visto il pontefice « pronto a cessioni e a sacrifici,
pur di tener gli Stati almeno in qualche modo uniti alla Chiesa » !* —;
e, molto nettamente, Salvatorelli metteva in luce l’antisocia-
lismo, il legame col fascismo, la lotta contro il Fronte popo- lare
francese, l'appoggio alla guerra etiopica e a Franco, il possibilismo nei
confronti della Germania nazista, come elementi caratterizzanti
l’attività del papa, per concludere con l’appello a un « nuovo umanesimo
» cristiano cui avreb- bero dovuto ispirarsi anche i laici !4.
Il nome di Salvatorelli tornerà ancora nelle edizioni Einaudi,
sempre con grande risonanza, durante la guerra. Prima di allora, un altro
autore della casa che suscitò vasta eco fu Ivanoe Bonomi, che abbiamo già
trovato, nel 1924, nel catalogo di Formiggini. Il suo Mazzini triumviro
della Repubblica romana, pubblicato nel 1936 e ristampato nel 1940,
incontrò, per la sua esaltazione di un personaggio storico eroicizzato
dal fascismo, una favorevole accoglienza nelle riviste « ortodosse » !,
ma poté prestarsi anche ad una lettura diversa, come era nelle intenzioni
dell’autore: cosî Tagliacozzo mise in risalto, nell’opera, il fatto che «
le preoccupazioni di politica estera e di carattere militare non
impedirono al Triumvirato di dimostrare il suo inte- ressamento per i
problemi sociali » !#; Aldo Ferrari, lo- dando il lavoro, ricordava che
la qualità di uomo politico dell’autore, il « teorico pit chiaro
equilibrato e sistematico della corrente riformista », era « non un
ostacolo bensî un 14 Ibidem. 14 L. Salvatorelli, Pio
XI e la sua eredità pontificale, Torino, Einaudi, Cfr. ad esempio
«Rassegna storica del Risorgimento », XXIV (1937), pp. 845-846;
«Leonardo», VIII (1937), pp. 28-29; «Rivista storica italiana », s. V, I
(1936), fasc. IV, pp. 101-103; « Meridiano di Roma », 3 gennaio e 31
gennaio 1937. 14 « Nuova rivista storica », XX (1936), p. 429;
contemporaneamente ‘Tagliacozzo, recensendo il Labriola di Dal Pane,
richiamava l’insegnamento di Labriola come « salutare » in un momento in
cui si tendeva a « soprav- valutare quello che vien comunemente detto il
“fattore morale” » (« La Nuova Italia », VII (1936), p. 261; cfr. anche
E. Tagliacozzo, In memoria di Antonio Labriola nel trentennio della
morte, in «La Nuova Italia », aiuto » alla ricerca storica !'”; mentre il
crociano Edmondo Cione opponeva l’esaltazione degli « autentici valori
morali del Risorgimento » operata da Bonomi alla tendenza, imper-
sonata da Luzio, ad « una strana “riabilitazione” dei varii personaggi
del mondo reazionario e clericale e talora per- sino di quello poliziesco
e brigantesco », e notava che « il dramma religioso dello spirito moderno
rende di perenne attualità il pensiero del Mazzini », nel quale sono
conte- nuti « i fondamentali principi della religiosità laica del pre-
sente e dell’avvenire: la fede nel progresso storico, il valore educativo
della libertà, l'esaltazione del senso del dovere e dello spirito di
sacrificio, il senso della missione e della dignità personali » ‘4: un
giudizio che assumeva tutto il suo significato se confrontato con quello
de « La Civiltà catto- lica », che coglieva nell’opera un « profondo
anticristiane- simo » spiegabile con la « mentalità di antico socialista
» dell’autore !9, I contatti dell’editore con l’ex esponente
del Partito Socialista Riformista continuarono, ma gli umori della
cen- sura fascista, come quelli dei recensori, si dimostrarono
mutevoli. « L’idea di avere un altro libro Suo, sulla storia politica del
cinquantennio che precede la guerra mondiale, mi ha entusiasmato »,
scriveva Einaudi a Bonomi nel no- vembre 1938; il volume era pronto nel
dicembre 1940 e, affermava l’autore, « esso non tocca periodi...
pericolosi, ma certo illustra l’età liberale di cui ricorda le
benemerenze ed i pregi ». Tuttavia, sebbene giudicata dall’editore
opera « tutta permeata di patriottismo e basata su dati inoppu-
gnabili », La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto non
ottenne nel 1941 il visto della censura, e potrà essere pubblicata nella
collana solo nel 1944, quando l’autore sarà presidente del consiglio.
Sempre a Bonomi si rivolgeva Einaudi nel dicembre 1937, affermando che «
alcune circo- stanze recenti mi pare abbiano reso nuovamente di
attualità il Diario di guerra di Bissolati » !. Il volume, pubblicato
147 « La Nuova Italia », VIII (1937), p. 80. 14 « La Nuova
Italia », X (1939), pp. 220, 222. 14 « La Civiltà cattolica », 89
(1930), vol. I, p. 269. 150 AE, Bonomi. Da notare che, dopo una
seconda edizione nel 1940, 258 Le origini della casa
editrice Einaudi nel 1935 in una collana subito abortita, «
Ricordi e docu- menti di guerra », era stato in un primo tempo
seque- strato !, ma non incontrò nemmeno le simpatie che « La Nuova
Italia » aveva riservato a Bonomi: il recensore della rivista presentava
infatti Bissolati come «uno spirito rivolto al passato, anziché un
veggente delle mete future », preso da una « visione umanitaristica della
guerra » che ren- deva il Diario « animato dall’innegabile patriottismo
del- l’autore, ma anche da idee che compromisero la condotta. della
guerra nei momenti decisivi » !*. Il tono della collana conobbe del
resto anche aspre cadute, veri e propri compromessi col fascismo, come
ne I rovesci più caratteristici degli eserciti nella guerra mon-
diale 1914-18 — teso ad esaltare la capacità di ripresa delle forze
militari italiane — del generale Ambrogio Bollati, direttore della «
Rivista coloniale », autore anche, per la casa editrice, della
Enciclopedia dei nostri combattimenti colo- niali, e, assieme al generale
Giulio Del Bono, della Guerra di Spagna sino alla liberazione di Gijon, i
cui toni antico- munisti furono apprezzati, fra gli altri, da Eugenio
Passa- monti '*. Di impronta nettamente antidemocratica è anche il
Massimo D'Azeglio politico e moralista di Paolo Ettore Santangelo, autore
di altri mediocri studi risorgimentali: un volume che, accompagnato da un
giudizio favorevole del- l’Accademia d’Italia, presenta fin dall’inizio
le sue creden- Bonomi chiederà a Einaudi, nell'ottobre 1945, una
terza edizione del Mazzini, perché « il libro usci in periodo fascista
quando la sua diffusione trovava ostacoli d’ogni genere. Io poi terrei
molto a diffondere quel mio libro che, in questa ora, avrebbe un
significato di attualità » (ibidem). 151 Il Diario fu sequestrato
nel giugno 1934 per le sue critiche all’ope- rato dei comandi militari
(ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario n. 528771,
sottofasc. 1). Il 2 luglio 1934 Luigi Einaudi, dopo aver detto di essere
stato lui a consegnare il manoscritto del Diario al figlio, chiese
udienza a Mussolini (ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio
riservato, b. 70). 152 Carmelo Sgroi ne « La Nuova Italia », IX
(1938), pp. 300-301. 153 « Rassegna storica del Risorgimento »,
XXVI (1939), pp. 258-260; cfr. anche « Leonardo », IX (1938), pp. 66-68.
Il 25 gennaio 1938 l’editore scriveva a Del Bono di essere lieto che il
volume sarebbe stato tradotto in tedesco (AE, Del Bono). Bollati e Del
Bono saranno autori de La campagna germanica în Polonia, Roma, Unione
editoriale d’Italia, 1940, e Bollati de L'Europa contro il bolscevismo,
Roma, La Verità, 1942. 259 ziali
metodologiche con la difesa della teoria élitaria — « sono le aristocrazie
che dappertutto nella storia hanno fondato l’ordine nuovo, lo stato
saldamente costruito » — e con la negazione di qualsiasi influenza del
fattore econo- mico nel processo storico, sostenendo che l’idea di
nazione « nasce molte volte come creatura puramente spirituale, non
solo indipendentemente, ma anche in contrasto con precisi interessi
materiali ». E mentre cerca di giustificare l’« intermittenza di
temperamento » di Carlo Alberto, alla politica mazziniana « astratta »
l’autore contrappone quella di D'Azeglio, del cui carattere « democratico
» presenta un’immagine quanto mai singolare: L’Azeglio
dunque respinge l’idea democratica, non solo nei casi di urgenza [...],
ma anche come dottrina assoluta, che sarebbe as- surda in teoria e
inattuabile in pratica. Egli è democratico in un senso superiore e più
generale, in quanto non crede a privilegi di nascita e dà per compito
allo stato di venir incontro ai bisogni del popolo, trattando tutti i
cittadini su un piede di uguaglianza; è dunque democratico nel senso
costituzionale, più nello spirito che nella lettera: la prassi
democratica, essendo una specie di materia- lismo e prestandosi
facilmente alle mistificazioni, gli è in genere sospetta 1%,
Tuttavia, con l’apertura a tematiche non italiane — affrontate sempre con
quel taglio narrativo che poteva ren- derne agevole la lettura anche ai
non specialisti —, già prima della guerra la collana acquista un maggior
peso cul- turale e civile. Se solo con l’opera di Louis Villat su
La Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico (1940) si raggiunge
un solido impianto storiografico che sostanzia la narrazione dei fatti e
in cui hanno largo posto, soprattutto nelle appendici sullo « stato
attuale delle questioni », temi 15 P.E. Santangelo, Massimo
D'Azeglio politico e moralista, Torino, Einaudi, 1937, pp. 16-17, 78, 99,
286. II 6 agosto 1937 Santangelo chie- deva all'editore di poter
apportare alcune correzioni al lavoro, « dietro amichevole suggerimento
di un alto personaggio dell’Accademia d’Italia » (AE, Santangelo). Luigi
Bulferetti criticò la distinzione operata dall’autore nel Risorgimento,
tra «idea astratta » di Mazzini e «azione politica » dei moderati («
Rivista storica italiana », s. V, III (1938), fasc. II, pp. n e «
Rassegna storica del Risorgimento », XXV (1938), pp. 1584-
economico-sociali — tanto che Carlo Morandi vi vede domi- nare, «e
talvolta in modo troppo esclusivo », le tesi di Albert Mathiez '* —, si
fa ricorso anche a storici non pro- fessionali, in grado tuttavia di
esprimere un orientamentò politico. È il caso del Talleyrand di Alfred
Duff Cooper, già ministro della guerra del gabinetto britannico, e
quindi Primo Lord dell’Ammiragliato dal maggio 1937 all’ottobre
1938, quando, dopo Monaco, presentò le dimissioni per là sua politica contraria
all’appeasemzent, ed esponente del gruppo dei « giovani conservatori »
nella cui mentalità — avvertiva l’editore italiano — « si bilanciano una
certa spre: giudicatezza d’idee e una tendenza al positivo e al
concreto nell’applicazione alla vita vissuta ». Egli svolge, sotto
le vesti di una biografia romanzata — in cui peraltro si preoc-
cupa di affermare la necessità che «i cambiamenti nel metodo di governo
siano graduali », e di notare che « gli uomini di estrema, a qualsiasi
partito appartengano, diven- gono sempre germi di dissoluzione in un
organismo poli- tico » —, un elogio della coerenza di Talleyrand nel
porre « la nazione francese al di sopra degl’interessi particolari
dei regimi che in un certo momento la governano », e pre- senta il
diplomatico francese assertore di una politica di alleanze fra le potenze
capace di portare all’unificazione europea: lo considera infatti, per
usare le parole dell’editore che fa propria la tesi di Cooper, « come un
uomo moderno, fors’anche come un nostro contemporaneo », poiché le
sue idee « si riportano al problema della pacifica organizzazione
dell’Europa che attende ancora una vera e sicura solu- zione » !*.
Vinciguerra — che pur aveva curato l’opera — poteva affermare, da un
punto di vista strettamente storio- grafico, che « non si può accettare
neanche con riserve » la tesi « della modernità democratica e pacifista
nella politica estera » di Talleyrand '”, ma dimostrava di non cogliere
il 155 « Primato », I (1940), n. 5, p. 24 (siglato CM.).
15% A.D. Cooper, Talleyrand, a cura di M. Vinciguerra, Torino,
Einau- di, 1937 (ediz. originale 1932), pp. VIII, X, 294. Cooper fu
autore di Ceux qui osent répondre è Hitler, après Munich, Paris, Édinions
Nantal, 1938. 157 « Nuova rivista storica », XXIV (1940), p.
99. 261 significato politico di
un’opera apparsa in italiano in un anno cruciale per le sorti
dell'Europa: messaggio che era assai esplicito, se da un’altra ottica
ideologica il commen- tatore di « Leonardo » osservava che « la vita del
grande diplomatico è pretesto a ribadire la concezione diremo cosi
ufficiale della politica britannica improntata ad un conser- vatorismo
pacifista di cui sarebbe garanzia imprescindibile una stretta intesa
anglo-francese » !*. E ancora nel corso della guerra poteva essere
accolto il messaggio di pace affidato al romanzo sul conflitto
russo- giapponese di Frank Thiess, Tsushimza, tradotto nel 1938
sotto gli auspici dell'Ufficio storico della Marina e giunto nel 1945
all’ottava edizione, che prima dell’attacco all’ URSS suscitò accenti di
umana comprensione anche sulle pagine di « Critica fascista »: 7 Fra quel
popolo russo di martiri grigi, nel cui seno covava la rivoluzione, e
questo popolo giapponese di tenaci e sorridenti lavo- ratori, la simpatia
umana del lettore, e fors’anche dell’autore, finisce col bilanciarsi: e
non è forse senza un presago significato che il libro si chiuda con la
visione luminosa del porto di Jokohama, in cui centinaia di piccoli russi
e di bimbi giapponesi giocosamente s’incon- trano e si sorridono pur
senza capirsi ancora!, 6. « Cultura della crisi » e
spiritualismo Nella seconda metà degli anni ’30 uno dei
messaggi più consistenti di cui comincia a farsi portatrice la casa
editrice è tuttavia di altro tipo, e tale da prestarsi a letture diverse
sul piano ideologico e politico. Si tratta di quel filo- ne spiritualista
che si riallaccia alla « cultura della crisi » svi- luppatasi in Europa
dopo il 1929 con svariate manifesta- zioni, da quelle politiche dei « non
conformisti » francesi che potevano giocare « un ruolo oggettivamente pro
fa- 158 Sergio Martinelli in « Leonardo », VIII (1937), p. 406;
come « biografia romanzesca » l’opera era liquidata da Luigi Bulferetti
(« Ras- segna storica del Risorgimento », XXV (1938), p. 1437).
" ; G.A. Longo in « Critica fascista », XIX (1941), p. 119 (15 feb-
raio). 262 Le origini della casa editrice
Einaudi scista » ‘9, a quelle del mondo cattolico, assai più
ambigue perché difficilmente si concretizzavano sul terreno
politico, ma comunque decisamente anticomuniste e antidemocra-
tiche — più ancora che antinaziste —, come nel caso dei cattolici
italiani che individuavano nella Chiesa l’ultimo baluardo della civiltà,
pur senza mettere in discussione il fascismo !. Anche in Italia questa
ondata irrazionalistica, tesa a mettere in discussione i valori «
materiali » della civiltà contemporanea, fu alimentata in particolare
dagli ambienti cattolici, ma investî anche quelli laici, a indicare
la presenza di un profondo disorientamento e la ricerca di nuove o
antiche certezze: e l’insofferenza per l'ordine costi- tuito poteva
seminare dubbi in un mondo politico, come quello italiano, in cui il
fascismo sbandierava le sue inoppu- gnabili verità. Il pericolo era
avvertito dal regime, se nel suo ambito si poteva parlare, a proposito
della Kulturkrisis, di manifestazioni « patologiche » della cultura
contempo- ranea, augurandosi che « allo storico futuro non abbiano
a sfuggire le varie e numerose manifestazioni del genere:
perderebbe con esse una delle più eloquenti testimonianze di quel
singolare squilibrio logico e morale che imperversò in questi anni »!.
Motivi spiritualeggianti, talvolta a sfondo religioso, sono presenti
anche nelle edizioni di Giulio Einaudi, che fra gli scopi della sua
iniziativa nel periodo fascista annovererà anche quello di «
contrapporre all’ottimismo ufficiale un senso profondo e inquieto
dei problemi del momento » !*; ed è significativo che negli stessi
anni Guanda inaugurasse una collana di « Testi per una religione
universale », e che perfino Laterza ne dedi- casse una agli « Studi
religiosi, iniziatici ed esoterici », dove 10 Cfr. R. De Felice,
Mussolini il duce, I. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi,
1974, pp. 545-549. 161 Cfr. R. Moro, La formazione della classe
dirigente cattolica (1929- 1937), Bologna, il Mulino, 1979, cap.
IX. 1@ Cosi il « Meridiano di Roma » del 10 gennaio 1937, nella
recen- sione a René Guénon, La crisi del mondo moderno, Milano, Hoepli,
1937 (con prefazione di J. Evola). Sui precedenti italiani di questa
tematica cfr. E. Garin, Gli italiani e la crisi europea, in « Terzo
programma » (1962), n. 3, pp. 168-176. 163 AE, G.
Einaudi. 263 circolò il pensiero
antroposofico di Rudolf Steiner che tanto colpi il giovane Eugenio Curiel
'#, « Che il mondo attraver- si al presente un periodo di grave
scompiglio, foriero di più fosche vicende per l’avvenire, non c’è alcun
dubbio fra quanti hanno un uso passibilmente normale delle proprie
‘facoltà intellettuali », osservava nel 1938 padre Brucculeri su « La
Civiltà cattolica » passando in rassegna alcuni libri .sulla «crisi
odierna » !9: fra questi, La crisi della civiltà di: Johan Huizinga
tradotto da Einaudi nel 1937, che ebbe una seconda edizione già l’anno
successivo. 4. Il pampblet dello storico olandese, dal titolo
originario Nelle ombre del domani, faceva esplicito riferimento
alla crisi del ’29 cui era attribuita « la sensazione della
minaccia di. un tramonto e del progressivo dissolversi della civiltà
» icome mai si era avuta nel recente passato, se non all’inizio del
secolo con « il pericolo di una rivoluzione sociale che il marxismo
faceva balenare di tanto in tanto ». « Vedia- mo distintamente come quasi
tutte le cose, che altra volta ci apparivano salde e sacre, si siano
messe a vacillare: verità e. umanità, ragione e diritto », affermava
accoratamente Huizinga, la cui analisi della crisi, cosî come le
soluzioni «indicate, presentano elementi di ambiguità che danno ra-
:gione delle letture diverse cui dette luogo. Da un lato si :scaglia
contro il razzismo, contro Sorel « padre spirituale degli odierni regimi
totalitari », contro le filosofie vitali- «stiche, la dottrina della « autonomia
morale dello stato » e «quella dello « stato-potenza privo d’ogni freno
»; dall’altro la sua critica non è meno dura nei confronti del
marxismo, in quanto osserva che « né il secolo XVI né il principio
dell'Ottocento vide mai minare con sistematica coerenza l’ordine e
l’unità sociale mediante una dottrina quale quella dell’odio di classe e
della lotta di classe », e a questa acco- muna « la dottrina della
relatività della morale, insegnata ._. +16 Cfr. ora N. Briamonte,
La vita e il pensiero di Eugenio Curiel, Milano, Feltrinelli, 1979, pp.
20-24. IS A, Brucculeri, La crisi odierna, in «La Civiltà cattolica
», 89 (1938) vol. I, p. 326: accanto a Guénon e Huizinga esaminava Quel
che o e quel che nasce del cattolico Daniel Rops (Brescia,
Morcelliana, ‘264 Le origini della casa editrice
Einaudi sia dal sistema scientifico del materialismo storico,
come: dai sistemi psicologici che derivano da Freud »; accuse altrettanto
dure sono lanciate contro il « superficiale razio:' nalismo del secolo
XVIII », il cui « disastroso effetto » fu di « sradicare il concetto del
servire dalla coscienza popo- lare », e contro il progresso in generale,
aristocraticamente giudicato una «ingenua » illusione dell’800. Da questa
analisi scaturiva la proposta di un « nuovo ascetismo » — di cui forse
era un’eco parziale il « nuovo umanesimo » auspicato da Salvatorelli —,
che « non sarà un ascetismo: della negazione del mondo per amore della
salvezza celeste, ma del dominio di sé e di un’attenuata stima del potere
e del godimento » !*: un invito che non poteva trovare d’ac- cordo
« La Civiltà cattolica » che, pur approvando nelle linee generali la
parte analitica del lavoro di Huizinga, obiettava come la ricerca di «
certe verità eterne » non potesse fare a meno di chi ne era il
depositario naturale; il papato, che con Pio XI si era dedicato « alla
difesa della. nostra civiltà; quindi le sue proteste contro il
bolscevismo, contro il nazismo, contro il governo tirannico del
Messico, contro le nefandezze dei rossi nella Spagna » !”.
Critiche globali al volumetto dello storico olandese provennero da
ambienti culturali diversi: recensendone su: « Leonardo » l’edizione
tedesca, Cantimori, forse già « se- mi-marxista » — come si dichiarerà
più tardi —, ma co- munque attivamente impegnato nella difesa degli
orien- tamenti politici del regime, lo considerò « lo sfogo di uno:
spirito d’artista individualistico, liberaleggiante, contro questo mondo
moderno, che non gli va », aggiungendo —: 16 J. Huizinga, La crisi
della civiltà, Torino, Einaudi, 1937 (ediz. originale 1935), in
particolare (citiamo dall’edizione einaudiana del 1962). Gherardo Casini,
direttore generale per la stampa italiana, assicurava Luigi Einaudi di aver
già provveduto ad assicurare la diffusione del saggio di Huizinga (AFE,
Casini). Enzo Paci ha osservato che «l’ideale di salvezza che Huizinga
propone alla civiltà contemporanea è un ideale etico-razionale nel quale
rinascono in una specie di neogiusnaturalismo le vecchie idee di Grozio.
Quest’ideale finisce per fondersi con una conce- zione cristiana del fine
della vita » (Johan Huizinga, in « Terzo program- ma » Brucculeri, La
crisi odierna, cit., p. 330. 265 ma il
passo sarà espunto dalla riproduzione di questo giu- dizio
nell’introduzione che Cantimori farà alla nuova edi- zione einaudiana del
1962 — che « questa patetica laudatio temporis acti potrebbe anche
interessarci, potrebbe essere utile a chi volesse rendersi conto dello
stato d’animo di tanta parte della odierna cultura europea di fronte alla
rivo- luzione sociale che in Europa si va compiendo, se non si
mischiasse di politica, e a questo modo non irritasse il lettore di un
paese cosî impegnato nella lotta politica e sociale di oggi come questa
nostra Italia » '#. Analogo il giudizio espresso sulla « Nuova rivista
storica » da Mario M. Rossi, che lo defini « lo sfogo pit o meno poetico
di un laudator temporis acti, come in mille epoche già ne abbiamo
uditi », e lo avvicinò a Dawson, ad Huxley e alle ultime teorie sulla
morale di Bergson !. Anche i giovani di « Cor- rente » dichiararono di
non consentire con la « speranza che la scienza possa divenire saggezza
», in quanto « non dal sapere, ma dal concreto tumulto della vita nascono
i pro- blemi e le soluzioni » ‘*, e quelli de « La Ruota », pur
vedendo nel libro il « prodotto spontaneo di un cuore sin- cero », vi
colsero « opinioni superate e irrigidimenti dottri- nari tutt'altro che
accettabili » !, D'altro lato è interessante notare come, nell’ambito di
un giudizio sostanzialmente positivo, in ambienti culturali opposti si
cogliesse l’occa- sione per polemizzare con l’idealismo e lo storicismo
cro- ciano: « La Civiltà cattolica » criticò infatti il « plauso
della filosofia tedesca » fatto da Huizinga, che invece « avrebbe potuto
rintracciare nelle costruzioni filosofiche alemanne, nel kantismo
particolarmente e nell’hegeliani- smo, le scaturigini principali e remote
della decadenza del pensiero, dello scetticismo morale, della autonomia
della politica e della statolatria e di altrettali degenerazioni,
contro le quali egli scrive delle pagine brillanti e quanto 168 «
Leonardo », VII (1936), p. 383. 16 « Nuova rivista storica », XXIII
(1939), p. 145. 170 G.M. Bertin, La crisi della cultura e il
problema della scienza, in « Corrente di vita giovanile », 15 febbraio
1940. I7l M. Cesarini ne « La Ruota », II (1938), n. 1, p. 100 (era
esami- nato anche H. Keyserling, La rivoluzione mondiale e la
responsabilità dello spirito, Milano, Hoepli, mai proficue » !; e su « La Nuova Italia »
Alfredo Parente, dopo aver giudicato il libro « altamente pregevole
come sincera espressione di un vivo travaglio e di preoccupazioni e
turbamenti che sono preoccupazioni e turbamenti dell’in- tera umanità
presente », ne traeva spunto per affermare che « la ormai diffusa
concezione idealistica, che il male e l’er- rore giustifica e redime
nell’ordine della vita spirituale, e il congiunto ottimismo, che non
indulge alla disperazione e ispira la più estrema fiducia nella vittoria
definitiva del bene, possono essere un pretesto di fatalistica
inoperosità nella coscienza degl’imbecilli e dei neghittosi, e un
istru- mento di malizia nelle mani dei disonesti che da quella
concezione filosofica credono di poter trarre la giustifica- zione e
l’approvazione del loro qualsiasi operare »; e, dichiarandosi d’accordo
con Huizinga nel veder conculcati i valori morali, si spingeva in un
invito all’azione assai distante dalla proposta di un « nuovo ascetismo
»: sappiamo che gli animi dotati della sensibilità morale dello
scrittore olandese, silenziosi custodi pure in tempo di burrasca e di
travolgi- menti dei valori dello spirito, son molti, nonostante le loro
voci siano sommerse da un assai crudo e talora bestiale clamore dei
popoli. Soltanto non bisogna adagiarsi e cullarsi in quella certezza, col
rischio che il ritorno della serenità e della luce sia ritardato dal-
l’opera di coloro, cui quella speranza non lusinga e altri meno eletti
ideali stimolano o imbestialiscono !?3, « Ma l’autore non è né uno
storico, né un politico, né filosofo: è, mi pare, un buon cattolico » che
sorvola sui problemi della politica e dello Stato, scriveva a Giulio
Finaudi, dopo aver letto Huizinga, il meridionalista di tra- dizione
salveminiana Tommaso Fiore, invitando l’editore a «pubblicare storia in
concreto » !*. Accenti spirituali- 172 A. Brucculeri, La crisi
odierna, cit., p. 330. 173 « La Nuova Italia », IX (1938), pp. 324,
326. 174 AE, Fiore, 6 gennaio 1938; come esempio di « storia in
concreto » il 26 dicembre 1937 Fiore aveva proposto la traduzione di
Richard Freund, Watch Czechoslovakia! (1937): «Non è un libro
antifascista e non si ‘può dire una difesa della democrazia (molto meno
della Cecoslo- vacchia), ma si capisce che la difesa della democrazia è
un sottinteso e le simpatie per la borghesia ceca e pel “Socrate di
Praga” sono naturali e profonde ». Fiore, nel ’38, auspicava anche «
manuali di geografia politica, fatti senza aridezza, in cui il senso
politico sia profondo » (ibidem). 267
stici, di chiaro stampo cattolico, riappaiono invece ne La formazione
dell’unità europea di Christopher Dawson. L’au- tore di Progress and
Religion (1929), di cui « La Civiltà cattolica » aveva fatta propria «
l'impressione di vedere già sorgere una nuova società, che disconoscerà
ogni gerarchia di valori, ogni disciplina intellettuale, ogni tradizione
sociale e religiosa, ma che vivrà per l’attimo presente in un caos
fatto unicamente di sensazioni » !*, era stato già indicato da Mario M.
Rossi, sulle pagine della « Nuova rivista storica », come uno degli
artefici di quelle « sintesi storiche », « fon- date su una determinata
dottrina filosofica o religiosa », che, sempre più frequenti « a mano a
mano che l’Europa va dissolvendosi nel caos », « sono un prodotto di
crisi e non dell’esame di una situazione solida e delineata » !*.
Oppositore del progresso scientifico che gli appariva una religione laica
« che ha voluto sostituire la vera unità cul- turale europea — il
Cristianesimo », anche nel volume einaudiano Dawson considera la Chiesa
elemento unificante della storia europea fra V e XI secolo, in linea con
tutta la componente cattolica della « cultura della crisi », intenta
a costruire « una filosofia della storia che tendeva a gettare
ponti tra i secoli, ridotti ad attimi di un fluire storico di smisurato
respiro attorno alla vita della Chiesa » !7. Dopo aver dichiarato,
con toni spengleriani, che « Azio, come Maratona e Salamina, fu uno
scontro dell’Oriente e dell’Occidente, una finale vittoria degli ideali
europei di ordine e di libertà sopra il despotismo orientale » —
un’af- fermazione che ritroveremo nelle pagine iniziali del Profilo
della storia d’Europa di Salvatorelli e, ancora più puntual- mente, nel
corso sulla Storia dell’idea di Europa tenuto nel 1943-44 da Chabod —,
Dawson faceva una professione di fede storiografica e ideologica insieme,
sostenendo che « l'influsso del cristianesimo sulla formazione
dell’unità europea è un notevole esempio del modo come il corso
dello sviluppo storico viene modificato e determinato dall’inter-
175 A. Brucculeri, La civiltà e le sue moderne involuzioni, in «La
Civiltà cattolica », 90 (1939), vol. III, p. 120. 176 « Nuova
rivista storica » Moro, La formazione della classe dirigente cattolica, cit.,
p. 449. 268 Le origini della casa editrice
Einaudi vento di nuovi influssi spirituali », in quanto esiste
sempre nella storia « un elemento misterioso e inspiegabile, dovuto
non solo all’influsso del caso o all’iniziativa del genio indi- viduale,
ma anche alla potenza creatrice delle forze spiri- tuali ». Su questa
base l’autore sviluppa il suo ragiona- mento, teso a dimostrare che la
Chiesa non fu coinvolta nella caduta dell'impero di Occidente perché «
era diven- tata una istituzione autonoma che possedeva il suo prin-
cipio d’unità e i suoi propri organi d’autorità sociale. Essa era in grado
di diventare contemporaneamente l’erede e rappresentante dell’antica
cultura romana, e la maestra e la guida dei nuovi popoli barbarici »;
cosi all’inizio del secolo VIII, quando l’invasione musulmana aprî un’«
epoca di universale rovina e distruzione », « vennero gettate le
fon- damenta della nuova Europa, da uomini come San Gregorio, che
non avevano idea di edificare un nuovo ordine sociale, ma siccome il
tempo stringeva, si travagliavano per la sal- vezza degli uomini in un
mondo moribondo. E fu proprio quest’indifferenza per i risultati
temporali che diede al papato l’energia di diventare, nella decadenza
generale della civiltà europea, un centro di riorganizzazione delle
forze della vita ». Al termine di questo processo, il secolo XI vide «
l’incorporazione di tutta l’Europa occidentale nella cristianità », e
l’inizio di « un moto di progresso che dura poi quasi senza interruzione
fino ai tempi moderni »; la logica conclusione del volume era perciò un
invito a proiettare nel futuro la tradizione culturale ricostruita
in sede storica: Ai nostri giorni l'Europa è minacciata del
crollo della cultura aristocratica e laica su cui era fondata la seconda
fase della sua unità. Sentiamo di nuovo il bisogno di un'unità spirituale
o almeno mo- rale [...]. Ma è bene ricordare che l’unità della nostra
civiltà non poggia soltanto sulla cultura laica e sul progresso materiale
degli ultimi quattro secoli. Ci sono in Europa tradizioni più profonde
di queste, e dobbiamo risalire oltre l’umanesimo e oltre i trionfi
super- ficiali della civiltà moderna, se vogliamo scoprire le
fondamentali forze sociali e spirituali che hanno lavorato alla
formazione del l’Europa Dawson, La formazione dell’unità europea dal
secolo V all'XI, « Non ci
manca che la preghiera a Notre-Dame de Lourdes, perché il Dawson ci
appaia come un maresciallo Pétain della cultura », osservava
sarcasticamente, nel 1940, il «libertino» Arrigo Cajumi, ormai distaccato
dall’am- biente della casa editrice ‘, Ma sempre nel 1940, quando
anche l’Italia era entrata in guerra, Mario Delle Piane riconosceva a
Dawson il merito di aver fatto rivivere « un’epoca lontana ed oscura e,
pur tuttavia, attualissima, oggi che si assiste, pare, alla lotta di due
civiltà ed alla fine di una di esse», anche se aggiungeva,
idealisticamente, che « la civiltà è una e imperitura, non essendo altro
che il concretarsi dello sviluppo del libero spirito umano: cioè
storia » !®. Più nettamente si esprimeva, pur mantenendosi sul piano
della discussione storiografica, Gino Luzzatto, che alla storia delle
idee di Dawson contrapponeva il Mao- metto e Carlomagno di Henry Pirenne
— uscito da La- terza nel 1939 —, mosso « dall’osservazione di un
fatto economico », e, giudicando « alquanto azzardato » il ragio-
namento dello storico inglese, si chiedeva « se la mirabile fioritura
della vita cittadina fra il XII ed il XV secolo non abbia avuto per la
formazione della moderna civiltà europea un’importanza assai maggiore dei
rapporti fra Chiesa ed Impero » 15. Il tema del contrasto fra
civiltà materiale e aspirazioni spirituali, presente in Huizinga e
Dawson, circola proble- maticamente anche nei romanzi dei « Narratori
stranieri tradotti », in particolare in quelli di autori inglesi
dell’età traduzione di C. Pavese, Torino, Einaudi, 1939 (ediz.
originale 1932), in particolare pp. 8, 45, 188, 276-277, 282-283. Anche
per Chabod ad opera del pensiero greco si era formata « una Europa che
rappresenta lo spirito di “libertà”, contro il “dispotismo” asiatico »
(Storia dell’idea d'Europa, a cura di E. Sestan ed A. Saitta, Bari,
Laterza, 1961, p. 16). 17? A. Cajumi, Pensieri di un libertino,
presentazione di V. Santoli, Torino, Einaudi, 1970, p. 183.
180 « Rivista storica italiana », s. V, V (1940), p. 425. Secondo
Ga- briele Pepe, per Dawson il mondo europeo « sente più vivo il bisogno
di un ordine culturale nuovo, fondato su un pivi intimo contatto con
le civiltà dei popoli dell’Oriente e di tutto il restante mondo, che non
rien- trano nei quadri della nostra tradizione culturale » (La nascita
dell'Europa, in « Oggi », 24 febbraio 1940). 181 « Nuova
rivista storica », XXIV (1940), pp. 262-264 (siglato G.).
270 Le origini della casa editrice Einaudi vittoriana
la cui funzione, in questi anni di crisi di valori, può apparire analoga
a quella svolta a cavallo del secolo dal Tolstoj fustigatore del «
progresso meccanico » !. Di Walter Pater, fin allora conosciuto in Italia
solo come « ca- poscuola di un estetismo immoralistico » che
sarebbe emerso dai suoi studi sul Rinascimento, Einaudi presenta il
romanzo del 1885 Mario l’epicureo, in cui l’autore in- tende « to show
the necessity of religion », in un senso assai diverso dalla difesa della
« religione laica » fatta nel 1882 dal Marc Aurèle di Renan. Il
protagonista, la cui vi- cenda è ambientata ai tempi di Marco Aurelio —
espres- sione di una civiltà « arida » paragonata da Pater a quella
materialistica dell’800 —, abbraccia dapprima « un epicu- reismo elevato
a disciplina morale, che ha per suo fine non il godimento, sia pure
raffinato, ma la perfezione dell’es- sere intimo, “culto reso alla luce
dell’intelletto” », per approdare infine al cristianesimo, come scrive la
curatrice del volume: « Il cristianesimo fervido e sereno di quei primi
tempi eroici, scevri di fanatismo, l’esultanza invulne- rabile dei
credenti, la loro speranza serena, gli mostrano il sorgere di un’umanità
dotata di quelle qualità morali di cui il mondo pagano è privo, ma che
pure non rinnega l’amore alla vita e alla bellezza » !*. « Romanzo
filosofico », lo qualificherà Beniamino Dal Fabbro recensendolo
positi- vamente su « Primato », in cui tuttavia «il significato
dottrinario sembra soverchiato da un senso religioso in- teso liricamente
». Lo stesso Dal Fabbro citava le edizioni einaudiane, entrambe del 1939,
de La storia di Henry Esmond di Thackeray e del David Copperfield di
Dickens tradotto da Pavese, per coglierne « la contemporaneità in
ciò che fu chiamato il “compromesso vittoriano”, saggia mistura di
borghesia e di cristianesimo, di calcolate ribel- lioni e di più comode
acquiescenze » !*. Materia e spirito si oppongono e si confondono
anche 182 Cfr. G. Turi, Aspetti dell’ideologia del Psi
(1890-1910), in « Studi storici », XXI (1980), p. 85 n. 102.
183 W. Pater, Mario l’epicureo, traduzione di L. Storoni Mazzolani,
Torino, Einaudi, 1939, pp. 9, 13-14. 184 « Primato », I (1940), n.
1, p. 14, e «Oggi», 4 novembre 1939. 271
in Cosi muore la carne di Samuel Butler, un romanzo in gran parte
autobiografico ambientato nell’età vittoriana, in cui il curatore notava
« la ricerca continua e affannosa di una fede, in grado di sostituire la
religione tradizionale », e « l’ingenua fiducia accordata a ogni nuova
teoria, la quale non tardava ad abbandonare i precisi limiti scientifici
per confondersi in un alone religioso », la ribellione di Butler al
positivismo e il suo invito agli uomini di liberarsi dal peccato e dal
dolore amando « il vero dio » !*. Dal romanzo traeva spunto il
liberalsocialista Vittorio Gabrieli per pre- sentare la figura
dell’autore su « Civiltà moderna », e met- tere in luce che nell’età
vittoriana, in un momento in cui « si accentua e si propaga il dissidio
tra sentimento religioso e spirito scientifico, misticismo e razionalismo
», nasceva in Butler, cosî come nel protagonista del romanzo, la
satira della società, della scuola, della famiglia, della religione
tradizionale, e il suo tentativo di conciliare la scienza con la religione:
di qui, in lui, una «curiosa mescolanza di immanenza razionalistica e di
spiritualità profonda e fan- tasia suggestiva », e, in contrasto con la
visione materia- listica dell’universo fornita da Darwin, «
l’affermazione dell’attività dello spirito sulla materia, della libertà
umana, del progressivo scoprirsi d’un ordine nell’universo, un
prin- cipio vitalistico ed una forza creativa, sostituendo cosî al
meccanismo della selezione naturale una finalità, un dive- nire
teleologico, che effettivamente collima con una conce- zione religiosa »
!, In questo contesto si spiega come nel 1938 Aldo Capi-
tini, esponente di un liberalsocialismo dalle forti venature religiose,
si rivolgesse a Einaudi per proporgli la pubblica- zione dell’epistolario
di Michelstaedter, un autore che Capitini « scopri » negli anni ’30 e che
tanta influenza ebbe sui suoi Elementi di esperienza religiosa, cosi
come 185 S. Butler, Cost more la carne, prefazione e traduzione di
E. Gia- Dio, Torino, Einaudi, 1939, pp. VII, IX (citiamo dalla seconda
edizione el 1943). 186 V. Gabrieli, Presentazione italiana di S.
Butler, in « Civiltà moder- na », XII (1940), pp. 132, 134-135. Tommaso
Landolfi coglieva invece nel romanzo « un'impressione di triste aridità »
(« Oggi », 13 gennaio 1940). 272 Le origini della
casa editrice Einaudî su altri intellettuali che negli anni fra le
due guerre ne. ripresero la riflessione sulla « situazione » umana,
sui valori della morale e della fratellanza; di lui, ricorderà
Capitini, lo aveva colpito « l’antiretorica, quel tipo di esi-
stenzialismo, che poteva divenire supremo impegno pratico, come poi mi è
stato confermato dall’esame dell’epistolario manoscritto, dall’interesse
che egli ebbe negli ultimi suoi anni per i Vangeli; insomma mi pareva esatto
considerarlo. come la premessa di una tensione pratica
etico-religiosa » !”. Carlo Michelstaedter — scriveva infatti a
Einaudi — ha portato. nella cultura italiana un rigore insolito
nell’esigenza dell’assoluto. Egli spicca in confronto di molti suoi
coetanei della « Voce » che furono morbidi e, prima o poi, arrendevoli.
L'elemento intransigente e tragico difetta troppo nella nostra
spiritualità perché non ne sia desiderabile l’innesto. Le riserve sul
pensiero e sulla decisione del Michelstaedter [morto suicida nel 1910]
non spengono l’importanza che egli ha per quelli che oggi ascoltano voci
perentorie e disperate per vincere la faciloneria. Cresce l’interesse per
lui; sta diventando un punto di riferimento, anche per chi comprende che
si deve andare oltre e ricostruire ma su serie rovine !88,
Dubbi o disorientamenti, tendenze spiritualistiche ed esperienze
religiose, anche se non univocamente contraddi- stinte, o recepite, sul
piano civile, venivano cosî confe- rendo alla casa editrice la funzione
di stimolo alla rifles- sione, a non affidarsi alle « certezze » del
regime proprio nel momento in cui ci si avvicinava alla guerra.
7. Una cultura eclettica: i « Saggi » Dubbi e inviti alla riflessione
si accompagnano tut- tavia, ancora in questi anni, alla difficoltà di
attestarsi su una linea culturale ben definita, che si manifesta in
una 187 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, cit., p. 53.
Sulla fortuna di Michelstaedter tra le due guerre cfr. E. Garin,
Intellettuali italiani del XX secolo, cit., pp. 102-103. 18
AE, Capitini (17 agosto 1938). L'editore propose invece a Capitini di
scrivere un libro su Michelstaedter; nel 1938 Capitini propose anche Ends
and means di Aldous Huxley (1937). 273
inquieta ricerca di « novità »: ne è testimonianza precipua la collana
dei « Saggi », quella di maggiore diffusione, che affronta temi disparati
secondo ottiche diverse, dimostrando talvolta l’insofferenza verso i
canoni della cultura fascista ma, al tempo stesso, il persistere di un
eclettismo che smorza i tentativi innovatori della casa editrice.
I « Saggi » erano stati inaugurati nel 1937 da Voltaire politico
dell’illuminismo di Raimondo Craveri, severamente giudicato da « Giustizia
e Libertà » !° incapace di cogliere gli elementi caratteristici di
un’opera che, in linea con l’interesse per il pensiero settecentesco de «
La Cultura » e di Salvatorelli, si richiamava agli studi più recenti,
in particolare a quelli di Dilthey e di Cassirer negatori della
taccia di antistoricismo mossa al secolo XVIII, per svol- gere una
critica trasparente dell’idealismo e della con- cezione attualista dello
Stato: Le idées claires che l’illuminismo ha amato — osservava
infatti l’autore —, giovano forse a riportatci in più spirabil aere di
quello saturo di aberrazioni mentali mascherate di hegelismo ed
ammantate di dialettica d’oggigiorno [...]. Il teorico del dispotismo
illuminato diverrebbe ora il nemico d’ogni statolatria e d’ogni anarchia
ed, in quanto fautore della tolleranza, l’avversario principe dello
Stato provvidenzialmente onnipresente ed onniagente. Sul terreno
teorico Voltaire scende in campo contro gli epigoni dell’hegelianismo
!%. L’anno successivo appariva il Profilo di Augusto di
Ettore Ciccotti, dove il rifiuto di ogni glorificazione e attua-
lizzazione del personaggio biografato, proprio quando la sua figura era
ufficialmente celebrata dal fascismo — alla ricerca di legittimazioni
imperiali — in occasione del bimil- lenario della nascita dell’imperatore
romano, appariva evidente fin dalle dichiarazioni metodologiche iniziali
in 189 « Libro di eccellenti intenzioni, ma di esito abbastanza
infelice [....] l’abuso di filosofia del Craveri lo porta a dedicare l’intero
suo libro al sistema filosofico di Voltaire, che era cosa da trattare in
quattro pagine [...]. Le sole cose sensate ci paiono essere le
riflessioni sul despotismo illuminato, e il suo carattere apolitico, la
indifferenza di Voltaire per lo Stato e il suo ottimismo per la libera
attività nella società esistente » (« Giustizia e Libertà », 23 aprile
1937). 190 R. Craveri, Voltaire politico dell'illuminismo, Torino,
Einaudi, 1937, pp. 13-14, 19. 274 Le origini
della casa editrice Einaudî cui l’autore, riecheggiando, anche se
in forma più blanda, gli interessi economico-sociali che ne avevano
caratterizzato la produzione a cavallo del secolo, affermava che gli
uomini dovevano essere collocati « in relazione all'ambiente e al
tempo », « onde non si tratta di apoteosi o condanne, di glorificazioni
od esecrazioni; e piuttosto, o meglio, di cercare di comprendere come e
per quali vie e tra quale varia cooperazione e con quali effetti sociali
gli eventi si svolsero e si conclusero, e con quali prospettive e
signifi- cato »; ma si limitava in realtà ad una narrazione
puramente cronachistica, in cui spicca un solo giudizio dal
trasparente significato politico, che, ancora una volta, la « Nuova
rivista storica » non mancava di rilevare: « Gli autocrati, d’ordinario,
dovendo farsi perdonare la confiscata libertà e il potere assoluto,
ricorrono a miraggi di conquiste, onde lampeggiano a’ soggetti beneficii
spesso sognati od effimeri e al dominatore ancor più effimero prestigio:
quindi la guerra » !. Distante dalla cultura idealistica era anche
l’in- terpretazione psicanalitica proposta dallo psichiatra spa-
gnolo Gregorio Marafion, che intendeva mettere in luce le qualità umane
dello scrittore ginevrino Henry Amiel sulla base di una concezione
relativistica della morale, secondo la quale « le cose non sono quasi mai
assoluta- mente buone o cattive, e l’efficacia loro, positiva o
negativa, dipende pi dall’orecchio di chi le ascolta che dal labbro
di chi le pronuncia » !, Una linea diversa prevale invece nei saggi
dedicati alla letteratura italiana, nonostante la presentazione
della figura inquieta e non conformista di Tommaseo, di cui
Raffaele Ciampini mette in luce, nel Diario intimo, il lace- 191
E, Ciccotti, Profilo di Augusto, Torino, Einaudi, 1938, pp. 13-14, 61-62;
cfr. la recensione di Giovanni Costa in « Nuova rivista storica », XXII
(1938), pp. 406-407. Cfr. anche M. Cagnetta, Antichisti e impero
fascista, Bari, Dedalo, 1979, p. 133. Nel giugno 1938 Ciccotti propose
all’editore la ristampa de La guerra e la pace nel mondo antico del 1901,
ma Einaudi gli contropropose un saggio sui Gracchi (AE, Ciccotti).
192. G. Marafion, Arziel, o della timidezza, traduzione di M. F.
Canella, Torino, Einaudi, 1938, (ediz. originale 1932), p. XV; Giansiro
Ferrata osservò che il libro « manca, del tutto, di sensibilità poetica e
psicolo- gica » (« Oggi » rante contrasto fra il richiamo dei sensi e
quello della reli- gione, mentre, presentando la Cronichetta del
Sessantasei dello scrittore dalmata, ne sottolinea, accanto
all’attacca- mento alla Chiesa, la convinzione federalista,
all’origine di quella «critica troppo spesso genialmente e perfida
mente malevola » che investe in primo luogo i protagonisti « piemontesi »
del processo di unificazione, Cavour e Vit- torio Emanuele ‘*, suscitando
ovviamente lo sdegno della « Rassegna storica del Risorgimento » — «che
giova il conoscere tanta ombra, quando alla storia si deve
piuttosto chiedere tanta luce? » !*. Preoccupazione precipua
dell’e- ditore appare comunque la difesa del crocianesimo, testi-
moniata anche dal suo fitto carteggio con quel Luigi Russo che su « La
Cultura » Cajumi aveva duramente stroncato !* Nella raccolta di saggi su
Carducci di Tommaso Parodi, Antonicelli mette in evidenza la vicinanza
dei giudizi espres- si dall’autore e da Croce, entrambi mossi dalla
preoccu- pazione di distinguere l’uomo dall’artista, che in Parodi
si esprime nella sufficienza con cui tratta l’interesse del poeta
per la tecnica filologica, cosî come la sua fase « socialista » e
anticlericale, per concludere che Carducci è « poco fe- lice [...] quando
cerca argomento nella storia più recente, ove facilmente soverchiano in
lui le passioni pratiche, e allora gli s’intorbida la serenità lirica, mancandogli
lo sfondo epico della lontananza » !*. Il timore di non con-
19 N. Tommaseo, Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino, Einaudi,
1938, e Id., Cronichetta del Sessantasei, a cura di R. Ciampini, Torino,
Einaudi, 1939, pp. 49-50, 78: Tommaseo, osservava Ciampini, « vedeva e
concepiva l’unità come una oppressione dal forte esercitata sul debole,
come un soffocamento dei vari germi locali. Il Piemonte vincitore in
Italia, gli appariva un arrogante dominatore: per lui, il Piemonte non
vuole fare l’Italia, ma vuole conquistare a proprio profitto l’Italia ».
19 Piero Zama, in «Rassegna storica del Risorgimento », XXVII
(1940), p. 1052. 195 Il 12 febbraio 1934 Russo proponeva una serie
di volumi miscel- lanei sugli studi italiani del ’900: due sulla storia e
la filologia (curati da lui), due sugli studi filosofici, giuridici ed
economici (curati da De Rug- giero e Luigi Einaudi), uno sulle scienze
naturali e matematiche (curato da Enriques); nel giugno 1937 accettava di
scrivere un volume sul Per- siero politico di Vittorio Alfieri (AE,
Russo). 1% T. Parodi, Giosue Carducci e la letteratura della nuova
Italia, saggi raccolti da F. Antonicelli, Torino, Einaudi, 1939, pp.
XI-XII, XVII XVIII, 8, 12, 81; recensendo il volume Enrico Falqui
osservava che « un 276 Le origini della casa editrice
Einaudi traddire Croce è ancora pit esplicito nella vicenda
della pubblicazione dei saggi sugli Scrittori francesi dell’Otto-
cento di De Lollis, un debito dovuto alla tradizione sulla quale si era
formato il primo nucleo della casa editrice: Giulio Einaudi ne aveva
inizialmente affidata la cura a Cajumi, raccomandandogli di evitare toni
anticrociani tali da provocare una stroncatura da parte della « Critica
»; ma l’ex direttore de « La Cultura » aveva dichiarato di non
poter accettare la « censura crociana », aggiungendo che «le colpe e le
ipocrisie crociane verso De Lollis (e non è solo parer mio, ma anche dei
vecchi delollisiani come Trompeo) devono a/fine venire documentatamente
in luce ». Dopo aver inutilmente proposto dei tagli alla prefazione
di Cajumi per togliere gli « accenni più violenti all’idea- lismo e alla
filosofia in genere », l’editore ne affidò quindi la cura al pi fidato
Vittorio Santoli '”, che nell’introdu- zione dichiarava « decisivo »
l’incontro di De Lollis con Croce, mettendo in luce, nel primo, il
riconoscimento dell’insufficienza dell’indagine filologica secondo la
quale « ogni poeta è l’età sua più qualche cosa che è tutto suo »;
‘e concludeva estendendo i legami fra Croce e De Lollis alle riviste da
loro dirette: « della Cultura si può tranquilla- mente dire ch’essa,
insieme alla Critica, è stata la rivista che più ha contribuito ad
avviare la mentalità universitaria italiana dal tecnicismo all’umanesimo,
da certe angustie pae- sane ad una universalità di sguardo nella quale
era però sem- pre riconoscibile il tranquillo orgoglio d’essere “ah si!
di gran signori” » !*. Ma, a testimoniare l’intersecarsi di linee
diverse, nel 1939 la « Nuova raccolta di classici italiani an- notati »
diretta da Santorre Debenedetti — costretto dalle leggi razziali ad
abbandonare l’insegnamento universitario po’ pit di peso dato alla
filologia nel giudizio sur un’opera letteraria e poetica conferirebbe
alla critica idealistica quella aderenza al fatto arti- stico la quale,
da ultimo, si risolve in una maggior comprensione dell’opera stessa »
(«Oggi », 17 giugno 1939). Nel ’39 Antonicelli accettava din Einaudi
l’incarico di curare un'antologia della letteratura italiana in otto
volumi (AE, Antonicelli). 197 AE, Cajumi (29 e 30 marzo, 9, 10 e 15
aprile 1938). 1% C. De Lollis, Scrittori francesi dell'Ottocento,
con un saggio biogra fico di V. Santoli, Torino, Einaudi si inaugurava
con le Rizze di Dante commentate, in senso non certo crociano, da
Gianfranco Contini, e che pur Luigi Russo giudicò « opera fondamentale »
che « se- gna una data nella storia degli studi e delle
interpretazioni dantesche » !°. Al tempo stesso, l’opera di
sprovincializzazione della cultura italiana cui abbiamo già accennato a
proposito della « Biblioteca di cultura storica », iniziava nel 1938
anche nei « Saggi »: l’Autobiografia di Alice Toklas di Gertrude
Stein — un vivace affresco della cultura d’avanguardia europea
dell’inizio del secolo, da Picasso a Matisse, da Henry James a Hemingway
—, permetteva al traduttore, Pavese, di cogliere i debiti dell’autrice
verso Walt Whitman nella « contemplazione ironica e insieme intenerita di
un mondo reale, fuori d’ogni troppo compiaciuto interesse per i
procedimenti dell’arte » e in « quel conturbante realismo della vita
subconscia che resta a tutt’oggi il pit vitale contributo dell'America
alla cultura » ?°, motivi non estra- nei alla ricerca stilistica dello
scrittore piemontese. Nello stesso anno era inaugurata la collana «
Narratori stranieri tradotti » in cui, scriveva l’editore, « dovrebbero
entrare, oltre ai classici, solo scrittori universalmente
riconosciuti come eccellenti » ?". Nata per impulso di Ginzburg
— che con estremo puntiglio filologico ne seguirà le edizioni anche
dal confino di Pizzoli — e con l’apporto di Pavese, la celebre collana
dalla copertina azzurra offrî, sulle tracce della Slavia — da cui riprese
alcuni titoli russi —”, traduzioni integrali di testi molti dei quali mai
fin allora conosciuti in Italia nella loro completezza, ad opera di
traduttori d’eccezione: accanto a Ginzburg e a Pavese, Ettore Lo Gatto,
Alberto Spaini, Pietro Paolo Trompeo, Piero Jahier, Massimo Mila, Camillo
Sbarbaro, per arri- vare, nel 1946, alla prima traduzione di Proust a
cura di 19 Russo a Einaudi, 11 dicembre 1939 (AE, Russo). Sul
direttore della collana cfr. ora L. De Vendittis, Santorre Debenedetti
tra positivismo e idealismo, in « Studi piemontesi », VIII (1979), pp.
3-25. 20 Ora in C. Pavese, La /etteratura americana, cit., pp.
166-167. 201 Einaudi a Umberto Morra, 8 maggio 1939 (AE,
Morra). 2 Cfr. AE, Polledro. 278 Le
origini della casa editrice Einaudi Natalia Ginzburg. Il lettore
italiano venne cosî a contatto soprattutto con i capolavori del romanzo
psicologico otto- centesco, stimolo a riflessioni su vicende e passioni
al di sopra delle contingenze storiche, non senza talvolta, attra-
verso la guida delle introduzioni, riferimenti indiretti all'attualità.
Gli interessi e i suggerimenti dei curatori sono ovvia- mente
diversi: mentre Lo Gatto antepone nell’Oblòmov di Gonciaròv il valore
artistico rispetto a quello sociale ?%, Pavese coglie in Tre esistenze
della Stein « un primo esem- pio perfetto di quella che sarà ricerca
costante della nar- rativa americana del nuovo secolo: un mondo
fantastico che sia la realtà stessa, colta nel suo farsi espressivo »,
un giudizio non solo estetico che Mario Alicata puntualizzerà
evidenziando la descrizione della provincia americana « nel- la sua grama
miseria, nella sua disperata solitudine », per cui « il realismo
metafisico della Stein sempre volutamente si nega ad ogni illuso
sentimentalismo » ?*. Nei romanzi di Dostojevskij pubblicati durante la
guerra Ginzburg mette invece in evidenza, pur accanto alle
contraddizioni della « filosofia » dell’autore, il messaggio umano del
prin- cipe Myskin, « assolutamente buono » e non per questo vinto,
la cui figura anima « un libro consolante e vivifica- tore come pochi
altri libri venuti dopo il Vangelo », e, nei Demoni, la critica di
Dostoevskij — che restò tuttavia « lontano da ogni apologia dell’ordine
esistente » — verso i risultati, e non verso le « ragioni » dei rivoluzionari
contro la società, e, come tema dominante, l’inquieta ricerca della
fede ?*. E, mentre nel 1942 è presentato come «la tra- gedia d’un Amleto
americano » e una sofferta « polemica contro l'umanità » il Pierre o
delle ambiguità di Melville, che Pratolini considera precursore di
Meredith, James e Conrad, « una filza di nomi che potrebbe continuare,
prove alla mano, fino a comprendere autori che respirano l’aria
23 I. Gonciaròv, Oblòmov, prefazione e traduzione di E. Lo Gatto,
Torino, Einaudi, 1938 (II ediz. 1941), p. VII. 2% C. Pavese, La
letteratura americana, cit., p. 169; recensione di Mario Alicata in «
Leonardo », XI (1940), p. 174. 25 Ora in L. Ginzburg, Scritti, di
questa lunga giornata di guerra, da una parte e dall’altra delle trincee
» ?*, la difesa dei valori dell’uomo che trascen- dono sistemi politici o
contingenze belliche, e la speranza di una fratellanza universale,
traspaiono, sempre nel 1942, da Guerra e pace, dove « guerra è il mondo
storico, pace il mondo umano », osserva Ginzburg, quel mondo umano
che « interessa ed attrae particolarmente Tolstoj soprat- tutto perché
egli è convinto che ogni uomo — di ieri, di oggi, di domani — valga un
altro uomo », e che trova la sua esaltazione nel finale intimistico e
famigliare del ro- manzo, dove è descritta « quella felicità che può far
disto- gliere lo sguardo di un giusto da un uomo ucciso ingiu-
stamente » 2”. « L’amore per la natura, i diritti del cuore, la gloria
del sentimento », contrapposti alla « falsità della vita sociale », erano
stati messi in luce nel primo volume della collana, I dolori del giovane
Werther ®*; da Goethe si passa, con la caduta del fascismo, a Diderot, a
Jacques il fatalista in cui Glauco Natoli identifica nel protagonista
e nel padrone dei « personaggi reali, nei quali s’incarna la mortale
polemica fra due classi destinate ad affrontarsi, nel fatale declino
l’una, nell’irresistibile ascesa l’altra, che s’affrancherà sempre più
d’ogni servile retaggio per recla- mare e raggiungere quella dignità
umana, che troverà fra non molto la sua piena espressione nella
dichiarazione dei diritti dell’uomo » °°. Il commento si farà infine
ancora più esplicito nel 1945, sempre attraverso Diderot, di cui
Fernanda Pivano sottolineerà « la passione politica dell’uo- mo che si
pone di fronte a leggi costituite da un’autorità non riconosciuta e a
norme imposte da una tradizione iste- rilita per abbatterle ed eliminare
gli ostacoli al libero pen- 26 H. Melville, Pierre o delle
ambiguità, prefazione e traduzione di L. Berti, Torino, Einaudi, 1941,
pp. VII, IX; la recensione di Pratolini in « Primato », III (1942), pp.
287-288. 20 L. Ginzburg, Scritti, cit., pp. 285, 287.
28 W. Goethe, I dolori del giovane Werther, prefazione e traduzione
di A. Spaini, Torino, Einaudi, 1938, p. VIII 20 D. Diderot, Jacques
il fatalista e îl suo padrone, traduzione di G. Natoli, Torino, Einaudi,
1944, p. XV. 280 Le origini della casa editrice
Einaudi siero, alla libera parola, alla libera morale, alla
libera scienza » 7°, Attraverso i classici della letteratura
universale pote- vano cosi passare messaggi emotivi capaci di « distrarre
» il lettore dalla realtà della vita quotidiana, e sollecitarne la
fantasia, la riflessione, la critica. Un raggio d’influenza più limitato
ebbe ovviamente un’altra iniziativa della casa edi- trice, la «
Biblioteca di cultura scientifica » avviata nel 1938, che trovò
probabilmente un terreno di coltura già preparato nella Torino di
Giuseppe Peano, e un animatore in Ludovico Geymonat: una collana che con
i testi di De Broglie, Pavlov o Planck, riuscf a presentare, non
senza contrasti ?!, una tematica che era rimasta estranea alla
cultura idealistica, ma che ciò nonostante gli epigoni del positivismo
avevano tenuto in vita; ad essa si affiancò, a partire dal 1940, la
rivista « Il Saggiatore », dedicata alla divulgazione dell’attualità
scientifica nei campi della ma- tematica, della biologia, della fisica —
fino ai problemi dello sfruttamento dell’energia nucleare — e delle
loro applicazioni tecniche, ma che solo in casi isolati si occupò
dell’utilizzazione delle scoperte scientifiche a fini bellici,
dimostrandosi severa custode dell’autonomia della scienza, fino a
definire « ridicola » la condanna papale di Galileo 2. 210 D.
Diderot, La religiosa, prefazione di F. Pivano, Torino, Einaudi, 1945,
pp. VIII-IX. 211 Ad esempio il 14 novembre 1942 Geymonat inviò a
Francesco Severi e Armando Carlini un memoriale per protestare contro il
parere negativo dell’Accademia d’Italia alla traduzione di Die Grundlagen
der Arithmetik di Gottlob Frege (AE, Geymonat). Dedica un breve
cenno all'ambiente torinese di Peano C. Pogliano, Mondo accademico,
intellet- tuali, professione sociale dall'Unità alla guerra mondiale, in
AA.VV., Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte
sociali in Pie monte, diretta da A. Agosti e G.M. Bravo, vol. I. Dall'età
preindustriale alla fine dell'Ottocento, Bari, De Donato, 1979, pp.
534-535. 212 M.G. Fracastoro, Nel 3° centenario della morte di
Galileo Galilei, in « Il Saggiatore », II (1941), p. 313. La rivista era
diretta da C. Fru- goni, F. P. Mazza, A. M. Olivo, F. Tricomi, G.C.
Wick. 281 8. La « svolta » della guerra
e i collaboratori « romani » La seconda guerra mondiale
rappresenta, per l’itine- rario culturale e politico di molti giovani
intellettuali forma- tisi negli anni ’30, quella « svolta » in senso
antifascista che spinse Bottai a tentare con « Primato » di recuperarne
il consenso attorno alla guerra «italiana ». Il 1940 è una data
periodizzante anche per la casa editrice, i cui inter- venti — se
prescindiamo dalla continuazione della battaglia conservatrice dei
liberisti — si modificano sensibilmente: si accentuano i contatti con la
cultura europea e si rac- coglie attorno alla casa un numero crescente di
intellettuali progressisti, cos che negli anni intercorrenti tra
l’entrata in guerra dell’Italia e il 25 luglio 1943 si pongono
concreta- mente, nelle realizzazioni o anche solo nei progetti —
alcuni dei quali molto coraggiosi per allora — le premesse di gran
parte delle iniziative editoriali del periodo postbellico. Uno dei
punti nodali che è necessario mettere in luce, in questi anni, è il rapporto
della casa editrice con Bottai e con l’operazione che questi si proponeva
di svolgere attra- verso « Primato ». Giulio Einaudi ha ricordato
che il nostro gruppo non solo non agî all’interno dello
schieramento fascista, ma tentò di fare in proprio — e spesso con successo
— quella stessa politica che il fascismo intendeva attuare con
strumenti come « Primato ». Forme indirette di opposizione sf, com’era
inevi- tabile a chi, producendo libri, doveva agire alla luce del giorno,
e assumere di volta in volta una maschera, che fosse la più trasparente
possibile; concessioni ideologiche al fascismo, o discussioni alla pari,
mai 215, Queste parole rivelano una sopravvalutazione del
ruolo di « opposizione » che sarebbe stato svolto da Bottai, e di
conseguenza potrebbero essere assunte come prova di un pieno
coinvolgimento della linea editoriale einaudiana nella fagocitante,
proprio perché spregiudicata, prospettiva politi- ca del ministro
fascista, diretta in realtà a imbrigliare ogni opposizione. Infatti, se «
Primato » non può essere tutto 213 AE, G. Einaudi.
282 Le origini della casa editrice Einaudi risolto
nella categoria « fascismo » ?!, e se è necessaria una sua lettura non
univoca, che ne colga gli sviluppi nel corso della guerra #5, la rivista
non poteva essere considerata, né dal fondatore né dai collaboratori,
solo come il luogo della « difesa della cultura », essendo ben marcato il
suo carattere militante e ben netto l’obiettivo di Bottai — come
risulta anche dai suoi ricordi e dalle sue note di diario — di far
sopravvivere il fascismo al « mussolinismo ». Non è quindi privo di
ambiguità il fatto che, dopo essere entrato in contatto con Bottai
proprio nel 1940, ancora nel 1942 Einaudi si rivolgesse a lui per
proporgli di pubblicare presso la casa editrice una raccolta dei
suoi interventi sull’arte e la cultura — « non può mancare tra i
miei Saggi una presa di posizione nella polemica che ferve per
l’intelligente modernità dell’arte italiana; e chi meglio di Voi può
difendere questo partito in un libro? » —, e che nello stesso anno fosse
in contatto con il redattore capo della rivista Giorgio Cabella, di cui
pubblica il racconto Alloggio sul golfo (1942), oltre ad affidare la cura
delle Memorie di Metternich al bottaiano Gherardo Casini, direttore
generale per la stampa italiana ?!9. Tuttavia, nono- stante la presenza
di elementi contraddittori, proprio nel rapporto con la casa editrice è
possibile misurare lo scarto fra le intenzioni di Bottai e i risultati
della sua politica, in quanto, soprattutto a partire dal 1941, alcuni dei
nuovi collaboratori « romani » di Einaudi che scrivono su « Pri-
mato » hanno già compiuto la scelta antifascista, e solle- citano
l’editore a iniziative più avanzate che reclamizzano 214 E. Garin,
Cronache di filosofia italiana, cit., p. 527. %5 Cfr. le
osservazioni di Luisa Mangoni premesse all’antologia « Pri- mato »
1940-1943, Bari, De Donato, Bottai (13 gennaio 1942). Il 24 febbraio 1942
Alicata scriveva all'editore: « Vedrò domani Bottai per Primato, e gli chiederò
ancora il suo volume di scritti culturali » (AE, Alicata). Già il 6
ottobre 1940 l'editore aveva chiesto a Bottai di segnalare « Il
Saggiatore » « all’appo- sita commissione ministeriale affinché vengano
sottoscritti alcuni abbona- menti per le Biblioteche degli Istituti di
Istruzione tecnica »; 1°11 giugno 1942 ringraziava il ministro « per
l’interessamento dimostrato a mio favore in merito alla carta ». Cfr.
anche le lettere dell’editore a Cabella del 5 si 1942, e di Casini
all’editore dell’8 giugno 1942 (AE, Cabella, asini).
sulla rivista, usata come
strumento di discussione e di aper- tura culturale, consentendo cosî alla
casa editrice di atte- starsi su posizioni che superano i confini del
progetto bot- taiano. A dare nuova linfa vitale alla casa
editrice contribuî infatti nel 1941, con l’apertura della sede romana,
l’in- contro dell’originario nucleo torinese con quello romano di
Mario Alicata, Giaime Pintor e Carlo Muscetta, tre gio- vani
intellettuali che, pur con diversi orientamenti, avevano già tradotto
politicamente, in senso antifascista, la loro rapida maturazione
culturale; con i loro contatti, inoltre, essi allargarono il numero dei
collaboratori di Einaudi, fra i quali comparvero, i che rima- sero
ancora i più numerosi —, intellettuali già aderenti al partito comunista
o che si venivano orientando verso di esso, ma tutti uniti nella comune
lotta al fascismo, senza che si manifestassero fra di loro, almeno fino
al 25 luglio 1943, contrasti di rilievo. Nell’aprile 1940 Alicata e
Mu- scetta avevano contribuito a inaugurare la nuova serie de « La
Ruota » — cui collaboravano anche Pintor e Pavese —, la rivista diretta
da Mario Alberto Meschini che, sosti- tuendo il sottotitolo « mensile di
politica e letteratura » con quello apparentemente più disimpegnato di «
rivista mensile di letteratura e arte », assumeva in realtà la pro-
spettiva di un’azione politica a più largo respiro ?”, nella convinzione,
comune a tanti giovani intellettuali che davano vita o partecipavano a
iniziative di fronda, di potersi sal- vare — ricorderà Pavese — con «un
tuffo nella folla, un febbrone improvviso d’esperienze e d’interessi
proletari e contadini, per cui la speciale e raffinata malattia che
il fascismo c’iniettava, si risolvesse finalmente nell’umile e
pratica salute di tutti » ?!". Mentre Muscetta era attestato su
posizioni liberalsocialiste, già nel 1940 Alicata aveva superato
l’originaria formazione crociana per abbracciare 2
Cfr. la testimonianza di Antonello Trombadori in M. Alicata, Lettere e
taccuini di Regina Coeli, prefazione di G. Amendola, introdu- zione di A.
Vittoria, Torino, Einaudi, 1977, p. XXXV. 218 C. Pavese, IÙ
fascismo e la cultura 1945), ora in La letteratura americana, cit., p.
220. 284 Le origini della casa editrice Einaudî
uno storicismo pit concreto maturato sulla conoscenza di De
Sanctis e di Fortunato e sulle prime letture marziste, e aveva aderito al
partito comunista segnalandosi subito per quell’intensa attività politica
— tesa ad allacciare rap- porti con i liberalsocialisti e i cattolici
comunisti — che ne provocò l’arresto alla fine del 1942 ?”. Ancora
tutto « letterato » alto-borghese era invece Pintor, che tuttavia
viene in contatto, nell'ambiente einaudiano, con il catto- lico Felice
Balbo — « il cui influsso sul mio modo di pen- sare è stato decisivo »,
annoterà —, e viene maturando politicamente di fronte alla drammatica
realtà della guerra: senza la guerra — ricorderà nell’ultima
lettera al fratello — io sarei rimasto un intellettuale con interessi
prevalentemente letterari [... .J: c’era in me un fondo troppo forte di
gusti individuali, d’indifferenza e di spirito critico per sacrificare
tutto questo a una fede collettiva. Soltanto la guerra ha risolto la
situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti
comodi ripari e mettendomi brutal- mente a contatto con un mondo
inconciliabile 2° Pur avendo interessi ancora prevalentemente
letterari, i tre « romani » parteciparono alla diverse iniziative di
Ei- naudi: mentre alla fine del 1941 Pintor diviene « agente
volante » della casa editrice, con « il compito di leggere libri, dare
consigli, e girare in Italia £ soprattutto all’estero come rappresentante
dell’editore » ?!, Alicata tiene i con- tatti col Ministero della cultura
popolare per ottenere le autorizzazioni della censura, e arriva ad
occuparsi di un problema che acquista importanza decisiva nel corso
della guerra, quello dell’acquisto della carta. Inoltre, Alicata e
219 Cfr. l'introduzione di R. Martinelli a M. Alicata, Intellettuali
e azione politica, a cura di R. Martinelli e R. Maini, Roma, Editori
Riuniti, 1976, pp. XX-XXI, e C. Salinari-A. Reichlin-A. Tortorella-G.
Amendola, Mario Alicata intellettuale e dirigente politico, Roma, Editori
Riuniti, 1978. 290 Cfr. G. Pintor, Doppio diario 1936-1943, a
cura di M. Serri, Torino, Einaudi, 1978, p. 111, e Id., Il sangue
d'Europa (1939-1943), a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1965, p.
186. Di « ambiguità » di Pintor ha parlato F. ‘Fortini, "Vicini e
distanti. A proposito del « Doppio diario » È Cine Pintor, in «Quaderni
piacentini », XVIII (1979), n. 70-71, pp. 221 G. Pintor, Doppio
diario, cit., p. 161. Muscetta aiutano anche dall’esterno
l’attività di Einaudi collaborando a « Primato », su cui entrambi, con lo
pseu- donimo rispettivamente di Don Ferrante e di Don Santi-
gliano, segnalano con continuità le iniziative della casa editrice,
coinvolgendo in questa opera di « propaganda » altri intellettuali, come
Beniamino Dal Fabbro. Cosi nel 1941 Alicata, mentre si impegna con
Einaudi per un saggio sulla letteratura contemporanea, assicura l’editore
che ne segnalerà i volumi — « tutti, via via, più o meno larga- mente,
nel mio Cotriere delle Lettere su Primato, dove cercherò di far fare
puntualmente anche le recensioni » —, e nello stesso anno elogia sulla
rivista di Bottai la « ricer- cata collana di narratori stranieri che
Einaudi viene con grande accortezza riunendo. Poche opere, ma tutte
ecce- zionali, tutte illuminatrici d’una personalità o d’un co-
stume » “2. Analogamente Muscetta, rispondendo all’invito di Einaudi di
fare pubblicità ai suoi volumi su « La Ruota » — cosa che farà
regolarmente su « Primato » —, affer- mava di « aver seguito la sua
attività editoriale con inte- resse affettuoso, e ogni libro [...]
pubblicato mi ha recato un nuovo conforto a credere nei valori della
cultura che non sono da difendere soltanto nel chiuso del nostro
pen- satoio » 2, Con la collaborazione di questi tre intellettuali
le tappe di sviluppo della casa editrice si accelerano, nelle vecchie e
nelle nuove collane o nei progetti che non tro- vano attuazione
immediata. Assieme a Pavese Alicata fu incaricato di curare la «
Bi- blioteca dello Struzzo », la collana di narratori contempo-
ranei che puntava soprattutto alla scoperta dei giovani: Dopo
molte riflessioni — scriveva Einaudi ad Alicata all’inizio del 1941 — si
è deliberato — e si attende la tua approvazione — 22 AE, Alicata
(23 febbraio, 17 aprile e 1 giugno 1941); il 22 ottobre 1941 Alicata
diviene collaboratore fisso, a 1.000 lire mensili; il 21 feb- braio 1942
informa l’editore di aver acquistato 248 risme di carta. Cfr. inoltre «
Primato », II (1941), n. 8, p. 14. 23 AE, Muscetta (s.d.); io e
Alicata — scriveva Muscetta all’editore il 20 febbraio 1941 — «ci
auguriamo di poter collaborare attivamente ‘all’ardita opera di cultura
che la tua casa svolge con spirito giovanile e con tenacia ».
286 Le origini della casa editrice Einaudî che
la collezione debba accogliere romanzi brevi italiani e stranieri, di
scrittori contemporanei e in genere « scoperti » da noi, dove, in via
d’eccezione, e per alimentare la scarsa produzione italiana con-
temporanea, si accoglierebbero libri dimenticati o rari, di indiscusso
valore artistico, tipo Mio Carso di Slataper. Quanto agli stranieri...
questo è il problema, ché escludendo gli americani e gli inglesi dob-
biamo per ora limitare praticamente la scelta ai russi e ai tedeschi 24.
In realtà fino al 1945, venuta meno con l’attacco all’URSS anche
la possibilità di presentare la narrativa russa contemporanea, la collana
si limitò a pubblicare testi italiani tesi tuttavia a quell’originale
ricerca della realtà, sia pur non veristica, che contrassegna il primo
volume apparso nel 1941, Paesi tuoi di Pavese. Pavese sollecitava infatti
Ali- cata a « predicare l’arte narrativa, e soprattutto quella
narrativa “come vita morale” che a voialtri ruotai deve essere in votis »
5: un invito cui Alicata, per i gusti già dimostrati nella sua intensa
attività di recensore lettera- rio ?*, era particolarmente sensibile, e
che, preoccupato di tenersi lontano « dalle piccole chiesuole di marca
fioren- tina », raccolse assicurando alla casa editrice Le trincee
di Quarantotti Gambini, Le donne fantastiche di Arrigo Benedetti e
proponendo, fra gli altri titoli, Una città dî pianura di Giorgio
Bassani, da lui già recensito su « La Ruota » quando era uscito in
edizione privata di pochi esemplari sotto lo pseudonimo di Giacomo
Marchi, e che era « passato per molte ragioni quasi sotto silenzio
dalla critica », scriveva Alicata alludendo alle leggi razziali ??.
24 AE, Alicata (26 aprile 1941). 225 C. Pavese, Lettere
1924-1944, cit., p. 588 (28 aprile 1941). 226 Cfr. G. Tortorelli,
Le formazione politica di un intellettuale comu- nista: Mario Alicata
1937-1945, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia di Firenze nell’anno accademico 1976-77, e Id., Contributi alla
formazione culturale e politica di Mario Alicata, in « Italia
contemporanea », XXX (1978), n. 132, pp. 93-98. 21 In C. Pavese,
Lettere 1924-1944, cit., p. 589 (9 maggio 1941); il 21 novembre 1941 Alicata
suggeriva a Einaudi la possibilità di rilevare alcuni volumi della casa
editrice Ribet Buratti di Torino (Comisso, Arturo Loria, Stuparich,
Sbarbaro, Slataper), e l'11 novembre 1942 la necessità di ristampare
l’Ibsex di Slataper, «che non solo è interessante per la personalità
tutta dell’autore, del cui acuto problema morale risente, ma rimane per
se stesso un documento critico prezioso sull'opera ibseniana » (AE,
Alicata). 287 I toni fortemente
elogiativi — anche se attenuati in una lettera a Einaudi ?* — della
recensione che di Paesi tuoi fece Alicata su « Oggi » ”’, la vivace
rivista di Arrigo Benedetti e Mario Panunzio, furono ripresi da
Eugenio Galvano su « Primato » — «ogni lettore può ritrovarvi gli
accenti di una sua esperienza passata e perduta, e il senso di un paese
ritrovato » °° —; e intensi furono i le- gami fra l’ambiente della
rivista di Bottai, cui collaborava anche Pavese, e la casa editrice,
esemplificati dalla pub- blicazione in volume, presso Einaudi, de L’isola
di Stupa- rich (1942), già apparsa su « Primato ». Rimase un caso
isolato il giudizio negativo riservato da Alfonso Gatto a La strada che
va in città di Alessandra Tornimparte #! — pseudonimo di Natalia Ginzburg
—, e non tale comunque da essere paragonato alle forti riserve di
carattere morale avanzate da « La Civiltà cattolica » nei confronti di
Pavese e della Ginzburg, i cui racconti, osservava Einaudi, riscos-
sero «i più vivi consensi e dissensi » proprio per la no- vità di stile e
di contenuto ?*: mentre in Paesi tuoi l’or- gano dei gesuiti vedeva
ritratta una « gente di campagna » 28 «Ho apprezzato molto il
libro di Pavese, che mi sembra soprat- tutto un racconto e per questo
merita grandi lodi. Quantunque risenta, è chiaro, l’influenza a volte
eccessiva di certi americani e nel gusto d’usare la lingua e la sintassi,
e nel sapore e tono che attribuisce agli uomini e ai loro gesti » (AE,
Alicata, 1 giugno 1941). 29 Ora in M. Alicata, Scritti letterari,
introduzione di N. Sapegno, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 84-88. Cfr.
anche la notizia che Alicata ne dava su «Primato», affermando che Pavese
«rompe un silenzio lungo e fruttuoso durante il quale egli sembra essere
scampato alla reto- rica, agli schemi che affliggono certa narrativa
italiana contemporanea: come prima sensazione d’una lettura che almeno
prende e allaccia in un suo tempo libero e prepotente » (II (1941), n.
11, p. 16, nel « Corriere delle lettere » di Don Ferrante).
230 « Primato », II (1941), n. 14, p. 15; pur osservando che «le
rea- zioni psicologiche del personaggio narratore rimangono moralmente
fiac- che », Luigi Vigliani trovava «felicissima» l’utilizzazione del
dialetto piemontese (« Leonardo », XII (1941), p. 218). 231 Nel
volume «la realtà osservata è ferma alla crisi di una società ‘confusa
[...]. Forse questo racconto piacerà, disposti come sono oggi molti
letterati, giunti in ritardo al ripensamento di un proprio compito umano,
a vedersi duri e manuali. Il racconto della Tornimparte è fradicio di
quest’enfasi moderna, semplicistico e blando altresi nella sua stessa
‘acrisia », osservava Gatto (« Primato », III (1942), p. 107). 232
Einaudi a Ginzburg, 2 aprile 1942 (AE, Ginzburg). 288
Le origini della casa editrice Einaudi che « non è quella che noi
generalmente conosciamo. Qui sembra piuttosto gente di malavita, dove
predominano tendenze istintive e animalesche », nella « dura »
prosa della Ginzburg coglieva « un indice di ciò che si è comin-
ciato a raccogliere anche in Italia dall’abbondante semina- gione d’una
sfrontata romanzeria straniera, e specialmente americana » ”*. Alla
ricerca di valori umani, laici e reli- giosi, si muovevano anche i nuovi
titoli della collana dei « Poeti », già avviata nel 1939 con la
riedizione degli Ossi di seppia e la nuova raccolta de Le occasioni di
Montale **: accanto a una nuova edizione di Lavorare stanca di
Pavese apparvero infatti Con me e con gli alpini di Jahier la cui
fortuna fra i soldati era testimoniata dai reduci dalla Russia — «
l'hanno aperto per caso e non se ne staccano più. “Fare il bene con
disperazione” è diventato il loro motto » 5 —, e le Poesie di Rilke nella
traduzione di Pintor, in cui Giansiro Ferrata, occupandosene su «
Pri- mato », vedeva l’opera di un poeta « da difendere contro la
sua stessa generosità di vita e contro un frequente estetismo per
seguirne la grande voce umana, semplice infine come un grido ma dal fondo
d’una religiosità vissuta nei suoi slanci e nelle sue ferite » ?*.
In questi stessi anni gli aspetti « emotivi » presenti nella
produzione letteraria trovano modo, come vedremo, di tradursi in un più
marcato impegno civile nei volumi della « Biblioteca di cultura storica »
e in quelli della nuova collana « Universale ». Persistono tuttavia,
almeno fino al 1942, e in particolare nei « Saggi » — dove pur
appaiono le Memorie di madame de Rémusat, la cui critica a Napo-
leone era leggibile in senso antitirannico —, molti dei mo- tivi
spiritualistici d’anteguerra non disgiunti da elementi contraddittori,
che trovarono forse nel cattolico Felice Balbo un sostenitore: « Balbo —
è stato ricordato — non aveva difese contro le proposte e le idee. Tutte
le 233 «La Civiltà cattolica », 93 (1942), vol. III, pp. 56 e 371.
24 Per le vicende di queste edizioni cfr. E. Ferrero, Come nacquero
« Le occasioni », in « Libri nuovi Einaudi », IX (1977), n. 1. 235
AE, dalla redazione romana a Jahier (9 luglio 1943). 236 « Primato
», III (1942), p. 232. 289 proposte e
tutte le idee gli piacevano, lo sollecitavano, lo mettevano in fermento »
?”. Se non ha luogo la proposta di Balbo di tradurre The mystical
elements of religion di von Hiigel, il modernista « lodato da Loisy pur
essendo rimasto cattolico », e Bobbio non accetta La preghiera
dell’uomo di Alfredo Poggi per il suo insufficiente appro- fondimento
teorico, pur considerando che il saggio « sia ispirato ad un alto senso
religioso e morale, e sviluppi una concezione razionale della vita
religiosa, rifuggendo dal dilagante irrazionalismo »; o mentre resta
inedito, per le vicende legate alla caduta del fascismo, L'infinito e il
divino terminato da Giuseppe Tarozzi nell’aprile 1943 ?*, Einaudi
pubblica nel 1942 Le origini del cristianesimo di Loisy — che giungerà
alla terza edizione l’anno successivo — e, su suggerimento di Gioele
Solari, Ragione e fede di Piero Martinetti: con ciò la casa editrice si
faceva banditrice di una « religione della libertà » che, se potè essere
accostata a quella crociana, se ne differenziava nettamente per
l’im- portanza che l’animatore della « Rivista di filosofia »
attri- buiva all'elemento religioso, cui Martinetti aggiungeva
negli ultimi anni di vita, di fronte allo spettacolo della guerra e della
« barbarie », la riflessione sul pessimismo di Schopenhauer tesa ad
accettare « la realtà del male come principio radicale, autonomo, forse
non riducibile ad al- tri » 2°. Accanto a Martinetti, nel 1941 Einaudi
ripropone Huizinga con la monografia del 1924 su Erasmo che aveva
già provocato forti riserve, non solo storiografiche, da parte di
Cantimori, per la « troppo evidente tendenza a mostrare in Erasmo il tipo
classico del dotto-gentiluomo, moralista e umorista, lontano dagli
interessi politici e religiosi che possono scuotere e commuovere » °°; ma
forse proprio per questo, per la presentazione dell’umanesimo
erasmiano 23 N. Ginzburg, Lessico famigliare, Milano, Mondadori,
1972, p. 143. 28 Cfr. Balbo a Bobbio, 1 aprile 1943, e Bobbio a
Finaudi, s.d. (AE, Bobbio), e il carteggio Tarozzi-Einaudi del 1942-43
(AE, Tarozzi). 239 Cfr. Bobbio a Finaudi, 21 maggio 1943 (AE,
Bobbio}; E. Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., pp. 387-391; e
la testimonianza di G. Mita, dee prefazione di L. Salvatorelli, Vicenza,
Neri Pozza, 1968, pp. 75-76. 20 « Rivista storica italiana »,
s. V, I (1936), fasc. IV, p. 91. 290 Le origini della
casa editrice Einaudî « come un raffinato giuoco intellettuale
entro le mura di un nobile castello oltre le tempeste del mondo e le
vicende del tempo » ?, « Civiltà moderna » poteva accogliere nel
lavoro l’indicazione della « originalità umanistica » rispetto al
Medioevo, ma con l’accordo « fra l'esigenza del risorto classicismo e
quella del rigenerato cristianesimo »; men- tre il recensore della «
Rivista storica italiana », oppo- nendo all’umanesimo « negativo » di
Erasmo quello « co- struttivo » del Rinascimento italiano impersonato da
Gior- dano Bruno, prendeva le distanze dall’autore per « quella
tipica mentalità pacifista che, per contingenze storiche fa- cilmente
individuabili, tende a fare dell’equilibrio e della moderazione la
massima espressione della civiltà uma- na » dii x Alle
immagini catastrofiche de La crisi della civiltà sembra invece richiamarsi,
pur senza citare Huizinga, Uomo e valore di Luigi Bandini — un allievo di
Limentani che aveva pubblicato presso Laterza un saggio su Shaftes-
bury —, che sviluppa il tema del contrasto fra progresso economico e
libertà individuale con accenti indubbiamente retrivi. Il volume — che
sarà ristampato nel 1949 con una introduzione in cui l’autore manifesterà
un atteggia- mento paternalistico verso le masse popolari — è un
atto di accusa nei confronti del liberismo e del liberalismo
dell’800 che avrebbero portato « ad uno stato di cose risolventesi
proprio in un massimo di serviti per una gran quantità di soggetti umani:
il caso, precisamente, dell’indu- strialismo moderno », per cui si era
avuto il « rovescia- mento del rapporto fra uomo e cosa », con l’«
innalzamento ad ideale supremo della realtà economica ». Ma la con-
danna del progresso si traduce nella istituzione di un preciso rapporto
tra la « morte » del cristianesimo, « la religione 2 Cfr.
l'introduzione di E. Garin a J. Huizinga, L'autunno del Medio evo,
Firenze, Sansoni, 1961, p. XIII. 2 A. Corsano in «Civiltà moderna
», XIII (1941), pp. 355-356, ed E. Guglielmino in « Rivista storica
italiana », LIX (1942), pp. 286-287. Mario M. Rossi coglieva invece in
Huizinga la « disapprovazione per Erasmo », e giudicava l’Encbiridion
militis christiani « opera d’un banale bigotto » (« Nuova rivista storica
», della esaltazione dell’individuo », « la enorme avidità di possesso e
di successo che caratterizza l'umanità moderna » e, soprattutto, lo
sviluppo del marxismo: una tale dottrina della necessità radicale
ed ineliminabile dell’odio di classe si sostituisce bruscamente e senza
passaggi intermedi proprio alla concezione cristiana nell'animo degli
appartenenti ai ceti sociali più umili, trovando d’altronde nelle
effettive condizioni della società moderna, nel suo sempre più esasperato
affarismo, gli elementi suggestivi più adatti a conferire ad essa la
massima efficacia di persuasione 28, Si comprende quindi
come il ragionamento di Bandini incontrasse le simpatie de « La Civiltà
cattolica » 24, mentre offriva a Luigi Einaudi l’occasione per attribuire
al capita- lismo « storico » dell’800 la responsabilità della
tendenza verso i monopoli, « verso ciò che incatena ed asserve gli
uomini e di cui l’ultima e più perfetta e diabolica espres- sione è il
comunismo russo », ma anche per dissociarsi dalla tesi « che la tendenza
verso il colossale, distruttivo dell’uomo, come persona autonoma, sia
propria dell’eco- nomia contemporanea, capitalistica o trafficante », poiché
la liberazione dell’uomo dalle cose era frutto precipuo dell'economia di
concorrenza’. Tesa a dimostrare la necessità della religione contro il
materialismo contem- poraneo è anche un’opera di Bernhard Bavink che
racco- glieva alcune conferenze tenute in Germania prima della «
rivoluzione » del 1933, la cui traduzione, uscita nel i 23 L.
Bandini, Uomo e valore, Torino, Einaudi, « La Civiltà cattolica », Einaudi,
Dell’uomo, fine o mezzo, e dei beni d’ozio, in « Rivista di storia
economica », VII (1942), pp. 121, 125. Pur riconoscendo la tendenza
monopolistica rilevata da Bandini, Mario Dal Pra osservava: « Ciò non
toglie tuttavia che i diritti e le pi profonde esigenze dell’indi-
vidualità non possano essere salvaguardate, ad esempio, mediante l’attua-
zione di quella terza via che lo stesso Luigi Einaudi propone, fra
l’indi- vidualismo da una parte e il collettivismo dall’altra » (« La
Nuova Italia », XIV (1943), p. 39). Nel 1946 Antonio Giolitti — allora collaboratore
della casa editrice — criticherà Bandini per non aver saputo vedere che
il problema dell’individuo è problema politico e sociale, risolvibile sul
piano di quella lotta di classe che l’autore negava recisamente (« Studi
filosofici », VII (1946), pp. 81-84). 292 Le origini
della casa editrice Einaudi 1944, era già stata messa in cantiere
nel 1942. In essa l’autore sosteneva che da scienziati « assai religiosi
» come Galileo, Keplero e Newton, si era sviluppata una tendenza
culturale approdata « ad un materialismo e ad un ateismo completo ed
aperto, quale è attualmente la concezione uffi- ciale del mondo nella
Russia bolscevica » — alla quale era contrapposto l’esempio positivo
della concezione so- ciale e statale fascista e nazista —; la fisica
moderna, con Bohr e Planck, aveva invece « definitivamente
distrutto certe troppo frettolose obbiezioni contro la fede », abo-
lendo «il concetto classico di sostanza », e quindi ogni meccanicismo,
per cui si poteva concludere che ormai « fare della fisica non significa,
in fondo, far altro che ricapitolare gli atti elementari compiuti da Dio
» ?4 Un richiamo ai valori dello spirito poteva comunque
passare anche da altre vie meno sospette, dai grandi ro- manzieri
ottocenteschi o da I/ problema dell’inconscio di Jung, tradotto nel 1942:
l’opera infatti trova favorevole accoglienza su « Primato », dove
Muscetta considera « me- rito fondamentale » di Jung aver ricordato
che la psicologia è scienza dell’anima e che nessuna indagine
fisio- patologica potrà mai risolvere lo spirito nella materia, la sua
miste- riosa e libera spontaneità, nell’evidente e misurabile rigore
delle leggi fisiche [...]. Pagine di vent’anni fa, che per vie assai
lontane dalla nostra cultura ci portano affascinanti conferme a quella
fede nei valori spirituali da cui non potremo mai aberrare senza
recidere le radici dell’essere nostro 29. 2% B. Bavink, La
scienza naturale sulla via della religione, Torino, Einaudi, 1944 (ediz.
originale 1933), pp. 3, 50, 104; contro il bolscevismo, « questa
terribile filosofia sociale e storica, che distrugge ogni esistenza degna
dell’uomo, il “fascismo” yitaliano e tedesco propugna una conce- zione
sociale e statale " organica” per la quale lo Stato non è una
costru- zione artificiale, razionale, ma anzi la forma matura di una vera
vita, della vita del proprio popolo » (p. 24). Il 30 marzo 1942 Einaudi
aveva chiesto ad Alicata di sottoporre il volume di Bavink
all’approvazione del Mini- stero della cultura popolare (AE,
Alicata). 21 « Primato », III (1942), p. 381; «la psicologia è una
scienza cre- tina », osservava invece Pintor dopo aver letto Jung
nell’ottobre 1941 (Doppio diario, cit., p. 152). Il 22 maggio 1942
Alicata aveva fatto pre- sente all’editore l’esistenza di difficoltà per
l’autorizzazione della stampa di Jung, per « certe idee morali e sociali
dello Jung non completamente conformiste » (AE, Alicata). Lo stesso
Ernesto De Martino vedeva nello teoria jun- giana — che riteneva « suscettibile
di una traduzione in termini storicistici » — « una tipica espressione
del tra- vaglio spirituale, dei bisogni e delle aspirazioni della
nostra epoca. Noi siamo giunti a un punto in cui sentiamo viva la
necessità di riprendere possesso della nostra anima, e di esplorarne le
sue profondità sconosciute » **. Diver- so, sia pure ambiguo, era il
messaggio che si poteva rica- vare dal pensiero degli eretici e degli
utopisti, attorno al quale si assiste, durante la guerra, a un risveglio
d’interesse in vari settori dell’intellettualità italiana, di cui sono
testi- monianza esemplare gli studi di Cantimori e la « Collana
degli utopisti » dell’editore Colombo. Nel 1941 esce, come secondo volume
della « Nuova raccolta di classici ita- liani annotati », La città del
sole di Campanella, un’edi- zione critica condotta sul testo italiano del
1602, quella più decisa in senso ereticale, da Norberto Bobbio:
respinte come fittizie le visioni di un Campanella precursore del
socialismo o dello Stato totalitario, in discussione con i recenti
tentativi di rivalutazione cattolica Bobbio ricorre all’« idea della
simulazione » per spiegare la conversione del frate all’ortodossia,
provocando le riserve de « La Civiltà cattolica », che si appuntano anche
sulle frasi di Bobbio « che accennano con un velo di simpatia “ alle
menti stanche ma non asservite, agli animi sfiduciati ma non vinti
degli eretici isolati” » *°. A queste si potrebbe aggiun- gere un accenno
contro « la morale della potenza »; ma il discorso di Bobbio si mantiene
volutamente generico, nel sottolineare il « fondamentale antistoricismo »
del pensiero di Campanella, per cui « c'è in quell’utopia qual-
cosa di selvaggiamente primitivo, che richiama alla mente le comunità
degli indigeni delle Nuove Indie; e c’è nello stesso tempo qualcosa di
lucidamente attuale, che fa pen- sare ad una città operaia dell'America
moderna » ?°. E 28 « Primato », IV (1943), p. 11. 24 «
La Civiltà cattolica », 93 (1942), vol. IV, p. 50. 250 T.
Campanella, La città del sole, testo italiano e testo latino a cura di N.
Bobbio, Torino, Einaudi, 1941, pp. 45, 50. Il 4 aprile 1941 Ginzburg
avvertiva Einaudi che Tommaso Fiore stava curando l’edizione de L'utopia
294 Le origini della casa editrice Einaudi
Luigi Einaudi poteva trarne spunto per sostenere che una storia delle
utopie non doveva analizzare i « tipi di società comunistiche immaginati
dagli utopisti » sulla base di una problematica economica, ma «rigettare
nel limbo delle cose che non furono mai scritte le esercitazioni frigide
di letterati in cerca d’argomento in apparenza nuovo e met- tere in
luce le poche le quali risposero veramente ad un’e- sigenza dello spirito
» ?!: un modo, ancora una volta, per esorcizzare il pericolo di un
richiamo eterodosso, sia pur « utopistico », ai problemi concreti della
società contem- poranea. 9. L’anticonformismo storiografico
e l’« Universale » Il settore che, ancora una volta, dimostra
meglio di altri e sempre più l’anticonformismo della casa editrice,
è quello storico, dove troviamo ora impegnati anche due « laici », in
diversa maniera crociani, come Giorgio Falco e Adolfo Omodeo. Il primo —
che, costretto dalle leggi razziali a nascondersi dietro pseudonimo, era
venuto affian- cando agli originari interessi medievalistici o a
quelli per l’illuminismo, dopo la definitiva sconfitta dello Stato
liberale, un’attenzione a figure significative del Risorgi- mento, come
Pisacane — si occupò in particolare fin dal 1941, assieme ad Alicata,
Morra, Ginzburg, Giolitti, Benedetti e Venturi, di quel progetto della
collana « Scrit- tori di storia » che avrà attuazione solo negli anni
’50, anche per le difficoltà allora opposte dalla censura — la
Histoire de la conquéte d’Angleterre di Thierry, ad esem- pio, fu
bocciata come « inopportuna » nel 1942 ?*. Omo- di Moro che uscirà
nel 1942 presso Laterza (AE, Ginzburg). 21 L. Einaudi, Delle
utopie: a proposito della Città del sole, in «R+ vista di storia
economica », VI (1941), pp. 126-127. Luigi Bulferetti invi- tava invece a
collocare l’opera di Campanella nella realtà culturale e poli- tica del
Mezzogiorno («Rivista storica italiana », LVIII (1941), pp.
400-401). 252 Su Falco cfr. le osservazioni di A. Garosci, Una cosa
non ancora del tutto chiara..., in « Rivista storica italiana », LXXIX
(1967), pp. 7-27. 253 Lettera di Alicata all’editore, 24 giugno
1942 (AE, Alicata). deo, contattato nel 1939 da Ginzburg, fu prodigo di
sug- gerimenti — da testi di antichistica o di religione a I/
medioevo barbarico di Gabriele Pepe o il Murat di Angela Valente —, e si
era assunto anche l’impegno, come ricor- derà ad Einaudi, di trovare per
la casa editrice « colla- boratori italiani, per equilibrare le
traduzioni da lingue estere: dovevo formare un complesso di
collaboratori giovani, perché nella situazione presente, con i
“valvas- sori” avviliti e rimbecilliti dalla speranza della feluca
accademica, non c’è nulla da fare » 4. Un contrasto con Falco lo spinse
tuttavia a passare nel 1941, con i suoi progetti di lavoro, all’ISPI”5;
ma aveva frattanto assi- curato alla casa editrice due suoi lavori
caratterizzati da una dura polemica, da un punto di vista liberale,
nei confronti della corrente storiografia fascista sul Risor-
gimento. La leggenda di Carlo Alberto, che raccoglieva saggi
già apparsi sulla « Critica », viene ad affiancare la revisione della
figura del sovrano piemontese condotta « con spie- tato rigore » da Guido
Porzio sulla « Nuova rivista sto- rica », ed è una requisitoria feroce
contro la storiografia sabaudista espressa da Alessandro Luzio, di cui è
messo in luce « il semplicismo del giudizio moralistico e. l’indi-
stinzione dei valori storici », per investire anche Rodolico,
rappresentante di « una nuova sofistica che vuol confon- dere il
moralismo casistico con l’intellezione etico-politica del processo umano
». Tributato un caldo riconoscimento alla Storia del Risorgimento e
dell'Unità d’Italia intrapresa 254 Cfr. le lettere a Einaudi del
25 agosto 1939, 28 ottobre e 24 novembre 1940, 3 gennaio, 13 febbraio, 8
marzo, 22° maggio, 2 e 17 giugno, 2 luglio 1941 (A. Omodeo, Lettere
1910-1946, Torino, Einaudi, 1963, pp. 612, 629-631, 635-636, 638-641,
644-651). 255 Cfr. la lettera a Einaudi del 9 settembre 1941 (ibidem,
pp. 655- 656) e varie lettere in AE, Falco, Pepe: il contrasto riguardava
rà ntrodu- zione agli studi storici medievali di Pepe proposto da Omodeo;
Muscetta a Einaudi, 29 dicembre 1941 (AE, Muscetta); Ginzburg a Finaudi,
21 novembre 1941: « Ho visto il programma della nuova “Biblioteca
storica” dell’ISPI, che non solo nel nome, ma anche nelle opere mi sembra
derivi dalla Vostra, dato che i volumi annunciati sono tutte opere
rifiutate da Voi, se ben ricordo » (AE, Ginzburg); Carteggio
Croce-Omodeo, a cura di M. Gigante, Napoli, Istituto italiano per gli
studi storici, 1978, passize. 296 Le origini della
casa editrice Einaudi da Cesare Spellanzon — « opera che da sola
riabilita i recenti studi risorgimentali, che in genere non
brillano per doti superiori » —, Omodeo nega recisamente, contro
gli apologeti di Carlo Alberto, l’esistenza di una profonda opera
riformatrice nel primo decennio di regno e di un preciso e segreto
disegno politico nazionale prima del 1848, e fa del sovrano « il
discepolo ideale di Giuseppe de Maistre », un convinto «
cattolico-legittimista », accusando lo stravolgimento dei veri valori del
Risorgimento operato da quegli storici che non condannavano le
repressioni del 1833, pur cogliendo l’occasione, da buon liberale, per
una non necessaria puntata antisovietica *. La forza delle argo-
mentazioni critiche di Omodeo è tale da ottenere un ricono- scimento
anche sulla codina « Rassegna storica del Risor- gimento », ma il
significato civile e politico del suo lavoro provoca subito sulla stessa
rivista un duro intervento di De Vecchi ?”. Tuttavia l’invito rivolto a
Luigi Russo da Omo- deo — ferito da questa e da altre critiche —, che
«si 25% A. Omodeo, La leggenda di Carlo Alberto nella recente
storio- grafia, Torino, Einaudi, 1940, pp. 10, 13, 15 n., 27, 45, 47, 49,
111, 120; e a p. 16, criticando lo scarso peso dato dagli storici di
tendenza naziona- lista ai processi del 1833: «È vero che gli odierni
processi di polizia di cui è maestra la Russia di oggi hanno ottuso la
nostra sensibilità morale, e che al confronto i processi del ’33 possono
apparire cosa mitissima... ». Dell’importanza di questo volume, come del
Gioberti, non tiene conto A. Garosci, Adolfo Omodeo. III. Guida morale e guida
politica, in « Ri- vista storica italiana », LXXVIII (1966), pp.
140-183. 25 Cfr. la recensione di Paolo Romano (Paolo Alatri) in «
Rassegna storica del Risorgimento », XXVIII (1941), pp. 555-557; ma C.M.
De Vecchi di Val Cismon, Ancora di Carlo Alberto: «Questo cercare
di attaccarsi a forme razionalistiche della storia affermando o
demolendo uomini la cui azione può avere riflessi sulla vita presente, è
da una parte errore di storico ma è, peggio, mancanza al dovere di uno
storico in quanto cittadino [...] rilevando le cattive intenzioni
politiche di codesti ingiusti giustizieri [di Carlo Alberto] e non
rinunziando a definirli secondo i loro meriti, vogliamo astenerci dal
scendere nel campo della politica cui pure saremmo chiamati dal contegno
loro » (« Rassegna sto- rica del Risorgimento », XXVIII (1941), pp. 608,
613). Negativo il giudizio di G. Ferretti (La leggenda di Carlo Alberto,
in « Primato », I (1940), n. 14, pp. 15-17), mentre Luigi Bulferetti, pur
prendendo le distanze da alcune affermazioni di Omodeo, riteneva, a
proposito dello Statuto, che «si avvicinasse molto più alle dottrine di
Carlo Alberto (e fosse quindi più nel vero) l’interpretazione datane nel
decennio dai reazionari, che non quella dei liberali di sinistra » («
Rivista storica ita- liana », s. V, V (1940), p. 463).
297 prendesse da parte di persone di buona volontà
posizione nelle riviste di Codignola e in qualche altra che ci
fosse aperta » 2*, fu subito raccolto, a testimonianza dell’eco non
solo storiografica suscitata dall'opera: cosi non solo « La Nuova Italia
» con Vinciguerra o « Civiltà moderna » con Pieri, ma anche altre riviste
ormai di fronda come « Oggi », con Umberto Morra — tutti intellettuali
legat. in vario modo alla casa editrice —, si lanciano in lodi
incondizionate al volume, fino ad arrivare a una vera e propria difesa
politica dell’autore sulla « Nuova rivista storica », sempre ad opera di
Pieri: dopo aver affermato — riecheggiando la recensione di Edmondo Cione
al Mazzini di Bonomi — che «certa storiografia del Risorgimento
pare tenda a risolversi in un capovolgimento di valori, nel- l’apologia
di reazionari, di capibanda, di aguzzini, e nella diffamazione dei nostri
cospiratori e dei nostri martiri », Pieri ricordava come Omodeo,
che ha vissuto sul Carso e sul Piave, prima che negli archivi e
nelle biblioteche, la passione del Risorgimento italiano, e che fin da
allora rinunziò agli agi e alle prebende delle retrovie, può a buon
diritto assumersi il nuovo onere e il nuovo onore. Quanto grande del
resto sia oggi l’influenza dell’Omodeo, negli studi del nostro
Risorgimento, presso ogni categoria di studiosi, non esclusi i suoi più
illustri avver- sari, è ormai a tutti manifesto. Questo è il premio
maggiore, per il chiaro studioso, e la migliore prova del generale
consenso che le sue vedute vanno acquistando, nonché del posto preminente
che oggi a lui compete nel campo della nostra cultura storica 299.
Analoga risonanza ha, nelle riviste di fronda, il volu- metto su
Gioberti, che sfata l’immagine gentiliana del « profeta » del
Risorgimento dal « pensiero in sommo grado speculativo insieme e
realistico », per mettere in rilievo, accanto alle continue oscillazioni
politiche, le ca- renze filosofiche e il sacrificio giobertiano «
dell’idea libe- rale al cattolicismo », contrapponendogli il «
liberalismo laico » di Cavour che, « ben lungi dall’essere
agnostico, 258 Lettera del 7 ottobre 1940 (A. Omodeo, Lettere,
cit., p. 628). 259 « La Nuova Italia », XIII (1942), pp. 64-66; «
Civiltà moderna », XIII (1941), pp. 91-94; «Oggi», 16 novembre 1940;
«Nuova rivista storica », XXV (1941), pp. 126-131. 298
Le origini della casa editrice Finaudi garantiva lo
svolgimento autonomo delle fedi intrinseche alla cultura ». E mentre
Gentile vedeva nell’azione « popo- lare » di Gioberti « uno degli
ammonimenti tuttora più vivi della sua politica nazionale », « Omodeo
dichiarava la neces- sità di insistere sui suoi « difetti » ed « errori »
« per ricor- dare a certo neoguelfismo di cattiva lega, che va
risorgendo, a certo neogiobertismo che ammicca vantandosi furbo,
che l’esperienza giobertiana è irriproducibile, non ha possibilità
di sviluppi in linea retta; il suo retaggio attivo fu assor- bito nella
sana politica del Cavour » 2°. Un’interpretazione laica, questa, che
proveniva dall'ambiente crociano, il cui legame con la casa editrice è
attestato anche dall’attenzione che alla produzione storiografica di
Einaudi riserva « La Critica ». Spicca in particolare la recensione al
Medioevo barbarico d’Italia di Gabriele Pepe (1941) — che era stato
stroncato dai giudici dell’Accademia d’Italia! —, ritenuto invece da
Croce « una delle opere più pregevoli » della « nuova storiografia »
cresciuta in Italia negli ultimi quindici anni, non cronachistica o
filologica, materialistica, economica, nazionalista ed etnologica, « ma
semplicemente e puramente umana, cioè etica (il che non vuol dire
mora- listica) », trovando in ciò concorde il giudizio di Luigi Ei-
naudi; e, con evidente allusione all’alleanza del fascismo con la Chiesa
e col nazismo, Croce faceva sue le tesi prin- cipali del volume —
giudicate con perplessità o come troppo tendenziose da altri recensori —,
secondo le quali i Longobardi « furono sostanzialmente un elemento
nega- tivo » nella storia d’Italia, cosî come il potere temporale
della Chiesa « non solo fu dannoso alla moralità e alla civiltà, sî anche
dannoso alla stessa azione, quale che sia, 260 A. Omodeo, Vincenzo
Gioberti e la sua evoluzione politica, Torino, Einaudi, 1941, pp. 25, 38,
56, 62; per i giudizi di Gentile, quali si erano venuti configurando fin
dal 1919, cfr. ora G. Gentile, I profeti del Risorgimento italiano, terza
edizione accresciuta, Firenze, Sansoni, 1944, pp. 69, 125. L’anonimo
recensore della « Nuova rivista storica » notava che il carattere di
Gioberti « fu piuttosto di teorico e di sognatore, an- ziché di politico
mirante alla realtà dei fenomeni politici e nazionali » (XXVI (1942), p.
112); analogo il giudizio di U. Morra, Gioberti e Garibaldi, « Oggi », 25
ottobre 1941. 261 Cfr. G. Turi, Le istituzioni culturali del regime
fascista durante la seconda guerra mondiale, cdella Chiesa in quanto
istituto religioso [...] perché il potere temporale non le dava ma le
toglieva forza, non le accresceva o garantiva libertà, ma la legava. Né è
detto che anche ai nostri giorni essa non abbia sollecitato e
accettato un dono, un piccolo dono, di Danai » ?°. Sulla
linea di una continuità di intervento liberale compare ancora una volta
Salvatorelli col Profilo della storia d'Europa, in cui è sempre presente
l’interpretazione multisecolare dell’unità della storia italiana, e torna
un motivo che abbiamo già trovato in Dawson, quello di una «
civiltà unitaria europea » la cui otigine è retrodatata rispetto
all'opera dello storico inglese, con forti — e attua- lizzati — elementi
di differenziazione dall’Oriente, in quanto la civiltà europea sarebbe
stata « preparata dai caratteri comuni che i popoli europei già
all’inizio dell’età storica presentavano rispetto all’Oriente [...]. Fin
da adesso, insomma, l'Europa di fronte all’Asia rappresenta
l’individualità di fronte al collettivismo, la libertà di fronte al
dispotismo, il progresso di fronte all’immobilità » 2°. Espressione, come
il Sommario della storia d’Italia, di quel « nervoso e moderno
enciclopedismo » di cui ha parlato Sasso °*, il Profilo non esprime
particolari valutazioni sulle vicende della storia europea, se non nell’unificazione,
tipi- camente liberale, dell’esperienza della Russia bolscevica e
dei regimi fascista e nazista sotto la stessa etichetta di « Europa
autoritaria », e ciò nonostante nel volume ap- paiano, come novità nella
storiografia di Salvatorelli, fre- quenti accenni alla storia
economico-sociale, anche se in prevalenza relativi alla storia antica, e
non senza impto- prie attualizzazioni °°. Ma, forse proprio per avere le
stesse 22 «La Critica » Einaudi, Sui fattori (economici
morali ecc.) delle variazioni storiche, in «Rivista di storia economica
», VI (1941), pp. 184-189. Una certa « tendenziosità » di Pepe era colta
da E. Chichiarelli (« Nuova rivista storica », XXVI (1942), pp. 301-302)
ed E. Farneti (« Oggi » Salvatorelli, Profilo della storia d'Europa, Torino,
Einaudi, 1942, pp. 24-25. Ri Sasso, La «Cultura» nella storia
della cultura italiana, cit., p. A %5 Ad esempio, a
proposito di Atene nel VI secolo a.C.: «È da 300 Le
origini della casa editrice Einaudi caratteristiche del Somzzario,
la fortuna dell’opera fu note- vole, secondo la profezia di Ginzburg —
per il quale il Profilo, scriveva dal confino il 5 marzo 1942, « di
sicuro aumenterà considerevolmente la diffusione della vostra col-
lezione storica » #4 —, e non certo indifferenziata, se nel concedere il
nulla osta ai volumi della casa editrice da introdurre in Germania il
Ministero della cultura popolare suggeri di «levar via il Salvatorelli »
”, Infatti, pur lasciando scontenti i cattolici e i crociani — lamentandosi,
i primi, delle « due pagine striminzite dedicate all’avvento del
cristianesimo », e, i secondi, della mancanza di una « superiore
giustificazione ideale delle notizie raccolte » a differenza della Storia
d'Europa di Croce ?* —, il volume riscuoterà nel 1943 l’elogio
appassionato di Giovanni Mira, ospitato anch'egli, già aderente al
Partito d'Azione, sulle pagine della « Nuova rivista storica »:
Nella nostra età tempestosa — egli scriveva —, lontani come siamo
dal dogmatismo della storiografia cattolica, dall’orgoglio razio- nale
della volteriana, dall’ottimismo progressista della ottocentesca, questo
sforzo compiuto dal Salvatorelli per stringere in breve la storia del
nostro continente, per far capire anche agli ignari come i fatti si sono
svolti, con una narrazione cosi lucida da non aver bisogno di commento,
con una parola cosî piana da essere intesa da tutti, col solo interesse
di stimolare in sé e negli altri il riesame del passato, con la sola
morale di ritrovare nei fatti umani il lume del- l’umanità: quest’opera è
forse il più sano cominciamento che si possa dare alla storiografia di
domani ?9. notare come tra i grandi proprietari ed i piccoli
agricoltori si fosse for- mato un partito medio, che potremmo chiamare
della borghesia » (Profilo della storia d'Europa, cit., p. 39).
#6 AE, Ginzburg. 26 Alicata a Einaudi, 30 maggio 1942 (AE,
Alicata). 268 Cfr. «La Civiltà cattolica », 94 (1943), vol. II, p.
52, e la recen- sione di E. Chichiarelli ne «La Nuova Italia », XIV
(1943), p. 37. 26 « Nuova rivista storica », XXVII (1943), p. 123.
L'opera di Salva- torelli era presentata da Pietro Amendola al fratello
Antonio, in una lettera del 28 aprile 1941, come una « cronaca », «
tranne che per quanto concerne le questioni religiose o dei rapporti tra
gli Stati e la Chiesa, che è come sai il cavallo di battaglia del
Salvatorelli: allora abbiamo della storia vera e propria » (in Lettere di
antifascisti dal carcere e dal SEO, peo di Giancarlo Pajetta, Roma,
Editori Riuniti, Il volume di Salvatorelli testimonia la necessità, av-
vertita dalla casa editrice nel corso della guerra, di confron- tarsi con
le vicende degli altri paesi e di ripensare grandi momenti o figure del
passato, in saggi che, se si eccettua la cattiva cronaca del Cavour e
Napoleone III di Giulio Del Bono (1941) ”°, accoppiano sempre alla
dignità scientifica una notevole capacità narrativa, e quasi sempre si
fanno portatori di un messaggio politico. Nel 1941 appaiono due
studi di George Macaulay Trevelyan: la Storia dell’In- ghilterra nel
secolo XIX, tradotta da Umberto Morra, riscosse il plauso di
intellettuali di diverso orientamento, come Eugenio Curiel, che la
giudicò « uno dei pit bei libri di storia usciti in questi ultimi tempi »
per l’« acutissima indagine sociale », ed Ernesto Rossi, che la riteneva
« frut- tuosa, per la formazione della educazione politica. Contro
l’irrazionalismo, oggi tanto diffuso, mostrare gli sforzi coro- nati dal
successo di tanti uomini egregi del secolo scorso, che si proposero di
modificare l'ordinamento esistente per renderlo più adeguato ad un ideale
di superiore civiltà [...] significa fare una iniezione di ottimismo, e
stimolare all’azione consapevolmente diretta al pubblico bene » ?!.
La rivoluzione inglese del 1688-89 era presentata da Ginz- burg come
quella che aveva «improntato del proprio formalismo e conservatorismo
tutta la vita pubblica nazio- nale » fino ad allora, tramandando tuttavia
anche il prin- cipio della tolleranza politica e religiosa — e
Ginzburg invitava il lettore italiano a leggere le conclusioni di
Tre- velyan, che vedeva nella rivoluzione « una vittoria della
moderazione », e valorizzava il sistema parlamentare in- 290
Giudicato dall’editore libro « magistralmente condotto» (lettera del 21
ottobre 1941, in AE, Del Bono), il lavoro era negativamente recen- sito
sulla « Rassegna storica del Risorgimento » (XXX (1943), pp. 511-512) da
Paolo Romano (Alatri), che gli contrapponeva l’interpretazione omo-
deiana di Cavour. 21 Cfr. E. Curiel, Scritti 1935-1945, a cura di
F. Frassati, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 229 (segnalazione apparsa
nel « Bollettino del Fronte della gioventii » del febbraio 1944), e la
lettera di Ernesto Rossi a Luigi Einaudi del 18 novembre 1941 (AFE,
Rossi). Salvatorelli apprezzò l’opera in quanto correggeva l’immagine
stereotipa della vita politica inglese come semplice contrapposizione di
due partiti (« Nuova rivista storica », XXVI (1942), pp. 81-86).
302 Le origini della casa editrice Einaudi
glese nei confronti di « poteri accentrati di un nuovo tipo e ben più
formidabile che non quelli dell'Europa dell’ ancien régime », quali
quelli instauratisi in Europa nel dopoguerra 7°. Il significato politico
dell’opera è confer- mato dai giudizi negativi di Carlo Morandi, per il
quale, di fronte alle novità del secolo XX, l'Inghilterra non era
stata in grado di rivedere le sue posizioni, « preferendo rinchiudersi
nella difesa del passato » — « Ora, veramente, i motivi fecondi della
rivoluzione liberale del 1688 possono dirsi esauriti » ?? —, e di
Cantimori, pur già in contatto con la casa editrice, che la giudicava «
un saggio di apolo- getica costituzionale » dalla visione conservatrice,
dato l’« insistente paragone, a tutto detrimento di quest’ultima,
con la Rivoluzione francese », e un documento « della men- talità degli
ambienti universitari più vicini alla classe politica attualmente
dominante in Inghilterra » ?*. Sempre nel 1941 appare — non
sappiamo se prima della guerra all’URSS — la Storia della rivoluzione
russa di William H. Chamberlin, un’opera che l’editore aveva in
preparazione fin dal 1938 — opponendola, come « obiet- tiva », a quella
degli Webb proposta da Schiavi ?° —, e tradotta da Mario Vinciguerra: un
lavoro in cui l’autore dell’Età del ferro, pur attenuando gli accenti
apocalittici della prima opera per tentare una esposizione « narrativa
» degli avvenimenti russi dal 1917 al 1921, si presta a una lettura
fortemente antisovietica da parte di Omodeo, il quale osservava che, «
per quanto in vari punti l’autore indulga a correnti punti di vista
materialistico-storici e a connessi schemi classistici », sfuggiva in
realtà « agli schemi generici e vuoti del marxismo », per presentare come
deus ex machina della rivoluzione « la non amabile persona di
Vladimir Ulianov detto Lenin », uomo spregiudicato, con I G.M.
Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, traduzione di C. Pavese,
Torino, Einaudi, 1941 (ediz. originale 1938), pp. IX-XI Pia di L.
Ginzburg), 168, 171 (citiamo dalla seconda edizione del 1945).
2733 « Primato », I (1940), n. 15, p. 20 (siglato CM.). 274
«Leonardo », XI (1940), pp. 321-322; analogo il giudizio di Tullio
Vecchietti {« Rivista storica italiana », LVIII (1941) pp. 106-113).
215 Finaudi a Schiavi, 18 febbraio 1938 (AE, Schiavi).
UA) « un legame scarsissimo col mondo circostante »,
caratteriz- zato dal « doppio aspetto del fanatismo implacabile e
della scaltrezza opportunistica », forgiatore di un partito che «
ricorda insieme il primitivo Islìm e la Compagnia di Gesù » e «
concepisce la dittatura sugli schemi del regime zaristico: dispotismo di
polizia » ?°. Analoghi motivi di discussione politica sono
suscitati anche dalla presentazione di grandi individualità
storiche di un più lontano passato, e provocano ora incrinature
all’ interno della casa editrice, e fra questa e l’ambiente di «
Primato » o de « La Critica ». Il Richelieu di Carl J. Burckhardt è visto
dal curatore dell’opera Bruno Revel, sulla traccia dell’interpretazione
di Belloc — contestata da Salvatorelli —, come fondatore dell'Europa
moderna e del nazionalismo, artefice di quell’ordine, che
proprio ora ci sta crollando davanti cosi spettacolosamente, fino a
incidere anche nell’ambito della sfera privata. Tanto più se una quasi
ironica coincidenza di suoni con- fonda due nomi cosî ambigui come
Versaglia e Vesfaglia; sf che nou sai se la travolgente e frastuonante
insurrezione contro alla pace di Versaglia non travalichi ora tali
limiti, e non si spinga per avventura più addietro nei secoli, scalzando
dalle basi precisamente l’intero ordinamento europeo, quale era stato
introdotto e legalizzato nella storia dalla pace di Vesfaglia 27.
E contrastanti sono, nel 1942, due opere che presentano la
differente concezione dello Stato di rilevanti persona- lità della Grecia
antica: da un lato l’ Alessandro il grande di Georges Radet, che percorre
le vicende del biografato alla 2î6 La recensione, apparsa su «La
Critica» del 1943, è ora in A. Omodeo, I/ senso della storia, a cura di
L. Russo, Torino, Einaudi, 1970, pp. 362-365. 297 C.J.
Burckhardt, Richelieu, traduzione di B. Revel, Torino, Einau- di, 1941
(ediz. originale 1900), p. 9. Oltre a contestare la tesi di Belloc, Salvatorelli
sosteneva anche l’esistenza di contrasti fra poteri temporale e
spirituale nel Medioevo: «Fa della mitologia, o della fantasia, il Revel
quando ci parla nella sua prefazione di “quella felice coincidenza di una
cattedra sovrumana e di un ordinamento terreno” che sarebbe esistita
prima dell’età moderna » (Assolutismo del Richelieu, in «Pri- mato », II
(1941), n. 20, pp. 15-16). Notava l’analogia con la tesi di oc
anche Mario M. Rossi nella recensione all’edizione tedesca del 1937
(«Nuova rivista storica », XXIII (1939), pp. 266-267). 304
Le origini della casa editrice Einaudî luce della sua
ispirazione religiosa — suscitando la critica di Omodeo che invitava a
una più concreta analisi storico- politica —, fa dire al curatore che
nell’opera di Radet si vede «sorgere e progressivamente attuarsi il
gene- roso ideale dell’eguaglianza di tutte le genti in un mon- do
pacificato e concorde » ?*; dall’altro Werner Jaeger — contro gli storici
tedeschi dell’800 che, come Droysen, avevano esaltato l’opera di
unificazione « nazionale » di Filippo il Macedone e di Alessandro, visti
come precut- sori di Guglielmo I — difende il « martire della
libertà greca », Demostene: ed è significativo che mentre su « Pri-
mato » Gennaro Perrotta valorizza la politica egemonica di Filippo e di
Alessandro contro l’« angusta » difesa della libertà di Atene fatta da
Demostene — « ch'era libertà comunale, municipale » —, più tardi, sulla «
Nuova rivista storica », Giovanni Costa sosterrà la tesi di Jaeger facen-
done proprie le parole — «la lotta di Demostene è im- mortale, per
mortale che sia stata la nazione per cui com- batté ». Una tesi che già
dieci anni prima la stessa rivista aveva fatto propria, prendendo spunto
dal Demostene e la libertà greca pubblicato nel 1933 da Piero Treves
presso Laterza ?°. Non mancano quindi elementi di
contraddizione all’in- terno della casa editrice, al di là dei limiti
posti dalla censura che non permettevano di superare la linea
liberale di Omodeo o quella moderata di Trevelyan. Sembra tuttavia
di avvertire, al tempo stesso, una maggiore cautela verso la casa
editrice da parte dell'ambiente crociano — come nel caso di Chamberlin —
e di « Primato » che, con l’inasprirsi 8 G. Radet, Alessandro il
Grande, traduzione di M. Mazziotti, To- rino, Einaudi, 1942 (ediz.
originale 1931), p. XII. La recensione di Omo- deo, apparsa su «La
Critica » del 1943, è ora in A. Omodeo, Il senso della storia, cit., pp.
48-52. Secondo Giovanni Costa Radet operava una « esagerazione
magnificatrice » dell’opera di Alessandro, nel quale invece « si sente
l’autocrate, pi che l’uomo di genio » (« Nuova rivista storica », Jaeger,
Demostene, traduzione di A. D'Andrea, Torino, Fina di, 1942 (ediz.
originale 1938); G. Perrotta, Demostene, gli antichi © i moderni, in
«Primato », ICosta in « Nuova rivista storica», XXVIII-XXIX (1944-45),
pp. 335-337; E. Cione in « Nuova rivista storica », della guerra, si arrocca in una posizione di
minore « aper- tura » culturale, accompagnata, alla fine del ’42, dalla
ces- sazione della collaborazione di Alicata e dal diradarsi di
quella di Muscetta. Uno sguardo ai progetti della casa editrice in questo
periodo, che riguardano in particolare il settore storico, può aiutarci a
spiegare questa iniziale presa di distanza. Alcune proposte, in questo
campo, tendono infatti a ricostruire una tradizione democratica nel
pensiero politico italiano a partire dalla Rivoluzione francese, e non
perdono il loro significato per il fatto di cadere nel nulla — anche per
le traversie della casa editrice dopo il 25 luglio —, o di essere
realizzate, in gran parte, dopo la Liberazione. Si comprende
come, in questo quadro, non abbiano esito le proposte avanzate da Maturi
nel 1942 ?”, scarsa- mente innovative nella tematica e, forse, ritenute
poco attraenti pet i legami di Maturi con Volpe, o quella di
Vittorio Gorresio, che nel 1941 aveva terminato un saggio sulla « storia
del bolscevismo in Italia dal 1917 al 1921 » in cui sottolineava «
l’isolamento del partito comunista dal grande tronco del socialismo », ma
che fu sottoposto al giudizio di Pavese che lo ritenne « superficiale »
?!. Nel 1941 Piero Pieri, che nella « Nuova rivista storica » aveva
segnalato con simpatia alcuni dei titoli più innovativi di Einaudi,
propose una raccolta di saggi di storia militare che « non furono
terminati per il Volpe, perché io non volli più sottostare alle
osservazioni e mutilazioni di due militari di professione messi alle
costole all’Accademico », tanto da dover subire le « sue basse vendette »
2; e mentre Cantimori, fra gli altri progetti, avanza quello di una
rie- dizione de La repubblica romana del 1849 del mazziniano
ministro degli esteri della repubblica Carlo Rusconi ?* 280 Maturi
propose volumi su Lord Bentinck e i Borboni di Sicilia, Nigra, e Le
interpretazioni del Risorgimento, frutto del corso pisano del 1942-43
(AE, Maturi). 281 Gorresio a Einaudi, 20 novembre 1941 (AE,
Gorresio}; Einaudi ad Alicata, 13 gennaio 1942 (AE, Alicata).
282 Pieri a Einaudi, 6 luglio 1941 (AE, Pieri). 283 Nel
1941-42 l’editore si dimostrava interessato a questa e ad altre
306 Le origini della casa editrice Einaudi Falco
propone, pur con riserve legate alla tendenza « mate- rialistica »
dell’autore, il volume di Domenico Dematco su Il tramonto dello Stato
pontificio — che sarà pubblicato nel 1949 —, e una scelta di scritti di
Giuseppe Montanelli in cui, osservava, « andrebbe conservato quanto
riguarda la coltura del tempo, problemi vivi anche ai nostri
giorni, come la democrazia, il socialismo, la personalità del Mon-
tanelli, soprattutto in relazione coi pensatori e politici contemporanei
» ‘4. Alessandro Schiavi, che aveva già pro- mosso presso Laterza la
pubblicazione di alcune memorie di esponenti socialisti, con la speranza
di poter continuare una battaglia politica ”, propone nel 1941 — senza
suc- cesso per il timore dell’editore di incorrere nella censura —
un saggio di Zibordi sulla Storia del partito socialista italiano nei
suoi congressi, e nel 1942 un proprio volume su I contadini e i
socialisti italiani che si sarebbe giovato di note stese da Nullo
Baldini. Il 1° settembre 1942, infine, Schiavi inviava a Einaudi tre
cartelle di un suo Proezzio al carteggio Turati-Kuliscioff, suscitando
l’interesse dell’ editore, che cercherà di avviare la pubblicazione
nell'agosto 1943 perché « il libro — scriveva — potrà riuscire som-
mamente opportuno e formativo, nelle prossime lotte sociali »; gli scopi
politici dell’edizione erano ben chiari anche a Schiavi, per il quale la
giovane generazione, che non ha avuto modo di conoscere i pionieri
e gli artieri del movimento sociale in Italia trascinati via dalla morte
e dall’esilio, inibita di leggerne la vita e l’opera nei libri perché
arsi e sequestrati come apportatori di veleni, ignara del senso di
libertà che tien deste e aperte le menti alle varie correnti del pensiero
e dell’opinione e della critica che le scerne e le affina, e che non è
quindi in grado di giudicare di quel movimento che fece di una plebe un
popolo, proposte di Cantimori, come la traduzione di Politik als
Beruf e Wissen- schaft als Beruf di Max Weber (AE, Cantimori).
284 AE, Falco. 285 Significativa la lettera inviata il 24
gennaio 1932 da Schiavi a Felice Anzi per incoraggiarlo a scrivere le sue
memorie: «Non tutto sparisce colla inerzia imposta, oltreché dalle
circostanze, dagli anni, e un po’ della semente gettata germoglierà, e il
nostro spirito rinascerà in quelle particelle che andranno a formare la società
quale noi l’abbiamo sognata. Ed in tal senso il nostro io non morirà »
(ACS, Casellario politico centrale, b. 4689, fasc. 6133).
attraverso lotte, errori, cadute, e sforzi innumerevoli, se non nelle
leggende sconce e vituperose di avversari senza fede in un ideale, senza
rispetti umani, e sol gonfi di sé medesimi, potrà imparare da queste
lettere di che ‘lagrime e di che sangue l’ascensione delle classi
lavoratrici italiane voluta, preparata ed avviata da un pugno di uomini
colla sola forza della persuasione e della comprensione, della
solidarietà e della educazione [sic] 286. Sempre nel 1942 Alicata,
mentre rifiutava la proposta di tradurre Qu'est-ce que la proprieté? di
Proudhon, perché « a parte il coraggio di certe formule diventate famose,
è un po’ fiacco nell’analisi dialettica », si faceva portatore
della proposta di Gastone Manacorda — il quale nell’ot- tobre dichiarava
di averne già terminato la traduzione — di pubblicare la Storia della
congiura degli uguali di Filippo Buonarroti — indicato nel 1937 da Franco
Venturi, su « Giustizia e Libertà », come il « primo egualitario
ita- liano » ” —, e del Sistemza politico degli uguali di Babeuf.
Il primo testo — che sarà pubblicato nel 1946 — incontrò l’approvazione
di Einaudi ?*, che nello stesso anno pubblicò il Saggio su la Rivoluzione
di Pisacane. Dai progetti si era ormai passati alle prime realizzazioni;
e la storia di questa edizione non è meno significativa delle pagine di
prefa- zione scritte da Pintor e dell’eco che essa suscitò. Nell’e-
state del 1941 Aldo Romano, che nel corso degli anni ’30 si era già
occupato della figura di Pisacane, aveva proposto a Einaudi una scelta di
suoi scritti, che in un primo tempo avrebbe dovuto curare per la collana
« Studi e documenti di storia del Risorgimento » diretta da Gentile e
Menghini presso Le Monnier, e che non prevedeva il saggio sulla
286 Schiavi a Einaudi, 29 agosto 1941 e 1 settembre 1942, ed
Einaudi a Schiavi, 3 agosto 1943 (AE, Schiavi). 281
Gianfranchi [F. Venturi], F. Buonarroti, primo egualitario italiano
1837-1937, in « Giustizia e Libertà », 13 agosto 1937. 288 Per
Proudhon cfr. Alicata a Einaudi, 18 giugno 1942 (AE, Alicata); per Babeuf
e Buonarroti, Alicata a Einaudi, 11 maggio 1942 (AE, Alicata); il 18
luglio 1942 Fabrizio Onofri scriveva all'editore di avere esaminato
assieme ad Alicata una scelta di scritti di Babeuf (AE, Onofri); nel
marzo 1943 Alessandro Galante Garrone inviava lo schema di un suo volume
su Mazzini e Buonarroti, mentre l’editore lo avvertiva che dal giugno
1942 Gastone Manacorda era stato incaricato di tradurre la Conspi- ration
pour l’égalité di Buonarroti (AE, Galante Garrone). 308
Le origini della casa editrice Einaudi Rivoluzione. Alle
obiezioni dell'editore, che chiedeva solo quest’ultimo, Romano rispondeva
che il terzo saggio era « solo una parte dell’opera di Pisacane, ma non
certo la più importante. Staccata dalle altre rappresenta un fram-
mento che ora non vale la pena di pubblicare [...]. Il terzo saggio
contiene, nelle sue pagine migliori, il pensiero sulla quistione sociale,
ma non certo tutto il pensiero poli- tico del Pisacane: le pagine
migliori si trovano nel IV saggio che, collegate a quelle poche del
secondo, rappre- sentano il pensiero del Pisacane sulla guerra, la sua
filosofia della guerra come creatrice di eventi »; ma il 2
settembre 1942 Einaudi gli rispondeva di aver affidato la
Rivoluzione a un suo collaboratore’. Non è probabilmente senza
motivo — o motivi — che il nome del democratico meri- dionale, annoverato
alla fine dell’800 fra i precursori del socialismo, ma di cui nel 1932
Nello Rosselli aveva messo in luce le contraddizioni del pensiero sociale
per ricavarne l’ammonimento che « il riscatto di un popolo dalla
tirannia, dalla serviti, dalla cronica fiacchezza politica, è
anzitutto problema morale » — e Ferruccio Parri non mancò di
rilevare la riduttività del giudizio di Rosselli ?° —, tornasse a
circolare con lo scoppio della guerra: con patticolare riferimento alla
Guerra combattuta ne parlarono Giansiro Ferrata su « Primato » e, su «
Argomenti », Raffaello Ra- mat, che pose però l’accento anche sul
pensiero politico e sociale di Pisacane ?!. In questo contesto, la scelta
einau- diana trovava già predisposto uno spazio di intervento, ma
assumeva anche particolare rilievo, come ha ricordato Gerratana
affermando che essa « fu in quel periodo uno 289 AE, Romano.
29 Cfr. N. Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, con
un saggio di W. Maturi, Torino, Einaudi, 1977, p. IX, e la recensione di
Parri (siglata F. Pr.) al volume di Rosselli, che notava in Pisacane
delle « rigide postulazioni di comunismo autoritario e spregiudicato, le
quali sono — sembra a me in qualche dissenso da Rosselli — più che fredde
e formali e provvisorie acquisizioni ideologiche », e suggeriva di dare
maggiore spazio all’influenza di Marx su Pisacane {« Nuova rivista
storica », XVII (1933), pp. 157, 161). DI G. Ferrata, Strategia di
Pisacane, « Primato », I (1940), n. 17, pp. 13-14; R.R. [R. Ramat], Per
un'antologia di scritti del Pisacane, in « Argomenti », I (1941), pp.
101-104. 309 dei più importanti
contributi alla cultura antifascista della nostra generazione » ??,
Infatti nella presentazione del Saggio Pintor operava una netta rottura
con l’interpreta- zione di Rosselli: pur mettendo in luce i limiti
teorici e politici di Pisacane, coglieva in lui l’intreccio di motivi
maz- ziniani e marxiani e, soprattutto, lo indicava come « l’unico
socialista intransigente dell’Italia pre-unitaria, e un socia- lista per
temperamento e per metodi assai più vicino ai moderni teorici che ai
vecchi dottrinari di un’utopia collet- tivista », in quanto «
l’affermazione cosi frequente in Pisa- cane che le idee derivano dai
fatti, e non questi da quelle, corrisponde nella sua sommaria
enunciazione al cosiddetto “rovesciamento della dialettica hegeliana”
operato da Marx » ?3, Era un’affermazione che, al di là della sua
cor- rettezza interpretativa, ebbe un’eco significativa: alcuni la
passarono sotto silenzio, come il recensore di « Critica fascista » che
si limitò a sottolineare l’autonomia di pen- siero e l'imperativo morale
del patriota, o la contestarono, come Gabriele Pepe, che dopo aver messo
in luce l’astrat- tezza di pensiero e la lontananza dal marxismo di
Pisacane, assegnò al Saggio un significato « esclusivamente
patriot- tico »; ma subito, nel 1942, Muscetta salutò su « Primato
» la ristampa di « un classico della pix schietta tradizione rivoluzionaria
italiana », mentre sulla « Rivista storica ita- liana » Armando Saitta
difese il valore teorico del suo pensiero, in particolare l’intuizione, a
suo parere marxista e sociologica insieme, del popolo come « classe
politica », e più tardi, nell’inverno 1943, Paolo Alatri potrà
affermare che « alla base di tutto il Saggio è una convinzione che
diffi- cilmente anche oggi, a circa un secolo di distanza nel tempo
da quando esso fu scritto, ci si sentirebbe di rifiutare: che cioè una
rivoluzione, per mutare veramente un mondo, deve 22. Introduzione
a G. Pintor, I/ sangue d'Europa, cit., p. XL.. 293 Cfr. la
prefazione al Saggio, del 1942, ora in G. Pintor, I/ sangue d'Europa,
cit., pp. 113-117. Nonostante la conclusione della vicenda editoriale, il
16 febbraio 1943 Pintor ammoniva Einaudi: «ti ricordo l'opportunità di
non buttare a mare completamente i collaboratori che ti sono antipatici:
i calci in faccia dati a Romano e la distruzione del suo volume risultano
ora piuttosto dannosi giacché una scelta degli scritti di Pisacane non si
improvvisa e il volume è rarissimo » (AE, Pintor). 310
Le origini della casa editrice Einaudi essere sovvertimento
di un ordine costituito non soltanto politico ma anche e soprattutto
sociale » ?*. Resta l’interrogativo di come, nello stesso tempo,
Pintor potesse consigliare a Einaudi la pubblicazione, avvenuta nel
1943, de I proscritti di Ernst von Salomon, uno degli assassini di
Rathenau, un volume che l’editore propagandò perché vi era rievocata la
guerriglia « per strappare le re- gioni baltiche alla minaccia bolscevica
», e al quale già nel 41 aveva dichiarato di tenere molto, assieme a Volk
obne Raum del pangermanista Hans Grimm, « per il loro tono
documentario nazionalsocialista » ?5; una proposta che Pin- tor
cercherà di « riscattare » nella recensione al volume — pubblicata
postuma —, tesa ad analizzare, con moduli can- timoriani, anche se
concettualmente assai più fragili, la vi- cenda dei « reazionari di
sinistra » tedeschi del primo dopo- guerra, vista come testimonianza del
« destino di un'epoca in cui la tolleranza doveva diventare una colpa e
la morte fisica scendere con inaudita violenza su intere
generazio- ni» 2, L’interrogativo posto per Pintor ci
sembra valido anche per l’editore, che nel 1939 aveva consigliato cautela
a 24 P. Succi in «Critica fascista », XX (1942), p. 234; G. Pepe
ne « La Nuova Italia », Don Santigliano [Muscetta] in « Primato »,
III (1942), p. 159; A. Saitta in « Rivista storica italiana », LIX
(1942), pp. 279-282; P. Romano [Alatri], in « Leonardo», XIV (1943), p.
247. 295 Cfr. Attività Einaudi anno XXI (ACS, Segreteria
particolare del duce, Carteggio ordinario, n. 528771, sottofasc. 1);
Einaudi ad Alicata, 24 novembre 1941 (AE, Alicata); G. Pintor, Doppio
diario, cit., p. 203 n. 10. 2% G. Pintor, Il sangue d’Europa,
cit., pp. 162, 164. Recensendo più tardi il volume Croce, dopo aver
ricordato la nobile figura di Rathenau e la «radicale negazione della
moralità » dei « mistici » tedeschi, in questo simili ai fascisti
italiani, concludeva con velata ironia: «La tra- duzione italiana del
libro del Salomon, è stata pubblicata nel marzo 1943, nel tempo
dell’ancora imperante fascismo, e dovette perciò avere il lascia- passare
di quel regime: al quale è da credere che tale libro sembrasse
edificante, confortante, educativo, persuasivo per gli italiani, perché
dettato nello stesso spirito di talune delle nobili sentenze che allora
si facevano imprimere dappertutto sui muri delle case urbane e rurali. Ma
l’accorto editore, provvedendo a quella traduzione, avrà avuto di mira,
crediamo, l’intento opposto» (Misticismo politico tedesco («La Critica »,
1944), ora in B. Croce, Pagine politiche (luglio-dicembre 1944), Bari,
Laterza, Spellanzon nella cura delle Considerazioni sulle cose d’Italia
nel 1848 di Cattaneo: poiché « la materia è, a novant'anni di distanza,
ancora cosi incandescente », scriveva Einaudi, era « indispensabile far
precedere il testo di Cattaneo da un’introduzione, che serva un po’ da
antidoto, un’intro- duzione che non sia naturalmente di piaggeria
carlalbertina, ma renda equilibratamente ragione dell’occasione e
dell’in- tonazione dell'Archivio triennale e di questi scritti che
ne formano l’ossatura ». Ma all’editore di Omodeo, spietato critico
della « leggenda » di Carlo Alberto, Spellanzon aveva risposto di non
essere sicuro di poter scrivere una introduzione-« antidoto », perché si
sentiva « meno caldo di furore di quell’uomo inesorabile e severo, vero
Farinata del secolo decimonono. Ma {...] all’infuori del toro, e
all’infuori di qualche sua deduzione troppo consequenziaria, io condivido
molta parte dei giudizi del fiero lombardo! » ?”. Infatti nella
presentazione dell’opera pubblicata nel 1942 — che nella ristampa del
1949 sarà dedicata a Salvemini —, Spellanzon faceva sue le critiche del
democratico mila- nese alla politica di Carlo Alberto, e coglieva negli
scritti dell’« Archivio triennale » «un acerbo disdegno per i
subdoli maneggi di servi cortigiani e gesuitanti, un caldo amore di
libertà inseparabile da ogni impresa di civile progresso. Anche in queste
pagine, il Cattaneo ci appare quel che fu durante l’epico momento delle
Cinque Gior- nate: il Farinata della rivoluzione nazionale italiana »
?*. Scontate appaiono quindi, da un lato, le critiche de « La
Civiltà cattolica » e, dall’altro, la favorevole accoglienza di Pieri,
per il quale con questo volume « la tanto auspicata ricostruzione della
storia del nostro Risorgimento è final- mente in atto, nelle sue correnti
ideali, nel suo travaglio politico, nello sforzo d’elevazione morale di
tutta la vita italiana »; ma anche Carlo Morandi, su « Primato »,
invi- tava ad una lettura del Cattaneo democratico ben diversa da
quella proposta nel ’39 da Luigi Einaudi: « Nella storia, 297
Einaudi a Spellanzon, 24 giugno 1939, e Spellanzon a Einaudi, 7 luglio
1939 (AE, Spellanzon). 28 C. Cattaneo, Considerazioni sulle cose
d’Italia nel 1848, a cura di C. Spellanzon, Torino, Einaudi, 1942, p.
XCII. 312 Le origini della casa editrice
Einaudi se l’obbiettività è un’utopia, la probità è un dovere.
Sa- rebbe eccessivo affermare che la probità del Cattaneo, anche in
queste pagine, non è inferiore a quella degli scrittori suoi contemporanei
di parte avversa? Crediamo di no » ?” Ma poco prima del 25 luglio,
alla vigilia di una nuova fase nella vita della casa editrice, Einaudi
cercava un punto di equilibrio affidando ancora una volta a Salvatorelli
il compito di riassumere in rapida sintesi una riflessione del
Risorgimento che unificasse la concezione liberal-moderata di Omodeo e
quella democratica di Spellanzon, pur in una visione sempre
etico-politica della storia. In Pensiero e azione del Risorgimento,
individuata nella circolazione delle idee del '700 europeo la matrice del
processo risorgimen- tale, Salvatorelli superava sue precedenti
incertezze inter- pretative ripercorrendone le tappe attorno al nesso
di « pensiero e azione », che vedeva per la prima volta in- carnato
dai giacobini italiani, per passare poi nell’inse- gnamento di Mazzini e
spiegare la « funzione capitale » svolta dal Partito d’Azione. Pur
contestando la sottovalu- tazione di Cavour e l’unico punto — relativo
alla rivolu- zione del 1848 — in cui l’autore accennava al problema
sociale — e il recensore sottolineava la « difettosa impo- stazione
etico-giutidica di tutti i moti socialistici » —, Omodeo poteva salutare,
su « La Critica » del 20 luglio 1943, « un’opera meritoria » nella dura
polemica contro « certi indirizzi semi-camorristici che con la prepotenza
han preteso imporre risultati prestabiliti alla ricerca storica »;
e Curiel inviterà a leggere il volume, perché metteva in luce « le forze
progressive della democrazia, indicandone le insufficienze per cui il
moto rivoluzionario per l’unità d’Italia sboccò nel compromesso
monarchico e nel pseudo- liberalismo antidemocratico » *”. Infatti dalla
ricostruzione ._ 29 «La Civiltà cattolica», 93 (1942), vol. IV, p.
252; Pieri in « Nuova rivista storica », XXVII (1943), p. 143; Morandi in
« Primato », III (1942), p. 179. Cfr. anche, più tardi, la recensione di
Bianca Ceva ne « «La Nuova Italia », XIV (1943), n. 7-12, pp.
88-90. «La Critica », XLI (1943), pp. 219-221; E. Curiel, Scritti
1935- 1945, cit., vol. II, p. 229 (segnalazione sul « Bollettino del
Fronte della gioventd » del febbraio 1944). Anche Carlo Morandi, pur non
condivi- dendo alcune osservazioni particolari di Salvatorelli, ne
sposava comple- storiografica — che arrivava ad accennare alla
crisi del dopoguerra, pur senza nominare il fascismo — Salvatorelli
faceva scaturire nella pagina conclusiva un chiaro messag- gio politico,
invitando a « non subire le deformazioni e i traviamenti delle visuali
nazionalistiche »; ma a « preser- vare la libertà di pensiero e d’azione,
guardare dall’alto e lontano, ascoltare e riflettere, preparare e
costruire, se- condo le direttive di principio espresse dalla
coscienza storico-morale dell’umanità, in cammino verso la sua meta
divina: la pienezza di vita dello spirito nella fraternità universale »
*! A valori umani e civili non confinabili in un ambito
nazionalistico intendeva ispirarsi anche la nuova collana « Universale »
che cominciò a uscire nel 1942 sotto la direzione di Muscetta, invitato
dall’editore ad accelerarne i tempi di pubblicazione « di fronte alle
minacce di con- correnza che si annunziano da varie parti » ®*”, Il 15
giugno 1942, infatti, « Primato » presentava con soddisfazione l'uscita
di due collane « universali » ritenute necessarie, in quanto « fra le
caratteristiche di questa guerra, gli sto- rici ricorderanno anche la
fede nei valori della cultura, l'ardente bisogno di dissetarsi alle
sorgenti di vita eter- na » ®*: la « Corona » di Bompiani e la collana
einau- diana, cui avrebbe fatto seguito, nel 1943, la « Meridiana »
di Sansoni, con volumi il cui piccolo formato era imposto tamente
la tesi generale sulle origini non autoctone del Risorgimento, legate
alla Rivoluzione francese (La polemica sul Risorgimento, in « Pri- mato
», IV (1943), 1-15 agosto, pp. 267-268). %! L. Salvatorelli,
Pensiero e azione del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1943 (finito di
stampare il 18 marzo), p. 222. 302 Einaudi a Muscetta, 23 marzo
1942 (AE, Muscetta). La discus- sione sulle caratteristiche della nuova
collana fu assai vivace nell’autunno del 1941, quando l’editore pensava
di suddividerla in due sezioni, una « Biblioteca classica universale »,
dove avrebbe potuto apparire l'Aesthetica in nuce di Croce, e una «
Biblioteca moderna universale »: cfr. G. Pintor, Doppio diario, cit., pp.
157, 163; Muscetta a Einaudi, 29 ottobre 1941 (AE, Muscetta); Einaudi ad”
Alicata, 27 ottobre 1941 (AE, Alicata). 303 Vice, Il problema delle
« Universali », in « Primato », III (1942), p. 233. A proposito della
nuova collana, il redattore capo della rivista, Giorgio Cabella, il 20
maggio 1942 scriveva a Einaudi: « Non mancherò di farne parlare su
“Primato” con quella cura e attenzione che abbiamo sempre usato per le
Vostre pubblicazioni e che questa collezione merita » (AE,
Cabella). 314 Le origini della casa editrice
Einaudi anche da un dato oggettivo, la carenza di carta. Da
parte fascista si cercò di cogliere in queste iniziative la prova
di un sostegno della cultura alla « guerra italiana », « come se lo
spirito — affermava Lorenzo Gigli in un articolo della « Gazzetta del
popolo » fatto proprio da « Primato » — voglia in pieno conflitto
proclamare e dimostrare il rag- giunto grado della sua emancipazione e
sottintendere fin d’ora un impegno fondamentale nel processo
ricostruttivo di tutti i valori morali e materiali che seguirà alla
conqui- stata indipendenza politica ed economica della Nazione come
frutto della guerra vinta » ®*. La nuova collana di Einaudi si presentò
tuttavia, fin dall’inizio, come espres- sione di un rinnovamento
culturale della casa editrice, che intendeva ora allargare il suo
pubblico con volumi agili e a basso prezzo — non è un caso che dai 29 volumi
del 1941 si balzasse ai 53 del 1942, per attestarsi sui 41 nel
1943. Anche se l’annuncio editoriale era necessariamente ambi- guo
— la collana « non vuole assecondare diffuse abitu- dini culturali, ma
orientare il pubblico secondo un gusto italiano, aperto alle esperienze
moderne, ma sempre viva- mente sensibile alla nostra secolare tradizione
umanisti- ca » ® —, il giudizio espresso nel dopoguerra, nella fase
di preparazione di « Politecnico biblioteca », da Vitto- rini, al quale
la vecchia « Universale » appariva « com- promessa dalle inclusioni di
opere esplicitamente reazio- narie » **, non solo prescinde dalla
necessaria collocazione storica dell’iniziativa, ma risulta anche
inesatto, e oppor- tunamente contraddetto da Concetto Marchesi che,
all’u- 30 Vice, Calendario, in « Primato », III (1942), p.
292. 305 Cit. da C. Cordiè in « Leonardo », XIII (1942), p.
135. 36 Vittorini a Einaudi, 3 luglio 1945, in E. Vittorini, Gli
anni del « Politecnico ». Lettere 1945-1951, a cura di C. Minoia, Torino,
Einaudi, 1977, p. 8. Nella comunicazione a Einaudi di un colloquio
avvenuto il 4 luglio 1945 tra Vittorini e Pavese a proposito dell’«
Universale », si dirà che Vittorini «intende aprire la collezione a
moderna letteratura progressiva — sia creativa sia polemica — la quale
escluderebbe natural- mente molti titoli che in passato entrarono nella
collezione. Treifschke e Novalis non possono sopravvivere quando entri,
cosî per dite, il teatro di Saroyan, la poesia di Toller, la polemica di un
oratore sovietico. A Pavese pare che possano » (AE, Corrispondenza
editoriale Torino-Roma 1945). 315
scita dei primi volumi della collana, lodava Einaudi per aver « fatto
entrare la sua attività editoriale nella storia della nostra cultura
italiana che tanti maltrattamenti e oscuramenti ha dovuto sopportare »
*” Ciò non significa che non siano numerosi titoli pura-
mente letterari non inquadrabili nelle finalità di un orien- tamento
politico, prima e dopo il 25 luglio, o che non fossero scartate proposte
di testi più incisivi da questo punto di vista **. Ma è bene ricordare
che alcune esclusioni sono da attribuirsi alla necessità di un
compromesso con la censura: « Bottai potrebbe dire una parola a Pavolini
— scriveva l’editore a Muscetta l’8 aprile 1942, rivelando un rapporto
privilegiato con il ministro dell’Educazione nazionale — [...]. Noi
faremo molti italiani e quindi anche qualche straniero [...]. Accetteremo
nello svolgimento del piano i loro consigli, e sospenderemo nel caso
qualche vo- lume che può essere inopportuno. Ma occorre che anche
loro collaborino con noi » *°. E tuttavia Einaudi poteva a buon diritto
scrivere ad Arrigo Benedetti che con l’« Uni- versale » gli pareva di
venire incontro « a un vero bisogno della nostra cultura nazionale. Tengo
molto a che questa collezione non passi per un tentativo di
volgarizzamento di cui non si sentiva affatto la necessità, ma per un
con- tributo fattivo a un riesame serio e consapevole del patri-
monio culturale universale. In quest'ultimo senso vorrei appunto che
fosse inteso l’attributo della mia collezio- 30? Marchesi a
Einaudi, 23 maggio 1942 (AE, Marchesi). 308 Per i vari progetti di
pubblicazione cfr. AE, Muscetta. Fra i testi non realizzati figurano: La
rivoluzione e i rivoluzionari in Italia di Ferrari, affidato nel giugno
1942 a Mario Ceva e poi, nell’ottobre, a Cantimori AE, M. Ceva,
Cantimori); i Pensieri politici di Vincenzo Russo scartati dall’editore
che, d'accordo con Alicata, accantonò anche il progetto di pubblicazione
del saggio sulla libertà di Labriola — non sappiamo se quello Della
libertà morale del 1873 o quello Del concetto della libertà del 1878 —,
in quanto «le osservazioni interessanti per lo sviluppo futuro del suo
pensiero sono appena marginali; siamo ancora in piena disqui- sizione
psicologistica herbartiana, priva di interesse per noi» (lettere a
Muscetta del 24 agosto 1942 e ad Alicata del 26 agosto 1942, in AE,
Muscetta, Alicata). Il 25 giugno 1943 Ginzburg inviava il sommario di
un’antologia di scritti di Cattaneo (AE, Ginzburg). 39 AE,
Muscetta. 316 Le origini della casa editrice
Einaudi ne » *°. In effetti, le finalità di apertura cosmopolitica
della collana vennero rispettate, se dal 1942 al 1946 i titoli ita-
liani risultano solo 17 su un totale di 69, di cui 5 su 10 nel 1942 e 7
su 19 nel 1943; e le prefazioni, stringate ma spesso assai incisive,
furono affidate in molti casi a intel- lettuali antifascisti, anche se
non tutti quelli contattati, come Marchesi, poterono rispondere
all’appello. Cosi, mentre i Canti del popolo greco di
Tommaseo assumono oggettivamente, all’inizio del 1943, un signifi-
cato politico, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, da tempo
segnalata da Pavese che vi vedeva « un meraviglioso mondo che ci parve
qualcosa di più che una cultura: una promessa di vita, un richiamo del
destino », suggerisce alla curatrice, Fernanda Pivano,
l’osservazione che « solo le anime semplici riescono a trionfare
nella vita » *!, E Ginzburg, se ne La sonata a Kreutzer di Tol-
stoj indicava i motivi artistici come prevalenti su quelli sociali,
terminava la prefazione a La figlia del capitano ricordando l’epigrafe di
Puskin — « tieni da conto l’onore fin da giovane » ?* —, mentre
presentando Cristianità 0 Europa di Novalis Mario Manacorda metteva in
luce la « statolatria reazionaria » dell’autore, che
trasferisce allo stato « etico », nazionale e monarchico, quei compiti
ideali di civiltà che l’illuminismo assegnava allo stato razionale e
cosmopolitico, e, confondendo evidentemente stato e società, dà una
cattiva versione romantica dell’esser cive quando afferma che « il più
umano dei bisogni è quello di uno stato » e predica la necessità che lo
stato sia dovunque visibile anche nei distintivi e nelle uniformi 313.
310 Einaudi a Benedetti, 16 maggio 1942 (AE, Benedetti). La scelta
delle novelle di Maupassant fatta da Benedetti non ottenne il nulla osta
della censura per l’inclusione di quelle riguardanti la guerra del 1870
(Alicata all'editore, 30 marzo e 24 giugno 1942, in AE, Alicata); il 30
luglio 1943 l’editore scriveva a Benedetti: «Facciamo subito il Mau-
passant. Dovresti tradurre le novelle di guerra escluse in un primo tempo
» (AE, Benedetti). 311 E. Lee Masters, Antologia di Spoon River, a
cura di F. Pivano, Torino, Einaudi, 1943, p. XII; C. Pavese, La
letteratura americana, cit., p. 64. 32 Ora in L. Ginzburg,
Scritti, cit., pp. 153, 289. 313 Novalis, Cristianità o Europa, a
cura di M. Manacorda, Torino, Einaudi, 1942, pp. XII-XIII.
317 Accenti antigentiliani, non privi talvolta di
risvolti politici, sono avvertibili anche nella presentazione di
molti letterati e uomini politici italiani dell’800: accanto alla
valorizzazione del cristianesimo di Capponi, ritenuto da Umberto Morra «
più vivo » di quello manzoniano *!, o all’inclusione di esponenti
moderati del Risorgimento cari alla concezione liberale di un Luigi
Einaudi o di un Omo- deo, come Cavour — di cui Cantimori cura una
scelta dei Discorsi parlamentari sottolineandone il realismo poli-
tico *° —, appaiono autori propri della genealogia risorgi- mentale di
Gentile — Cuoco, Foscolo o Alfieri —, ma profondamente rivisitati.
Significativo non solo in questo senso, ma anche come una sorta di
manifesto di tutta la collana, è il primo titolo pubblicato, le Ultizze
lettere di Jacopo Ortis, che offriva a Muscetta l’opportunità di
far proprie le affermazioni pacifiste di un commentatore di Foscolo
— « Un popolo non deve snudare la spada se non per difendere o
conquistare la propria indipendenza. Se attacca i vicini per aggiogarli,
si disonora; se invade il loro territorio col pretesto di fondarvi la
libertà, o è ingannato o s’inganna » —, e di riproporre la
concezione democratica e antitirannica espressa in « pagine dimen-
ticatissime » da Cattaneo, per il quale Foscolo fu il primo a
gettare in Italia quella vanissima sentenza, che il « rimedio vero sta
nel riunire in una sola opinione tutte le sètte ». È idea chinese, idea
bizantina; e per essa la Grecia, sf feconda quand'era piena di sètte,
giacque per mille anni nel letargo della sepolcrale ortodossia bizantina.
Ogni setta che invoca questo sofisma intende solo imporre silenzio alle
altre tutte, fuorché a se stessa, e regnare unica e sola3!.
314 G. Capponi, Ricordi e pensieri, a cura di U. Morra, Torino, Einau-
di, 1942, p.X. 315 C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, a
cura di D. Cantimoti, Torino, Einaudi, 1942, p. XII. Scrivendo a Finaudi
il 28 aprile 1943, Ragghianti giudicava alcune note di Cantimori «
tendenziose, con un profu- mino di “marxismo” aggiornato, che dà noia »
(AE, Ragghianti). 316 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a
cura di C. Muscetta, Torino, Einaudi, 1942, pp. XIV-XV. «La Civiltà cattolica
» noterà che l’opera di Foscolo era posta all'Indice (a. 94, 1943, vol.
II, p. 388). Nel 1943 Manlio Mazziotti presentava Il Congresso di Vienna
(1814-1815) di Heinrich von Treitschke affermando che per l’autore lo
Stato era forza, 318 Le origini della casa editrice
Einaudî 10. I quarantacinque giorni, la Liberazione e il
Fronte della cultura Entusiasmo e frenesia di iniziative
contraddistinguo- no il periodo immediatamente successivo alla caduta
di Mussolini, quando ai tentativi di acquisire il controllo su un
giornale — già il 26 luglio, quando « Roma vive il primo giorno di
libertà », Muscetta invitava Einaudi a « metter le mani » su « Primato »
*” — si aggiungono a ritmo serrato, fino all’8 settembre, proposte di
nuovi vo- lumi e collane, destinate per la maggior parte ad essere
definitivamente accantonate o sospese fino alla Liberazione, non solo per
l’incertezza della situazione politica generale. Inizia infatti un
processo di riassestamento della casa edi- trice di non facile soluzione
— tanto che si ripresenterà, aggravato, dopo il 25 aprile 1945 —, dove ai
problemi ma che «una forza che calpesta ogni diritto deve
finalmente andare in rovina, perché nel mondo morale nulla si regge che
non abbia virtî di resistere » (p. IX). 7 AE, Muscetta.
Intense furono le trattative per l'acquisto di altri Genta Si pensò, da
parte di Muscetta e Ginzburg, a « La Ruota » da trasformare in
settimanale sotto la direzione di Mario Vinciguerra (AE, Vinciguerra, 30
agosto 1943; Muscetta, 11 agosto 1943), anche se Pintor affermava: «
Resta da decidere se l’acquisto di una rivista in questo mo- mento e con
le prospettive oscure che ci attendono sia un gesto oppor- tuno e resta
da fissare l’indirizzo politico della rivista. Un uomo come Vinciguerra,
degnissimo ma ufficialmente legato a un partito, non mi pare il più
adatto per la direzione » (AE, Pintor, 9 agosto 1943). Vi furono
trattative anche per « Il Lavoro italiano », per cui Pintor entrò in
contatto con Piccardi che non voleva — scriveva Pintor a Einaudi — «
affi- darlo a elementi troppo di destra, dato che si tratta del
Quotidiano dei Lavoratori. Temeva che tu avessi le idee di tuo padre»
(AE, Pintor, 30 luglio 1943; Muscetta, 18 agosto 1943). Per la « Gazzetta
del popolo », che Einaudi avrebbe voluto affidare alla direzione di
Felice Balbo, si chiese l'appoggio di Bonomi presso l’IRI, ma Pintor non
riuscî a convin- cere Menichella che — comunicava all’editore — « vede
nerissimo, pre- vede il regno dei grossi capitalisti e un attacco in
grande stile contro l’IRI. La “Gazzetta del popolo” come la faremmo noi
costituirebbe una provocazione contro i pescicani e affretterebbe la
catastrofe » (AE, Pintor, 3 e 31 agosto 1943; Bonomi, 31 luglio 1943). Il
18 agosto 1943 Einaudi scriveva ad Alicata: «Il periodico di educazione
popolare che saluterei con simpatia, sarebbe quello che votrei faceste tu
e Vittorini [...] questo dovrebbe essere il giornale spregiudicato e
vivo, dei tempi nuovi [...] qui tutte le manifestazioni della vita,
politiche ma sovratutto di costume dovrebbero essere rappresentate » (AE,
Alicata). 319 organizzativi si
intrecciano le divergenze fra i collabo- ratori, che acquistano ora
rilevanza politica. Il 21 luglio 1943 Einaudi riteneva « necessario
l’accentramento in Piemonte dei servizi relativi al funzionamento
worzzale della casa editrice », mentre nell’agosto incaricava Ginz-
burg, liberato dal confino, di dirigere la sede romana *: ed è da questa,
dove nell’agosto è presente anche Franco Venturi, che scaturisce una
forte pressione degli azionisti — nelle loro diverse componenti, dai
liberalsocialisti ai « crociani » — che cercano di condizionare a loro
favore le scelte editoriali. Il senato romano (presenti
Ginzburg, Muscetta, Pintor, Giolitti, Venturi) — scriveva Muscetta a
Einaudi il 7 agosto 1943 — ha discusso e progettato, ad unanimità, una
collezione di attualità poli- tica, a cui si darebbe il nome di «
Orientamenti ». Suggerisce di pubblicare, preferibilmente a Roma, per
ovvi motivi, una serie di volumetti formato « universale » [...]. Come è
chiaro dalla parola « Orientamento » la collana dovrebbe accogliere
scritti delle pi serie tendenze odierne per illuminare il pubblico sulle
condizioni reali dell’Italia e dell'Europa, per disegnare delle
prospettive di concreta ricostruzione politica, per offrire dei
contributi al chiari- mento dei più urgenti problemi, non esclusi quelli
ideologici 39, Ma le proposte concrete privilegiavano un
indirizzo azionista della collana, prevedendo i saggi di Guido
Calo- gero su Giustizia e Libertà — dall’ambizioso sottotitolo «
breviario di politica » —, di Altiero Spinelli sull’unità europea, di
Manlio Rossi Doria sul problema agrario in Italia, quello sul
Risorgimento che Ginzburg stava prepa- rando dalla primavera del 1943, e
una storia del socialismo di Franco Venturi. Queste proposte — di cui si
fece porta- tore, pur con riserve su Calogero, anche Pintor? —
LI 318 Disposizioni di Finaudi per la sede romana del 21
luglio e del- l’agosto 1943 (AE, Corrispondenza editoriale Roma-Torino
1941-1944). 319 AE, Muscetta. 320 AE, Pintor (7 agosto
1943). Fra le altre proposte « romane », Dal socialismo al fascismo di
Bonomi (già edito da Formiggini), Synthèse de l'Europe di Sforza, La
terreur fasciste di Salvemini, il Pisacane di Ros- selli e la traduzione
— da affidare a Franco Rodano — de Les sources et le sens du communisme
russe del pensatore religioso, ex-marxista e ora antisovietico, Nikolaj
A. Berdjaev (AE, Corrispondenza editoriale Roma-Torino 1941-1944, 30
luglio e 30 agosto 1943), un’opera che sarà 320 Le
origini della casa editrice Einaudi furono respinte dal gruppo
torinese, che invece approvò la ristampa di Nazionalfascismo di
Salvatorelli, un’antolo- gia di scritti di Gobetti che avrebbe dovuto
curare Carlo Levi, un volume di Mario Vinciguerra — Storia di cento
anni (1848-1948) —, e la richiesta a Guido Dorso di pre- parare una
biografia di Mussolini *. Un netto e signifi- cativo rifiuto riceve
invece, a Torino, la proposta di racco- gliere gli scritti politici di De
Sanctis — il suggerimento, tramite Muscetta, era arrivato da Croce # —,
mentre viene lasciata aperta la possibilità di pubblicare Guerra e
dopo- guerra di Giacomo Perticone, una storia della « crisi della
coscienza politica italiana tra il 1914 e il 1922 » ritenuta interessante
da Antonio Giolitti, che suggeriva l’eventuale opportunità di una
collezione specifica che potrebbe pre- sentarsi come « Contributi alla storia
del fascismo », intendendo naturalmente il fascismo in senso lato, come
crisi, per dir cosî, della democrazia nazionale italiana; e allora
rientrerebbero in quei contri- buti anche le indagini sulla storia
dell’Italia dopo il 1870 le quali sappiano vedere il fascismo già latente
in certi aspetti della vita politica dello Stato italiano, e non lo
considerino soltanto come un mostro emerso improvvisamente da chissà
quali profondità, o come la criminosa avventura di un gruppetto di
sopraffattori: un’indicazione di ricerca che superava la visione
crociana della « parentesi », ma che sarebbe stata raccolta molto
tardi dalla cultura storiografica italiana, anche se Einaudi si dimostrò
interessato alla proposta, cui cercherà di dar seguito dopo il 1945
®. Di fronte alle posizioni del « senato romano » — di-
tradotta nel 1944 da Giacomo Perticone (Roma, Edizioni Roma); di
Berdjaev Laterza aveva tradotto nel 1936 Il cristianesimo e la vita
sociale, mentre Finaudi pubblicherà nel 1945 La concezione di
Dostojevskij. 321 Cfr. C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 721
(13 agosto 1943); AE, Pavese (11 agosto 1943), Vinciguerra (7 agosto
1943). 322 Muscetta a Pavese, 19 agosto 1943 (AE, Pavese); «Qui
ognuno di noi si infischia sia del Perticone, sia degli scritti politici
di De Sanctis », si rispose da Torino il 21 agosto 1943 (AE,
Muscetta). 323 Giolitti a Einaudi, 24 agosto 1943 (AE, Giolitti);
«si potrà discutere la proposta di Giolitti in merito a una collezione
critica sul fascismo », scriveva Einaudi a Pintor il 25 agosto 1943 (AE,
Pintor); e Pintor era favorevole: cfr. la lettera del 24 agosto a Pavese
(in C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 730). 321
viso al suo interno tra azionisti da un lato, Pintor e
Giolitti dall’altro — e di un Pavese, « nauseato
dall’indaffaramento politico della casa editrice » ’*, Pintor si
dimostrava preoc- cupato dell’unità dell’indirizzo editoriale: il 7
agosto 1943 scriveva a Einaudi che « le possibilità di “rottura” si
ac- centuano e che la crisi può intervenire da un momento all’altro
», occasionata originariamente dal « breviario poli- tico » di Calogero;
« le varie discussioni — aggiungeva il 9 agosto — hanno messo in evidenza
un problema che doveva inevitabilmente maturare. Non si tratta pit cioè
di dissensi personali che hanno sempre alimentato l’attività della
casa, ma di un contrasto di posizioni, che secondo me non è insanabile,
ma che deve essere chiarito se non vogliamo che diventi un elemento
pericoloso di erosio- ne » ?5, Da queste preoccupazioni scaturisce il
deciso inter- vento di Einaudi che provoca il naufragio della
collana « Orientamenti » considerata la « provvisorietà
dell’inizia- tiva » **, e punta su Ginzburg — liberato il 26 luglio
dal confino — e Alicata — uscito dal carcere il 7 agosto — come
elementi moderatori delle diverse posizioni: tu avrai di fronte —
scriveva ad Alicata il 18 agosto 1943 — [...] una persona che ha dato
prova di grande serietà morale, e di w245- sima comprensione per tutte le
idealità politiche degne di questo nome. Ritengo che tu possa lavorare
con Ginzburg amichevolmente 324 Pavese a Pintor, 23 agosto 1943
(C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 728). 325 « In
particolare — aggiungeva Pintor il 9 agosto —, per “Orien- tamenti”,
nonostante l’unanimità proclamata da Muscetta, io avrei diverse riserve:
vorrei che si tenesse conto del programma originario di Balbo e vorrei
che fosse consultato Vittorini »; e il 16 agosto scriveva a Einaudi: « Il
mio atteggiamento personale è molto conciliante: il clima di lotta
parlamentare che si è creato a Roma mi dà parecchio fastidio e non vorrei
assolutamente che si riproducesse nel lavoro della casa » (AE, Pintor).
32% Einaudi ad Alicata, 18 agosto 1943 (AE, Alicata). La decisione
di Einaudi parve «discutibile » a Pintor: «In questo modo si sfugge
al primo problema posto dal coesistere delle diverse tendenze:
l’accordo deve essere ottenuto attraverso una rigorosa selezione delle proposte
[...], ma è indispensabile che la casa editrice segni il passaggio a una
nuova fase uscendo dagli schemi delle vecchie collezioni e affrontando
coraggio- samente l’attualità. A questo non bastano i progetti di
giornali e riviste che cominciano a diventare invadenti ma occorre che si
faccia qualcosa di nuovo anche nel campo editoriale » (a Einaudi, 19
agosto 1943, in AE, Pintor). 322 Le origini
della casa editrice Einaudi e con rapidità di decisione [...].
Comunque la funzione di Ginzburg, in quanto collaboratore della casa, più
che di difensore di principi diversi è quella di moderatore, anche nei
riguardi della corrente che a lui può sembrare faccia capo. Tu usa con
lui, collaborando alla casa, altrettanta moderazione, sia pure con
intransigenza, in modo da arrivare nel nostro Senato anziché alla
disgregazione temuta da Pintor, alla collaborazione spontanea ?7,
In questa situazione, fatta di contrasti e di incertezze, cui si
aggiungerà dopo 1’8 settembre la dispersione dei col- laboratori e la
sostituzione di Giulio Einaudi — che si rifugerà in Svizzera — con il
direttore dell’ISPI Pierfranco Gaslini e il commissario prefettizio Paolo
Zappa, con i quali resta in contatto Muscetta, l’attività della casa
edi- trice conosce, nel 1943-44, una stasi, anche se viene dato
esito ad alcuni progetti precedenti. Non vengono pub- blicati,
ovviamente, i testi più politicizzati suggeriti dalla sede romana e
accettati a Torino, cosi come resta ine- dito E il gallo cantò di Augusto
Monti che, scriveva l’au- tore, « pur trattando di casi relativamente
remoti, è del- la più viva attualità, tanto che potrebbe avere per
sotto- titolo: origini del fascismo e dell’antifascismo » ®*. Nella
« Biblioteca di cultura storica » esce solo, nel 1944, La politica
italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto di Bono- mi *’, mentre nei «
Saggi » alle Riflessioni di Montesquieu curate da Leone e Natalia
Ginzburg per venire incontro a « un rinnovato interessamento per certi
valori umani, pro- clamati dagli uomini del Settecento, e poi a lungo
negletti 3 AE, Alicata. Ma era necessario tener conto, scriveva
Pintor a Einaudi il 31 agosto 1943, che Alicata «è preso da un'attività
quanto mai turbinosa e che negli ultimi giorni si è occupato quasi
esclusivamente di fare arrestare fascisti sediziosi » (AE, Pintor);
perciò l’editore scriveva a Ginzburg il 4 settembre: «La sua richiesta di
sostituire Giolitti ad Alicata nel Comitato Politico mi pare utile.
Giolitti dovrebbe essere una specie di supplente al quale Alicata delega,
quando è impossibilitato a partecipare alle riunioni, il mandato di voto
» (AE, Ginzburg). 328 Monti a Einaudi, 15 agosto 1943 (AE,
Monti). 329 Di Bonomi non fu invece pubblicato Dd/ socialismo al
fascismo, cui si dichiararono contrari Pavese, Balbo, Venturi e Ginzburg,
favorevoli Pintor e Giolitti: cfr. Pavese a Muscetta, 13 agosto 1943 (C.
Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 721), e Muscetta a Pavese, 11 agosto
1943 (AE, Pavese). da un troppo unilaterale storicismo » *°, fa da
contrap- punto, nel 1943, la pubblicazione delle Memorie di Met-
ternich in cui Gherardo Casini sottolinea l’« orrore » del cancelliere
austriaco per la Rivoluzione francese e la sua testimonianza « sul sangue
che è corso per le piazze di Francia, sulle violenze che hanno reso
esecrabile questo evento, sulla brutalità con cui sono stati incrinati e
calpe- stati i fondamenti dell’ordine » *!, Nell’unica collana che
conserva una certa vitalità, anche per il minor costo che richiedeva, 1’«
Universale », accanto a numerosi testi più propriamente letterari ne
appaiono altri segnati da un chiaro, anche se non univoco, impegno
civile: alla presen- tazione simpatetica del « buon senso » che traspare
dagli Opuscoli politici di D’Azeglio fatta da Vittorio Gorresio **,
si accompagna il Manoscritto di un prigioniero del mazzi- niano Carlo
Bini, di cui Goffredo Bellonci illustra la conce- zione del Risorgimento
come rivoluzione sociale capace di eliminare « le ineguaglianze materiali
» **; nel Della tiran- nide di Alfieri Massimo Rago coglie « uno spirito
veramente rivoluzionario » che cerca di « dar risalto alle forze
che ostacolano l'affermazione della libertà, e questo chiarimento
suona come un invito ad una più accurata osservazione delle esperienze
sociali » *4; mentre presentando Conquista e usurpazione di Benjamin
Constant Franco Venturi osserva come soltanto Jaurès e Mathiez avessero
insegnato a vedere nella Rivoluzione francese « il nostro moderno
problema di una rivoluzione sociale alle sue origini », come tale
non compreso da Constant, di cui per altro è esaltato il libera-
lismo che si manifesta nel « chiudere [...] la rivoluzione, ma non per
negarla: per salvarne i principi rinati dall’espe- 330 Ch. De
Montesquieu, Riflessioni e pensieri inediti 1716-1755, a cura di Leone e
Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1943, p. XIV. 331 C. von
Metternich, Merzorie, a cura di G. Casini, Torino, Einaudi, 1943, pp.
XII-XIII. 332 M. D'Azeglio, Opuscoli politici, a cura di V.
Gortresio, Torino, Einaudi, 1943, p. XVI. 333 C. Bini,
Manoscritto di un prigioniero, prefazione di G. Bellonci, Torino,
Einaudi, 1944, p. XIII. 334 V. Alfieri, Della tirannide, a cura di
M. Rago, Torino, Einaudi, 1943, pp. IX, XVI. r 324
Le origini della casa editrice Einaudi rienza delle
assemblee e del terrore » * L’unico elemento di novità, n@ il 25
luglio, è. È « Collana di cultura giuridica » ‘diretta da Norberto
Bob- bio — uno dei primi collaboratori di Einaudi, la cui firma era
apparsa anche ne « La Cultura » —, che già nel giugno 1943 era venuta
configurandosi come distinta dal progetto di una collana filosofica
formulato, come vedremo, nel 1941. Pavese gli comunicò la proposta di
Manlio Maz-. ziotti di una « collezione di classici del diritto, la
quale servirebbe a svegliare il sonno dogmatico dei giuristi ita-
liani, i quali credono che la loro scienza consista nell’inter-
pretazione e non nella creazione della legge », e Bobbio rispose di
essere anch’egli convinto che « nel campo de- gli studi giuridici ci sia
molto da fare per la diffusione di. una cultura seria e creatrice: dalla
scuola del diritto naturale ai grandi giuristi tedeschi del secolo
scorso; dalla moderna sociologia giuridica alla dottrina pura del
Kelsen. Che io sappia non è stata mai tentata in Italia un ‘impresa
del genere, che raccolga con un certo ordine e con inten- dimenti
culturali, e non tecnici, opere d’argomento giuri- dico », a parte i «
Classici del diritto » di Formiggini, fer- matisi tuttavia nel 1933 al
primo volume, I difetti della giurisprudenza di Muratori **
Coadiuvato da Antonio Giolitti, Bobbio cercò di dar vita alla
collana con due opere già da lui preparate nel 1942 per la « Biblioteca
di cultura filosofica » *#’: nel 1943 appare il Giovazni Althusius di
Otto von Gierke, il conti- nuatore della scuola storica di Savigny che
considerava il 335 B. Constant, Conquista e usurpazione,
prefazione di F. Venturi, Torino, Einaudi, 1944, pp. 9-10. Già proiettato
esplicitamente nel futuro è il commento a E. Quinet, La repubblica, a
cura di E. Lussu, Torino, Einaudi, 1944, dove si afferma che gli italiani
sono «arretrati d’un secolo, ché tutti i fondamentali problemi di
democrazia che il Risorgi- mento poneva sono rimasti insoluti », e che
«in Italia, dopo la disfatta del 1920-22, che ha in comune con quella
francese del 1848 solo l’imma- turità politica e non l’epopea, la classe
operaia va lentamente ricompo- nendo le sue forze e maturando
l’esperienza del passato, conscia del compito ch’essa è chiamata ad
assolvere » (pp. VII, X). 36 Pavese a Bobbio, 23 giugno 1943, e
Bobbio a Einaudi, 29 giugno 1943 (AE, Bobbio). . ? Bobbio a
Einaudi, 15 novembre 1942 (AE, Bobbio). 325
diritto come « espressione della coscienza del popolo », e con lo
studio del giurista Althusius aveva seguito « la via attraverso cui il
pensiero moderno è passato per elaborare quei concetti da cui è uscita la
concezione dello Stato di diritto, tanto più oggi preziosa — scriveva
Bobbio —, quanto più minacciata, e tanto più viva quanto più con-
dannata dagl’impazienti, dai fanatici, dagli indotti di tutte le fazioni
» **. Nel 1945 seguirà La fondazione della filo- sofia del diritto di
Julius Binder, « il più intransigente e for- tunato assertore della rinascita
hegeliana in Germania », la cui opera, osservava Bobbio, serviva a
scagionare la filo- sofia italiana recente dall’accusa di provincialismo,
« qua- lunque sia poi il giudizio che si voglia formulare sul neo-
hegelismo italiano, al quale peraltro non si potrà discono- scere il
merito di aver tenuto il pensiero italiano lontano da quegli stessi
estremi dell’intellettualismo e dell’intuizio- nismo » contro cui
combatté Binder *’, Ma dopo questi due titoli — che venivano ad allargare
ulteriormente i già nu- metosi interessi della casa editrice — la collana
perderà i suoi connotati per trasformarsi nel 1950 in « Biblioteca
di cultura politica e giuridica », nonostante gli sforzi di Bobbio
di mantenerle l’identità originaria, convinto, come scriveva nel 1945,
che « in un momento in cui è diventato argo- mento di pubbliche e private
discussioni il rinnovamento delle istituzioni giuridiche tradizionali,
dalla proprietà allo stato, dall’eredità al sistema penale, si ridesta
l’interesse per i problemi del diritto e nello stesso tempo si rivela
la ignoranza degli stessi da parte dei più », per cui la collana
poteva giovare « anche agli specialisti, i quali, abituati a ripetere le
solite formule senza ripensarle, ignari per lo più 338 O. von
Gierke, Giovanni Altbusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche
giusnaturalistiche. Contributo alla storia della sistematica del diritto,
a cura di A. Giolitti, Torino, Einaudi, 1943, pp. VIII, X. 339 J.
Binder, La fondazione della filosofia del diritto, traduzione di A.
Giolitti, Torino, Einaudi, 1945, pp. VII, IX-X. In «Società» si nota
comunque che Binder finisce, come Hegel, col fondare « una metafisica
dello Stato e della storia », e si ricorda che in altre sue opere « lo Stato
nazionalsocialista viene presentato come la pit rilevante incarnazione
del- TOR a etico» (V. Palazzolo, in «Società», III (1946), pp.
235-238). 326 Le origini della casa editrice
Einaudi dei grandi movimenti giuridici stranieri, sono incapaci
di cogliere il significato universale di una tecnica, di vedere in
una formula il risultato di un determinato orientamento del pensiero »
*° La breve, intensa ma caotica esperienza dei quaranta-
cinque giorni non aveva comunque permesso di definire con precisione
quella « nuova » collocazione culturale e politica della casa editrice
sulla quale gli azionisti avevano cercato di mettere un’ipoteca. Il
problema si ripresenta quindi all'indomani della Liberazione, con una
intensità acuita dalla necessità di individuare una prospettiva di
pit lungo periodo, non più resa precaria dalle contingenze bel-
liche #. Il dibattito politico interno acquista ora rile- vanza maggiore
in quanto si intreccia con il confronto aperto e aspro fra i partiti ai
quali aderiscono vari collabo- ratori di primo piano della casa editrice,
e risente delle spinte diverse provenienti dai vari centri culturali, la
cui collocazione geografica rispecchia la variegata situazione
politica creata nel paese dalla lotta di Resistenza *°. A quelle di
Torino e di Roma si aggiunge nel 1945 la nuova sede di Milano con Elio
Vittorini, l’intellettuale che aderisce al partito comunista assieme a
Pavese, col quale aveva condi- viso negli anni ’30 l’interesse per la
letteratura americana contemporanea, cogliendovi tuttavia — a differenza
di Pavese — soprattutto quegli elementi positivi di un popolo «
nuovo » e quella conferma della superiorità della cultura sulla politica
che trasferirà ne « Il Politecnico » e in alcune iniziative della casa editrice
®. Grava sulla civiltà americana la stupidità di una frase:
civiltà 30 Appunto sulla « Collana di cultura giuridica », cui
seguono, nume- rose proposte di pubblicazione (AE, Bobbio).
31 Questa necessità era ben chiara, oltre che a Balbo — come ve-
dremo —, a Bobbio, che 1’8 luglio 1945 ammoniva Einaudi: « Mi pare che ci
stiamo lasciando tutti quanti tentare dalla seduzione dell’attualità. Ti
ripeto una frase memorabile: le case editrici si misurano a decenni, non
a mesi » (Archivio privato Bobbio). #2 Cfr. le osservazioni di E.
Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., pp. 501-502. 33
Cfr. E. Catalano, La forma della coscienza. L'ideologia letteraria del
primo Vittorini, Bari, Dedalo, materialistica. Civiltà di produttori: questo è
l’orgoglio di una razza che non ha sacrificato le proprie forze a
velleità ideologiche e non è caduta nel facile trabocchetto dei « valori
spirituali » [...]. Questa America non ha bisogno di Colombo, essa è
scoperta dentro di noi, è la terra a cui si tende con la stessa speranza
e la stessa fiducia dei primi emigranti e di chiunque sia deciso a
difendere a prezzo di fatiche e di errori la dignità della condizione
umana, aveva scritto Pintor cogliendo il messaggio di Americana
di Vittorini **. Caduti nella lotta di Resistenza Pintor e Ginzburg,
mentre Alicata si trova assorbito dall’attività politica, accanto a
Vittorini e Pavese emergono fra i colla- boratori della casa editrice
altri intellettuali comunisti, come Antonio Giolitti e Delio Cantimori, o
l’esponente del movimento cattolico-comunista Felice Balbo.
Nonostante la matrice comunista di questi intellettuali sia tutt'altro
che omogenea, tale da non impedire l’insorgere di contrasti, i
rapporti di forza interni tendono a spostarsi verso il PCI che, privo
all’inizio di propri centri editoriali, individua in Einaudi un
interlocutore privilegiato: ed è attorno al tema dell’orientamento
politico della casa editrice che nelle pagine seguenti concentreremo
l’attenzione, per cercare di coglierne alcune linee di tendenza
nell’immediato dopo- guerra, utili, nell’ambito di una ricerca che ha il
suo centro nel periodo fascista, a verificarne ulteriormente
caratteri- stiche originarie e capacità di rinnovamento. Il
10 maggio 1945 Felice Balbo, da Torino, scriveva preoccupato a Einaudi
che « anche per la Casa vale quello che vale per i partiti politici: qui
la situazione è attualmente molto spostata a sinistra e molto fluida
specie negli ambienti intellettuali per gran parte disorientati ed in
attesa di poli- tica concreta, di costume, di tecnica. Non dobbiamo
lasciarci sfuggire l’occasione favorevole perché poi le posizioni
rea- zionarie potrebbero fissarsi nuovamente » #5. Ma proposte
concrete arrivavano contemporaneamente da Milano: Il nostro programma
editoriale milanese — si scriveva sempre il 10 maggio a Einaudi —
risponde ai criteri da te stabiliti: iniziare 34 G. Pintor, I/
sangue d’Europa, cit., pp. 155, 159. 35 AE, Corrispondenza editoriale
Torino-Roma 1945. 328 Le origini della casa editrice
Einaudi la pubblicazione di una rivista di punta che dovrebbe
essere quella dal titolo « Il nuovo politecnico », organo centrale del
Fronte della Cultura, iniziativa di carattere nazionale sorta da Curiel,
Banfi, Vit- torini che ne costituiscono il comitato d’iniziativa
nazionale, il quale a sua volta si appoggerà ai vari comitati regionali
che saranno creati successivamente. Questo Fronte della Cultura è
destinato a interes- sarsi a tutti i problemi di cultura, artistici e
scientifici, per una loro rivalutazione, o superamento, da elementi
appartenenti a qualsiasi ideologia o partito ma sinceramente orientati su
un piano progressi- sta: è un fronte quindi aperto a tutto il popolo
italiano. Ma subito dopo si precisava che il bollettino del
Fronte si sarebbe occupato dello « studio alla luce del marxismo di
tutti i fenomeni e le situazioni politico-culturali », avvalen- dosi
delle collaborazioni di Vittorini, Banfi, Remo Cantoni, Giansiro Ferrata,
Pietro Zveteremich, e si accennava all’ini- ziativa di una « collana
marxista » **. L’estrazione politica dei membri del Comitato nazionale
del Fronte della Cultura ne esprimeva del resto chiaramente
l’orientamento: due esponenti del partito comunista (Banfi e Vittorini),
due rispettivamente di quello socialista e del partito d’azione,
uno (Mario Motta) per i Lavoratori cattolici *’. Einaudi, pur convinto
che « a Milano si giuoca una grande partita per noi » **, si preoccupava
tuttavia dell’insorgere di attriti fra i responsabili delle varie sedi, e
suggeriva una diversi- ficazione di funzioni fra di esse. Perciò, mentre
raccoman- dava la necessità di una « fraterna intesa fra Torino,
Mi- lano e Roma, in modo da costituire un unico fronte pro-
gressivo di cultura senza settarismi, aperto alla collabora- zione di
ogni sincero democratico », nell’impostare il pro- gramma delle riviste
del Fronte proponeva, per Roma, « Risorgimento » e « Cultura sovietica »
— dal carattere, soprattutto la prima, pit « aperto » —, una rivista di
studi meridionali per Napoli, un settimanale politico-culturale per
Milano — « Il Politecnico » — e, per Torino, un perio- dico economico, «
sui problemi della ricostruzione »: « in 36 Renata Aldrovandi a
Einaudi (AE, Corrispondenza editoriale To- rino-Roma 1945).
3? Ibidem. 38 Einaudi a Renata Aldrovandi, tal modo —
osservava — alle diverse sedi si darebbe un significato concreto di
legame tra gli intellettuali e i pro- blemi che più interessano le masse
immediatamente circo- stanti, dando un pieno significato nazionale ai
problemi che più sono sentiti nelle diverse regioni » *. Al
tempo stesso, tuttavia, il contatto con l’ambiente politico romano gli
suggeriva di correggere l'orientamento che si intendeva dare a Milano al
Fronte della Cultura: « su un piano più generale politico di lavoro —
scriveva a Vittorini il 9 luglio 1945 — tra gli intellettuali la
linea attuale come si va definendo a Roma è quella di fronte contro
i residui del fascismo, fronte nel quale si possono accogliere elementi
di partiti cosiddetti conservatori, che siano però sinceramente
antifascisti e quindi sostanzial- mente progressivi. Questa linea è meno
settaria di quella definita nell’ultima nota riunione di Milano, dove si
pen- sava in sostanza di fare un fronte delle sinistre » ®*, Era la
linea cui si ispirava il PCI, e che sarà espressa — pochi giorni dopo la
costituzione del primo governo De Gasperi — al suo V congresso (29
dicembre 1945 - 6 gennaio 1946), dove Togliatti rivolse un appello
all’unità di tutte le forze democratiche aprendo le porte del partito a
quanti ne condividessero la linea politica, « indipendentemente
dalla convinzione religiosa e filosofica », anche se Alicata si premurava
di precisare che compito degli intellettuali doveva essere la battaglia
contro l’idealismo, espressione della « cristallizzazione del
provincialismo della cultura ita- liana » !, L'indirizzo
sostenuto da Einaudi è rispecchiato fedel- mente dalle riviste edite a
Roma, in patticolare da « Risor- gimento », ma anche da « La cultura
sovietica ». Questa ultima, rivista trimestrale dell’Associazione
italiana per i rapporti culturali con l'Unione Sovietica, diretta nel
1945- 39 Einaudi a Renata Aldrovandi (e, per conoscenza, a Balbo e
Vitto- rini), 16 maggio 1945 (ibidem). 350 AE, Corrispondenza
editoriale Torino-Roma 1945. 31 Cfr. P. Togliatti, Opere scelte, a
cura di G. Santomassimo, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 452; N. Ajello,
Intellettuali e Pci 1944-1958, Bari, Laterza, 1979, pp. 62-66.
330 Le origini della casa editrice Einaudi 46
da Gastone Manacorda, si proponeva di mettere in cir- colazione quegli
elementi di conoscenza della realtà sovie- tica che erano stati impediti
dal fascismo, il quale — si ricordava nella Presentazione, alludendo
anche all’« oppo- sizione » liberale durante il regime — « andò oltre la
gros- solana propaganda calunniatrice e, studiandosi di fuorviare
gli intelletti dalla conoscenza del vero con tutti i mezzi pit subdoli, diede
diritto di cittadinanza, con benevola tolle- ranza, a tutto ciò che fosse
antisovietico anche se fuori del- l’ortodossia reazionaria » *7. E, pur
svolgendo un’opera di acritica esaltazione delle realizzazioni sovietiche
— pubbli- cando ad esempio alcune pagine de I/ sistema finanziario
dell’URSS di Michail Bogolepov che apparirà nel 1947 nelle edizioni
Einaudi —, o di passiva presentazione di opere come la Storia del partito
comunista (bolscevico) dell'URSS, della quale Manacorda faceva proprio
anche il giudizio sui « germi controrivoluzionari » presenti in Trotzki
anche quando egli era « apparentemente rivoluzionario » ®*, « La
cultura sovietica » si preoccupò soprattutto di mettere in circolazione,
tramite Ettore Lo Gatto e Angelo Maria Ripel- lino, la letteratura russa
contemporanea. Né è senza signi- ficato che l’articolo di apertura della
rivista fosse affidato a un intellettuale azionista, la cui recente
polemica con lo storicismo crociano non era priva di elementi retorici,
come Guido De Ruggiero, teso a dimostrare la necessità di « ele-
vare la politica alla cultura » per superare ogni chiusura
nazionalistica, e pronto a riconoscere che nell’Unione Sovie- tica « s'è
compiuta nell’ultimo trentennio la più profonda trasformazione che la
storia ricordi, e dal cui contatto con 352 Ma, si continuava, il
tentativo non riusci: « ognuno ricorda quale interesse quel mondo abbia
sempre suscitato da noi; come avidamente si leggesse fra le righe di
testimonianze settarie e antisovietiche, le sole cui fosse concesso il
privilegio della pubblicazione o della traduzione; come rapidamente si
esaurissero quelle poche opere, generalmente tradotte dalla produzione di
altri paesi, ispirate ad obiettività d’informazione e a serenità di
giudizio, che qualche editore coraggioso riusciva di tanto in so) a
mettere in circolazione » (« La Cultura sovietica », I (1945), « La Cultura
sovietica », I (1945), pp. 196-197. 331
la civiltà occidentale potranno scaturire altri mutamenti non meno
profondi » ** Sempre con l’intento di combattere la pretesa «
neutra- lità » della cultura, in quanto tale ritenuta anch’essa
respon- sabile della nascita e dello sviluppo del fascismo, usciva
il 15 aprile 1945, sotto la direzione di Carlo Salinari, « Risor-
gimento »: decisa a operare « dentro la mischia », la rivista voleva
essere organo non di un gruppo, ma di una tendenza, « organo di cultura
di una società aperta e progressiva », unificante intellettuali di fedi
diverse che si erano trovati uniti nella lotta antifascista °°. «
Risorgimento », scriveva Salinari a Vittorini il 25 maggio, « vuol essere
una rivista d’incontro delle correnti progressive della cultura
italiana: ma, sorta fra un cumulo di diffidenze ed energicamente
sabotata dal PdA, deve naturalmente nei primi numeri avere un carattere
un po’ vago, se vuol mantenere la sua linea e non diventare una rivista
di partito. Noi qui a Roma ci troviamo di fronte a difficoltà che voi
forse neppure concepite! »; e, nonostante Vittorini fosse invitato a «
iniet- tare nella [...] rivista del buon sangue del Nord » **, que-
35 G. De Ruggiero, Cultura e politica, in «La Cultura sovietica »,
I (1945), pp. 9-10. Su De Ruggiero, « fra le pit caratteristiche espressioni
delle ambiguità e delle incertezze degli “intellettuali” italiani della
prima metà del secolo », cfr. E. Garin, Intellettuali italiani del XX
secolo, cit., in particolare pp. 105-106. « È un fatto — si
aggiungeva — che non s'è avuta in Italia una cultura dichiaratamente
fascista e c'è chi si vanta di questa impermeabilità come di
un’anticipata condanna del fascismo. Ma la verità è che di fronte al
fascismo non bastava assumere un atteggiamento di distacco fra sde- gnoso
e prudente ma bisognava lottare apertamente in difesa di una col-
lettività spinta sempre più verso la schiaviti e la rovina »
(Presentazione, in « Risorgimento », I (1945), pp. 3-4). 35
AE, Vittorini: «Non appena potrà prendere la sua reale figura »,
continuava Salinari, la rivista avrebbe dovuto, fra l’altro, sostenere la
-«« democrazia progressiva » e l’« antinazionalismo », e « promuovere,
per quanto è possibile, una letteratura maggiormente legata alle
aspirazioni delle masse popolari». Il 9 luglio 1945 Salinari scriveva a
Vittorini di essere stato incaricato da Einaudi di «raccogliere il
materiale per il Politecnico » utilizzando l’organizzazione di «
Risorgimento », e faceva proposte di collaboratori anche se, aggiungeva,
« dubito che vi sia oggi in Italia un numero d'’intellettuali tanto
progressivi da poter alimentare una rivista del genere. Per lo meno
nell’Italia centro-meridionale » (ibi- dem). In un verbale del 6 giugno
1945 relativo ad una riunione per « Risorgimento », si dice: « Onofri
vorrebbe che la rivista si decidesse ad n 332
Le origini della casa editrice Einaudi sta mantenne il suo
carattere « vago » ed eclettico che la espose alle critiche di « Società
» *”: condizionata dalla realtà della lotta politica, che rendeva sempre
meno efficaci gli appelli all’unità della Resistenza, la rivista finî col
quinto numero del 1945, senza poter realizzare il programma pre-
visto per il momento in cui essa avrebbe potuto « prendere la sua reale
figura ». Cosi, all’articolo di apertura su L'Italia e la democrazia di
Sturzo, per il quale « chi potrà operare la rinascita e la redenzione del
proprio paese non sarà né un uomo né una classe, ma tutto il popolo
animato dal sof- fio di un ideale e dalla forza di una volontà » **,
seguiva l’Esperienza di Spagna di Togliatti; assieme alle testimo-
nianze sul fascismo e sulla Resistenza, apparvero articoli di
Salvatorelli sui rapporti Italia-Jugoslavia o su Weimar, come di Grifone
sul problema bancario. Tuttavia nelle note e nelle recensioni — di
Salinari, Cantimori o Giolitti — le prese di posizione erano più
omogenee: a proposito del dibattito sui rapporti fra liberismo e
liberalismo veniva negata l’identificazione operata da Luigi Einaudi, per
affer- mare che « la libertà politica può essere garantita anche da
una economia pianificata e collettivistica » *°, mentre nella polemica
fra De Ruggiero e Croce sullo storicismo si inter- assumere un
tono più polemico nei confronti delle altre tendenze e delle altre
riviste » (AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945). 357 « Risorgimento
» ha un carattere antologico, affermavano G. Pie- raccini e R. Bilenchi:
«manca appunto quello sforzo collettivo uni- tario che forma lo spirito
di una rivista. Anche il carattere progressista di questo periodico non
riesce ad affermarsi con un serio contributo » (« So- cietà », I (1945),
p. 305). Nell’Archivio privato di Felice Balbo si trovano degli « Appunti
per “Risorgimento” », senza data e non firmati, ma dove è rilevabile la
mano dell’esponente cattolico-comunista: « Concetto infor- matore: dopo
l'oppressione della tirannia fascista il Risorgimento riprende il suo
cammino nazionale nelle nuove condizioni obiettive sociali, cioè avendo
come spina dorsale, la classe operaia nella sua storica funzione di
classe di governo e classe nazionale; il Risorgimento continua vera-
mente solo su questa strada. Funzione della nuova classe dirigente
rispetto agli intellettuali ed ai tecnici. Funzione degli intellettuali con
la nuova classe dirigente nella costruzione della democrazia progressiva
post-fascista. In una frase il concetto è: pianificare e articolare la
rivo- luzione come è pianificata e articolata la reazione ». Segue una
esempli- ficazione assai puntuale del contenuto « ideale » della
rivista. 358 « Risorgimento », I (1945), p. 8. 359 C.S.
[Carlo Salinari], Libertà politica e liberismo economico, in «
Risorgimento », veniva per sostenere la necessità che la filosofia
crociana fosse « superata da uno storicismo che affondi le radici
più profondamente nel movimento dialettico della storia degli
uomini, da uno storicismo che non sia appannaggio del conservatorismo, ma
potente leva di una società nuova. Ma che sia sempre storicismo,
immanentismo assoluto » *° E sulle pagine di « Risorgimento », nel
fascicolo del 25 luglio, con la Lettera a un intellettuale del Nord
Fabrizio Onofri preannunciava i termini del dibattito sulla « nuova
cultura » che si aprirà su « Il Politecnico » il 29 settembre,
rivolgendosi a Vittorini per affermare la necessità che un
intellettuale veramente progressivo, e perciò in primo luogo
antifascista, oggi come ieri debba necessariamente militare, se non in
questo o in quel partito, certo al fianco di quelle forze sociali
organizzate che più e meglio garantiscono l’abolizione dalla vita
nazionale di tutte le forme di oppressione fascista; debba cioè neces-
sariamente « occuparsi di politica », che è ora il modo migliore di
occuparsi della propria sorte di intellettuale, ossia badare a che non si
ricreino sulla sua terra le condizioni di schiavità in tutti i campi che
contrassegnavano il fascismo, e che si creino invece le condizioni
politiche e sociali di quella libertà di cui egli ha bisogno anche e
proprio come intellettuale ?9, Ci è parso opportuno accennare alle
riviste meno cono- sciute del Fronte della cultura, per rilevare
l’ampiezza delle iniziative della casa editrice tese, in accordo col PCI,
a mantenere aperto, nel primo biennio post-bellico, un dia- logo
con tutte le forze democratiche, anche a prezzo di dis- sonanze e di
polemiche interne; ciò vale — pur con una sfasatura cronologica — anche
per le più note e discusse ri- viste edite in quel periodo da Einaudi: «
Società », nata con una propria fisionomia autonoma e critica — tanto
che l’intransigenza di Luporini o di Cantimori verso il crocia-
nesimo creò motivi di frizione con « Rinascita » —, e solo alla fine del
1946 sottoposta a un pi rigido controllo del partito *; e « Il
Politecnico » che, invece, solo con la nuova 36 C. S. [Carlo
Salinari], Lo storicismo, in ibidem, p. 96. 361 F. Onofri, Lettera
a un intellettuale del Nord, in ibidem, p. 327. 362 Cfr. ora, pur
senza i necessari approfondimenti, G. Di Domenico, Saggio su « Società ».
Marxismo e politica culturale nel dopoguerra e negli 334
Le origini della casa editrice Einaudi serie mensile
inaugurata il 1° maggio 1946 passerà dall’in- genuo dogmatismo del
direttore a quella rivendicazione di indipendenza e « apertura » che fu
criticata da Togliatti come « ricerca astratta del nuovo, del diverso,
del sorpren- dente » *#. Ma al nostro discorso interessa
soprattutto notare che motivi di polemica antivittoriniana erano
pre- senti all’interno della stessa casa editrice, tali da
investirne l'orientamento complessivo nei suoi rapporti col partito
comunista. Il 21 maggio 1945 Pavese scriveva a Einaudi, anche a nome di
Balbo, che Vittorini e Giansiro Ferrata avevano radici
troppo fonde in Milano per poterli einaudizzare, cioè piemon- tesizzare.
Vittorini sarà l’uomo del Nuovo Politecnico, edizione Einaudi, organo del
Fronte della Cultura, e del relativo bollettino, stampati entrambi a
Milano; Ferrata darà consigli specialmente sui libri marxisti in cui è
ferratissimo [...]. Io invece, sino a nuovo ordine, approvo l’eclettismo
politico che la Casa conserva. Se mai, sulla purezza d'orientamento
giudichi uno solo (per esempio Balbo, incorruttibile) non tutti i cani e
porci che, muniti di tessera, salte- ranno fuori, anni
cinquanta, Napoli, Liguori, 1979. Nello stesso senso la testimonianza di
Cesare Luporini riportata da N. Ajello, Intellettuali e Pci, cit., p. 71.
A Einaudi, che il 3 maggio ’45 si era offerto di diffondere «Società » a
Roma e nell’Italia centro-settentrionale, il 22 maggio Luporini rispon-
deva accettando, e affermava che la rivista aveva «carattere di alta cul-
tura, anche se non strettamente tecnico, organica e decisa nella
tendenza, ma del tutto aperta quanto ai problemi e agli argomenti presi
in consi- derazione » (AE, Luporini). Nelle «condizioni » poste da
Einaudi, si diceva al punto 3: «La Casa propone di stabilire un
collegamento reda- zionale tra “Società” e gli altri periodici della
Casa, attraverso Carlo Salinari, responsabile editoriale delle riviste
della Casa» (l'editore a Bianchi Bandinelli, 7 luglio 1945, in AE,
Bianchi Bandinelli). 363 Ora in P. Togliatti, La politica
culturale, cit., p. 80. Su « Il Poli- tecnico » come rivista del Fronte
della cultura cfr. M. Zancan, « Il Poli- tecnico » e il Pci tra
Resistenza e dopoguerra, in «Il Ponte», XXIX (1973), pp. 994-1010.
All’inizio Vittorini si era preoccupato di far appa- rire la rivista
legata al PCI: «Bisogna che la Casa Einaudi si faccia conoscere come casa
legata al P.C., che “Il Politecnico” sia riconosciuto come settimanale di
cultura legato al P.C.», scriveva a Einaudi il 6 luglio 1945 (E.
Vittorini, Gli cuni del «Politecnico », cit., p. 11); si comprende come
una collaboratrice di Einaudi, Bianca Garufi, cercando di diffondere le riviste
della casa editrice, e in particolare «Il Poli- tecnico », in ambiente
azionista, si fosse sentita rispondere che «è assurdo pensare ad un
interessamento anche minimo del Partito d’Azione per un giornale cosî
evidentemente comunista » (a Einaudi, 16 novem- bre 1945, in AE,
Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945). 335
concludeva duramente Pavese dopo aver riferito il malcon-
tento dei milanesi per la pubblicazione di Ore decisive, le memorie
dell’ex sottosegretario di Stato di Roosevelt Sum- ner Welles che nel
marzo 1940 aveva cercato un accordo con Mussolini. Einaudi, pur prendendo
le difese di Vitto- rini e Ferrata — « È appunto perché essi hanno radici
fonde a Milano che a noi interessano » —, ribadiva la sua conce-
zione non partitica del fronte culturale: La Casa ormai si è
acquistata la fiducia più assoluta negli am- bienti che ci interessano,
la nostra linea di attività è stata ampia- mente discussa e trovata la
migliore, ed è cosa voluta l’assenza di ogni settarismo, per concorrere
col nostro lavoro all’affermazione di quel fronte progressivo aperto, di
quella unità, che è indispensabile raggiungere per ragioni politiche,
morali e culturali. Questo fronte, ditelo anche a Milano, ove forse c’è
ancora un po’ di settarismo, comporta l’iriclusione, sul piano
internazionale, anche dei Sumner Welles quando tutti non sono dei Wallace
##, affermava evocando il nome di quello che si stava dimo-
strando uno dei più aperti esponenti democratici statu- nitensi.
Ma a mettere in crisi il « settarismo » dei milanesi con- tribu
probabilmente un intervento di Felice Balbo *, in questo momento forse il
più lucido consigliere di Einau- di, interlocutore autorevole sia di
Pavese che di Vittorini, e l’unico — a quanto risulta — capace di formulare
una visione e un programma complessivi della casa editrice, non
senza, tuttavia, elementi di utopia e di contradditto- rietà. Riferendosi
in particolare all’articolo di Remo Can- toni su Che cosa è il
materialismo storico, apparso sui nu- 364 AE, Corrispondenza editoriale
Torino-Roma 1945; Einaudi a Balbo, 26 maggio 1945 (ibidem). Il 18 maggio
Balbo aveva scritto a Finaudi: « attento a prendere delle decisioni per
il Nord senza esservi presente [...]. A Milano bisogna andare con piedi
veloci ma di piombo [...]. Vit- torini è tutt'altro che acquisito »
(ibidem). Su di lui cfr. il saggio, assai « interno » e discutibile, di
G. Invitto, Le idee di Felice Balbo. Una filosofia pragmatica dello
sviluppo, Bologna, il Mulino, 1979; sul movimento cattolico-comunista, cui
parteciparono alcuni collaboratori della casa editrice come Mario Motta e
Franco Rodano, cfr. C.F. Casula, Cattolici-comunisti e sinistra cristiana
(1938-1945), Bo- logna, il Mulino, 1976. 336 Le
origini della casa editrice Einaudi meri 2 e 3 de « Il Politecnico
», il 20 ottobre 1945 Balbo scriveva a Einaudi che il tutto
rappresenta un tentativo un poco mistico, un tentativo di sostituire un
mito vecchio con un mito nuovo e quindi è in fondo. antieducativo. Si
dovrebbe, mi pare, tendere a formare in tutti i lettori quella mentalità
nuova che è scientifica, critica, sperimentale e aperta mentre
Politecnico presenta il materialismo storico troppo come una pietra
filosofale. Se si deve fare un giornale di cultura e non di propaganda,
come credo debba essere anche se prima d’ora lo era solo in parte, è
necessario, proprio sui piani di cultura in senso stretto (e in questo
caso del materialismo storico), affrontare le critiche, non eluderle
dogmaticamente attraverso impostazioni che ripetano le formule in cui il
materialismo storico è sorto. Un mate- rialismo storico cosî « affettivo
» soffoca ed elude lo stesso sforzo di apertura di Cantoni.
A conferma dell’autorevolezza del suo intervento, que- ste critiche
saranno fatte proprie dall’editoriale che conclu- deva, il 6 aprile 1946,
« Il Politecnico » settimanale: Noi non abbiamo avuto, col
settimanale, una funzione propria- mente creativa, o, comunque,
formativa. L'altra funzione, la divul- gativa, ci ha preso, a poco a
poco, e sempre di più, la mano. Ci siamo lasciati andare ad essa. Abbiamo
compilato, abbiamo tradotto, abbiamo esposto, abbiamo informato, abbiamo
anche polemizzato, ma abbiamo detto ben poco di nuovo. In quasi tutte le
posizioni che abbiamo prese, pur senza mai sbagliare indirizzo, ci siamo
limi- tati a gridare mentre avremmo dovuto dimostrare. E troppo
spesso abbiamo dato sotto forma di manifesto quello che avremmo
dovuto dare sotto forma di studio [...]. Ci siamo trovati cosî a
divulgare delle verità già conquistate mentre avremmo dovuto cooperare
alla ricerca della verità. Nella stessa lettera del 20
ottobre Balbo allargava il discorso all’attività complessiva della casa
editrice, indivi- duandone la carenza di fondo nella mancanza di una
precisa strategia di politica culturale: L’ottimismo non è
sufficiente alla lotta. Ci vuole positività e 36 AE,
Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945. Remo Cantoni propose un
Dizionario marxista per aggiornare il lettore « su quel sapere: che è
stato oggetto di ricerca e di analisi specifica da parte dei marxisti »
(AE, Cantoni). quindi contatto continuo con i dati veri della totale
situazione ita- liana. Tra l’altro, Milano, ricordiamolo, è di natura
troppo euforica: a Milano, come osservava Gobetti, è possibile ogni
avventura, da quella di Marinetti a quella del Popolo d’Italia [...]. Il
punto di vista è, malgrado tutto, Roma [...]. In noi c'è ancora troppa
men- talità insurrezionalistica e cioè: a) precipitazione; b)
estremismo anzi piuttosto « avanzatismo »; c) visione asfittica o almeno
sempli- cistica di tutti i problemi sia culturali che politici; d)
mancato appro- fondimento del « a che punto siamo » sia politicamente
sia, per noi, soprattutto culturalmente [...]. Come conseguenza di una
matura- zione mancata o non avvenuta, si scivola, sembra impossibile ma
è cosf, su modi e impostazioni ancora fascisti o almeno vecchi. In-
somma Einaudi 1945 è in fondo, capiscimi, pit fascista di Einaudi 1940.
Proporzionalmente siamo calati di tono invece di crescere; e
concludeva individuando un arretramento di posizioni ri- spetto agli
avversari e l’incapacità di sfruttare appieno « le grandissime
possibilità che abbiamo, in uomini e in possi- bile chiarezza di idee
». Le critiche — e l’apparente paradosso — di Balbo ave- vano
la loro ragion d’essere non solo in rapporto al suo idea- le di cultura e
al suo modello di una casa editrice « critica- mente » progressista, ma
anche, come vedremo, rispetto alle concrete iniziative di Einaudi, che
riflettono, in molti casi, un'eredità difficile da superare. Ma in queste
ebbe probabil- mente un'influenza lo stesso Balbo, che cercava di
coniugare un’analisi ispirata al marxismo con soluzioni di stampo
cat- tolico. Il suo concetto dinamico di cultura, che ne vedeva il
mutamento col mutare dei rapporti di produzione, e coglieva
gramscianamente la lentezza del processo di adeguamento degli
intellettuali ai nuovi stadi via via raggiunti dalla socie- tà, invitava
— senza i toni ingenui di un Vittorini — a quel- l’avvicinamento fra cultura
e realtà che tuttavia — contrad- dittoriamente — il cattolico Balbo
riteneva raggiunto in mo- do esemplare nel medioevo, perché « nella sua
produzione, sia agricola che artigiana, architettonica o scientifica,
nelle ideologie politiche come in quelle religiose, si rivela una
sin- golare unità, superiore ai contrasti, che è quella del
concetto feudale della proprietà o del nascente diritto comunale ».
Al contrario, la cultura contemporanea, gelosa della pro- pria
indipendenza e « irresponsabilità » di fronte alla classe dominante e ai processi
produttivi dell’epoca industriale, aveva dato luogo, tra le due guerre, a
quell’irrazionalismo « che rese possibili tutte le mitologie disumane che
hanno vagato e forse vagano ancora, paurose, sui continenti »,
mettendosi di fatto al servizio dei « privilegiati », per cui « la
cultura del capitalismo è scritta sulle facciate delle metropoli moderne,
è la grande officina, la produzione cro- nometrata, l’esercito
motorizzato, la grande stampa, il cine- ma ». Con un rigore e una
violenza intellettuali ben mag- giori dell’editoriale con cui Vittorini
apri « Il Politecni- co » — e per il quale questo scritto avrebbe forse
dovuto servire da traccia —, l’esponente cattolico-comunista con-
tinuava: Rimproveriamo dunque all’idealismo di Croce,
all’umanesimo di Thomas Mann e allo spirito « non prevenuto » di Gide, o
meglio agli idealismi, umanesimi, cristianesimi, spiritualismi,
esistenzialismi ecc. che da quelli provengono (e per quella parte almeno
d’essi e dei loro discepoli che vorrebbe farci credere d’aver trionfato
con la Carta Atlantica e la bomba atomica) d’essere insufficientemente
critica con se stessa e perciò sterile, imbalsamata, defunta — regressiva
[....]. Lottare per una nuova cultura intellettuale [...] equivale a
lottare per una nuova società e ad affermare — concludeva in
conformità con la propria concezione filosofico-religiosa — « il concetto
di persona umana o di uomo obbiettivo e origine d’ogni cultura,
inteso come l'individuo nella coscienza della propria correlazione
col prossimo e delle proprie determinazioni storiche » *?. Nel quadro di
questo discorso, nel quale appare decisa- mente superato ogni residuo
crociano della sua formazione originaria **, Balbo presentava un «
abbozzo di teoria gene- rale di una casa editrice culturale in senso
stretto », in cui il notevole sforzo di chiarificazione teorica era
finalizzato a 367 F. Balbo, Una nuova cultura, dattiloscritto
senza data ma con l'indicazione «per servire alla elaborazione
dell’editoriale. Si chiede da 3 lo stile con baffi e favoriti, da
falso-Cattaneo » (Archivio privato 0). 38 Diversamente
da quanto sostiene G. Invitto, Le idee di Felice Balbo, cit., in
particolare p. 29.trovare i mezzi necessari alla promozione degli «
essenziali valori dell’uomo » *. 11. La ricerca di un nuovo
orientamento e l’eredità del passato Le critiche e le
proposte di Balbo — che ritornerà su questi temi insistentemente, fino al
suo distacco dal marxismo e dalla casa editrice — miravano ad un
fronte « critico » della cultura che lasciava tuttavia ampi spazi
per ritorni mistici o più propriamente tomistici, come avvertirà
più tardi Bobbio. Ma, nonostante alcuni testi pubblicati portino il segno
— esplicito o implicito — della sua pre- senza, fra il suo modello di
casa editrice di cultura e gli indirizzi editoriali effettivamente
attuati esiste un notevole scarto, non attribuibile soltanto ad una «
sordità » dei suoi interlocutori o ad un loro consapevole rifiuto delle
sue proposte, ma, soprattutto, alla situazione oggettiva. Il suo
progetto editoriale si affidava infatti ai tempi lunghi e non teneva
sufficientemente conto — come riconoscerà alcuni anni dopo lo stesso
Balbo — dei contrasti ideologici e poli- tici all’interno della casa
editrice, del peso della tradizione che questa si era formata nel
decennio precedente — di cui Balbo contribui a tenere in vita alcuni
aspetti —, e dei reali rapporti di forza esistenti nella vita politica
italiana, o del loro rapido mutamento, che portò nel giro di due
anni 369 I compiti della casa editrice erano individuati nel «
puntare alla egemonia editoriale nel suo genere », e nello scegliere
«quelle opere che in se stesse ed in riferimento alla situazione storica
che si svolge, siano realmente necessarie o utili a far maturare e
sviluppare il potenziale culturale dell’intero pubblico colto »; la «
capacità di scelta » della casa editrice si doveva misurare sul piano
filosofico e su quello scientifico: « La capacità filosofica significa
essere in grado di giudicare i valori cul- turali in sé, secondo la
nozione di valore e disvalore, e quindi il saper riconoscere tutti gli
essenziali valori dell’uomo, ossia l’essenziale di ciò che è
indispensabile alla sua pienezza. La capacità scientifica significa
essere in grado di giudicare i valori culturali per riferimento al
movimento storico în cui ci si trova, significa quindi comprendere le
necessità della rivoluzione » (Appunti sulla casa editrice,
dattiloscritto senza data in Archivio privato Balbo).
340 Le origini della casa editrice Einaudi alla
rottura dell’unità antifascista e alla guerra fredda, con pesanti riflessi
— non certo favorevoli a visioni critiche o problematiche — anche negli
schieramenti culturali. Oltre al difficile equilibrio politico fra le
varie sedi e fra i diret- tori delle collane *°, all’organico
orientamento della casa editrice richiesto da Balbo si opponeva la sua
stessa multi- forme attività rilevata da Pavese e da Giolitti, per i
quali essa manteneva la caratteristica originaria di « eclettica
officina di cultura » — « non c'è altro editore in Italia che copra un
campo cosi vasto » ”! —, moltiplicando contrasti e contraddizioni: ad
esempio, mentre la redazione romana « si oppone energicamente » e con
successo alla pubblica- zione dei Cinquant'anni di vita intellettuale
italiana in onore di Croce proposta da Carlo Antoni, l'edizione
delle Lezioni di filosofia di Guido Calogero vede la netta opposi-
zione di Pavese, Balbo e Giolitti, ma l'approvazione — vin- cente — di
Bobbio”. Nei volumi pubblicati nell’imme- diato dopoguerra possiamo del
resto constatare, accanto ad una notevole opera di sprovincializzazione
della cultura ita- 30 Il 6 agosto 1945 Einaudi inviava a Pavese un
« Pro-memoria della Direzione » inteso a riorganizzare il lavoro
editoriale: Pavese e Vittorini consulenti, Natalia Ginzburg
vice-consulente per « Poeti», « Narratori contemporanei », « Giganti », «
Narratori stranieri tradotti »; Pavese e Vittorini consulenti, Balbo
vice-consulente per la progettata collana « Cor- rente »; Mila
consulente, Pavese e Balbo vice-consulenti per i « Saggi »; Chabod
consulente esterno, Manacorda e Giolitti vice-consulenti per « Bi-
blioteca di cultura storica » e « Scrittori di storia »; Bobbio
consulente esterno, Balbo vice-consulente per « Biblioteca di cultura
filosofica »; Ceria- ni consulente esterno, Giolitti vice-consulente per
« Biblioteca di cultura e- conomica » e « Problemi contemporanei »;
Cantimori consulente esterno, Manacorda vice-consulente per « Biblioteca
marxista »; Balbo e Rodano consulenti, Giolitti vice-consulente per «
Problemi italiani »; Giolitti e Vit- torini consulenti, Salinari
vice-consulente per «Testimonianze »; Vit- torini consulente, Pavese e
Balbo vice-consulenti per la « Vittoriniana » che avrebbe dovuto
sostituire l’« Universale »; Aloisi consulente esterno, Mana- corda
relatore al consiglio per « Biblioteca di cultura scientifica »; Rag-
ghianti direttore della « Biblioteca d’arte »; Debenedetti direttore
della « Nuova raccolta di classici italiani annotati » (AE, Pavese: dove
ci sono altre proposte di Einaudi e la risposta di Pavese del 7 settembre,
con alcune osservazioni critiche). 371 Pavese e Giolitti alla
Direzione di sede di Roma, 25 ottobre 1945 (AE, Corrispondenza editoriale
Milano-Roma 1945). 37 « Pro-memoria per la Direzione Generale »
della redazione romana, sulla proposta di Antoni del 22 ottobre 1945, e
sulla proposta di Calo- gero liana, motivi di disorientamento,
schematiche attualizza- zioni politiche di problemi storiografici,
assieme ad ecces- sive cautele e perfino a tendenze conservatrici — se
misu- rate sul metro dei propositi enunciati da Einaudi nel 1945 —
che i giudizi delle stesse riviste einaudiane, cosi come di « Rinascita
», non mancano di mettere in evidenza. Senza ripetere, come in
precedenza, quell’analisi a tap- peto dei volumi, e delle relative
recensioni, che era indi- spensabile per la produzione del periodo
fascista, quando era importante sottolineare anche singole affermazioni
sfug- gite alle maglie della censura, ci soffermeremo soltanto sui
testi di alcune collane — i « Saggi », la « Biblioteca di cul- tura
economica », la nuova serie dei « Problemi contem- poranei », i «
Problemi italiani » e la « Biblioteca di cultura filosofica » — che
permettono di individuare l’orientamento generale, culturale e politico,
della casa editrice all’indo- mani del 1945. Ciò non ci esime, tuttavia,
dall’accennare al significato di alcuni titoli delle collane letterarie o
stori- che: nei « Narratori stranieri tradotti » apparvero, accanto
ai classici, Kafka e Proust, mentre i « Narratori contempo- ranei » si
aprirono alla produzione straniera con I/ muro di Sartre — non senza
contrasti ” — e con Fiesta e Avere e non avere di Hemingway, il cui
carattere « rivoluzionario », rivendicato da Vittorini, era
sprezzantemente negato e ri- dotto ad una somma di sensazioni «
elementari » ed « egoi- stiche » da Alicata, che giudicò « superficiale »
anche i Dieci giorni che sconvolsero il mondo di Reed con cui si
393 «Il libro è indubbiamente molto bello e anche l’ultimo
racconto, però può capitare che un pubblico non molto preparato caschi facilmente
in equivoco. Forse libro e autore andrebbero presentati. Resta da vedere
cosa ha fatto Sartre durante l'occupazione nazista — pare che due o tre
suoi libri siano stati pubblicati dalla N.R.F. in questo periodo », si
scriveva da Roma all’editore il 4 giugno 1945 (AE, Corrispondenza edito-
riale Torino-Roma 1945). Il libro era già stato suggerito da Pintor in
una lettera a Pavese del 21 aprile 1943 (in C. Pavese, Lettere 1924-1944,
cit. p. 694). Il muro fu denunciato per oltraggio al pudore; il 4 aprile
1947 Pavese ne dava notizia a Corrado Alvaro il quale, in veste di presi-
dente del sindacato nazionale scrittori, con lettera a Pavese del 25
aprile si metteva a disposizione della casa editrice: «se non ci difen-
diamo, si preparano per noi giorni assai peggiori di quelli sotto il
paterno Ministero della cultura popolare » (AE, Alvaro).
342 Le origini della casa editrice Einaudi inaugurò
nel 1946 la vittoriniana « Politecnico bibliote- ca » 3.
La « Biblioteca di cultura storica », posta sotto la dire- zione
di Federico Chabod — e con l’attenta consulenza di Franco Venturi,
sensibile in particolare alla produzione storiografica francese e russa
** —, riprese le pubblicazioni con i Saggi sul Risorgimento di Nello
Rosselli — con la pre- fazione di Salvemini — per continuare, a
testimonianza di un interesse più generale della casa editrice per la «
demo- crazia » americana, con America. La storia di un popolo
libero di Allan Nevins e Henry S. Commager, e aprirsi quindi alle opere
di Mathiez e Lefebvre sulla Rivoluzione francese o, più tardi, alla
scuola delle « Annales » con Bloch e Braudel, nonostante l’opposizione di
Cantimori 7%, Non possono tuttavia essere sottaciute alcune iniziali
cadute di tono della collana, rappresentate dalla ripresa
dell’oria- 374 La corrente « Politecnico » (1946), ora in M.
Alicata, Intellettuali e azione politica, cit., p. 63. Sempre con
Hemingway si apri nel 1947 la collana «I Millenni », dove nel 1948
apparirà Le mille e una notte a cura di Francesco Gabrieli, di cui si
suggeriva, per la pubblicità, di mettere in luce il «carattere sociale »:
«il libro è sempre stato frain- teso come mondo delle fate e delle
meraviglie, mentre, adesso che lo facciamo noi, è ora di vederlo nel suo
vero carattere di straordinario documento su una medioevale società
agreste, con naturale democrazia tra gli umili (fornai, mendicanti,
pellegrini, mercanti, schiavi, donne conculcate ecc.) » (da Roma a Renata
Aldrovandi, 14 novembre 1945, in AE, Corrispondenza editoriale
Milano-Roma 1945). 375 Numerose sono le proposte in AE, Chabod,
Venturi. Il 29 novem- bre 1945 Chabod scriveva a Einaudi di assumersi la
direzione della « Biblioteca di cultura storica» e degli «Scrittori di
storia », annun- ciando, per le traduzioni, « un piano di lavoro che
contemperi opportu- namente biografie e studi monografici, lavori di
grossa mole e studi assai più smilzi », in modo da « toccare un po’ tutti
i principali problemi della storia europea e nord-americana » (AE,
Corrispondenza editoriale Torino- Roma 1945). 376 Parte del
giudizio di Cantimori su La Méditerranée di Braudel è riportato da G.
Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica,
Torino, Einaudi, 1970, p. 257, che nel cap. XVIII ricostruisce
puntualmente la collaborazione dello storico con la casa editrice; nello
stesso giudizio, del 1949, Cantimori investiva tutta la scuola delle «
Annales »: « non ritengo utile, anzi dannoso, diffondere, per mezzo della
traduzione di un’opera cosi ben scritta — brillante, affascinante anche
per la sua facilità ed evasività e superficialità di rifles- sione e di
concetti — il metodo, o il sistema, o il regime o l’arte o la retorica,
chiamateli come credete, del gruppo di L. Febvre, Morazé, Braudel » (AE,
Cantimori). nesimo nell’Axzistoria d’Italia di Fabio Cusin ?” e da
Robe- spierre e il quarto stato di Ralph Korngold dove, come in
altre opere dedicate al giacobinismo, l’intento di rivalutare un
movimento politico dimenticato o disprezzato dall’idea- lismo e dal
fascismo si accompagna a schematiche e ambigue attualizzazioni — «Si può
dire che tanto la dittatura fascista quanto quella comunista si siano
servite di un me- todo giacobino perfezionato », affermava Korngold
?*, La concezione della storia come elemento costitutivo
dell’educazione civile continuerà tuttavia a caratterizzare la collana:
assai significativa in questo senso — e degna di essere citata per esteso
— è l'offerta a Cantimori di scrivere una storia d’Italia dal punto di
vista marxista. E altrettanto significativo è che portatore — e
ispiratore, assieme ad Einaudi — della proposta fosse proprio quel Balbo
che abbiamo visto tanto cauto rispetto a pericolose fughe in
avanti: L'Italia manca fino ad oggi di un’opera storica marxista
nel senso più profondo ed esatto che dia la reale fisionomia della sua
storia dall’indipendenza ai giorni nostri — scriveva Balbo a Cantimori
il 27 giugno 1947 —. Questa mancanza si fa duramente sentire oggi
non solo nel campo degli studiosi ma soprattutto nella scuola e addi-
rittura nella vita politica. Non è esagerato affermare infatti che questa
mancanza è in qualche modo determinante dello stesso svi- luppo
democratico del nostro paese. L'azione concretamente ideo- logica da
parte delle forze progressive sta diventando sempre più necessaria: il
proletariato non ha di fronte a sé soltanto, ad esem- pio, il problema
meridionale, ma anche il problema cattolico e il problema crociano che
sono poi aspetti dello stesso problema meri- dionale [...]. La proposta è
questa: non sarebbe possibile rispon- dere ai bisogni rivoluzionari in
questo campo? non sarebbe possi. bile cominciare con una Storia
dell’Italia moderna o anche solo contemporanea? Potrebbe essere un
nutrito Somzzario che desse l’avvio a tutti gli studi particolari e per
intanto rappresentasse il 377 Cfr. la recensione di R. Zangheri in
« Società », IV (1948), pp. 280-285. Perplessità sulla pubblicazione del
volume avanzarono sia Chabod (lettera a Giolitti del 20 dicembre 1945, in
AE, Corrispondenza edito- riale Torino-Roma 1945), sia Salinari (a
Giolitti, s.d., in AE, Cusin). 318 R. Korngold, Robespierre e il
quarto stato, traduzione di F. Papa, Torino, Einaudi, 1947 (ediz.
originale 1941), p. 87. Una volta stampato il libro, ci si rese conto
dell’« incongruenza storica e critica » di questa e di altre affermazioni
(Balbo a Giolitti, 22 aprile 1947, in AE, Giolitti). canovaccio, la
direttiva generale per un rinnovamento dei manuali scolastici. Potrebbe
essere invece una grande Storia, a largo respiro, da concretarsi
attraverso un lavoro collettivo [...]. Se pensi cosa ha rappresentato il
Sommario di storia della filosofia del De Ruggiero nel senso della
egemonizzazione borghese della cultura italiana, puoi pensare cosa
rappresenterebbe un Sommario storico fatto da te! Ma anche qui non credo
che proprio io debba sottolineare a te l’im- portanza di questo lavoro.
Voglio solo confermarti che c’è in tutti i compagni, anzi in tutta la
cultura italiana, una profonda aspettativa in tal senso?”?,
Nell'ambito della casa editrice il marxista Cantimori avrebbe dovuto
sostituire il liberale Salvatorelli, ma lo scru- polo scientifico del
primo impedî quello che ancora nel 1956 — ricordando un’analoga proposta
di Alicata, consi- derata un preannuncio di « Zdanovismo » —
Cantimori titerrà un rovesciamento solo ideologico
dell’interpretazione crociana, in assenza di studi preparatori **. A
un intento educativo immediato risponde invece prima delle altre, anche
per la sua maggiore flessibilità, la collana-cardine di Einaudi, i «
Saggi », che — assieme alla nuova collana « Testimonianze » — affronta
temi di attua- lità politica, da Marcia su Roma e dintorni di Emilio
Lussu a Leningrado di Alexander Werth a Fascismo e anticomu- nismo
di Lucio Lombardo Radice, che inizia la riflessione su una tematica
ripresa dal Lurgo viaggio di Ruggero Zan- grandi *', e presenta uno dei
best sellers del tempo, Cristo 379 AE, Cantimori (Balbo parlava
anche a nome di Einaudi); sempre il 27 giugno 1947 Einaudi scriveva a
Giolitti di « una Storia d'Italia degli ultimi cento anni che noi
vorremmo far fare a Cantimori inchiodandolo per uno, due, tre, dieci anni
a tavolino per costruire il monumento più importante che in questo
momento gli studiosi devono impostare: quello IR ST della storia
d’Italia, soprattutto di quella ultima » (AE, jolitti). Pro e
contra, in « Movimento operaio », VII (1956), p. 330. In questo quadro
Balbo propose — trovando favorevoli Giolitti, Salinari, Manacorda e
Pavese — un’opera collettanea su La guerra di liberazione in Italia, con
documenti, testimonianze, biografie ecc., che sarebbe servita « alla
nazione italiana per una migliore conoscenza del pi grande moto popolare
che la sua storia ha fino ad oggi avuto; e per una esatta valutazione di
quelle che sono state le vere forze della liberazione popolare e che sono
le vere forze del suo avvenire (si vedranno finalmente quelli che hanno
lottato e quelli che sono compatsi solo a oa alla consulta) » (AE,
Corrispondenza editoriale Milano-Roma si è fermato a Eboli di Carlo Levi,
denuncia efficace — no- nostante le riserve di « Società » °° — di quella
realtà che contemporaneamente, nei « Problemi italiani », era argo-
mento della Rivoluzione meridionale di Guido Dorso, già apparsa nel 1925
nelle edizioni Gobetti. E mentre un volu- me molto caro a Cajumi, La
crisi della coscienza europea di Hazard, rientra nell’interesse per l’illuminismo
manife- stato dalla casa editrice fin dai suoi esordi, il nuovo
clima di libertà permette la realizzazione di progetti già in can-
tiere negli anni del fascismo, come la Congiura per l’egua- glianza o di
Babeuf di Filippo Buonarroti, il primo, secondo Gastone Manacorda, a
fornire una « interpretazione clas- sista della grande Rivoluzione »,
nonostante la persistenza di quegli elementi utopistici ** che non erano
invece tenuti presenti da Giuseppe Berti nella presentazione del
Filippo Buonarroti di Samuel Bernstein: tesi entrambi, autore e
prefatore, ad attualizzare oltre il lecito il significato del
giacobinismo — « Buonarroti fu, con Babeuf, uno dei grandi precursori di
Marx e di Engels » **. Ma un motivo che ci preme segnalare — a
testimonianza di un’altra e più profonda continuità col decennio
prece- 382 Gianfranco Piazzesi, pur affermando che era «uno dei
pochi libri dove abbiamo potuto apprendere qualcosa sulla “questione
meri- dionale” », notava che Levi « resta sempre spettatore, intelligente
quanto volete, ma di un’altra classe, rispetto a questi contadini, e non
sa mai trovare il modo di farli parlare sinceramente, come si parla da
pati a pari, perché manifestino le loro riposte esigenze» (« Società, F.
Buonarroti, Congiura per l'eguaglianza o di Babeuf, introdu- zione e
traduzione di G. Manacorda, Torino, Einaudi, 1946, pp. XVII, XX. La
proposta di pubblicare Buonarroti e Babeuf era stata rilanciata anche da
Vittorini nella prospettiva di un rinnovamento dell’« Univer- sale » dove
— scriveva a Einaudi il 3 luglio 1945 — « potremmo inclu- dere anche
autori antichi ma che segnino un punto nella evoluzione del pensiero
progressista » (E. Vittorini, Gli anni del «Politecnico », cit., .
8). È 34 S. Bernstein, Filippo Buonarroti, traduzione e prefazione
di G. Berti, Torino, Einaudi, 1946, pp. 61-62; il saggio era apparso nel
1942 ne « Lo Stato operaio ». Cfr. le critiche di Sergio Romagnoli in «
Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», lettere, storia e
filosofia, s. II, vol. XVI, 1947, fasc. I-II, p. 103. Ancora nel 1948
Bernstein pub- blicò su «Società » un articolo su Buonarroti storico e
teorico comu- nista, affermando che il giacobino italiano «si avvicina di
molto al socia- lismo scientifico » («Società », IV (1948), p. 383). Le
origini della casa editrice Einaudi dente — è la permanenza
dell’interesse per la tematica religiosa, sostenuto ora da nuovi
collaboratori cattolici della casa editrice che affiancano Balbo, come
Franco Rodano e Mario Motta. Questo interesse ha varie manifestazioni:
supera ogni misticismo nella riflessione di Balbo — L’uomo senza miti e
Il laboratorio dell’uomo —, teso a indicare, in un altro momento di
profonda crisi di valori, il fallimento della filosofia tradizionale e la
necessità di nuove « formule di liberazione » dell’uomo, che non lo
isolino dal contesto storico-sociale *°; ha un’intonazione nettamente
spiritualista in Che cos'è il personalismo? di Emmanuel Mounier; si
pre- senta a sostegno di un vasto e generico affresco « alla Hui-
zinga », in cui la realtà storica è piegata alla dimostrazione di una
tesi — secondo la quale, nella deprecata età del pro- gresso tecnico, «
il cammino della secolarizzazione della cul- tura non può essere percorso
sino all’estremo » — nel Profilo d’un umanesimo cristiano di H. W.
Riissel, che in- vitava a ricucire la frattura fra umanesimo e
cristianesimo operata dalla Riforma, facendo propria quella che gli
pareva « la grande verità della teologia umanistica », la non anti-
teticità della filosofia greca e del cristianesimo: tesi non con- divisa
nella prefazione postuma di un intellettuale dalla tormentata vicenda
culturale e politica come Giuseppe Rensi — che pur aveva proposto e
curato il volume nel 1940 —, mentre Bobbio riconosceva «la necessità e
la perennità di un umanesimo cristiano » per combattere la «
filosofia della crisi » originata da Kirkegaard ®*. 385 Pur
riconoscendo ne L’uomzo senza miti il tentativo di liberarsi dalla
spiritualità dello storicismo immanentistico di Croce, Ludovico Geymonat
riteneva dogmatico il metodo di ricerca di Balbo (« Rivista di filosofia
», terza serie, I (1946), pp. 86-88); cfr. anche le critiche di Croce,
ora in Nuove pagine sparse, serie seconda, Napoli, Ricciardi, 1959, pp.
157-160. 38 H. W. Riissel, Profilo d’un umanesimo cristiano,
traduzione di G. Rensi, Torino, Einaudi, 1945 (ediz. originale 1940), pp.
IX, 2. Nel 1940 la pubblicazione del volume era stata impedita dalla
censura; Rensi pro- pose anche la traduzione di Platonismus und
Christentum di C. Ritter (AE, Rensi). La recensione di Bobbio è in «
Rivista di filosofia », n.s., IV (1945), pp. 101-103. Nel 1949 Cantimoti,
in un parere editoriale su Erasmo e il Rinascimento di Siro A. Nulli —
che sarà pubblicato da Einaudi nel 1955 —, dichiarerà di condividerne le
idee, « tanto per quel che riguarda le interpretazioni del pensiero e
della attività di Erasmo, Alla tematica religiosa si volge anche
l’interesse dei « laici »: è del 1949 la proposta di Remo Cantoni —
accet- tata da Balbo ma poi non realizzata — del volume Critiche
allo spiritualismo *"; del 1950 Nuova socialità e riforma religiosa
di Capitini — il cui liberalsocialismo era presen- tato come una
concezione sociale e religiosa « postcomu- nista » —, proposto da
Cantimori come « opera importante per la storia religiosa-politica e
culturale del periodo 1926- 1944 e oltre: come cronaca, documentazione, e
storia del- l’unico movimento antifascista e anticlericale autoctono
e- spontaneo nel terreno italiano dopo il fascismo, consape-
volmente diverso dal comunismo, ma mai anticomuni- sta » **. Antonio
Banfi, formatosi alla scuola di Martinetti, presentò inoltre il progetto
di una « Collana di studi reli- giosi », che si sarebbe proposta
di far conoscere in Italia a un pubblico più vasto dei consueti
centri di cultura religiosa, sia cattolici che di altre confessioni,
quelle opere, per lo pi recenti, che testimonino di una problematica viva
e nuova nel campo del pensiero religioso; opere che si propongono tutte
un mutamento sensibile nella considerazione del rapporto fra singolo
e collettività appunto in relazione con una differente valutazione
dei principi della confessione di fede; opere che propongono
infine, quanto per quel che riguarda la severa critica allo
Huizinga, al Toffanin, al Riissel, e compagnia. Si tratta di un energico
richiamo alla realtà storica di quel che furono, in quanto affermazione
di idee nuove e critica di una Fiserggi storica culturale, l’'Umanesimo e
il Rinascimento » (AE, Can- timori). 387 Cantoni a Balbo, 13
aprile e 24 giugno 1949: «La critica allo spiritualismo teologico e
metafisico è il grande tema culturale degli ultimi cento anni. Vorrei
presentare criticamente tutte le variazioni storiche sul tema, da
Feuerbach a Marx, da Kirkegaard a Stirner, arrivando fino alla filosofia
contemporanea. E si tratta di ricostruire le ragioni sociali per le quali
muta la sensibilità metafisica » (AE, Cantoni). 388 A. Capitini,
Nuova socialità e riforma religiosa, Torino, Einaudi, 1950, pp. 26-27;
Cantimori a Einaudi, 12 gennaio 1949 (AE, Cantimori). Nel 1946 Capitini
aveva proposto «un volume quasi pronto » su Anti- fascismo della non
violenza e della non menzogna a Pisa nel ’32 ed uno, già terminato, dal
titolo Saggio sul soggetto della storia — anche questo non accettato, ma
preso in visione per consiglio di Cantimori —, in cui conduceva
«un'indagine oltre lo storicismo crociano per accertare l’autentico
soggetto, collettivo e corale, della storia, per fondare quella che io
chiamo la compresenza di tutti alla produzione del valore; pro- blema nel
quale rientra quello sociale e quello religioso » (Capitini a Giolitti,
13. gennaio 1946, e a Einaudi, 14 luglio 1946, in AE, Capitini).
348 Le origini della casa editrice Einaudi tutte, una
precisa presa di posizione per il credente, in ordine alla vita
politica: opere ispirate allo storicismo — e si facevano i nomi
di Newman, Blondel, Barth, Jiger, Troeltsch, Weber — e che, si
specificava, prevedono una rottura con le forme tradizionali di
direzione politica definite dalla autorità della Chiesa come le sole
possibili e conse- guenti ed anzi prevedono un mutamento radicale di
prospettiva in tal senso consentendo al credente la più ampia libertà di
ricerca della propria prospettiva politica e la possibilità di affiancare
la pro- pria azione a quella di forze politiche progressive di ideologia
dif- ferente 599, La presenza di queste riflessioni e di
queste proposte relative a tematiche religiose, se da un lato si
collegano a un filone già presente nella casa editrice, dall’altro
testimo- niano l’attenzione che in questo periodo i comunisti dedi-
cano al problema cattolico. Non bisogna tuttavia dimenti- care che,
contemporaneamente, una visione tradizionale del cristianesimo è il punto
di riferimento obbligato di quegli intellettuali che — sulla falsariga di
Huizinga — lamen- tano le degenerazioni della politica e del progresso
contem- poranei per riproporre un assetto conservatore della
società. È il caso de Le democrazie alla prova di Julien Benda — un
libro la cui edizione francese era positivamente recensita su « Società
», con qualche appunto sul tono aristocratico e moralistico
dell’esponente della « letteratura della cri- si » °® —: se nel momento
in cui fu scritto (1941) si giusti- ficava nel suo assunto principale,
sostenendo che le demo- crazie, più deboli in guerra dei totalitarismi,
debbono difen- dersi anche a costo di limitare le libertà — « un popolo
veramente libero è tanto più grande quanto più sa ridurre le sue libertà
» —, si faceva poi forte delle argomentazioni di Constant, Kant e Spencer
contro quelle di Bonald, De Maistre, Hegel, Nietzsche e Marx — tutti
accomunati come %° A Banfi, che accettò, Balbo chiese nel 1947 di
fare la prefazione agli Scritti teologici giovanili di Hegel previsti per
la collana filosofica (AE, Banfi). 39 Recensione di Vezio
Crisafulli, in « Società » antidemocratici — per affermare che « i principi
democra- tici sono dei comandamenti della coscienza, e non già
degli insegnamenti dell’esperienza e del costume »; di origine
socratico-cristiana, la democrazia era realizzata solo in Sviz- zera e
negli Stati Uniti, e non sopportava « abusi » del prin- cipio egualitario
come il suffragio universale, osservava Benda, per concludere che « lo
sviluppo di qualsiasi orga- nizzazione terrena importa sempre qualche
violenza contro i comandamenti divini di giustizia e di libertà »: « il
filo- sofo non può riporre le sue speranze se non in quei sistemi,
come il cristianesimo, omogeneo in questo alla democrazia, i quali
dell’uomo non glorificano altro che la sua natura divina » ?!,
A fini decisamente reazionari il cristianesimo era utiliz- zato ne
La crisi sociale del nostro tempo di Wilhelm Ropke, l'economista teorico
della « terza via », « in tante cose affine al Croce e dal Croce assai
pregiato » per il rifiuto del concetto e del termine « capitalismo »,
come osservava Cantimori *. Nel volume, uscito originariamente nel
1941 e già in traduzione presso Einaudi prima del 25 luglio ’”,
l’autore criticava « le incomparabili conquiste meccanico- quantitative
della civiltà tecnica » per lamentare, in una società caratterizzata
dalla grande industria e dalla concen- trazione delle proprietà, la
decadenza del cristianesimo — « una delle più formidabili forze
costruttrici della nostra civiltà, da essa inseparabile » — e della
famiglia, oppure « la diserzione delle comunità rurali e la decadenza del
vil. laggio a favore della città e dell’urbanizzazione e commer-
cializzazione della campagna stessa ». Una critica che ricorda il leit
motiv di Luigi Einaudi — difesa della piccola pro- 39 J. Benda, Le
democrazie alla prova. Saggio sui principi demo- cratici, traduzione di
G. Crescenzi, Torino, Einaudi, 1Cantimori, Studi sulle origini e lo spirito del
capitalismo, pub- blicato su « Società » nel 1946, ora in Studi di
storia, Torino, Einaudi, 1959, p. 130. 393 In una lettera del
2 luglio 1943 alla sede romana, l’editore scri- veva di iniziare la
traduzione del volume di Répke, affidandola a Ernesto Rossi (AE,
Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1941-1944); scrivendo a Pavese il 9
agosto 1943, Pintor giudicava il volume «di grande attua- lità » (AE,
Pintor). 350 Le origini della casa editrice
Einaudî prietà contadina e condanna del « gigantismo »
economi- co —, e da cui Ropke partiva per indicare una « terza via
» o « umanesimo economico » — il modello era individuato nella
Svizzera —, che si risolveva in pratica nella ripro- posta del liberismo
classico in opposizione al socialismo °*: era quanto notava Cantimori,
ricordando che le lodi rivolte all'autore nel 1942-43 da Luigi Einaudi e
da Croce « furono uno degli ultimi episodi più notevoli, data la personalità
degli autori, della lotta intellettuale condotta sotto il do- minio del
fascismo dal gruppo “crociano” e diretta da una parte contro il fascismo
e dall’altra contro il comuni- smo » °?. Un liberalismo, quello del
futuro collaboratore de « Il Mondo », che sarà messo in dubbio da
Togliatti, per il quale era solo una mascheratura dello « sconcio
ghigno hitleriano » **. Del resto, se consideriamo i volumi
pubblicati fino al 1946 nella nuova serie dei « Problemi contemporanei »
— nella quale non aveva più diretta influenza Luigi Einaudi — e
nella « Biblioteca di cultura economica » — che secondo Balbo e Giolitti
avrebbe dovuto avere un carattere « non istituzionale e teorico, ma
storico-informativo » #” —, pos- 34 W. Ropke, La crisi sociale del
nostro tempo, traduzione di E. Bassan, Roma, Einaudi, Nella recensione a
Civitas Humana di Répke, pubblicata su « So- cietà » nel 1946, ora in
Studi di storia, cit., p. 715. Luigi Einaudi aveva visto rispecchiate le
proprie idee di politica economica nel volume di Ropke, mosso
dall’intento di « salvare la civiltà occidentale dall’avvento di una
democrazia livellatrice e collettivistica » (Economia di concorrenza e
capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, in « Rivista.
di storia economica », VII (1942), n. 2, pp. 49-72). 3% Il giudizio
di Togliatti, del 1952, è citato da N. Ajello, Intellettuali e Pci, cit.,
p. 259; già nel 1947, in una recensione di Bilancio europeo del
collettivismo pubblicato nei Quaderni di «Rinascita liberale », si
osservava su «Rinascita »: «se i liberali tedeschi non sono mai stati
altro che questo, si capisce benissimo come la Germania sia sempre stato
un paese reazionario e con tanta facilità abbia potuto Hitler pren- dervi
e tenere il potere » (« Rinascita », IV (1947), p. 271). Dell’« assidua
collaborazione » di Ròpke a « Il Mondo », che nei suoi primi anni si
ispi- rava al liberismo di Luigi Einaudi, parla P. Bonetti, « I{ Mondo »
1949-66. Ragione È illusione borghese, prefazione di V. Gorresio, Bari,
Laterza, 1975, p. 16. 39 Balbo (anche a nome di Giolitti)
alla sede di Milano, 10 ottobre 1945 (AE, Corrispondenza editoriale
Milano-Roma 1945). È da rilevare, tuttavia, che il 5 febbraio 1946 la
casa editrice assicurava Luigi Einaudi 351
siamo notare che Ropke è soltanto la punta estrema di un
‘orientamento che non si oppone drasticamente alla linea liberista: la
casa editrice non fa altro che rispecchiare l’arre- tratezza della
sinistra nel campo della cultura economica, e la sua rinuncia, in questo
momento, a porre in discussione il ruolo dell’iniziativa privata nella
ricostruzione ®**. È in- fatti significativo, da un lato, che nel primo
biennio post- bellico l’unica voce favorevole alla pianificazione sia
quella di Pasquale Saraceno *”, e, dall’altro, che gli studiosi ai
quali si guarda con maggiore attenzione siano statunitensi, cosî
che il liberatorio « mito » americano di Pavese e di Vitto- rini —
temperato negli anni ’30 dalla critica dei liberisti al New Deal
rooseveltiano — trova ora una sua realistica traduzione nell’immagine che
gli economisti e gli uomini politici americani danno del loro paese,
impegnato a supe- rare con la somma delle sue energie individuali la
nuova « frontiera » posta dall’eredità della guerra. Cosî, mentre
l’opera collettanea di Friedrich von Hayek, N.G. Pierson, Ludwig von
Mises e Georg Halm, Pianifi- cazione economica collettivistica (1946), è,
come annuncia il sottotitolo — « Studi critici sulle possibilità del
socia- lismo » — e il nome del prefatore, Bresciani-Turroni, una
decisa esaltazione del liberismo ‘*, a incarnare il nuovo mito riappare
Henry A. Wallace, l’esponente democratico che alla fine del 1946 aveva
rotto con Truman a proposito della della prossima pubblicazione —
poi non avvenuta — di The Road to Serfdom di Hayek: «La nostra Casa, come
Lei sa, non persegue un indi- rizzo politico di partito, ma pubblica
opere di varie tendenze — da Togliatti a Lippmann a Répke a Schumpeter —
secondo la linea già corag- giosamente seguita, nei limiti del possibile,
sotto il fascismo » (AE, L. Einaudi). 398 È quanto osserva,
anche in riferimento alle edizioni Einaudi, G. Santomassimo, Il dibattito
economico, in «Italia contemporanea », XXVI (1974), n. 116, p. 45.
39 Cfr. la prefazione di Saraceno a G. Bienstock, S.M. Schwarz, A.
Yugow, La direzione delle aziende industriali e agricole nell'Unione
Sovietica, traduzione di P. Saraceno, Torino, Einaudi, 1946 (ediz. origi-
nale 1944). 40 Von Mises — tanto lodato, assieme a Robbins e Hayek,
da Ernesto Rossi nelle sue lettere del periodo bellico a Einaudi (AE,
Rossi) — sarà giudicato da Piero Sraffa « un reazionario antidiluviano »
(a Balbo, 23 gennaio 1950, in AE, Sraffa). Le origini della casa
editrice Einaudi politica del governo americano verso l’URSS ‘!:
in un’ope- retta dall’accattivante titolo Lavoro per tutti
dichiarava che gli USA non avevano nulla da temere dal comunismo «
se il nostro sistema di libera iniziativa si dimostrerà all’al- tezza
delle sue possibilità », e di fronte all’aprirsi di nuovi mercati per
l'economia statunitense si mostrava fiducioso che « la guida economica
americana potrà recare alla regione del Pacifico un grande vantaggio
materiale ed una grande benedizione al mondo » ‘°; e l’esperimento di
colonizza- zione interna nella valle del Tennessee che Wallace
propo- neva a modello per il mondo intero, era puntualmente esa-
minato da David E. Lilienthal in Democrazia in cammino (1946). Un
energico richiamo al liberismo, contro i pianifi- catori di qualsiasi
colore, fossero fascisti, comunisti, o i sostenitori del « collettivismo
graduale » degli Stati demo- cratici, veniva da un altro esponente
democratico ameri- cano, Walter Lippmann: ne La giusta società — la cui
edi- zione originale era del 1936 — egli si dichiarava debitore
della « critica a una economia razionalizzata » svolta da von Mises e von
Hayek, ma anche da Keynes — « la cui opera è tutta volta a dimostrare che
l’economia moderna può essere regolata senza ricorrere alle dittature ed
è com- patibile con istituzioni libere » —, e cercava di dimostrare
che la libertà dell'individuo era assicurata dai principi origi- nari del
liberismo depurato di quelle degenerazioni che ave- vano portato a
processi di concentrazione produttiva — « il principio basilare del
liberalismo è [...] che il mercato deve essere lasciato libero di
funzionare, ed anzi perfezio- nato, come regolatore principe e primo della
divisione del lavoro » —, non senza usare toni apocalittici di sapore
puri- tano che ritroviamo in altri esponenti del mondo anglosas-
sone: « Gli uomini vivono in un mondo torbido, dove non si guarda più con
fiducia alla Provvidenza divina, quale ente regolatore delle cose umane,
dove il costume eredi- tato ha cessato d’essere di guida e la tradizione
non pi 41 Cfr., per l’attenzione di cui era oggetto da parte
comunista, Inter- vista con Wallace, in «l’Unità », 17 aprile 1947.
42 H.A. Wallace, Lavoro per tutti, traduzione di G. Olivetti,
Torino, Einaudi, santifica le vie fino adesso battute » ‘*. È lo stesso
Lipp- mann che ne La politica estera degli Stati Uniti e ne Gli
scopi di guerra degli Stati Uniti (1946) manifesta la sua tendenza
democratica sostenendo la necessità di un accordo USA-URSS per il
mantenimento della pace mondiale, ma al tempo stesso giustifica
l’espansionismo americano e coglie l’occasione per ammonire l’URSS che «
per quanto corrette possano essere le nostre relazioni diplomatiche, esse
non saranno quelle relazioni veramente buone quali dovrebbero
essere, finché nell'Unione Sovietica non saranno state in- staurate le
fondamentali libertà politiche e umane » ‘*. 12. La rottura dell’unità
antifascista e il rapporto col PCI La spaccatura politica che si
ha nel paese nel mag- gio 1947 ha profonde ripercussioni sulla casa
editrice, i cui legami col PCI si stringono ulteriormente provocando
un sensibile mutamento negli indirizzi culturali. Anche dopo la
fine dei governi di unità antifascista, all’interno del PCI non scomparve
completamente la prospettiva di una al- leanza con gli intellettuali
democratici: se al VI congresso del gennaio 1948 Togliatti invitava a
serrare le fila — « La nostra attività ideale non può non avere, come
l’attività pratica, l'impronta di partito » ‘ —, nel dicembre dello
stesso anno Alicata, pur notando che «la borghesia del nostro paese sta
compiendo un tentativo estremo per rior- ganizzare in senso reazionario
la cultura italiana, per tra- sformarla ancora una volta in una
efficiente barriera ideo- logica contro il marxismo », con la collusione
di cattolici e liberali in un « blocco antirazionalista », invitava a «
conti- nuare a lavorare per costituire un fronte della cultura il
#3 W. Lippmann, La giusta società, a cura di G. Cosmelli, Roma,
Einaudi, 1945, pp. 6, 9, 41, 221. Lippmann era autore anche di A Preface
to Moradls (1929). 44 W. Lippmann, Gli scopi di guerra degli Stati
Uniti, Torino, Einaudi, 1946 (ediz. originale 1944), p. 136.
45 Rapporto al VI congresso del PCI del 5-10 gennaio 1948, in P.
Togliatti, La politica culturale, cit., p. 90. 354 Le
origini della casa editrice Einaudi più possibile ampio » ‘*. La
situazione oggettiva non ren- deva tuttavia immediatamente praticabile,
come nel 1945- 46, questa indicazione, e il rapporto privilegiato che
si venne istituendo fra PCI ed Einaudi provocò profonde lace-
razioni — di cui è esempio la vicenda de « Il Politecnico » — e contrasti
interni fra i collaboratori. La casa editrice riuscf comunque a mantenere
una sua sfera di autonomia — basti pensare ai settori letterario, storico
e filosofico — che le permise di non essere isolata e, al tempo stesso,
di non istituzionalizzare il suo legame col partito. Proprio
il carattere non ufficiale del suo rapporto col PCI aveva permesso che
questo individuasse in Einaudi il canale più adatto, anche se non unico,
per diffondere la conoscenza del marxismo nella cultura italiana. La
deci- sione di affidare a Einaudi, piuttosto che all’editoria di
par- tito, gli scritti di Gramsci, si situa appunto in un quadro
che vedeva la pubblicazione, da parte della casa editrice, di testi di
Monti, Sforza, Sturzo, Nenni, Togliatti, Grifone e Sereni, e la proposta
di edizione delle opere di Salve- mini o, su suggerimento anche di
Togliatti, di quelle di Dorso e dei Discorsi di Giovanni Giolitti *”.
L’uscita, nel 1947, delle Lettere di Gramsci — che, come osservava
46 M. Alicata, Una linea per l’unità degli intellettuali
progressivi, ora in Inzellettuali e azione politica, cit., pp. 81,
84. 40 In una lettera all’editore del 23 gennaio 1947 Muscetta
avver- tiva, a proposito di Dorso di cui curerà le opere: « Bada che il
Partito Comunista, appena Togliatti avrà visto i manoscritti inediti,
desidera farsi promotore dell’edizione »; il 20 settembre scriveva che
Togliatti desiderava che fosse Einaudi a stampare Dorso (cfr. anche
l'esplicita richiesta di Togliatti a Einaudi del 24 settembre 1947, in
AE, Togliatti), e il 1° dicembre si scusava per non aver inviato i
manoscritti di Dorso: « Ma non era mica io a tenermeli. Era Togliatti, e
ce n'è voluto per riaverli »; il 4 marzo 1949 Giolitti avvertiva
l’editore che Togliatti aveva approvato la prefazione alle opere di Dorso
(AE, Muscetta, Giolitti). Il contributo di Dorso — morto all’inizio del
1947 — « dal marxismo può essere accettato per essere sisterzato »,
affermò Franco Rodano (Guido Dorso, in «Rinascita », IV (1947), p. 11).
Il 31 ottobre 1946 Muscetta proponeva a Pavese i Discorsi di Giolitti con
prefazione di Salvatorelli, e il 16 marzo 1947 gli scriveva: « Giolitti è
stato già da tempo gradito dal Togliatti » (AE, Muscetta). Inoltre, il 2
dicembre 1947, Bobbio interpellava Dal Pane per una raccolta di scritti
rari o inediti di Labriola, « magari come inizio di una più ampia
raccolta dell’opera filosofica e storica del Labriola » (Archivio privato
Bobbio). Felice Platone, « sono in buona parte come una introdu-
zione generale agli scritti che verranno dopo e ambiente- ranno il
lettore meglio di qualsiasi prefazione » —, costituî un inusitato
successo editoriale, se nel giugno 1949 la tira- tura era arrivata a
43.526 copie, di cui 37.254 vendute ‘*. Nel 1948 cominciò la
pubblicazione dei Quaderni del car- cere, che fu accompagnata tuttavia,
da parte della casa editrice, da impazienze e dubbi sulle reali
intenzioni del partito, se il 15 maggio 1947 Cantimori poteva
scrivere a Einaudi che con quelli della edizione di Gramsci
bisognerebbe usare mezzi feroci. Mi han fatto vedere il volume sulla
storia degli intellettuali, o com'è il titolo preciso, quello insomma
dove si parla di Croce, e dei problemi filosofici: è pronto (a meno di
una revisione del dattilo- scritto pessimo), e chi sa perché non lo fanno
uscire [...]. Sembra che qualcuno abbia scrupoli per le critiche al Croce
che ci sono in quel volume [...]. Ho protestato contro questi scrupoli,
con chi voleva sentire e con chi non voleva, Ma che cosa aspettano,
che Croce sia morto, per poi farsi dire da qualche stupido che non si
è avuto coraggio di pubblicare le critiche Croce vivo? E lo stupido
sembrerebbe aver ragione! Appena tornerò a Roma mi butterò alla carica
49. E il 15 ottobre 1948 gli faceva eco Einaudi che, prote-
stando con Togliatti per il ritardo del « si stampi » per i quaderni su
Gli intellettuali e l’organizzazione della cul- tura, invitava il
dirigente comunista a evitare « una tempo- ranea battuta di arresto »,
essendo 48 AE, Platone. Già il 7 giugno 1945 Togliatti aveva
scritto a Einaudi: « siamo perfettamente d’accordo sulle sue proposte
riguardanti l’edizione completa delle opere di Gramsci. Vogliamo solo
porre due condizioni: 1) Eventuali prefazioni e note di singoli volumi
che Ella vorrà pubbli- care in collane particolari, debbono avere la
nostra approvazione. 2) La Direzione del P.C.I., pur concedendo a Lei
tutti i diritti per questa edi- zione e le successive ristampe, si
riserva la proprietà letteraria dell’opera » (AE, Corrispondenza
editoriale Torino-Roma 1945). 49 Cantimori a Einaudi, 15 maggio
1947; lo stesso giorno Cantimori scriveva a Balbo: «La Direzione del
Partito farebbe meglio a spicciarsi a consegnarvi le opere di Gramsci
invece di farle conoscere a spizzico [...], o di avere scrupoli perché si
critica Croce »; il 30 settembre 1947 Balbo — su suggerimento di Einaudi
— inviava a Cantimori le bozze de // materialismo storico e la filosofia
di Benedetto Croce «in via privatissima affinché tu potessi, dando una
scorsa veloce, segnalarci eventuali notevoli lacune » (AE,
Cantimori). 356 Le origini della casa editrice
Einaudi ormai chiaro a tutti che Gramsci serve ai nostri compagni
per raf- forzarsi ideologicamente, per imparare a ragionare e a porsi
dei problemi, che Gramsci serve agli intellettuali non comunisti per
far loro misurare nella sua pienezza la nostra forza ideologica.
Non solo, ma è dimostrato che attraverso Gramsci molti intellettuali
si avvicinano al nostro partito e, sovratutto, si creano delle alleanze
41°. L’operazione che riusci con Gramsci non ebbe suc- cesso
— anche per la difficoltà di trovare i testi originali e traduttori
preparati — per il progetto di una « Collana marxista » di cui Einaudi
aveva parlato a Lucio Lombardo Radice già il 5 gennaio 1945 ‘, e che
nella fase di prepa- razione occupò, fra gli altri, Manacorda, Cantimori,
Emma Cantimori Mezzomonti, Luporini, Massolo, Bobbio, Balbo e
Giolitti. Su questo terreno si era già impegnata, subito dopo la
liberazione di Roma, l’editrice comunista Nuova Biblioteca diretta da
Carlo Bernari e per la quale Cantimori era stato incaricato di dirigere
la collana « Pensiero sociale moderno » ‘“; l’iniziativa non ebbe
tuttavia seguito e, prima che fosse ripresa dalle edizioni Rinascita,
alcuni dei cura- tori previsti confluirono nel progetto einaudiano. Ma
già nel luglio 1945 la collana veniva definita « minor » ‘, e
40 AE, Togliatti. 41 « Nell’intendimento di soddisfare
un’esigenza oggi largamente dif- fusa, la mia casa ha deciso la
pubblicazione di una “Collana Marxista” »; a Lombardo Radice Finaudi
offriva la cura dell’Indirizzo inaugurale di Marx del 1864 (AE, L.
Lombardo Radice). 412 Cfr. G. Manacorda, Lo storico e la politica.
Delio Cantimori e il partito comunista, in Storia e storiografia. Studi
su Delio Cantimori. Atti del convegno tenuto a Russi (Ravenna) il 7-8
ottobre 1978, a cura di B. V. Bandini, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp.
67-70. 413 .Manacorda a Bobbio, 18 luglio 1945; i testi già « in lavorazione
», non esistendo più il pericolo di interferire con la Nuova Biblioteca,
che «non fa praticamente nulla », erano: Manifesto e scritti
preparatori (Emma Cantimori), Guerra civile in Francia (Enzo
Lapiccirella), Lotte di classe in Francia (Mario Manacorda), Ideologia
tedesca (Arturo Mas- solo e Cesare Luporini), l’Imzperiglismo di Lenin
(Bianca Maria Luporini) (Archivio privato Bobbio). Il 10 maggio 1945
Renata Aldrovandi scriveva da Milano a Einaudi che «con Misha {Michele
Kamenetzki, che assumerà in seguito lo pseudonimo di Ugo Stille] è stata
discussa una collezione di civiltà marxista — raccolta di autori meno
classici di quelli del tuo programma ma imperniata sui problemi pit
partico- lari e attuali (es. il libro di Sereni sull’agricoltura in
Italia, ecc.): questa collana sarebbe costituita in parte con libri che
ha Vittorini, e in parte con la critica di libri italiani visti alla luce
marxista » (AE, Corrispon- denza editoriale Torino-Roma 1945). una
circolare editoriale annunciava testi brevi di Marx; Engels, Lenin e
Stalin, col sussidio di un commento espli- cativo, per « orientare il
lettore verso certi punti fermi del marxismo, e di introdurre allo studio
del marxismo, evi- tando quegli accostamenti attraverso materiale di
seconda mano finora tanto frequenti e tanto nocivi » ‘*. Il
progetto naufragò definitivamente nel dicembre 1946, quando Balbo
propose a Giolitti di inserire i vari testi marxisti nelle col- lane
esistenti e di farne una scelta accurata in modo da « mantenere le nostre
caratteristiche di Casa editrice rivolta a un pubblico abbastanza colto o
addirittura di studiosi » ‘. Non mancarono le proteste del PCI per il
fallimento della collana, finché nel 1948, in coincidenza con la
pubblica- zione del primo testo, Le lotte di classe in Francia di
Marx — nell’« Universale » #9 —, Togliatti scrisse a Einaudi che «
per i classici io non sarei favorevole a passare a te l'iniziativa
editoriale » ‘”. Si registrava cosî un pesante ri- tardo nella diffusione
del marxismo, reso evidente, ad esempio, dal fatto che ancora nel 1947 «
Rinascita » pub- blicava elenchi di testi di Marx ed Engels, in varie
lingue e 414 Circolare s.d. (ibidem). . 45. Balbo a
Giolitti, 10 dicembre ’46; nella risposta del 24 dicembre, Giolitti si
dichiarava d’accordo (AE, Giolitti). Assai riduttiva era invece la
proposta di Muscetta, che per il Manifesto suggeriva «la classica
traduzione di Pompeo Bettini e una prefazione di un tipo come Um- berto
Morra: proprio adatta al gran pubblico dei non marxisti» (all’e- ditore,
21 giugno 1947, in AE, Muscetta). . #16 Il 5 settembre 1947 Einaudi
scriveva a Cantimori che, «in se- guito allo smistamento della ex-collana
marxista », aveva proposto a Chabod di includere il volume negli
«Scrittori di storia »; Cantimori rispondeva di non essere d'accordo
perché le Lotte di classe costituivano «un grande esempio di analisi
critica politico-sociale, economico-politica, ma non un libro di storia
come invece può essere considerato il 18 Brumaio che tratta lo stesso
argomento ma a svolgimento storico con- chiuso »; il 13 settembre Chabod
dichiarava a Einaudi di condividere le ‘osservazioni di Cantimori, in
quanto l’opera di Marx era « un'analisi politico-sociale, che è al tempo
stesso un programma d'azione. Sul genere, insomma, dei Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio del Machiavelli » (AE, Cantimori, Chabod).
. 4? AE, Togliatti. Le proteste del PCI per il fallimento della «
Col- lana marxista » sono registrate, ad esempio, da una lettera di
Gio- litti all'editore del 16 aprile 1947: «Togliatti, impazientito per
i ritardi di queste pubblicazioni, ha esortato le edizioni del Partito
a pubblicare senza indugi» (AE, Giolitti). in vecchie edizioni,
presenti nelle biblioteche italiane. È in questo quadro, di
disinformazione e disorienta- mento, che si colloca il « caso » di
Gustavo Wetter,. il gesuita austriaco professore al Pontificio Istituto
Orien- tale in Roma, autore de I/ materialismo dialettico
sovietico. Il libro era stato presentato da Balbo come opera «
seria ed onesta, di carattere informativo, filologicamente cor-
retta e documentata, compiuta tutta su testi originali non accessibili
agli studiosi italiani per molto tempo. Le poche osservazioni critiche,
naturalmente condotte con metodo scolastico, sono però sempre
intelligenti e non settarie ». Bobbio ne prendeva atto, pur con qualche
dubbio, e un anno dopo Cantimori — particolarmente incline a
presen- tare come opere « documentarie » i testi di autori
spiritua- leggianti, come Capitini o Toynbee — esprimeva il suo
parere positivo: « è chiaro che è il libro d’un gesuita e non di un
comunista; è un libro utile, per le discussioni e retti- ficazioni che provocherà
» ‘. Ma, se Miccoli nota opportu- namente che il libro fu pubblicato un
anno dopo questo parere, « in un momento infelicissimo per le
“discussioni e rettificazioni”, evidentemente pacate, alle quali
pensava Cantimori » ‘, è difficile non cogliere l’atteggiamento
patti- giano dell’autore, che nel 1953 dedicherà su « La Civiltà
cattolica » un ritratto a Giuseppe Stalin demone dell’antire- ligione.
Nonostante l'avvertenza editoriale — che presen- tava l’opera come «
informatissima e aggiornata » dichia- rando al tempo stesso un «
fondamentale dissenso dalle premesse e dalle conclusioni dell'Autore » —,
Wetter affermava infatti che per i sovietici la filosofia era
ancella della politica, coglieva una presunta « affinità tra la
filo- sofia di Lenin e la filosofia religiosa russa » — «
nell’intui- zione d’un nesso e d’un’unità reali in cui fra loro si
uni- 418 Balbo a Bobbio, 17 ottobre 1945 (Archivio privato
Bobbio); Bobbio a Balbo, 20 ottobre 1945 (Archivio privato Balbo). Il 10
dicembre 46 Balbo scriveva a Giolitti che il testo era stato revisionato
da Can- timori, mentre il 19 giugno 1947 Giolitti, in una lettera a
Serini, diceva di aver preparato l’avvertenza al volume (AE,
Giolitti). 419 G, Miccoli, Delio Cantimori, cit., p. 253 (anche per
il siind a Toynbee}. Su tutta la vicenda cfr. anche G. Manacorda, Lo
storico -e la politica. Delio Cantimori e il partito comunista, cit., pp.
78-81. 359 scono tutte le cose del
mondo » —, e concludeva che «i materialisti dialettici sovietici, per non
esser costretti ad assoggettarsi a Dio, si gettano nelle braccia d’un
idolo. È forse altro, invero, quella materia a cui, negato Iddio,
ven- gono trasferite tutte le prerogative divine? » ‘’. Erano
quindi giustificate le lodi de « La Civiltà cattolica » *" e la
violenta stroncatura del volume da parte di Giuseppe Berti, che ne
sottolineava gli errori, la tendenziosità antisovietica, il
privilegiamento di sconosciuti intellettuali sovietici, e accusava di «
incredibile leggerezza » quei marxisti che ‘ave- vano consigliato la sua
pubblicazione ** — che fu un « er- rore », come riconoscerà più tardi lo
stesso Cantimori ‘* Una riflessione sul marxismo priva di preconcetti
rimase quindi limitata, in questi anni, a Ordine e vita del biologo
inglese Joseph Needham (1946), un volume già proposto da Alicata nel 1941
.che concludeva la sua analisi scienti- fica con l’accettazione del
materialismo dialettico ‘4; mentre una conoscenza dell’Unione Sovietica
più equilibrata di quel. la fornita dagli studiosi statunitensi fu
avviata — prima che nel 1950 fosse tradotta l’opera dei coniugi Webb
respinta da Giulio Einaudi nel 1938 ‘5 — con la traduzione di saggi
di altri autori inglesi, significativamente caratterizzati da un acritico
confronto con l’esperienza del cristianesimo primi- tivo. In Un sesto del
mondo è socialista l’alto prelato angli- 40 G.A. Wetter S.J., Il
materialismo dialettico sovietico, Torino, Einaudi, 1948, pp. XI, 393,
397, 399. A. Brucculeri, Scientismo marxista, in « La Civiltà
cattolica », 99 (1948), vol. I, pp. 508-512; cfr. anche, contro la
critica di ‘« Voprosy filosofii » all’edizione tedesca del volume, U.A.
Floridi, Materialismo dialettico e critica sovietica, in «La Civiltà
cattolica», 104 (1953), vol. Rio pp. 302-308. ° « Società »,
III (1947), pp. 705-716. n G. Miccoli, Delio Cantimori, cit., p.
253 n 44 Cfr. Alicata a Einaudi, 27 novembre 1941 (AE, Alicata), e
la favorevole recensione di Lucio Lombardo Radice in « Rinascita »,
III (1946), pp. 134-135. 45 Il 3 dicembre 1948 Mario Motta
scriveva a Einaudi: «I sondaggi sul Webb sono stati eseguiti. Tutto bene.
Il libro non è mai stato attaccato nell'Unione. Tanto Togliatti che
Sereni sono d'accordo sulla sua diffusione anche all’interno del Partito.
Togliatti però pensa ‘che forse sarebbe bene alleggerire l’opera di tutte
quelle parti documentarie che non hanno più un interesse attuale (per es.
la costituzione sovietica ecc.) » (AE. Motta). 360
Le origini della casa editrice Einaudi cano Hewlett Johnson
partiva infatti dalla constatazione dell’assenza di una base morale nel «
sistema » occidentale per cogliere nell’organizzazione della società
sovietica la possibilità di sviluppo di quei valori umani che « sono
per chi scrive indissolubilmente legati con la religione e la
tradizione cristiana » ‘9; un analogo afflato religioso per- corre Fede,
ragione e civiltà del laburista Harold J. Laski, per il quale
è difficile vedere su quali basi possa essere ricostruita la tradizione
della civiltà; all’infuori di quelle su cui si fonda l’idea della rivolu-
zione russa. Essa corrisponde, prescindendo dagli elementi sopranna-
turali, con esattezza considerevole al clima spirituale nel quale il
cristianesimo divenne la religione ufficiale dell'Occidente [...]. Ovun-
que si è affermata, l’idea della rivoluzione russa ha suscitato nei suoi
esponenti un’aspirazione ardente alla salvezza spirituale 47 I più
stretti rapporti instaurati nel 1947 col PCI tro- vano comunque espressione
soprattutto nella pubblicazione di testi di politica e di economia. Esce
nel 1948 Il Mezzo- giorno all’opposizione (Dal taccuino di un ministro în
con- gedo) di Emilio Sereni che, sollecitato nel febbraio dello
stesso anno da Balbo a fornire un parere sulla traduzione di The great
conspiracy in cui Michael Sayers e Albert E. Kahn analizzavano la «
cospirazione antisovietica » dalla Rivoluzione d’ottobre al secondo
dopoguerra — un libro, affermava Balbo, « estremamente utile in se
stesso, e oggi, per la campagna elettorale » —, chiedeva, anche a
nome di Togliatti, di accelerarne la pubblicazione perché il vo-
lume — tradotto nel 1948 in « Politecnico biblioteca » — era « ancor
nuovo e di grande interesse per il pubblico italiano e può avere ora una
grande efficacia propagandi- 46 H. Johnson, Un sesto del mondo è
socialista, a cura di A. Taglia- cozzo, Torino, Einaudi, 1946 (ediz.
originale 1944), pp. 7, 9; cfr. la recensione di Mario Montagnana i in «
Rinascita », III (1946), pp. "333 -334. 42 H.J. Laski, Fede,
ragione e civiltà. Saggio di analisi storica, tradu- zione di È. Bedetti
Aloisi Torino, Einaudi, 1947 (ediz. originale 1944), p. 60. Del leader
laburista fu pubblicato su «l'Unità » del 12 settem- DE sai l’articolo
«Ux popolo veramente libero » crea la nuova Ceco- slovacchia.
361 H fascismo e il consenso degli intellettuali
stica » ‘**, Alla fine del 1949, in un momento in cui il pro-
blema della terra si era riacutizzato con le lotte contadine nel
Mezzogiorno, Balbo si rivolgeva ancora a Sereni per invitarlo a scrivere
quella storia dell’agricoltura italiana di cui si avvertiva il bisogno in
un paese « che nella risolu- zione del problema agricolo ha uno degli
aspetti più deli- cati dell’intero problema politico del suo sviluppo »
* legata all’attualità politica era anche l’Introduzione alla
riforma agraria pubblicata nel 1949 da Ruggero Grieco, che nello stesso
anno, di fronte a « una palese offensiva contro la costituzione delle
Regioni » da parte della DC propo- neva una raccolta di suoi scritti su
Unità statale e decentra- mento regionale in Italia*®, E una più stretta
collabora- zione fra la casa editrice e il partito veniva chiesta da
Einau- di a Togliatti nel 1948 per promuovere in Italia una mag-
giore conoscenza della cultura sovietica, che avrebbe dovuto essere
rappresentata non solo da I/ marxismo e la questione nazionale e
coloniale di Stalin (1948), ma anche da « un’am- pia scelta di scritti di
Zdanov » curata personalmente da Togliatti ‘!. È inoltre in
questo periodo che si intensifica il ruolo di Antonio Giolitti nell'esame
e nella proposta di testi di eco- nomia, con la consulenza, da Londra, di
Piero Sraffa. Ebbe 48 Balbo a Sereni, 3 febbraio 1948, e Sereni a
Einaudi, 12 febbraio 1948 8 (AE, Sereni). 429 Balbo a Sereni
27 dicembre 1949, e Sereni — che accettava — a Balbo, 19 gennaio 1950;
nel 1947 Sereni propose anche un'antologia intitolata Bertoldo, i canti
dell’oppressione, del lavoro, della lotta (AE, Sereni). 4 «La
nostra posizione sull’ordinamento regionale e, quindi, a sostegno della
creazione delle Regioni, parte da due considerazioni fondamentali: dal
fatto che noi siamo sinceri fautori del decentramento amministrativo
regionale (l’ordinamento regionale cosi com’è stato sancito dalla
Costituzione non è dovuto al nostro concorso, se non in parte) e dal
fatto che la Costituzione deve essere applicata: se si comincia con il
rivedere questo o quel punto della Costituzione, si finirà col far
crollare la Repubblica », scriveva Grieco a Einaudi il 30 maggio 1949
(AE, Grieco). 41 Einaudi a Togliatti, 15 ottobre 1948; il 19
ottobre Togliatti rispondeva di essere d’accordo anche per la scelta di
scritti di Zdanov: «Quella che fa il partito non uscirà dalla cerchia del
partito. L'hanno cacciata in una collezione che si intitola: “Educazione
comunista”. E chi votrà farsi educare da noi? » (AE, Togliatti).
362 Le origini della casa editrice Einaudi
peso il suo giudizio negativo sull’opportunità di tradurre il saggio di
Sidney Hook sul marxismo — accusato di « trotskismo » da Togliatti 4 —,
cosî come la presenta- zione di Political economy and capitalism di
Maurice Dobb, che sarà tradotto nel 1950: in un parere editoriale
dell’ot- tobre 1947, che mette in evidenza il distacco dalla prece-
dente produzione della casa editrice in campo economico, Giolitti
attribuiva a Dobb il merito di cogliere il nesso tra Marx e
l’economia classica, di cui sono dimostrati ‘il vigore scientifico e il
carattere progressivo, mentre le successive teorie « soggettive » del
valore (scuola austriaca, « utilità margi- nale », ecc.) manifestano — a
un’indagine critica che sappia situarle storicamente — il loro
significato ideologico conservatore. La teoria marxista del valore è
convalidata sul terreno sperimentale, nella sua capacità di
interpretazione e di previsione di fronte ai fenomeni più moderni
dell’economia capitalistica (crisi, monopoli, ecc.). Un bel- lissimo
capitolo sull’imperialismo analizza le origini economiche del fascismo.
L’ultimo capitolo — sulla validità delle leggi economiche nell’economia
socialista — risponde efficacemente alle obiezioni mosse da Hayek, von
Mises e C. alla pianificazione economica col- lettivistica: e dimostra la
perfetta coerenza dell’economia pianificata con le posizioni veramente
valide e feconde dell’economia classica {la scoperta di questo nesso
costituisce forse l’elemento più interes- sante di tutto il libro, che
proprio per questo segna una data nella scienza economica) 43,
Si profila cosi un orientamento che, sia pure con ritardo, pone
fine all’ideologia liberista che aveva fin allora carat- terizzato la
casa editrice. Mentre Cesare Dami, collabora- tore di « Società » per i
problemi economici, mette a con- fronto in due testi del 1947 e del 1950
l’economia liberale con quella pianificata, con una chiara preferenza per
que- st’ultima *, la Relazione su l’impiego integrale del lavoro
43 Cfr. G. Manacorda, Lo storico e la politica. Delio Cantimori e
il partito comunista, cit., p. 70. Anche Giolitti, scrivendo a Einaudi il
29 agosto 1946, giudicava trotzkista l’autore: «Ora tu sai che la tua
casa è stata accusata di zoppicare un po’ da questa gamba (Reed,
Franklin, Hemingway); perciò reputerei politicamente inopportuna la
pubblicazione, da parte tua, di un libro di S. Hook » (AE, Giolitti). Si
trattava, probabilmente, di From Hegel to Marx: studies in the develop-
ment of Karl Marx (1936). 43 AE, Giolitti. 44 C. Dami,
Economia collettivista ed economia individualista (1947), ed Esperienze
di economia pianificata in una società libera di William Beveridge (1948) e
Gli insegnamenti economici del decennio 1930-1940 di H. W. Arndt
(1949) suggeriscono l’intervento regolatore dello Stato nell'economia,
venendo incontro all’esigenza, espressa da Giulio Einaudi, di « fare
libri che tengano conto del- l'economia dei paesi occidentali e ne
facciano una critica. Non trascurare certi filoni del laburismo inglese i
quali ten- gono conto dell’economia classica e la criticano
continua- mente al vaglio delle riforme richieste dalla crisi
dell’impe- rialismo » *, La realizzazione di questo nuovo
indirizzo apparve tut- tavia insoddisfacente a chi, come Balbo, pur
consigliando testi come quello di Wetter, concepiva il lavoro
editoriale come continuo suggerimento di problemi, senza la pretesa
di orientare dall’alto, didatticamente, il lettore. Prendendo spunto
dalla pubblicazione de La teoria del diritto nel- l'Unione sovietica di
Rudolf Schlesinger (1952), Balbo si rivolgerà a Einaudi, in uno dei suoi
ultimi interventi prima del distacco dalla casa editrice, per affermare
che libri « sulla linea di Schlesinger, Cole, Webb, Hook prima ma-
niera, Wallace ecc., insomma libri anglosassoni progressivi e corretti
verso URSS e comunismo sono libri utili, se vuoi, ad una provvisoria
propaganda ma non sono libri di vera cultura. Paiono vicinissimi a
capire; in realtà milioni di anni luce li separano da una vera comprensione.
Nel loro fondo, che non tutti avvertono esplicitamente ma che tutti
sentono subcoscientemente, quei libri sono oppio sottile: fanno in
maniera più inavvertibile e quindi anche meno significativa culturalmente
e più pericolosa, ciò che fece Croce in modo scoperto, chiaro e cosciente
» ‘#. Nel gen- naio 1949, intervenendo a una riunione editoriale
sulla « Biblioteca di cultura economica », egli aveva affermato che
il PCI « non deve prendere posizione, avallando la collana; ma di volta in
volta può consigliare o meno i vo- lumi. La Casa deve svolgere la
funzione di Casa editrice e 435 AE, Verbali delle riunioni
editoriali 1949-1950 (riunione del 12-13 gennaio 1949). 4%
Pro-memoria per il dott. Einaudi (AE, Balbo). 364 Le
origini della casa editrice Einaudi non può fare biblioteche di
partito » ‘”. Era una critica im- pietosa — nel paragone con Croce — e
forse « anacroni- stica », in quanto non teneva conto dei
condizionamenti imposti dall’imperante clima di guerra fredda: una
critica alla propaganda e al monolitismo culturale che veniva in
parte a contraddire il positivo accoglimento, da parte di Balbo, del
nuovo orientamento assunto dalla casa editrice nel 1947. La fine
dell’eclettismo e delle incertezze proprie della produzione editoriale
del 1945-46 era stata anzi auspi- cata da Balbo, che aveva accolto la «
svolta » del 1947 non come indice di una subordinazione al PCI, ma come
l’inizio di una politica d’intervento più organica e avanzata. Già
nel dicembre 1946, informando Franco Rodano di un suo ooqui con
l’editore, affermava che Einaudi aveva deciso i
mettersi a fare l’editore sul serio, cioè di affidare la fabbricazione
dei libri specialmente di tema politico-economico e strutturale (mi
capisci!) ecc. alle forze migliori che oggi sono inserite nel processo
democratico del paese. A farla breve si tratta di creare tutta una rosa
di libri seri, impegnativi e urgenti sui problemi che possono concre-
tare sul serio il nuovo corso: capitalismo di stato in concreto, per-
manenza amministrativa del fascismo, situazione culturale generale da un
punto di vista direi di geografia culturale, problema igienico nazionale,
problema agrario ecc. Si tratta naturalmente anche di dare inizio
finalmente a certi temi di marxismo teorico consoni alle esi- genze
attuali 48, concludeva proprio nello stesso momento in cui —
anche col suo avallo — naufragava il progetto di una « Collana
marxista ». Il « nuovo corso » della casa editrice suggerî a Balbo
una serie di scritti programmatici che si collocano nel pe- riodo
immediatamente successivo alla crisi del maggio 1947, e che hanno il loro
principale obiettivo polemico nell’idealismo crociano. Il 21 giugno di
quell’anno egli inviava a Einaudi una serie di proposte, accomunate dal
titolo significativo « L’Anticroce », che Giolitti farà pro- 437
AE, Verbali delle riunioni editoriali 1949-1950 (riunione del 12-13
gennaio 1949). 438 AE, Rodano.
prie, relative al rinnovamento delle varie collane — preve-
dendone una nuova di « cultura sociale-politica » —, par- tendo dalla
considerazione che la cultura idealistica, « inva- lidando per principio
le possibilità stesse degli studi socio- logici e in genere degli studi
umanistici condotti con metodi scientifici o fenomenologici », aveva
soffocato una nascita autonoma di questi studi in Italia **. Poco dopo,
in un articolo di risposta alla recensione fatta da Croce, nel
luglio 1947, alle Lettere di Gramsci, prendeva spunto da una frase
di Croce — « gli odierni intellettuali comunisti ita- liani troppo si
discostano dall’esempio del Gramsci, dalla sua apertura verso la verità
da qualsiasi parte gli giun- gesse » — per affermare:
Riconosciamo che in ciò vi è del vero, che molti di noi si manten- gono
al di sotto di quel livello sia nelle intenzioni, sia nelle realiz-
zazioni. Ma dobbiamo anche ricordare a Croce che molti intellettuali
comunisti cercano sul serio di migliorarsi e di imparare e che co- munque
il livello degli altri intellettuali italiani è forse ancora più basso
del nostro, se non si vuole continuare a scambiare per cultura l’arcadia,
la raffinatezza fine a se stessa, l’educazione ipocrita. Soprat- tutto
dobbiamo ricordare a Croce la realtà che egli più ha dimen- ticato nel
suo pensiero e che ne è certo stata la ragione più grave di debolezza:
questa realtà è il popolo, il popolo oppresso, spesso ignorante e
violento, quel « volgo » che egli disprezza e che è pur formato di uomini
come noi e come lui [...]. Forse allora compren- derebbe che Gramsci non
può essere diviso dal suo partito, che Gramsci appartiene a tutta la
cultura italiana, ma che il partito comunista italiano è parte integrante
della cultura e del pensiero di Gramsci, è parte integrante della cultura
italiana #0, Può quindi apparire tUn’ironia della storia che
l’inter- vento più organico del Balbo « militante », sulla Cultura
antifascista, fosse nato come promemoria per Einaudi e che, al tempo
stesso, venisse pubblicato con alcune modifiche, nel dicembre 1947, nel
numero col quale « Il Politecnico », dopo le critiche di parte comunista,
fu costretto a termi- nare le pubblicazioni. E di AE, Balbo;
cfr. anche Giolitti a Einaudi, 4 luglio 1947 (AE, iolitti).
40 AE, Balbo (articolo per «l'Unità »); la recensione di Croce è
ora in Due anni di vita politica italiana (1946-1947), Bari, Laterza Oggi
l’Italia è tutta piena di Benedetto Croce (e, nota, del Croce deteriore)
e ancora è tutta piena, contrariamente alle apparenze, di Gentile —
scriveva Balbo — [...]. La mentalità papiniana, giuliot- tesca,
prezzoliniana è rimasta come un substrato generalizzato e dif- fuso nel
retroterra culturale di ognuno. Le categorie di giudizio, sia culturale,
sia politico, si muovono ancora completamente su di un terreno che va da
quello di Mussolini stesso in persona a quello della Civiltà Cattolica, a
quello del più stracco spiritualismo cattolico di importazione francese e
di un esistenzialismo universitario ed estrin- seco. Insomma in Italia si
è rimasti senza Gramsci, senza Dorso e senza Gobetti. E,
rivolgendosi in particolare a Einaudi, affermava che la casa
editrice per la sua struttura, per il suo passato, per i suoi
quadri interni ed esterni, attuali e possibili, può svolgere un compito
fondamentale nel movimento per l’abbattimento della vecchia egemonia
culturale bor- ghese e per la creazione metodica e sensibile della nuova
egemonia culturale proletaria e finalmente moderna [...]. Strumento e
base per la ricerca qualificata e per la socializzazione è oggi non
tanto l’università o la scuola quanto l’editoria; e, in
armonia con una tradizione culturale cara all’editore torinese,
concludeva insistendo per la pubblicazione delle opere di Gobetti, che
avrebbero costituito « uno specchio nel quale la borghesia più
intelligente potrebbe scorgere la “sua vera faccia” e, per rivalsa, la
“falsa faccia” di una borghesia che vuole a tutti i costi illudersi di
saper soprav- vivere al fascismo » ‘'. Cosî, proprio quando lo scontro
nel paese si faceva più duro, a Balbo sembrò giunto il momento
opportuno per realizzare il suo « modello » di casa editrice: sotto la
spinta dell’ottimismo maturarono nella sua fervida mente nuovi progetti,
da quello di una « rivista di ricerche e sviluppo storico-ideologico »
per la quale alla fine del 1947 aveva già impostato il lavoro assieme a
Rodano, Motta, Giolitti e Gerratana, a quello del 1948 — sostitu-
tivo della rivista — di una collana « Il nuovo politecnico » assieme a
Vittorini, fino alla proposta, realizzata nel 1950, di trasformare la «
Collana di cultura giuridica » in « Bi- 41 AE, Balbo.
blioteca di cultura politica e giuridica » *. Ma il terreno sul quale
Balbo concentrò i suoi sforzi per realizzare una cul- tura « critica »,
tale tuttavia da scontrarsi duramente col laicismo di Bobbio, fu quello
filosofico. Il primo progetto di una « Biblioteca di cultura
filoso- fica » era stato formulato nel 1941 da Bobbio, che aveva
preso contatti con Abbagnano, dal quale vennero le propo- ste di tradurre
la Metapbysik di Jaspers e, sempre sull’esi- stenzialismo, L'illusione
della filosofia della Hersch, pub- blicato nel 1942 nei « Saggi ». Nel
marzo del 1943, dopo ulteriori contatti con Della Volpe, Banfi, Levi e
Garin, Bobbio ritenne giunto il momento di annunciare l’uscita
della collana filosofica che, al di sopra di ogni pregiudizio
d’indirizzi e al di là di una visione tecnicamente angusta della
filosofia, raccoglierà opere antiche e mo- derne, tanto più accette
quanto più trascurate dagli storici della filo- sofia, e considererà come
suo principale fine e suo rigoroso dovere tener conto della infinita
problematicità del pensiero filosofico attra- verso le sue inesauribili
incarnazioni nei diversi tempi e nei diversi campi del sapere.
La collana, che avrebbe dovuto configurarsi come una via mediana
tra i « Classici » Laterza e la « Cultura del- l’anima » Carabba,
prevedeva opere di Butler e di Hume per l’illuminismo, per 1’800 tedesco
Avenarius e i Principi di una filosofia dell'avvenire di Feuerbach,
Kirkegaard e Jaspers per l’esistenzialismo, Juvalta e Martinetti
come rappresentanti della filosofia italiana contemporanea **. Nel
1943 l’inizio della « Collana di cultura giuridica », con l’in- clusione
delle opere di Binder e Gierke originariamente previste per la collana
filosofica, fece fallire per il momento l’iniziativa, senza che per
questo si fermasse l’attività di Bobbio, che in una lettera a Banfi
presentava la collana progettata come una raccolta di « libri
rappresentativi di quella filosofia costruttiva (contrapposta alla
filosofia spe- 42 Cfr. in particolare, per questi e altri
progetti, i documenti dell’Ar- chivio privato Balbo. 43 Cfr.
in particolare le lettere di Bobbio a Einaudi del 3 agosto 1941, 26
aprile 1942, 8 marzo e 29 aprile 1943 (AE, Bobbio). 368
Le origini della casa editrice Einaud? culativa) che la
filosofia italiana ufficiale, e la stessa storia. della filosofia scritta
dagli scrittori ufficiali ha quasi sempre: ignorato, e che è poi l’unica
filosofia veramente “peren- ne” »; e citava, fra gli altri, scritti di
Cattaneo e di Frege,. per rafforzare la caratterizzazione neo-positivista
della col- lana da lui voluta contro la presenza, che pur non
riuscirà a evitare, di un filone esistenzialista. Erano
affermazioni coraggiose nel clima culturale dell’epoca, rese più
esplicite nel luglio 1945 quando Bobbio, nell’atto di dare
finalmente: avvio alla collana, parlò di « libri rappresentativi di
tutte: quelle correnti filosofiche che nel mondo filosofico-accade-
mico italiano — diviso tra idealisti e neo-tomisti in lotta. fra loro —
erano respinte con maggior o minor impeto come: filosofia non ufficiale »
‘*. La collana diretta da Bobbio e Balbo iniziò in tono:
minore, nel 1945, con I limiti del razionalismo etico di Erminio Juvalta,
di cui tuttavia Geymonat — che lo aveva proposto — metteva in luce il
rifiuto per le « soluzioni puramente verbali », « il valore impegnativo e
profondo di tutta l’attività politica, sociale ed economica », e la
nega- zione del carattere anti-individualistico del socialismo **
Continuò con le Lezioni di filosofia di Calogero, caldeggiate da Bobbio
‘, e La mia filosofia di Jaspers, un testo dal quale: Bobbio prendeva le
distanze, ma che, affermava, « potrà servire ad eliminare diffidenze
preconcette e altrettanto in- consulti entusiasmi », e venire incontro «
ad un’aspetta- tiva talora eccessiva che è in molti » *”. Senza
pretendere: #4 AF, Banfi; Archivio privato Bobbio (Bobbio alla
sede romana, 13 luglio °’45). Il 20 ottobre ’45 Bobbio si dichiarava d’accordo
con Balbo per presentare « le opere rappresentative dei principali
indirizzi di pensiero moderno, da Hegel in poi, senza correr dietro alla
moda» (Archivio privato Balbo). 45 E. Juvalta, I limziti del
razionalismo etico, a cura di L. Geymonat, Torino, Einaudi, 1945, pp.
VIII, X-XII. Cfr. anche le lettere dell’editore alla figlia di Juvalta, 1
agosto 1942 (AE, Juvalta), e di Geymonat a Pavese, 19 febbraio 1943 (AE,
Geymonat). #6 Cfr. « Pro-memoria per la Direzione Generale » della
redazione romana, in AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945.
Sul « moralismo » dell’opera di Calogero cfr. le osservazioni di Nicola
Ba- daloni in « Società », III (1947), pp. 140-141. 47 K.
Jaspers, La mia filosofia, traduzione di R. De Rosa, Torino,. Einaudi,
1946, pp. VII-XI (avvertenza di N. B.). di dare un giudizio
complessivo sulla collana, ci sembra sufficiente accennare al suo
carattere articolato, non uni- tario, che riflette le diverse «
preferenze » dei suoi ispira- tori. Sono ad esempio significativi i
giudizi espressi da Bobbio e da Balbo sui Principi della filosofia
dell’avvenire di Feuerbach: presentando la prima edizione
dell’opera, nel 1946, Bobbio osservava che la filosofia di Feuerbach
si collocava « tra la crisi del romanticismo e la nascita del posi-
tivismo », e che dal secondo accoglieva « una netta aspira- zione
antispeculativa, un’accettazione supina ed ingenua della realtà dei
sensi; ma accoglie pure, dal primo, un’invin- cibile ripugnanza a toccare
veramente il fondo del problema concreto, la tendenza ad un
sentimentalismo un po’ faci- le » #*. In occasione della ristampa del
1948, invece, Balbo notava l’affinità tra il nostro mondo
attuale in particolare italiano, e quello in cui si formò il pensiero di
Feuerbach e in cui ebbe origine il grande movi- mento marxista. La crisi
culturale apertasi con la dissoluzione della filosofia di Hegel è
tutt’altro che chiusa, Ancora permangono sia pure in una diversa fase di
sviluppo i motivi sociali ed economici che l'hanno determinata. E, in
Italia, specialmente per via della filosofia di Croce e di Gentile e del
fascismo, c’è stato un ritardo ideologico nel prendere piena coscienza
della crisi. Croce e Gentile in questo senso sono stati veramente epigoni
hegeliani perché hanno mantenuto vivo di Hegel proprio ciò che di pit
«teologico » in senso feuerbacchiano c’era nella filosofia di
Hegel; e osservava che la passione, il violento
bisogno di aria e di luce reale, « sensibile », con cui Feuerbach rompe
il sistema della « Teologia razionale » di Hegel, l’entusiasmo di Marx e
di Engels nel leggerlo, sono ancora cose nostre, sono esperienze di molti
e molti giovani studiosi e uomini di cultura, in Italia che ancora oggi
cercano di rompere l’idea- lismo e ritrovare il mondo, la realtà
‘9. Un giudizio, questo, da cui è ricavabile non solo la di-
vergenza con Bobbio — che sarà esplicita nel 1950 nel #8 L.
Feuerbach, Principi della filosofia dell'avvenire, a cura di N. Bobbio,
Torino, Einaudi, 1946, p. IX. «9 Significato di una ristampa, in Archivio
privato Balbo. 370 Le origini della casa editrice
Einaudî dibattito fra i due sulla « Rivista di filosofia » ‘*, e
indica una spaccatura all’interno della casa editrice —, ma anche,
nello stesso Balbo, la tensione fra la necessità di proposte positive —
in questo caso, Feuerbach in funzione antiidea- lista — e l’asserita
problematicità del lavoro editoriale. Mentre dimostrava con questo
giudizio il suo « settari- smo » — per usare in senso non dispregiativo
un termine che egli respingeva —, in alcuni « Appunti per
l’imposta- zione delle pubblicazioni filosofiche Einaudi » Balbo
lamen- tava il rinchiudersi del mondo accademico italiano in scuole
e sette, osservava che il giudizio sulle collane filosofiche dipende
in primo luogo dal deci- dere se si tratta di accettare, « riflettere » e
conservare la situazione storico-sociale presente, o se si tratta di «
conoscerla », criticarla e mutarla [...] — e, al tempo stesso, che — una
casa editrice di « op- posizione culturale » come la Einaudi manca al suo
carattere se in un momento storico in cui messuno ha la soluzione dei
gravissimi pro- blemi dell’ora si schiera da una parte o partito o setta
sia pure la pit « intelligente » 0 « colta » o « ben educata » o «
progressiva ». Una casa editrice di opposizione culturale è una casa
editrice che chiede, in tutti i modi che le sono propri, la soluzione ai
problemi dell'ora attraverso alle manifestazioni di bisogni, problemi
aperti, prospettive nuove, fornitura di servizi per la ricerca teoretica,
sensibilità alle voci degli oppressi, degli esclusi, dei dimenticati
ecc. E aggiungeva, lasciando aperta la possibilità di un
recu- pero di forme differenziate di speculazione filosofica: « Se
la situazione culturale è di crisi radicale significa che nulla più della
passata filosofia ci serve per lo meno cosi come storicamente si è
data. Ma quando w%/la più serve o c’è la fine assoluta o tutto
serve » *!. 40 Ora in F. Balbo, Opere 1945-1964, con introduzione
di M. Ran- chetti, Torino, Boringhieri, 1966. 4531 Archivio
privato Balbo. Riflettendo ancora su «Senso e funzione delle
pubblicazioni filosofiche Einaudi », Balbo affermava che una collana
filosofica andava concepita «come un servizio da rendersi alla società
italiana », alle « minoranze rivoluzionarie (che innanzi tutto si formano
con la filosofia)», ma che «l’idea di servizio implica la concezione dei
fruitori come totalità, ed esclude quindi a priori una qualsivoglia ten-
denza a identificarsi con i blocchi dominanti »: «la collana deve mirare
a completare, ad allargare e a tenere aperto, cioè a far progredire 7 va
l’orizzonte problematico della situazione filosofica italiana »
ibidem). 371 Quando si passò alle
scelte concrete, il dissidio tra Bobbio e Balbo — che intendeva riservare
un settore della collana al tomismo — non poté essere che profondo.
Il punto su cui siamo d'accordo è questo: massima apertura — gli
scriveva Bobbio il 6 aprile 1952 — [...]. Il guaio è che la tua parte di
chiusura (le correnti empiristiche) coincide perfettamente con la mia
apertura, e la mia parte di chiusura (il misticismo medio- evale e
medioevalizzante) coincide altrettanto decisamente con la tua apertura.
Ti dico francamente che la presenza di testi come lo Pseudo-Dionigi e
Bòhme, in una collana filosofica di una casa editrice che si presenta
come una casa di avanguardia culturale, mi ha fatto rabbrividire [....].
Doveva essere ben decaduta la filosofia nel medio- evo se lo
Pseudo-Dionigi era destinato a diventare, come tu giusta- mente
riconosci, un fatto decisivo per il pensiero medioevale [....]. La verità
è che tutta la tua impostazione, nonostante la pretesa di essere della
massima apertura, è guidata da una polemica molto chiara: la polemica
contro il pensiero moderno. La cultura universitaria, aggiungeva
Bobbio, soffre di grande nostalgia per il pensiero teologico,
perché sembra che le idee (e anche le cattedre) siano meglio garantite
dalla credenza nei cori angelici di Pseudo-Dionigi che dal dubbio
cartesiano [...]. Credi, se oggi in Italia c’è un lavoro culturale da
fare, è per fermare lo zelo antilluministico, non già per aiutare i
zelatori della Contro- riforma a chiuderci la bocca. Bada che a giudicare
come vorresti tu « massimamente insufficienti » le « posizioni più
avanzate », si rischia di fare cosa non tanto nuova né tanto peregrina in
Italia, dove se c'è una vecchia e persistente e sempre contagiosa
passione è la pas- sione per le posizioni più reazionarie non per quelle
più avanzate, e dove le posizioni più avanzate hanno fatto di solito la
nota e tragica fine che sappiamo #2. Le parole di Bobbio
erano indice della difficoltà estrema in cui veniva a trovarsi la cultura
progressista ancora nel 1952, l’anno della morte di Croce, quando anche
Togliatti 452 Archivio privato Balbo. Il 15 febbraio 1952 Bobbio
gli aveva scritto che «in un ambiente filosofico come il nostro saturo di
spiri- tualismo sedicente cristiano (che è la filosofia della pigrizia
mentale) un po’ di cultura empiristica che abitui alla analisi rigorosa e
paziente fa- rebbe molto bene [...] Ma già tu hai scritto contro
l’empirismo e hai portato tanta acqua al mulino di tutti i reazionari della
filosofia, di tutti gli spiritualisti... » (ibidem). Sul tomismo di Balbo
cfr. G. Invitto, Le idee di Felice Balbo, cit., pp. 104 ss.
372 Le origini della casa editrice Einaudi — come
abbiamo visto — riconosceva nella politica cultu- rale del PCI «
discontinuità, asprezze, capitolazioni non necessarie, oscillazioni tra
la pura propaganda e l’azione culturale di più ampia portata, e anche
contraddizioni » ‘*. La Casa sta attraversando una crisi grossa,
la più grossa dopo quella del 1935 quando restai letteralmente solo — scriveva
Einaudi a Balbo il 10 dicembre 1951 — [...] al fronte antifascista chiaro
e compatto del periodo fascista, che era tenuto da tutti gli strati
sani della nazione, si è sostituito un fronte anticomunista che è tenuto
da strati sani ed insani della borghesia, e da irrequiete e
intelligenti forze intellettuali. Ma il suo appello
all’unità contro il fronte anticomu- nista non poteva essere più raccolto
da Balbo, divenuto critico implacabile del « settarismo » del PCI.
Se tu davvero presentassi la linea della Casa come lotta contro la
cultura ufficiale insipida e decadente avresti presto o tardi attorno a
te le forze sane della cultura — rispondeva Balbo all'editore il 12
dicembre 1951 —. Ma come fai a presentarti così se accetti di fatto
direttamente o meno, la direzione culturale comunista? Oggi non esiste
cultura più ufficiale e insipida di quella comunista: questo è un fatto
‘%. E le riflessioni amare stese da Balbo sulla casa edi- trice
— una specie di sua « storia » —, che gli servirono per chiarire a se
stesso il proprio distacco da Einaudi, cer- cavano di spiegarne la crisi
alla luce di quelle che gli sem- bravano le sue caratteristiche
originarie: La casa editrice Einaudi è nata da profonde esigenze
di rinnova- mento che si manifestarono in Italia dopo l'affermarsi
stabile del fascismo che rivelava il problema del male della civiltà
moderna. Non è stata perciò mai definita unicamente dall’antifascismo
{...] ha sempre teso al postfascismo, alla vittoria costruttiva sul
fascismo. A questo si lega anche la sua adesione al comunismo: in quanto
il comunismo in Italia per opera di Gramsci-Togliatti si presentò
come la più forte garanzia e promessa di un effettivo rinnovamento,
di una costruttiva vittoria sul fascismo. In tal senso era più forte
del- l’arbitrio dei singoli il suo tendere a congiungersi al comunismo.
E 43 Togliatti, La politica culturale, cit., p. 196. 44
Archivio privato Balbo. va anche da sé che cosi si spiega come tale
adesione non sia mai stata di « soggezione » né di « mitigazione » del
comunismo ma da potenza a potenza ossia da realtà a realtà. Veramente era
falso dire che la casa editrice Einaudi fosse una casa editrice comunista
ed era pure falso dire che fosse paracomunista. Anzi,
aggiungeva, l’elemento che aveva accomunato Ginzburg, Pavese, Venturi,
Muscetta, Pintor, Balbo, Gio- litti, Bobbio, Alicata e Vittorini, « non
era il laicismo, non era il razionalismo, non era il comunismo core tale
nean- che per i comunisti. Era la causa del rinnovamento, la causa
rivoluzionaria »; ma l’incontro di questi intellettuali era soggetto « a
fatale decomposizione su due fondamentali sollecitazioni: quella interna
della crescita organizzativa e quella esterna della situazione storica
generale [...]. Con la morte di Pavese venne a mancare l’ultimo residuo
puntello dell’autonomia della casa editrice », la quale si era
quindi trasformata in « terza forza paracomunista » incapace di
costituire un « servizio » per la cultura italiana nel suo complesso
‘°. Il giudizio di Balbo — sulla cui posizione ci siamo sof-
fermati perché emblematica dei problemi e dei difficili equi- libri nei
quali doveva muoversi la casa editrice — conte- neva alcuni elementi di
verità, ma anche profonde contrad- dizioni, nell’individuare in un primo
tempo, ad esempio, il « rinnovamento » col comunismo, per poi mettere in
netta contrapposizione i due termini. Esso peccava inoltre, come
quello di Giulio Einaudi, di una visione idillica delle ten- denze
originarie della casa editrice, fosse il « fronte antifa- scista chiaro e
compatto » o la « vittoria costruttiva sul fascismo ». Senza voler nulla
togliere al peso delle « inten- zioni », le concrete vicende della casa
editrice non indicano infatti una univoca e lineare direttiva culturale e
politica. Alla cultura del regime essa non rispose soltanto col
silenzio nei riguardi del fascismo, ma in modi differenziati, che
ac- canto a coraggiose prese di posizione de « La Cultura »
455 Dattiloscritto s.d.; ma nella lettera del 12 dicembre 1951 a Finaudi
Balbo diceva di aver «preparato una specie di storia della casa editrice
» (Archivio privato Balbo). 374 Le origini della casa
editrice Einaudi vide a lungo la battaglia liberista di Luigi
Einaudi, assai più conservatrice di quella crociana, tanto da trovare
punti di convergenza con le scelte culturali e politiche dominanti,
anche al di là del comune antisocialismo; una forte presenza di
intellettuali aderenti a Giustizia e Libertà, al liberalsocia- lismo e
quindi al Partito d’Azione, il cui scontro con i comunisti — non uniti al
loro interno — sarà assai duro nell'immediato dopoguerra, proprio attorno
al modo con- creto di intendere il « rinnovamento »; e infine — ma è
un dato rilevante fino alla decisa riaffermazione del laicismo da
parte di Bobbio — un filone spiritualista o religioso e catto- lico che,
se poté avere una funzione di stimolo alla rifles- sione e al dubbio di
fronte alle certezze del regime, conte- neva in nuce notevoli elementi di
ambiguità in quanto con- notato, in molti casi, da un potenziale
ideologico reazio- nario, o, nelle voci più aperte, da una tendenziale
fuga dalla realtà: una tematica religiosa che confluirà nel 1948,
con ben altro respiro, nella « Collezione di studi religiosi, etno-
logici e psicologici » voluta da Pavese e da Ernesto De Mar- tino. Può
forse sorprendere che questi motivi perman- gano a caratterizzare la casa
editrice fino, almeno, al 1947, che costituisce la vera data
periodizzante della sua storia, tale da concluderne, a nostro avviso, il
capitolo delle origini. La « battuta » di Balbo, secondo la quale
l’Einaudi del 1945 era « più fascista di Einaudi 1940 », indicava
infatti la persistenza di un passato dal quale era difficile
sbaraz- zarsi rapidamente: una « tradizione » di cui abbiamo cer-
cato di mettere in luce la complessità, e che la semplice categoria di «
antifascismo » è insufficiente a « contenere » e a spiegare in tutte le
sue articolazioni. Abba Abbagnano Abramo Abrate Agnoletto Agosti Agostino Ajello
Alatri Alberti Aldrovandi Alessandro Alessandro Alfassio Alfieri Alicata Alighieri
Alimenti Aliotta Almagia Aloisi Althusius Alvaro Amendola Amendola Amendola,
Giovanni Amendola Amiel Anderson, S., 202, 247. Andreucci, F.,
104, 165, 191, 240. Andriulli Angiolini Anile Antoni Antonicelli Aquatrone
Arangio Ruiz ARGS Armndt Argenson, R-L. W. d’, Arpinati, L., 60.
Arrivabene, G. G., 33. Ascoli, G. I., 159. Asor
Rosa, A., Avenarius, R., 368. Azimonti, C. F., 221.
Babel, I. E., 202. Babeuf, F. N., 308, 346. Badaloni,
N., 74, 100, 369. Balbo, C., 252, 255, 256. Balbo, F.,
12, 285, 289, 290, 319, Baldini, N., 307. Ballarini Bandini,
B. V., 357. Bandini, L., 291, 292. Banfi Baratono, A.,
59. Barbagallo, C., 107, 174, 181. Barbera, G.,
153. Barbera, M., 149. Barbera Baretti, G., 174.
Bargellini, P., 200. Barié, G. E., 240. Barker,
E., 213. Barone, G., Barth, K., 349. Bassan, E., 351.
Bassani Bassi Basso Battaglia Baur Bavink Beccaria Bedarida, H., 243.
Bellezza Belloc Bellonci, G., 324. Belluzzo Bemporad, E., 26, 30.
Benda, J., 349, 350. Benedetti Benedetti Aloisi Benedetto, L. F.,
134. Berdjaev, N. A., 320, 321. , 241, 266. Ber Jey,
G.F. 'H, 243. Bernari Bernstein, $, 346. Berti, G., 346, 360.
Berti, L., 280. Bertin, G. M., 266. Bertoni, G., 153. i
Jovine Bettini Bettinotti Bevione Beveridge, W., 364. Bianchi Bandinelli Biasutti
Bienstock, G., 352. Bilenchi, R., 333. Binder, bi. vi 368.
Bini, C., Ra a di, 86 Bissolati, L, 104, 189, 258, 259.
Bloch, M, 343. Blondel, M, 241, 349. Blum, L., 215. Bobbio,
Bobbio Bohr Bollati Bompiani, Vv, 198, 200, 245. Bonald Bonaparte,
N., 289. Bonetti Bonfante, P., 25, 55. Bonghi, R Bongiovanni,
B., 9. Bonifacio VIII, 256. Bonomi, I., 28, 104, 189,
250, 257, 258, 259, 298, 319, 320, 323. Bontempelli,
M., 163. Borsa, G., 230Borso Bortone Bosco Boselli Bossi Bottacchiari,
Bottai Bottasso, E., 40. Bourgin Botti Braudel Bravo, G M,
281. Bresciani Briamonte Bricarelli Brissot, J. P., 117.
Brofferio, A., 208. Broglie C.-J-V. A. de, 281.
Brown, D. V., 227. Brucculeri, A., 225, 264, 265, 267,
268, Bruers, A., 188. Bruguier Brunello Bruno Bryce Bulferetti Buonaiuti,
Buonarroti Burckhardt Burdach Busnelli Butler Cabella Cabiati Cabrini, A.,
104. Cadorna, L., 26, 55. Caffè, F., 209. Caggese, R.,
Cagnetta, M., 275. Cajumi Calabi, G., 29. Calamandrei Calderoni,
M., Caldwell, E. P., 200. Calò Calogero Calosso Campanella Camurani Canella
Cannistraro Cantimori Cantimori Cantoni Cantoni Caparelli Capasso Capitini, A.,
196, 197, 272, 273, 348, 359 , S., 59, Carducci, G.,
23, 24, 163, 276. 222, 225, 235, D., 6, 15, 98, ill,
124, 160, 193, 194, 290, 294, 303, 318, 328, 333,
345, 347, 357, 358, Indice dei nomi Carducci,
N., 246. Carli, G., 237. Carlini Carlo Alberto Carlo
Emanuele I, 128. Carlo Magno, 120. Carocci, A., 203,
204, 246. Carrara, E., 63, 240. Casamassa, A.,
142. Casali, A., 196. Casati Casini Cassirer Castelli,
D., 159. Castris, A. Castronovo, V., 5, 26, 33, 34, 208..
Casula, C. F., 336. Catalano, E., 247, 327.
Cattaneo Caviglione, C., 138. Cavuor, C. Benso, conte di,
176, 212, 250, 252, 253, 276, 298, 299, 302, 313, Cechov, A.,
202. er I; "38, ‘112 Cesarini, M, 266.
Ceva Ceva, M., 316. Chabod Chamberlin, E, 3a
Chamberlin, w H., 231, 232, Chiappelli, A., 42, 159.
Chiavolini, A, 62. Chichiarelli, E., 253, 300, 301.
Chiesa, F., 163. Chiovenda, G., 26, 28.
Chiuminatto, A., 247. Ciacchi, E., 173.
Ciamician, G., 26. Ciampini, R., 275, 276.
Ciarlantini, F., 197. Ciasca, R., 58. Ciccotti Ciliberto,
M., 6, 113, 122. 381 Indice dei nomi
Cilibrizzi, S., 24. Cione, E., 242, 258, 298, 305.
Ciuffoletti, Z., Codignola, E., 29, 36, 58, 62, 143, 149, 198, 199,
200, 232, 249, 253, 298. Codignola, T., 200, 210.
Cognasso, F., 134. Cola di Rienzo, 120, 124.
Colapietra, R., 14, 46, 49. Cole, G. D. H., 364.
Colombo, C., 328. Colorni, E., 240. Colozza, G.
A., 166. Comandini, Comisso, G., 287. Conrad, J.,
279. Constant, B., 324, 325, 349. Contini, G.,
278. Cooper, A. D., 261. Corbino, E., 229.
Corbino, O. M., 28, Cordié, C., 315. Corradini,
E., 33, 86. Corsano, A., 291. Cortese, N., 58,
128. Corticelli, A., 198. Cosmelli, G., Cosmo, U., 238,
241. Costa Costamagna, C., 84. Costantino, D.,
153. Craveri, R., 274. Credaro, L., 165, 184.
Crescenzi, G., 350. Cripps, S., 215. Crisafulli,
V., 349. Crispolti, F., 24. Croce Crocioni, G.,
173. Cronin, A. J., 200. Crosa, E., 117.
Cuoco, V., 127, 253, 318. Curiel, E, 264, 302, 313, 329.
Cusin, F., 344. Dal Fabbro, B., 271, 286. Dal Pane,
L., 105, 210, 212, 220, 221, 230, 257, 355. Dal Pra, M.,
292. D'Amelio, M., 147. Dami, C., 363.
D'Andrea, A., 86, 305. D'Antonio, F., 220.
Darwin, C., 174, 175, 272. D'Azeglio, M., 260, 324.
Dawson, C., 266, 268, 269, 270, 300.
Debenedetti, $S., 277, 341. De Bernardi, M., 227, 229,
238. De Cecco, M., 208. De Cristofaro, M., 130.
De Felice, R., 6, 25, 65, 78, 152, 186, 197, 204, 263.
De Gasperi, A., 8. Degli Occhi, L., 88. De Grand,
A. J., 46. De Karolis, A., 179. Del Bono, G., 259,
302. Delitzsch, F., 159. Della Torre, L., 26,
204. Della Volpe, G., 368. Delle Piane, M., 270.
De Lollis, C., 238, 239, 241, 277. De Luca, G., 72, 132, 137,
200. De Man, H., 106, 191, 199. Demarco, D., 307.
Demarsico, D., 19. De Martino, E., 294, 375. De
Mattei, R., 73. De Michelis, E., 245, Demostene,
305. De Rosa, G., 20. De Rosa, R., 369. De
Ruggiero, G., 94, 167, 199, 276, 331, 332, 333, 345. De
Sanctis, F., 49, 171, 285, 321. De Sanctis, G., 55, 63, 75, 78,
133. De Stefani, A., 55, 209, 234. Detti, T., 104, 165,
191, 240. De Vecchi, C. M., 251, 253, 297. De Vendittis, L.,
278. De Viti De Marco, A., 217, 234. Devoto, G., 72.
Dickens, C., 271. Diderot, D., 243, 280, 281. Di
Domenico, G., 334. Dilthey, W., 274. Dobb, M., 222,
363. Dos Passos, J. R., 247. Dostojevskij, F., 202,
279. Droysen, J. G., 305. Dvotak, M., 147.
EFerembeemt, L. van den, 136. Efirov, S. A., 13. Egidi, P.,
33. Einaudi Einaudi, M., 214, 227, 238. Emanuele Filiberto, 39,
128, 178. Emery, L., Engels Enriques Erasmo Ercole Evola Faggi Falco Falqui
Fanelli Fanfani Fanno Farinacci Farinata degli Uberti, 312.
Farinelli, A., 28, 42. Farneti, E., 300. Faucci,
R., 175. Fausti, R., 139. Favaro, G., 148.
Fazio-Allmayer, V., 58, 82, 106. Febvre, L., 210, 343.
Fedele, P., 37, 64. Federici, L., 235. Federico
II d’Hohenstaufen, 120. Federico II di Prussia, 118, 245.
Federzoni, L., 46, 86. Fenoaltea, S., 226, 232.
Fenoglio, P., 26. Ferrante, Don, (cfr. Alicata M.)
Ferrara, F., 212. Ferrara, M., 182, 188. Ferrari Ferrari
Ferrari Ferrata Ferrero, E., 289. Ferrero, G., 181.
Ferretti, G., 297. Feuerbach, L., 104, 348, 368, 370,
371. Fichte, J. G., 91. Filangieri, G., 252.
Filippo il Macedone, 305. Filograssi, G., 142.
Fiore, G. da, 139. Fiore, T., 267, 294. Firenzi,
G., 143. Firpo, L., 101, 102, 125. Fisher, H. A.L.,
214. Fitzpatrick, S., 22. Flora, F., 205.
383 Indice dei nomi Floridi, U. A., 360.
Foot Moore, G., 67. Forges Davanzati, R., 60.
‘Formiggini, A. È, 8, 12, 19, 20, 22, 26, 27, 28, 29, 30, 31,
38, 41° 4T, SÌ, 55, 151, 152, 153 157, 158, 159, 160,
, 163, 164, 165, 166, 171, 172, 173, 174, 179,
180, 181, 182, 185, 186, 187, 188, 192, 196, 257,
325. Fortini, F., 10, 285. Fortunato, G., 213,
285. Foscolo, U., 127, 318. Fracastoro, M. G.,
281. Fracchia, U., 34. Franceschini, E., 192.
Franchetti, L., 213. Franco, F., 257. Franklin,
F., 363. Frassati, F., 302. Frassinelli, C., 198, 202,
246. Frateili, A., 71. Frege, G., 281, 369.
Freud, S., 265. Freund, R., 267. Frezza Bicocchi,
D., 38. Frébel, F. W. A., 165. Frugoni, C., 281.
Fubini, M., 198. Gabrieli, F., 343. Gabrieli,
V., 272. “Galante Garrone, A., 252, 253, 255, 308.
Galassi Paluzzi, C., 38. ‘Galiani, F., 93.
Galilei, G., 169, 174, 281, 293. Gallenga Stuart, R. À, 27,
183. *Galletti, A., 176. Galli della Loggia, E.,
5. ‘Galvano, E., 288. Gambino, A., 237.
Garibaldi, G., 86. Garin Garosci, A., 98, 216, 295,
297. Garufi, B., 335. Gaslini, P., 323.
384 Gatto, A., 288. Gava, G., 12. Gazzetti, F.,
229. Gemelli, A., 58, 65, 68, 69, 71, 131, 132, 138, 143, 145,
147, 149, 169, 177. Gencarelli, E., 240. Gennaro, 136.
Gentile, E., 6. Gentile Gerbi Gerratana, V., 22, 160, 180, 285,
309, 367. Geymonat, L., 281, 347, 369. Ghisalberti, A.
M., 89, 117, 119, 121. Giachino, É., 272.
Gianfranchi, (pseudonimo di Ven- turi F.) 308. Giannantoni,
S., 16, 171. Giannini, A., 28, 29. Giannone, P.,
146. Gide, A., 339. Gierke, O., von, 325, 326,
368. Gifuni Gigante, M., 296. Gigli, L., 315.
Giglioli, G.Q., 29, 64. Ginzburg Ginzburg, N., 279, 288, 290,
323, 324, 341. 203, 278, Gioberti, V.,
66, 253, 298, 299. Gioia, M., 252. Giolitti, A.,
292, 322, 323, 325, 341, 344, 345, 348, 351, 357, 358, 359,
362, 363, 366, 367, 374. Giolitti, G., 20, 23, 25, 355.
Giretti, E., 217, 233, 234, 238. Giretti, L., 233, 234.
Giuliano, B., 59. Giuriati, G., 59. Giuseppe II,
118. Giusti, S., 200. Gobetti, P., 17, 18, 24, 27,
127, 156, 188, 202, 218, 242) 255, 321, 338, 367.
Goethe, J. W., 280. Gogol, N. V., 202. Gonciarov,
I., 279. Gorresio ,V., 306, 324, 351. Grabmann, M.,
138. Gramatica, L., 64, 67, 132, 133. Gramsci, A., 5,
16, 17, 22, 26, 33, 86, 131, 150, 175, 180, 189, 191, 211, 239,
355, 356, 357, 366, 367, 373. Grassi, V., 55.
Gravina, M., 105. Graziani, A., 97, 105.
Gregorio, 269. Grieco, R., 237, 362. Grifone, P.,
237, 333, 355. Grimm, H., 311. Grozio, U., 265.
Gruppi, L., 194. Gualino, R., 33. Guanda, U.,
263. Guénon, R., 263, 264. Guerri, G. B., 6, 46.
Guglielmino, E., 253, 291. Guglielmo I, 305.
Guiducci, A., 246. Guzzo, A., 58, 103, 142, 143.
128, 129, 252, 295, 326, 320, 328,
321, 333, 355, 365, Hall, R. L.,
222. Halm, G., 352. Harris, H. S., 14, 47.
Harris, S. E., 227. Hayek, F. von, 352, 353, 363.
Hazard, P., 242, 243, 346. Hegel, G.W.F, 91, 101, 103, 104,
Indice deî nomi 142, 170, 171, 174, 241, 326, 349,
369, 370. Helvétius, G A., 108. E, 278, 342, 343,
Hersch, J., 368. Hitler, A., 245, 351. Hobbes,
T., 104. Hobsbawm, E. J., 13. Hook, S., 363, 364.
Hiigel, F. von, 290. Huizinga, J., 264, 265, 266, 267,
270, 290, 291, 347, 348, 349. Hull, C., 227. Hume, D.,
368. Huxley, A., 266, 273. Interlandi, T., 59, 60, 61,
62. Invitto, G., 336, 339, 372. Iraci, A., 83.
Isnenghi, M,, 6, 23, 163, 195. Jacini, S., 213.
Jaeger, W., 305, 349. Jahier, P., 278, 289. James, H., 278,
279. Jaspers, K., 368, 369. Jaurés, J., 324. Jemolo, A. C.,
58, 140. Johnson, H., 361. Joyce, J., 202. Jung, C. G.,
293. Juvalta, E., "169, 368, 369. Kafka, F., 342.
Kahn, A. E., 361. Kamenetzki, M., 357. Kant, I., 103,
171, 349. Kelsen, H., 325. Keplero, J., 293.
Keynes Keyserling, H., 266. Kirkegaard, S., 347, 348, 368.
Korngold, R., 344. Kuliscioff Labanca Labriola Lajolo, D., 246.
Lalla, M. di, 14, 35. 385 Indice dei nomi
Lanaro, S., 7, 32, 96. Landolfi, T., 272. Langer, W.,
245. La Penna, A., 180. Lapiccirella, E., 357. Laski,
H. J., 214, 215, 361. Lassalle Laterza Lattes, D., 187. Lavoisier,
A. L., 174. Lazzari, G., 12. Lee Masters, E., 317. Lefebvre,
G., 343. Leibniz, G. W., 240. Lemmi, F., 118. Le Monnier, F.,
153. Lenin, V.I., 303, 357, 358, 359. Leonardo da Vinci, 148,
175. Leontieff, W., 227. Leopardi, M, 254. Le cha ( P.G.F.,
213. Levi Levi Levi, F., 9. Levi della Vida Lewis, S.,
200. Lilienthal, D. E., 353. Limentani Lippmann Locke,
J., 103. Lo Gatto, E., 278, 279, 331. Loisy, À., 134,
290. Lombardo Radice Lombardo Radice Lombroso Longhi Longo Loria Losacco,
M., 170. Lo Schiavo, A., 14, 67. Losini, F., 177. Lukécs, G.,
13. Luperini, R., 9. Luporini, B. M., 357. Luporini,
C., 17, 104, 334, Lussu Lutero Luti Luzi Luzio Luzzatti Luzzatto Lyttelton Macchioro,
Machiavelli Magini Magrini, Li 216 (pseudonimo di ; A)
124, Garosci Maini, R., 285. Maiocchi, R., 38.
Maistre, } de 128, 297, 349. Malagodi, O Malagola prc V.,
226. Malthus, T. R., 174, 175. Manacorda, G. 204, 308, 331,
341, Manacorda Mancini, P, S., "129. Mangoni Mann, T,, 339.
Manzini, E., 163. Matanini, G., 198. Marchesi, C., 134, 174,
176, 191, 192, 194, 195, 315, 316, 317. Marchesini, 6. 168,
169. Marchi, G., 287. Marchiafava, E., 55. Marco
Marcolongo, R., 82. Marconi Marescalchi Margherita, S. della,
254, Margiotta, U., 16. Margiotta Broglio, F.,
65. Mariano Marinetti, F. T., 338. Martoi, F.,
96. Marramao, G., 109. Marshall, A., 225, 230.
Martinelli, R., 17, Martinelli, S., 262. Martinetti, P., 197,
240, 290, 348, 368. Martini Marx Mason, E. S., 227.
Massolo, Mathiez Matisse, H., 278. Matteotti, So 188.
Mattioli, R, 6, 88. Maturi Maupassant, G. de, 317.
Maurras, C., 128. Mautino, A., 220, 221. Mazza,
F. P., 281. Mazzini, Mazziotti, M., 305, 318, 325. Meinecke,
F., 125. Melograni, P., 74. Melville, H., 202, 279,
280. Menghini, M., 20, 25, 26, 30, 55, 104, 113, 250,
308. Menichella, D., 319. Meredith, G., 279.
Meschini, M. A., 284. Metternich, C. von, 283, 324.
Miccoli, G., Michaelstadter Michel, E., 181. Michels Mieli,
A., 181, Migliorini, B., 238. Migone, G. G., 223.
Mila, M., 278, 341. Milano, E., 11, 163. Milano Mill,
J.$., 188. Minocchi Minoia Minoletti Mira, G., 290, 301.
Mises Momigliano Momigliano Mondo, L., 203, 246. Mondolfo Mondolfo
Montagnana, M., 361. Montale, E., 289. Montanelli, G.,
251, 307. Montenegro, A., 6, 82. Montesquieu, C. de,
108, 323, 324. Monti Morandi Morandi, R, Morazé, C.,
343. Morelly Morgagni, G., 174. Morghen, R., 145.
Mori, G., 11, 34. Mornet, D., 241. Moro Morra Mosca,
G., 59, 82, 114. Mosé, 137. Motta, M., 329, 336, 347,
360, 367. Mounier, Muratori Murri Muscetta Mussolini Nallino,
C., 56. Napoleone III, 86. Napoleoni, C., 226. Natoli, G.,
280. Needham, J., 360. Negri, A., 114. Negri Negri, L.,
245. Nenni, P., 355. Neri Nevins, A., 343. Newman Newton Niccoli,
Nicolini, F., 114, 145, 146. Nietzsche, F., 349. Nitti, F.
S., 20, 23. Nobili Massuero, F., 29. Novalis, 317.
Nulli, S. A., 347. Odoacre, 119. Ojetti, U., 24, 34,
42, 48, 55, 56, 136 Olivetti, G., 353. Olivo, A.
M., 281. Omodeo Onofri, F., 308, 332, 334. Operti, P.,
201. Orano, P., 167. Osimo Ovidio Owen, R., 108.
Paci, E., 265. Pagliaro Pajetta, E., 248. Pajetta, G.,
301. Palacio, J. M., 221. Palazzi, F., 163. Palazzolo, V.,
326. Palla, Palmarocchi, R., 140. Pannunzio Papa, È. R., 49.
Papa, F., 344, Papini, G., 167, 174. Parente, A., 267.
Pareto, V., 82, 218, 225, 226. Paribeni, R., 25, 26. Parodi, T.,
276. Parri, F., 309. Pasquali Passamonti, E., 259. Pastonchi,
F., 163. Pastore, Pater, W., 271. Pavese Pavlov, I. P.,
281. Pavolini, A., 316. Peano, G., 281.
Pellegrini, C., 198. Pelster, F., 138. Pende, N.,
56. Pepe, G., 139, 255, 270, 299, Peroni, B., 243.
Perosa, S., 247. Perrotta, G., 239, 305.
Perticone, G., 321. Pesante Pétain, H. P.H., 270.
Petrarca, F., 124. Petrini Petrucci Pettazzoni, R., 59,
67. Piazzesi, G., 346. Picasso, P., 278.
Piccardi, L., 319. Pieraccini, Pieri Pierson, N. Ga
352. Pietro il Grande, 231. Pigou Pincherle Pintor Pintor
Pio Piovani, P., 75. Pirandello, L., 163. Pirenne, H.,
270. Pisacane, C., 295, 308, 309, 310. Pivano Pivato,
S., 131. Pizzetti Planck, M., 281, 293. Platone Poggi,
À., 165, 190, 290. 369, 374, 296,
Pogliani, A., Pogliano, C., 281. Polese, P., 253. Polledro, A.,
198, 201, 278. Pomba, G., 40, 153. Porena, M., 127. Porzio,
G., 296. Pozzani, S., 219. Pratolini, V., 279, 280. Praz, M.,
239. Preziosi, G., 77, 93. Prezzolini Proudhon, P. J.,
308. Proust, M., 278, 342. Pseudo-Dionigi, 372. Pugliatti Puskin,
A. S., 317. Quadrotta, G., 160. Querealpiti Candia, P.
A., 287. Quazza, G., Quinet, E., 2 ‘325. Racca,
V., 226, 227. Racinaro, R., 82. Radet, G., 304,
305. Ragghianti, Ragionieri, E., 7, ‘11, 35, 111. Rago,
M., 324. Ramat, R., 253, 309. Ranchetti, M., 11,
371. Ranfagni, P., 131. Rapisardi Mirabelli, A.,
232. Rathenau, W., 311. Ravà, A., 170.
Reed, J., 342, 363. Reichlin, A., 285. Rémusat,
C.-E. de, 289. Renan, E., 2Renouvin, Rensi, 191, 197,
347. Rensis, C., 145. Repaci, F. A., 207, 236.
Revel, B., 304 Ricardo, D., 212. Ricci, C.,
28. Ricciardi, R., 173. Ricciotti Ricuperati, G.,
242. Rigola Ripellino, A. M.,, Ritter, C., 347. Riva,
Gi, ds. Rizzoli, A, Robbins Robespierre, M.F.I.,
118. Robotti, P., 196. Rocco, A., 46, 85.
Rodano Sola Romagnoli, E., 163, 181. Romagnoli, S.,
346. Romagnosi, G. D., 178. Romanelli, R., 7.
Romano, A., 308, 309, 310. Romano, P., (cfr. Alatri P.)
Romano, R., 209. Romano Romeo, R., 126, 209.
Roosevelt Ropke Rops, D., 264. Rosa, E., 58, 64, 68,
142. Rosada, A., 104. Rosada, M. G., 172.
Rosselli, A., 251. Rosselli, Ci 109. Rosselli, N,
189,”194, 203, 204, 205, "250, 251, 309, 310, 320, 343.
Rossi, A., 32. Rossi, E., 33, 192, 233, 302, 350,
352. Rossi Rossi Rossi Rossi Rossi Rossi Doria Rossini, G.,
131. Rostovzev, M. U., 210. Rota, E., 126, 134.
Rousseau, J. J., 88, 95, 101, 104, 108. Ruffini, E.,
89, 90. Ruffini, F., 59, 63, 204, 206. Ruggiero, A.,
227, 228. Rusconi, C., Riissel, H. W., 347, 348. Russo,
L., 29, 49, 58, 153, 154, 183, 184, 199, 212, 239, 240, 250, 251,
276, 278, 297, 304. Russo Saitta, A., 270, 310, 311.
Saitta, G., 60, 68, 85, 129, 145. Salandra, A., 25, 57, 59,
182. Salata, F., 55, 104, 138. Salinari, C., 285, 332,
333, 334, 335, 341, 344, 345. Salomon Salvadori, G., Salvadori
Salvatorelli Salvemini Santamaria Santangelo FADUBIANO: Don, (cfr.
Muscetta .) Santoli, V., 238, 239, 270, 277.
Santomassimo, G., 7, 92, 94, 330, 352. Sapegno, N.,
288. Saraceno, P., 352. Saroyan, W., 315. Sarpi, P.,
174. Sartre, TL P., 342. Sasso, G. , 239, 300. Savonarola, Gi
140, 176. Sayers, M, 361. Sbarbaro, C., 278, 287. Scaduto,
M., 65. Schiavi, A., 231, 303, 307, 308. Schipa, M., 58.
Schlesinger Schlosser Schopenhauer, A., 290. Schumpeter Schwarz, S. M.,
352. Scialoia, V., 28. Scoppola, P., 8, 131, 160. Selmi, N.,
11. Semeria, G., 138. 242, 252, 265,
302, 390 Sereni, E., 237, 359, 357, 359, 360,
361, 362. Serra, R., 163, 173, 239. Serri, M., 285.
Sestan, E., 98, 116, 119, 124, 125, 253, 270. Setti,
G., 173. Severi, F., 281. Sforza, C., 320, 355.
Sgroi Shaftesbury Silva, P., 56, dr pe 181. Simonetti,
M, Sismondi, I. C. T , 206, 208. Slataper, Ss,
287. Smith, A., 212, 218, 228. Solari, G., 73, 91, 100,
101, 102, 103, 104, 127, 220, 290. Solari, L., 240.
Solari, P., 214. Soldani, S., 11, 112. Solmi, A.,
120, 159, 254. Solmi, S., 238, Sombart, W., 98,
100. Sonnino, S., 213. Sonzogno Sorel, G., 106, 110,
168, 221, 241, 243, 244, 264. Spadolini, G., 253.
Spaini, A., 278, 280. Spampanato, V., 134, 171.
Spann, O., 216. Spaventa, Spellanzon, C., 219, 297, 312,
313. Spencer, H., 349. Spengler, O., Speranza, I.,
(cfr. De Luca G.) Spinelli, A., 320. Spini, G.,
223. Spinoza, B., 104, 190. Spirito, U., 14, 75, 80,
81, 84, 85, 87, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 101, 103, 117,
147. Spriano, P., 17, 24, 127, 156. Sraffa, A.,
147. Sraffa, P., 352, 362. Stalin Stein, G., 278,
279. Steinbeck, J., 200. Steiner, R., 264.
Stille, U., (cfr. Kamenetzki, M.) Stirner Storoni Mazzolani,
L., 271. Strada, V., 22, 127. Stringher, B., 25, 26, 34,
59. Stuart Hughes, H., 21. Stuparich, G., 287, 288. Sturzo,
L., 333, 355. Succi, Tacchi Venturi, P., 58, 64, 65, 67, 68,
69, 77, 132, 138. Tagliacozzo, A., 361. Tagliacozzo,
E., 213, 250, 253, 257. Talleyrand, C. M., 261.
Tardieu, A., 244. Tarnlé, E. V., 198. Tarozzi,
G., 164, 174, 181, 184, 187, 290. Taylor, O. H., 227.
Telesio, B., 171, 174, Teodori, M., 223. Testoni, S., 82,
87. Thackeray, W. M., 271. Thaon di Revel, P.,
55. Thierry, J. N. A., 295. Thiess, F., 262.
Thode, H., 122. Tilgher, A., 42, 164, 170, 182, 197.
Timpanaro, S., 181. Tocco, F., 104, 107, 160, 170, 171.
Todaro-Faranda, M., Toffanin, G., 348. Togliatti 355,
356, 357, 358, 360, 361, 362, 363, 372, 373. Toller, E.,
315. Tolstoj, L., 176, 177, 202, 271, 280, 317.
Tomasi, T., 37. Tommaseo, N., 275, 276, 317.
Toniolo, G., 7. Tornimparte, A. (pseudonimo di
Ginzburg, N.) 288. Torrini, M., 11, 165. Tortorella,
A., 285. Tortorelli, G., 156, 287. Tosi Toynbee
359. Tramontano, R., 137. Tranfaglia, N., 9.
Travi, N. (pseudonimo di Ventu- ri L.) 79. Treccani,
E., 219. Treccani, G., 20, 23, 25, 31, 32, Indice dei
nomi 33, 34, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 48, 51, 53, 54, 55, 56,
62, 64, 65, 66, 67, 74, 76, 83. Treitschke, H. von,
318. Trevelyan Treves Treves, Paolo, 254. Treves,
Piero, 26, 165, 182, 239, 305. Trevisani, P., Tricomi, F.,
281. Troeltsch, E., 349. Troilo, E., 167, 168, 169,
170, 174, 177, 178, 179, 181. Trombadori, A., 284.
Trompeo, P. P., 71, 238, 277, 278. Trotzki, L. D., 331.
Truman, H. S., 352. Tumminelli, C., Turati Turchi Turgenev,
ITutgot, R. J., 108. Turi, G., 9, 38, 194, 271, 299.
Turiello, P., 213. Vacca, G., 181. Vaccari, A.,
68, 136, 137. Vailati Valente Valeri Valiani Valitutti Vallecchi Valli,
L., 169. Varisco Vasoli Vaudagna, M., 223. Vecchietti,
T., 303. Vecchio, G. del, 86. Venturi Venturi Venturini
Verri Vian Vico Vidari Vieusseux Vigliani Villari Villat Vinciguerra Wallace Visconti
Weber Vita Finzi Welles Vitichindo Werth Vittoria Wetter Vittorini Whitman Wick
Wicksell Wicksteed Vittorio Amedeo II, Woolf Vittorio Emanuele III Wotan Vivanti
Volpe Yugow Zaccaria Zama Zancan Zanella Zangheri Volpicelli Zangrandi, Zappa Volpicelli
Zdanov Volta Zibordi Voltaire, F. M. Arouet de Zini Zoccoli Volterra Zveteremich.
Ideologia e cultura del fascismo: l’« Enciclopedia italiana » La ricerca
del consenso. Il progetto di Martini e Formiggini. L’intervento di Treccani e
Gentile. Lo « specchio fedele e completo della cultura scientifica
italiana ». La « politica di conciliazione » di Gentile. I collaboratori
e le proteste del fascismo estremista. L’ipoteca cattolica. Il controllo del
regime. - 9. Le voci politiche e l’ideologia del fascismo.
L’assimilazione dei « competenti »: Gioele Solari e Rodolfo Mondolfo. Gentile,
Volpe e il nazionalismo storiografico. Le voci religiose: presenza
e conflittualità dei cattolici. Formiggini: un editore tra socialismo
e fascismo. La parola, veicolo di « fraternità universale. Positivisti,
modernisti, socialisti. Intenti divulgativi. Una cultura al di sopra della
mischia. La sconfitta di un’illusione e una tenue resistenza. I limiti del
consenso: le origini della casa editrice Einaudi. Iniziative editoriali. L'ideologia
conservatrice di Einaudi. L’impronta liberista sulla casa editrice. La Cultura
e la tradizione gobettiana. Storiografia e impegno civile. Cultura
della crisi e spiritualismo. Una cultura eclettica: i Saggi. La svolta della
guerra e i collaboratori romani. L’anti-conformismo storiografico e
l’Universale. I quarantacinque giorni, la Liberazione e il
Fronte della cultura. La ricerca di un nuovo orientamento e l’eredità del
passato. La rottura dell’unità antifascista e il rapporto col PCI. Grafiche
Galeati di Imola. Turi. IL FASCISMO E.IL CONSENSO: DEGLI INTELLETTUALI. Questo
volume offer un contributo di grende interesse alla storia della cultura
italiana, analizzando alcuni momenti. di gregazione culturale particolarmente.
rilevanti, ta' iat nascita e la caduta del fascismo. La Fondazione dell’Enciclopedia-italiana.
Pattività\edi‘origle di A. Formiggini, la nascita della casa editrice. Einaudi
— chevpetmettonò i; collegare significativamante gli Itinerar di’ singoli
intellettuali con Je vicende politiche ‘delipaese e di individuare, anche
negli anni. del‘ regime, accanto «a condi: zionamenti;»autocensure e
compromessi, il. permanere oil inuscere di. «schieramenti » i! cui
significato «non ‘è' soltanto. culturale, ma anche: politico. L'«
Encicloped'a italiana»; fondata sotto la direzione di Gentile e con la
collaborazione dil'intetlettuali anche antirascisti, testimonia i
esistenza di-una cultura fascista; sia pur. eclettica e forlsmente
condizionata dalla ‘presenza: cattolica MAt- torno-alla casa. editrice.
Formiggini si erano. raccolti, intellettuali
di formazione. positivistache cercheranno di resisiere alla politica
culturale del. regime appellandosi ad una orma l’illùsori autonomia della cultura.
Nella casa editrice fondata da Einaudi, infine; ii liberalismo. Conservatore di
Einaudi convive con l'orientamento di intellettuali. legati a
«{iustizis © libertà» e, vin seguito, con orientamenti: di matrice azionista e comunista:
che prevartranno. nettamente nel'1945 con la presenza delle forti personalità
di Pavese; Vittorini, Cantimoti, Balbo, e Bobbio — cercando’ di dar vita va un
ampios«fronte de:'atcultura +» destinato (a. dissoiversi con la rottura
dele l'unità-antifascista, Introduzione. -tIdeologia «e. cultura:
del fascismo:nl-Enciclopedia. Italiana. Formiggini» un editore tra socialismo
e fascismo. I limiti déell'consenso. Le origini: della casa editrice
Einaudi. GTuri insegna a Firenze. Storia dell'Italia’ contemporanea
nella Facoltà: di Lettere e Filosofia. Sudiato! periodo della riforme
‘setteceritesche e. dell'occupazione francese in, Italia; «pubblicanido
nel:1969 il volume « “Viva Maria”, La reazione alle riforme leopoldine. Su
occupa della cultura italiana, ema sul auzls ha prbblicato diversi contributi.
Gak labora alle riviste Studi storicì..; « Movimento onsraio e
socialista» e « [talia contemtoranea
(i.i.) ©0GO. Fabrizio Desideri. Desideri. Keywords: consenzienti -- consentire,
“i consenzienti del bello” – perizia del bello – imago imaginis – il bello -- costellazione
griceiana, aporia, il riflessivo, l’esperienza del bello, il sentire, sensum,
sentiens, sensus, sentire e esperienza, esperimentare, esperienzare, emozione,
giudizio, giudicare, espressione dell’emozione, contenuto proposizionale, il volitum,
il co-sentire del bello, Grice, Sibley, meta-property, second-order property,
aesthetica, Sibley on Grice, Scruton on Sibley on Grice, aesthesis, sensus,
senso, consensus ------ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Desideri” – The
Swimming-Pool Library. Desideri.
Grice e
Diacceto: l’implicatura conversazionale del convito -- i tre libri d’amore –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
italiano. Grice: “I love Cattano – Amo Cattani – who philosophised so avidly on
‘amore’ – in fact, he philosophised in three different ‘symposia’: ‘primo
simposio,’ ‘secondo simposio’ and ‘terzo simposio’ – and so outdoes Plato by
far!” Figlio di Dionigi Cattani di Diacceto e Maria di Guglielmo Martini. Suo
padre era uno dei tredici figli del filosofo Francesco Cattani da Diacceto,
chiamato il Vecchio o il Pagonazzo per distinguerlo dal nipote. Divenne
un canonico della Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. Protonotario apostolico.
Nominato vescovo di Fiesole, dopo il ritiro dello zio Angelo Cattani da
Diacceto. Durante la sua carica, termina la costruzione del monastero di Santa
Maria della Neve a Pratovecchio, già iniziata da suo zio. Restaurò l'Oratorio
di San Jacopo a Fiesole e la Chiesa di Santa Maria in Campo a Firenze, e
supervisa i lavori di restauro del Duomo di Fiesole, progettando la forma
dell'abside. Studiò diritto continentale e frequentò l'accademia
fiorentina. Filosofo prolifico. Pubblicò le opere, in latino e in italiano, di
suo nonno e incarica Varchi di scrivere la sua biografia, che fu pubblicata
assieme a Tre libri d’amore e un panegirico all’amore del vecchio Cattani a
Venezia. Altre opere” Gli uffici di S. Ambruogio vescovo di Milano: in volgar
fiorentino (Fiorenza: Lorenzo Torrentino); “Sopra la sequenza del corpo di
Christo” (Fiorenza,: appresso L. Torrentino); “L'Essamerone di S. Ambruogio
tradotto in volgar fiorentino” (Fiorenza: Lorenzo. Torrentino); “L’autorità del
Papa sopra 'l Concilio” (Fiorenza: appresso i Giunti); “Instituzione spirituale
utilissima a coloro che aspirano alla perfezzione della vita” (Fiorenza:
Giunti); “L'Essamerone” (Fiorenza: appresso Lorenzo Torrentino); “La superstizzione
dell'arte magica” (Fiorenza: appresso Valente Panizzi & Marco Peri). I tre
libri d'Amore, filosofo et gentil'hvomo fiorentino, con un Panegerico
all'Amore; et con la Vita del detto autore, fatta da M. Benedetto Varchi (In
Vinegia: appresso Gabriel Giolito de' Ferrari). Ricerche su Diacceto: Cultura
teologica e problemi formativi e pastorali. Firenze: Università degli Studi di
Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia. Dizionario biografico degli italiani. D.
In divinis PLATONE symposium Enarratio ad Clementem VII. Pont. Max. Amorem distinguit
atq, definit, antequam rei explicatio nem aggrediatur. Ntequam Symposi
enarrationem aggredia mur, operæprecium eſt uidere, quid perA morem ſitnobis
intelligendum. Secus enim fieri nequit, ut diuinú PLATONE de AMORE diſſereniem
intelligamus. Solec itaqduplici capite definiri. Autenim pingui Mineruade,
finitur, aut exacta quadam ratione. Siqui dem pinguiMinerua,omnis appetentia,
quæ cungilla ſit,Amorrectèdici poteſt. Sinautē exacta ratione, AMOR EST
DESIDERIVM perfruendæ &effingendæ pulchritudinis. Quapro pter quot ſunt
appetitus, totidem elle amores neceſſe eſt. Atqui ue rum efficiens propter
intimam fæcunditatem appetitextra fe effice re:appetit quoqz ſeruare
quodeffecerit. Vnde & diuinus Iohannes Omnia,inquit,per ipſum facta ſunt,
& feorfum ab ipſo nihil, quod factum eſt:ſignificans,non ſolùm ex Deo,
ideft,ex uero efficiente res effe,uerumetiam eaſdem citra dei auſpicia
nihilfieri. Dionyſius quo que Areopagita ſplendor Chriſtiane theologię, Amor, inquit,entiū
auctor, cùm lupereminenterin bono antecederet,minimèpaſſuseſt ipſum in ſeipſo
manere, quaſiſterile lit: ſed ipſum impulit ad opus ſe, cundùm exceſſum omnia
efficientem. Seruat autem propterea om nium cauſa,beneficio fupereminentis
amoris: quandoquidem non fimplici prouidentia extra ſe procedens ſingulis
entium immiſcetur. Quapropter quidiuinorum peritiſunt, Želotem ipſum appellant,
quaſi uehementem entium amatorem. Acuerò &res ipfæ femper in auctorem
reſpiciunt&conuertuntur, proindeqz afiectantipſi adhæ rere: Adheſionem enim
ultima conſummatio fequitur.Huncautem appetitum ſiquis furorem amatorium dicat,
recte appellauerit. Non folùm uerò inferiora in auctorem femper propenſa ſunt,
uerume tiam quæ funt eiuſdem ordinis ſeipfa mutua quadam charitate com
plectuntur. Simile enim ſimili ſemper adhæret,utinuetere prouer bio eſt. Hoc
autem propterea euenit, quoniam fimilitudo ſeruat ab foluités,diſsimilicudo
uerò contrarium efficit, Quapropter diuinus Hierotheus in hymnis
amatoris,Amorem,inquit,fiue diuinum, li ueangelicum,fiue intellectualem, ſiue
animalem,ſiue naturalem dixe ris,unificam quandam conciliantem facultatem
intelligimus, qua fuperiora ad inferiorum prouidentiam:quæ ueró funt
eiuſdemordi nis, ad mutuam quandamcommunionem:inferiora uerò ad fuperio
rumconuerſionemmouentur. Verùm huncappetitum, qui poftre mòrebus
aduenit,aliuslongè antecedit, rebus adueniens inter exor dia.Principio quidem
diuina ſtatim quàm ab auctoreſunt; in partes proprietates eſſentiales procedere
concupiſcunt. Diuina enim a. &tusprimiſunt; horum uerò abſolutio ſua
functio eſt.Conftantenim diuina exagente potentia, ac ſua functione, quafi ex
calefaciendi fa cultate calefactione cipfumactu calefaciens. Atqz in huncſenſum
lo cutus eſt PLATONE in 10.Libro Reip.dicens,diuina feipfa efficere.Signi ficat
enim ex primo fecundoğactu diuina conftare. Quod etiam len fiſſe ARISTOTELE,ex
his quędicuntur in undecimo Rerumdiuinarū, perſpicuum
eſt.Intellectus,inquit,actus eſt. Actus autem per fe illius uita optima
&fempiterna. Dicimus autem Deum eſſe animal ſem. piternum optimum. Quare
uita &æuum continuum & æternum ineſtdeo. Ineft quod & materiæ primæ
appetitus ad formam: qui quidem amordici poteft, quando quidem merito formæ
boniipfius particeps fit.Eft & alius appetitus, quo res compoſitæ ſibiipfæ
cohæ reſcere amant, optimus eorum conciliator, quæ natura diſsident. Quemſagax
naturæ interpres ſedulò obſeruans, non dubitat capta to cæli fauore poſſe rerum
aſymmetriæ, quæfitex materia, mederi. Virenim naturæ ſtudioſus, quaſi Lunam è
cælo in terram carmini: bus trahens,uim animæ facilè ductilis,utinquitPlotinus,
per cælum generationi inſinuat. Quægeneratio ueluti excuſſo morboin fuam
integritatem farciri poteft.Dehis latius in ſequentibus agendum no biseſt. In
plenumappetitio omnis qua bonum ſibi res adeſſe cupi unt, amor dici
poteſt,ſiueappetitus inanima, ſiuealibiſit, ſiue artis, ſiue uirtutis,ſiue
ſapientiæ, ſiue cuiuſcunqz alterius. Hactenus de eo amore, quipinguiquadam
Minerua nuncupatur. Amor autem qui exacta ratione dicitur,primò quidem diuinæ
animæineft, fi Plotino credimus. Pulchritudo enim in intellectu primùm apparet.
Siigi tur amoror pulchritudinem ſequitur,reſtat utanimæ primò inſit: quæ quidem
intellectui deinceps eſt. Affectat autem anima diuinam pul. chritudinem uſqz
adeo impotenter, ut aliquid pulchrum in fe effi. ciaț. Sed nos longè aliter
diuinum Platonem interpretati, credimus primum amorem cum prima pulchritudine
maximè natura con iunctum eſſe. Quapropter cùm primapulchritudo intellectui
infit, eidem quoq ineſſe amorem; habere autem originem ex
intelligentia,quandoquidem appetentia omnis fequitur cognitionem. Atue rò
diuina anima gemino amore, nonaduentitio quidem& acciden tario, ſed
euidenti &intimo prædita eſt. Nam&perfrui pulchritudi ne,eandemớper
modumſeminis & naturæ in ſeipſa exprimerecon cupiſcit: & in
materiamtransferre affectat idearum participationes. Sed de his in primo
&fecundo libro de Amore ſatis abundèdiſſerui mus, &in ſequentibus
uberrimèdiſleremus. Animaquoquenoſtra præter hos amores dupliciter in pulchrum
aliquod uehementi deli derio inhæret,uelgratia pulchræ prolis procreandæ, quali
pulchrū in pulchro procreari oporteat (atąhicamoranimam in generatio nem
deorſumą trahit )uel gratia recuperandæ ueræ pulchritudinis, quamdeſcendens
nimia generationis cupiditate amiſerat. Quicun que igitur ſpectaculo ſenſibilis
pulchritudinis rectè utitur, is profe. étò facillimèrecuperat alas, quibus ad
diuinam pulchritudinem at collitur. Rectèigiturimmortales, ut inquit Homerus,
Amoremap pellarunt Alationem: quandoquidem amore in diuinum rapimur. Expoſitio
primifermonis,qui Phadrieft: Actenus declaratūeſt quid ſit amor, pingui
Minerua, quid fit exacta ratione nuncupatus. In præſentia uerò reftat uc Phædri
ſermonem aggrediamur, in quo FEDRO non de eo qui proprièeſt Amor, ſed deeo
potius appecitu, qui rebus adue nitinter exordia,principiò uerba facit.
Cornumèrans uerò ea com moda, quibus amoris beneficio participamus, in eum
tranſit amo rem, quiab umbratili, Auxaſ pulchritudine ad ueram pulchritudi
nemnos reuocat.Sedagèdum uideamus,quid Chaos, quid Terra, quid Amorfit,tum in
mundo intelligibili,tum in anima,tuminmun do ſenſibili,in quibus
hæcinueniuntur. Verumàmundo intelligibi liexordiendum eft,modò
priusconſter,Chaoseſſe ubiqellentiæru ditatem: Terramuerò effentiæ firmitatem:
Amorem autem eſſe Ap petitum. Plato in Philebo dicit,primòelle perſeunum ſiue
Deum, ab ii. lo fuere Terminum&Infinitum,quartum eſlemiſtumex his,quod
dicitur per fe ens. Ego uerò Plotinum ſequutus, non puto Termi num &
Infinitumelleduas ſoliditates ſuprà ens,quemadmodúcom miniſcitur Syrianus &
Proclus:fed quod àperfe uno primo profuit; quà eſtactusprimus,& aliquid in
fe,dici Terminuni, quoniam eſt quiddefinitum ac terminatum: quà uerò eſt actus
primus, habens po teſtatem agendi,acper actionem perfici debet,dici Infinitum:
quate nus utrung ſimul complectitur,diciEns. Quocirca rectè à Placone. er N 2
miſtumappellatur, quoniamtermini &infiniti naturaper fe habet.
Chaosigiturin mundointelligibili nihil eft aliud, quàm miſtumex termino ac
infinito, id eft, ipſum per feens,quod ratione poteſtatis dicitur, perfectioniobnoxium.
Poftchaos eſt Terra, quoniam ens ipfum, quodeftchaos,ſtatim fequitur ſtatus
deſignatus per Terram. NamutPlato docet in Sophiſte,mundusintelligibilis
conftat exel ſentia,ftatu,motu,eodem, diuerſo. Status autê nihil eft aliud,
quàm firmitas, per quam fingula manent idipſum quod funt. Quamo brem
autemfirmitas eſſentiæ deſigneturperterram, paulo poſt de. clarabitur. Poft
terrameft amor:nam ens ipſum cùm fit actus pri: mus, perficitur perintimam
actionem,quieſt primus &intimus mo tus,habens originem ab infinito ipſius
entis, ficuti ſtatus eſtà termi. no. Quapropterà Platone motus ponitur in
Sophiſte tertium ele. mentum,utprius ſitens, deindeftatus, deinde motus, id
eſt, interior actio ipſius entis,quæpropriè Vita dicitur. Vnde &Ariſtoteles
in undecimo Rerumdiuinarum actü per feipfius intellectus aſſeruiteſ ſe uitam
optimam &ſempiternam. Inter actionem ac potentiam a. gendi,medius eft
agendiappetitus,principium actionis.Namagen ti prius ineſtagendi facultas,deinde
agere affectat,deinde agit. Ecce igitur quomodo appetitus agendi mediumobtinet
locum inter po tentiam &actionem,cuius eſt principium.Nam potentia omnis,
quç cunc ſit,deſiderat appetitőz ſuum actum. Quod etiam euenitprimæ materiæ,ut
Ariſtoteles ait. Sed de his paulopoft. Rectè igitur dicta eſt, poſt Terram eſſe
Amorem, id eſt, poſt eſſentiæ firmitatem,qui propriè Status dicitur, efle
principium intimæ actionis, quæ Vita appellatur,cùm ſitprimus motus, cuius
beneficio ensin ideas diſtin Ctum eſt.Ex quo patet etiam quomodo
amoranteceditdeos omnes, utinquit Parmenides. Parmenides enim infueuit ſub
Deorum appel latione ideas intelligere. Nam ſiens diſtinguitur peruitam &
motū intimum, Vitæ autem appetituseſt principium, necefle eft appeci
tumhuiuſmodi ideis eſſe priorem. Recte igituramor,quieft appeti. tus,antecedit
deos omnes, ideft,ideas. Sedut ad terram redeamus,a nimaduertendum eft fecundùm
Pythagoricos,ab ideis fuere mathe mata, à mathematis uerò res naturalesnon:
quod uelint res natura les ſecundùm materiam &formameſſe à mathematis (licenim
ſunt abideis )ſed uoluntà mathematis eſſe figuras rerum naturalium, qui
busconftituuntur. Proinde mathemata appellantur à Platone ob ſcura
intelligibilia,quoniam pendent ab ideis, quæ funt clara intelli gibilia:ſicuti
corporum imagines & umbræ,quæ funt obſcura ſenſi bilia,à
corporibusnaturalibus pendent,quæſunt ſenſilia clara. Sed de his latius in
fexto de Rep. Rectè igitur ex proprijs figuris rerum natu. FC naturalium Placo in Timæodeſignat
earundemingenium. Propte: reaignem & terram ac cæteraid genusex triangulis
componit.Ari ſtoteliquoqs placet,naturalianon ſine accidentibus quibuſdam de.
finiri, quemadmodum patet in quinto Primæ philofophiæ, quem iuniores fextum
exiſtimant. Idem quoque aſſerit Plotinus. Sed quorſum hæc: Nempeutintelligamus,
per proprias rerum natura lium figuras delignari rerum ipfarum naturam. Atqui
palàm eſt, teſ ſeramelle propriam terræ figuram, quæ ineptiſsimaeftad motum:
quo fit,ut recta ratione terraſignificet firmitatem. Quodetiamex eo conijcere
poſſumus, quoniam terrà tanquam immobilis eſt totius centrum. Vnde & PLATONE
in FEDRO, Sola, inquit,in deorum æde manet Veſta. Siigitur terræ ſuapte natura
debeturteffera, terrauti que ſtabiliserit.Vnde &Plato in Timæo componit
folam teſſeram ex triangulisduum æqualium laterum rectangulis, ut eius oftendat
admotumineptitudinem. Verùm dehis fufius in TIMEO. Terrai: gitur firmitatis
prærogatiuamubiq præ ſe fert. Hec quidem de mun do intelligibili. Animauerò ab
intellectu primo prodit, ſicuti intel: lectus ab ipſo perſeuno, fi Plotino
crédimus,ńső,qui Plotinum ſe cuciſunt, Porphyrio & Amelio, quanquam
Syrianus & Proclus alio ter fenciant. Dionyſius quoq & Origenes
contendunt, ab ipfo per ſeuno eſſe cummentem,tum animam,tum materiam,
Chriſtianum dogma potius quam Platonem ſequuti. Anima igitur cùm ſit ab in
tellectu,ut inquit Plotinus,primofuzeproceſsionis momento inſig. nis prodit
idearum notis. Prodit quo® intelligendi prædita facul tate Nam quemadmodum
intellectus ab ipfo per feuno procedens inde fecum affert unitatis
participationem(quod ſummum eſtipſius intellectus, & quo ipſum per ſe unum
attingit) ſic & animam proce dens ab intellectu indeſecum affert facultatis
intellectualis idearum que participationem.Ergo anima primo ſuæ proceſsionis
momento habet idearum expreſsionem, habet & facultatem intelligendi, qua
non folùm intimasnotiones,uerumetiam ideas intueatur. Sic enim intellectum
auctorem exactè refert.Non continuò tamen perfecta a nimadici
poteſt,quandoquidem debet habere aliquid proprium ac ſuum.Atqui intellectus
etli primo ſuæproceſsionismomento per ſe unius participationeunum eft: per
intimam tamen ac primam actio. nem, quædicitur per ſe uita,cuius ope ſeipſum in
ideas diſtinguit, quaſi Geometria in ſua Theoremata,per ſe animal efficitur:per
in telligentiam uerò uitæ ſummum,përſe intellectus, ac mundusintel ligibilis.
Sic &in anima, quæ primo ſuæ proceſsionis momento fa cultate intelligendi
ideiső participac, quaſi cæra imprimentis ligno, intimailla prima ac ſua actio,
per quamfeipfam in rationes diſtinguit, ac per quam propriè animadicitur,uita
eſt participarò, mo. tus autemper fe.Cuiusſummumeſt ſecunda participatione
intelle, ctus, ratiocinatio autem perfe. Quo fit,ut inſtar intellectus ſit orbi
cularis. Intellectus enim circulus eft. Dicitur autem propriè motus, quoniam
fecum habet & tempus. Quemadmodum enim primus motus eft in anima, ſic &
primum tempus. Nec quenquam pertur bet in eadem eſſentia animæ idearum
participaciones, hoceſt, no tionesipfas,acrationes formisrationeqz diſtinctas
eſſe. Namintelle. ctus & ratiocinatio in eadem anima, quorum alter in
participacio. nesidearum,altera uerò in rationes dirigitur,formæ quoque ratio
nisis diſcrimen inter fe habent. Differunt autem notiones à rationi.
bus,quoniam notiones (ſicenim voipatæ præanguſtia linguæ appel. lamus: ſicuti
aéyous rationes ) tanquam impartibiles acfimpliccs latent in penetralibus
ipſius animæ, ſoliintellectui obuiæ. Rationes uerò multiplices explicatæớz
ſuntſimiles ratiocinationi, cum qua habenc affinitatem. VtræQ tamen ſunt tum
ſibiipfis,tum animæ ſubiecto i dem. Intellectum, quianimæ ſuus eſt, Ariſtoteles
appellat intelle. & tum agentem,ratiocinationem uerò intellectum potentiæ,quidiui.
duuseltacdiſcurſu agit.Omnes enim animæſuo quæqmodo intel lectu auctoreacprimo
participant,qui omnibuscomuniseft,in quo tanğzin centro lineæ
copulantur.Atqideft,quod rectè inquit The. miſtius,deſententia ARISTOTELE, unum
eſſeagentem intellectum illu minantem,illuminatos autem ac ſubinde illuminantes
complures. Vnum,inquam intellectum agentem,quoniam eſt unus,qui reuera acprimò
eſt:complures autem, qui ſunt animarū, illuminati quidē, quoniãprimi
intellectus particepes ſunt: illuminantes uerò, quoniã ex his principia
hauriunt potentiæ intellectus. Verùm de his alibi exquiſitius.Ergo anima primo
ſuæproceſsionis momento etli inſig. niseſt idearum participationibus,etliprædita
eftintelligendifaculta te,quoniam tamen nondūin eam actionem prorupit,quain
ſuas rati ones interius diſtinguitur,nondumin eam, quaeaſdem.proſequitur
perpetiambitu, quibus propriè anima cognominatur,Chaos dici poteft.Eftenim
Chaos,utdictum eſt,effentia rudis. HocautēChaos fequitur Terra.Nam animæ
eſſentia etſimotuieſt obnoxia (perpe tuò enim tum generatur,tum interit,ut in PARMENIDE
DI VELIA dictüeſt, quan doquidem motus repetita quadãuiciſsitudine conficitur)
ſemper ta menmanet,necmotudiſperditur. Amorautem eſtappetitus prorū. pendi in
motum: quo tum diſtinguitur in ſeipſa, tum etiam abſolui-. tur.AmoritaQ
cùmprincipium ſit racionā,rationes autem ſintidea rum ſimilitudines,meritò
dicitur deosantecedere.Hæc quidem dea. nima. In mundo autem ſenſibili Chaos
materia eſt,quam Plato in Timæo temere agitatam Auitantem
appellat:materia,inquam,omni no expers formæ,ſuapte natura, acſpuria quadam
ratione cognobi lis, ut in Timæo dictum eſt.Idautem nihil eft aliud, quàm
cognobi lemeſſe per comparationem ad formam,ut Ariſtoteles inquit. Hæc materia
abeſtab omniperfectione, omnino deo contraria, ut Plato ait, infimum ac fæx
totius proceſsionis, infra quam duntaxat ipſum nihil inuenias,principium omnis
aſymmetriæ. Vnde& Plotinusi, pſum per ſe malumappellauit. Huic nonnulli
putant ineſſe poten tiam,perquam formæ ſubijciatur.Sed mea quidem ſententia
mace ria eiuspotentiaomninoidem ſunt. Nam per defectum totius per fectionis
eftunum: ſicuti deus perexceſſum eſtunum.Ad hæc, condi tionis formalis aliquo
modo particeps foret. Cùm igitur ſit unum per defectum,eo quòd careat omni
perfectione: erit etiam obnoxi generis, cùm citra auſpicia formæ uel
extrinfecus aduenientismane renequeat. Profecto quaeſtunum per defectum, &
cafus abente, di citurmateria: quàuero eſt obnoxii generis,dicitur ſubiectum,
pro pterea quòd ſubeſſe debet. Vnde & Plato ueluti matrem appellauit in
Timæo,eo quòdrecipiat. Ariſtoteles quoçidem cognomentum materiæ tribuit,quando
ſubeſt. Sic fortèmelius, quàm utThemiſtio uiſumeft: cui placet,materiam eſſe
earum rerum, quæ nondum faétæ aut ortæ ſunt:ſubiectum uerò earum, quæ iam ſunt
actu:quo fieri,ut materia fit cum priuatione, ſubiectum cum priuatione non ſit.
Sub iectum itaq dicit tum firmitatem, tum etiã potentiam priuationém
que.Firmitatem quidemdicit, quoniam ſubiectum generationis ma nes,contraria
uerò abeunt,ut Ariſtoteles inquit. Fitenimex aere ig. nis, non quà eſtaer, ſed
quàaccidit ei ut ſit aer. Potentiã autemdicit, quoniam performã perfici poteſt:
non enim fecus fit boni particeps: quo fit,ut formam uehementiſsimèappetat. Eſt
enim forma diuinū &bonum &appetibile,ut Ariſtoteles inquit.Hisita
perſpectis, pa. tet materiam,quà eſtunum,per defectūtotius perfectionis eſſe
Cha. os.Eius autem firmitas deſeruiens generationi, Terraeſt. Appetitus autem
formæ recta ratione amordici poteſt.Rectèigiturdictum eſt, in mundo ſenſibili
uia generationis primoeſſe Chaos,deindeTerra, poſtea Amorem ſequi.Patetquocßex
his ſententia PARMENIDE DI VELIA. Nã uia generationis,priorineſtmateriæ
appetitusformæ, quàm forma. Forma autem ideæ participatio eſt in
materia.Quapropter ſiidea de usdicitur,fecundùm Parmenidem, idegutiớparticipatio,hoceft,for
ma,dicetur diuinum. Amorigitur,hoceft formæ appetitus, Deosi plos,ideft,diuinas
participacionesmeritò dicitur antecedere. Dictú Auñ eft hactenus, quid
GitChaos,quid Terra,quomodo amorſitantiquiſfimus; atqid tumin mundointelligibili,tumin
anima, tum in mun do ſenſibili. Nunc uerò ea commoda uidenda ſunt, quæ ex amore
nobis eueniunt. Animaduertendumtamen eſt,uirtutes eſſe animæ noftræ
purificationes. Animaenim dumingenerationem delabitur,morta li hoc eđeno
inficitur, neglectis plerunq; diuinis, quorum cognata eft:quodin decimode Rep.
diuinus Plato indicat, dicens, animas quæueniuntin generationem, ſumpto potu ex
Amelita flumine ad CampumLethæumdeſcendere. Significat enim ex materiæ com
mércio animis alioqui diuinis ineſſe negligentiam obliuionemére. tum diuinarum.
Reuocatur igitur anima tumin ſui ipſius curam, tumin memoriam diuinorum,miniſterio
uirtutum,quarumbenefi. cio maculas abñcit, quibus ueluti inuſta erat propter
materiæ for. des.Vnde &Ariſtotelesin ſeptimo libro de Naturali auditu
dicit, perturbationes in nobis fedari quandoque natura, utpueris euenit, quando
@ ex alñs,ſignificans uirtutes, quarum opè perturbationes excutiuntur.Ergo
amorcauſanobiseft uirtutumomnium,quarum beneficio maxima bona conſequiinur, hoc
eſt, ipſam ſapientiam. Namſapientia ex moribus ſuſcipit incrementum.Veritasenimpræ
ſtò animæ fit per uirtutes expurgatæ, inftarauri quod igne defæca tur. Quod
& Ariſtoteles quo & clara uoce afſeritin ſeptimo deNa turali auditu.
Sedquamobrem amor uirtutum nobis cauſa eſt: An prior nobis ſénſiliū cognitio
ineſt approbatiocs, perinde ac libona fint: quo euenit, ut fiant expetibilia:
hanc fequitur appetitus(fierie nim nequit,appetitum nonexpetere idipfum, quod
ueluti bonum à ſenſu comprobatur )hunc ſequitur proſequutio. Appetitus enim
principiummotus eſt. Vnde&Ariſtoteles in tertio libro de Ani ma
progreſsioneni animalium imaginationi appetituig acceptam refert. Voluptas
autem profequutionis conſequutionisfruitioniſą eft finis. Illa igitur
uirtus,quæanimæ cum appécitu conſentienti mo dum legemő indicit proſequendi
expetibilis, Ciuilis appellatur. Quæuerò ita confirmat animam,Pombaiam
profequutionem abomi. netur, Purgatio. Atquæita defæcat, ut ab expetibili uix
commo ueatur, iure Sanctitas dicipoteſt. hæc nos deò nonhabenti uirtu tem, (ut
inquit Plotinus, alioquiflagits eſſet obnoxius:quodeti. din fatetur
Ariſtoteles, eiuső enarratorAlexander Aphrodiſiæus) hæc inquam, nos deo fimiles
facit. Vnde & Plato in Theäteto, Fu. ga, inquit, hinc ad deum, iplius dei
fimilitudo eft. Similitudi nem uerò iuſticia & ſanctitas cum prudentia
præſtant. His ita perſpectis, uidere poſſumus; quomodo amor uirtutum cauſa.
lit. Quod Phædrus adſtruere contendit. Pudor, inquit, reuo cansnosà turpibus,
præter hæc æmulátio ad honeſta inultans,no-, bis fternit muniti uiam ad
præclarè rectei uiuendum. Altera e nim dū in honeſtis ſuperari neſcit, alter
ueròeuitando extrema, ſem per habet ob oculos mediocritatem.Quoeuenit, ut
quicquid magni præclarię efficimus, horum ope efficiamus. Quid aucem amore
promptius aut in nobispudorem excitat, aut ſuſcicatçmulacionem: Amorenimuel
abiectiſsimum quemq,licgnauum reddit ad uirtu tem conſequendam,ut numine
percitus uideatur. Amorquoq;fica mans amatúmque inſtruit,utnon æquè ſibi
erubeſcendum ducant, quàmſialterum ab altero ſcelerisacfocordiæ iure coargui
poſsit. Ha ctenus adſtructumeſt, Amoremuirtutes ciuiles efficere, atqz id fyl
logiſmo &ratione. In præſentia uerò adſtruendum,ex eodem quo que eſſe cum
purgatiorias,tum etiam purgati animi uirtutes: quarü beneficio ſapientiæ
acfelicitatis participamus. Cuius quidem rei Al ceſtidis atop Achillis fabula
admonemur. Operæprecium uerò eſt noſſe prius, animam trahi in generationem
affectuuitæ ſenſibilis, cu ius lenocinis impura redditur:aſcendere uerò ad
diuina affectu uitæ intelligibilis, quæ inprimisanimæpuritatê exigit. Vitæ
quidem fen fibilis ſummumeſtopinabile,in quo nihilconitantiæ,nihil firmitatis
inuenias. Atuita intelligibilis ubiqueritatem præſefert. Sed dehis latius
agemus in fequentibus,ubi declarabimus, quid aſcenſus deſcen ſusţzanimæ ſit,
quid ſibi Plato uoluerit in decimode Rep.dicens, a nimas in generationem
deſcendere per Cancrum, per Capricornum uerò ad diuina aſcendere. In præſentia
uerò fatis ſitgeminum huncaf fectum geminæquoquitæ nobis auctorem eſſe. Sed iam
fabulæmy ſterium aggrediamur. Alceſtis, inquit, Peliæ filia amans Admetum uirum,pro
eo mori uoluit. Dijuerò facinore delectati, eam ab infe ris in uicam
reuocarunt. Alceſtidem puto eſſe animam, quęiaminue ritatem incumbat. Admetum
uerò credo ipfas eſſe ſenſibilium notio nes, quibus anima ad uera
intelligibilia excitatur: impuritate uerò ſenſibilis uitæ impedita,eis rectèuti
nequit. Quapropter ſenſibilem uitam exuendam intelligit, quamfibi deſcendens in
generationem induerat, alioqui nunquam uoricompos euaſura. Hinceſt,quòd mo ri
Alceſtis dicitur.Dij uerò in uitā reuocarunt. Quandoquidem de. poſita ſenſibili
uita, in ſuam puritatem reſtituta eſt.Qua igitur mori tur, hoc eſt,quà exuit
ſenſibilem uitam, uirtutibus purgatorijsinniti tur.Namexuere uitam ſenſibilem,nihileft
aliud, quàm animam ita defæcari,ut ne ipfam quidem admittat
expetibilisproſequutionem. In quo uirtus purgatoria conſiſtit. Quà uerò in
puritatem reſtitu. ta eſt,prædita eſt uirtutibus animi iampurgati. Virtus
enimhuiu £ modinonin purificatione,fedpotius in ipfa puritate conſiſtit. Purifi
'catio enim motio quædameſt. Atpuritas motionis terminus. Con fummatio
igituruirtutis potius in termino motionis, quàmin ipſa motionecõliſtere debet.
Sititaqß puritas confummatio uirtutis, qua quidem diſcimus etiam abipfo
ſenſibili uix commoueri. Præclarum utic eſt &longèmaximū,& quod longo
uſuacdiuina quadam ſor teuix comparatur,neceſſariūtamen ad fapientiam
felicitatem con fequendam,ita paratuminſtructumós eſſe,ut corporeas tantùm fen
tias affectiones,cetera prorſusabiunctus.Longè uero errat,quicunos
Orpheumimitatus, exiſtimat, dum ſenſuum lenocinis delinitur, fim bi in
ueritatem patere aditum. Hicenim ſenſibilium notionibus,qua tenus
ducuntadueritatem,uti nequit, ſed quà ſunt duntaxat ſenſibi. lium. Quo euenit,utumbras,hoceft,fimulachrū
Eurydices captans, falſis opinionibus diſtrahatur.Iure igitur Orpheum
fürentibusfae minis dilaniandū irati di propterſcelus expofuerunt. Verùmquid
euenit animæin puritatem iamredactæ. An talem uiteſtatum ſapien tia
ſequituradhæſioc in deum, quod ſuum cuiusqz bonumeſt: Ani maenim adminiculo
utitur ſenſibilium ad ueritatem conſequendă. Namſenſibilia imagines ſunt rerum
diuinarum. Vnde et Plato in Ti mæo idem fermètribuitanimædiuinæ ingeniū,quod
priusin mun. di corporeexplorauerat, ut à Simulachro, tanſ ab inſtrumentoad
exemplarrectè fiat aſcenſus. Ergo ueritatemintelligibilem plerungs accedimus
adminiculo ſenſibilium:quorum notiones in ipſa intelli gibilia
excitantanimam.Dimittimusautem ſenſibiliūnotiones,ubi primumintelligibilia
conſecuti ſumus, ex quorum contactu fapien tiamreportamus. Sapientiã uerò
felicitas bonumo conſequuntur. Dehis uberrimèin Socratis oratione agendum nobis
eſt. Horumſa nè Achillis Patrocli (fabula nosadmonet. Achilles,inquit,mortuo
Patroclo amante mori uoluit: diuerò admirati facinus, non ſolum in uitam
reuocarunt,uerumetiam beatorum inſulas deſtinarunt illi habitandas.Patroclum
puto animamipſamaſcendentem ad uera itt telligibilia adminiculo ſenſibilium.
Achillem uerò ſenſibilium notio nes in anima. Mortuus eft Patroclusamans, id
eft, eò ufog proceſsit anima,ut non amplius ſenſilium notionibus
indigeat,quibus innita tür.Quo fit,ut ſenſilium notiones uſui deſinantelle
animæad intelli gentiam comparandā.Hinceſt quòd mori Achilles dícitur. Dij uerò
huncuolunt reuiuiſcere,quoniam animæ pro notionibus ſenſibiliú fiuntobuia ipſa
intelligibilia:unde fapientia comparatur. Ex ſapien tia ueròfelicitas euenit
& bonum,quod eſt beatorum inſulas Achilli habitãdas deſtinari. Sed quomodo
dicitur amansamato pręſtantius eſſe: An ſi comparetur uisintelligendi ad id
quod intelligitur, longè I melius . meliuseſt id quodintelligitur.
Intelligibile enim mouet nõ motū, ut Ariſtoteles inquit in undecimo Rerum
diuinarum.Mouet enim tan quamamatū. At uerò intellectus ab ipſo intelligibili
mouetur. Vis enim intelligendi producit actionem in ipſum intelligibile, quæ
intel ligentia appellatur.Ex quo diuinus Plato in ſexto deRep.dicit,ueri tatem
intelligibili,ſcientiam uerò intellectui ineſſe.Quodetiam uolu iſle Ariſtotelem
alibi declarabimus. Licetin ſexto inſtitutionū Mo ralium aliter ſentire
uideatur. Sin uerò ſenſibilium notiones, quibus anima in uera intelligibilia
excitatur,comparentur ad eam facultatē, qua intelligimus,quisambigat longè
minoris eſſe æſtimandas: Pen dencenim à ſenſibilibus,ſuntázanimæintelligenti
aduentitiæ. Plato igitur quando dicitamatum eſſe deterius amante, non deipfo
intel, ligibili intelligit(quodreuera amatumeſt: id enim longè pręſtat)ue rum
de notionibus ſenſibilium inanima, quæ &ipfæ propterea ama tum
dicuntur,quoniam uſui ſuntanimæ ad uerum intelligibile con ſequendum.Hæfanè
intelligente animalongè ſunt deteriores. Cu ius rei indiciūeſt, quòd
intelligens anima affinitate coniuncta eſt cũ ipſo
intelligibili.Intellectusenim,ut rectè inquit Ariſtoteles, rerum
intelligibiliumeft,eiuſdem @ eſtutrunca contemplari. Quandoqui demeadem
contemplatio eſtomnium ita coniunctorum, ſicuti etiã ſenſus, &rei
ſenſibilis. Quo euenit,ut deſiderio agatur ueritatis. Ato ideſtquod inquit
Plato, Amans propterea amato præſtantius effe, quod diuino furore agitur. Verùm
quid ſibiuult Plato dicens, longe magis dijs cordi eſſe,ubi amatum, in gratiam
amantis moritur, quàm ubiamansin gratiam amatirAnmoriamansin gratiam amati,
nihil eſt aliud, quàm animam incumbentemin ucritatem, abijcere uitam fenfibilem,ne
ſenſilium notiones, quæ ſuntuſuiadueritatem compa randam,irritæ ſint:
Amatumenim ſenſiliūnotionesſignificat. Quod exeo aſſeritur, quoddictum
eſt,amatum amante eſſe deterius. Fiunt autem irritx, filieimpedimento
ſenſibilis uita. Amatū uerò moriin grati amamantis, SIGNIFICAT notiones
ſenſibiles uſui non eſſe amplius, quòd intelligens animain ipſam ueritatem
intueatur: quod re uera amatum eſt. Siigiturmulto plus eſt omnino negligere
notiones ſen lilium, intuente animaueritaté, quàm deporre uitam ſenſibilem, ut
notiones ſenſilium ad ueritatem uſui ſint:multo plus utiq; erit, a matū pro
amante, hoceſt, Achillem in gratia Patrocli: quàm amans pro amato,hoceſtAlceſtidē
in gratiam Admeti mori. Quapropter quid mirūgli Achilles ad maiorem honorē
cuectus eſt: Anima enim exuero intelligibili non ſolum ſapientia,uerumetiam
ipfam felicita temreportat. Quod quidem eſt,Achilliin uitam à dis reſtitu to
beatorum inſulas habitandas deſtinari: cùm Alceſtidi in uitam reuocari ſatis
fuerit.Vlo tur expoſitio. ) Voniamà Pausania dictum eſt, totidemeſſe Amores,
quot ſunt Veneres:oportetexplicare in primis Vene rem,
quideaſit:alioquiphiloſophia amoris(quod qui dem in præfentia quærimus ) lateat
nos neceſſe eſt. Plotinus igitur putat, Venereineffe ipfam animam,
proindecaulamamoris efficientem. Sunt etiam & alij, qui aliter ſen.
tiunt,magnialioqui uiri, ſed quos in præſentia dimittere conſilium eſt. Vir
enim fapientiæ ſtudioſus,ut inquit Dionyſius, ſatis ſibi factu cenſere
debet,ſinon alios laceſſendo,fed quàm ualidis poteſt rationi bus,quam
putateſfeueritatem,audacter aſſerat. Ego uerò Hermiæ libenter aſſentior, qui
credit per Venerem pulchritudinē ſignificari. Argumento, in Phædro dictum eſſe
furorem amatorium, & optimū effe furorum omnium, & ex optimis.Exoptimis
quidem, quoniam ſenſibilis pulchritudo,à qua amor excitatur, optima ac
præſtantiſsi ma eſtomnium, quæcunq ſenſui offeruntur: nam & exquiſiciſsima
diuinorum ſimilitudo eft, quæ optima ſunt, & ſenſui omnium perſpi caciſsimo
ficobuiam.Viſusenim alios ſenſus longè ſuperat. Cùm e. nim cæteri ſenſus,uel fi
nulliſint uſui,cognitionis gratia per fe expeti biles ſint,ut Ariſtoteles
inquit:præ ceteris tamen uidendi facultatein optamus, quippe qua exquiſitius
cognoſcimus. Quapropteruiden di facultatem ad intelligentiam traducere
folemus,ut etiam intellige reuidere ſit. Quod &Ariſtoteles indicauit. Nam
& in tertio uolumi ne eius libri,inquoadſtruendi deſtruendic locos docet,
& in primo de Moribus adNicomachum, Sicut,inquit,pupillain oculo,licintel
lectus eſt in anima.Patet igicuramorem ex optimis eſſe, cùm ex pul. chritudine
ſenſibili excitetur,quę optimaeſtomnium quæcunq hic ſunt. Optimum autem eſſe
facile dabit is, quem non latuerit intelligi bilem pulchritudinem, cuius eſt
Amor,indagancibus bonum obuia fieri: quippe quæ boni penetralia ingredientibus
in ueſtibulo occur rat.Siigiturfuroramatorius tumexoptimis eſt,quodexcitatur
ſen fibili pulchritudine:tum etiam opcimus, quoniam in pulchritudi nem
intelligibilem dirigitur, huius autem patrocinium Veneri cri butumeſt, ut PLATONE
inquit in FEDRO:quoniam dij alij alñs furori bus præſunt, Mulæpoetico, Apollo
uaticinio, Myſterijs autem Bac chus: ſicúz Amor, qui Veneremcomitatur, pulchrorum
dux puerorum, eorumſcilicet animorum, quos pulchriuehementer prouocat
{pectaculü: quotuſquiſpambigat, perVenerempulchritudinem in. dicari: Nuncuerò
quid ipſa ſit Pulchritudo uidendum eſt. Quod pulchritudo ſitex eorumnumero,
quæmodum habēt qualitatis,uni cuiqué palàm eſſe poteft. Quòdautemmodum habeat
eius qualita tis, quæ uidendifacultati obuia ſit,idquoqueperſpicuum puto.Nam
&pulchritudo ſenſibilis ueræpulchritudinis fimulachrum ab una uidendi
facultate percipitur. Ea uerò qualitasuiſibilis, quæ fecüdum ſuperficiemexcenta
eſt,Colordici poteft. Quæuerò nullam patitur extenſionem, ſed temporis puncto
ubiquediſcurrit, Lumen appella tur. Eft & alia qualitas uilibilis,quæ
tanquam imago acflos ellenti alis perfectionis allicit rapítque in borum.Id
igitur quodhabetmo dum eius qualitatis quæ uiſui obuia eſt, imago
acfloseſſentialis per fectionis,alliciens rapiens in bonum,reuera
eſtPulchritudo:quod que huius particeps fit,Pulchrum appellatur. Cæterum
pulchritudi nieuenit,ut delicata,utiucunda,utamabilis ſit. Delicata,eo quodfe.
quitur perfectionem eſſentialem.Iucunda,eo quòddelectat. Amabi. lis,eo quòd
allicit rapita.Hincpatet,quàm hallucinationis coarguê dinon ſint,
quiafferuntpulchrum à bono differre, tãquam extimum ab intimo.Eſto pulchrum
omnebonum eſſe: neque tamen uiciſsim. Quid tum poftea.Num continuò
ſequitur,bonum quidem genus ef ſe,pulchrūuerò ſpeciem? Alioqui&
ſapiens,& iuftum, & perfecta &cetera generis eiuſdé,boniquo ipfius
ſpecies eſset. Sapiensenim omnebonumeft,ficédecęteris: nõtamen
uiceuerſa.Nūcuerò neck perfectum,negiuſtum, ne s fapiens boni ſpecies
ſunt,alioquieſſent quoqſpecies unius. Simpliciſsimum enim optimúmg in idem
cõſpi rant:non minúſą Vnius participãt omnia; quàmboni. Atquotuſ
quisqaſſeruerit,unum eſſegenus,fiquidem genus totum eſt: totum uerò partibus
obnoxium: Siigitur unum eft genus,non utiqueerit citra partes. Atuerò
unumomnino &undequaque impartibile eſt, quemadmodum in Sophiſte declaratur.
Sedagedum ſidetur bonum eſſegenus, quídnam id poterit:Nónneperfectio
eſsentialisactuseſt: Quodexeo patere poteſt, quòdeſsentiæ beneficioomnia ſunt
id ip ſumquod ſunt. Viuensuitæ beneficio uiuens eſt. Quo euenit,utuita uiuentis
actus ſit. Animabeneficio motusanima eft: fed quocuſquif queambigat,motumeſse
animæ actūł Ignis beneficio formæ ignis eſt. Tuncenim reuera eſtignis,cùm
primūignis formamactu habet. Quis autem non uideat formam actum eſse
ignis:Quoeuenit,utre Eta ratione dici poſsit, perfectionem eſsențialem actum
eſse. Actum autem omnemeſse bonum,neminem inficias iturum puto, quando quidemi
merito actus unicuiqz bonumineſt. Nónneignieſseignem; bonumeſt:Atquis ambigat
per formam,quieſt actus, ignemeſſeig nēNónne quo anime eſſe animā,uiuęciéeſſe
uiuens, bonüeſt: Ve rùmalterūbeneficio uitæ,altera beneficio motus,
quorūutergeſta ctus,id euenire palàm eſt.Exñs patere puto, perfectionem
eſſentialē bonüeſſe,uiciſsimo bonüaliquodeffentialem eſſe perfectionê.Quii
gitur affirmat, pulchrumàbono differre, tanquam extimum ab inti mo,etſi nõibit
inficias, fibonuminuniuerſum accipiatur, pofſe dari, gracia
diſſertationis,idipſumgenus effe:contender tamen,fedebono uerba facere, non
quatenus in uniuerſum ſimpliciter accipitur, fed quatenus particulare
definituma eſt,ſuam præſe ferens duntaxateſ ſentialem rerum perfectionem. Atque
id quidem affirmat recta ra. tione. Nampulchritudo ingenium modumýzhabens
accidentis,re uera extimaelt,quodab ipfa rationeexploditur. Atperfectio
eſfētia, lis, quam ſequitur pulchritudo, reuera intima:quod ex co aſseritur,
quoniam unumquodąeſſentia conſtat. Hinc quidem uidere poſlu. mus,primā
pulchritudinem neğz efle ideas,necin ideis. Ideas enim ab omniaccidentis
ingenio procul eſſe perſpicuumeſt. Namipſum per ſeensin ideas diſtinctumeſt:
quaſi Geometria in ſua Theorema ta. Quemautem lateat Theoremata non eſſe
geometriæ accidentia: Sed ſubeft quærere,ubi nam&quo pacto lintideæ.
Vtrumânt in eo,in quo ſunt,uel tanquam forma in materia, uel tanquamaccidés in
ſubiecto, uel tanquam in caufa effectus, uel tanquam actus in eo quod perfici
debet,uel-tãquam totum in toto,uel totum in partibus, uel pars in parte, uel
parsiu toto.Fieri enim nequit,ut fecus in aliquo aliquid ſit. Namgenus
&ſpecies totius partium (habent ingenium. An ex diuiniPlatonis
fententia,ideas eſſe in ipfo perfe animalidicen dumeft:Namin Timäo aperta uoce
aſserit,Opificem munditot for mas mundo exhibere,quot ſpeciesmensuideratin ipfo
per ſeanima. li.ex quo patet, idearum diſcrimen in ipfo per ſeanimali primò
eſse. Reliquumeſtutuideamus, quo pacto in ipſo per feanimali ſintidex.
Anuelutiforma inmateria eſse nequeunt. Non enim per fe animal materia eſt,
quando alterius beneficio noneſtactu. Sed neque tano accidens in ſubiecto. Quis
enim contendat ideas eſse accidentia, quando idearum ſimulachra foliditateseſse
perſpicuum eſt,utignis, & terra, & cætera generis eiuſdé:Non ſuntquoq
tanquãin caufa effe. ctus, quandoquidemeſsentpoteſtate. Nücuerò ideæ acti funt.
Quo modo autem eſse poſsunt tanquam actus in eo quod perfici debet? Namper
feanimal uita ipfa,non ideis, tanquam actu animaleſt. At nequetanquam totum in
toto, neque tanquam totum in partibuseſ ſe dicendum eſt. Non enim totum ſunt
ideæ, quoniammultitudini ſunt obnoxiæ. Totumuerò unumeft. Nónneſi tanquam
partemin parte 1 parte eſſe conMilanius,
oportet quoque nos concedere, tam per ſea nimal,quàm ideas,alicuius totius
partes eſſe: Atcuiúſnam pars fu eritipſum per ſe animal:Reftatigitur, ideas
eſſe in ipfo per fe animali tanquamin toto partes. At id eft, quodin
Timæodiuinus Plato fi bi uoluit,dicens Opificēmundi tot formas mūdo èxhibere,
quot fpe cies mènsuideratin ipſo per ſeanimali.Quemadmodum enim forme quas
mundo exhibuit mundiOpifex, continentur in mundo, tano in toto partes:ficetiam
ſpecies, quas mundi Opifex eſt imitatus,in ip ſo per le animalicontineri
pareſt. Abipſo autem per ſèuno procedit primò ens: quodintima
functioneabfolutum, quæ uita dicitur,fit per ſeanimal. Vitaenim uiuentiseſt
actus. Ipſum autem per ſeanimalui tæ beneficio cùm totum ſit, in partes quoce
diſtribuatur neceſſe eſt. Totumenim& partes ſimul ſunt. Quapropteripſum per
ſe animal quemadmodum habet exuitauc totū ſit,ex eadem quoqhabet,ut ſe ipſum
diſtinguat in partes: partes aüt huiuſmodi ideæ ſunt.Ex quoli cetadmirari
nõnullos:quicõminiſcunturideas aduenire extrinfecus ei in quo funt,tãquam actü
informi naturæ. Quo genere peccarenul lummaius poſſunt, qui amant uideri
Platonisftudiofi.Hecdiximus, nõſtudio quempiã laceſſendi (quod à uiro
philoſopho alienum ſem per duximus) fed quoniam ſunt nonnulli, qui dum alteros
auidius quàm decetinfectantur,nõ cômittuntutipſiiurenõ poſsint coargui.
Nãduxnoſter Marſilius, etſi alicubi dicitideas excrinſecus accedere,
Chriſtianis fortè quibuſdam adftipulatus:ubi tamen exactèrem Pla tonicam
tuetur,longè aliter ſentit. Exhis quædicta ſunt patere arbitror, primā
pulchritudinem non efle ideas, quemadmodumnonnulli ineptèaſſerunt. Sed neçetiam
effe primò in ideisin præſentia declarandumeſt. Plato in Timæo di cit mundum
eſſe pulcherrimum omniumquæcunq genita ſunt: eſse autemalicuius ſimulachrum,
quodratione ac fapientia ſola compre, hendi poteſt:adhæcmundumpulcherrimum
natura opus optimum que eſſè:effe, inquam, animal animatum intelligens.Ex quo
intelli, gere poſſumus, de Platonisfententia,id exemplar quodmundiOpi fex eſt
imitatus, tūanimal eſſe, tum etiã pulcherrimum. Quapropter pulchritudinem primò
eſſe ipſius per ſe animalis,non idearum: nam ipſum per fe animal ideas
antecedit. Adhæc, ſi pulchritudo exuberan tia quædamexterioreſtintimæ
perfectionis: intimauerò perfectio ne ipſum per ſe animal fit: quis non
uidet,ipſius per fe animalis prima pulchritudinēeſſe: Quomodo igitur idearu:
Dehis tum paulo poft diſſerendūnobiseſt, tūetiã in libro de amore ſatis
abūdediſſeruimus: Hactenus oſtenſum eſt, quid Venus ſignificet, quid ſit
pulchritu do ubiſit.In præſentia uidendum eſt, nunquid pulchritudo materia
ſitamoris,an potins finis.Nonnulli ſunt, quidicantde Platonis fen tentia,pulchritudinemeſſe
materiam amoris. Nampulchritudo cau fa eſt amoris,non tanquam principium
efficiens eius actus qui eſta mare, fed tanquam obiectum.AtueròſecundumPlatonicosactuum
animæ animaipſa eſtefficiens:obiecta uerò ſuntmateria, circaquam actumillumproducit
anima. Quaproptercum hacratione pulchri. tudo materia ſitamoris,propterea
Venusdicitur amoris mater.Nam materiam eſſe tanquammatrem,efficiensuerò tanquam
patrem,con tendunt Philoſophi. hæcilli ferèaduerbum. Sed non poſſum non
uehementer admirari, quihæcproferunt in medium, uiri alioquigra ues &magni,
&quos arbitror nihillatere potuiſſe, in his præſertim quæ pertinent
adintegram caſtamos Platonis Ariſtotelisęzintelli. gentiam. Non ſolum enim quæ
dicta ſunt,Platoni Ariſtotelicpug. nant, uerùm etiam pugnant &rationi,
pugnant quoque&his quæ ab eiſdem alibidicta ſunt.Primò quidem Plato in
ſextodeRep.libro dicit, fjs quæ intelliguntur inefleueritatem:intelligentiuerò
ineſſeſci entiam,ueritatemcz intellectu percipi. Quo euenit,ut ueritasannexa
ſit intelligibili:ſcientia uerò intellectui. Siigitur ita fehabet,quomo do
ueritas ſcientiæ materia erit fecundùm Platonem:Veritas enim ſci entiæ longè
præſtat:quod nulla ratione eueniret, fi materia eſſet. Ari ftoteles quomin
undecimoRerum diuinarum, Expetibile, inquit, &intelligibile mouetnonmotum,
quodalterumapparens, alterum reuerabonum eſt.Mouereautem nonmotūquotuſquiſque
materię tribuerit:Etpaulo poft,Intellectus,inquit, abintelligibili mouetur.
Intelligibile autemalter ordo fecüdum le. Addit&hoc:Mouet icaqz
tanquamamatum. Ex quibusliquidò patere poteſt, expetibile intel. ligibilegs
finis ipſius habere ingenium. Siitam expetibile &intelligi bile mouetut
finis, pulchritudo autē expetibilis intelligibilisőseſt: quomodo materia eſſe
poterit: At prima pulchritudo ſoli intellectui eſtobuia, quemadmodum oſtēſum
eſt,cùm fitiplius per ſe animalis: eftetiamexpetibilis, quandoquidébonum
quoddam eſt,bonum au tem quà bonum ſemperexpetibile.Poſſent &alia multa
afferri in me dium,quibus oftenderetur de Platonis Ariſtotelisés ſententia obie
ctum nõ eſſe materiam actuum animæ. Quæ quidem propterea omi fimus,
quandoquidemijs, qui uel breuem deambulatiunculam cum Platone Ariſtoteleđß
fecerint,notiſsimaſunt.Atuerò &rationi recla mat,obiectum ueluti
materiãeſſe. Materia enim folet eſſe id ex quo ali quid fit.Nó fiūtaūtex
obiectis animæactus,ſed potius funt circa obie éta. Quo euenit,ut obiecta
materia eſſe nequeat. Adhæc bonüexpeti bileeſt, quandoquid exeo appetimus
quodbonãelt: nõuiciſsimeſt bonüpropterea quòdexpetimus. Expetibile autē
obiectõeſt,quo fit, ut bonum ut bonum obiectum ſit: Gaddas, obiectüeſſemateriam,bonum
quoqs materia fit neceſſe eſt. At quaratione aſserendum, bonumipſummā teriam
eſſe: Pugnantquoque fibiipſis.contenduntenim pulchrum à bono ſeiungi,
tanğſpeciem àgenere. Quo fit, ut pulchrum boni ſpecies fit:bonum ueròde pulchro
tanquamde ſpecie dicatur. Siigi tur pulchrum eſt bonum,bonumuerò materiam
eſſenequit,quo pa eto pulchrum materiam eſſe dicendum eſt: Quapropter meaquidem
ſententia aſſerendum non eſt, pulchritudinem eſſe materiamamoris, fed
potiusfinem.Cui quidem ſententiæ Plato Ariſtoteleső adſtipu lătur. Verumfi
pulchritudo ingenium habet illius, cuius gratia: quo pacto Amorem
exoriridicendum eſt: Anubi primumcognoſcendi facultas,pulchritudinem
utdelicatam, ut iucundam,utamabilem co probat,ſtatim uisappetēdiexcitatur.Appetitus
enim cognitionem fequaturneceſse eſt. Dumigitur appetens exoptat ſibi adeſse ac
per frui delicato, iucundo,amabili,utinde plenitudinem hauriat uolupta tis,eữactú
circa pulchritudinem producit, qui appetere dicitur.Qui quidemreuera
Amoreſtappellandus,hoceft,appetitus &deſideriū perfruendæ
pulchritudinis.Huius deſiderñ efficiens cauſa,uiseſtap. petendi:pulchritudo
illud,cuiusgratia. Quænam uerò materia ſit, in Socratis oratione declarabimus, exponentes,
quid nobis per Peniam fit intelligendum, quam eſſematrem amoris affirmat Plato.
Quod quidem euidens argumentum uideri poteſt, pulchritudinem non ef ſemateriam
amoris.Nunquam enim dicit Plato, Venerem (quæ pul chritudinem ſignificat )
matrem eſse amoris, ſed potius amorem co, mitari ſequio Venerem,quippe
quiVenerisipſius eſt,in Venerēms dirigitur. Quæ quidem omnia finis ſuntipſius,
non materiæ. Nonnulliſunt, quidicant,quiſquis deſiderat, quodammodo poſsi dere
id quod ab eodeſideratur: idq eſse deſiderācis uirtutis propriū. Adſtruūt autē
hocipſum dupliciratione, tumquoniam deſiderium omne antecedête cognitione
lubnititur (cognitio autem, quædã pof ſeſsio eſt) tum quóniam inter
deſideransacdeſideratum congruentia ſemper ſimilitudo@intercidit.Fieri autem
nequit, utidquod deſide. ratur,à deſiderante quodammodonon participetur.
Alioqui nulla eſſet inter utrung congruentia, nulla ſimilitudo. Sed mea quidē
ſen tentia cómentitiử hoceſt.Nã deſideransomne,quà deſiderans, cogni tione
priuatur. Cuius rei indiciū eſt, quod ex antecedête cognitione
deſideratquiſquis deſiderat. Quo fit,ut recta ratione uis deſiderãdi di catur
cęca eſse,quippe àqua cognitio ſeiūcta fit,quæuiſio appellatur. Atfieri
nequit,ut quicquid cognitione priuatur,non priueturetiã ea
poſſeſsione,quęmerito fitcognitonis. Sed fortè dicent,nõ ficfeadui uum
reſecare, ut uelint,deſiderãs,quàdeſiderans, merito cognitionis cognit habere
quodämodo poffefsionem illius,quod delideratur: fed eadū taxatratione
habere,qua cognofcit. Nosaūtenitemuroſtenderenec etiã cognoſcésqua
cognofcēs,habere ali zrei cognobilis poſſeſsionē dūcognoſcit. Vtrūuerò id
affequemur,alñ iudicabūt.Nobisſatis erit afferre in mediū,nõ quæ adeo premất
alios,eospræſertim, quosuelu tinaturæmiraculū ſoliti ſumusadmirari:fed quę
caſtūueritatis fecta torējaſsertoreo decere arbitramur. Quod quidem
ſignumoboculos ſibi ſemper proponere debet, quicũceſt fapientiæ ſtudioſus.Côten
dimus igitur,cognitionēnullo pacto eſſerei cognobilis poffefsionē.
Nãcognitionem eſſe per modumuiſionis, nemo eftomniū qui rectè poſsitambigere. Cognitio.n.inipſum
cognobile à cognoſcētedirigi tur, quafi in ipſum uilibile uifio.At poſſeſsio
nullā habet cumuiſione affinitatem. Non enimqui poſsidet quodãmodo intuetur,
ſedquali manu tenet,accöplectitur id ipſum quod poſsidetur. Quoeuenit, ut
poſſeſsio potius ingenium fapiat tactionis. Siigitur cognitio uifionis imitatur
naturam,poffefsio uerò non imitatur, quo pacto dicendum eft,cognitionem eſſe
poſſeſsionem. Adhæc, uerum & bonūnonidē funt.Quod ex eo patere
poteft,quòdnoneadē facultate percipiütur: In uerum dirigitur
cognofcendifacultas,in bonūuerò appetendi. Ex ueriperceptioneaſseueratio
certitudoớa reportatur:exboni poſſeſsi onecóplexu (uoluptas. Si igitur
cognofcens, quà cognoſsēs quodā modopoſsideret, uoluptatisquo particeps fieret.
Voluptas enim boni poſseſsionêcomitatur.Atuoluptas facultaté cognoſcentem no
perficit,fed appetētem.Quapropterdiuinus Plato bonü noftrumin miſto quodã ex
lapiétia uoluptate coſtituit: quarüaltera, id eſt,ſapi entia intellectum:altera
uerò,hoceſtuoluptas, uoluntatem perficit. Sed de his infequentibus
comulatiſsime agemus. Hactenus often ſum eſt, quicūą deſiderat,huncipsūnon
poſsidere,necquà deſiderat, nec quà cognoſcit.In preſentia uerò
declarandûeft,neclimiltudinem quoos poſseſsionem aliquo modo auteſse autdici
debere. Quodreli quüerat ut adſtrueretur.Quæcun $ igitur fimilia ſunt,aut
propterea dicuntur ſimilia, quòdcerto quodã tertio participent (cuiuſmodico,
plura alba aut calida ſunt )aut quoniã alterü alteriſimileeſt,non tamé uiciſsim:quemadmodūuiuenti
Socrati pictus autæneus ſimilis eſt, quãdo uiuentem Socratem quodãmodo
imitatur. Nemo tamen pro pterea fanę mentis contendet,uiuentē picto auteneo
ſimilē eſse. Quo genere,homo per uirtutes deo ſimilis fit,ut rectè inquit Plotinus.Sen
lilia quoqhocpacto intelligibilib. ſimilia ſunt, quæ nihil cum eisha
bentcõmune,niſi nomen. Quodquidem clara uoce diuinusPlatoin Parmenide Timæocz
teftatur. Ex quo Ariſtotelis ratio contra ideas de tertio hominefacilè
diluitur. Quæcũçaūt ſuntidonea,utrecipiãt, cuiuſmodi informis materia eſt,
& cætera generis eiuſdem, fimilia & ipſa dici poffunt, tū ijs
quærecipiuntur,tumis quæ efficiunt.Horum eniin be Inic enim poteſtas quædam
ſimilitudo uidetur eſſe. Dicitur quo &effi ciens finiſimile, quoniã efficiensomne
à fine mouetur: illius enim gra tia omnia ſunt. Vnde &ARISTOTELE in
undecimo Rerūdiuiuarū,Ěx petibile,inquit, & intelligibile mouētnon
mota:quaſi efficiens motu moueat. Quod paulo poſtexpreſsit,dicés: Intellectus
ab intelligibili mouetur. lis itaq expoſitis,uidendū eſt, quopacto deſiderãs,
ei quod deſideratur fimile eſt, cuius ſimilitudinem meritò fibi deſiderati
inſit poſſeſsio.Non eſtigiturdeſiderásſimile eiquod deſideratur, quoniã tertio
quodamparticipent. Alioquiutrunqz alteri pari ratione ſimile eſſet. Quod quidem
ñseuenit, quæhoc pacto ſimiliaſunt,quando in tertio cócurrunt. Atdeſideras
&idquod deſideraturita fe habent, ut idquod deſideraturno motūmoueat, deſiderãs
uerò moueatur:Quo euenit,ut ſecus id, quod deſideratur, deſiderāti: ſecus autem
deſiderás ei,quod deſideratur,ſimile ſit. Siigitur quæ cõcurruntin tertio, ſibi
in uicem ſimilia ſunt:deſiderans uerò &id quoddefideratur non ſimili
côditioneſimilia ſunt:quis ambigat,eadētertñ quoq nõ participare: Non ſunt
quoqz ſimilia,eo quòd alterü alteri duntaxat ſimile ſit:alio, quiaut alterum
alteriusſimulachrū imagóą eſſet,autfaltē imitaretur. Nuncuerò neutrūaut
alterũimitatur,aut alterius imago exmplumue eft.Sed nec quoqeo pacto ſimilia
ſunt, quo recipiensautei quodre cipitur,auteiunde eſt principiū motus ſimile
dicitur. Neutrumenim recipientis habet ingeniū, quandoquidem alterum eſtran
efficiens, alterútanſ illud cuiusgratia efficitur. Reſtat igitur, fi qua eft
ſimilitu do,utdeſideras &id quod defideratur propterea fimilia ſint, quoniã
id quod deſideratur tãğexperibile mouer:deſiderãs uerò eft efficiés. Quã quidē
fimilitudinēnemoeſtomniã quidiſsimulet. Quis enim ambigat, inter finem atoßea
quæ in finĉprogrediãtur, ſimilitudinem quandãaffinitatēc eſse:Quoenim pacto eo
côtéderent, niſi aliquid inde reportarent, quod in uſumbonūĝz ſuum uerteretur.
Sed hæc ſimilitudo cógruencia (znullădicit poſseſsionem. Nã propterea effici
ens finiſimile eft, quod efficiésmoueri poteſt, finis aūtmouere.Poſse
aūtmoueriadfinem,nulla finispoſseſsio eſt:finis enimpoſseſsio actu eft,poſse
aūtmoueripotencia. Quomodo igitur huiuſmodi ſimilitu: do poſseſsionēdicit.
Adhæc lidefideransratione ſimilitudinis ali quomodo poſsiderid quod deſideratur,id
quidē actu eſse neceſse eſt. Quod aūtactu pofsidetbonū,habet quogiãactu
&uoluptatē, quão doquidēactupfruitur. Quis aūt afseruerit,deſiderãs quà
deſiderãs iã bono gfrui,diliniriq uoluptate:Nãdeſideriūmotio quædã uidetur,
quãdo motionis pricipiūelt.Voluptasaŭt motionis terminus.Cõti getigitu ridē
ſimulmoueri,acno moueri.Quod fieri nulla ratione po teft:Ěxhis perſpicuñeſse
arbitror,deſiderãsminimèilliusparticipare ģddeſideratur.Verùmhæc paulo
altiusrepetëda sūt. Omnia quæcũ queſunt, poft primūingenita cupiditate urūtur
pociūdi illius: quip pe ex cuius poſseſsioneſuum cuique bonumineſt. Cupiunt
autem quam uehementiſsime ſingulaſibibonumadeſle. Quidenim eſlea maret,niſiid
fibi proforet: Appetentiauerò omnis ex cognitioneſus mit exordia. Fieri
enimnequit,ut alicuius cupiditas aliqua fit, cuius non fuerit
&cognitio.Hæcquidem cognitio no intelligencia eſt,non ratiocinatio,non
opinio, ſiue cogitatio,nõ ſenſus aliquis, ex his quos particulares uocamus,fed
longèhæcomniaantecedit. Singula enim ftatimquàmfunt, intimoquodamnatiuoç ſenſu
præſentiunt, in au Ctorem,unde uenerunt,libieſſeproperandum, indebonumuberri
mèadfequutura.Hicquidem ſenſus, quem Intimū Naturęgsappella mus,principiūeſt,
quo mūdusintelligibilis in uită intelligēciāõpro cedat.Nãuita intelligentiaõ progreſsioeftin
bonū.Progreſsio aūtin appecētiã reducitur. Quofit,utappetētiauitæ
intelligentiæis princi piūſit. At appetētia omnis cognitione fubnititur.
Quapropter cùm nulla prior cognitio fuerit, quàmea, quamūdus
intelligibilisſtatim, quàmeft,præféntit ex auctore ſibi bonūadfuturū (quem
ſenſumInci mum uocamus)ſequens eft,ut inhunceundem uitaintelligentiáque
reducatur.Pari pacto de animadicendum eſt. Namhic ſenſusperpe. tis illius
motionis ratiocinationis & ipſiusauctor eſt. Vnde& Iambli chus,cætera
quidēdiuinus, in hocaūtuerè diuiniſsimus.Effentie, in quit,animæ
ipfiusingenitaquedamineft deorum cognitio,omniiu dicio melior,antecedens
electionem,ratiocinationem, demonſtrati onem omnem: quæ quidem interexordia
inhærens in propriam cau fam,coniúcta eſt cumeo animæappetitu,qui
ſubſtantificus bonieft: Plotinus quo @ aſserit,omnia naturæ opera eſſe
Theoremata,quip pe quæex intima quadã naturæ cognitione orta ſint.Hoc fenfu
&ele menta in propria loca feruntur.Vnde &illi, meaquidem ſententia,
audiendinonſunt, qui ñſdem tribuunt appetitum in ſua loca proce
dendi,adimuntuerò cognitionem appetitus huiuſmodi principium, quaſi abextima
intelligentia dirigantur.Namfieri nequit,utextima fit cognitio,appetitusuerò
intimus. APPETITVS enim cognitionem fequitur, eiuſdemqz rei eſt cognoſcere
& appetere. Huncienſum ue. teres Magiobſeruauere, hincopera ſuæ arcis
feliciſsimè auſpicantes. Hunceundem in hymno naturæ Orpheus quietum acline
ſtrepitu appellauit. Quippe in quemnoncadaterror, quando nulla indiget ope
externorum, fed totus in boni quaſi uiſionem incumbat. Qua propter mea
quidemfententia, quemadmodum concupiſcendiira ſcendió cupiditas ſuã habet
ſentiendi facultatē,electio uerò ratiocinā dig atintelligédi facultatē uolūtas,
quibus nitătur (alioquin he quidé quod reuerabonüeſt,illęuerò qa
bonūuidetur,nequico deſiderio cöplecterentur) fic & cómunisrerü
omniūappetitus,quo in bonum dirigūrur, ſuāhaberecognitioné (quë nature
ſensűrite nücupamus) ġd bonü præſentiatur,neceſſe eſt.Hecquidēcognitio
quéadmodūnā 1 eſtbonipoſſeſsio (alioqui nunquam in bonum progreſsio fieret )
fed potius poſsidēdi principiū:pari ratione neccæteras cognitiones,pof
ſeſsiones eſſe dicendüeſt, ſedprincipia uias@ potius in poſſeſsionem. Quo
fit,utrecta rationedici nequeat,AmoremPulchripoſſeſsionem habere,quòdantecedête
cognitioneſubnicatur, quaſicognitio ſitpof feſsio quædam. Quomodoautemnon folùm
Amor, fed appetentia omnis,media ſitinter idquodbonum eſt,atquenonbonum:
quidper Porum, quidper Peniam Amoris parentesdiuinus Plato ſibi uelit, in
Socracis oratione uberrimèenitemur oſtendere. Hactenus declarauimus
Pulchritudiném eſle Amoris finem, non materiam: declarauimus quoqs Amoremnullam
habere pulchritu dinis poſſeſsionem, quemadmodumnõnulli comminiſcuntur. In
præſentia declarandum eſt,quænam, qualésque pulchritudines ſint. Quoquidem
declarato, uidebimusquinam, qualéſoamores ſint. Fi eri enim nequit,utcitra
pulchritudinem ſit Amor. Vbiigitur fem per pulchritudinem fequitur, non ſolùm
totidem eſſe amores, quot ſunt puichritudines, pareſt: uerùm etiam
expulchritudinisingenio amoris eſſencia,uires, opera ſuntæſtimanda. Sediamrem
ipfamag grediamur. Rerum genusunumintelligibileeſt, ſenſibile alterum. Rurſus
intelligibile in partes duas diuiditur, in clarum ſcilicet &ob. {curum.Intelligibile
clarum dici poteft, quod ſuapte natura obuiam fit intellectui,necalio adnititur;
cuiuſmodi funt ideæ fiuemundus in telligibilis, ac liquid aliud tale eſt, quod
non indiget adminiculout maneat. Obfcurumuerò intelligibile,quod nonnili in
claro intelligi bili apparet: cuiuſmodi mathemata ſunt, quæ habent in ideis
quic quid participant firmitatis.B, rõrinus Pythagoricus in eo libro, qui de
Intellectu cogitationem inſcribitur, Cogitatio, inquit, intellectu ma
ioreſt,ſicut & cogitabilemaius intelligibili. Intellectus enim ſimplex eft,citra
compoſitionem, id quod primò intelligit:huiuſmodi autem ſpeciem dicimus:eftenim
citra partes, citra compoſitionem aliorum primum. At cogitatio tummultiplex eſt,
tum partibilis,id quod fe cũdo intelligit:ſcientia enim demonſtrationeớ
nititur. Simili ratio ne ſe habentipſa cogitabilia. Hæcautē ſunt ſcibilia
demonſtrabilia ipſac uniuerſalia, quę ab intelle &tu per rationem
comprehenduntur. Ex quibuscolligere poſſumus, intelligibile clarum per illud
ſignifi cari, quoddicitur, fine partibus,fine compoſitione aliorum primum. Obſcurūuerò
per illud, quod dictur, Scibile, demoſtrabile, uniuer ſale. Nam cogitabilia
omnia, cuiuſmodi ſunt obſcura intelligibilia, ipfacemathemata,non attinguntur
quafi recto quodamintuitu, quê admodum euenit claro intelligibili:fed per
rationem, & quandam,ut fic dixerim,ab ideis declinationem acdeſcenſum.
Suntautē mathematare uerafluxus eorum generum,quæcuque rèentiintellectuíçinfunt,
intelligibilium, idearum imagines, ex empla ſenſibilium,eandem habentia ad
ideas comparationem,quam habétumbræ &imagines in ſpeculis aduera
corpora,quę& àcorpo ribus profluunt, & in eiſdem,& beneficio
eorundem, ſenſui fiuntob uiam.Sicutig &mathemata funt ab ideis, &in
ideis apparent, & i, dearum beneficio habéntfirmitatem. Sicuti
autemipſuminelligibile in clarumobſcurū < diuiditur: eodempacto
&ſenſibile in clarum ob ſcurūgs diuidendum eſt.Senſibile clarūdicitur,
quodprimò acrecto quodamtramite ſenſui fit obuiam, quodą ſuapte natura
opinabile eſt, utcælum,ut elementa, & reliqua corpora naturalia. Obſcurum
uerò, quod,etſi ſub ſenſum cadit,pendet tamen ex corporenaturali tū quatenus
fit,tumetiamquatenusapparet. Hæcſunt corporum natu ralium imagines ac
ſimulachra, quæ & à corporibus naturalibus pē dent, &citra eadem ſtatim
dilabuntur, necſenſuifiuntobuiam. Hu iuſmodi autemſunt umbræ in aquis, in
ſpeculis @ imagines. Addunt Syneſius &Proclus, eſſe quorundam corporum
naturalium profu uia,ad certam intercapedinem integrum feruantia characterem.Quę
nõambigunt mirisquibuſdã machinis à Magis impetiſolere, fiquã do quenquam
perderein animo éſt.Hæc cùm & ipſa ſimulachraquæ damſint ſub obſcuro illo
fenſili collocari poſſunt. Architas Tarenti nus in eo libro,cuide intellectu
& ſenſu titulus eft,quæcunqdicütur eſſe, in pares ordines gradusi diſtinxit,
afcenſum fieri uoluitàde, terioribus ad meliora, quippe in quibus deteriora
comprehenderē tur.Diuinus quoạPlato in fexto de Rep. declarat,quatuoreſſererű
gradus, qualeſas ſintä animænoftræ uel habitus uel facultates, qui. bus
uniuerfam illam rerum diſtributionem cognoſcimus.Quæom nia non erubuit ab
Archita ad uerbum ferè mutuari. Quodquidem ös,qui aliquando legerint
Architæuerba, luce clarius patere poteſt. Sed magnacontrouerſia eſt,in quonam
rerum ordineanimaipſa col locari debeat, quicß de ea contempletur. Nam ſi in
mentemani mæ præſtantiſsimum intuemur,noneftcurhæſitemus intelligibilis
generiseſſe ac diuini.Contrà uerò ſi cæteras facultates penlitemus, rė rum
naturalium ordini adſcribemus. Sinuerò utrūos ſimul,necinter diuina
cõnumerabimus (quodomnino à motu materiaớ abhorrēt ) necinter ea,quæ naturalia
ſunt, quandoquidem ſupra fenfilia non af cendunt. Mensautem genus ſenlibile
longè ſuperat. Themiſtius in ter Peripatecicos nõ poſtremæ auctoritatis dat
manus extremeratio ni: proindecs contendit, animæ ipſius, quaſimedijgeneris
ſit, media quoơſciệtiãeſſe,cuiuſmodi ſuncdiſciplinæ. Anobisuerò lögè abeſt, ut
credamus, cã eſſe mentē Ariſtoteli, utnaturalis intellectü contēple tur. Quid
enim eo illuſtrius eſſe poteſt,quodin ſecüdo de Animadir ctum &umeft:Intellectus
fortè diuinum quiddameſt &impatibile. Quin etiam nihil
prohihet,inquit,partem animæ aliquam ſeparari:liquidē nullius corporis actus
eſt.Præterea & illud:deintellectu autemnon dumpalàmeſt,namuidetur aliud
genusanimæ eſſe időzſeparari,tan quamæternumà caduco. In primoautem de partibus
animaliumex erta uoce ait:Naturalemphiloſophum non de anima omnidiſſerere,
quandoquidem non omnisanima natura eſt.Et in fecundo de Gene ratione animalium,folam
mentemextrinfecus accedere,eamąfolam diuinam eſſe, cùm eiusactio no communicet
cumactione corporali. Præterea in quinto Rerumdiuinarum (quêpleriq falsò fextum
au tumant, fi credimus Alexandro Aphrodiſixo) Naturalis, inquit,ip. ſius eſtnon
omnemanimam contemplari,ſed quandam,quæcunque non ſine materia fit.Etinundecimo
eiuſdem operis, cum de Deolo queretur: Vita,inquit,poteſteſſe
optimanobis,f ed breui. Sicenim femper illud:nobis autem fieri nequit. Ex
quibus intelligi poteft,ex fententia Ariſtotelis contemplationem de intellectu
ad facultatem naturalem non pertinere. Proinde aliam quandamſcientiam eſſe,
quæanimæ ingenium contempletur. Diuinusquoque Plato anima ipſam, quando
ſeparabilisæternacpeſt,ſub eflentia concludit.Proin de intelligibilis
generiseſſedubitandum non eſt.Quòdfiquis obříci at Timæum Platonis,in quo multa
de animeingenio differuntur,cui nihilominus de Natura tituluseſt:nosutią
quemadmodum non dif fitemur elle princeps eius dialogi uotum, naturę opera
contemplari: ficquoqzimusinficias, quçcungibicótinentur,naturam effe.Multa enim
præ ſe fertilledialogus, quæ naturæ ingenium longè fuperant. Nectamen continuò
commiſcerimateriasobrjciendum eſt. Fuite nim operæ precium de iis etiam fieri
meditationem, quorumopus, & organum natura eſt. Huncautem eſſe diuinū
opificem,diuinamą. animam, PLATONE afferit.Ex his perſpicuum eſt,rationalem
animam ge neris intelligibilis effe,non quidem obſcuri, quemadmodummathe. mata
ſunt:fed talis potius,cuiuſmodimūduseſtintelligibilis.Nãani marationalis
necalieno indiget adminiculo,utmaneat, & fuapte na tura intellectui fit
obuiã. Eftenimuera & abſoluta participacione, quicquid per
femūdusintelligibilis eſſe dicitur. Verūtamen animad uertendum eſt,animam
propterea à mente declinare, quòduergitin corpus. Quo fit,ut tumſui ipſius,tumalterins
dicatur eſſe,ut rectèin quitProclus. Siquidem ipſius, quòd eſſentia ſeparabilis
æternáque eſt:alterius autem, quòdin corpus propenſa,eſſentiam uitāçcorpo ri
impartitur. Hinceuenit,utalteram quãdam animã producat: cu ius ope molem
agitetacregat. Hæcanima irrationalis appellatur, quæſoligenerationi deſeruit,
plena ſeminum earum rerum, quæ cunque cum materia commnicandæ ſunt. Hæc in
præſentia de animafatis ſint:Namin fequêtibus eius philoſophiam uberrimècon.
templabimur. Ergo animam rationalemègenere intelligibili,irratio nalemuerò
èſenſibilieſſe aſsèremus. Quod etiam PLATONE SIGNIFICAVIT IN TIMEO, appellans
animam irrationalem mortale animæ genus; mortale autem omneſenſui obnoxium eſt.
In plenum colligere poſ ſumus,ſub claro intelligibili animamrationalem, ideasý,
hoceſtin telligibilem mundum,quamprimam quoộmentem,primumens,ac perſe
animalappellant:ſub obſcuro uerò Mathemataconcludi.Cla rumuerò ſenſibile complectiir
rationalem animam, complecti & om nia corpora naturalia, cælum,elementa,
quæibexhis coaleſcunt,ani malia,plantas,& cætera generis eiufdem. Obſcurum
uerò imagines in fpeculis,umbrásque in aquis, & fiqua ſunt alia id genus.
Adhęc & ea profluuia corporum naturalium,de quibus paulo ante mencio
nemfecimus. His ita perſpectis,dicendumefttotidem eſlepulchri tudines, quot
rerum ordinės ſunt. Quapropter eſſe pulchritudinem intelligibilem,effe quoqj
& ſenſibilem. Rurſusa intelligibilempul chritudinem tumdarameſſe,
tumobſcuram. Claramquidem, tum quæmundiintelligibilis eſt,tum etiam
quæeſtanimæiplius.Obſcu ram uerò eam effe, quam in mathematis contemplari
poſſumus. At ſenſibilem pulchritudinem cum animæ irrationalis fiue naturæ, tum
etiam corporum naturalium eſſe dicimus: quamquidem claram ap. pellamus.Quęuerò
imaginümumbrarumã eft, & fiquaſuntalia id genus obſcuram appellari par eſt.
Ergo pulchritudo mundiintelli gibilis reuera cæleſtis acdiuiua eft appellanda,
cuinihil non elegans admiſcetur, nonconcionum, undequaqcompofita, undequaqfibi
ipficonfentiens. Anime quoq rationalis pulchritudo coeleſtis acdi. uinadici
poteft:quæ tantum abeft,utmateriæ ſordibus immiſceatur, ut etiam cumprima
pulchritudine ferè coniuncta ſit.Atueròpulchri tudo tumirrationalisanimæ,
tumetiam corporum naturalium,non fine materia eſſe poteſt. Anima enim
irrationalis ſuapte natura circa corpora diuiduaeft, ut Plato inquit:
undeuulgarisacplebeia pulchritudo meritò appellatur, quòdhabet cum
materiacommerci um. Siigitur duo pulchritudinisgenera funt,cæleſte
ſcilicetacplebe ium:coeleſtisautem pulchritudo uniuerſum intelligibile
complecti tur, ſiuemundi intelligibilis ſit, ſiue mathematum,ſiue animæratioria
lis: plebeia uerò univerſum ſenſibile: totidem quoq eſse amorumge nera neceſse
eſt. Quapropter amor,qui cæleſtis pulchritudinis eſt,& ipſequoc
cæleſtis:qui uerò plebeiæ pulchritudinis,plebeius & ipfe nuncupabitur. Sed
agedū, exquifitius uidédữelt,quomodo Àmorcircà pulchri tudinauerfetur.In
ſuperioribus declaratum eſt, Amoremeſse appe. 1 titum. titum deſideriumộ
pulchritudinis. Pulchritudo enim bonum quoddameſt:bonumautem omne expetibile.
Quo fic,ut pulchritu, do uim moueat appetendi.Huius autemactus circa
pulchritudinem amorappellatur.Primusigitur acperfectiſsimus amor, circa primam
pulchritudinem uerſatur:quæ in ipfo per feanimali primùm appa ret,ut pauloante
dictum eſt. Sedquomodo primus amor circa pri mampulchritudinem uerſatur:An non
ſolumin primam pulchritu dinem incumbit,ut inde particulam hauriat uoluptatis
(qua uis per ficitur appetendi)uerum etiam principium eſt, quo in eadem ellen
tia mundi intelligibilis aliquid pulchrūconcipiatur: Hoc autem ni hileft aliud,
quàm pulchritudinem mundiintelligibilis, quæ tano ſpectaculum intellectui
fitobuiam, in eodem concipi permodum ſe minis acnacuræ. Huiuſmodi autem
conceptus, eius facultatis uis eſt, per quammundusintelligibilis extra ſe
pulchritudinem poteft effi cereEx. quo perſpicuum eſt, Amoremeffe principium
producen di,quæcunq diuinam pulchritudinem imitantur. Nam fieri nequit,
utpulchritudinis ſemina producant extrinſecus pulchritudinem,ni. fi & ea
quoqproduxerit, in quibus apparet pulchritudo. Quapro pter integra abſolutacz
amoris definitio eſt,ut defiderium ſit non ſo lùm perfruendæ,uerum etiam
effingendæ pulchritudinis:ut in hoc quoqàquouisalio diſcrepet appetitu,quòd
cæteriduntaxaruolup tate contenti ſint, quam hauriantex boni poſſeſsione, hic
autem ada datetiam efficaciam.Pari ratione de anima dicendumeft, in qua cùm
fituera participacio pulchritudinis,uera quocß Amoris parcicipatio fit neceſſe
eſt. Amorigitur in anima, qua pulchritudine perfrui con cupiſcit,eandem
affectateffingere permodum ſeminis ac naturæ,cu, ius eſt imago. Natura ueró
animæ rationalis inſtrumentum (quam ſecundam animam appellant)habetab anima
ſuperiore pulchritudi nem:fed &ipſa per modum feminis. Quandoquidemper hanc
ani marationalis componit uerſatớp materiam, in qua pulchritudo per modum
ſpectaculi apparet.Meritò igitur in anima gemini ſuntamo res:alter, qui eius
pulchritudinis eft, quam anima à mundo intelligi bili mutuatur:alter uerò qui
in eam pulchritudinem dirigitur, quæ per modum ſeminis in natura fecundamanima
effulget. Hicquidem amoraffectans ſeminariam pulchritudinem, transfert in
materiam pulchritudinis illius participationem, quandopulchritudinis ſpecta
culum in ea anima effingerenequit. Exquo amorhuiuſmodi totius generationis re
uera principium eſt. In omniautem anima rationali geminus uiget amor. Namubi
ſecundùm eſſentiam æterna eſt, cor pus habet & ipſaſempiternum, quod uita
donec: in quo explicet fuæ pulchritudinis imaginem. Anima enimquàanima,uicam
alicui exhibere debet:quo fit, cùmfemper animafit,uitam quoc alicui ſemper
exhibeat. Idautem eſſe corpusneceſſeeſt.Cuienim alteri,nificorpo
ri,uitamexhiberepoteſt:Acid corpus,cui uita ſemper exhibetur, ce leſti
conditione participare dicendum eſt. Quapropter anima om nis rationalis,habet
corpus æternum, quod Vehiculum appellant, cuiſemper uitam
imparciatur.HæcquidēProcliſententia eſt. Quan quamPlotinus & lamblichus
credantpoſſefieri, utanima noftrae. tiam quandoơ ſine corpore fit. Sed dehis
alibi latius. ARISTOTELE quo in fecundo libro de Generatione animalium, Omnis,
inquit, animæ ſiueuirtus, ſiuepotentia, corpus aliquod participare uidetur, idő
magis diuinum,quàmea quæ elementa appellantur. Ex quibus uerbis colligere
poſſumus,Ariſtotelem cenſuille, cum animaradio nalialiquod effe corpus,quod
cælo proportione reſpondeat. Quod etiam Themiſtius in ea paraphraſi, quam in
primum librumde A nimaedidit, de mente Ariſtotelis affirmat. Quapropter in omni
ani. marationali geminus eft amor. Quorum alter pulchritudinemin telligibilem,alter
ueròſeminalem explicare in corpore materias af fectat. Quo euenit,utinanima
omnirationali,cæleftis ſit amor,lice tiam & plebeius. Habet & alia
ratione utrun amorem animano ſtra.Nam liquando ſenſibilis pulchri ſpecie
excitata præcipitatina moremexplicandorum feminum,proindeq pulchro illo potiri
im potenter affectat,ut pulchram ſobolem in eo progeneret,plebeio a
moreoccuparidicendumeft. Rapit enim deorſum implicatớ ani mamgenerationi
huiuſmodiamor. Quod quidemanimæ maximu malumeſt. Atuerò fieodem pulchro
nonadgenerationem, ſed ad contemplationem utatur,quaſihuius beneficiodiuinæ
pulchritudi nisreminiſcatur, quis ambigat,amore diuino incendir Quandoqui dem
in diuinam pulchritudinem reuocatur, unde facilis in bonum eítaſcenſus. Quo
fit, ut hic amor ſummopere laudandus extollen á dusclit: ille uerò ſummopere
uituperandus. Declaratumeft, quid Venusſignificet: declaratum quoque quid fit
pulchritudo, ubi fitprimò, ubi deinceps: quòdpulchritu do
noneſtamorismateria,fed finis: quòd nonelt idex, necin ideis: quòd amor nullam
habet pulchri poſſeſsionem, ſed potius mer dium tenet locum inter pulchrum
atque non pulchrum: quod to. tidem ſunt amorum genera, quot pulchritudinum:
quòd pul chritudo omnis ad cæleſtem plebeiámque reducitur, quo fit ut amor
partim plebeius, partim cæleſtis ſit: quòd in omni ani. ma rationali utrunque
amorem ſit inuenire, in noftra autem duplici ratione. In præſentia uerò reſtat,
ut diuiniPlatonis fer e uc uc moneminterpretemur.Pauſanias apud Platonem
laudaturus Amo rem,improbat Phædrum, quodliclaudarit,quali unus ſimplex (pa
mor,atą is rectus honeſtusõpeſſet. Quoniam uerò non unus ſim
plexoelt,oportet,inquit, declarare nos prius, quot ſunt Amores, quis laude
dignus, quis minimé.Eftautem laudedignus,qui bonus & àbono,& in bonum.
Qui uerò necbonuseſt, neqz à bono, neq; in bonum:tantum abeſtutlaudari
debeat,ut etiam uituperatione ſit di gnus. Qui uerò cauſa eſt maximorum bonorum,hunc
ipſum bonū effe,nemoeſtomnium qui ambigat. Contrà uerò, quimaximorum malorum
cauſaeſt, nónne &ipfemalus eſt putandus. Quapropter illé reuera
laudanduseſt,quibonorumnobis auctor eſt. Contrà ue rò ille uituperandus,à quo
nobismala eueniunt. Videndum igitur primò,quot ſunt amores. Amor,inquit, femper
Venerem comita tur. Quapropterfi una eſfet Venus,unus &Amor utique eſſet.
At quoniam duo ſunt Veneres, altera cælo nata, fine matre quę cæleſtis
Venusdicitur: altera uerò,quæ Plebeia nuncupatur, ex loueac Dio ne progenita:
propterea duos eſfe Amores neceſſe eſt. Quorū alter.cæleftis eft, illeſcilicet,
qui cæleſtem Venerem: alter uero plebeius, qui plebeiam comitatur.Dux,inquit,Veneres
ſunt,hoceft,duo pul chritudinis genera:ut Plotinum,alios omittamus. NamPlotinus
putat, Venerem eſleipſam animam. Nosautem oſtendimus interex ordia ſermonis
huius,ex his quæ à Platone dicuntur in Phædro, Ve nerem nihil aliud, præter
pulchritudinem, ſignificare. Cui quidem ſententiæ Hermias Ammonius
adftipulatur.Namin Phędro,ubiex ponit illud Platonis, Furoris amatorñ patrociniū
tributum eſſe Ve. neri,apertè dicit,Venerem SIGNIFICARE pulchritudinem. Sed
Hermiæ auctoritas contra Plotinum afferendanoneſt. Satis autem mihi ſit, poſſe
ex Platonis ſententia probabiliratione defendere,Venerem ef ſe pulchritudinem.
Quod quidem etiam obnixè contenderem, ni magnus Plotinus meremoraretur. Tantum
enimei uiro tribuendű cenfeo,utexiſtimem, huncipſum primo longè eſſe propiorë
quàm tertio, fiue is ſitNumenius Pythagoræus,fiue lamblichus Chalcidæ us (quem
inter homines deum facit Iulianus Imperator) ſiueſitmag. nus Syrianus,quem
Proclus non ſecus acnumen colic. Ergo dug Ve neres, hoceſt, duo pulchritudinis
genera ſint: quarum alteramdi cit Cælo natam finematre:alteram louis Dionesof
ſtirpem. Vetus eſt dogma(cui Plotinus, quiğz Plotinum ſequuti ſunt,Porphyrius,
Amelius Longinusadftipulantur) tria effe rerü omnium principia, Perſeunum,Mentem,
Animam.Aperſeuno eſſe Mentem, quam uocant Mundumintelligibilem, à Menteeſſe
Animam, ab Anima uerò uniuerſum ſenſibilem mundumprocedere. Per ſe unum rebus
elargiri unitatem: Mentemſiue mundum intelligibilem elargiricon ftantiam:Animamueròmotum.
Rurfus,per ſeunum quandoque Cælumappellari, Mentemuerò Satúrnum, Animam louem.
His itaqz conſtitutis,poſſumus dicere,E Cælo,hoceft, ex primo rerum omnium
principio, quodper ſe unumdicitur,natameffe Venerem, ideſt,primam
pulchritudinem, quæprimò in ipſo perſe animali ef fulget. Natam,inquam,exipſo
per reuno, quoniam intellectus fiue ipfum perfe animal, in quoeſt prima
pulchritudo,ex ipſo perfe uno prodïjt.Natam porrò ſinematre,quoniam proceſsio
huiuſmodi nul Ioantecedente indiget fubiecto, quemadmodum rebus naturalibus
euenit. Prodit enim ſecundum à primo, per fimplicem quandam proceſsionem (ſicuti
lumen à Sole prodit ) eius potentia totaeft. in producentis uirtute. Quo pacto
dicimus &animam ab intelle ctu, & materiam ab anima prouenire. In toto
hocproceſſu concin git, ſex rerumordines obſeruare. Ipfum per fe unum, Mundumin
telligibilemn,Animam ipſam,Naturam animæ inſtrumentum, Cor pusMateriam,. Infra
autem noneſt deſcenſus. Vnde & Orpheus, In ſexta, inquit, progeniecantilenæ
ornatum finite. Quod ctiamin Philebo uſurpat diuinus Plato.Poteft &alia
ratione, acnondeteri ore fortaſſe, Veneremdici Cælifiliam eſſe. Namin CRATILO
dictum eſt,Cælum efle aſpectum in fuperiora intuentem: Saturnum purita tem
intellectus: Iouem uerò uiuentem, & perquemuita, ita ſcilicet, atis
aſpectus, quo mundusintelligibilis per fe unum intuetur, Cæ. lumappelletur: is
uerò, quo ſeipſum uidet, Saturnus, quali lit pura intelligentia, in ueritatem
incumbens: Iupiter uerò ſit Mundusin telligibilis,quatenus uidet feextra
feipſum participabilem eſſe.Qui quidem dicitur mundi opifex, quandoquidem mundi
principium eſt.Quo euenit, ut recta ratione tum uiuens dicatur, tum etiam per
quemuita. Viuens quidem, quoniamprincipium eſtefficiendi. Ac uero per quem uita,
quoniam fingula ſuum hinc habent efficiendi modum. Is igituraſpectus, qui in
ſuperiora intuetur, merito in eum ſenſum reduci poteft, quem naturæ paulo ante
appellauimus.Qui propterea Cælum recta ratione dicitur, quandoquidem principi
umeſt, quo per fe bonum ſingula præfentiant. Huius quidem Cæ li Venusfilia dici
poteſt: quoniam pulchritudo intelligibilis, quæ cæleſtis Venus eſt, hinc habet
originem. Nam hicſenſus princi piumeftuitæ. Quo fit, ut etiam ſit principium
pulchritudinis. Pul chritudo ením uitam fequitur,ut dictumeft. Eft autem fine
matre: quoniamnondummateria erat, quæmaterappellatur: quando pri mapulchritudo
longè materiani antecedit. Plotinus uidetur àdi uino Platonediſſentire,qui
dicit, Veneremcæleftem Saturni ſtir pem, fo pemeſſe.Putat enim Veneremeſſe
animam,quæ àprimo intellectu procedit.Sed hęchactenus de cæleſti
Venere.Nuncuerò de plebeia agendűeft.Plato dicit,plebeia Venerem louis acDiones
ſtirpē eſſe, afferens habere matré,quãCæleſtis Venusnon habebat. Iupiter ſig
nificatMundianimā, quemadmodūpatet ex his,quædicútur in Phę dro.Magnus uciądux
in Celo lupiter,citans alatū currum,primus incedit,exornans cuncta,prouide
diſponens. Huncſequitur deo. rumdæmonumą exercitus,per undecim partes
ordinatus. Solà autem in deorumædemanec Veſta.Ex quibus uerbis palàm effe po
teft, louemeſſemundi animam. In Philæbo quoque dicit Plato, In magno loue eſſe
regium intellectum, eſſe & regiam animam: lig. nificans,mundi animam
tumuninerſaliintelligentia,tumetiam uni uerſaliuita præditameſſe. Ergo Iupiter
mundi anima eſt; ſecun, dùm Platonem. Dione autem Materia dici poteſt. Anima
enim quælupiter appellatur,mundumproducere debet. Mundusautem materia indiget.
Quo fit, ut mundo neceſſaria ſit, non quidem ſim pliciter,fed ex
ſuppoſitione.Námſidomus fieri debet, talis aut talis materia fit neceffe eft.
Vnde &Ariſtoteles materiam appellauit ner ceſsitatem ex ſuppoſitione. Plato
quoqiri Timæo dicit; mundum ex mente &neceſsitate,id eft, ex materia eſſe
conſtituium: quaſi ma teria neceſſaria fit. Si igituranima mundum producere
debet, mà. teriam quo producat neceſſeeſt. Quo euenit, ut Dionérectara tiónė
diči poſsit: quandoquidemand trüdros, hoceſt,à loue trahit ori ginem. Eft
itaque plebeia Venus,louis Dioneső filia:quoniam ſe minaria naturæ pulchritudo
tum pendet à mundi anima, cuius eſt inſtrumentum ad generationem, tum etiam
materiam mundo ne. ceſſariam reſpicit: quæ propterea amat eſſe mater, quòd
ſuopte in. genio gremium eſt formarum omnium. Dicitur autem plebeia;
quandoquidemi cūſenſu materias commercium habet. Quod enim àmateria
ſeiungiturubi, ueritatis participat, cæleftem diuinámque conditionem præ fe
ferre credendum eft. Ergo cùm duæ fint pul chritudines,diuina fcilicet,ac
plebeia, duo quoque Amores ſint ñes ceſſeeſt. Amor enim femper pulchritudinem
ſequitur. Diuinæ pul chritudinis Amor diuinuseſt: qui non folùm diuina
pulchritudi: ne perfrui affectat, uerùm etiam hanc candem exprimere per mo dum
feminis. Plebeiæ pulchritudinis amor&ipfe plebeius. Hic autem principium
eſt generationis, quando pulchritudinem ini materiaper modum ſpectaculi
exprimere nequit, citra formarum omniumexplicationem: Sed ambigi poteſt,quo
pacto dictum ſic, quot ſunt pulchritu dines, totidem efle Amores, Nónne
pulchritudo finis Amoris eft: is At vero quid prohibet, fi finiseſtunus,ea quæ
ſuntgratia illius,mul taelle: Sicut etiam nihil prohibet, exemplar unum eſſe,
multa ue. rò quæreferuntexemplar. Vnus enimHercules eſt: Herculisautem imagines
complures. Vnde&illud Platonis in Timæo in contro uerliam
trahitur,propterea, inquit,munduseft unus, quoniamex emplar unumimitatur. Nam
ſiunius exempli multæ imagines eſſe poflunt,quomododictum eſt mundum propterea
unum eſſe,quo. niam exemplar unum imitetur: Ariſtotelescùm uellet oftendere,
Mundum eſſeunium,ex tota ſua materia conſtitutum effedixit. Edli
enimaliudmundus eft,aliud ſua mundo eſſentia: non tamen conti nuo euenit,ut uel
plures fintmundi,uel plures contingat fore: qua. ſi ſpecies, quæ fit in materia,
femper amet eſſe uniuerfale. Suntau tem plura ſub eadem fpecie, quæcunque ſibi
ſuæ materiæ aſſumunt particulam:ut equus,utleo, & fi quaſuntalia generis
eiuſdem. At ueròquæcunqextota materiafua conſtant, hæc quidem ſingulain
ſingulis funt.Exhisautem mundus eſt. Dehisabundèin primo li brodeCælo
agitAriſtoteles. Vnde colligere poſsumus,materia copiam,multitudinemindicare
ſingularium.Quod etiam in undeci. moRerumdiuinarumclara uoce dictum eſt.
Verumenimuero de claremus primò diuinum Platonem rectè dixiſse, qui aſseruit in
Ti. mæo,mundumpropterea unumeſse, quòd exemplar unum imita. tur.Deinde
declarandum nobis eſt, totidem efse Amores, quotſune pulchritudines.Tametfi pulchritudo
finis eſt Amoris. Plato igitur oftenſurus,muudum eſse unum,non ex eo oftendit,
quòdmateria eſtuna (quemadmodum Ariſtoteles fecit ) nec.exco, quòdmundi
eſsentia in corpus unum occurrat,ficut Stoicicomminiſcuntur. Aut enim ſolus,aut
maximèuſus eſt præcognofcente cauſa,quemadmo. dum inquit Theophraſtus.Nam
mundum eſse unum, acceptumre. fert exemplaricaufæ. Sienim exemplar unum, opifex
unus,neceſse eft & mundum eſseunum. Nam opifexunus dum perfectiſsimèexo
primit exemplar unum, omnes exprimendi numeros impleat ne ceſse eſt. Alioquinon
perfectiſsimèexprimeret. Huiuſmodi autem expreſsio nonniſi in uno perfectiſsima
eſt. Si enim multa eſsent, quæ perfectiſsimè exprimuntur, quid prohiberet, in
infinituma bire: At aſserere, ab uno opifice infinitos eſse mundos, ſtupidi
omnino mancipñ eſt. Non eft igitur dicendum, multa eſse quæ perfectiſsimè
exprimuntur. Sed neque etiam aliud alio eſse perfe ctius, quandoquidem
perfectiſsimum obuiam fieret. At fi uel plu. ra, uel exquiſitius in
perfectiſsimo continentur, nónne cætera fu perfluent:Quaproptermeaquidem
ſententia, rectè adſtructum eft. Si exemplareſt unum, opifex unus, neceſse eſt
&mundum eſseu num. Acexemplareſſeunum, opificem unum, facilè oftendi
poteſta Sienim multa exemplaria eſſent,autæquè perfecta dixeris,autaliud alio
ex his præſtantius. Fieri autem nequit, ut æquè perfecta fint, quandoquidem
ſingula ualerent idem. Quo euenit, ut unum fatis ſit. Sin autem aliud alio
perfectiuseft,nónne in id,quod eſt præſtan tius,ſemper opifex intuebitur unde
& cætera nulli uſui fuerint. Si. mili ratione de opifice adftruendum.
Quapropter recte dictumeſt à diuino PLATONE, Mundum propterea unum eſſe, quòd
exemplar unumimitetur. Quo fit,ut facillimè ea ratio refutari poſsit, quæ co
nabatur oſtendere,non continuòmundumeſfeunum, quòd exem plar
unumimitaretur:quando uidemus,exemplaris unius multa ſi mulachra eſſe.
Namomnino fierinequit, utmulta ſimulachra exem plarisſint unius, ſi ſit opifex
unus, ifíp perfectiſsimus: cuiuſmodi mundi opifex eſt.Nam multitudo
fimulachrorum,autex opificis de bilitate: autex multitudine uarietateof fic.
Quòdfiobijcitur, ani marum ideameſleunam, opificem unum, huncés perfectiſsimum:
complures tamenanimaseſſe. Adhæc,leonis autequi, & fiqua ſunt generis
eiufdem, ideam eſſe unam, complura tamen quæ ideam i plamimitentur. Nos ad
hæcreſpondeamus,non eſſe animarum om nium ideam unam, proinde nec exemplarunum.
Sed fingulas ani mas, ſingulas habere ideas. Vnde & animæ omnesrationales,
de Pla tonis fententia,fpecie differunt. Quodetiamſenliſſe Ariſtotelem non
ambigimus. In his,inquit,quæ ſunt ſeorſumà materia, idem res ipfaeft,& fuum
rei eſſe. At intellectum ſiue rationalem animam ſe orſum eſſe,ſecundùm
Ariſtotelem facilè dabuntij, qui multis in lo cis Ariſtocelis uerba attentè
legerint. Themiſtius in tertio libro de Anima dicit de mente Ariſtotelis,
intellectum illuminantem eſseu num, illuminatosuerò aclubinde illuminantes
complures. Quoe. uenit,uttum multi ſint,tum etiam ſpecie differences.
Quapropter & animarum diſcurſiones, & uitæ, ſpecie differunt: ſicut
etiam &cor pora. Sedde his alibi latius agendum eſt. Satis eſt
auteminpræſen tia declaraſſe,animarum omniumnon eſſeideam unam. Soluitur & alia
ratio.Nam propterealeoniseftidea una, exemplar unum, par ticipatus uerò
mulci:quoniam idquodexprimit in materia, non eſt unum ac perfectum,ficutimundiopifex
unus perfectusoz eſt. Con currunt enim dij mundani, & cælum ac cauſæ
particulares, ad i pfam rerum generationem. Quod etiam Ariſtoteles clara vocete
ſtatur,dicens, ab homine & ſole hominem generari, Hactenusdeclaratum eft, liexemplareſtunū,
quo pacto id, quod exemplarimitatur,unumeft, quo pacto contingitmultitudinem in
cidere. Nuncuerò reſtat,ut eirationi reſiſtamus, qua adftruitur, non elle
totidem Amores, quotpulchritudines, propterea quòd concin git finemeſſeunum:complura
uerò, quæ illius gratia ſunt. Nampul chritudò finiseft amoris. Dicimusigitur, id
quod habetrationemfi nis,expetibile effe:atqzidquod reueraomnium finiseſt,
reuera quo que acmaximèexpetibile. Quapropterquoniamper ſeunum &per
febonnmomnium eſt finis,reuera & primòab omnibus effe expe tibile. Vndeapud
Ariſtotelem legas,bonumid efTe, quodomnia ap petunt. Significatur enim idquodab
omnibus, fed pro ſua cuiuſque facultate,expetitur,eſleid,quodreueraac primò
bonumeſt. Cum itaqs expetibile moueat appetitum, ubi plura expetibilia ſunt,
toti demeſſe appetitus generaneceſſe eſt. Appetitus enim ſemper expeci bile
ſequitur,eiuſdem eftutrunqß contemplari; quaſi natura con iuncta lint.Vbiuerò
unumexpetibile, appetendigenusunumquo. queſitoportet. Quo fit,cùm unum idem's
omnibus commune bo, numſit, unum quoqlıtomnibuscommuneappetendi genus.Om nia
enim ſibi bonumadeffe cupiunt:cuius gratia agunt, quicquida gunt. Atqz ita in
cunctis unum eſt. Præter autem id bonum,quod cùmprimòbonumſit, omnibusadeſt, ſuntalia
& bonorum genera, quorumſuus cuiuſeftappetitus: cuiuſmodi pulchrumeft,
cuiuſ modiiuſtī, & fi qua ſuntgeneris eiuſdem. Rectè igiturà diuino Platone
dičtum eſt,totidem effèAmores,quot ſunt Veneres. Venus énimpulchritudo eſt:amor
autem pulchritudinis deſiderium. Cum igiturduæ ſint pulchritudines,altera
diuina accæleſtis,altera plebe. ia ac ſenſui obnoxia: ſintóshæc genera duo
expetibilium:neceffe eft, totidem quoq; effe appetendigenera,qui duo
ſuntAmores. Atque ſicmea quidem fententia fortèmelius, quàm quibus uiſumeft,
pul chritudinem Amoris eſſe materiam. Ex his ratio illa facilè diffolui
tur.Adftruitenim polito appetibili uno, contingere, ut complures illius fint
appetitus. Cui quidem manus dandæ ſunt, non tamen continuo pluraelle appetendi
genera: quod quidem adſtruendum érat. Nam pulchritudo fi unafit, etſi nihil
prohibet inultos illius Amores efle, unum tamen fuerit amandi genus. Quoniam
uero duæ pulchritudines ſunt, duoquoq amandi genera ſint neceffe eſt. Acą hanc
ego exiſtimo ueriſsimam diuini Platonis ſententiam èffe: arguimerito, quòd
Amorum alterum cæleftem, alterum ple bcium appellauit:quoniami altera
pulchritudo diuina ſeparabiliság dicitur,altera plebeia,accumimateria
communićañs: quali ex inge nio appetibilis appetitus ipſe ſitæſtimandus.
Hactenus de his amoribus tranſegimus, quiomnibus animis inſunt, ſiue hæ deorum
ſint, fiue dæmonum, ſiue illius generis, quodcorpus caducum ſibi induit,
cuiuſmodi hominum animę funt. Nunc uerò ñ amores ſunt expediendi, qui propriè
hominum dici poſſunt,ſiuenos rapiant in generationem, ſiue in diuinam pulchri
tudinem reuocent. Atqui ſenſibilis mundi huius pulchritudo, intel ligibilis
exemplarisógillius eſt imago. Huius quàm ſimillima eſtcu iufuis hominis
pulchritudo. Anima enim omnis rationalis totius inanimati curam habet: ut in
Phædro dictum eſt. Quofit,utquaf: cung ſpecies ſortiatur, ſiue deorum uitam
uiuens, ſiue cæleſtem ac dæmonicam,fiuecorpus terrenum, elementarech nacta,
totius ſem per ingenium præ ſe ferant. Quapropter compacta mortali corpori,
etſi uideturanguſti carceris miniſterio detineri, omnem tamen in eo explicat
uniuerſi facultatem, quaſi ubicunqz ſit uniuerſum produs ctura. Ex quo ueteres
Theologi hominem paruum mundumap pellarunt. Fieri enim nequit,quando anima
omnis eft uniuerſum,. quin profuo efficiatingenio, ubicunq efficit. Hinc legas
apud Pla tonemin primo libro de Legibus, hominem eſſe miraculum quod. dam
diuinum,in animantium genere, fiue ludo ſeu ſtudio quodam à ſuperis conſtitutum.
In ſeptimo quoc eiuſdem operis, Deus, in quit, omni beato ſtudiodignus eſt:homo
uerò deiludo eſt fietus.Ex quibus uerbis colligi poteſt, hominem habereomnia in
numerato, quæcunqmundus ipfe habet. Nampropterea dicitur dei ludo con
ftitutus,quoniam ueluti Simia deum ipſum imitatus, fuo quodam modo fit
uniuerſum. Siigitur hæcitafe habent, quis ambigat,homi-. nis pulchritudinem
ipſius mundi pulchritudinis quàm ſimillimarn effe: Quicuno itaq;
huiuſmodiſpectaculo delectatus, in Amorem declinat generationis, hic plebeio
amore detineri iure dicitur. None nim obaliud quæritaffectató pulchrum,niſi
quoniam credit ſepol fe in co generationem conſummare. Amator autem
talisaggreditur, quodcunqobtigit,ſiue mas ſit, ſeu fæmina. Fæminãquidem, quoni
amhocinſtrumentū neceſſariū eſt ad generationē.Fieri enim nequit, utcitra
fæminam generatio abſoluatur. Fæmina enim ſi credimus Ariſtoteli, materiçuicem
gerit:Eſtenim fæmina mas lęſus, utillein quit. Marē uerò,quoniã quandoquſą adeo
inſanit, uſą adeo impo tenti uoluptate delinitur,ut credat ſeibi generationé
conficere pofle, unde ſummum hauriat uoluptatis. Quofit,ut cecus omnino in
pudo. rem temere graſſecur. Amatautēcorpus magis quàm animữ. Quan.
doquidéanimus diuina res eſt,diuino amoreprofequenda. Ille uerò iã totusà
diuino abhorret. Quo fit,ut corpus magis probet uolupta tū miniſteria
exhibitură. Amatquo & potius ſinementehomines, prudentes.Quoniam non facile
eft prudentes decipere, qui mente ualentacnitunturratione.Noneftautem conſilium,
ea incommoda in præſentia recenſere, quçtalesamatores ſuis amatis adeffe
cupiunt. Quidenimaliuddiu noctub cogitant,niſiquo pacto ualeant uolup tatem
explere: Vndeſiamatipauperes fuerint, ſine neceſſarös, ſine
clientelis,lineamicis,adheline omnianimi cultu, cuiuſmodi ſuntdi
ſciplinæbonarumartium, ſinequibus nemo uirmagnus eſle poteft, denią fine diuina
philoſophia, quæ homines facit prudentiſsimos, miruminmodum gaudent,quafiex
calamitatibuseorum ſuam felici tatem
auſpicaturi.Quapropterimprobandi,reiciendi,inſectandig ſunt,tanquam
maximèpernicioſiac noxij, quippequigenus huma nummaximis detrimentis,bonisuerò
nullis afficiant. Quid igitur mirumfi legibus cautum eſt,nullo pacto uulgares
amatores audien dos eſſe, quaſi impudenti ſsimiiniuſtiſsimiĝzlint: Huiuſmodi
igitur ac fimilium affectuũauctoreſtilla ſenſibilis pulchritudo, quam Ve
neremplebeiam appellat Plato. Trahitenim, utdictum eſt, rapitớs animamadcorpora
(quodanimæmaximummalumeſt ) niſi optimi morešdiuiniacobftet philoſophia,cuius
beneficio ueritatis partici pamus. Atuerò ſipulchritudo ſenſibilis ſit
inſtrumentum addiuină pulchritudinem, Venuscæleſtis rectè dicitur:affectusõz
ille,qui cir ca hancuerſatur, Amorquoq cæleſtis iure appellatur. Prouocatau tem
ad diuinam pulchritudinem,non fæminæ pulchritudo,ſed ma ris. Amatorenim
diuinus,cùm probè nofcat fæminamgenerationi deſeruire, in mareuero generationem
expediri non poſle, abhorreat autem penitusà generatione (quandoquidem totus in
diuinum in hæret)fit utiqz maſculæ pulchritudinis & fectator adeò &admira
tor: quippe qui pulchro uti amet,non tanquam in quo explicet ſemi nalem
pulchritudinem (quemadmodum euenit plebeio amatori) fed tanquam inſtrumento,
quo in domeſticam pulchritudinem, ac tumdeinde in diuinamattollatur. Probat
autemnon pueros adhuc mentis expertes,fed adoleſcentes, quimente ualere iam
cceperint. In certum eſtenim,an pueri uirtute præditi futuri ſint. Ille autem
in pri mis uirtutem, optimum (Banimi habitum admiratur. Ergo adole ſcens ubi
furentem amicumcontemplatur, quàm omni uirtutum ge nere abundet,non minus
obferuareac colere debet, in omne oble quium paratiſsimus,quàmdeorum
immortalium ſtatuas colendas cenfet. Scit enim cumeo diuinum ad omnetempus
habitare: proin de nihil aliud fibicogitandum efle,niſiquo pactoualeatomneuirtu
tumgenus explicare,utdiuino amatore dignus amatus & uideatur &
fit.Hactenus Pauſaniæ ſermonem explicaſſe ſatis erit. Nam quæ dicunturde
Ariſtogitonis &Harmodñjamicitia,quæíz deuarijsa mandi legibus, tum apud
Græcos, tumetiam apud Barbaros, expli canda alijs relinquimus. Nobis enim ea
duntaxat proſequi conſi liumeft,quæuideanturadPhiloſophiam pertinere. Eros
non è nato né immortale né morta- le, ma nello stesso giorno, ora
fiorisce e vive, se vi riesce, ora muore, per poi risuscitar, di
nuovo. (Diotima a Socrate) Sigmund Freud, nella
creazione della psicoanalisi, dette un rilievo assolutamen- te centrale
alla sessualità; per essere più esatti le pulsioni sessuali, o libido,
poi eros, rappresentarono uno dei cardini portanti sui quali ruotò la
metapsicologia freudiana, nonché la ricostruzione delle dinamiche
intrapsichiche e relazionali nelle loro manifestazioni patologiche e non.
Tutto questo è risaputo. È anche noto che al riguardo Freud si richiamò
ripetutamente all'eros di Platone. L'obbiettivo di questo contributo è di
sondare brevemente in quali forme e con quali significati egli si
riallacciò alla concezione del filosofo greco, se i richiami risultano
giustificati sul piano storico e filologico, e infine se fu la lettura dei
te- sti platonici a suggerire a Freud determinate valenze dell'eros;
dunque se vi sia una "paternità" platonica della rinomata
concezione della sessualità freudiana. Vi sono due indirizzi principali
rispetto ai quali Freud si appoggiò a Platone, che segnano al contempo
due delle più importanti vie della concettualizzazione della sessualità:
l'una concerne la sua estensione sul piano delle dinamiche psi- chiche;
l'altra la sua trasposizione sul piano biologico, a sua volta articolata
in due filoni. Seguiamo la partizione freudiana. Lo scudo del
"divino Platone" In Massenpsychologie und Ich-Analyse,
scritto e pubblicato, il concetto di libido, e con esso l'estensione della
sessualità in esso presupposta, è diret- tamente ricondotto a tutto ciò
che rientra nell'universo semantico della parola Liebe\ ove Liebe va dal
«Geschlechts-liebe mit dem Ziel der geschlechtlichen Vereinigung» fino
all'amore per le «abstrakte Ideen» Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, in
Gesammelte Werke, Libido ist ein Ausdruck aus der Affektivitatslehre. Wir
heifien so die als quantitative Gròfie betrachtete - wenn auch derzeit
nicht meBbare - Energie solcher Triebe, welche mit ali dem zu tun haben,
was man als Liebe zusammenfassen kann. Wir meinen also, dass die Spra-
che mit dem Wort "Liebe" in seinen vielfàltigen Anwendungen eine
durchaus berechtigte Zusammenfassung geschaffen hat, und dass wir nichts
Besseres tun konnen, als dieselbe auch SOLINAS Difendendo tale
operazione dallo «Sturm von EntrUstung» che sollevò, Freud si riallaccia
direttamente a Platone: Und doch hat die Psychoanalyse mit dieser
"erweiterten" Auffassung der Liebe nichts Originelles
geschaffen. Der "Eros" des Philosophen Plato zeigt in seiner
Herkunft, Leistung und Beziehung zur Geschlechtsliebe eine vollkommene
Deckung mit der Liebeskraft, der Libido der Psychoanalyse, wie Nachmansohn und
Pfister im Einzelnen dargelegt haben. Diese Liebestriebe werden nun in
der Psychoanalyse a potiori und von ihrer Herkunft her Sexualtriebe
geheifien. Il tono essenzialmente difensivo del richiamo a PLATONE emerge in
modo ancor più esplicito nell'immediato prosieguo: Wer die
Sexualitat fllr etwas die menschliche Natur Beschàmendes und
Erniedrigendes halt, dem steht es ja frei, sich der vornehmeren Ausdrucke
Eros und Erotik zu bedienen. [...] Ich kann nicht finden, daB irgend ein
Verdienst daran ist, sich der Sexualitat zu schamen; das grìechische Wort
Eros, das den Schimpf lindem soli, ist doch schliefllich nichts anderes
als die Obersetzung unseres deutschen Wortes Liebe 4 .
Considerazioni analoghe, e con la stessa identica intenzione difensiva,
aveva svolto del resto Freud l'anno prima, nella nuova prefazione ai
tanto celebri quanto discussi Drei Abhandlugen zur Sexualtheorie, quando
ricordava a tutti coloro che lo accusavano, indignati, di
"Pansexualismus": «wie nane die erwei- terte Sexualitat der
Psychoanalyse mit dem Eros des gSttlichen Platon zusam- mentrifft» Per
individuare i dialoghi platonici cui si riferisce qua Freud vi sono due
elementi principali: i suoi precedenti richiami al Simposio e il rimando ai
saggi di Nachmansohn e Pfister. Quest'ultimo, nel suo brevissimo Plato
als Vorlàufer der Psychoanalyse presenta una panoramica complessiva
dell'eros nel Simposio delineandone la convergenza con la libido e la sublimazione
freudiane Nachmansohn nel suo Freuds Libidotheorie verglichen mit der
Eroslehre Platos, pubblicato fin dal 1915, aveva del resto già mostrato
che unseren wissenschaftliche Erorterungen und Darstellungen
zugrunde zu legen». Tutte le ope- re di Freud sono citate dai Gesammelte
Werke (d'ora in poi GW), Chronologisch geordnet, Frankfurt am Main. Assoun,
Freud, la filosofia e i filosofi, Roma 1990, p. 177 [ed. or. Freud la
Philosophie et les Philosophes, Paris 1976] commenta: «L'Eros platonico è
la forma originaria di quella sintesi che la stessa psicoanalisi promuove
attraverso il suo con- cetto di libido ». 4 Ìbidem.
5 S. Freud, Vorwort zur vierten Auflage, Drei Abhandlugen zur
Sexualtheorie, GW, voi. V, p. 32, rimandando anche qui a
Nachmansohn. 6 Cfr. O. Pfister, Plato als Vorlàufer der
Psychoanlyse, «Internationale Zeitschrift Air Psychoanalyse, qui p. 267 sg.:
nell'ascesa erotica descrìtta da Diotima si ritrova «ciò che Freud chiama
sublimazione.nel Simposio, ma anche nel Fedro e nella Repubblica, era contenuta
una conce- zione dell'eros equivalente a quella psicoanalitica, sia
quanto all'estensione se- mantica sia quanto al concetto di sublimazione
7 . Le coordinate testuali entro le quali si inscrivono i richiami
freudiani sono dunque rappresentate da questi tre dialoghi. Quanto al
Fedro, Freud stesso avrebbe di lì a poco adottato - tacitamente - la
metafora del cavaliere quale emblema dell'utilizzo da parte dell'Io
dell'energia erotica dell'Es 8 , rielaborando così l'immagine della biga
alata richiamata da Nachmansohn 9 . Quanto alla Repubblica, citata da Freud in
riferimento al sogno 10 , è stato scritto molto rispetto alle affinità
con la concezione psicoanalitica (in parte intuite da Nachmansohn) 1 a
cominciare dalla idraulica dell' epithymia, alle modalità di gestione
repressive e sublimanti del desiderio, all'analisi dell'emersione onirica
12 ; tale questione ci allontanerebbe però dal nostro tema perché più che
di paternità sembrerebbe qui trattarsi di anticipazioni; veniamo dunque
al Simposio e cerchiamo di capire se l'estensione freudiana vi trovi effettiva
corrispondenza. Nel discorso di Socrate-Diotima - ove è contenuta
la concezione che può esser considerata rappresentare quella di Platone
-, l'eros si configura anzitutto quale forza sessuale in senso stretto,
riproduttiva: è in virtù di eros che uomini e 7 Cfr. M.
Nachmansohn, Freuds Libidotheorie verglichen mit der Eroslehre Platos,
«Interna- tionale Zeitschrift filr Àrztliche Psychoanalyse. Platone «anticipa» la concezione della libido
e la concezione della sublimazione di Freud: l'eros copre infatti tutte
quelle manifestazioni che vanno dall'istinto di conservazione» alI'«amore
per la scienza. Freud, Das Ich und das Es, GW, voi. XIII, p. 253; Id., Nette
Folge der Vorlesungen zur Einflihrung in die Psychoanalyse, GW, voi. XV,
p. 83. Sulla paternità platonica dell'im- magine cfr. tra gli altri A.
Kenny, Meritai Health in Plato 's Republic, in Id., The Anatomy of the
Soul, Bristol and Oxford 1973, pp. 1-27, in particolare p. 12; W. Price, Mental
Conflict, London and New York 1995, p. 188. 9 M. Nachmansohn,
op. cit., p. 77 sg., si richiama alla «Vernunft» quale «Lenker der Seele»
rimandando direttamente a Fedro 254 a e 247 d, ovvero ai passi del mito della
biga. 10 Sui richiami a Repubblica, cfr. S. Freud, Die
Traumdeutung, GW, voi. II/III, p. 70 e p. 625, entrambi aggiunti nel
1914, e Id., Vorlesungen zur Einfuhrung in die Psychoanalyse, GW, voi.
XI, p. 147. 1 1 Cfr. M. Nachmanoshn, op. cit., p. 82: «Die
Sublimierungstheorie Freuds fìndet sich schon ausfuhrlicher bei Plato und
"der Staat" bringt noch eine noch auszubeutende padagogische
Lehre, um die Sublimierung des Eros in die Wege zu leiten». 12 Cfr.
ad esempio W. Jaeger, Paideia, voi. Ili, Berlin 1947, pp. 74-8; K..R. Popper,
The Open Society and its Enemies, London 1 966*, voi. I, p. 313; C.H.
Kahn, Plato's Theory of Desire, «Review of Metaphysics» XLI, 1987, pp.
77-103, soprattutto p. 83 sg.; A. Kenny, op. cit., p. 1 1 sgg.; A.W.
Price, Plato and Freud, in C. Gill (ed. by), The Person and the Human
Mind, Oxford 1990, pp. 247-270, soprattutto pp. 261-3; J. Lear, Open Minded,
Cambridge 1998, p. 10 sg. e p. 108; M. Stella, Freud e la
"Repubblica": l'anima, la società, la gerar- chia, in M.
Vegetti (a cura di), Platone, La Repubblica, Napoli 1998, voi. HI, pp.
287-336. Ho cercato di affrontare alcune di tali questioni in M. Solinas,
Unterdriickung, Traum und Unbewusstes in Platons «Politeia» und bei
Freud, «Philosophisches Jahrbuch» 111, 2004, pp. 90-112. animali
«sentono il desiderio di generare (yevvav è7tt0i)u/n,o-Tj)» (207 a). Il
con- cetto viene quindi "esteso", sì da risultare il fondamento
di ogni tipo di amore, come emerge nella celebre ascesa erotica: se il
giovane all'inzio «deve amare (èpfiv) un determinato corpo», poi «bisogna
far sì che divenga l'amante (èpaornv) di tutti i corpi belli, e che
allenti la veemente passione per uno solo», in modo da poter amare «la
bellezza ch'è nelle psychai», esser «indotto a con- templare il bello che
è nelle istituzioni e nelle leggi», nelle scienze, fino alla
contemplazione della bellezza in sé (210 a-c) 13 . Così, il giovane che «è
stato educato nell'eros (npòq xà èpamKà naiSaycoYtiGfì) fino a questo
punto» (210 e) giungerà alla conoscenza; è perciò grazie alla forza
dell'eros che si può giun- gere alla philo-sophia (210 d). Platone si
riallaccia così alla precedente defini- zione della philosophia quale
desiderio (epithymia) erotico per la sapienza di cui si è privi (200
a-e). In sintesi, l'eros, volto originariamente alla procreazione
sessuale, grazie alle corrette modalità pedagogiche adottate a livello
extrapsichico, mostra di po- ter essere modellato, plasmato
intrapsichicamente, "sublimato" utilizzando il linguaggio
freudiano, sì da trasformarsi da forza sessuale in forza amorosa, in
eros-philia o Liebestrieb come potremmo dire 14 . Da questo punto di vista
la vollkommene Deckung quanto a Herkunft, Leistung und Beziehung zur
Geschle- chtsliebe tra eros e libido individuata da Freud (come da
Nachmansohn, Pfister e più tardi da molti altri commentatori) 15 si
rivela sostanzialmente corretta; sebbene la convergenza - sul piano
ontologico e filosofico-antropologico - non debba essere spinta oltre i
confini posti dallo statuto di Eros quale «demone me- 13
Seguo la traduzione di G. Calogero, Platone, Il Simposio, Roma/Bari 1946.
'4 Freud attribuirà paritariamente a Goethe e Platone una concezione aitine a
quella della su- blimazione in S. Freud, Goethe-Preis 1930, GW, voi. XIV,
p. 549: «Den Eros hat Goethe immer hochgehalten, seine Macht nie zu
verkleinern versucht, ist seinen primitiven oder selbst mutwilligen
Àufierungen nicht minder achtungsvoll gefolgt wie seinen hochsublimier-
ten und hat, wie mir scheint, seine Wesenseinheit durch alle seine
Erscheinungsformen nicht weniger entschieden vertreten als vor Zeiten
Plato». Già A.E. Taylor, Platone. L 'uomo e l'opera (1926), trad. it.,
Firenze 1987-1990, p. 327 sg. e pp. 349-59, pur accostando l'eros
all'amore cristiano ne ribadiva l'originaria forma «sessuale» ed «istintiva» di
«desiderio bramoso». 15 Tra i tanti crìtici si veda ad
esempio E. R. Dodds I Greci e l'Irrazionale, Firenze 1997, p. 264 sg.
[ed. or. The Greeks And The Irrational, Berkeley/Los Angeles/London 1951]
che commentando il Simposio scrive: «Platone qui si avvicina molto al
concetto freudiano di libi- do e sublimazione». Nello stesso senso va G.
Tourney, Freud and the Greeks, «History of the Behavioral Sciences» 1/1,
1965, pp. 67-85 e p. 80 sg.; H. Marcuse, Eros e civiltà, Torino
1964-1967, pp. 226-7 [ed. or. Eros and CMlisation. A Philosophical Inquiry into
Freud, Bo- ston 1955-1966], scrive che l'ascesa rappresenta una
«sublimazione non repressiva»; M. Ve- getti, L'etica degli antichi, Roma/Bari
1994, p. 137 sg., senza rimandare a Freud, scrive che nel Simposio si
tratta di «eros sublimato». diatore» (cfr. 202 c sgg.), e dal legame,
invero assai significativo, tra desiderio erotico e bellezza, originario
in Platone, derivato in Freud 16 . In conclusione, la paternità
storica della concezione freudiana della libido quale estensione o
ampliamento della sessualità spetta di diritto a Platone. Con paternità
però in questo caso non si deve pensare ad una influenza diretta del
pensiero platonico su Freud; la teorìa della libido infatti, sia quanto
all'adozione del termine (latino), che rìsale ai primissimi testi di
Freud 17 , sia quanto al mo- dello di funzionamento che ne permette la
sublimazione, anch'esso di antica da- ta 18 , non sembra infatti esser
stata suggerita dalla lettura dei testi platonici. Re- sta invece il
fatto che Freud poteva legittimamente farsi scudo dell'autorità del
"divino Platone", e questa era in verità la sua primaria intenzione,
di fronte all'indignazione ed alle proteste sollevatesi da più parti
contro la sua teoria che attribuiva all'eros si grande rilievo pressoché
a tutti i livelli della vita psichica, rinvenendo nell'antico filosofo
greco un precursore. Platone levava ancora una volta alta la sua voce,
questa volta a difender però la potenza 'positiva' di un'energia
psichica, l'eros, per tanti secoli temuta quanto bistrattata, anche in
suo nome. Il discorso sulla "paternità" dell'eros assume
invece un'altra direzione ove si prenda in considerazione l'estensione
della libido o dell'eros al piano biologico; con ciò veniamo al secondo
significato attribuito all'eros. II. 1 due suggerimenti del
«Simposio» Jenseits des Lustprinzips, scritto e pubblicato nel
1920, segna una tappa fonda- mentale per la psicoanalisi perché in esso
Freud inaugura la nuova concezione dualistica delle pulsioni di vita e di
morte (che qui tralasciamo), attribuisce ad entrambe carattere
"regressivo" (1), e adotta una concezione per cui la pulsione
sessuale, o libido, o meglio Eros, riportato sul piano cellulare, viene
identificato quale forza che «alles Lebende erhalt», garantendone la
potenziale immortalità (2). 1. Quanto al carattere regressivo
o funzione di riprìstino attribuito (anche) alle pulsioni sessuali, Freud
richiama esplicitamente «die Theorie, die Plato im Symposion durch
Aristophanes entwickeln làBt»: l'ipotesi esposta nel mito, scrive,
«leitet nàmlich einen Trieb ab von dem Bedùrjhis nach Wiederherstel-
16 Cfr. ad esempio Freud, Dos Unbehagen in der Kultur, GW, voi.
XTV, p. 441 sg.: «Einzig die Ableitung aus dem Gebiet des
Sexualempfìndens scheint gesichert; es wàre ein vorbildli- ches Beispiel
einer zielgehemmten Regung. Die "Schoneit" und der "Reiz" sind
ursprttnglich Eingeschaften des Sexualobjekts». 17 Cfr. J.
Laplanche e J.B. Pontalis, Enciclopedia della Psicoanalisi (1967), trad. it.,
Ro- ma/Bari 1997 , voi. I, p. 320 sg. [ed. or. Vocabulaire de la
psychanalyse, Paris 1967], per cui il termine «lo si incontra a più
riprese nelle lettere e nelle minute indirizzate a Fliess e per la prima
volta nella Minuta E (data probabile: giugno 1894)». 18 Cfr. ivi,
voi. II, pp. 618-21. lung eines fruheren Zustandes»^ 9 . Egli sintetizza
il mito ricordando che antica- mente v'erano i tre generi del maschio,
della femmina e dell'androgino, in cui tutto era doppio finché Zeus non
si decise a tagliarli in due, per citare infine: Weil min das ganze
Wesen entzweigeschnitten war, trieb die Sehnsucht die beiden Halften
zusammen: sie umschlangen sich mit den Handen, verflochten sich
ineinander im Verlangen, zusammenzuwachsen [...] 20 . Freud
rinviene dunque nel mito arìstofaneo, legittimamente, un modello che
soddisfa proprio quella condizione che egli cerca di soddisfare, ovvero la
fun- zione della pulsione sessuale di ripristinare uno stato precedente,
di raggiungere una meta antica 21 . Con ciò abbiamo una dichiarata
ammissione di paternità sto- rica dell'eros quanto al suo carattere
regressivo. 2. Quanto all'eros "che conserva", Freud,
sempre discutendo il Simposio, non si richiama più direttamente ad
Aristofane bensì al Dichterphilosoph 22 ; questo sembra un indizio della
sua consapevolezza perlomeno del fatto che nel mito a- ristofaneo il
discorso sulla separazione originaria concerne esclusivamente la natura
umana (cfr. 189 d; 193 c), l'eros non ha la valenza biologico-universale
attribuitagli da Freud (che ora vedremo), concezione che si ritrova invece
pie- namente nel discorso di Socrate-Diotima. Egli sembrerebbe dunque
coniugare parallelamente le sue due nuove concezioni attribuite all'eros
e i due discorsi del Simposio: il ripristino grazie al mito di
Aristofane, la funzione universale grazie al discorso socratico;
operazione che, sebbene contravvenga in parte al dettato platonico,
mostra che Freud sembra volersi riferire ad entrambi i discor- si, ed è
ciò che qua conta 23 . 19 S. Freud, Jenseìts des
Lustprinzips, GW, voi. XIII, p. 62, corsivo di Freud. 2 ^ Ibidem. Cfr.
Platone, Simposio 191a-b, traduz. di U. von Wilamowitz-Moellendorf,
corsi- vo di Freud. 2 1 Ibidem. Freud scrive che non
citerebbe l'ipotesi contenuta nel mito «wenn sie nicht gerade die eine
Bedingung errullen wUrde, nach deren Erfullung wir streben». Anche T. Gould, Pla-
tonic Love, London 1963, p. 3 1 sg., riporta l'interpretazione freudiana del
mito esclusivamen- te alla questione del «carattere regressivo»; cfr.
anche P.L. Assoun, op. cit., pp. 167-172. 22 Finita la citazione
prosegue Freud, Jenseits des Lustprinzips, cit., p. 63: «Sollen wir, dem
Wink des Dichterphilosophen folgend, die Annahme wagen, dass die lebende
Substanz bei ihrer Belebung in Ideine Partikel zeirissen wurde, die
seither durch die Sexualtrìebe ihre Wiedervereinigung anstreben?».
23 Ove la liceità agli occhi di Freud di una coniugazione dei due
discorsi verrebbe conferma- ta dall'osservazione per cui rispetto al
mito, Platone «sich nicht zu eigen gemacht, geschwei- ge denn ihr eine so
bedeutsame Stellung angewiesen natte, hStte sie ihm nicht selbst als wa-
hrheitshaltig eingeleuchtet», ivi, p. 63, nota 2 aggiunta nel 1921;
interpretazione che come sappiamo si scontra irrimediabilmente con la
negazione da parte di Socrate della concezione del «ripristino»
dell'unità originaria di Aristofane, cfr. Simposio 200 e, 20S d-e. L'idea
guida dell'eros quale forza che «alles Lebende erhàlt», assicurata
dall'estensione delle pulsioni sessuali alle singole cellule, è garantire una
«po- tentielle Unsterblichkeit» alla materia vivente (se si vuole:
mortale) 24 : das Wesentliche an den vom Sexualtrieb intendierten
Vorgangen ist doch die Ver- schmelzung zweier Zelleiber. Erst durch diese
wird bei den hoheren Lebewesen die Un- sterblichkeit der lebenden
Substanz gesichert 25 . Così, con tale «Ausdehnung des
Libidobegriffes auf die einzelne Zelle wandelte sich uns der Sexualtrieb
zum Eros, der die Teile der lebenden Substanz zuein- anderzudràngen und
zusammenzuhalten sucht» 2 ^; la sessualità converge quindi con «den alles
erhaltenden Eros» 27 , «mit dem Eros der Dichter und Philoso- phen» 28 .
Nel corso degli anni tale concezione verrà conservata e ribadita per
sempre da Freud, di contro a quella del riprìstino più tardi abbandonata 29 , e
ri- condotta anche in seguito esplicitamente al Simposio: nel 1924 ad
esempio scri- verà che «was die Psychoanalyse Sexualitat nannte, [deckt
sich . . .] mit dem al- lumfassenden und alles erhaltenden Eros des
Symposions P/atos» 30 , nel 1932 che le pulsioni sessuali vengono
chiamate «erotische, ganz im Sinne des Eros im Symposion Piatosi 1
. 24 Ivi, p. 42. 2 ^ Ivi, p. 60, corsivo
nostro. 2 *> Ivi, p. 66 nota 1, corsivo nostro. 27
Ivi, p. 56. 2 " Ivi, p. 54: «So wilrde also die Libido unserer
Sexualtriebe mit dem Eros der Dichter und Philosophen zusammenfallen, der
alles Lebende zusammenhalt». 29 Tale concezione era esplicitamente
compresa anche in Freud, Massenpsychologie und Ich- Analyse (1921), cit,
p. 100, ove Eros «alles in der Welt zusammenhalt»; si veda anche Freud,
Das Ich und das Es (1923), GW, voi. XIII, p. 268; Id., Hemmung, Symptom und
Angst (1926), GW, voi. XIV, p. 152; Id., Das Unbehagen in der Kultur
(1929), GW, voi. XIV, pp. 596, e p. 604 sg.; Id., Die endliche und die
unendlìche Analyse (1937), GW, voi. XVI, p. 91 sg. (ove è ripreso
Empedocle); infine nel 1938, Id., Abrifi der Psychoanalyse, GW, voi.
XVII, p. 70 sg., Freud ribadisce: meta dell'Eros è «immer grofierere
Einheiten herzustellen und so zu erhalten, also Bindung» (Empedocle è ivi
ripreso nella nota 2); egli abbandona invece esplicitamene il carattere
regressivo delle pulsioni erotiche: quanto alla formula «dass ein Trieb
die Rttckker zu einem fruheren Zustand anstrebt», «Fttr den Eros (oder
Liebestrìeb) kònnen wir eine solche Ànwendung nicht durchfuhren». In nota
chiarisce: «Dichter haben Àhnliches phantasiert, aus der Geschichte der
lebende Substanz ist uns nichts Entsprechendes bekannt»; è scontato il
rimando al mito aristofaneo. 30 S. Freud, Die Widerstande gegen die
Psychoanalyse, GW, voi. XIV, p. 105: «was die Psychoanalyse Sexualitat
nannte, [deckt sich] keineswegs mit dem Drang nach Vereinigung der
geschiedenen Geschlechter oder nach Erzeugung von Lustempfindung an den
Genitalien, sondern weit eher mit dem allumfassenden und alles
erhaltenden Eros des Symposions Pia- tosi. 3 1 S. Freud, Warum
Krieg?, GW, XVI, p. 20: «Wir nehmen an, dass die Triebe des Men- schen
nur von zweierlei Art sind, entweder solche, die erhalten und vereinigen
wollen, - wir Ora, l'attribuzione di Freud trova effettivamente
riscontro nel discorso di Socra- te-Diotima. Ad un primo livello eros si
configura quale causa ultima che spinge gli uomini e «tutti gli animali
della terra e del cielo [...] dapprima ad unirsi l'uno con l'altro
(av\i\iiyr\\ai àXXi\\ov;) e poi a curarsi dell'allevamento della prole»
32 . Platone amplia quindi ancor più il discorso: «la natura mortale
cerca, per quanto può, di divenire eterna ed athanatos. E può riuscirvi
solo per questa via, la via della generazione (xfj yevéoei), perché essa
lascia sempre dietro di sé un altro essere nuovo in luogo del vecchio» 33
; ove «ogni singola creatura viven- te [...] non conserva mai in sé le
medesime cose, ma si rigenera di continuo, deperendo in altra parte, nei
capelli, nella carne, nelle ossa, nel sangue e in tutto quanto il corpo»
34 . Conclude Platone: in virtù di tale incessante generazione «si
conserva (oró^exai) tutto ciò che è mortale, non col restare sempre assoluta-
mente identico, come il divino, ma in quanto ciò che invecchiando viene
meno lascia al suo posto qualcosa di nuovo e simile a sé 35 . Con questo
espediente, o Socrate, il mortale, sia corpo sia ogni altra cosa (icori
a&\ia icori zàXXa nàvxa), partecipa dell'im-mortalità» 36 .
Eros viene dunque esteso a forza biologica universale che
"unisce" e "conserva" «ogni cosa» mortale (se si
vuole: vivente) garantendone la relativa e potenziale immortalità grazie
ad una sorta di macro-duplicazione, la generazione della pro- le, e ad
una micro-duplicazione, concernente ogni singolo elemento dell'or-
ganismo; Platone dischiude così la via che nel XX secolo sarebbe stata
battuta dall'estensione biologico-cellulare freudiana dell'eros (che si
appoggiava anche sui risultati della giovane microbiologia ottocentesca-
di Weismann, Woodruff etc, dunque sui processi di «duplicazione»
cellulare) 37 . heiflen sie erotische, ganz im Sinne des
Eros im Symposion Platos, oder sexuelle mit bewuB- ter Oberdehnung des
populàren Begriffs von Sexualitat, - und andere, die zerstoren und tdten
wollen». 32 207 a-b; esordisce qui Diotima: «Quale credi, o
Socrate, che sia la causa di questo amore e di questo desiderio (ocinov
et vai xornot) xoO epco-Eoi; Kai tt^ èjtiG'uu.iaq)?», per prosegui- re:
«Non ti accorgi del tremendo stato di tutti gli animali, della terra e del
cielo, ogni volta che sentono il desiderio di generare, ammalandosi tutti
e assecondando l'impulso erotico (èpatiKcòc, Siaxi8é|XEva), che li spinge
dapprima ad unirsi l'uno con l'altro e poi a curarsi dell'allevamento
della prole?». 33 207 d 1-3: «fi 8vnxT| <pv>oic, £nxeì icona
tò 8waxòv àtei xe etvai icaì àOavaxoC;. Stiva- Tal 8è xavun uóvov, xfj
•yevéaei, òxi òeì KaxaXeinei èxepov véov àvxi xoù naXaiov». 34 207
d 7 - e 1 : «àXkò. véoc, àeì yiyvónevoc,, xà 8è ànoKKòq, Kai Kaxà xàc, xpixac,
sai oàpKa Kai òaxà Kai atna Kai aonjiav xò oiòua», sull'apparente
manchevolezza del testo cfr. P. Pucci, Platone, Opere complete, Roma/Bari
1993 8 , voi. Ili, p. 187. 3 5 208 b 1-2: «àXXà x$ xò àitiòv Kai
7taAxtiov)ievov exepov véov è^KaTaXelneiv otov ainò fjv». 3
*> 208 a-b. Sulla natura «inconscia» del desiderio cfr. F. Comford, The
Division of the Soul, «The Hibbert Journal», XXVIII, 1929-30, pp.
206-219, soprattutto p. 217; A.W. Price, Plato and Freud, cit., p. 252
sg.; t. Gould, op. cit., p. 49. 37 Cfr. S. Freud, Jenseits des
Lustprinzips, cit., pp. 46-61 .Riepilogando, si deve attribuire al dialogo
platonico, sia quanto al ripristi- no arìstofaneo sia quanto all'eros che
unisce e conserva, la paternità della con- cezione adottata da Freud. In
questi due casi però, rispetto alla prima estensione del concetto di
sessualità, si tratta di una paternità in senso stretto, nel senso che
Freud sembra aver ripreso direttamente da Platone le due idee. Ad
avvalorare tale ipotesi vi sono i seguenti elementi. Rispetto al mito di
Aristofane, va rico- nosciuto che esso, citato già nel 1833 in una
lettera all'allora fidanzata Martha Bernays 38 , è attestato nel corpus
fin dal lontano 1905, quando Freud vi accen- nava nei Drei Abhandlugen
zur Sexualtheorié 39 ; si tratta dunque di una presen- za (scientifica)
di antica data che dopo circa quindici anni si sarebbe andata co- me a
solidificare in una delle teorie biologico-filosofiche più ardite
dell'intero edificio psicoanalitico. Quanto all'eros quale
forza che conserva è degno di nota sottolineare che fin dal 1910, nel suo
Leonardo, Freud aveva assunto quasi tacitamente una tale conce- zione ove
scriveva di sfuggita che Eros «alles Lebende erhalt» 40 . Ora, fa pensa-
re il fatto che circa tre mesi prima dall'inzio del Leonardo, iniziato
all'incirca nell'ottobre del 1909 e finito nell'aprile del 1910, Freud
citasse il Simposio nel saggio Sull 'uomo dei topi (finito per l'appunto
il 1 7 luglio del 1 909); discutendo del rapporto tra il fattore negativo
dell'amore e la componente sadica, in modo a dire il vero sorprendente
Freud citava in nota le parole pronunciate da Alcibiade nel dialogo
platonico: «"ja oft habe ich den Wunsch, ihn nicht mehr unter den
Lebenden zu sehen. Und doch wenn das je eintrafe, ich weiB, ich wtìrde
noch viel unglucklicher sein, so wehrlos, so ganz wehrlos bin ich gegen
ihn," sagt Al- kibiades iiber den Sokrates im Symposion» 41 . Se da
questa citazione, per l'appunto inaspettata ed estemporanea, è lecito
presumere che Freud avesse ri- letto o perlomeno ripreso in mano il
Simposio, è altrettanto lecito inferire che l'idea di Eros quale forza
che «alles Lebende erhalt» espressa appena tre mesi 38 Cfr.
S Freud, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Torino
1960- 1990, p. 41, lettera a Martha Bemays, Vienna, 28 agosto 1883:
«Ormai non riesco più a sop- portare la compagnia, tanto meno quella
della famiglia, sono soltanto un mezzo uomo come dice l'antica favola
platonica che tu certo conosci, e la mia sezione soffre non appena sto
senza far niente». 39 S . Freud, Drei Abhandlugen zur
Sexualtheorie, GW, voi. V, p. 34: «Der populàren Theo- rie des
Geschlechtstriebes entspricht am schònsten die poetisene Fabel von der Teilung
des Menschen in zwei Halften - Mann und Weib -, die sich in der Liebe
wieder zu vereinigen streben». 40 S. Freud, Etne
Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci, GW, voi. Vili, p. 136, discu-
tendo della "castità" degli scritti postumi di Leonardo scrive che
tali scritti «weichen allem Sexuellen so entschieden aus, als w8re allein
der Eros, der alles Lebende erhalt, kein wtlrdi- ger Stoff Air den
Wissendrang des Forschers». Il termine Eros era stato utilizzato da
Breuer fin dal 1895: cfr. Breuer e Freud, Studi sull'isteria, in Opere
Complete, Torino 1967-1989, voi. 1, p. 389 (la parte di Breuer è assente
nell'edizione degli Studien iiber Hysterie edita nel- le Gesammelte
Werke). 41 S. Freud, Bemerkungen iiber einen Fall von
Zwangsneurose, GW, voi. VII, p. 456, n. 1; cfr. Simposio 216 c.
240 MARCO SOLINAS dopo gli
venne suggerita proprio dalla recente rilettura del dialogo platonico. In
questo caso si tratterebbe dunque di ben più di una solo eventuale
"Kryptomne- sie" dovuta all'ampiezza delle sue lontane letture
giovanili, come quella tirata in gioco laddove Freud - rinunciando
garbatamente e felicemente all'originalità - riconosceva ad Empedocle la
paternità storica della sua teoria dualistica 42 . Sembra dunque che il
Simposio, dalle sue timide comparse del 1905, del 1909 e presumibilmente
del 1910, abbia poi più o meno silenziosamente, più o meno inconsciamente
continuato a lavorare nella mente di Freud per riemergere infine con l'ampia
revisione della concezione della sessualità di Jenseits des Lustprin-
zips del 1920. In questo caso però, sia quanto al carattere regressivo sia
quanto alla funzione biologica, la "paternità dell'eros" non
sarebbe più solo storica, né si tratterebbe più dell'utilizzo
dell'autorità del "divino Platone" quale scudo contro le
proteste sollevate dal risalto dato alla sessualità: sembrerebbe invece
trattarsi di una paternità in senso stretto, di un'influenza diretta esercitata
dal Simposio, sviluppatasi e sedimentatasi col lento trascorrere degli
anni. Possiamo allora concludere affermando che da una o verosimilmente
più riletture del dia- logo di Platone sia scaturita una decisiva
rielaborazione di una delle concezioni della sessualità, dell'eros, se
non forse tra le più originali in assoluto, di certo tra 42
In Die endliche und die unendliche Analyse (1937), GW, voi. XVI, pp. 90-2,
Freud scrive della sua teoria pulsionale dualistica, che incontrava ancora
resistenze: «Umsomehr musste es mieti erfreuen, als ich unlàngst unsere
Theorie bei einem der groflen Denker der griechischen Frtthzeit
wiederfand. Ich opfere dieser Bestàtigung gern das Prestige der Originalitat,
zumai da ich bei dem Umfang meiner Lektiire in fruheren Jahren doch nie
sicher werden kann, ob meine angebliche Neuschòpfung nicht eine Leistung
der Kryptomnesie war». Freud procede quindi nell'accostamento: «Die
beiden Grundprinzipien des EmpedoMes - cpiAla und veìkck; - sind dem
Namen wie der Funktion nach das Gleiche wie unsere beiden Urtriebe Eros
und Destruktion", ove philia ed Eros (come rispetto all'eros del
Simposio) hanno in comune la tendenza «das Vorhandene zu immer grOfieren
Einheiten zusammenzuffassen». Empedocle è ripreso anche in Abrifi der
Psychoanalyse, GW, voi. XVII, p. 70. Sull'accostamento cfr. per esempio
G. Tourney, Empedocles and Freud, Heraclitus and Jung, «Boullettin of the
History of Medicine» XXX, 1956, pp. 109-123, specialmente pp. 109-116, e
Id., Freud and the Greeks. le più discusse e significative del XX secolo.
Si rivela così, ancora una volta, la forza e la fecondità di un passato
antico, che, anche perché tanto amato, sembra morire solo per poi
rinascere, di nuovo. D. con un panegerico all’ more ET CON LA VITA DEL
DETTO filosofo ,fatta daVarchi 07 ^ V H.I V I L E G
IH VINEGIA AP PRESSO G A fi A 1 1 R GIOLITO DE* FERRARI.
fa AMORE D. O NON DVBITO douer’ eflere molti
, e quali dannino me hauerein lingua uol I gare trattato de
pro- fondi rmlteni deH’amore , oppo- nendo il decreto de gli
antichi Pira*» v- * A ii gorici V fecondo il
qua*. dè- cito comunicare al uulgo , come all- etto , Je cole
diuine , non ientendo d’effe rettamente ; il quale per non hauere
feruato Hippafo Pitagorico, fu morto . Noi rifpondiamo cffer di due
nature nomi : altri formati nel- l’animo da effe cofe, & interiori :
al- tri fabricati dall’artifìcio humano , &efteriori . Quelli
effere a placi- to , & p*erò diuerfi , appreffc diuer-
fè'nàtioni . Quelli per natura, & ap- preffo ciafcuno e medefimi . De
no- mi interiori comporli lo eloquio in- teriore v Delli efteriori
formarli lo efteriore . Et quella crediamo effe- re la fententia
del diuin Platone con- lèntientifsima ad Arillotele , come ajtroue
dichiararemo . Sendo adun- que ilfermone/fteriore imagine , &
« r s nota del fermone interiore : nòti
tjeggo , perche cagione fi debba (bt T t’entrare a maggiore calunnia
^par- lando, & fcriuendo delle cofe diuine in lingua Tofcana ,
che in qualun- que altra lingua. Crediamo piu.tp- fto , che fia da
riguardare al modo del trattare. E però li Egitii fotto for me di
diuerfi animali nelle colonne di Mercurio , da chi & Pittagora,
de Platone imparorno la Filofofia , & Pitagorici fotto uelami
Matemati- ci , & li antichi Theologi fotto mo- ftruofi figmenti
occultorono le co- fe diuine , & la natura . Noi , ben- ché
habbiamo trattato delle mede- fimecofe fuori di uelami , & di
fig- menti, non di manco ci confidiamo non douere efleregiuftamente
dan- nati del peccato della profanatone. Tu adunque leggerai quanto
c'èoc- corfo al prefente dire de mifterii del lo amore : &
penferai le cofe diuine tanto fuperarele menti noftre , che fpeffo
ci fia neceffario altrimenti par lare d’effe, altrimenti intendere I
T"' C A NATYRA cor- | por ale. nulla contenere 1 m
fi dt aero, ma al tut- % toeJJìreimagmaria,Q urna ,
chiaramente di- ira la perpetua uarietà s fp) m u t at io-
lacuale in ejfa appare. Imperoche U V 8 L I *B Ti 0
uerita delle cofe fi dttermina una fermtZc za, ffi) una permanenza . Per
laquale efi fa fimpre flando ferma in uno ejfire quel- te medefime
nel medefimo modo in nat- ta uariate s'offerifiono,a chi le contempla
, la natura corporale per un filo momen tò di tempo non conferita
l'ejfer filo facen - dofi in ejja continua generatione , ff) cor -
ruttione. llche Her adito non filo attri- huìfie a tutti i corpi , che
fino fitto la Lu- na , ma ancora al Cielo , ft) alle [Ielle : le
quali fino tanto piu perfette , che gli al- tri corpi y quanto piu fi
apropinquono alla natura dell'anima . Onde come uicini alla .
rdiumitdyhanno meritato d’efier chiamati corpi diurni . Et pero
riguardando alcuni fittilmente affermorono tale openione ef fire
approuata dal diurno c Platone nelTi - meo . Quafi ejfo uoglia non fi
potere at- tribuire al corpo l'effere , ma piutofto il M°
fife VT“1 ■ T K I M:0. p flujjo , {fi la
gener attorie . La cagione di tal fluffi , e la mattria t della quale
fino compofti tutti e corpi co fi celefh come ter * reni . Laquale
qualche uolta ci s'apprefin * partecipe dello flato , per *
manentia : Inquanto dalla forma , che fi riceue m effd in un certo
modo e contenti * ta qualche uolta come del moto : inquanto per fua
natura fugge l'ejfere, {fi la cogni * / tione, hauendo firn prefica
la contrarietà $ V infi abilità , la uarietà * Il che forfè fi
gnu ficorno li antichi Theologt per la fauola di *7 roteo : qua fi
come Proteo fi mutaua in diuerfi forme , bora in fiamma , bora in
acqua , bora in leone , bora in forma di qualche altro animale : cefi la
materia fia atta, {fi pronta al rteeuert tutte le forme f non fi
partendo pero mai dalla fua natu* ra . Et perogli antichi
Pitagorici,confide* rato tal propor tione. hauer la materia 4
io L 1 2J ^ 0 corpi; quale ha la dualità a numeri non
duhitorono chiamare la materia dualità . Laquale fendo la prima diuifeone
, ft) principio d'ejja, ancora chiamorono l[ide , ffe Diana . 'Ter
che come Diana , è fle- rile y fecondo dice ‘Tlatone nel Thettheto
, co(i ancora la prima dualità , fendo principio della diuerfetà , della
inequalitàydel- la dtfsimilitudine , è priuata d'otri* anio- ne;
oue confifie la fecondità di tutte le co- fe . Se adunque la natura
corporale e par- tecipe di tanta imperfettione y chi non uede effeer
neceffario [opra ejja ejfere un'altro principio y ilquale la regga , ffe
la conten- ga: pendendo fempre l'imperfetto da quel- lo y che e
perfetto ? Et però Democrito , ffe) glabri y che l'hanno feguitato y cioè
Leu- cippo y ffe) l Epicuro y fecondo il mio pare- re y meritano
non ejjèr uditi . E quali po- nendo principucorporab tndiuifìbili ,
ma didiuerfe > P £ 1 AÌ 0 * 7 /
di dtuerfe figure chiamati da loro Storni, vogliono tutte le cofe
efftr compofte d'unó fortuito concorfo d'e/si. "Dicono adunque
di quegli , che hanno figura circutare , e fi fer compofta l'anima : de
gl' altri Trian - gulariy Quadrangulari , ft) fimilt efjtre
compofta la uarietd delle altre cofe : nfer~ uando ciaftuna cofa la
Natura la po* tentia fimile a quegli atomi , di che effe fufsi
compofta . Dicono ancora le cofe per tanto ffatio di tempo conftruarfì in
effe- re,per quanto m luogo di quelli atomi , che continuamente fi
partono y fàcce dono altri della medefima Telatura . ISoi al
prefen- te pretermetteremo dichiarare efftr' impo fi ftbile il
Cielo y gl' Elementi y gl' animali , le piante , ffij tutta la ‘Natura, o
uuoi fecon- do l'effere , o uuoi fecondo la confiruationc pendere
da alcuno fortuito concorfo ; firn- pre apparendo mamfeft amente per
tutto 12 L IV Ito- or dine y ffi ragione . Solo diremo noi
uede- re di tanto maggiore potentia, ffi) di tanto maggiore
efficacia ejfir le co fi, quanto fino piu umte\ffi quelle effitre di
mafsima poten tia,{fi di mafiima efficacia y cbe fino mafsi
inamente unite : onde per quefto ejjd uni- tà bauere infinita potentia y
infinita ef- ficacia: come autore , ft) principio dogni
unione . Sendo adunque la moltitudine in- finita al tutto oppofìtaalla
fimplicifiima unità , ft) però pnuata dogni modo dat - itone come
potrà dire rettamente TDemo- crito l'infinita moltitudine delli atomi e
fi fir principio delle co fi: determinandofi in- finita debilità :
della quale nulla y e piu oppofito alla ISlaturXdd principio t
* p'TOi M à. 93 ai C
» * N \ M ' ' ' k* * * > < ' ■rama E l numero
de corpi alca* 1 1 m fi muouono f er ‘Vfytura} I j$J|^ Ì come
il fuoco , Varia , taci qua , ft) là terra ft) quegli, che fin
compofh d'efit , de quali il fuoco , ft) l'aria , come leggieri, fi
muouono in sùi dfioftandofi fimpre dal centro \V acquei ,■ {fi la
terra fi muouono in giu cercando fimpre il centro . ^Alcuni altri non
filo fi muouono come quelli > ma ancora utuono ; ft) quefto per
uirtù di un principio , ilqua- le efii hanno dentro chiamato
meritamene te anima . Fra t corpi , che hanno Inulta, alcuni fin
contenti della uirtù nutritiua , come fino le piante, le quali non hanno
bi- fogno della potentia del fintire , come ne - cefiaria alla loro
filiate, ma fitte in terra colle radici , quali hanno in luogo di
bocca tirano il fro nutrimento ; alcuni fino
do - * tati della potentta del fintire , per la qua- le conofcono
quello , che a fi e dilettabile , o tnfitfico \ (fi della facultà ,
perche efii da un luogo a un'altro fi tramutano . Im- per oche
hauendo a cercare l'alimento , è neceffario efii hauere unauirtù : per
la- quale pofimo y o fuggire , o fi giure quello , thè giudicono
ejfire m fuo danno o falute . Sono ancora altri poflt in mezo delle
pian- te ; (fidi quelli y che hanno il /enfi , (fi la facultà del
tramutar fi come ricchi , (fi fi- mili chiamati Zoofiti y quafi fieno
parte- cipi della natura de gli animali , (fi delle piantf : tquali
contenti filo del [enfi del tatto ; fendo loro fimmintflrato compe-
tente nutrimento , Hanno fempre , come immobili y in un mede fimo luogo .
Oltre a tutti quefti e thuomo grandifiimo mira- tolo , come dice
^Mercurio 9 animale at- ramente P 5 ? 1 M O . *s
r amente degno d'efèr Inonorato , ft) ado- rato ; tlquale aogmgne
alle predette potenz- ile la fi acuità dell' intendere : per
lacuale ripieno di dtumità JpeJJò diuenta filmile 4 gli T>ij :
ma , Jenoi confedereremo retta- mente , diremo wfeeme col diuin r
Platone il Cielo , ft) le fttUe ejfeer donate della aita, fife
dell'intelletto . Quefto dtmoflra un per- petuo tenore di fare fimpre le
medefeme cofe, ft) nelmedefemo modo , già incomin- ciato per gr
andi fimo fpatio di tempo per durare per l'auenir e fenza errore,
fen- za impedimento , quale e nel Cielo, nelle flette; le
quali col fio diurno moto, quafe un batto magnificentifi. di tutti e
batti , a tut- ti gli altri ammali donano la generatone,
l'ejfeentia>{t) la aita. Oltre a qucfio ancora 1 lo dimoftra la
marauighofa bellezza , ft) per fettone, laquale in efii ueggiamo affermare
l'huomo, il quale ha il corpo caduco , J - - / t6 L 1
® x 0 (p) fittopofto a infinite off e fé-, batter la uU ta y ft) lo
intelletto ; e'I [telo , le (Ielle , onde pendono gltaltri corpi
effirne pri» uo; e d'huomo al tutto ftohdo , mfin- fato. Ma chi
confiderà la grandezza loro , chiaramente cono fie e fiere impofitbile
efii potere effère mofii pertanto tempo o dal cafi o da impeto
alcuno corporale o da ca- gione eftrmfica ft) uiolenta : anzi mouen
. do fi tanto efi/ufit amente , è necefidrto tal moto procedere
dall'anima diurni fitma . Onde ficur amente fi può affermare il Qe-
lo , q) le [ielle efier compofie di corpo , ft) d'anima ; ve da altri ,
che dall'anima il corpo loro efier prodotto , ft) gouernatp.St però
giudicheremo efii douerfi chiamare non filo cofe diurne 9 ma ancora
T)ij.Ma fi noi pigliamo filamente il corpo loro y fi* parandolo
dall'anima , affermeremo effe- re statue degli Dij , fabricate da loro
di materia PRIMO. n di materia prtfìantifeima , ffe con mar
a* uigliofe artificio , legnali per effer polle in luoghi
nobilifeimi fendo bellifeime , ri- piene di uita .debbono effere in
maggiore ue ner adone, che qualunque altra featua co- me efquifite
imagini della diuimtà. Se adun eque il corpo animato è piu perfetto ,
che quello y che non ha l'anima : perche que- feo non urne , quello
uiue , ffe) fra Riani- mali qUello y che ha facultà di intendere è
piu preflante , che gli altri ; ffe quello, che intende mafeimamente è
prefìantisfimo : Viuendo , ffe intendendo il Cielo , le felle,
l'huomo , faremo coferetti confejfare efei efeer piu prefi anti , che chi
non uiue, ftf intende . Onde fe l'umuerfe è priua - to della
uita,{t) dello intelletto ,gh ammali uerranno ad effer piu nobili, che
l'umuer- fe ; di che nulla può effere piu aJfordoSPer Lqual cofa
come l'uniuerfe e prefìantifei- ; 2 o mo di tutti
i corpi non lafciando fuori di fi corpo alcuno . Ma come fuoi membri con
- tenendoli tutti . Cofi è nectjjario effo haue - re nobilifiima
anima > capo , ft) guida di tutte le anime : per beneficio dettatale
fta partecipe di prefantifima uita , q) di prefiantisfima
intelligentta. St pero li antichi Teologi di Fenicia (come dice Iam- bkco
, fp) Iultano Imperadore ) afferma- rono efjtr infufa per tutto una
‘Natura lu cida y pura , calda % uehiculo dell'anima diuintj?ima :
per laquale dall'anima fta concejjo allo umuerfo il pretiofo dono
della aita y onde efjo meritamente fìa appellato uno animale^
laqual co fa ( benché o/cura- mente ) fgnifìca Timeo Tittagorico ,
ft) ' r Fiatone nelTtmeo, ft) nel decimo della *Rtpubhca . alMa di
cjuefto nella concordia fra Platone , ftf zArifotile diffufifiima.
mente par laremoy ouc dimoieremo ch’ut - v rumente ^ 1 M 0.
zip rumente fecondo la mente d'oArifìotile il primo motore non
effer e Dio, ma l'anima diutmfeima dalla quale penda il Cielo , {0
tutta la natura. ^Adunque infeeme col diuin alatone diremo ejjere il
corpo , e [fere ancora , {0 l'anima certamente molto dif- ferenti
fra loro . L'anima hauer l'intellet- to , il corpo nodo hauer e . L'anima
, come madonna , hauer e imperio fepra il corpo ; quefìo , come
feruo , effer fuddtto >{0 ret- to . L'anima effer fontana della ulta,
{0 del fenfey {0 di tutte l' altre affettiom , quali noi ueggiamo
nel corpo : quefto per flanatura effer atto a riceuere , {0 pati-
re , di che pofeiamo conchiudere l anima , come di gran lunga piu
perfetta , hauere grado migliore nell' uniuerfo. • 20 L I 2
7^ o r E l’anima non fila- mente dona la una ,
ma an- cora contiene , ft) regge la natura corporale ( come
di- fipra è dimofìrato ) e necejjario ejja batte- re una affinità
naturale col corpo , per la- cuale naturalmente l'anima pofja dare
la uita : e'I corpo la pofja riceuere . L'anima pofia reggere , ft)
contenere . Que fi a non . e altro 3 che una naturale ine linat ione
per lacuale noi pofitamo dire l'anima ejjirt anima 3 ft) uer amente
diftintada qua- lunque altra cofa : Di che appare marii- fe fi
amente nell'anima eJJir due proprietà per TJatura ; una , per laquale
ejjà incli- ni a produrre , ft) reggere i corpi ( altri- menti non
farebbe chiamata meritamente , anima ) l'altra , per laquale effa non
filo rp % 'iM o . it comprenda la ‘Natura , che detta
effer retta , ma ancora fi medcfima , ft) le co- fi frperiori:quale
poco auàti fuchiamata Intelhgentia. Qutfìa intelligentia fe noi
ret- tamente confider eremo , uedremo effer nel- l'anima non per
fra natura , ft) inquan- to anima ; ma piu tofto per benefìcio
d'al- tri. Imperoche fi l'anima, inquanto ani- ma, ft) fecondo la
natura fra haueffi l'in - telhgentia , ogni anima intenderebbe: co-
me ogni fuoco fimpre e caldo : fendo la ca- hdità nel fuoco per fra
naturai ffjnot ueggiamo manififìamente non ogni ani— ma hauere
facultà d'intendere . lmpe- roche chi direbbe gl' animali bruti
haue- re intelletto , equali non per altro fono chiamati bruti : fi
non per effer priuatì della intelligentia? molto meno e da dire
delle piante , lequali fono animate d'ani- ma molto più im perfet ta ;
che i bruti ; ■ iti 22 L 1 2 7^0 ' ff) però come
il lume è molto piu, per * fettamente nel fole che nelle felle ,
fen- do nel fòle per fua natura , nelle fi elle per dono y ffe
beneficio del Sole : co fi noi dicia- mo la inteUigenda effer molto piu
perfetta- mente y in cui effa fio per propria natu- ra y che nella
anima , oue è per pardeipa - tione ; di che noi concludiamo ancora
quel- la fu(l arnia effer piu prefi ante che l’anima ; sendo in e (fa la
fontana dello intendere y principio y ft) Idea d'ogni cornicione ,
imperoche la nobilifeima oper adone proce- de danobilifeima fubflanda ,
la inteL hgentia fupera tanto Poltre oper adoni: al- ' manco quanto
il lume Poltre qualità fen-\ Jibili . Quefla fuflantidnon è altro, che
la datura Angelica , laquale meritamente e denominata Intelletto ,
hauendo per pro- pria oper adone P intendere . Et per queflo noi
concludiamo P anima effer e ordinata , fri retta % / ;
M 0 . 2 > natura ^Angelica , cowie il corpo e ordinato ,
rmo dall'anima . Onde appartjce l'angelo tanto piu effer preftante
dell'anima , quanto l'anima è piu nobile , /] corpo : ft) però
l'anima non tenere il primo grado nell'uniuerfi • adunque
diremo ejjere due nature neL l'anima : una per laquale rappreftnta
la datura angelica > l'altra , perla quale inclina al corpo.
Onde e detta dal diuin Alatone nel Timeo ,fu[ìantiamez&, co- me
quella , che pofta in mezo fra l'ange- lo, ft) il còrpo partecipa dell'
una, {^ del- l'altra natura . Quefta anima merttamen te chtamorona
i ^Magi in parte lucida, in parte oftura , come pofta in mezo di
quel- lo che è al tutto lucido , e di quello che e al tutto ofeuro
. L'Angelo è al tutto lucido , perche fendo la prima ejjèntia; {R iapri-
, ma effèntta fendo ejfa firmità ,ftmpre fi- * Hij
24 L 1 $ 7^0 mile a fi medefima e accompagnata da e fi
fa uentà , laquale e efifia luce intelligibile fi) pero l'angela è tutto
lucido . Il corpo findo oppofito ficondo la fua natura allo angelo , è tutto
ofiuro y l'anima pofta m mez- zo fiala natura corporale, ffil'
angelo, inquanto partecipa dell’Angelo e uera- mente lucida ,
inquanto inclina al corpo , fi P uo dire ofiura .Chi adunque
dubite- rà fipr a l'anima non effier l'angelo: fin- tana di ogni
luce intelligibile? Aliti allo fpìendore del- la uerità
intelligibile , quale noi chiamiamo al prefinte c, Angelo , for fi
potremo cre^ dere hauer trouatoil padre dell untuerfi . lmperoche
quiui ogni coja è uera ; efinzet , • fi s
ogni co fa e ulta , ogni cofa e intelletto , uerì* ta , ft)
fiientia : fendo principio dell'efjere , ft) della mta a qualunque altro
fi dice ef fere,ft) utuere per quefto nella natura contiene l'uniuerfità
di tutte le cofe fendo il lo- ro effir e per fitti fimo * Imperoche,
benché le cofì in effa fieno di flint e , ft) non con fu* fi , come
dtmoflrala intelligentia opera * tion fua principale , laqualt
definitamen- te comprende tutte le cofi , nondimeno han no e fiere
unitifiimo . Imperoche nulla può effir e piu unito } che quello , in chi
ciaf u- na parte m un certo modo fia quel mede- fimo , cheti tutto,
come e nelttAngelo\do- ue la uita , benché inquanto uita è dtfffinu
ta , nondimeno per partecipatone è tutto lodimelo . L'intelletto ha il
fuo proprio modo d' effir e : perche è detto intelletto. Ld uent à
il fuo modo d' effir e particolare : per lo qual# è effa uentà :
parimente adirne* 26 L /2 0 ne in qualunque altra
parte . FJondiman* co quefto non fa che lo intelletto , la uerità
per fa , non Jia tutto t Angelo per par - tecipatione : in modo che nell'
Angelo non fi può trouar parte , laquale non conferui in fi la
natura del tutto . Quejìo credo ha- uereintefa Parmenide ; ft) Melijfo
anti- chi^ittagorici, quando ajfermorono tue - • te le cofe effere
un 'Ente : cioè , ejfere una co* fa, una fufiantia , quale notai pr e
fante chiamiamo Angeloinella quale tutte le co* fi habbino il fùo
primo ejfere , cioè pcrfet* tifaimo ejfere. Come adunque nelle cofe
ar* tifictate fono due ejfaeri , l'uno nella men- te dell'artefice
, manzi , chehabbia pro- dotto fuori la cofa artificiata , l'altro
in effa cofa artificiata ? Verbigratia la /ta- tua di ifMinerua ha
il primo ejfere nella mente di Fidia , l'altro m effe marmo : de
quali quello che è nettamente dello artefi- ce, è ^ RIMO.
27 ce , e primo cffere\{t) p ero molto piu no* bile ; che
quello, che è nel marmo : co fi tut* te le cofe hanno duoi ejjen : ; uno
nella effen - tta dell’angelo , ilquale , è primo , ft)
perfettifimo effere ; l’altro in effe cofe ; il- quale , è participatione
del uero ejfere . TDu co adunque fecondo tl loro efftr primo per -
fettifimo,nonfolo confhtuire una Jufìan * tia ; ma ancora ciafcuno d’effe
efer tutta quella umuerfità ; ft) pero meritamente fi può dire una
fu fsifl ernia ; fff) quefia e la fintentia di Parmenide , ft) di
Mehffe della umtà dell’Ente , come io fimo . Qtie fio Ente , o uuoi
Angelo e chiamato da Hi* lottilo mondo intelligibile : mondo , per-
che è pieno di elcgantia , hauendo tutte le cofe in effe il feto e (fere
uero ; lmperoche mondo fi gm fica ornamento ; intelligibi- le ,
perche è comprefe felamente dal- l’intelletto , tlquale riguarda effa ucri
• 28 L 1 ® ^ 0 * tà . 7 ?^/ diuin Telatone e chiamato
nel fi fio dilla fypublica figliuolo di Dio. Ma di quello piu
diffufamente in quello , che figue y parleremo : 6 . Nondtmanco fi noi
con - ftdereremo , che il primo principio è firn - pltctfiimo , ft)
potentifiimo : altrimenti non farebbe /opra ogni altra cofa : chia-
ramente conofieremo quefìo mondo intel- ligibile y o uuoi (^Angelo non
potere effir pri- mo . lmperoche nell'Angelo fendo moltitu- dine,
ancora u'e compofitione ; ffi) per que- flo imper fedone, imperoche ogni
cofa com- pofla ha in fi una parte, comcpotentia , ma parte , come
atto : la potentia ha fi- co imper fettone ; Patto la per fedone .
Et peroogmcofacompofìaha mefiolatoin fi l'imperfetto col per fitto
. La potentia non e altro , che quello , pel quale la cofa può
effir e, non fendo ancora . L'atto aggtugne l effir al potere ; fg) pero
la potentia è im- perfetta , P % 1 M O. z 9 perfetta ,
lacuale gli antichi 'Pitagorici chiamarono infinita , come per fìta
natura indeterminata . Inquanto adunque l'An- gelo ha compofitione
non è fimplicifitmo : inquanto ha tmper fetione , non è potenti fi
fimo . Imperoche qualunque imperfetto uiene alla per fetione coll'aiuto
et altri : però quello è piu potente , per beneficio di { chi
confeguita la fua per fettone . Ter la- qual coja fèndo l'cAngelo ne
(empiici fimo, ne poterà fimo , non può efièr ancora pri- mo
>ft) pero Tarmenide Pittagorico afi fermo il primo Ente , qual noi al
prefinte * chiamiamo Angelo , efièr filmile a una sfe- ' ra »
lì) P er o hauer parte , hauendo la sfera mezo , g) eftremi. T>i che
ne fi - gutta ejfo non patere efièr la femphci (lima Vmtà, come
diurnamente dice tMeliffò ; laquale al tutto efclude ogni parte, (fi
ogni moltitudine,^) ogni imperfettione ;{t) però 30
LIBRO come ueramente capo di tutte le coffe au- tore della per
fettone dell' angelo; tignale me rit amente e chiamato uniuerfi
intelligibile. S s o Iddio findo principio ff) autore d' ogni per
fettione nelle cof , che fino , non è capace d'imper fettone
alcu- na y di (jualuncjue natura ejfa fa . Et pe- rò noi pofitamo
dire fimile proportene ba- ttere alle cofe create ; eguale ha la
fimplicif fima unità a numeri Tutti t numeri han- no
moltitudmeybanno ancora unità . Mol- titudine fecondo che noi diciamo il
nume- ro ternano hauere tre unità ; il quaterna- rio hauer quattro
unità , {fi eofi gli altri numeri nel medefimo modo. Unità, per-
che il numero Ternario , è uno Ternario , q) una
P 1 A4 0 . ft) una Trinità . Il quaternario è uno
quaternario , ft) una quatrinità : adun- que tutti i numeri hanno
moltitudine ,han no ancora Vmtà . La moltitudine dice imperfetto ne
, ft) diuiftone . L'unità dice coniandone ft) per fettone . Et pero tutti
i numeri participano della per fettone , f0 della imper fettone ,
Della per fettone > in- quanto ogni numero e un numero . Del l
imperfettione y inquanto ogni numero ha moltitudine . L'unità ancora de
nu- meri non e acutamente perfetta , cioè quella lenita , per
laquale il numero Ter- nario è un Ternario i ft) il numero Qua-
ternario è un Quaternario . Imprima , perche tale unità ha conuenientia ,
ft) af- finità colla fua moltitudine ; come l'unità del Ternario ha
affinità con le partidel Ternario . altrimenti di efifa uita 3 ft)
dcde parti fik non fi farebbe un tutto ; ft) > 3 2
L 1 *B %. 0 quefta è una frette et imper fettone . Dipoi perche
l’unità d'ogni numero è diffimta m modo , che l’unità del numero
Ternario è dtuerfa de It unità del Quaternario, ft) ciascuna di
loro ha la fra potentia determinata per laquale tfro produce U fro numero.
Questa non e propriamente imper fedone , Jènon perche l'unità del Ter-
nano benché fecondo che e unita del Ter- nario , fra perfetta ,
nondtmanco non con- tiene la per fettone , ft) utrtù in fi delt al-
tre unita : carne la perfetti firn a lujlitia , benché inquanto Iujhtia
non ha difetto al - e uno ; nondimeno non contiene infila per fi t
ione della fapientia>{f) cofì la per fettone Ut terminata ha fico in
un certo modo la im - per fettone* Adunq; lafimpliciftma unita \n
prima non ha moltitudine alcuna findo al tutto indtuiftbile . Oltre a
quefio non ha afflìtta con alcuna moltitudine numerale * non
P ^ / M O. ss non potendo hauer fuo coniugio . 7/on e
ancora dif finita, ftfi particolare unità ,ma fimphcifiima unità , eminente
unità ; ft) pero Pitt agora affermò effa contenere in fi la
potentia, (tfi i fimi di tutti i numeri. ‘Riduciamo tl numero al proceffo
delle co/i dal primo principio , fecondo il coftume t ‘Ptttagorico
. Nelle cofi create fi truoua potentia ; trouafi ancora atto . La poten
- tia , inquanto potentia, eimperfetta,l'au to , inquanto atto , e
per fettone , adunque Imprima imper fettone delle cofi,nafiedaU la
potentia , della quale fono partecipila - fee ancora imper fettone in
effe per cagione dell'atto . Imper oche l'atto fi chiama atto ,
inquanto è per fettone di potentia , ff) in queflo modo uiene a par
deipare della im- perfetto ne congiungendofi fico . La forma è atto
della materia , però facendofi della forma , della materia un compo
- C 34 L I 2 0 fio : la forma partecipa
delle condizioni della materia .. Uoperat tont i atto della
potentia attiua , come la cale fattone è atto ft) per fettone della
potentia calefatttua : nondimanco ha conformità colla potentia
dipendendo da effa . Oltre a cjuefìo , fatto dice per fedone definita,
ft) terminata. La forma del fuoco dice una per fettone termi- nata
: cioè effa natura dclfuoco^La terra dice per fettone definita , cioè ,
effa natura della terra, fp) cofìe proprio d' ogni altro atto. Et
pero t uno atto non include la per - fittone dell'altro, adunque e
[eludendo e fi fi Iddio ogni imper fittone, efiludt f imper-
fetione , che fi troua per cagione della po- tentia . Imper oche Iddio
non ha potentia alcuna , fendo fimplicifiimo : Efclude an- cora f
imper fettone , che e per cagion del- l'atto . r Ver che Iddio non ha
conformità , ft) proporftone con alcuna potentia: non
fendo 1 M 0 . 3 s fendo per fettone di potentia
attuta > nefe potendo d'effe , ff) della, potentia confettai - %
re un compoflo . 'ISfon è ancora di per fedo- ne definita , ffej
particolare , come ctafetì - no atto , procedendo da lui ogni atto ,
ff) ogni potentia . c Adunque in ‘ Dio , e ogni per fedone sjclufa
ogni imper fettone^ pe- ro in lui ogni cofa , è per mododtVnità
fìmplicifeima . e in lui diftinta la fa- pientia dalla Inflitta , non è
in lui diflmt a la bontà dall'efeèntia , fjfe dalla aita. Ma è
unicamente l' e fènda , la aita, la fapien - da : Et pero il dtuin Platone
dtfee nel Par- menide y non efeer di Dio nome , non diffi- nidone y
non fcienda , non fenfe , non opi- nione : come quelli , che dicendo per
fedone determinata , attribuir ebbono a TDio im- per fettone ,
dalla quale al tutto abborifee . Et pero *P lodino yft)gl altri c Platonici
nie- gono Iddio ejjer ejfentia , o intelletto : ma . ì . x v
fj t L I B 7^0 tome molto piu prefilante
, efifir contentò delle fue ricchezze ; ricco della /ita fimplt-
ttfiima lenità . Solamente noto a fe mede -, fimo ,filo amtratore , {fi
cultore dellabtfi fi della fiua diumitd. Quefla è quella diut - na
caligine , laquale tanto celebraDioni* fio zAreopagtta fplendore della
Cbrifha- fia Theo logia ,alla quale non dggiugne utr - tu alcuna
rat tonale, o intellettuale . Impe- rochcy come il rationabile non può
efjer pe- netrato dal finfi : ne lo intelligibile dalla potentia
rattonale : ne le cofe incorporee , {fi femplict da t corpi , {fi dalle
cofe compo[ìe m y cofi quello y che eccede ogni modo d y e fiere ,
t (elude al tutto la intelligentia , o qualun- que altra cognittone, qua
fi un Profano delle cofi fiacre . ^Ma è nelle cofi create un
Carattere , {fi una (ìmtlttudme di Dio, fiore , {fi capo d'effe: per
benefitto della - yuale fi congtungono a Dio , quafi non fila
lecito i rp XI M o. r? lecito
aggiugnere al fuo creatore con parte alcuna di fe>mapm tofto con tutto
fi . On+ dell Profeta ratto daldiuin furore efe la- ma y o Signore
la tua laude , è tl felentiofi- gmfeando ognipotentiayO uuoi r
attornierò uuoi intellettuale , douer ceffare dalla fila operat
ione,quado fi fa l'ultima unione del le cofe create con effe Dio .
Adunque molto piu appropinqueremo a T)io procedendo per le
negazioni ; che per l'affermationiipur chefempre mediamo effer meglio
^che quel by che noi neghiamo di lui . Nondimanco pofeiamo ufare
ancora l'ajfcrmatioMynon derogando alla fita diuinitàpur che intera
diamo effe hauere nfpetto , ft) compara- tane alle cofe create . Come
quando noi di- ttamo T>io effer principio , mezo , fp) fi- ne .
Imper oche per il principio intendiamo le Cofe da lui procedere ; per il
mezo a lui conuertirfi : per il fine effer da lui donato C
iij 38 L I 3 7^0 della ultima fùa per fettone; lacuale
con- file nella uer a unione fico. Quefto fgntf- corono gli antichi
‘Tittagorici quando difi fonoyla Trinità ejfer mifura di tutte le co
- fi. Quefìo panifico ancora Orfeo quando dijfi Gioue ejfer
Principio , mezj), fine, ft) pero ( come dice Diontfio Ariopagita )
in quefto modo Iddio e fplendore a gli il- luminati , per fedone a
perfetti ; a Tteifi- cati diumità , a /empiici fimplicità ; leni-
tà a quelli y che partecipano dell'uno ; uita de uiuenti \ejfentia di
quelle cofi y che Jd- no'ydi tutta l'effintiaydi tutta la uita
prin- cipio y ftj caujà . Et pero . ogni copi creata, < o
uuoi eterna , o uuoi mortale , o uuoi ra r Rionale, o uuoi Angelica, può
efilamare in : peme col \Profeta,Signore lo fjlendore del la faccia
tua , e fignato fipra noi. \ 1 M 0. 39 L i antichi
Pitagorici chia morono e/fo Iddio per fe uno , ffi) per fi bene
> come auto- re della /Implicita alle co/e create , quanto di
e/fa po/fono ejfer capa - et : aggiungono Siriano y ft) Troclo per
quefto nome efier fignificato y non efio Id- * dio ; ma quanto noi di Dio
participia - mo 3 quaf mi crediamo hauere efprejfi ef fi Dio ,
quando noi efprimiamo Caratte- re della diurni à y col quale noi fiamo
fi- gnati . Ter fi bene , perche non filo e (fi non niega a
ciafiuno il fio grado di per fe- ttone ; ma ancora y perche , co.me fine
, e de fiderato da tutte le cofi: ilquale poi che hanno
configmtoficondo il modo della /ùa natura , fi quietano . c Adunque
ctoche procede da lui fi fa partecipe della fua firn ' C
ni/ yo L 1 2 7^0 p lìcita , ft) della /ita per fettone
. Ma per- che qualunque cofa procede da altri, per necefiità
degenera dalla per fettone di co- lui , da chi procede ; altrimenti
l'effetto non farebbe di minore per fettone , chela cagione ; fendo
effo(come dicono e Pitago- rici, ft) Plotino) uer amente uno: quello
che procede da lui, è non uno, ft) pero ha fico moltitudine . Onde
habbiamo adire hauere ancora imper fettone . Quella tm- per fedone
e per la dtgrefitone , ft) partita da tffo TDio, meontrandofì fimpre
nell'im- perfetto quello , che parte , ft) fi allonta- na dal
perfetto : nondimanco ritornando a quello , donde procedeua -, acqui fi a
la per fedone . Per laqual cofa rettamente fi dice , ogni cofa
compofia ejfir compofta di imperfetto , ft) di perfetto » Quefto
inten- dono e Pitagorici, quado dtffono per il prò ceffo dall'uno
produrfiildua ; ilquale ri- tornando P 1 Ad 0\ 4.1
tornando a l’uno, donde s’era partito, con- Jìituifee il tre prima
figura : l’effentia di cui contempliamo nel triangolo, come dice
Teone . Imperoche quello , che procede da 'Dio, partendo/! dalla infinita
fua perfe - tiene, cade nello imperfetto, quale è la na - tura del
dua; ritornando a T>io per la fua interiore anione participa del perfetto
, quale é la natura del tre . Imperoche come il tre è compofìo della
progreditone dell’uno 9 ft) della rtgreftone a l’uno, cofi quello 9
che procede da Dio, è compofio dell’ imper- fetto , inquanto da lui
procede, ffe del per- fetto inquanto a lui ritorna. In fomma da Dio
procede l’Angelo : ilquale nella prima mifura di fuo proceffo e
imperfetto. ^Ma come imperfetto ? certamente imperfetto , perche ,
fendo l’angelo il primo uiuente, ft) il primo intelligente ; ffe ogni
uiuente , intelligente effendo compofìo della pò- 4 2 L 1
<B T^O tentia aitale , ft) della fùa operatone, cioè del uiuere
; ft) della potentia intellettuale, ft) della fua operatane, cioè dello
intendere la potentia come antecedente- alla opera - none fu prima
prodotta , la quale ha im per fettone, fecondo che noi intendiamo
efjd ancora non operare . L'angelo adunque nella prima mifura del
fuo ejfere , fendo una efentia con facultà di uiuere , ft) dt
intendere ; ft) non umendo , ft) non inten- dendo , ancora fi può dire
imperfetto . £t perche la potentia attiua riguarda La fa operattone
; altrimenti farebbe uana , fi non operaffiy ft) operando confeguita il
fuo fine , ft) la fùa per fettone , laquale per natura intenfamente
de fiderà : è necejja- rio nello Angelo effer naturalmente un'in-
tentifiimo defìderio di uiuere , ft) d'inten- dere. Que fio defiderio
nondimanco ante- cede una certa fermezza , ft) una certa
conftantia X / M 0. 4/ confi arnia , per uirtu
della quale mai Van- gelo parte dafe dalla fua natura y ma fempre
fi a quel me de fimo. Quella ferme* z za dal dium ‘'Piatone nel Soffia e
chia- mata fiato. L'operattone y che feguita quel defederiofe
chiamata moto, di qui polia- mo uedere quello y chefegmfec a il dium
Pla- tone nel Simpofeo y nell'oratione di Fedro , quando dice l y
amore cjjcr del numero degli Iddi/ antichifeimi ; affermando
fecondo V opinione de Ih antichi Teologi dopo il Cha- os effer la
terra , ft) l'amore , im per oc he il Chaos non e altro y che la effentia
dell'an- gelo fecondo , che e confederata nella prima mifetra del
feto effer e y come imperfetta,^ come potentia y moltitudine y ft)
infinito à chi meritamente fi conuiene queflo nome Chaos y
fignificando indige filone , ff) con- fatone . L'amore non e altro , che
quella ingenito defìderio y principio del u\uace y fp) 44 L
1 V Ilo dello intendere . La terra fignifica la fer- mezza 3
ft) l* fi abilità , per uirtu della quale l'angelo non mai parte dalla
fìta na- tura . Tuttamente adunque e detto l'amo- re ejfere
antichifetmo , imperoche ejfo ante- cede ogni operatone fendo principio
d'ef- fe s per uirtù delle quali , le cofe diurne me- ritano
d'ejfere chiamate lddij . • ' * • '•[ V * \ V ;
£/ni appetito , ft) ogni de- fiderio fi può chiamare amo re
in un certo modo benché pi ghandopropriamentei l'amo re fìa
felamente defiderio di bellezza > co- me dichiareremo tn quello , che
fegue. On- de non mmeritamente ildefìderio , tlqua- le muoue tutte
le cofe al fuo fine y ff) al fuo bene , e detto amorei ft) c Platone nel
firnpofio nell'orattone di Fedro per l'amore non intende altro , che
l'appetito , che e nell'angelo ; per ilquale fi muoue a con -
fegtiire la fua per fettone . Si che pigliando in quefto modo amore ,
diciamo ejjere in ogni co/a creata infino ad' ultima materia,
nedaquale è ancora l'appetito alla forma laquale è co fa diurna , fgf
buona , ft) ap- petibile , come dichiara ^rifiot eie. Adun- que
l'amore e cagione , che l'angelo 3 ilqua - le e prodotto imperfetto ,
confeguiti la /ùa perfetione ma come diciamo l'amore effir cagione
di tale per fedone ? certamente per- che quedo ingenito appetito , quale
al pre- finte chiamiamo amore , quafi uno filmo - lo , fpinge
l'angelo a l' operatone . Impero - che qualunque co fa fubtto , che ha l'
effir e e inclinata adoperare , ft) quanto ha piu perfetto ejfire ,
tanto ha maggiore inclina - tione ad' operare , onde perche i' angelo
ha 4 6 L I <B X 0 perfettifeimo ejfere , anzi è effe
ejferefendo lo ejfere la prima cofa creata ; per quefio ha
grandtfiima incltnatione adoperare , quefia oper adone fi chiama tuta:
fendo la uita il primo moto interiore , ft) primo atto , ft) per
fedone dell' effe nda , come di- ce Plotino , ft) q u ^i che l'hanno
feguita- to, cioè r Porfirio , ft) Amelio : benché Si * riano ,
Proclo crediino altrimenti', tetta- li al ùrefente dimetteremo.
Sendoadun ~ que la uita la prima operatone dell'ange- lo , è
manifefto efeere il primo feto atto , ff) la prima per fettone . L'angelo
adunque nella prima mifura delfuo procefeo e detto tjfentia ;
laquale è non uno procedendo da Dio , che è perfatifeimamente uno :
pero ha moltitudine, anzi in ejfa ( come di ce il dium c Platone nel r
Parmenidefe efpli tata tutta la natura de numeri, mediante iqualt
procedendo nella ulta difttngue fe medefima - P 1 Ai 0
. 47 ntedefima ne modi particolari ffe dell' effe re ffe)
come in piu efeentie , dando fecondo il feto numero a ciafeuna effentia
le fete prò prietà , come y fe tu pcnfafii la Geometria per una
atione interiore dtftinguere fe me - defema ne Tbeoremt particolari :
lacuale e una in tutti e teoremi ; perche ciafeuno è
Cjeometria:nondtmanco è ancora moltitu- dine , fendo l'uno Theorema
difemto dal l'altro, (fe però ‘Plotino dimoftr a diurna- mente dopo
l'uno, cioè Dio,efJere l'efeentia ; dopo l'efeentia 1 numeri , dopo i
numeri , e modi particolari dt II' efeer e, cioè le efetntie. In
fiomma l'angelo mediante il numero come efattifeima regola per benefit io
della feuaatione interiore, quale fi chiama pri- mo moto , (fe
prima uita , diflingue, (fe diffimjce fe me defimo in tutti 1 modi
par- ticolari dell'efeere , onde l'efeentia de II' am gelo è come
un tutto. L'efeentie particolari 4* LIV^O fino le
parti , non come il capo , o la mano è parte di Socrate : ma come il
Leone, o il cauallo è parte dell' animale . di quefio piu
diffujamente habbiamo detto nel libro del *T utero : ft) diremo nella
concordia fra Platone, ft) zArifiotile . Di qui chiaro ap- parifie
quello , che uuolc il diuin Platone , quando dice le cofe diurne produrre
fi me - defime . Imptroche non figni fica altro, che le cofe diurne
efier compofte dell'atto primo ft) del ficondo , cioè della potentia
attiua, ft) della fila operationeilaquale pende dal « la potentia
attiua , come l'angelo , ilquale e compofìo della potentia uttale , ft)
della fua operatone , ft) della potentia intellet- tuale , ft)
della fua operatane ; per benefi- co dellaquale l'angelo è attualmente
ui- uente , ft) intelligente . Onde è chiamato il primo animale ,
ft) il primo intelletto ; ft) chi intende altro atto , ft) altra
potentia nelle cofi diurne , non intende la fintentia di f Piatone ,
ne forfè la natura di effe nel modo del procefo loro dal primo principio
. Quelle e fentie , ffè quelli modi particolari dell' ef tre di
finiti nell'angelo dalla ulta fino chiamati /fette, (g) Idee,lequali
fino in tanto intelligibili , in quanto hanno lo efèere uiuo, (t)
la ulta . Onde ildiuin Platone dice nelTimeo,che topefice del mondo fece
tante forme nel mondo , quante tua * telletto uide
neluiuente,fègnificando l' Idee efèer nel primo animale . Et pero io
mi marauiglio afai , come qualcuno habbia detto , che la forma ,
che effo Dio da alla materia angelica , fino efe Idee , come fi
l'angelo , inquanto procede da Dio , fufii potentia pafiiua , laquale
diuenti ricetta- colo delle Idee . forfè maggiore errore fi può
commettere nelle cofi diurne, che pen fare in efe eferpotentia pafiua fìmile
al - io L 1 5 X 0 ; la materia de corpi finfibtlt : perche
cioche procede da e fio Dìo immediate , procede piu fimtle a lui,
fg) p M perfetto, che è paf fibtle. Onde fendo molto piu perfetta
la potentia attiua , che la paffuta , ì con- veniente immediate
procedere da lui la po tentia attiua, ft) non pafiiua . c Adunque
noi diremo da 'Dio procedere immediate un'atto primo : ilquale fi può
chiamare efientia prima , fendo la prima cofa , che ha l'efiere;
lacuale inquanto efientia e per fettifiima : ma bene nelfuo primo
procefio ha fico congiunta potentia d'operare, non operando ancora
: q) fecondo, che ancora non opera , ha fico Imperfetto : Et que-
llo e quello , che dice il diuin Platone nel Filebo , da ‘Dioeffirt dua
elementi, cioè l'infinito , ft) il Termino della mtflione',de quali
fi confi ituifia unaTerza natura , cioè l'effintia .Imperoche quello ,
che pròcede , inquanto e atto , {fi diffinito fi può dire hauer termino :
inquanto ha fico con- giunta la potentia, {fi l'tmper fettone fi
può dire infinito : e l'uno {fi l'altro infieme fino la Telatura della
prima ejjentia ; la per fettone y {fi atto, dellaqualee la fua
operatane interiore , {fi non Idee . Come dal termino proceda lo Ciato ,
{fi la iden- tità : da l'infinito , il moto , {fi la diuerfi- td ;
Et come tutte le cofi fitto il primo fie- no compofie
d'ejfintia,diftato,di moto. di Identità , di dtuerlìtà altroue h
abbiamo detto , {fi diremo diffufamente nella con- cordia fra
Platone , {fi Artftotile ; oue di- mena l'opinione di Siriano , {fi di e
Proclo dichiareremo , come ciafiuno d'efii e ele- mento , {fi come
e genere dell'Ente . zAl prefinte fi conuiene piu tofto accennare ,
che efplicare fimilt materie . sz L 13 Ito ' A# a d i
particolari del- l'tjjìre nell'zAngelo di [Unti per beneficio della
ulta al yprefinte chiameremo ldee\ benché fecondo diuerfi confi
derat iohi fi pofiino chiamare per diuerfi nomi , come è dichiarato
breuemente nel primo libro del nofiro Palerò, ffi) altrotte piu dijfufamen
. te fi dichiarerà . Onde fi foluono facilmen- te tutte le
obietioni contro a l'Jdee fatte da ss4riflotile in diuerfi luoghi: ma
principal- mente nel primo libro dell'Etica , ft) nel fifto delle
co fi diurne , Uguale comunemen- te fi reputa il fittimo . Quefla
difìnbut io- ne fèndo con ordine , mi fura, proporzione , fi già
quello , che da l'ordine all' altre cofi non è d'effe priuato , come le
cofi diuine , le quali producono , ft) reggono , le infe- ■ ^ .
riori , rp X i m o„ j ì riori, e per necefittà
accompagnate da una cenar gratta-*; da un ceno splendore ;da un
florido colore , tlquale fi può chiamare rettamente efia bellezza*
lmperoche ( co- me diurnamente dice Plotino ) benché la prima
bellezza non fia un'altra cofa dada ferie d'ejfi Idee , come aduentitia ,
q) efira* nea ; nondimanco quella gratta , quello fplendore , quel
fine ,• che in fu la prima giunta apparifie ad'afpettto di coloro,
che raguar ciano tutta la ferie dell'ldee , quafi come il colore
neda fuperficie , è chiamata efia bellezza ; laquale non feguita la
natu- ra di parte alcuna 9 ma piu toflo del tutto . Onde è
manifeflo la prima bedezza prò* cedere dada per fedone interiore
dell'Ange- lo > quale duerno efjere fioatto . Et pero chi dice
che' l bedo e diflinto dal bene come l'eflrtnfeco dali'mtrinfico ,
fecondo il mio parere dice rettamente, ft) chi lo riprende r ^
-> D iij 34 l n x o fer quefto, merita ejfo piu tojlo
effir riprn fi , perche fi noi compariamo il hello al be- ne ,
affolutamtnte confejjiremo il bello tjfire come fpetie ; il bene , come
genere. 0 nero firfi piu rettamente , il bene ejfirt per fi,
mparticipato,e'l bello cffere una certa partictpatione del bene, ma
fi noi non compariamo il belìo al bene affò luta -, 1 mente,
ma quello, che è proprio bene a eia - feuno , diciamo effer il bello
differente dal bene , come l'eftrinfico dall'intrinfico.Im - per
oche la Juftantia , diffinitione , è, il proprio , primo bene di
ciafiuno ; ft) neffuno dubita la Juftantia ejfire mtrin - fica . Il
bello , findo per modo d'acciden- te , come esirinfico feguita la
fuftantia , e la diffinitione . Tuttamente adunque e A dettoci bene
effir fi parato dal bello , come I mtrin fico dall'eftrinftco . Ma ( per
tor- nare onde noi partimmo ) findo la prima bellezza
i ^ i / M 0 : yr bellezza una gratta , uno
fplendore , uh fiore della per fettone interiore ,lac/uale me-
ritamente chiamiamo bontà ; che mura T digita e fe nella potentta
mtelletuak del » l'Angelo eccita un'intenfi appetito , g / 1 dd
Jìdertonon filo di fruirla , d'ejfrimer - la, per modo di fimi , di
Telatura? On* de l'Angelo fi fa tutto bello. Que fio è l'amo
te, ff) la Venere celtfìe, celebrata nel fimpofio, neìloratione di
Paufitnia . c Per - c/0 /0 «0» poffo non mi marauigltare di cer ti
per altro h uomini , Sgrani ft) grandi iquali dicono , che l'amore e
cagione della per fettone della bellezza . Imperoche , fi l'amore e
appetito , fjfi defiderio ; la bellez? za, e appetita , ft) defiderata,e
necejfirio, che la bellezza anteceda all'amore , ante - tecedendo
l'appetibile all'appetito ■. (orno adunque dona l'amore la per fettone
alla, bellezza dicono ancora co fioro , che la bef * ' 2 ?
tiij 6 L 1 *B X. 0 lez&a e cagione materiale dell'amore
y la- qualcofa e piu marauighofaimperocbe la bellezza muoue , come
cofa amata , ff) de* fiderata, come ancora muoue l'appetibile , ft)
l'intelligibile , ft) fino cagione come fi ne, non come materia . llche
apertamente afferma zAnfiotile nel undecimo libro del le co fi
diurne , ft) il diuin Platone nelfiflo della %epublica . Tsle però fi può
dire an- cora interamente perfetto l'angelo . Im - , Per oche
l'ultima per fedone di ciafiuno è la pofi fione di effo Dio , fecondo che
a fi e pofiibile : Uguale da neffuno e poffeduto con parte di fi-,
ma con tutto fi . Onde Id- dio non può effer compre fi ne per
l'intellet- to, ne per la uolontà, fendo l' tino, come l'al- tra,
par te deli' Angelo, {fi non tutto l'Ange lo . adunque l'ultima fùa per
fettone, e la coniuntione di tutto fi con effo Dio , alla- gale
procede per necefsità uno intentai - -u - mo P M 0. si
mo appetito . Quefìo è l'amore tanto e fai- tato nel Stmpo fio, nell' or
aitane di Agatone; llquale è beat if imo, fendo la cagione della
felicità ,e ottimo , congiugnedo la creatura con Dio , che è ejfa bontà
,e gtouanijsimo di tutti gli altri Dtj ; perche è t ultima co fi ,
che riafca nebtzAngelo . 'Ter la qual cofa ‘Dionifio Areopagita dice ,
che l'amore è un circolo fempiterno dal bene nel bene al bene,
fìgnificando tre fpetie d'appetiti, nel- l'angelo da noi dichiarati di
fopra : uno fùbito , che l'efentia dell' (^Angelo procede da Dio ,
pel quale l'Angelo produce la pri- ma operat ione, cioè, la ulta; tintali
ro, che fi gue nell'Angelo fubtto , che è difhnto nelle Idee,oue
rifflende la prima bellezz&*£t que fio e proprio Amore,cioè dtftdeno
della bel lezx&.Wl terzo è quello appetito , che con • duce
l'zAngclo alla comunione d'effo Dto> della cui pofftpone acquifìa la
fua felicità. O me l'Angelo proee* de da effo Dio, co/i l'ani
feguito principalmente , cioè *7 orfino ft) zAmeho.Qutfìa
incomincia a riceuer mol mudine y tmper oche fèndo principio del
mo- to come pruoua tldiuin Alatone nel deci- mo libro delle leggi ,
fg) il moto feguitando SS , ' . ' ' «v
S9 l infinito , è neceffario in efjd comma a re- gnare l'tn finito
. A cjuejìo fieguita la molti* tudme 9 come per fiua natura inde
termi* nata . Et però la prima molttplicatione di fiuHantta , quafi
fitto un medefimo pene* re 9 incomincia a effer nell'anima. Sono
adunque le anime , che procedono dallan * gelo molte . Conctofia che
l'Angelo non fia finon uno 9 nondimeno fino tutte compre fi fiotto
quella commune anima , le qua li fi - no differenti luna dall'altra ,
fecondo ,che piu fi appropinquano , o piu fono lontane da quello ,
da chi procedono : il capo 9 guida di tutte è l'anima mondana t da
chi procede tutto quefto corpo utfìbile , che noi chiamiamo mondo ,
o uuoi ùniuerfò . Sot - to la prima anima fono dodici anime prtn
cip ah, lequah finoprepofìe a dodici parti principali dell'uniuerfe cioè
, a otto sfere ce - kfli 9 quattro elementi 9 ft) perche eia .
60 L 1 B 7^0 y cuna anima ha due parti , come dimoflra
Platone nel Timeo ; una , per lacuale è fi- mtle all'angelo , da chi
procede ; l'altra perche e fimile al corpo , tlquale produce ; per
queflo ha finito due nomi , per l y uno de quali e figmfìcat a la
inclmatione al pro- durre , (fi reggere d corpo ; per l'altro , la
tnchnatione alle cofi diurne . Orfeo adun- que (fi i fuoi figuaci
chiamano l'anima della terra, Plutone, (fi r Profirpina:l'ani ma
dell'acqua , Oceano , ffi Theti : del- l'aria , Cjioue fulminatore , ffi
Giunone: del fuoco, Faneta, ffi Aurora : della sfe- ra Lunare
‘Bacco Lichinto , ffi Thalia ; del file, Bacco Sileno ffi Euterpe ; di
Mer- curio, Bacco Lifio , ffi Prato : di Venere, Bacco Trietarico,
ffi Melpomeneidi Mar te , Bacco Bajjareo , ffi Cito : di Gtoue ,
Bacco Sabafio , ffi Tberfìcore : di Satur- no Bacco Anfiareo , ffi
Polinnia : de l'ul- tima 6i tima sfera Bacco Pcriciomo , g)
Franta: Bacco cnbromio g) Calliope di tutto l'uni uerfo . One , e
da notare , che a ciafiuna Mufa , è propoflo un Bacco per figmfica-
re , che la parte dell' anima, che melma al corpo, è retta da quella, che
partecipa del- la mtelligentia , inquanto per tale partici -
pationee fatta ehria del diurno detta- re . zAlle noue<iZMufi li
antiqui Theologi prepofono un'Apollo, lignificando le otto anime ,
d'otto sfere celcfii,g) l'anima del- lumuerfo, chiamata Calliope , ejjer
mini- fi r a della diurna mtelligentia , laquale efii chiamorono
apollo ; noi al preferite chiamiamo Angelo . ^Non farà forfè fluo-
ri di propofito riferire una maramghofit opinione circa il numero , g)
l'ordtne del- l anime intellettuali , la quale fi può attri- buire
a gli antichi Theologi . ( I^ot ueggia- mo il numero duodenario batter
grande 62 L r <B HO automa nell'uniuerfb , di che
facciamo coniettura per ejjtre dodici parti principa- li in ejfo ,
cioè dodici sfere . Oltre a quefto 1 ueggiamo Uno bili filma sfera effir
dtfìin - j ta m dodici figni , onde ragionevolmente habbtamo
a concludere ogni altra sfera ef fer ordinata , ft) diftrtbuta nel mede
fimo modo, mafiime e (fendo in ogni sfera U na* tura del tutto ,
come accenna Platone nel Timeo : ma di quefto altroue piu dijf ufi-
mente parleremo , oue dimoieremo , che tffendo l'uniucrfì compoflo , ft)
retto dal- la ragione Harmonica , e neceffirio , che fa ordinato
fecondo il numero duodenario, radice dell'armonia di diapafon,
fappiamo ancora , che'l numero fobico dice plenitu- dine , ff)
firmità ; ft) pero quando il m- • mero procede nel fio Cubo,eJphca tutta
la ua per fettone • Il cubo , e quando un nu- mero
multiphcato m fe medefimo di nuouo fi multi * %
1 M 0. 63 fimultiplica per fi . V irbigratia noi chia- miamo
il dua numero lineare , perche ha fimilitudme con la linea . Se tu
multiplichi tl dua in fi mede fimo ,fi fa il quattro , ti (juale ha
fìmilit udine con la fuperficie . Se tu di nuouo moltiplichi il quattro
per dua fifa otto tlquale ha fimilitudme col corpo, piu la non ua
la multtp Ite ut ione, come con- tenta di tre termini longitudine ,
latitudt- ne * {0 altitudine , ftf per ejuefio il cubo è ultimo
proce fio y per fettone de Inume- rò. Quefi a procefiione e
Pitagorici diurna- mente accommodano alle fufiantie cofifi - par
ate y ff) eterne , come corporali , ff) ca- duche y come altrouemofir
eremo , Adun- que il duodenario , tlquale e il primo nume ro
fecondo , compofìo di dua finarij fiqua- le e tl primo numero perfetto 9
procedendo nella fuperficie y ft) nel fuo cubo fa il nu- mero osìd.
T>CC. XXVlll ilqual nume 64 1 *B KO * ro contiene
tutta la plenitudine , fp firmi- la , c/tf procede dal duodenario .
Qualcu- no adunque fondato in fu quefto> forfi po- trà credere
ejfiere dodici anime nell'umuer- fo, quafi dodici principi) , come è
detto • Sotto ciaf una ejfir e dodici altre anime, delle quali ciaf
una habbia /otto fi dodici legioni d'anime piu particolari . In
modo che il numero crefie fino alla fimma di A4. D C C. XXV III.
legioni , in ciafiuna delle quali fia tanto numero d'anime , quante
[Ielle fino nell' ultima sfera. 4 A£e debba parere frano tanto numero
d'ani- me y quando ff) T)aniel profeta dice mi- gliaia delle
migliaia erano fìioi mini fri. fommunque e fia , tutta la
moltitudine delle anime ha per guida , ff) capo la ani- ma del
mondo prefantifiima , diuimf fima di tutte le altre .
... ’ c^nima degenerando dall' Angelo , da chi
proce- de, inclina alla natura del corpo y qual produce ;
nondt- manco non degenera dall'angelo tanto 9 che ejpt non rifirui
delle condittoni diuine ; ne inclina tanto al corpo , che effa al
tutto partecipi delle [òr de matertaliSPer laqual co/a pofta in
mezzo dell' una, fp) dell altra natura y ncn dimette la cura , ffi) il
minifte- rio del corpo : q) gode le delilie del mondo
intelligibile, Onde meritamente è detta no- do dell'uniuerfi. Et per
quefto ilduttn Pia tone nel Timeo compofi l'anima di fitte nu meri,
in modo che pofta l'unità da ciafiu- no de iati , ne fegutti tre numeri ;
cioè dal- l'uno de lati il proce fio infino al primo cubo de numeri
pari . T> alt altro ilprocefti in - — 4 E Vi
*6 .OLQ/^3! X 0 5L 4/ primo cubo de numeri impari . Si 4/4
cg«/ /dta fino termini quattro , {fi tre inter uaìli , per (lenificare
nella natura dell'anima ejjer dua propietà : l' una, per- che effa
fi congiugne fempre all'angelo, -{fi quefìa è denotata per gli numeri
im- pari : l'altra , perche ejfa produce il corpo, denotata per li
numeri pari, {fi tana, {fi l'altra è dif finita pel quattro. Et però
noi pofiiamo dire la quatrmità efjir uer amen- te l'Idea della
perfetione ; non filo perche marauigliofàmente contiene il dieci;
ilqua- le fendo tutto tl numerose Ptttagorici chia- morno Cielo ,
{fi umuerfi . Ilche ancora fignificorono li antichi Theologi ofiuramen
te,quando a noue mufe prepofino un' Apoi -lo . *ZMa ancora perche quando
fi procede nel cubo fignificato pel quattro , fi mene ^all'ultimo
termino della proctfiione;ne fi può procedere piu oltre . Onde in ogni
natu - rapel Cubo efignificata l'ultima perfetto- ne di
ciafi uno .‘Non e adunq; marauiglia , fi e Pittagor tci(come dice
Teone)giuraua- no per colute he dona all'anima noflra la Quatrinità
y fontana della natura , che e tmperpetuo flufjo ; Imperoche quefto non
è altroché giurare y per colui, cioè per Pitta gora ; ilquale h
abbia trouata L'anima e fe- re diffimta per la quatrinità,cioe dalla
po tenda dell' intendere, dalla ragionerai fin fi , dalla ueget
attua . Dalle quali potentie l'anima, che fi muouefimpre : fifa
perfet- ta. L'anima adunque produce il corpo ;ma pel mezo d'uno in
frumento proprio y ilqual chiama grande fiminario y o uuoi natura *
. o uuoi anima feconda ; laquale dall'ani- ma prima , è fatta
grauida de fimi di tut- te le cofi y che hanno a effire prodotte nella
materia. Da quefto grande fiminario pen de tffa materia : laquale è
imperfettifiima . , ~ È ij 6S L I 2 TfO di tutte
le cofe fendo mafimamente diflan te da effo Dio autore d'ogm per fettone
; la- quale , "Plotino chiama principio di tutti i mali , co[t
nell'umuerfi, come nell'anima noflra . "Pendono ancora dal medefimo
fe- minario procefiiom de femt qua fi razzi dal lume Squali non mai
fino fèp arate dal- la materia , anzi fino fimpre congiunte fi- co
. "Noi le chiameremo e femi delle cofe . La prefintia de ' quali
nella materia affilue la generatone : quando accompagnati da lo
affetto dell'anima feconda , moffo dalla prima anima h fanno termine nel
compofìo \ naturale . Imperoche il compofìo non e al- tro , che il
fime , che pende dall'anima fe- conda f q) la materia , in modo intra
fi uniti , che defii fi faccia uno . Quefto for- fè e à Chaos
dzAnaffdgora , di finto dal- l'affetto dell'anima feconda , ilquale
pende dalt anima prima , rat tonale f uer a pa- drona
SECONDO. 69 drona della gener attorie. Di qui fi può uedere
il fondamento di coloro , che affer - , mano tutte le cofe qualche uolta
tornare quelle mede (irne. Laquale opinione benché paia molto
aliena da zA riftottle : mafiime nel fine delfecodo libro della
Generazione 9 ft) corruzione ; nondimanco noi Jperiamo dimoftrare
ejfirhconfenttentifiima. Ma per tornare alla co fa noftrafendo nell'
ani- ma fecondo efemi delle cofe , uere cjprefìont delle Idee, ft)
per que fio fendo accompa- gnati da una bellezza, che ìtale a fimi
, quale e la prima bellezza alle Idee , e necef fario s'accenda in
effa uno appetito ,ff) uno defideriodi quella bellezza ; ilquale
inco- minciando dalla cognitione, ft) non poten- do fare la
fimilitudme di que da bellezza» di dentro a fejransferifee nella materia
la par ticipat ione delle Idee , alle quali feguita quefea gratta ,
que fi a elegantia, quale noi E lij io Litico V.
Aleggiamo nel corpo mondano uer amento •figliuola dell' timore . Et pero
Plotino di - ce, che tutte le co/e fino teoremi >quafì pro-
tedino dalla contemplatine, hauendo prin tipio dalla cognttione di quella
anima . Quella bellezza, che e nell'anima feconda , * et quello
appetito , che fi accende in e/fa e lo Amore la Zienere uulgare nel
fimpofio riferita da Paufama, laquale è detta figli- uola di
(fioue, {fi di Dione; perche pende dall' anima prima,ffi rationale,
laquale è detta Gioue, dalla feconda , ratina- le , laquale
ha commertio con la materia i L Cielo, o uuoi tuni- uerfi è uno ,
procedendo da una anima, ft) fendo fatto a fimilitudme di un
mondi) intelligibile -, ilquale noi dtfipra habbiamo
chiamato S E V P 2 \£ 27 0. chiamato
Angelo ; ffi) pero Democrito * ft) Leuctppo non meritano d'effere uditi
, ujuali pofono mondi infiniti . o^irtfiotik pruoua che'l mondo è
uno: perche egli è fot to di tutta la fua materia : ffi) Alatone
proua , che'l mondo è uno fendo fatto a fimtlitudine d'uno efemplare .
W<?i hab± btamo nella r Parafrafì noftra /opra il cie- lo
hreuemtnte dichiarato , ffi) altroue dif- fufamente dichiareremo in che
modo della unità del mondo fia la medefìma opinione dell'uno , ft)
dell'altro filo fio fo , e il mondo non filo uno, ma ancora ingenito ,
ft) incor r unibile, fe noi crediamo ad Ariftotile . Al diuin
Platone piace il mondo fempr e effe- re fiato, et fempre douere effiere :
nondime- no hauere cagione da cui penda , cioè dal- l'anima
diuimfitma, principio della natu- ra corporale . Et pero habbiamo da
dire effer tre principali fu ftantie, lecitali uera- E
mj 72 L 1 <B 7^ 0 ? mente hanno natura di principio
: cioè Id- èo, l'Angelo, l'anima diuinifiima . Iddio è autore
dell'unità in tutte le cofi , l'Angelo della permanenza , l'anima del
moto: ft) quefia è la fintentia di Plotino, ft) di Por fino; benché
Siriano, ffi Proclo altrtmen ti procedmo . Sono fiati ale unicorne
^lu- tar co, ft) Seuero, iquah hanno affermato, fecondo Platone il
mondo effere incomincia to qualche uolta , ft) qualche uolta douere
finire; ft) per quefto hanno detto filo effèr dua prmcipij di tutte le
cofi, cioè la mate - ria , ft) Dio , non pendendo la materia da
*Dio , ne Dio dalla materia . In modo che Iddio fia al tutto finza
materia , ft) fim- plice;la materia fia al tutto eterna, ft) fin
zci participatione di Dio , ma quefta oppi- none (come è conueniente )
non è ammejja dalli altri Platonici . Le parti principali del mondo
fino otto sfere celefii, ft) quat- . tro eie- SECO 5
SI DO. 7 ^ tro elementi . T>e!le quali le sfere celefli fi- no
nobihfiime. llche dmoflra la magnitu- dine loro e'I / ito , l'ordine ,
e'I moto , il lu- me. Plotino uuole che il Cielo Jia fuoco, ffi) c
. "Piatone nel Timeo uuole ,che il mondo Jia compofto di quattro
corpi , Fuoco , Terra t Aere , ff) oAcqua , in modo , che da que :
fio nome fuoco fino comprefi i corpi celeftu os4riftottle s'ingegna
dimofirare , che il Cielo non e fuoco . lmperoche il fuoco , co- me
ejjo dice , p muoue naturalmente in - uerfi la cir cunferentia,p
artendofi dal cen- tro. &l corpo celeftenon fi muoue di moto
retto partendofi dal centro, ma di moto anulare , ilquale moto [i fa
intorno al Centro , pero il Cielo non è fuoco, altri- menti
bifignerebbe dire y che il Cielo barn fi fi dua moti naturali ; uno per
ilquale fi muoue intorno al centro , che e ilctr calare: l'altro ,
per ilquale fi parte dal centro , ff) 74 L IV Z 0 - "
ua alla circunferentia , che è moto retto ,* Lacuale co fa pare habbia
per imponibi- le- Quefla ragione facilmente foluono Pio- tino ,
‘Proclo . Ilche breuemente nella no fra c Parafaf f opra il Qelo
habbiamó tocco y fé) altroue piu diffuf amente dichia- reremo y
mofìrando , che altro è muouerfi nel proprio luogo , ft) fecondo la fua
natu- ra : altro e , fndo fuori del proprio luogo , ritornare ad
cjfo > ff) nella fua naturaro- no alcuni , che dubitano y fe le felle
hanno moto proprio . Platone dice nello Spinomi- de y che le lidie
fono animali ignei ; ft) nel Timeo y che le lidie fi muouono intorno
al proprto centro . È piu de Peripatetici op- pongono zAriflotile
cjuafì uogliayche le jlel le fieno continue col Cielo ; ma piu denje
; ff) però non hauere altro moto , che quel- lo della fua sfera .
^oi diciamo z^riflott- le non hauer mai quefo affermato . ^a
'7f quando duce le
fteUee/Jere della medefima ] fuftantia , di che è il Cielo ; intendere
effe effire della medefima natura , cioè ignee ; fffi quando dice
le sielle effire mfijfie nella sfera ; non fignificare pero efftr
continue , ma che non mutano luogo fecondo il tutto ; ft) pero
apparire effire tnfiffi ; perche fi muouono circa il proprio centro . In
fom- ma le sfere celefh , ft) le Belle effire di na- tura ignea ,
hauere proprij moti , è ma - mfeflifiimo appreffio Platone . ‘Nelle
sfere celefh fin due moti , uno da Oriente 3 m oc- cidente, tlquale
‘Platone chiama moto del la fapientia , q) della identità . L'altro
da Occidente in Oriente chiamato moto della diuerfità . Quefio , è delle
sfere erra- tiche : quello del fermamento ; ilquale in- ulta la intclligentia
dell'anima diuintfii- ma , di chi è tmagtne . Quello, è chiama- to
deBro , e quello fimfiro. L'uno, 7 fi L I % 7^0 |
.l'altro fanno la generatone, la cor r- ruttone;Quello del
fermamente fa che firn pre fia ejja generattone , ff) corrutione ,
come dichiara o Ariflotik . Et pero t Pitta - gorici affermarono ff)
ildeflro , ft) il fini • fìro efier nel numero de' principi] pendere
« do dal moto del fermamente, ffi) delle sfe - '] re
erratiche tutta la generatone . L Moto da Occiden- te
in Oriente , chiamato da ‘ Platone moto di diuerfità proprio delle
sfere erratiche autore della generatone , come è detto , è diuifiin
fitte, Imper oche ogni sfera ha il fuo moto . di tutti è uelocifiimo il
mote della sfera di Saturno di tutti è tardifiimo il mo to della
Luna . Sono alcuni , uguali affer - mono Arifiotile fintire il contrario,
quale 77 uogha
il moto di Saturno e [fere tardiamo determinando fi longhfimo tempo
perla fiia fpeditione . ‘Ter contrario il moto del- la Luna effer
uelocftmo deter minandofi breuftmo tempo. Tsfoi crediamo e far fen-
tentia d'o^lr ifìotile le sfere fàpertorimo- uerji piu uelocemente,che le
inferiori . Im- peroche la magnitudine , che debba effer trapaffata
dalla sfera di Saturno s fuper a molto piu la magnitudine , che debba
effe- re trapaffata dalla sfera della Luna , che il tempo , che fi
dttermina Saturno per il fuo moto , non fitpera quello , che fi
deter- mina la luna . Quello è uno de gli errori , che Platone
imputa a greci (come è detto ) nel fettimo delle leggi , cioè credere il
moto di Saturno effer tar difimo fra i pianeti , fendo ueloc fimo,
può fi ancora r acorre de comentarij di ‘Porfirio J opra il Timeo e
Pittagorici affermare il moto di Saturno 7S .L IV 7^0 \
effer ueloci filmo, ff) riflotile ancora dice nelle quefiioni
meteorologiche il moto della Luna non fare accenfìone nell'aere
fendo tardo , ft) pigro : ilche fa il moto del file per la uelocità
, ff) uicimtà . Credono i Pi- tagorici , ff) Platone il Cielo fendo
imagi* ne dell'anima efjir e dige fio fecondo la ra- gione armonica
; L'anima, fecondo che pia ce a Timeo Pitagorico, pigliando le
duple, ff) le triple con le fifquialtere, g) fiper ter ite , fuper
ottaue , ff) fimitomi è digefla in trcntafei termini. Il primo di tutti è
il nu- mero trecento ottantaquattro . La fomma di tutto il numero ,
e cento quattordici mi- gliaia , ff) fecento nouanta cinque unità.
'JSfelquat numero è contenuta tutta la ra- gione Armonica . Sendo adunque
le sfere celefh in modo coerenti fa fesche facilmen te paiono piu tofio
continue , che contigue tanto fono pulite , ftfi coequate ; ft) mo?
uendofi uendofi uelocifiimamente non dubitano
af fermare ; da loro mandarfì fiora un fuo- no di tanta gratta ,
quale fta conueniente a fi nobtl corpo y come e il Cielo ,
Imperoche il fuono fi genera del moto di dua corpi,, che
uelocemente mouendofi f tocchino . Il moto piu ueloce genera il Juono piu
acuto ; e*l moto piu tardo genera il fuono piu grane \ ff) pero il
moto del fermamepto generati fuono acutifeimoye'lmoto della Luna
grauifeimo , ff} perche i moti delle 6 fere fino digeftt, fecondo la
medefìma ra- gione harmonica , come fino ancora i loro interualli ;
fecondo laqualcfe digefla l'ani- ma : e neceffario , che tali fuoni proc
eden? do da moti armonici in modo confinano fa fi , che di tutti fi
confi itmfea una ar r montagna melodia di gran lunga piu fua ue ,
che quella , che noi pofeiamo compren? dere con le orechie elementari
> Et perotl 80 L 1 <B 7{0 dtuin Platone nel decimo
libro della 7{epti blica dice , che ctafc una sftra celefte ha fi-
co congiunta la fua Sirena , laquale canta il fio tuono . Dequah fi fa
una armonia . e Pittatomi affermorno il Cielo eff re la li ra di
T>io: a quali acconfentifcono Aleffan dro eJ "Milefìo , ft)
Eratoflene . . . * #vi v , , • • . ,r*
/r a bi l e bellezza nafcc nel corpo modano dalla unto
ne, per laquale cofe tanto diuer(i,ff) fi contrarie,
co- me fono nel mondo , fatte fra (e amiche, con ftitui
fono un grande animale . £ fegliè lecito comparare le cofe grandi
alle piccole, il mondo è ftmile a l'huomo ; Il fuoco , la
terr a, l'aria , l'acqua hanno fmilitudme con la collera y
con la malinconia , col fin - * gue,con sz gue , conia flemma ; della retta
mifttone, de quali fi fati temperamento radice della finità y cofi
a l'huomo , come al mondo . Il fermamento fi può chiamare il capo di
que fio grande animale , alquale un numero * quafi innumer abile di
fielle come occhi fui genttfiimi fino grandifitmo ornamento . £
‘Tittagorici affermano le fielle penetra- re col fio lume nel centro del
mondo : dout pel concorfi di tanta moltitudine di raggi uoghono
accender fi unfuoco eterno quafi cele filale . c Al firmamento , come
capo , obbedtfiono i pianeti : in fi a quali il Sole ha
fimilitudine del cuore , e fontana della uita . ^Marauighofamente eccede
il Sole tutte l' altre fielle , non filo di magnitudi- ne y ma
ancora di potentia , ff) di uirtu ; la qual cofi dtmoftra la copta del
lume . (fili antichi Theologi affcrmomo , laGiu- fiuta , laquaky
come Regina, ordmaydriz- -82 JSlpXQ V qi , regge
l'umuerjo, per tutto procederi dal mezo del trono del Sole. zs4riftotile
at- trtbuifie tutta la generatone al Sole , ft) atta Luna ; lacuale
, come dice Hipparco è neramente uno Jpecchio del Sole rifletten do
a noi il lume , Uguale ejja da lui pren - • de. (fiiambhco , {$) Giuliano
Imperatore confhtuifiano nel Sole tutti lifDij de (gen- tili . Et
^Plotino affermagli antichi haue- re adorato il Sole > come Iddio. Confideri
la muc chi dubita il Sole effer preftantif fimo di tutte l 1 altre flette
; oue ancora ciò che e di lume , e per beneficio del Sole . Gio-
ueconla fita beneficentia , peonia fua equità raprefinta il fegato, dal
quale il nu trimenioìfommmt firato a tutto il corpo ; onde da
gliaftrologi , è chiamato la prin- cipale dette grafie celefti ; da «J
/Marte , qua- fi amaritudine del fiele , e ridotta al tem-
peramento la dulcedtne di (filone . V mere. 'I T SECO
X D 0 . 83 ft) la Luna , fendo miniflre della genera - tione per
cagione della uirtu humida , che regna in effe , hanno proportene col
feme, ft) con i membri genitali : chi confiderà la deferita , ft)
prontitudme di J Mercurio forfè non dubiterà a/fomigliarlo alla
lin- gua : per tu fido dellaquale noi facciamo note le intime
noflre cogit adoni . èt pero li antichi meritamente attribuirono a t jue
- fio Dio il patrocinio dettelo (juentta. lAt* tribuifcono ancora a
Saturno il dono del lintelhgentia , ft) però chi ajfermaffe Sa-
turno effer e in luogo di reni, forfè non fa- rebbe lontano daluero .
lmperoche cjuefìi fendo aridiflimi , efpurgano lo spirito di ogni
cahgmofo uapore . Onde effo , e fatto atttfimo mflrumento della
inteUtgentta : non è dubbio ancora effere un tenuifimo , ft)
luddismo Vehtcolo della uita , fg) del fenfi corre /fondente alt elemento
delle fiel v . . o . f jj u L IB \0 le : per
Uguale , come per competente me- zo y l'anima consunta al corpo
elementa- re y lo fa partecipe de doni della aita . zA queflo è
Jtmile quel fuoco dimmfitmo , il quale e fimpre per tutto diffufi ;
ripieno della uirtìi dell'anima regia, fecondo affer- ma Cjiambhco
, ff) (giuliano Imperatore , ilquale da ziatone nel Fedro e
chiamato il carro alato del gran Cjioue . Aderita- mente adunque
fendo l'huomo belhfitmo di tutte le cofe , che fino in terra : ff)
effen- do fintile al mondo y tn modo che e fio e chia mato piccolo
mondoy h abbiamo affermare il mondo , quafi un grande huomo , effr
belhfitmo di tutte le cofi fenfibtlu *Noi hab • biamo dichiarato fino a
qui la bellezza efi fere una gratta , un fiore , uno splendore
della bontà ; ft) l'amore non ejjere altroy che uno intenfi de fiderio di
fruire , ft) di •fingere la bellezza . Riabbiamo ancora dichiarato eftere
àua bellezze : una prima , ft) diurna , laquale, feguita all' Idee
chia- mata Venere celefte ; d'altra feconda , ft) naturale ,
laquale e nell'anima feconda, o uuoi grande femmario detta Venere uol-
gare , fé) commune , ft) pero eftere duoi amori . Vno circa la bellezza
celefte , ft) diurna : detto diurno e celefte : l'altro circa la
bellezza feconda , ft) naturale , detto amore commune yfft) uolgare.Sendo
adun- que l'amore diurno circa la diurna btttezz za ; ft)
effìngendo efta , è necejjario ejjere in mezzo di due bellezze > una
prima , ft) impar.ticipata , laquale fendo appetibile , antecede
all'appetito amat or io)' altra non prima , ft) partictpata , cioè quella
prole . bella y laquale l'amore diurno effìngeneL l'angelo per modo
feminale , ft) di natu- ra a ftmilittidine della prima bellezza s
ft) imparticipata , ft) quefta non antecede, : ^ > f
$ SS L IH 2 io ma fegmta all'amore . L'una, {0 l'altra
chiameremo Venere celefle. Medeftma- mente quella bellezza, che è nel
gran (emi- nario antecede all'amore uulgare . La beL lezz& .*
che e nel corpo mondano figuita ad tfio y in modo che ancora lo amore
uolga - re yl collocato nel mezzo di dua bellezze ,
dellequaltl'unae fine dell'amore uolgare, l'altra e prole ; {0 però ancora
ciafiuna di quelle può efier chiamata Venere uoL gare . Oue è da
notare la prima bellezza , che antecede all'amore ejfiere nell
Angelo per modo fpett abile ; la feconda cioè quel- la y che è
prole dell'amore efier per modo (e- minale . TSJel grande fiminario per
con- trario , perche la bellezza 9 che antecede all'amore uolgarey
e meffo per modo di fi- . mt:queUa y the figuita, cioè la bellezza che
è nel corpo mondano prole dell'amore , e per modoffett abile. Onde
la prima, {0 ultima bellezza SECONDO, st
bellezza fino in quefto fimilt,che l'una,q} l'altra, è obietto della
potentia utftuaique- fi a della corporale ; quella incorporale ,
ft) intellettuale , ft) pero non è mar auiglia, fi dalla bellezza
finfibile fiamo eccitati alla bellezza intelligibile. E ancora da
inten- dere non filo la bellezza dell'angelo , ma quella dell anima
diuina efier lignificata per quefio nome Venere cele fi e:
parimente l'amore ; che nafie di tale fpett acolo, nel* 1 anima
diurna effer figmficato per lo amo- re celefie . lmperocbe , fèndo nell
anima la uera participatione delle Idee , e neceffario ancora in
ejfa fia la uera participatione della bellezza, ft) dell amor e, come
ancora in ejfa è la uera participatione della uita , ftj dello
intelletto . adunque nell'anima diuina fino dua amori, fjfidua
bellezza* Vna uera participatione della bellezze* Ideale detta V
mere celefie . L'altra detta a*v*V> ss : L 17t Jt
o • V Venere uolgare > hauendo commertio con la materia,
zsélla bellezza uolgare e inten- to l'amore uolgare . Alia bellezza
celejle , è intento l'amore celcfìe , ffi) fermezza deffa alla
prima , ft) uera bellezza.!} aL la cui contemplatone s'afiende al
capo,{t) principio di tutto l'uniuerfo , la cut bellezj za y filo
per uaticinto fi può comprendere , trapalando tutta la f acuità del
conofcere d infinito inter uaRo. ^Qr. ài- * L D l v in
‘"Piatone dice nel Timeo t anima noflra effere Hata creata nel
mede fimo cratere, quale fu crea- ta l'anima mondana delle reliquie
de me - defimi generi; uokndofigmficare l'anima nojlra hauere
proprietà , ft) potente fi- mili SECO 2\£ ZX 0.
^ mili alt anima mondana >{t) alt altre anu me diurne } ma in un
certo modo piu impera fetto. Quefto uuolefegntficare che t anima
nojlra , benché habbta le medefeme uirtà; nondimanconon opera nel
medefimo mo- do: perche intenta alla gener adone , ff) cura del
corpo caduco , dimette la contem- platane della uera bellezza. Per
contrario intenta alla uerità intelligibile dimette la cura della
gener adone ; fp) cjueflo aduiene ragioneuolmente . Imperoche non
potendo adempire infieme tuno , ff) l'altro uficio , enecefeario la
efeedidone dell'uno fìaac- • compagnata dalla dtmefeione dell'altro
, quando e intenta alla gener adone , fi dice difeendere , quando e
intenta alla contem- platane yfi dice afeendere ; non perche l'ani-
ma afeenda, o difeenda fecondo il cojìume de corpi . Imperoche fendo
ejfentia fepara - bile y ft) non pardeipando dicondidone aU
?o L I *B ^ 0 cuna corporale , fecondo che piace a tr Pla-
tone , ffe) adzAnflotiU, ma di fuori ft an- dò , è al tutto afioluta
dalla natura del luogo , alcjuale filo è obligato il corpo ; di cui
è proprio il fetlire ff) lo feendere ; ma diciamo afcendere > ft)
difendere m que- llo modo . Le cofe diurne y feno prefenti fe-
condo y cheefee oprano . lmperoche noi di- ciamo la dimnità ejfere in
cielo , o in terra fecondo che efea opera in Cielo , o in terra .
£t altrimenti non puòefeere determinata^ mente in luogo alcuno . Della
operatone , e principio l'affetto , corne e manifefeo\chi è quello
9 che operafei in alcun modo , fe prima non fujfe moffo da uno a : ffetto
an- tecedente? que fio affetto non e altro che un defederio d'operare
, tlquale pendendo dal’ la fognatone e principio
dell'operatione.Pri ma concepe Ftdia la forma della fica ^Mi- nerua
, dipoi defederà di produrla , o nel marmo S E C 0
TSfD 0. pi marmo , o mi ramo , dipoi la produce . Se non
haueffe defiderio di produrla y non mai la produrrebbe , ff) fi prima non
conce - pejfi la fua forma , non mai dtftdereb- be di produrla .
^Adunque la cognttione è principio dell'affetto , ffi) l'affetto dell*
ope- ratane ; fff pero alatone dice nel Timeo , che l'opefice del
mondo fece tante forme nel mondo , quante hauca uedute la men- te
nel trnente , per lignificare la produzio- ne del mondo pendere dalla
cogmtione , in fra lequali , come fra due efiremi y e mezz ZP tl
defiderio di produrre . Sendo adun- que l'anima no fra nel numero delle
cofi diurne , diremo effer e prefinte oue effa ope- ra ; ft)
operare , oue effa e tratta dallo af- fetto , g •) defiderio d'operare .
llquale af- fetto pende dalla cognitione . Imperoche glie
impofiibile noi hauere defiderio d'ope- rare quello , che al tutto c'è
nafioflo . ‘Ter 92 LIBICO lagnai co fa , quando l'anima
nojlra con - * cepe la uita ftnfibde ; ft) la gener adone 5 ft)
hauendo affetto a effa la produce , ft) efphca ; noi diciamo l'anima
dcfccndere . , Jmperochela natura mortale oue effa ope- ra, e V
infimo dell' uniuerfò: Ada quando <• effa concepe la tuta de gli
T>ij, ft) la ulta intelligibile lontana da ogni moleflia , ft)
ùgnytriflitia , ft) con l'affetto l'efplica, dir ciamo afendere , fèndo
gli c Dij. il fupremo \detl' unmtrfo . ‘Rettamente adunque dice
^Porfirio nel primo libro. DeU'aftinentia de gl' ammali , f noi defi deri
amo ritorna rea quello , che è proprio nofìro , f) alla ulta degli
T>ij , effer di bifigno , noi al tut- to diporre qualunque cofà
habbiamo pre/o dalla ^Natura mortale infieme con t affet- to
decimante ad effa , quafi non per altro defeenda , 0 afenda l'anima no
fra, che per Iq affetto. ^Tiace al dtuin r 'Platone ,ft)
Plotino l'anima noftra , quando uiue con la uita intelligibile,
ffe) degli Dij : conferi- re tanto grado di degnitd , che fatta
colle- ga dell'anima mondana infieme fico reg- ga tutto il fato ,
ffe) la generatone . Viue aUhora con la uita de gli Dij , quando ri-
dotta ne peniitfeimi tefeori della feua effen- tia , ft) di quindi nell
amemfeimo Tarato della uerità intelligibile , contempla effa lu-
Jìitia , efea bellezza , effa bontà ; Oue in- tendendo tutta la TSjatura
di quello , che è uer amente , fp) non folo intende tutte le cofe ,
che di quindi procedono , ffe) tutti e gradi della procefeione mfeno
all'ultima materia ; ma ancora confeguentemente ope ra fecondohe
effa intende . Onde merita * mente è detta collega dell'anima
monda- na , laquale hauendo mteUigentia^ffe) prò - uidentta
uniuerfale , e principio del Cielo ; ffe) di tutta la generatione . Onde
Telato- . 94 L I V 7^0 rie nel Filebo dice in Cjioue
cffere intelletto ft) regia anima, fignifìcando come nettuni ma
mondana è intedigentia, ft) prouiden- tia mtuerfale ; cofi ancora effer
ulta ft) principio uniuerfale di produrr e, ma quan- do effa
declina adageneratione, ft) al cor- po mortale, dimettendo la
intedigentia uni verfitle , ft) però fendo oppreffa dall' obli- vione
delle cofe diurne, attende alla fabrica di quello , che offerendo fi adì
occhi noflri) chiamato da gli ignoranti huomo , fèndo piu tofto
imagine, ft) ombra d*huomo;che vero huomo . Queda dimeffione, ft)
queda oblivione) lignificata dal dtuin ‘Telatone, nel decimo libro
deda 'Rgpub. quando dice 9 che l' anime, che difiendono nella
genera- tone beono dell'acqua del fiume Amelita ft) pervengono nel
campo leteo. lmperoche Amelita fignifica negligenza , ft) leteo li-
gnifica oblivione. T^ondimeno non gli è negato la uta di patere tornare alla
ulta in- telligibile ,/e feparandoftdal {enfi eccita il lume della
ragione ,per laquale finalmente tifando per inflr amento la bellezza
corpo- rale , e reuocata in ejja uerità . In fomma l'anima quando
muendo con la aita intel- ligibile contempla la uerità atramente fi
può dire integra . Imperoche fatta collega dell'anima mondana regge
ilfato f {t) tut- ta la natura corporale noftra , quando in- tenta
alla generatone s'ingegna effinge- re nel caduco corpo la natura del
mondo o dimettendo al tutto la fpeculatione della uerità , gt)
obltgandofi afenfì , uer amente fi può dire dimidtata . Laquale e
ri/litui - ta nella fua integrità , quando s'accende in ejfa uno
intentiamo amore , ilquale in- cominciando dalla corporale ,
finalmente la reuoca nel marauigltofo fplendorc della bellezza
intelligibile. Di qui apparifce quel r V’1£> v .
òè 9 * L 1 X 0 lo y che e ìnclufi nel
portentofifìgmentodi Ariftofane nelSimpofio . lmperoche k da
principio ejjire thuomo di figura circola- re , ffi) co ’ membri
addoppiati ejjer fato partito in dua >per reprenfitone del filo
fa- fio , tentando di combattere con gli T>ij , poiché gli e
cofìdiuifi cercare della fila me - tàydefiderando intenfàmente ritornare
nel primo flato ; Incontratolo , quafi infuria- to , non concedere
per un breue momento di tempo mancare d'ejfio ; onde ejjer nato
l'zAmore conciliatore dell'antica forma , medico , ft) curatore della
generatione hu- mana ; non mole altro fignificar e , che da
principio l'anima no fir a uiuere con la ul- ta intelligibile , la cui
contemplatone ha fico congiunta la cura della natura corpo - tqle ,
ft) meritamente è detta circolare , fendo la contemplatone un circolo:
Ran- della generatone dedita do crefiendo lo ftimolo dedita
al proprio opificio crede fi e fière ha* \ fi ante , a fimilitudme
dell'anima celtfle , effingert il mondo in e fio, perde la
contem- ) piattone , {f) fiero uer amente come inalza « - ta
dalfiafto , è diuifa . Cerca della fina me- tà perche ejja ottimamente
conojce quello, che ha per fi per la inclinatione , affet- to al
corpo mort alerone non trotta niente di t verità',
neiquale incontrando fi, cioè in qual che imagine della divina bellezza,
fubito co me da un profondo (inno /vegliata, fi rtcor da della
divina bellezza ; per l'amore della quale e (purgata dalle (ordì
materiali final mente recupera la perduta metà . Merita . mente
adunque (amore è detto medico, et curatore dell'humanageneratione reftitu
- tndo l'anima alla vita diurna, laquale è la fua integrità, QuefUfino
forfè i uefìtgij per che uno filerte inuefiigatore della uerità
configura il fegreto (enfi d'iAriftofane. g 99 L 1 55
R^O * Non hauédo in animo al prefinte inter pre-, tare minutamente
il dium Platone, a noi fa ra a bajìanza qua/ì col dito hauere accen
nato il camino in fi profonda mtelligentia . L’anim a nostr azoi-
che e difiefia nel corpo mortale fe ufia per iftru mento la
bellezza corpo rale alla diurna belltZz Z&, guidata dall' amor
celefle , recupera le perdute delizi della aita intelligibile . Ma
fi fatta ebbra, quafi da focali di Qrce , precipita nella generai
ione, ingannata dal- l'amore uolgare , diuenta ferua di tutte
quelle calamità , che ha feco congiuntela datura corporale . Ma innanzi ,
che noi dichiariamo come nafte, {fi quello , che opera l'uno , {fi
l'altro c Amore , fuori di propofìto dichiarare piu parti-
colarmente la fua diffinitione\ come quelli che di qui potremo piu
facilmente conofie- re gli accidenti , di chef amo partecipe. E
adunque L’amore desiderio DI FR V I R E, ET GENERARE LA
BELLEZZA NEL BELLO, fecondo che il diutn Platone difnifte nel simposio.
‘Ter laquale diffinitione balliamo a in- tendere l' Amore effere
l'appetito , {fi non, filo appetito , ma di bellezza , {fi di gene-
rarla nel bello . Onde per quejìa ultima parte , come per propria
cùfferentia t l'amore, e difìinto da ghaltri appetiti, iejuali non fono
di bellezza . Chi adunque /apra che cofa è appetito , ft) che cofa è
bellezza ; faprà a fufficentia , che cofa e tumore. L'appetito q)
la cogmtione non effer quel mede fimo dimofira quello , circa ilquale
è tana , ff) l'altra potentia . La potentia del cono fiere è circa
il nero . La potentia dell' appetire è circa il bene . Sendo adun-
que diftmto il aero dal bene , e ancora di- fintala potentia del
conofiere , dalla po- tentia dell'appetire . Il uero e quello , che
è adequato a. fuoi principij. Come il uero oro e quello , che per
tutto corri fponde a principij, ft) alla effèntia dell'oro, non am
mettendo in fi alcuna cofa tftranea , ft) auentitia . PI bene e quello ,
che per fua natura fa quiete, fp) uoluttà. Sendo adun- que il uero
, fecondo la fua diffinitione,di - finto dal bene , è necejfario , che U
corni- none •* < y . f . ioj tione fiadifttnta , fecondo
la fua dtffini- tione , dall' appetito. Ter laejualcofa la '
facoltà del conofiere e una potentia in ap r prendere il aero . Lo
appetito è una poten- te in fruire il bene. Della apprenfìone del
nero, fi fra nella corninone certit odine. ^Rel fruire del bene t fi fra
nell'appetito uoluttà* sAriflotile nel fi fio libro dell'Etica dice,
il uero , ft) il falfò ejfir nell'intelletto ; tlbe- ne; fp) il
male nelle cofi, lS[oi 3 che diciamo la corninone effer circa il uero
> affermia- mo il uero y ft) il falfi effer nelle cofi fecon- do
notatone 9 . Uguale nel fi fio libro della Republica dice nell
intelligibile effer e la uer rità , nell intelletto la fiientia * llcbe
non repugna ad zAriftotile , come nella noflra concordia
dichiareremo. Al uero, ft) al falfò féguita il benc,fj} il male : imperoche
nulla può efier uero che non partecipi del bt ne ; nulla può effer falfò
, che non partecipa q tij ìo2 L 1 % 0 del
male , ft) però alla cogmtione,che e cir- ca il aero yfeguita i appetito
, che è circa il bene . Prima conofiiamo , di poi appetia- mo ; ft)
appetiamo quello, che noi appetia- mo y perche crediamo ejfer buono , ft)
uti- le per noi. ^Adunque l'appetito appetifie quello , che la
potentia del cono/cere giudi- ca ejjer buono * onde è manifefto
l'appetito figmtare la cogmtione . Sono diuerfi gradì di uero nelle
cofe : Sono ancora diuerfi gra- di di bene , ft) pero fono diuerfi
cognitiont , ft) diuerfi appetiti ; onde et diuerfi certitu- dini ,
ft) diuerfi uoluttà . £'l primo grado di uero è nella natura Angelica ,
oue tutte le co fi fino adequate a fuot principìj y ft) però fino
partecipi uer amente della bontà. Circa ad effe è la prima potentia di
cono- fiere 3 laquale e chiamata intelletto ; ft) il primo appetito
, ilquale è chiamato uolon - td nell' intelletto )e la pritna cer tit
udine ,ft) TE \Z 0 . 103 nella uolontà , la
prima uoluttà . Il fecon- do grado del nero , ft) del bene e
nell'ani- ma : om il aero , benché non fia affoluta* mente aero ,
come quello della natura An- gelica ; ilqualee per fia natura uero ,
e nondimeno aero , ft) bene r adottabile , cir- ca ilquale è la
feconda potentia del cogno - fiere , qual' e chiamata ragione ,{t) il
fe- condo appetito chiamato elettione , nella quale e la fia
uoluttà , come nella ragio- ne , e la fua certitudme y laquale e
detta propriamente fcientia i fendo la certitudme intellettuale
detta fàpienza . & l terzo gra- do di uero , ft) di bene , è nel gran
fimma - rio y circa ilquale è la fua cogmtione , qua- le noi
chiamiamo finfò intimo , ft) à fio appetito principio della bellezza
corporale ; la certitudme di quella cognitione ft può dir fede ,
ft) quella uoluttà fi può dire tmaginaria . Il quarto grado è nella
na- . <3 «<j 104 L 1 3 ? \ O tura
corporale , oue le cofi astutamente fono ombra di utro,q) ombra di
beneinon dimeno fino uero>ft) bene fin fibile. Et pe- ro la
corninone, che è arca tal ucro s e una ombra di cogmtione; noi la
chiamiamo fin fi particolare , nelquale è neceffaria certi t udrne
y ma piutofto afimilitudtne 9 come , dice il dtum ^Piatone nel fi fio
libro della 2{epublica ft) lo appetito 9 che è circa tal bene e
un'ombra del uero appetito , nel- quale è uolutta al tutto ombratile :
difcor -1 rendo adunque per tutti i gradi dell'ap- petito y fimpre
l'appetito è circa il bene ffi) confeguente alla cogmtione . Et però io
mi marauigho d'alcum che diuidendo l'ap- petito dicono lo appetito
diuiderfi in natu- rale , cogmttuo , (fuafì pojfi efiere ap-
petito finza cogmtione 9 ile he al mio pare- re e afjordo :
Imperoche mjfuno può appe- tire , quello che è al tutto incognito 9
fi noi TERZO. tot noi diciamo negli elementi
efftr appetito del proprio luogo s e neceffario concedere in tfii e
(fere una cogmtione antecedente allo appetito , lacuale è principio et
appetire 4 tutte le cofe , che appetifiono .Est a c va dichiarar
che cofa e bellez&a , potre- mo intendere chiaramente ,
che cofa e amore . La belle z? za, come e detto difoprafe una
gratia y uno fplendore della bontà , che in fu la prima giunta apparifce
all'affetto , qua fi il colo- re nella fuper fiele* Oue è da notare due
co - fe . ‘Trimala bellezza efftr obietto della jotentia uifuale:
dtpoi ejìtre per modo d'oc adente , ft) eftrtnfeca. Le bellezze fon
molte ; perche altra ila bellezza dell'An - ioó L 1 S* ^ 0
gelo, quale chiamiamo bellezza intelligibi- le , ftj diurna : altra
la bellezza dell' ani. , ma rat tonale , quale al prefènte
chiamia- mo animale ; altra la bellezza del gran- de femmario ,
quale e detta feminarta; altra la bellezza del corpo , quale è det-
ta corporale : a tutte nondimànco è com - mune ejfer un fiore della bontà
, ejjer obiet- to della potentia uijuale , efier per modo
d'accidente * Et per piu piena wtelligen - aia e da intendere ejjer piu
potentie uifùa - li, fecondo che fino piu obietti uijibili. La
prima è efio intelletto , ilquale ragguarda nella uerità intelligibile ,
ilquale è uera- mente un'occhio eterno, che uede ogni cojà Signore
del mondo , temperatore delle co fi celejli, ft) terrene. La feconda
potentia uifuale , è nell'anima, effa ancorale-, culatrice della
uentà : Ma multipbce,ffi uaria, detta potentia rationale . La
terzi* j ènei TERZO, r io7 è nel grande
fiminario intenta alla uarie - ta de fuoi fimi. Onde nafte l'affetto
, principio della bellezza corporale . V ulti- ma è ia potentta ,
dallaqual fin uedute le corporali , preftanttfiima di tutte le poten
- tte finfualt particolari , come dice tAru fiorile, aera imagtne
dell'intelletto . Ha - uendo dichiarato che cofa è appetito , ff)
che cofa, ecognitione, fffi che fino tanti modi di cognitione , ff)
d'appetiti , quan- ti fino e modi del uero , ff) del bene : ba-
ttendo ancora dichiarato , che cofa è bel- lezza , ft) e modi di effa ,
ft) che cofa è potentia ut fiale , ft) i modi di effa piena- mente
pofiamo intenderebbe cofa fia amo re , ft) la natura d'effo . É
adunque l’amore desiderio di fr vi RE, ET D’EFFINGERE LA
BEL- l e 2 7 / a nel bello . Sendo l'amo- re , defiderio ,
ft) appetito pof tamo inten- 108 L 1 ® 2^0 dere effir
circa il bene . Sendo di bellezza , poliamo intendere effir circa quella
partir apatione di bene , che e detta bellezza ; la- quale è
efìrinfica , ftfi per modo dacci - dente obligata alla potentia uifuale,
St pe- ro h abbiamo ad intendere l'amore effire m'appetito , che
figuita la cognitione ui- fuale.Onde Plotino dice rettamente l'amo
re hauere acquifìato il nome dalla uifìone . E detto appetito non folodi
fruire la bel- lezza ma d' e f fingerla per lignificare l amo re
effir efficace . Imperoche non glie a ba- llante fruire la bellezza, fi
ancora affet* tuofifiimamente concependola non la effri me ; ft) in
chi ? nel bello ; cioè in chi fia di - fpofto> ft) preparato a
riceuerfì tale effir e fi fione . Laqualcofia dichiara il diuin r
Pla- tone nel Simpofìo : quando dice l'amore e fi fiere del parto
della generatone nel bello . £ modi dell'amore fon tanti , quanti
fono e modi 1 T E % Z 0 .
109 e modi della bellezza , ùjuah fi riducono a dua , cioè
alla bellezza diurna , detta Ve- nere celefte , ft) alla bellezza
finfibile 9 det - ta Venere uulgare , ft) commune : ft) fe- ro
diremo e modi dell'amore effir duot cele fte,{t) uulgare. L'amore celefte
è appetito intellettuale circa la bellezza intelligibile . L'amore
uulgare e appetito ftnjuale, circa alla bellezza finibile . L'uno , %t) l
altro fa la fua efprefiione nel bellori celefte nella natura diurna
per modo di fimi , ffi) di na- tura , come è detto ; il uulgare nella
mate- ria per modo uifibtle, fgl d'imagine ; la- quale per tjuefto
fi dice bella , perche e pa- ratifiima a riceuere la ejprefitone della
bel lezza fimmana , di qui fi può intendere la fententia di
Alatone, quando dice Po- ro figliuolo di Metide ebbro di Tettare,
ft) Pema hauer generato l'amore , ne na- tali di V mere . ^Noi perche di
quefta ma- n o L I *B 7{0 teria h abbiamo
breuemtnte trattato nel primo libro del fulcro , (g) h abbiamo in
animo trattarne altrove pia diffufamen - te , al prefente dimetteremo piu
particola- re efpofitione contenti filo in queflo luogo hauere
aperta la uia a quelli ,c he fino fìu- dtofi d'intendere i profondi , fg)
fegrett mi - * fterij di Platone * > f • - * , « v* f
' /chiarata ladiffini- tione dell'amore , fg) come gl'
amori fin dua,cwè celeftc ft) uulgare , refterebbe a di- chiarare m
che modo nafia , fg) quello ,c he operi in noi l'uno , fg) l'altro amore
, ma perche dell'amore cele [le a bastanza e det- to fi nel terzo
libro del *7* utero , fi ancora nel panegirico nofiro all'amore ; per
quefio diremo filo ft) breuemente dell'amore mi gare .
T E % Z 0. /// gare. Al pr e finte fuporremo in effir
noi uno cor puf colo diffufi per tutto , quafì unum- colo infra
l'anima ,(g) il corpo elementari, detto spirito y mediante tlquale
dall'anima nel corpo piu terrefìre fia trans fufa la ul- ta. Quefio
fendo generato d 1 una fot tilifi fima efialatione di fangue , ha origine
dal cuore principio , g) fontana del fangue piu puro, fi) al cuore
prende la utrtu,per beneficio dellaquale noi fiamo partecipi della
uita, detta uirtù uitale . Dalcerebro procede la uirtù,mediante laquale
noi fin- tiamo , g) et mouiamo , detta uirtù unir male , dal fegato
la uirtù , per laquale fi fa il nutrimento . £t la generatone , g)
altre operai ioni f nuli detta uirtù natura- le . Di tutte quefle
operationi e mflrumen- to lo fpirito , ilquale ( come e detto ) ha
ori gine dal cuore . Laqual co fa confidtrando zArifiotile, fecondo
la mia opinione, diffi ÌÌ2 L / 2 % 0 il cuore eficr
principio del uiuere , del fin - W , ft) del mouerfi } fé) pero tenere
infra gl' altri membri il principato > Come que- fio non re
pugni a Platone , ilquale affer- ma il capo effer prtnctpalfiimo di tutti
e membri , ajjoluendofi per e fio l'intelligen - ita, laquale, è
nobil filma di tutte le nofire operationi, altroue a bafìanza
dichiare- remo, Stndo aduncjue lo fpirito mHrumen to del finfo ,
mafiime della fantafia , che marauigliaè fi con tanta affinità
natu- rale infra loro fi congiungono , che una po- tente alter
atione dell'uno fa tran/ito nel- l'altro ? ‘Per lacjual co fa lo fpirito
poten- temente alterato , e baflante a muouere la fantafia a
produrre l'immaginatione fil- mile a quella alteratane . llche
apparifie in quelli , che fino ueffati da ueemente fi- bre , oue
tal moto dello fpirito fa tranfito nella fantafia. Mede fimamtnt e fe la
fantafia interi famente opera in qualche peti- fiero: nello /finto fi fa
una imprefiiom naturale , firmle a quella operatone . La- qual co
fa dimofirano le fife tmagwationi delle donne grauide , in cui ueggtamo
non filo dalla fantafia far fi tmpref ione nello fpirito y ma
ancora mediante lo /pirico tra pa/farene teneri cor pi del fio tenero por
+ tato . E n?ittagorici fferauano medicare le malattie con certi
modi d'armonie . Im- peroche l'anima dell'armonia e fi erme re -
uocata nella interiore , ff) naturale per grande predominio , che ha /
opra il corpo , produce fimtle armonia in e/fo , in età ftà la fita
finita . Ecco adunque , che dado [pirito nella imagmatione fi fa tranfito
, cogitando la fantafia fecondo che efio è affetto dall' imaginat
ione . niello fptrito parimente fi fa tranfito , fendo l'ima - gtne
, come Juperiore , Ufi ante a muoue- a ìi 4 Lf I *B
0 re la uirtù naturale . Oltre a quefto hab - btamo a
intendere da ogni corpo generabi- le > ft) cor rutilale far fi una
continua refi + lattone , ft) un continuo fiuffo, come after* mano
Sinefio , ffi ‘Troclo; rituale pir cer* to /patio di tempo , ft) a certa
dt/lantia fi conferua integro , hauendo continuatane con quel corpo
, da cui procede . E magi fi - gliono ofteruare cjuefto fìmulacro ,
per. e/Jo offendere lo fpirito , quando hanno in animo
perdere alcuno • ^Mafiimamentc fi fatalflu/Jb per gl' occhi .quafi per
piu aperte fineftre dell'anima , ft) dello spiri- to : ilche
afferma o^riftotile, quando dice l affetto ciana donna, che patifta il
men- firuo fpeffe uolte machiare uno Jpechio . È ancora da Jupporre
nella generazione delle cofi ejfir neceffaria una cagione , che
produca detta cagione efficiente , ft) una, in chi , ft) di chi fi
produca detta cagione ... necejjaria , TET^ZO. ns
necejfaria , ft) materia. Et pero Telato- ne nel Timeo dice , che'l
mondo e fatto di niente y ft) di necefiità , cioè dt materia , ft)
Arift otite chiama la materia necefiità nonjempltce , ma per fuppofitione
. Impe. roche come (e fi dee far ma cafa , ft) una fatua y è
necejfaria tale , o tal materia y coffe fi dee fare que fio ornamento ,
qua- le noi chiamiamo mondo , è necejfaria ta - le y ft) tale
materia , di che effo fìa confiti tato; ft) però la materia per
fitppofitione f è necejfaria * . Oltre a (juefte due è ancora
necejfaria una cagione infìrumentariayme diante lacuale fia preparata ,
ft) diffofta la materia a riceuere attamente il dono della cagione
efficiente . TSjoi pretermette- remo come a quattro cagioni della
genera- ■tione indotta da zArifìottle , cioè efficien- te y fine y
materia , ft) forma fieno da Pla- tonici aggiunte le cagioni eftmpìari ,
fg) ^ H ij ! n6 L I 3 ^ 0
l'organica . lmperocbe alerone s' appartie- ne determinare di queft
a materia.. Oue di chiararemo ti nero efficiente dilla genera- tione
ejjer la parte naturale dell'anima mondana ,chiamatada noi di {opra
gran- de Seminario. Il fole, ff le fuflantie indiai - due effer
cagioni inftrumentarie : questi co me inftrumentt particolari,quello come
in - flrumeto uniuerfale. Al prefente ci bafli la generatione
hauerc dibifogno della cagione efficiente, della infìrumentaria,e della
ma tena.Pofìi qucfli tre fondamenti facilmen te pof iamo intender
come nafea in noi que fla affett ’ionc , quale e nominata amore .
Ada f imamente fe non et fiamo dimentica- ti eh quello, che è detto poco
innanzi, l'amo ' re hauer confeguito tl nome dall'affetto . Quando
adunque per lo affetto ci s'appre- fenta nella fantafia qualche ff et t
acolo, il quale noi appromamo , come bello ff) pieno ,p ^ '
dtgratia di gratta; [àbito t anima eccitata nella col gmtione della
/ita bellezza interiore v defe- derà non filo fruirla, ma e f finger la .
Et . perche tale efirefiione ha dtbifigno della materia , ft) del
fubietto, atto a quell&rk cetttone ; per quefto de fiderà ejpt merla
in quello , che efid ha prouato , ft) da cui è fiata eccitata a
tale ejprefiione , come piu atto a riceuere la participatione della
bel- lezza, ft) perche quella ejprefiione non fi può far nel bello
, quantunque di fra no* ’ tura atto , fi prima non e frffiaentemen*
te preparato : per quefto mtenfamente de- fidera congiugner fi col bello
; Come quello j che altrimenti non può efficr preparato ; che dalla
uirtìt del fime , ilquale è tnftru* mento naturale ad efpr'tmer la
bellezza fi minarla dall'anima . *Di qui fi può uede ; re
apertamente con l*amor uulgare 3 effèr fimpre congiunto il defiderio
dell'atto Zie- H. iij -ni LI 3 710 nereo ,
fecondo Platone, Imperoche fendo l'amore defedeno defungere la
bellezza nel bello , fj) non fi potendo effìngere , non fendo
preparato ; ne prepar andofi fe non per quell' tnftr amento , quale ha
deputato lunatura , cioè il feme y oue fiala uirtù gener attua,
Imperoche la generatione y o non fi ejpcdifie fenza il feme , o per il
feme piu commodamentefe necejjario fìa accom pugnato naturalmente
da quel defìdeno y • qual noi chiamiamo Venereo , Et quefea c una
commune difpofìtione dell 1 amor mi gare circa ogni bello. Imperoche l'anima
re focata nella bellezza interiore , giudica ogni bello , degno ;
in cui s'effinga il fimu - lucro della bellezza . Ma quando noi ap
. prouiamo piu un bello y che un'a\tro y come piu grato apprefjo
noi , penfando del conti- nuo adejfe affettuofamente ; fi fa nello (f i-
rito ma certa difpofìtione confeguentea TE 2? Z 0. 4 W
quella cogitai ione . lmperoche y còme edit- to , dall' anima fi fa
tranfito nello fpiritq come tn proprio y $) naturale infìrumen -
to. Incontrati adunque m quello , circa cui Jiamo affetti , ff) a una
certa diftantia appropmquati riceuiamo nello fpirito per tutto il
corpo quello efirementofilquale na u turalmente fi rifolue dal corpo
dello ap- prouato fpettacolo ; Mafiimamente fi fa tale recettione ,
quando noi dtr itti gli oc* chi nel uoltOyft) ne gli occhi dtUa
co/a, che tanto ci piace , per la marauighadi- uentiamo fimili a
gli ftupidi • Imperoche come per gli occhi , quafi per piu paten-
ti finefire , fi fa maggiore refolutione del- lo fpirito y coli ancora
per efii è parata piu la uia negl'intimi penetrali dello (pirt- to
. Marauigliofamente opera l' efficiente È quantunque debile , nella ma
teria ben pre- parata fupplendo alla debilità della cagto- H
tiij 12 0 L 1 S 2^0 ne, la dtfpòjitiòne della materia, della
qual co fa e mani fefto inditio in gran copta di materta da una
pìccola fcintilla fiufiitarfi grandi fimo incendio . Lo Jptrito dallo
af- fetto continuo della fifa cogttatione , quafi formentato , come
prima è tocco da quello efiremento ,/uhito alterato -, quafi fimu -
tavella natura di quello : Intanto che ar - riuando l'tnfettione al
cuore, fontana del- lo jpirito, fa che, ft) effi ancora parimen- te
patifia . Onde ft) il /angue ,che in lui fi genera , ft) lo /finto , che
è infi aurato dalla continua efalatione del /angue, riten gono
quella medefima infettione . Di qui 'auiene , che quelli, che fino
infermi dalla graue malattia dell'amore, (intono dolore
principalmente nel cuor e. lmperoche la co- fà amata fa uiolentta nello
Jpirito', ft) per lo //ir ito nel cuore, onde ha origine'.
Meramente alla maggior parte de malt(cò me dice
r £ x z o. ni me dice tldium Alatone) un certo demone
ha mefcolàta la uoluttà dolcifrima e/ca , l'anima inferma fi diletta dei
diuin afpet - . to del fuo bello ffett acolo ; ffr) in prima del
lume de' rifflcndenti occhi ; Màinganria- ta dalia uoluttà 3 non finte il
mortifero uè - ne no penetrare , per li occht entro alle uu [cere ;
dalquate il grauiftmo morbo pren- dendo nutrimento , d'hora in bora
mera- uigliofametiie crefce . c Adunque lo ffniito tutto infetto ,
mouendo uiolentemente la fdntafraja coftrmge non mai ad altro pen
fare ch'ai fuo bello spettacolo ; rituale ap- prouando l'anima , come
foto derno in cui effa poffa ottimamente cfprimere una bel- la
prole y a fmtlitudtne della bellezza in- teriore y eccita uno
intenttfrimo dtfrder io di fruirlo . Quefìa e la generatione dell a
- mor uulgarc per quanto i circa alla hd- lez&aparticolare
d'uno , o d'm'altro . Cjli T22 L I 2 7{0 accidenti , che l'
accompagno™ , in par- te faranno dichiarati brevemente da noi in
quello che fiegue . f& ' ■ al Omi l' anima èia aita
del corpo, co fi la cogitatone è la ulta dell' anima. £1 corpo
fi dice ejftre allbora infirmo , quando l'anima /eco non confinte .
Ondo l'arte della medicina non è circa altro , che in conciliare
l'anima al corpo-, in che sla la finità dell'animale . L'anima e infir
- ma , quando non confinte con la fua cogi- tatane , ma difìratta
dimenticataf , ff) « di quello, che efia è, ffi) delfuo ufficio ;
non cura , come è conueniente , fi medefima. L'infermità principali
dell'anima fon dua:l' una è detta ignorantia-,1' altra e det- ta
infanta ta infima ; le quali fin unto piu gratti * che le
malattie del corpo , quanto i anima e piu eccellente , ft) piu nobile ,
Ma a che fine tjuefto ? Certamente perche la cogita * tione
dell'amante non mai fi parte per un filo momento di tempo dall'amato . Et
pero dimettendo il fuo uffitio naturale , non confinte con l'anima
di cui è ulta . Vani - ma inferma , ft) affetta accompagna la fua
cogitatone : lmperoche nulla può uiuer lontano dalla ulta . TDi cjui
aduiene , che l'amante e detto uiuer finzlamma, unteti* do
nell'amato . Queflo fa, che'l corpo non riceue il defiato dono dell'anima
: onde, f) ejjo cerca dell' amato, q) trouatolo alcjuan to fi
quieta 9 (juafi habbta trouato ìani- ma , ma perche ne all'anima e
concejfit la cogitatone , ne al corpo l'anima, cioè ne all'uno , ne
all'altro la fua ulta , è necefi fàrio, che ciafiuno incorra in
grauifiime iriJf L I 2? TfO malattie ; l'anima
nell'ignorantia 3 fjf) nel- l'infima : il corpo nella difcordia di
tutte le fie parti fra fimedefime che è il mafi J Imo di tutti i
mali . Di qui fi può uedert quello 3 che uolfi tl dtuin Telatone nel
Sim* pofìo 3 quando diffi , l'amore ejjèr arido efier macilento 3
effer e /quando co piedi nu- di uolare per terra 3 finza cafi 3
finza letto , finza coperta alcuna dormire nella ma prejjò alle
porte ; ffi) quefìo per effir figliuolo della pouertà « Imperoche
l'aridi- tà 3 la macilenta , lo fquallore che 3 e ne corpi degli
amanti , feguita la difcordia delle parti del corpo fi a fi) lequah
non pomo adempiere il fio officio naturale 3 non fèndo l'anima
intenta aidehito reggi- mento deleorpo . L'anima difir atta dalla
potente cogitatane 3 opera de talmente nel corpo : onde conuertita la
maggior parte del cibo in fiper fluita 3 fi genera poco fin-
gue 9 TERZO. i2$ gue, ft) quello per la mede/ima
cagione fin do mdigefìoy e grofjo, ft) negro . El difetto del
[angue , di che fi fai alimento genera efiiccattone , ffi)
configuentemente eftenua tione mi corpo . La grofiez&a,{tf ba negrez
- za genera affcrità , mifihiata col pallore . È adunque lamore
arido , perche e cagio- ne y che e corpi delti amanti manchino del-
la conuemente quantità del [àngue , diche fi nutrifiono . E macilento
perche il difet- to del nutrimento genera in efit efienuatio - ne
di tutti e membri. E [quaUido perche fi nutrifiono di [àngue groffiy ntro
y ilqua - le genera [quallore . Tutto quefto non uuole altro
(tonificare , finon che e corpi degli amanti principalmente fono obligati
a ma li malinconici . Et quefto inquanto a mali del corpo . 5 S[oi
h abbiamo detto quando la cogitatone y non confinte con
l'animaygene- rarfi in ejfà Tignorantia , t infanta ; 12 6 L
I *B T{ 0 ' « onde hanno origine tutti glialtri fitoi
ma-; li . Volendo adunque ed diuin ^Platone fi* gmficare la ulta
degli amanti e fiere affati caia dall'ignorantia , dall' infama, ff)
configuentemente da glialtri mali , che le figuitano : diffi
l'amore effer co' piedi nu- di, per che non curando l'anima fi
medefi- vna rettamente, come aduiene adamante, non conofie quello ,
che effa è, anziché e di gran lunga peggio ) crede fi effer
altrimen- ti che effa fia . ~Di qui aduiene , che effa è priuata
della cognitione della uerttà . Et pero in ogni fua anione procede finza
ra- gione alcuna , e uer amente co' piedi nudi . Diffi uolare per
terra , perche l'amante fi fa firuo della bellezza corporale .
Laqual cofa nafie daefìrema tgnorantia , da cfìrema infama , fèndo
l'anima noftra nel numero delle cofe diurne , lequah hanno a
dominare alle cofi corporee , ffi) non fimi- re . Di TERZO.
ixà re. TDi qui naf ce , che l'amante e fòt topo- fio a
infinite offe fi , ne mai uer amente fi. quieta in cofa alcuna , ne
ancora nella co* fa. amata , fendo fempre agitato da uant speranze
, da uani timori , i quali fi- no m modo potenti , che effo non ha
fatui- tà di poterli in alcun modo celare ,quafi un fìupido ,
obhgato fempre alla bellezza corporale , ma alla bellezza diurna,
ap- poggiato a [enfi , iquali fino parte dell' anu ma noflra ;
mentre e congiunta col cor -, po mortale . 'Rittamente dunque
l'amore fi può dire finza cafa , finza letto , fin- tai coperta ,
dormire all'aere nella uia ap- presole porte. Sendo adunque
l'amante fottopoflo a tanti mali per cagione del- l'amato , qual
pena fi potrà trouare con - ueniente , fi efio non riama ?
Certamente chi priua il corpo della ulta e h omicida : chi rapifie
le cofi diurne èfacrilego.L'ama ì2S L 1 3 % 0 to e fi
ordendo la cogitattone all'aman . te rapifce l'anima sofà neramente
diurna . ‘Priua ancora tl corpo della aita , uiuendo effo per la
pre/entia dell'anima : Onde co- me homictda , ft) Jacrilegofe degno di
cru - delifiima morte . <^Ma riamando l'amato marauighofamente
reHituifce l'anima al- l'amante . Imperoche , chi riama dona la fua
cogitatone , ffi) la fu a anima, nella quale urne l'anima dell'amante .
£t pero donando fe , refhtuifce all'amante la per- duta anima ; ne
per quefto pero abbando- na fi mede fimo , battendo fmpre fico con-
giunta l'anima dell'amante . Oitefh ffij fi mili fono gbaccidenti , che
feguitano al- l'amore per hauere origine dalla pouertà , come madre
. Chi uuol conofiere efijufita- tnente ancora quelli , che configuitano
al- l'amore pereffer figlio di Poro , cioè della ma alla copiai
legga icomcntarij foprail Simpofio Smfojto del Duca noftro
^Marfiho ; otte la natura dell'amore fecondo la intenda- ne di
‘Platone è diurnamente ejplicata . ... \ . Otrebbe
alcuno dubi - tare > perche cagione non fìa mo parimente affetti
circa ogni hello. <JMa fi ne trotta qualcuno , tlquale , henche
giudichiamo efeer hello, nondimanco non eccita in noi quello
intenfò affetto , quale chiamiamo amore. Qualcuno altro
potentfiimamen- te ci commuoue ; anzi {che e di gran lun- ga piu
forte ) fpejfi fìamo affetti a quel- lo, che ancora noi medefimi
giudichiamo effèr men hello in fa molti . Quella qui - fi ione
fecondo la mia fintentia , fendo difi folle , ftj) anfia y fff) ha fi
ante ad affati - n o L I S 7{ O care ogni buono
ingegno habbtamo dedica- ta al fine di quefta opera , della quale
al preferite breuemente tratteremo . Qualcu- no forfè giudicherà la
femilitudme , g) la congruente , perche noi fìamo piu. af- fetti ad
un bello , che ad un'altro : hauere origine dal padre , g) dalla madre ,
quafi fia neceffariOy hauendonot di quindi l' effe- re, hauere
ancora da mede f mi tutu l' al- tre ajfettioni ; Qualcuno altro
crederà douerfi ridurre alla natura > g) al Cielo come autori di
tutte le cofe inferiori . Tfoi che fèguitiamo il dium Alatone, affer
y miamo la datura , g) il Cielo efeere in- dumenti della diurna
inteUigentia , g) per queflo operare nelle cofi inferion y quaii
eoi loro ordinato di fòpra . ‘ Diremo dun- que le cofe diurne ejjereinfra
fi di flint e , fecondo che s'appropinquano , o fino lon- tane da
quel principio % onde procedono , i T B '%'Z 0. ni fa
per quefio fèndo /’ anime rattonah nelnu- W mero delle co/e diurne,
e neceffario altre efi fa fere ne primi gradi della perfettione ,
al- $ tre ne fecondi , altre ne tertij . Quefla di - { ftributione
ha origine dal primo mtellet T tri to , ilquaìe difipra habbiamo apellato
, tjl fff Angelo , ft) mondo intelligibile , oue l tutte le cofè
hanno il loro efiere perfiettifi /- fimo . Sendo adunque l anime
rattonali ì difìribuite in tanti ordini , quanto è il nu- , mero
delle stelle, come dice ildiutnTla- i tone nel Timeo , benché
naturalmente tutte fieno in fra fi confintientt , nondi- meno infra
quelle è maggior confinfi , in chi è piu congruentta , ft) piu
fìmihtudi- ne : Onde l 1 anime di ciafiuno ordine piu cónfintono
fico medefìme , che con quelle , che fino di dtuerfi ordini , hauendo
infra fi maggior fimilitudme , ft) maggior a fi finità: fór
bigratta, t anime fitto l'ad- l \ V t,;- Vs»
i3z LIVIDO tniniftr attorie di Gioue piu conuengono in fra
loro ; che con quelle , che fino ordinate fitto l'amminifìr adone di «J
"Marte , o di Saturno : fendo piu fìmili , ffi piu affini.
& anime , che dt/cendono nella genera- tione tratte dall'amore delle
cofe terrene formandofi i corpi , iquali reggono : in efii
efprimono la natura fua per qudto la ma teria ne può effir capace .
lmperochejl cor- po none altro y che una imagine dell ani - ma ,
ft) quanto i corpi fino piu perfetti * tanto meglio rapprefintono l'anima
. On- de il corpo celefle perfettifiimo di tuttii corpi , fèndo
tanto uicmo all'anima , che tffi quafì fianon corpo , ottimamente
la reprefenta : HPer laqual cofà t anime , che difiendono nella
generatone sformandoli da principio un corpo di \ Natura fimileal
corpo celefle ( ilche hauere affermato Ari- fiotde ancora confinte
Temifiio ) prima in V • * *Jfi MI» mi ni
j I tu- w w- h ri- tti it
li fi i 9 fi- in ejji
fanno la fùa participatione sfatta- mente , dipoi negl altri o meglio , o
peggio, fecondo che per la loro perfettione , o tm- per fattone ,
fi prefi ano piu , o meno obe- dienti . Tutti nondimanco ritengono il
Ca- rattere dell'anima Jua r fendo adunque la bellezza corporale
rnagine della bellezza dell anima, {fi per queflo riducendofia
medefìmi ordini , quel bello filo è ajfet- tuofamente offeruato da noi .,
ilquale fi ri- duce al nojìro ordine , {fi quello è innanzi a tutti
offeruato, {fi adorato , che proce- de da anima nel medefimo ordine di
firn- ma preftantia , {fi di fimma degnità,{fi per queflo fi V
anima noftrà e intenta alla generatione , fubito, che ci
incontriamo in efja , quafì attoniti giudichiamo altro - ue piu
attamente non potere ef fingere la diurna bellezza . * Onde a nullo altro
pen- iamo, m nulla altro tt udiamo >che adem- I *
/ tu fiere l'ardente defìderio nojìro . Quefta
forfè effir la cagione, come io fimo' affer - merebbe uno
ftudiofodeldiuin ‘Tlatone , per laquale fiamo affetti pm ad uno ,
che ad un'altro bello . Queflo fìa tifine, o buo- no Amore del
nojìro cercare , della tua di- urna origine . Dio uolefii, che a me
fufii tanto facile trouare le parole , quanto co- fi grandi , ft)
marauighofi di te concepia- mo . Imperoche e mi farebbe un pic-
colo inditio , che la mia te - nebricofa mente pof fa effire
Ulu- firata " ; i . dalla chiarezza della tua di ;
• £v; umifitma luce . iL FIl j. Giof'^t'HX 1
conisi, e . PALLA B. V G E L L A I< ’ ' • V ?• fN
*> 1 . f\ I . • . • • » >.» . % v ; j . « +4 R
AVE PECCATO è non fentire rettamen- te de gli D.ìj , molto
piu grane detrarre alla lo- ro maie(ìà,ft) pero ca± r fórni
amici, non uituper atelo amore, cojà certamente diurna, acctoche
nonni auenga come a Steficoro Poeta, ilquale ef
136 PATSfEG ITTICO fendo accecato per hauer ne' fiuoi uerft
pec tato contro a Helena,non mai recupero la perduta uifia fi prima
fatti e uerfi incon- trario fenfe non placò la offefa deità . Ho-
mero ancora perche non uolfe confejfare hauer peccato yUtffe cieco infin
nell'ultima vecchiezza. V n adunque non filo ui after rete da tale
uituperatione , ma celebrando ilfacratifiimo nome dello amore,lefue
mi- rabili uirtuti infieme meco predicante y fe non come e
conuemente a tanta maieftà , almeno fecondo le forzz del uofiro ingegno
, di che nulla piu uttle a uoi , nulla piu ac- cetto a gli Uij fare
pofiiamo . 6 Neffuna cofa e tanto grata quanto la bellezza,
neffuna tanto mole fi a quanto la deformità . La bellezza rapifie e
diletta l'anima no lira, per contrario la deformi- tà l' affligge e
la difeaccia. La cagione credo fia , che la bellezza offendo fuori
alle co fi ' cofi create mofira la perfettione
di drento % onde uiene , perche la perfettione dt qua* lunque cofa e
accompagnata da una certa gratta ejìeriore , laquale dimoftra
quella cofa non hauere di drento alcuno difetto , c pero non e
merautglta fi l'anima noftra e prouocata e rapita dalla bellezza; impeto
- che effa naturalmente indoutna per la bel* lezza douerfili aprire
la uiaatla infinita perfettione della diurna bontà , per laqual
cofa li antichi Theologi affermano la bel- lezza effiere portinaia alla
habitatione fi* crettfitma della diurna bontà , quafi fia
neceffarioa qualunque cerchi ladtuinità prima incontrar fi nella beUezza.£per
que - fio la bellezza non è altro , che uno fiore , una gratta ,
uno splendore della diurna bontà, laquale prouoca e rapifie tutte le
co- fi che hanno facultà di cono fiere, accioche per fuo beneficio
fi faccino dteffa parte* 13 * PA^EGltTCO dpi y ou'èla aera
q) ultima perfittione di c taf imo . Onde fi cofi che hanno
potentia di cono/cere , fino piu perfette > che quel- le che ne
fino prrnate , ffi fra quelle che condfiono ■> chi ha miglior grado di
cogni- tione ha maggior grado ancora di per fet- tione , la ragione
è, che chi ha miglior gra * do di cogmttone , cono fendo piu
perfetta- mente la bellezza , e intromeffo a maggior grado della
participatione della diuimtà , doue conftfle la perfettione . Onde la
firn- ma cognìtione fi fa participe di fimma perfettione ,
conofcendo ptrfettifiimamen- te la bellezza , Ma chi è al tutto
priuato della cognìtione yfendoli nafìofio lo fplendo re della
bellezza y è priuato ancora della ue ra participatione della diuinitdye
pero me- ritamente fi reputa imperfettifimo fra le cofi create .
Chi negherà le cofe inanimate effire piu imperfette che quelle ylequali
han no anima t 1 { A L V A MOltJZ .
139 no anima t ft) fa quelle , che hanno ani- ma molto piu
imperfette e (fere le piante , e gli altri animali che Ihuomo? Le cofe
ina- nimate no battendo cogmtione alcuna nten te guftano della
bellezza , ft) pero hanno poca per fattone , perche per ft non pojjo
- no aggiungere alla diurna bontà. Le pian- te ( come dicono e c
~Ptttagorici ) hanno co - gnitione, ma Hupida , ft) quaft di huomo
y ilquale fubito fùeghato finte e non difier- ne . Gli animali
irrationah fentono , e di- feernono , e nondimeno perche lo fplendo
- re della uera bellezza troppo fupera la loro f acuità del
conofiere 9 e fi ancora hanno de bile perfettione . Solo l'huomo fa
quelli che habitano in terra e capace della bellezz za , efiendo in
lui ampli fimo grado di co- gnittone 9 onde efio arnua a non piccolo gr
a do di perfettione . Ma nella natura ange- lica ft contiene el
fommo grado di perfeitone , offendo da Dio principio , (fogni lume , in e
(fa fitto infufo uno lume> Ugua- le congiunge la cognittone uerifiima
con la uerifiima bellezza , e dalìacjuale la cogni - itone è
dertuata nell* alt re creature , come dal Sole fontana d'ogni lume
uifibilefe de- riuato ogni altro lume nelle cofi corporali . Chi
dubita la bellezza fola rapprefentare la diurna bontà t confideri il Sole
effere bel- hftmOydi tutte le cofe che fi tncontrono alti occhi
nofìri, uer amente occhio eterno del mondo , come dice Orfeo , ih/uale
gli anti- chi Theo logi chiamorono figliuolo utfibile di Dio 9 anzi
diciamo effo effere nel mondo come in facratifiimo Tempio merauiglto
- fifiima ftatua di Dio . Onde apprefio gli Sggitij ne i Tempij di
Minerua fi legge ua fermo in lettere d'oro .Io sonocio CHE £ , C I
O CHE È STATO, C/0 che faràyil uelo mio non difìoptrfi alcuno ,
il fole il file futi frutto ch’io partorì di che ap- pare il Sole
bell forno , fi a le co fi uifibili uer amente rapprefintare la diurna
bontà, come imagme di effa nel mondo.. Sfondo adunque la bellezza
qual di /opra e dime • firato ,non è merauiglia effa prouocare im-
mo rapire a fi le nature conofienti , mafii- mamente quelle che hanno
amplfomogra do di cognizione , c Anzi piu tofto diremo ejjè hauere
in fi mio ardentifiimo defide- rio , per beneficio delquale non già
rapite , ma fpontaneamente cercono e configmfio- no la bellezza,
cagione della loro per fetto- ne. Quello defiderio non pofjede al tutto
la bellezza allaquale fi muoue , ne al tutto ne è priuato , perche
fi fufii al tutto pnua - to della bellezza, non harebbe di effa
alcu- na cognttione , onde ne la potrebbe defide- rare . 2 Spi
figliamo defiderar do che noi defideriamo come cofa buona f utile per
i 4 z P AT^EGl^lCO noi , altrimenti mai defidereremmo mila .
Chi è colui che defiden il (ito male ( fi già al tutto non è infinfitto )
, fi adunque x noi fiamo priuatt della notiti a di co fa al- cuna ,
non ci ejfindo noto , fi tal cofite t come la pofiiamo defiderare come
cofa buo na ft) utile P er not • mn 6 dunque da du- re che'l de
fiderio della bellezza , al tutto dt e JJa fia priuato . 7S[e ancora è da
dire ta- le defiderio pojfidere la plenitudine della , bellezza ,
perche chi poffide non fi muo- ue alla cofa quale lui pojfide , ma piu
to- fiola fruifce. Chi non conofce che la po- tenzia delmuouerfi e
data alle cofe create per arriuare e configuire quel termino y che
tjfi non p affiggono 1 ilquale come hanno pojfiduto fiibito ce ([ano dal
mouerfu Onde elmoto e connumerato da Filofifitra le co fi
imperfette . Ma colui che de fiderà fi muoue in un certo modo a quello
che efio defidera , i ALL* AAf07{£.
i#j\ de fiderà , e pero non lo pofiiede y percbe fi. 10
poffidefii , farebbe uano ildefiderarlo 9i godendolo finza interna filone
9 per laqual cofa il defìderio della bellezza > è poflo in mezo
della pnmtione , e della pofiefiiont di e[fa\ participando tutti dua
lieflremi . Quefto defiderto fi noi chiameremo amo-, re > non
faremo da h h uomini ne etiam da 11 dij meritamente riprefi ,
perche in ogni, natura creata , o uuoi angelica , o uuoi ra- tinale
l'amore non e altro che uno arden- . • » • 4 * tifiimo
defiderio di poffedere e di fruire la bellezza > quanto a fi e
pofiibde. Perla - qual cofa, li antichi Theologi non collocaro- no
lo amore nel numero delle cofè diurne come quelle che in fi hanno la
plenitudine della bellezza , ne ancora nel numero delle co fi
mortali , come quelle che in ueritàne fono [fogliate , ma nel numero di
quelle che, delle mortali e delle diurne fono parti- 1
i44 ALL'AMORE. dpi , parimente , come e la natura
demo- nica . Onde efit chiamorono lo amore non Iddio , non mortale
, ma grande demone , perche la natura demonica, pofta m mezg fra
gli huomini e li TDij quafì interprete , conduce a li Dij li prieghi e
fàcrificij degli huomtni,alh huominila uolontà e coman- damenti de
Ili Dij . Qie per altro mezo li huomini,o melanti o dormienti fino
m- fpirati dalla diurna bontà , che per la na- tura demonica .
‘"Parimente lo amore po- fto in mezo della cognttione , e
plenitudine della bellezza , non filo prepara , e difio- ne
ottimamente alloinflufio della bellezc , le cofi che ne fino priuate ,
atte a par- ticiparla , ma ancora traduce della bellezr za un lume,
per ilquale effe fatte belle , configuirono la loro felicità ,
Quefìofigni- ficorono li antichi Theologi quando difièno lo amore
efiere figliuolo di c Toro , e di Pe- nìa gene- ÀLVAMOXB.
t+t nia generato ne natali di Venere , e pero e fi fere fittatore e
cultore di ejfi . lmperochc Venere figmfica la bellezza , Poro
[tonifi- ca, meato e uia , Penta lignifica indigene ta , e pouertà
, E adunque generato lo amore della indtgentia,come madre laquale è
nel la natura ,che ancora non ha participa- tione di belle zia, ma
ha bene una certa po- tentia e prontitudtne adhauerla, £del meato e
uia alla bellezza, come padre, cioè c imo influjfi ouuoirazp, ilquale
proce- de dalla bellezza , e conduce ad e (fi la na- tura indigente
. Onde l'amore uiene a par - ticipare della tndtgentia,inquanto fi
muo- ue alla bellezza , e dello influjfi o uuoi ra - zp , inquanto
al tutto non e priuato della cognittone di efia . Meritamente
adunque lo amore è detto fittatore , e cultore di V ?- nere;
imperoche lo amore fimpre figutta la bellezza,* lei bellezza fimpre
eccita la amo • j ó P. A TfE G l'FJCO', ye . Sarebbe
lungo a dichiarare quello che intendono li antichi Theologi quando
du cono effer due V mere t una figliuola del eie - lo finzetmadre^
e però effer detta cclefte,. laquale nacque de genitali del cielo cafra
% lo da Saturno fuo figliuolo /àbito che fu nato. E da la fpuma del
mare , oue efit genitali caddero. L'altra figliuola di Cjio* ue e di
Dione , detta uulgaree comune. Et. pero al pre/ente ba fiera dire
fidamente co*, me fino due Venerefiioè due bellezze* Mia celefìe ,
l'altra uolgare , cofi effer dui amo -, riyUno cele fi e fi altro
uolgare. Lo amor ce le fi e feguitare la bellezza celefte e diurna
, e'iuolgar , la uolgare e comune . <£\da for- fè non farà fuori
di propofito , incomin- ciando fi da uno altro principio dichiarare
m che modo fono diuerfe bellezza > e diuer- fi amori , effendo fempre
feguitata come è detto ciafcuna bellezza, del Juo ; amore . f
^l'ordine rALL'AMO'RE.'H* \ : '7S(e l' ordine delle
cofi il primo e capotti tutte e effi Dio infinita bontà, infinita
firn piletta y principio y mez.o , e fine d'ogni co- fa y bene de
bem y lume de lumi . TDopo Dio ~ è lu natura angelica , laquale fi come
è la prima creatura che procede daTDiò , iCofi tiene il primo grado
diperfettione tra le cofi create . TDòpo l 'Angelo e la natura
rationale , laquale ancora è detta anima, tanto meno perfetta dello
angelo , quanto è piu lontana dal prtmo/lSfondimanco ha in fi tanto
grado di perfezione , che ejja pon filo intende la natura angelica ,
ma ancora a fende al profondo abifio de la di uina luce . Quefla
produce e regge tutte le cofi corporali , e con la fua prefentia
dona loro la ulta , ft) il moto . lmperocbe qua T lunque uiue,in
tanto urne, quanto dal' ani ma riceue il pretiofi dono della ulta ,
dalla quale effa e origine e fontana . Il quarto uogo tiene la
natura corporale , lacuale al tutto digenera dalle cofi diurne , perche
in ejfa nulla è di uero , nulla di certo , ma ogni co/a imagmaria e
uana fimile a l'om- bra de cor picche apari/ce nel continuo fluf fi
dell acquaylaquale continuamente fi ge- nera e fi corromperne mai (la
ferma in uno ejfire . L'ultima ne l'uniuerfi, è la ma teria y nella
natura della quale non e ordi- ne o perfettione alcuna , molto piu
uicina al non ejfire y che a l'efier e. Adunque fi può dire ejfire
ne l'uniuerfi cinque gradi di co* fiyCioe T)to y l' Angeloyl' animaci
corpo , la materia ydequah dua ettremi fino in mo- do contrarijyche
l’uno, cioè Dio è auttore, e cagione di tutti t beni.L'altro y ctoè la
ma teria è cagione e auttore di tutti e mali . Id- dio tanto eccede
le cofi create , che e fio non può ejfire pienaméte intefi da alcuna crea
tura . La materia ha in fi tanto difetto , che ALL*
AMORFE i\ i+p che per fua natura, fi come fogge lo e (fere,
cofi ancora fogge la cognitione. Et per que- fio ne la materia no è
bellezza alcuna, an* zi piu toflo u'e fimma deformità , perche la
bellez&a(come e detto)accompagna firn pre la bontà, ne fi può trouar
bellezza do* '* ue non fiabontà',e noi hauiamo dichiara- to nella
materia non ejfire alcuno grado di bene,efiendo la materia ejfo male, e
prin cipio d' ogni male . 5SS? ancora in Dio e bel- lezza alcuna,
imperoche Dio e fimma firn plicità ,ela fimma (implicita non e
capa- ce di bellezza , ma caufit di ejfa, e fendo la bellezza nelle
cofi create . Onde in Dio e tan ta perfettione ,che quando noi diciamo,
Dio è fapiente , Dio è uiuo , D io è gtufto e bello , noi habbiamo a
intendere in ‘Dio non ejfire, o uita , o fapientia, ogiuflitia, o
bellezza, nel modo che uedtamo nelle co- fi create, ma Dio ejfire cauja
nelle crea- . . > K tij nò PAtyEGIKIdO- ture
, della fipientta , della uita,dtllagiu- ftu ia, della bellezza, e però
Dionifìo Ario- pagitafikndore della Theo logia Ghriftta - «rty dice
nel libro de nomi diuim , tutti e Homi che fino attribuiti a T)io ,
fgmfìca^ re dóni da lui nella natura angelica concefi • fi. #(efla
adunque la bellezza e fière nello àngelo,nella anima j nella natura cor
porti k. JMa come efiafia in quefle tre nature ■- per le
fiquente fimilttudme fi potrà factU mente ( come io 'Spero ) comprendere
. Fingi liner ua dtfiendere di Cielo in, terra tra mortali,
fingi una statua di ?ne*> rauigliofi artifitio fatta a fimilit udtne
co-> me quella di Ftdta, laquale facci la imagw ite fid iti uno
Specchio', chi uedefit quella imagine nello Jpeccbio,non uedendo la fi
a-' tua -, di cui è effavnagme , fi merauiglia rebbe affai della
fia bellezza- Molto piu fi 1 merauigliarebbtfi ue defila Statua,
ondc\. quella imagme d erma sterno fcmdo in efia la
merauighofa mduftrta dello artefice\ <£Ma fi uedefit gli occhi , jf)
il uo!to,e l y al tro basito del corpo di Minerua uiua.qua fi
attonito tonfeffarebbe la fìat ua e la ima gine nello fpecchio non e
fiere degna di fti\ ma alcuna , la cui bellezza , haueua poco manzi
tanto commendato . ^Nondiman - co direbbe e (fere tanto meglio la fatua
, che la imagine nello fpecchio y quanto e meno lontano da Alinerua
uera » 'Sfa milmentela prima , e uera bellezza è nel- lo angelo ,
laquale è mi fura ffi) origine db tutte l' altre bellezze 'L'anima ancora
pofi fiede la bellezza , non già per (ita natura, ma per dono dello
^Angelo , come la cera* ha lempronte dal figlilo , ffi) pero fi
può- dir piu tofìo e (fere uera fimilit udtne di bel- lezza , che
uera bellezza , efiendo ne l'an fa ma, non per fua natura , ma per
beneficio « K ut) isi PA^EGITUCO d'altri II
terze grado di bellezza * ttel cor* po , neramente non fimtktudine , ma
om- bra dt bellezza , molto piu lontana dalla bellezza dell 9
anima, che non e l'anima dal laidi ft abile , nulla di certo ,ma
ogni cofi e ' fluffa e mutabile, e pero la bellezza cor por a le,
figurando la natura del corpo , è Jempre di necefità me/colata con la
deformità, fio contrario, continuamente variando fi . Fra
tutti e corpi , il mondo partteipa amplifimo grado di bellezz&,percbe
tl tut- to è fimpre piu per fetto che le parti. Im- peroebe il
tutto contiene e non è contenuto , . Le parti fino contenute fjft non
contengo- no , f0 nejfuno può dubitare ogni altro cor- po ejfire parte
dello untuerfi/Dopo rimon- do fino e corpi cele ft i , da quali fi può ha
- uer mam fe fio te f limonio della bellezza de lecofi
Ti * • lo z, Angelo . Imperoche nella natura del cor
po ( come rettamente dece Her adito ) nuL f ALL' AMORE, iss
le cofi dittine , Olirà quefio grande nume - ro de corpi , e quali
alprefente faranno da noi pretermefii . Solo diremo dello , buomo
ilquale contiene tanta perfezione e tanta bellezza > che h antichi
Fdofofi non hanno dubitato chiamarlo mondo piccolo , come quello
che in fi piccolo loco come e il corpo humano , ha congregate tutte le
utrtu del i mondo . èjfindo adunque la bellezza nello angelo ,
nell'anima , nella natura corpo* tale , noi chiameremo la bellezza
dell'an- gelo e dell’anima, Venere celefie e diurna . Perche non può
ejfire ueduta da altro oc - chio che dello intelletto , cofa
neramente diurna . La bellezza del corpo chiamere- mo Venere
uolgare . Efiendo conofituta per mezo de lo occhio corporale, per
laqual cofa ,fe ogni bellezza è accompagnata dal fuo amore , e lo
amore non e altro che uno ardente defiderto di bellezza fjnrituakdi
- ) t m .'&rA2$E-G Wmo
remo efifireamore cele fi e e diurno , g ; )ìl dejìdeno della
bellezza corporale efiere amore uolgare e comune» Chi adunque non
conofce quanto fi ingannano quegli il cui amore fi dirizzi alla bellezza
corporale? fi già non lufino per inftrumento per /altre alla diurna
bellezza, mi al prefinte dimet - teremo le incommodità di che fono
parteci- pi gli huomini , per figuire l'amore uolga- re, come co fa
molto aliena dal propofito no u firo. Solamente dimoftr eremo il
maggior dono che fia dato a gli huomini da Uio , cffere quello
amore che li conduce a contem piare la diurna bellezze , ft) pero tal
ama- tore e/fire eccellentifiimo, e qua fi un mira- colo infi a gli
altrt huomini . U anima no : ilra benché fia piena di diumità , anzi
ne- ramente figliuola di T>io , nondimanco m > tanto è
occupata dal corpo, alla cura e reg- gimento del quale naturalmente ì
propo - . • fia , che r AL V~AMÒ\E. V/V
fia y che rifiu • delle uoltediuenta piu fi* imitai tenebroso
carcere dout e ■ indù fa , che allo amore d'onde procede. Et pero '
U antichi Theologi chiamorono il corpo fi* fulcro de làmina y che quafi
l'anima fia piu fimile alle cofi morte che alle itine, meli tre che
fta mi corpo ,per laquàl cofi dimen ttcata della natura fua^è della
bellezza di - urna e delufi da grande , e uano numero di falfi
fogni y' per tutto quello Jpatló di tempo che'l cieco ft) ignorante uolgo
chia > ma uita. E' Incordar fi della diurna bel* léz^a poiché fi
amo congiunti al corpo mor- tale , non è facile a ogniuno y ma fino
po* chifitmi in chifia rima fio qualche fintilla di diurno
Jplendore y per laquale po fimo ef fere eccitati à fi felice ricorranone
. Que~ fli quando s'incontrono in qualche tmagU ne della diurna
bellezza > laquale piu ma - nife fi amente che in altro loco 3 appare
neh r «. \ is6 PAT^EGIXICO corpo
inumano , e maxime nel uo Ito, quan- do e partecipe di prettanttjsima
forma in prima fono occupati da in [olita me - r aut glia, me
folata injìeme con horror e, di poi alquanto afiicurati , la giudicono
cofa neramente diurna e degna , a cui fi conuen - ga fare li
facnfìcij e uoti , non altrimenti che fi foglia fare alle ftatue de li
Dei im- mortali . Ma quando piu attentamen- te riguardando in ejfa
, riceuono per li occhi lo influfio della bellezza , [abito per
tutto alterati, fidano parimente ft) ardo- no. lmperoche in loro fi
accende uno affet- to , ilquale mirabilmente gli eccita, e lifol-
leua . Dipoi aggrauati dal pefo della in- fettione corporale in baffi ro
umano , non altrimenti che fuole auenire a quegli ucce- \ $ » ec j
ua k P er troppo defiderio di uolare , \ hanno ardire di commettere
inanzi al tem [o alle giouani ale il pefo del corpo loro , ma
non ALL'AMORE. in ma non effendo le penne ancora ha fi
unti a notare fono con ftr etti precipitare in ter- ra y
perlaqualcofain un mede fimo tem- po agitati da dua
contrarijfintonograuifi fima moleftia , lacuale fubito fi corner te
inletitiache fiecchiatt di mono nel bellifii mo mito , riceuono drento a
l'anima , il tanto defiderato fplendore . ^Ma quando fiparati dal
diurno Jpettaculo , mancono della loro confueta e fi a , afflitti e
dolenti fi riuolgono continuamente nella memo- ria , la imagine
dello Jplendidifitmo uolto , onde sforzati dallo ardentifiimo de
fiderio, fimili alti infuriati non potendo ne la not- te dormire ,
ne' l giorno in alcun luoco quie- tar fi y per tutto difiorrono cercando
di uede re quello fpettaculofinza la cut ufi a con- fumati dal
dolore perirebbono, ilquale poi che hanno ueduto e rtprefi il defiderato
nu tnmentojibtrati dalli acuti [ìimuli egra- ( <
rff$ j?A^sai%ico \ue ànguHte y fi fentono m tanto
filettare ~fipra le forzé loro confate , che dimenti- . candofì de
padri , de fratelli, de patrij honori -dequali fi filettano. gloriare
Amen- tic andò fi ancora di fi mede fimi , fem- ore penfam in che
modo pofimo fruire il \dmmfattaculo , come quegli che reputar (fio
ogni lor ualore , m quefia uita ffi} in •quell 'altra hauere origine ,
ff) incremento da lui , come ottimo medico delie humane infirmiti .
In prima dalla- bellezza d'un corpo non filo particulare , ma ancora
ca- duco, falgono alla bellezza de corpi celefii, e di tutto
lumuerfo , Oue oltre alla luce di che efii fino urna fontana utile cofi
finfir bili y contemplano una.fuauifitma harmo- via caufaa da
lordine e proporzione de tnouimenti loro , per la qualcofiiyapcrta
( Mete conofiono il cielo, ejfire la hr a di Dio , come dicono .
gli ant ichi ^Pit t hagorici , al fano T:
fuono ddlctcj naie tutte le cofe contenute da lui mtr abilmente
bullono , Uopo la bellez- za de lo umuerfo truouono la bellezza
rid- i' anima . Imperoche ejjendo il corpo una. fimilit udine de
l'anima, ne ffuna partecipa itone della diurna bontà può ejjcre in efjo
+ lacuale non fia molto prima ft) in molto* miglior modo
nell'anima, ejjendo origine e principio della natura corporale, anzi
non per altro la partictpattone della diurna bel lezza e nel corpo
, che per ilgrande domi hio ft) imperio quale ha l'anima in affo .
Onde e Filofofi affermono quafì come coft imponibile non ejjere
eccellentijsime dote m quegli, iquali fino dotati di piu egregia
for- ma che gli altri , come qua fi l'anima di co- loro fia piu
predante e piu diurna , la cui forma del corpo uera fimiltt udine de
l'ani ina è piu bella , cofi di grado in grado prò • cadendo ,
fubitofi difcuopre loro il prò fon» 160 ALL'AMORE. do
pelago della diurna bellezza nello fflen- dor dellaquale nella prima
giunta abagha ti , pojjhno fico medefimi in quefta manie- ra
ragionare . Infino a qui balliamo piu tofto una ombra ouero fimihtudine
di bel- lezza che nera bellezza - *?Maal pr e finte o dolcifiimo
amore , ilquale rtfialdi le co- fi fredde jilluftr ile ofiure , dai uita
alle morte groppo hai filleuate l'ale delle menti nofire , lequalt
infiammafli alla chiar fil- ma luce della diurna bellezza , e le
penne già rottegli fuptrchio amore delle cofi mortali , non per fua
natura , ma per tuo beneficio nnnouate,hai e fp beatole noi Mo-
lando (òpra il cielo, guidati dal diurno furo re fiamo ripieni di quelle
merautghe,lequa li mai ne occhio uide,ne orecchio udirne di -
fiefeno in cognitione di cuore alcuno. Onde neramente pofiiamo efilamare
, quefto e il di che ha fatto il Signore , rallegriamoci
ffje/ul- ALL* AMORE. i*r ft) ejukiamo in effo. Quefta
ì la uia retta ; per laquale debba procedere il legittimo amatore ,
ilquale quando comincia a con* templare la diurna bellezza , fi può dire
e fi firc uicino alfine , oue ciaf una co fa creata quietandoci
acqui fi a la uera felicità, * pe- rò qualunque riguarda la uera
bellezza con t occhio della mente , col quale filo può ejftre
ueduta,non producendo imagtne e fi milit udine di uirtù , ma uere uirtù ,
fatto a Dio amicOydimoftra chiaramente ihuo mo efifere per
beneficio dello amore ree etto- culo della diuinnà , per laqual co fa qua-
lunque non ùede il uero amatore douere e fi firetnfia glihuomint in
grandifitmo pre- gio , e mafitme appreffo della cofà amata % non
intende quanto le cofe diurne fino piu eccellenti \e degne di piu
ueneraimt che l y al tre , ne alcuno impetra maggior gratti , e
riporta maggior doni da U T)ei , che la co* U2 P/A^EGJ^taV
. fa amata, quando ardentif imamente ria* mando èparata afitt
omettere ogni per icn lo in gratta del fuo amatore . Imperoche, con
lo amatore habitano gli T>ij, pero non meno accettono l'offcruanttae
lattenera- ttone della cofa amata in uerfo l'amatore, che e uotie
fàcrifìcij fatti a fi. Onde in quefta uita,{t) in quell' olir a, la
ricompen - fano di grandmimi premij . Ma quando, la cofa amata ha
in odio il fuo amatore f ; cimenta ricetto di tanta mifiria e di
tanta infelicità ; che molto meglio li farebbe effe-, re, o bruto
animale, o tnfenfto faffi* anzi piu tofto al tutto non efjere
nata.nefi fina cofa arreca maggiori incommodi a gli h uomini che
l'odio delle cofe diurne, dal- le quali pende ogni bene , ogni mifura
nello untuerfo , perche efendo fondato in fu la difimUitudme di
effe , è nectffario che fa accompagnato da tutti e mali : chi adun
* queha XLVAMOKZ. m que ha in odio lo amatore^
ejjendo. alieno t rebelle dalla diurna bontà ft) amico delle cofi
contrarie , m prima fi fa firuo di quelle per tur bacioni y lequalt
arreca Jtco l'imperio de jen fi , quando la ragione e adormcntata ,
come fi a gufa delle pian- te tenga il capo in terra , bauendo uolto
e ' piedi uerfio il cielo . Z }opo ne uiene un'alt r o male y
perche non conofiendo alcuna cofa rettamente , pieno di falfi opinioni
diuen -, ta folto e bugiardo , non altrimenti che auenga a quelli
squali da continui fogni beffati in mezp al fonno finfiono la lor ui-
ta.'Da quefie furie y mentre che e uiuo dor- mendo , o ueghiando y fi
gite da dire effo mai ueghiare y rimordendolo la confeientia
imperturbato . Ma dopo la morte JubitQ da minifiri'della diurna giuftifia
menato manzi al grande giudice ode l borendo gtUr ditto, fi ejfire
dato in potè fi à dicrudehfitmi demoni , dequali una parte lo affligge
còl rappreftntarli nella fantafìa ogni horribtle fpecie dt paura .
Vh' altra parte con intoL ler abili pene corporali lo tormenta . Ma
J opra tutti e mali , dua fino grandmimi . V uno e una certa mole fi ia
interiore laqua le procede dalla difeordia dell'anima in fi
medefima , (ìmile a quel dolore che ènei corpo y quando per ladifiordta
di tutti gli humort pefiim amente è dftofto. L'altro di gran lungha
piu graue y effiaè diuinità penetrante in ogni luoco , la prefintia
della quale per cagione della interiore diffenfìo- neaneffunmodo
può j apportare . Impe- r oche yCome gli occhi cifpi perla
prefintia del lume fintono gran dolore i fimi fi co fortano y
cofi L'anima gtufta finte gaudio e dolcezjtt,La ingiufia finte una
moleftia che ninte ogni moleftia , perla prefintia della diuinità .
Da quefti mah ancora ALL'AMO'KE. ics molto maggiori per
uolontà diurna e afflit- to chi ha in odio il (ito amatore , ilquale
di- uenta partecipe di altrettanti beni , fedi* meffa ogni altra
cura, filo penfi notte e giorno efircitarfi in ogni ffecie di
uirtu,ac- cioche fatto fimile a lui, fia degno ricetto di tanto
lume. Quefte e fimih fino le laudi o dtuinifitmo amore,che noi inuolti
nelle te nebre del cieco mondo di tepenfare e ragio • nave pofiiamo
. Alla cuigràdezga chi non rende il debito honore,no conofie tutte le
co fi cofi diurne e celefii,come terrene, per tuo benefìcio non
filo effere create \ ma ancora unir fi al fio creatore in lui
finalmente quie- tarfi , piene v:. ciafi li- na
fecondo la fia natura della gratia divina « iS - JLL MOLTO MUG%ìtìCO E
S^O OS SERVANO ISSIMO BENEDETTO
uandifsimoM. Bac~ do mio ,che a colo- ro , i quali di quella
prelente uita partati fono, fi porta fa- re beneficio maggiore ,
che tenere ùiua ? e frefca la loro memoria ; Per-
ii<*8 ciò che il cóli fare è fecóndo il pare- re d
alcuni poco meno., che rifufci- targli , e fecondo alcuni altri di
piu perfetto giudicio , molto piu, dan- doli loro non una uita fola
, e quella caduca , c mancheuole, ma molte, e fempiterne,come altra
uolta piu lun gamente dichiareremo . Onde fra tutti gli Scrittori
antichi meritò per . giudicio noftro grandilsima lode Plutarco . E
quanti crediamo noi , che fuflero in tutti i fecoli, e per tut- ti
i paeli huomini eccellenti fsi mi co- li ne’ gouerni politici , come ne
ma- neggi dell’arme , e ne gli ftudii del- le lettere , de’ quali
permancamen- ■ to di Scrittori non li fi pure ,che eglino non che
altro, nafeeflerogia- mai ?. La onde io ho A fempre
giu- dicato gratiofo , e lodeuole uncio P cr i6
9 ì ..per coloro adoperarli , che le uite fd icriuono di
quegli huomini , iquali pio o collazioni , o colle fcritture , o a
to. le lor Patrie , o all’altre Genti furo- Hi no , o d’honore , o d
utilità cagione, ■ e accio , che gli Altri huomini in efsi m
rifguardando, e i loro o fatti , o detti à imitando, pollano o la
felicità huma r na con Marta, o la beatitudine diui- • na con
Maria , o l’una e l’altra infie- memente confeguire. A quello fine
piu, che peraltro rifpettomi poli ( con animo di douere fe
conceduto mi fuffe comporne dell’altre ) a feri- uere il meglio , e
con piu chiarezza c breuità , che io fapefsi , e potefsi , i • la
uita di Mifer Francefco Cattani da Diacceto , parendomi , che egli
fof- fe quali come uno fpecchio non lb- lamente della uitaciuile,
ma etian- *70 - . * dio , amzi molto piu della
fpecofa^- tiua , del quale io , fé bene il uidi nc miei gioueriili
anni piuuolte, non Riebbi però, non che familiarità,© do
meftichezza, conofcenza nefluna , ima tutto quello, che io ho di lui
fcrit to,l’ho fcritto parte per relatione di iiuomini graui, e
degni di fede,iqua 4i domefticamente ^ e lungo tempo con lui
praticarono, non eiTendo,da che egli di quefto Mondo parti , piu
che trentafette annipaffati;e parte •mediante gli fcritti fuói , de
quali -me flato hberalifsimo M. Francefco fuo nipote,
giouane(còmefapete) ,detà, ma di grauità,e di prudenza^ maturo, e
di quella bontà, e dottri- na , che piu opere da lui Chriftiana-
mente, come da huotno facro, eca- nonico compofte , e di già
mandate in luce I 7* iti luce &
aIfEccell.de! IlIuftrils.Sig* Duca Padron noftro indritte, dimo
Arare podono^Laqual uita (qualun- che li lia ) ho uoluto donare a
Voi,£ che nel nome uoftro apparifca, non tanto per lo eder Voi
della nobilif- Ama famiglia de Valori, iquali funu no amati
grandifsimamente, e ho- norati daM. MarfilioFicini., econ*-
leguentemente dal Diacceto ; quan- to perche Voi fete degno della No-
' biltà, e ne ritornate in luce il Valore de uoftri Maggiori ,
daquali anco- ra edere uerifsimo conofcereli può quello, che da me
fu detto di fopra, pofcia, che Niccolo Auolo Voftro huomo di tanta
prudenza , e di coli grande ftimafcride non menoco- piofamente ,
che con ueritàla uita del Magn. Lorenzo Vecchio de Me- w
2 dici, e anco per non negare il uero , tenendomi io buono
della fcambie- uolebeniuolenza,euerilsima ami- ftà noftra , m’è
paruto di douerne dare , come un teftimonio , affine , che li
fappia,che li come Voi per uo lira cortelia amate, e honorate me ,
coli io altreli per giufto debito amo, & ofleruo Voi .
tCOMTOST^f D^£ VARCHI, B MANDATA A ‘BACCIO VALORI. fn.
VITA DEL primo , che ( disfatte per le parti guelfe, e
ghibelline ) Diacceto , hebbe in Firenze i primi , e fòprani honor ideila
Città , fi chiamo Becco di Torre di (juidalotto , tl quale fidette
de' Tenori delt zArti , che cofi s'appdlauano in quel tempo i Signori
, tre uolte . La primardi mille dugento no - nauta quattro , diece
anni, dopo che cota- le Jopremo <JMagi(ìrato per abbattere la
troppa potenza , e tener e. in fieno la infip- portabile fuperbia de'
grandi fu ordina- to ; la feconda , nel mille dugento nou anta otto
; la terza nel mille trecento cinque . Di 'Becco nacquero Porcello , e
^Mugnaio , o neramente ^tignato , che cofi fatti nomi fi poneuano
anticamente nella Città di Firenze ; tqualtamenduni furono non fi-
lo de ' Priori piu uolte , ma etiandio gon- falonieri di giufiitta ,
ilquale era il piu al- to grado, e piu {limato di quella Bfpublt-
ca y e f I- )
ita ca , e T* or cello oltraglt altri uffici], e ma - \
giftrati , riccuette nel mille trecento tren » ta noue per lo comune di
Firenze la terra , defila, e ne fu primo comme [fario c/wwé fi
legge ancora nell' zArme , che egli fecondo ilcoftume dicotalt Fattori ui
la - yc/à . JD/ indignalo nacque il primo ‘Ta* golo. T)el primo
bagolo il primo Zanó- i?u T)el primo Zanobi il fecondo ‘Tagolo.
f>i coftui, ilquale fu per la grandezza delle qualità fue fatto con
molti priuilegij Conte da oAlfonfb 7{e di ‘Napoli, firife la uita
latinamente Ai. ‘Bartolomeo Font io, huomo di ottimi coflumi , e nella
fita età letterato , ffi eloquente molto . Di Pagolo nacque il
fecondo Zanobi , ilquale fu pa- dre di Francefeo.La cui Vita
intendiamo al prefente di douere feriuere Noi, fi per al tre
cagioni honeflifiime, e fi perche fi cono- fea ancora a beneficio comune
, che la uu n la contemplatiti a può in uno huomo filo
(il che non credono ) coll' attuta unitamen- te congiugner fi, e
lodeuolmente efercitarfi % e di uero come egli non fi può negare s
che la contemplattua non fia la piu gioconda , e la piu degna di
tutte l altre mte,cofi con - fejjare fi dee y cbe lattina e alle città e
alle Comunanza de * popoli, come piu necefjaria co fi etiandto piu
utile . Dico dunque che di JZanobijdi TP ugola Cattani da : Diacceto
, e di mona Lionarda di Fracefio di Iacopo Venturi , nacque in
Firenze tra la piazzi del grano, e* l canto agli cAlberti non lun -
ge dalla chic fa di San ‘Romeo, tanno della (hrifhàna falute mille
quattrocento fi fi finta fii,il fedicefimo giorno di^ouem- ' bre un
figliuolo mafchio , alqualt , o per rifare il fratello di Pagolo fio
zArcauolo paterno, ilquale s\ra morto ] enzA figliuo- li > o per.rinouare
il nome del fuo Aiuolo materno % C ATT A ^10,. m
materno , o piu prefto per l'una cagione, e per l'altra uoìlero,che fi
ponejfi nome Fra- cefio.E perche egliinfino da (uoi piate* neri
anni daua prefagio di (ingoiare tnge* gno , e di (pirito molto eleuato,
uolle il pa- dre ancora , che per fina Idiota fojje , che egli fi
dejfi non alla mercatura , cornei pm fanno de' giouani Fiorentini , ma
alle lettere , dellccjuali tanto fidilettaua , e co- tale profitto
dentro ui faceua(che non uob le,tjfindo rimafi ancora fanciullo
finzjt padre , e non molto agiato delle co fi c'ha- uendo il padre
gran parte difiipato delle fue facultd) per coja , che gli fi diceffi
con- sentire mai d' abbandonarle. oyinzfi hauen do egli,per
ubbidire alla madre , deliaejua- le fu fimpre offiruantifiimo , e
Soddisfare a parenti , non armando ancora aldicid nouefimo
anno.prefi per donna laLucre - Ha di Cappone di "Bartolomeo Capponi
, la M meno con efio fico a^Pifà, e quiui tanto
la tenne , che forniti i fuoi fludtj , e battu- to di lei figliuoli , fi
ne torno a Firenze, do - ue in quel tempo fionua la fihcifiima Aca*
demta di Lorenzo uecchio de Atedici,nel- la quale tnfieme con molti altri
huommi (Fogni lingua , e in tutte le faculta dottifi fimi, fi
ntruouaua ^Marfilio Ficim, Canonico Fiorentino , tlquale oltra la
fin- ceritd de co fiumi , fu d'eccellenza d'inge- gno , e di
profondità di dottrine co fi gran- de , che io per me non credo , che
Firenze habbia mai , e parmi dir poco, hauuto al- cuno , defilale
fi gh pofj'a non che preporre , agguagliare . Coflui effendo ( come ho
det - to ) Qmonico di J anta ^Maria del Fiore , haueua con
incredibile s ìndio, e immorta- le beneficio la Filofifia Platonica per
mol te centinaia d'anni piu lofio perduta , che finarrita , come
piu conforme alla religton ;; _ • ; • Chrifiiana ,
Chrtfhana , che l'zArifiotelica non fola- mente ritrovata , e
rimeffa per la buona ma , cofd uer amente piu tofìo diurna , che
humana , ma datole ancora credito , e ri- putatone non pkciola. La onde
Ad. Fran cefo, tratto dada fama di quell'huomo fn golarifimo(Jè pur
huomo chiamare fi deb be co fi alto , e nobile Spirito) e guidato
dal- la ‘Telatura , lacuale perche egli cjuedo fa- cejfi, che egli
fece, prodotto l'haueuajac- coflo incontanente al Ficino , tlaualt (
co- me gratifiimo del dono da Dio conceduto- gli , e delle Jue
proprie fatiche ) come nero Filofofoyliberahfiimoyinfignaua ,
epubhca mente , e privatamente a tutti coloro , che d'apparare difiderauano
; e l'udì con tan- ta ingordigia , che egli in non molto tempo non
pure Platonico , ma eccedentifiimo T latonico divenne . Onde egli 3 fi
bene m uarij tempi, e luogi 3 diuerfi Dottori udito
iso hàuea , confiejfia nondimeno
tutto quello ,' che fàpeua , hauerlo da <&iarfilto. filo
imparato , fi in molti altri luoghi , e fi particolarmente nel proemio
del libro, che egli fece , e intitolo del H utero , cioè del 3ello,
doue f duellando di lui dice quefie parole proprie . Dicam
firn , nec unquam me pcenite^ bit , quoniam boni airi ejse duco , cui
ma- gna beneficia debeas ,eidem ipfaaccepta referre, nosidipjum ,
quodfiumus,fìquid Jumus ilio efie . Qoè in fintene . lo ne-
ramente il diro , ne mai farà , che io me ne penta, ptrcioche
iopenfo ejfiere cofa da huomo da bene ilconfejjare da colui haue re
i benefici] grandi riceuuto , a cui tu ne fii debitore ; *Noi tutto
quello , che fiamo, Je fiamo cofa alcuna , ejfiere da M* Mar -
fillio Ficini . / ; v v £ dall'altro lato conofeendo M. Mar
fillio la 'M s ■ - 1 : V
ì C Jto J ilio la grandezza dell ingegno y t /’
inchina- ime dell'animo di lui alle co fi di Platone * e ueggendo
il profitto , che egli u'haucu* dentro in picciol tempo fatto
grandifiimo, l'amaua affettuofifiimamente y e lodando v lo
eccefiiuamente y lo chtamaua non filo du fiepolo y ma compagno , come fi
può m malti luoghi ueder e delle opere fue , doue egli fa di lui
mentione honoratifiima y e Jpe t talmente nel Parmenide al capitolo
ottan taquattroefimo y neiquale fi leggono que- fie parole formali
. Sed dum pulchritudinem hic diuinam commemoro y commemorare
fas eft Fransi fium Dtacetum y dtle£itfiimum Compiuto -ntcum noftrum y de
hac ipfa pulchrit udine quotidte multaipulcherrimaq^firibentem,
quem Jane utrum ad c Platontcam fapien - ttam natura y geniusc £
formauijfi uidetur y leq uali fuonano co(ì . < c M
iij I i82 L 4 eZMentre cheto fornendone qui
della bellezza diurna , , giufta e pia coja e , <che io faccia
mentione di Francefilo da Diacceto no/lro diletti /?imo compagnone
gli ftudij Platonici , tlquale di qucfla ftefi fa bellezza firiue ogni
giorno molte , e bel- Ufiime cofi,enel aero egli pare, cheda ‘Fu-
tura , e il gemo fuo formato l'hauejfono , pèrche egli la fàpitnzp, di
Platone in- tendejfe,e imitaffe . \ ‘ Dellcquah còfe fi pub
ageuolrnente ca- ttare , prima quanto pojfaejfere dipana- mento a
una città , anz} a tutto 9 1 mondo un huomo filo colla prudenza ,
e libera- lità Jua ; poi quanto fia necefiarioa un buono ingegno
abbatter fi ad hauere , o fa- perfi elegger e un buono precettore ;
concio - fia co/a , che fiCofimo de <JMediculuec- chio , e di
mano in mano i /uoi /ucce/fin, e mafiimamente Lorenzo , non
hauefiono fauorito le lettere, e coloro, aiutati, icjualt d'ejjire
litterati defederanno, *fMar fello non farebbe flato Ai. Aiarfiho ,e
per confeguenza il Diacceto , per tacere di tan ti altri , non
farebbe flato il Gbiacceto , e confeguentemente Firenze , anzi tutto
il fiondo farebbe di (i chiaro lume conno - fero, e fuo gran danno
per fempre man- cato . c tfefi merauigà alcuno , che io feri - ua
bora D. colD.fenz# f a ff tratto- ne, e bora Cjhiacceto col G. colta
forato- ne y concio (ia che io cofi nella lingua latina de
^Moderni, come nel uolgare Fiorentina truoui feritto bora nell'un modo ,
e bora nell'altro .feleua ancora Marfìho É mentre y che egli
ytrouandofi hoggimat oL tra coltetà , leggeua a fuoi dfetpoh , dire
5 io me ne uo , ma fi bene mi parto , io ut lafeio lo fiambio,
intendendo di A4. Fran- cefeo , Uguale fi chiamaua per fepr anoma
tiij il r Pagonazgo : perche , mentre era gioita- ne ,
fi tùie t (atta molto , e ufaua utfiire di quel colore, ilqual cognome
gli duro firn- prò , mentre che uifje , a differenza diun filo
cugino carnale, ilquale haueua nome 'anch'egli francefco: era del mede
(imo Gu- fato ,e di una medefìma età , e faceua la medefìma prò
festone di FILOSOFO , e perche nefhua di nero , fi gli diceua per difttn
- guerlo dal ‘Tagonazgp , JUd. Francefco ‘Nero , raro dono de Cieli
, che tnunmc- defimo tempo , in una medefìma città , e dima
medefìma famiglia fiorirono due cofi gran Filofofi , benché il Pagonazzp
,> come auuiene ancora ne colori, molto fojfi di maggior pregio,
ertputatione , che Ane- to non era . Ne fu ingannato ^Mar-
filio , ne inganno egli altrui , quando difi fi, che lafeiaualo
fiambio fuo , conciofia cofit , che dopo la morte di lui ■ o
figuendo 1*S' feguendo l'effempio , e calcando l'ormedi cofi
grande , e cortefe matjìro , e compa- gno, oltra il fare di fi
amoreuohfitma t. mente a chtunche nel ricercala gratiofifiu m amente
copta , lefie molti anni , e molti pubicamente nello fludw Fiorentino ,
con trecento fiorini d'oro di prouifione per età- fiuno anno , egli
tiro fimpre mentre uijjè , non ottante , che egli negli ultimi tre
anni della Jua ulta per le cagioni , che poco ap- pre/fi fediranno
non uolejfi piu leggere. E benché i Signori Tmetiant mofii dal
grido della fua fama lo fàcejfiro piu uolte in* fi antemente
ricercare per mezzo di À4on- fignore l'f\Arciuefiouo di Cor fu , e del
fy* uerendifiimo Cardinale fprnaro,de' qua* li egli era amictfiimo
, che uolejfi andare 4 leggere nello ttudio di Tadoua , con gran*
difiimo /alano, egli nondimeno, che fi con • tentaua delle Juef acuita,
ancoraché mol* te non fuffono,ed era lontano da ogni
am- binone, e grande amatore della quiete, non uolle accettare mai
partito nejjuno , per . grande , e bonoreuole , che egli fojfe , e
fi < refio a uiuere tranquillamente nella fio patria y e
arrecare giouamento a Juot cit- tadini. Quegh,cbe frequentauano la
{cuo- iame la cafi (uà , o come dtfiepoh , o come amici , o come
l'uno, e l'altro mfìeme, era- no et ogni tempo molti y de quali non mi
par. rà fatica , ne fuori di propofito raccontar- . ne alcuni de
piu fìgnalati , iquah furono quefti : P ter o Martelli: Giouanni
forfii fiAdouardo ( ^tacchinotti : ‘Piero Bernar * di: riAndrca
Rmuccim: Benedetto d'zAn- . tonto (Quaker otti: Ftcino Ficini nipote
di ^Marfibo, Luca della Robbia: Ale fi fandro.de Paz&fT ter
firance fio ‘Por tino- ri : ‘Palla Rufeellai , e Giouanni fio
fratello , che fu poi Caflellano di Caftel fin? Agnolo
! 1 ft . ài m fini* Agnolo, e Cofimo lor
nipote, nelquale m ( ejfendofì egli morto ne /noi piu uer
d'anni) fc fecero la Città di Firenze , t le Mufi To- ri ' y
cane danno , e perdita me filmabile :Ftlip « fu po Strozzi » e
Lorenzo fio j rateilo : Luigi or. ^Alamanni : Zanobi c Buondelmonte , la
- , v. copo da D., chiamato tl D. m no gioitane letterati fimo , e
d'alto cuore : u c , /intorno trucioli: ^Maeflro zAleffandro
ir da “Ripa : Filippo Carenti : M. Donato Giannotti, e M 'Fiero
Vettori, iqnah ho 0 poflo nell'ultimo, non perche eglino non
fof 1 /èro de' primi , e de' piu dotti , ma perche ancora
uiuono amendue . c Ne uoglio tace * re , che egli , tutto , che fofie fi
grande Fu i lofi fo, non filo zAcademico ma ettandio ;
J ^Peripatetico , oltra l'inteDigenza della lin- gua co fi
Cjreca,come Latina, non uolle mai conuentarfì, giudicando , per quanto
io fimo, che tl Dottorarle fpettalmente I
in FILOSOFIA a coloro , iquah la loro fetenza 0 uendere,o
farne la moftra non uogliono , fia co fa finon ridicola , almeno
foperchta . E di ttero cotali ttficij , e preminenze, come rifpofi
già Traiano Imper udore a uno, che gli dimandaua il prtutlegio di
potere come giureconfulto auuocare , e fare de Configli , fi
debbono piu tofio dare da chi fi finte da ciò , che riceuere . Afa quello
, che a me pare 9 e che douerrà,s'io non m'in ganno , parere ancora
a de gli altri piu marauigliofo , e di maggior loda degno è , come
egli, effendo tutto occupato non fila-, mente nel leggere , e intertenere
tanti cofi amici, come dtfiepoli : ma ancora nelle moke, e
importanti faccende, cofi pubìi- ce , come priuate , potefie tante opere
com- porre , e cofi perfette, quanto egli fice, del- le quali to
racconterò cofi alla rwfufa tut- te quelle, che io ho parte ueduto,e
parte da coloro i V ro.
U9 coloro fintilo dire , che uedute l'hanno , le- ' quali fino
quefte tutte latinamente firme. Vna'Parafrafì [opra tutti e quattro
i litri del Cielo d'zArifiotilejndritta aPa pa Lione. ’ * Tre
litri intitolati de Pulchro a Palla, e M. Cjiouanm T^ufiellai .
• Tre labri dimore a Pindaccio da 2 li* cafili . . ' • v vA :
H : ‘Panegirico d'AmoreaCjìouami Cot fi y ea Palla ‘Rpfiellai
Una Parafiafi fipra i quattro libri delle eJ Meteore d'zAriflotile y ma i
tre ulth mi non fi ritruouano . Vna Parafrafi [opra gii otto
libri del- la Fifica d'oAri/lotile , laquale o non è in pie y o chi
l'ha la tiene guardata per fi. Vna ‘Parafrafi fipra la Politica
di ‘ Platone , ma tanto breue y che fipuo chia- mare piu tono
prefatione % thè altro • , jpo
Vna r Parafiafi f opra il Dialogo di Alatone chiamato
ilTeage , onero della Jàptenza . Vna Parafiafi ne gli Amatori
di Pia ione y onero della FILOSOFIA. . Vn coment o fipra il
libro di ‘Plotino dell' efiinz& dell'anima. Vna
dichiaratone fipra quei uerfidx Boetio ytqnali cominciano. Tu
trtplicis medium natura cuntka mouentem , a "Bernardo 'Rufiellai
.. o Alcune prefazioni [opra diuerfi ma- terie.
^Alcune epijlole a dluerfi amici molto dotte y ne Ile quali fi
dichiarano afidi dubbi di Filofifia . L'ultima fina
compofitione fu un co* mento yilquale egli a petttume di Monfigno
re M. Giulio de medici > che fu poi Papa Clemente, fece [opra il CONVIVIO
di Platone ; w ipi quali componimenti olir a latta*
rietà , e la profondità della dottrina , e mafeimamente Platonica , e
Tlotimana pare a me , che due co fi fi pofjano , anzi fi debbiano
confederare , mofirantt ambedue l'eccellenza , e perfettione dell'ingegno
, e gtuditio feto . La prima è, che egli usò nel fuo comporre uno
Hile,fe non Ciceroniano del tutto , graue nondimeno , e filofoficb
molto , e tutto lontano da quelle laidezza > e barbarie , collequali
Jcrtueuano in quel tempo y e feriuono ancora hoggidi per lo piuì
Filofofi latiniyfenza leggiadria >e gra- tta neffema . 6 tanto è da
marauigltarfi piu y quanto ancora coloro , iquali fatua- no profe
filone di bene , ff) eloquentemen- te fer luer e y dietro un co fi fatto
mifitfo non imitauano ( gran fatto ) nelle loro fcrit tu- re la
diuina candidezza , e purità di CICERONE y mao TlintOy o Valerio A4 afeimo }
o altri tali non buoni c Autori della latinità , o almeno della uera
, e finterà eloquenza Fumana, lacuale manzi che Afonfignore dietro
'Bembo , buomo piu toflo di - nino , che bumano la dimofirajfi ,fi
già* ceua o fiono fciuta del tutto , o dijpregiata in grandifiima
parte p percioche colui, il- quale piu Stortamente , e piu
[curamene te firiue cua , era e da fi Sieff , e dagli al- tri piu
facondo tenuto, e maggiormente ammirato , come fi la principale uirtà co
fi dello firiuere,come delfauedare confi ftefie inalerò, che nella
chiarezza, o fifauel- laffi, e finuefie da gii buomini ad altro
fine, che perejfire intefi. La ficondaè, chi doue quafi tutti gli altri
fi faceuano beffe, o haueuano compafiione di chiunque uolgarmente
fcriueua , e haueano la lin- gua Fiorentina per niente , egli quafi
pre- cedendo quello , che di lei mediante limedefimo BEMPO auuenire
doueua , tradufje, alcune delle fue opere y e piu fi dee credere 9
che egli tradotte n'harebbe fe piu lunga - mente uiuuto foffe . Lequali
fue opere fi flampatcfi foffono y non ha dubbio , che la fua fama
fi farebbe y e allungatale allar- gata molto piu , che ella forfè fatto
non ha* £d egli per configuenz et s' bar ebbe maggior gloria , e
piu chiaro grido , e in fimma piu lunga anzi immortale uita y
acquifiato.Le quali pero fino di manierale elleno lun- gamente
Ilare nafiofi non poffono y e Fr ance fio fuo Nipote , ilqualenon ha
fi- lamento il nome di lui , m'ha piu uolte co- llantemente
affermato y finonhauer cofa y che piu lo prema ; e laquale egli , per
fiod- disfare alla pietà y e debito fuo , maggior- mente difìderi y
che di rinuemre fènon tut- te y la maggior parte delle fritture dell
duo lo fuo per publicark * B allhora fi potrà meglio cono far e dagli intendenti
chente, t quale fojjl d'ingegno, e la dottrina di cota- U ,e
cotanto lo uomo ; e Ji marauigheranno infieme con effio meco della
capacità del fuo intelletto , e come un buomo filo potè (fi
cjfieretanto uniuerfikle, che m tutte le cosi, nelle quah egli fi metteua
, nufiijfie non di- co raro y ma qua fi filo. Ecco : egli come che
fojfie amanttfiimo della quiete , e lungi da ogni ambinone , e auaritia
fatico nondi- meno oltr a ogni credere non fidamente ne gli ftudij
delle buone lettere , e della fan - tifiuna Filofifìa , come s'è
ueduto,ma an- cora nell anioni humane, e nelle bisigne socolari ( come fi
uedrày di maniera, che fi può ficuramente credere , e con ue- tita
dire , che egli di rado col corpo fi ripo'*- fiafie y ma colla mente non
mai y e fi bene egli e da naturayefua uoluntà era più mi- to a gli
fiudij , e al contemplare, che alle faccende , ' .
I9S faccende , e al negotiare, tutt amagli bisignaua fare, come si dice, della
necefrità uirtù yper laqupl co/a e neceffario di [ape- re , che
quando 'Pago lo fuozAuolo uenne amorte , egli come co Iucche era flato
firn* prèy amictfrimo , e fautore della famiglia de ^Medici , e
conofceua la prudente la potenza di Co fimo , e forfè la fortuna di
quella cafd , fece (come racconta il Fon * no nella uita di luì)una bella
diceria, nella quale fra l' altre cofe auuertii figliuoli , e
comando loro , che amafrino fempre y eof firuafrmo Cofrmo,e tutti i fuoi
'Difenden- ti quanto fapeffiro , e poteffono il piu, e dal *
l'altro lato pregò fìrettifrimamente Cofi- moycbe glidouefie piacere
cfhauere loro , t tutti i fuoi Po fieri, per raccomandati , e si
coment affi di pigliare la protezione lo T ro . E di qui nacque ( penfò
io ) oltra le fut fingolarifiime qualità 9 che non filamenti ? X ;
jf i9(f r Papa Lione,
Uguale fu Jòpra tutti gli huomini grattfiimo , e libtrahfìimo , gli
porto fempre affettione ftraordmaria,e gli fece molti fauori,e prefìnti
di mn piccio- lo, Prima e valuta, ma ancora tutti gt altri di quella
famiglia ,e in ijfetialità tifar dinaie, che fu poi c Tapa Clemente,
colqua le ( mentre , che egli reggeua Firenzi) pra- ticano molto
familiarmente, e conmeraui gltofa dimefiichez&a . Quelle furono le
ca- gioni , che egli , ancora, che Fdofifo,e del- la fitta di
Platone prima entro, epoi non fi ritiro dalle faccende civili, per non
dir nulla , che hauendo egli molti figliuoìi(cò- me diremo ) e non
molte / acuità , non po- teua,ne doutua fare altramente, e di quin
ci ancora auuenne, che nel dodici per la guerra , e ficco di Prato ,
quando i Me- dici ritornarono in Firenze, egli con alcuni altri
Cittadini , de' quali come amici delle W Palle s'baueua fefpetto, e
in Palazzo, dove era 'Piero Soderini gonfaloniere a ul- ta ) fiftenuto .
Ma non prima furono i Siedici rimefii in Firenze, che douendofi per
co/e importantifiime creare uno c Am- bafciadore per la Città a Mafmiano
Im peradore , fu tra tutti gli altri eletto Francefco , benché poi
per lo ejferjì affetta- te , e accomodate le cosi in quel modo, che voleuano
quei , che poteuano, non facendo piu luogo d' ambafciadore, non ui fu
man- dato ne egli, ne altri * 6 nell amo mille ctn • queceto
diciannoue, e [fendo morto a quat- , tro di faggio Lorenzo de Medici
Duca d ye Urbmo,e douendofigh fare filenni fiime, e magnifiche
eJfiquie,ancora,che non man co chi bucherajfi dibattere l or adone ,
d Cardinale firijje a Francefco, ilquale fi ritrouaua in
uilla, che fi trasfenjfi frit- tamente a Firenze , e cofi la fece , e
recito iij ip t - T I T A DSL f egliil
fittimogiorno , nelqualeficelebra- nano nella Qoiefa di S. Lorenzp con
pom- pale honoranza incredibile , e fu tenuto tojà rara , e degna d’ammiratione
che in meno di tre giorni fujfi fatta da lui latina mente e recitata
alla prefenz, a d'infinita moltitudine cotale oratone. *Nel medefi-
mo anno, hauendo prima hauuto i primi honori,e magiflrati delta città,
ejfindo fta to e di Collegio, e de Signori Otto, e de Qt- j pitam
diparte (guelfa, fu fatto (gonfalo- niere digiufì ma per lo filo
Quartiere di Santa Croce nelmefi di gennaio , e di feb- braio, e
doue negli altri uficij s' era fatto co no/cere per huomo non men giuflo,
che pie - » tofi , in cjuefto fi dtmoftro non men beni- gno,
chegraue,mguifa,che come l'uniuer - fiale [e ne lodaua , cofii particolari
ne dice- uano bene , e quanto i parenti fi ne gloria* nano, tanto
gli amtct, e dtfiepoh Juoine \ ^ prendeuano s *JfH
Ut* ck I Ì0 (mà m 4
m \( 1 ir ì è C
IM prendeuano piacere, e contento marauiglio fi . Onde
auueniua,che coloro Squali 0 per l'inuidia , che haueuano alla
fitagrandezs za, 0 per Iodio, che portavano alle fue uir -,
tà,harebbono uoluto morder lo, nonofaua* no di farlo , temendo di non
efjere creduti "Dopo cotale degnità trouandofieglt hoggU mai
attempato, e [oprafatto dalle cure fa- miliari, e forfè per potere 0
comporre mo- ne opere, 0 riuedere le già compofte,nongU parue di
douer piu leggere in publico ; ma non per quefto manco mai i alcuna
ma- niera di cortefia a niuno di colora , iquali gli andauano tutto
il giorno a cafa, 0 per uicitarlo come amici,o per dimandarlo co me
fcolari,anzi fi tenne, che quefìa fujfe in gran parte la cagione della
fua ^ Morte : lmperocht,non fi fintando egli bene, e non uolendo
mancare ne a parenti ne agli ami ci, ne a Difiepoli, cadde in una
infermità, •K % per la uiolenza dellaquale in poco piu
et un me fi, ancora , ckefuffi fiato finiamo e molto regolato
nelfuo uiuere,e con tutti gli ordinamenti , e fagr amenti della
(bufa coftantemente, e Chrifiianamente moriva gli diece d'aprile
delmille cinquecento uen- tidue , e fu alla Q loie fa di Santa (foce
nel- la fipoltura de fuoi maggiori femplicemen- te, e finta alcuna
popa fìraor dinar ta portato, Jotterrato. La firn morte difpiacque molto
fi generalmente a tutto Firenze, e fi in ifpetie a coloro, iquali o
baueuano lettere, o defiderauano d'bauerne, e mafiima - mente di FILOSOFIA.
Fu di fiatar a piu che mezzana , non di molta carne , ma
offuto forte , e nerboruto, eh pelo bruno, e Somma- mente pelofi ;
hauca la pelli biancha, e frefia molto . Cjli occhi neri non troppo gran-
di, le ciglia nere,e folte. La qual co fa lodi - mofirauaa riguardanti
anzi brufeo e bùr bero , zor hero y che non. E
niente dimeno egli fi bene • era grane , e fiueroy batte a pero con
quella feueritàyt granita una dolce e cortefi piace uolez&a
me/colato ylaqnale lo rendena gratiofiy e amabile. £ auuenga, cheegh,come
tutti gli altri huomini in qualunque o arte o fetenza
eccellentifiimiyfujje di natura ma ninconico , e filetario 3 tutta uia,
quando coll' altre perfine fi rttrouaua, motteggia- ua uolentieri
non fittamente coglihuomtni di lettere , ma ettandio co gli Idioti, e
colle donne medefime y tanto che non pareva piu quel deffiy
prendendofi fefla , e filazzp per fi y e dandone altrui . Spiacemi , che
ejfin- do egli flato yper quanto ho udito dire y trat tofiy e
arguto molto, io non habbta potuto nefiuno rmuergare de firn mottiyper
farne parte a coloro , cheque fi a ulta per alcuno tempo leggeranno
ffi mai nejjuno la legge- rà. Era e come T* latonico, e come allievo del
FICINO grandtfiimo, ma Jantifiimo ama > dorè, e nell' opere, che egli
firifie de amore , • le quali furono molte , e molte dotte , Si ut-
de lui ejfere flato feruenttfiimo , anzi tutto fuoco ; da queflo per
auuentura piu , che v , da altro fi può prendere nero figno,e
certifi fimo argomento della nobiltà ,e unicttà(fia mi lecito in una persona
nuoua e unica) for mare un vocabolo unico , e nuouo, dell' ani- ’
mo,e intelletto J uo,conciofia,che quanto al cuna cofa è piu degnale piu
perfetta , tanto fenza dubitatione alcuna , e s'innamora piu tofto
, ft) arde uta maggiormente . Fu catto beo, e religiofi in tutto il tempo
, che uijfe,e da cotali huomini douerebbono imparare, e prendere ejfempio
coloro, iquabfi fanno a crederei di non cffère,o di non do uere e
fiere tenuti filofofifi non di (pregiano il culto diurno, e fi beffano di
chi L'ojfirua, quafi ghaltri uer amente non conofcano i quello,
che uogliono moflrare falfamente difapere efii, ocome fecofa alcuna piu
a filofefo conuemjfe, che conoscere e contemplare e configuentemente
ammirare, e ri - k uerire in quel modo, che fi può la Maeftà di Dio
, e l'eternità di tutte le cofi celefti . tìebbe M.Francefio della
moglie, laquale non fenz& fua noia , e danno fi morì l'an- no
Mille cinque cento diciotto, efiendofi prt ma morta la madre nel mille
cinquecento quattro , tredici figliuoà , fette mafihij, e fet
femine. La prima dellequah maritò a Daniello di farlo Canigiani, laquale
dopo molti anni nmafit uedoua rimarito a Ruberto di Donato Acctaiuoli,
huomo no - bilifiimo , e d'ine fi imabile prudenza . La feconda a
Carlo di Meglio Pandolfini, tre di loro fi uoltcro far ^tonache, delle
qua- li ne uiue ancora una molto uener abile, degna di tanto padre
ì laquale è [fino già tot molti anni ) Hadefid del ^Munifiero
del Paradtfò. L'ultima maritarono poi gli heredi Juoi a c
Pierfrantefio di Ruberto de 7{tcci. I figliuoli furono Pandolfo', Agnolo
: Dionigi : Theodoro : Stmone : Carlo : e Cofimo . *Pandolfo fimorìhuomo
fatto eJJèndo duimuto dietro le vestigia paterne Filosofo eccellentissimo
. e . Agnolo uiuente il padre , tlquale come amoreuole , efa- uio non
uolle contrapporfi, ne alla uolunta del figliuolo , ne alla fpiratione
dtuina,fi rende Frate nella Religione di San Dome nico , nel
tomento di San sbarco, ihjuale fiate Agnolo urne ancora , prouinciale
nel medesìmo ordine de predicatori, ‘Rekgiofi di buona ulta , e
d'ottima fama . Stmone Carlo, e Cofimo fi morirono tutti e tre gio-
uanetti, tra gli fedici,e i diciott 9 anni,ciafiu no, e tutti
profitteuolmente , e con grande Jperanz& fludiauano > La cofioro
morte dolfi , come fi dee credere , ai&ii. trance- fio lor
padre, come a buomo, infinitamente, e tanto piu, che effindo egli
amoreuolifi fimo uerfi gli Urani, potemo pen/àre quel- lo . che
egli fujje uerfi i figliuoli, e cotali fi- gliuoli, ma come a Ftlofifo
,fetppiendo,che efiendo mortale , egli hauea coja mortale generato
, tomamente ut pofi fu piede, e come Cbrifiiano,non dubitandole ne una
foglia ancora fi muoua finza la voluntà di Dio, rtprefi ogni cofit per lo
miglior e. On de fi agli Hiftorici fuffe quello conceduto, che a i
Poeti, e a gli oratori non e difdetto, anzi mafiimamente richiefto ,
largbifiimo campo harei qui diffamarmi lungbifiimo tempo per le
file lodi . Theodor o non men bello d'affetto , che digrandifiima
affet- tatone , morì anch'egli dopo la morte del padre , in Francia
, tale, che di fette hoggi non è uiuo al fico lo fenon TDionigi,
ilquale datofì dalla faagtouent udine, alla mere atura y hoggi e per la
fa f faenza y e lealtà faa in quel credito y e riputatane tra i più
borre uoh, e riputati mercatanti ì che fu il padre tra i più chiari
letterati \e tra i piu perfetti filofififioftui di Madonna Maria figlino la
di Martino di CjugUelmo Mar tini faa dilettifiima moglie, ha undici
figliuoli cin- que fimine di due delle quali ha nipoti e fai
mafchiyiquali fono il 'Bruendo M.France fio Qanomco di [anta Ltperata e
Protono tarioAppofìohco, della cui qualità hauemo fauellato di jopra.Pandolfo
ilquale di tuo no Spirito y e fludtofi delle lettere no filo Cjre
che y eLatme y ma ancora Tofane fi truoua hoggi in Rpma. Agnolo :
Cjwuàbatifla, Bu- ierto e Carlo Squali fino no pur uiui y e fini
tutti 3 ma in buono y e profpero fiato Jequah cofi ho uoluto non fi fi
troppo largamente, otrvppo fiarfamente raccontare, perche le CATTALO. felicità di queflo modo di qua,
qualunque cs4riflotile nell' Scica pare , che ne dubiti , pojfono
nondimeno fecondo t Theologi chri fiumi a co loro, che fino nell'altra
uita,gio- uare.Onde fecondo i Flofififì può , eficodo i theologi fi
dee credere che M. Francefio di Zanobi Qattani da Ghiacceto cittadino
fiorentino, ueggendo infìno dal piu alto cielo tanta# cofi chiara
fuccefiione,figoda infiemec olle figliuole# co figliuòli morti qui
e lafiù uiuijiwio quella feltafiima,{t) eter- na beatitudine , che deono
quegli huomini dopo la morte goder e, tquah mentre che uif fero
cofi lodtuoh per la uita attiua come ho nor àbili per la conteplativa,
furono non me no ottimi chriftianiyche dottissimi filosofì. Grice:
“If these Italians, pretentious as some are, want to use more than one surname
– their loss!” – Grice: “It was an excellent idea of Diacceto to translate is grandfather’s Latin
works (‘enarratio’) of Plato’s little dialogue on the unspeakable vice of the
Greeks into ‘vulgar Florentine!” -- Franciscus Cathaneus. Franciscus Cataneus,
Diacetius. Francesco de Cattani da Diacceto. M. Francesco Cattani da Diacceto. Francesco
Cattani di Diacceto. Diacceto. Keywords: i tre libri d’amore, diacetius, amore,
“la sequenza del corpo” “l’autorita del papa” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Diacceto” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Diano: l’implicatura conversazionale dell’errante
dalla ragione – emendato – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vibo Valentia). Filosofo italiano. Grice: “I love
Diano, but Italians usually take him to be a bit too Hellenic; recall that a
true Roman considers himself a Troian, i. e. an enemy of a Greek! But as a
scholarship Midlands boy from Clifton to Corpus, I’m a Dianian!” Compie gli
studi classici al Liceo Filangeri di Vibo Valentia, allora Monteleone Calabro.
Rimane orfano di padre all'età di 8 anni e questo fu un evento che segnò la sua
vita e molte delle sue scelte giovanili. Si trasfere a Roma, dove si
iscrive alla Facoltà di Lettere della Sapienza ove segue le lezioni di Festa e Rossi.
Il suo progetto è di laurearsi con una tesi in Letteratura greca, ma la
necessità di iniziare a lavorare lo spinge a scegliere una via più breve e si
laurea con 110 e lode con una tesi su Leopardi, un poeta che amò subito e che
lo accompagnò nel corso di tutta la sua vita. Immediatamente inizia a
insegnare letteratura latina e greca, dapprima come supplente e poi, di ruolo
come vincitore di concorso a cattedra. La sua prima nomina è a Vibo Valentia,
cui segue un periodo di alcuni anni a Viterbo e una breve parentesi al Liceo
Vittorio Emanuele II di Napoli. Nella città partenopea frequenta la casa di
Benedetto Croce, ma in seguito il giovane Carlo Diano si allontanerà
decisamente dal gruppo dei crociani. Trasferito a Roma, dove insegna prima al
Liceo Torquato Tasso e in seguito al Liceo Terenzio Mamiani. Sempre a Roma consegue
la libera docenza. È fatto oggetto di inchieste ministeriali e pressioni per il
suo rifiuto di iscriversi al Partito fascista, come chiedeva il suo ruolo di
dipendente pubblico. Né mai si iscrisse. Su incarico del Ministero degli
Esteri, è lettore presso le Lund, Copenaghen e Göteborg. Gli anni in Svezia e
Danimarca non furono solo utili per apprendere alla perfezione lo svedese e il
danese, ma segnarono un profondo cambiamento. Il contatto con l'ambiente
scandinavo gli spalancò la visione della grande cultura liberale nord europea e
l'amicizia di poeti, letterati e studiosi scandinavi, tra cui lo storico delle
religioni Martin Persson Nilsson e lo scrittore ed esploratore Hedin, dei quali
traduce anche alcune opere. Al suo ritorno in Italia ricopre un incarico
presso la Soprintendenza bibliografica di Roma ed è a Padova in qualità di
Ispettore dell'istruzione classica presso il Ministero dell'Educazione
Nazionale della Repubblica Sociale Italiana. Grazie a questo ruolo e obbedendo
alla propria coscienza, all'insaputa di tutti, aiuta molte persone a mettersi in
salvo dalla persecuzione fascista e nazista. Ricopre gli incarichi di
Papirologia, Grammatica latina, Storia della filosofia antica, Letteratura
greca e Storia antica presso la Facoltà di Lettere dell'Bari. Vince il concorso
alla cattedra di Letteratura greca ed è chiamato a Padova a ricoprire, presso
la Facoltà di Lettere dell'Università, la cattedra che era stata di Valgimigli.
A Padova rimarrà ininterrottamente fino alla sua morte. Più volte Preside della
Facoltà di Lettere e Filosofia, fondò e diresse il Centro per la tradizione
aristotelica nel Veneto. Molte delle sue traduzioni dei tragici greci
sono state messe in scena dalla Fondazione del Dramma Antico a Siracusa, al
Teatro Olimpico di Vicenza, a Padova, portate in giro nei teatri italiani,
interpretate da noti attori quali Zareschi, Ninchi, Pagliai. Grandi le sue
traduzioni, per la ricerca filologica, la lettura rivoluzionaria e la bellezza
dello stile in versi, fra le altre, dell'Alcesti, dell'Ippolito, dell'Elena,
dei Sette a Tebe, dell'Edipo Re, del Dyskolos di Menandro. Cura, fra le altre
cose, l'edizione di tutto il teatro greco per Sansoni e la traduzione dei
Frammenti di Eraclito, volume della Fondazione Lorenzo Valla. Insignito
di numerose onorificenze (Valentia Aurea, Premio Nazionale dei Lincei, Medaglia
d'oro della Città di Padova ecc.) e membro di numerosissime accademie in
Italia, in Europa e in USA, ebbe profonde e durature amicizie tra gli altri con
Quasimodo, Bettini, Eliade, Otto, Spirito, Argan, Berenson, Montano, Mazzarino,
Bo, Kerényi, Nilsson, Caccioppoli e
molti altri fra i maggiori protagonisti della vita culturale e artistica. Tra i
suoi allievi più noti troviamo il filosofo ed ex sindaco di Venezia Cacciari.
Per i suoi amplissimi studi e i suoi contributi originali su Epicuro è da tempo
riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori e più autorevoli
studiosi del filosofo di Samo. Nei suoi scritti teorici, principalmente
in Forma ed Evento e in Linee per una fenomenologia dell'arte, fonda un vero e
proprio sistema filosofico in cui filologia, studi storici, filosofici,
sociali, storia dell'arte e la storia delle religioni si integrano a creare un
nuovo metodo di indagine. Fondamentale, a tale scopo, è la creazione delle due
categorie fenomenologiche di "forma" ed "evento", che gli
permettono non solo di esplorare l'intera civiltà greca, ma possono divenire
strumento di analisi generale di una cultura. Altre opere: “Commento a Leopardi”;
“Commemorazione virgiliana. Dall'Idillio all'Epos” (Boll. Municip. Viterbo); “
Il titolo De Finibus Bonorum et Malorum” (FBO). “L'acqua del tempo” (Roma,
Dante Alighieri); “Note epicuree, SIFC); “Questioni epicuree, RAL); “La psicologia
di Epicuro, GFI); “Epicuri Ethica (edidit adnotationibus instr. C.D. Florentiae,
in aedibus Sansonianis, “Lettere di Epicuro e dei suoi nuovamente o per la
prima volta edite da C.D., Firenze, Sansoni); “Aristotele Metafisica, Libro
XII. Bari); “La psicologia d'Epicuro e la teoria delle passioni, Firenze,
Sansoni); “Lettere di Epicuro agli amici di Lampsaco, a Pitocle e a Mitre,
SIFC); Voce Aristotele in Enciclopedia Cattolica); “Edipo figlio della Tyche.
Commento all’Edipo Re di Sofocle, Dioniso); “Forma ed evento: principi per un'interpretazione
del mondo greco” (Venezia, Neri Pozza); “Il mito dell'eterno ritorno,
L'Approdo); “Il concetto della storia nella filosofia dei greci, in: Grande
antologia filosofica, Milano, Marzorati); “La data della Syngraphé di
Anassagora. Scritti in onore di Carlo Anti, Firenze); “Linee per una
fenomenologia dell'arte” (Venezia, Neri Pozza); “La poetica dei Feaci. Memorie
dell'Accademia Patavina); “Pagine dell'Iliade, Delta); “Note in margine al
Dyskolos di Menandro” (Padova, Antenore); “Menandro, Dyskolos ovvero Il
Selvatico, testo e traduzione, Padova, Antenore); “Martin P.Nilsson,
Religiosità greca, (traduzione) Firenze, Sansoni); “Saggezza e poetica degli
antichi”; “Orazio e l'epicureismo” (Atti Istituto Veneto); “La poetica di
Epicuro, Rivista di Estetica); “La filosofia del piacere e la società degli
amici, Boll. del Lions Club di Padova); “D'Annunzio e l'Ellade, in L'arte di Gabriele
D'Annunzio, Atti del Convegno Int. di Studio); “L'uomo e l'evento nella
tragedia attica, Siracusa, Dioniso); “Il contributo siceliota alla storia del
pensiero greco, Palermo, Kokalos); “Euripide, Ippolito (traduzione e cura).
Firenze, Sansoni); “Eschilo, I Sette a Tebe, Firenze, Sansoni); “Menandro,
Dyskolos ovvero il Selvatico, Sansoni); “Meleagro, Epigrammi traduzione di C.D.
(con una tavola di Tono Zancanaro) Vicenza, Neri Pozza); “Epikur und die
Dichter: ein Dialog zur Poetik Epikurs, Bonn, Bouvier); “Saggezza e poetiche
degli antichi, Venezia, Neri Pozza); “Gotthold Ephraim Lessing, Emilia Galotti,
(traduzione) Milano, Scheiwiller); “Euripide, Alcesti (traduzione e cura)
Milano, Neri Pozza); “Euripide, Elettra, (traduzione e cura), Urbino, Argalia
Editore); Voci Eoicurus e Epicureanism per Enciclopedia Britannica); “Il teatro
greco. Tutte le tragedie, C.D. Firenze, Sansoni); (di C.D. Saggio introduttivo.
Traduzioni: Eschilo, I Sette a Tebe; Euripide, Alcesti, Ippolito, Eracle,
Elettra, Elena, Le Fenicie, Oreste, Le Baccanti). Epicuro, Scritti morali,
Trad. C. Diano, Padova, CLEUP); “Euripide, Medea, (traduzione e nota di C.D.)
Padova, Liviana); “Aristofane, Lisistrata (traduzione e cura) Padova, Liviana);
“Anassagora padre dell'umanesimo e la melete thanatou in L'Umanesimo e il
problema della morte, Simposio Padova Bressanone); “Studi e saggi di filosofia antica,
Padova, Antenore); “Scritti epicurei, Firenze, Leo Olschki); “La tragedia greca
oggi, Nuova Antologia); “Limite azzurro, Milano, Scheiwiller); “Eraclito,
Frammenti e testimonianze, (traduzione e cura) Milano, Fondazione Lorenzo
Valla); “Epicuro, Scritti morali, Milano, BUR); Platone, Il Simposio (traduzione e cura),
Venezia, Marsilio); Il pensiero greco da Anassimandro agli stoici, Torino,
Bollati Boringhieri, Introduzione di Massimo Cacciari. e Lia Turtas. Introduzione Jacques Lezra.
Curatele Platone, Ione, Roma, Dante Alighieri, M.T.Cicerone, De finibus bonorum
et malorum, GFI, Omero, Iliade. Libro I, Firenze Bemporad, Platone, Dialoghi Convito,
Fedro, Alcibiade I e II, Ipparco, Amanti, Teage, Carmide, Lachete, Liside,
Bari, Laterza; Il teatro greco: tutte le tragedie, Firenze, Sansoni); “Eraclito,
I frammenti e le testimonianze, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori
Editore); “Epicuro Giovanni Gentile Tragedia greca. TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Carlo Diano, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Carlo Diano,. Carlo
Diano Forma y evento, Madrid, Circulos Bellas Artes (estratto traduz.
spagnola)Brian Duignan, Carlo Diano, Epicureanism, in Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. D., nel sito "Il Ramo di Corallo", di D..
IL CONVITO. ATOLLODOllO E UN AMICO. Apollpdóro. Credo di nonSmotto,
P- 172 ispondere alla vostra no ues^ < . Galero, uno dei
Srm^STiTp.lWo.0 (1), o M - Èd io mi fermai e aspettai. „i ie
poc’anzi ti di 'raccontarmi la « “ - - ™
pensiero filosofico greco, fu tntt ^ ” C ; u raorto ad maestro, o, stando
a più fieli o devoti seguaci (l a Kliano, no ricopri o voleva
un aneddoto riferitoci da t>10tcl “ teUo - Quanto allo scherzo, dm
ricoprirne il cadavere col ' >r0I ’ ? “ t f, ò moUo discusso in ohe
consista. Apollodoro rileva nelle pardo doli arpico, . cominciato
dal ehm- Forse, oltreché nel tono nome Matteo o ohe tosso
marie Falere». < So un amico nostre. clm gr _ ^ ^ Vcllotrl \
anziché nato a Vellotri noi comin^assimo col olila ar^ lnl uno
scherzo, sol-rat - ‘ Matteo ’, por farlo voltale, P allusione a uualcunu delle suo uua-
tutto se col chiamarlo cosi si taccs ““ u 0 i luogo . Noi nou sappiamo.
Uhi. «he si solesse attribuire «gla al«tan rlpuUv ,iono o di elio genere:
se 1 Falerosl avessero unniche loi partlooi (Bonghl) . E none,
a ogni modo anche sonza^uesto loA^y^ mM , naro „ i marinai mi
paro, Impossibile olio, cssoni t . e u uca t 1L , la ciunlitìl di
Valoroso rìi^ol qu alcuno, formano un emlecflfilllitbo. conversazione
tra Agatone (1) e Socrate e Alcibiade (2) e gb Xi, che allora presero
parte al banchetto c che discorsi intorno all’amore ri si fossero temiti.
Me ne accennò un tale che ne aveva udito da_Fenice di Filippo (3) è
aggiunse che anche tu ne eri informato; ma non seppe dirmi nulla di preciso.
Raccontamela tu dunque. Nes- M mo più di te è tenuto a riferire i
discorsi del tuo amico. E prima di tutto, mi chiese, dimmi: a quella
conversa¬ zione eri tu presente o no! Ed io: Si vede bene che
quel tale che te la raccontò non ti deve aver raccontato nulla di
preciso, se credi che quella conversazione, di cui mi chiedi, abbia avuto
luogo così di recente, che anch’io avessi potuto assistervi.
Ed egli: Difatti lo credevo, rispose. E come, dissi,
Glaucone? (4). Non sai che da molti anni Agatone non è più venuto tra
noi; e che da quando frequento assiduamente Socrate e mi studio di
seguire giorno per giorno ciò che egli dice o fa, non sono ancora
tre anni? Prima andavo errando a caso di qua e di là, e pure illudendomi
di fare qualcosa, ero il più infelice degli uomini, non meno che non sia
ora tu, perchè pen¬ savo che bisognasse occuparsi di qualunque altra
cosa piuttosto che di filosofìa. Ed egli: Smetti di canzonare
e dimmi quando ebbe luogo quella conversazione. Quando — e noi
eravamo ancora dei ragazzi — Agatone vinse il premio per la sua prima
tragedia, nel li) Agatone, Ilglio di TisAmeno, ora nativo di
Atene, clic tra il -10!) c il 1117 a. C. egli lasciò i»cr andare a vivere
nella corte di Archelao di Mace¬ donia. il cui splendore lo attirava.
Bollo, elegante e ricco, fu scolaro di I ròdico e di Gorgia, dai riunii
apprese Io siile protonaionoso e retorico ed ebbe imimi"^^ di
celebri»* per il successo del suo drama. intitolato . , S ,, m0 : nel n
" al ° ,,sclva dagli argomenti tradizionali e dalla via c lr U tavn
imEfa,l 1>r ? <l0OeSSOrl - ““ ** 11 “>P«tto Umusi muliebre
.oZir» a 7ì:^T a V" m V0,t0 bCT8UC "° al mm>i ™»'e.
contempi,rana. Nel Ilo aveva forse poco pii, di tronfanni. ed
u n, o d stilò lm ‘ tUB dW ° ! " Kli ò ta-PP- noto come generalo
Òvevu ,”t,!,.n„?ò ° ? n " e0 aVYennt0 11 Mochetti. («0 a. C.),
egli $ «n ^ potonzft pouuoa - Altro ignoto, da non
confondere con Glaucone, fratello di Platone. , omo
seguente a quello in cui egli coi suoi coreuti celebrò fsacrifico
^^"nolti anni or sono, a quanto pare. Ma^te’chi té la che ne
parlò ; &r-ra tota», ote ri» “XeK «il» ™» « *
*» alla, conveisazioue, 1»« “ Tutta™, interroga, amanti
di feociatc a q 1 udifce da Aristodemo, anche Socrate su qualcuna
delle aveva riferito, eda lui ebbi la conferma d#ò che 1 a L
a Perchè dunque non t afte apposta via, che s’ha a
percorrere lino alla citta, per discorrere e per udire. di que i
discorsi, Così cammin facendo, rapo « impreparato;
sicché, come ho detto a prmcn|, nO|Soim V c se volete che io
li ripeta anche a voi, ecconn^ ricchi e dediti ai guadagni, , ' d :
j ar "Scesa e i^’f^nS'prSSmente anche voi dai
canto vostro penserete di me che sono' u ?.^Ton lò e credo che voi
crediate il vero; io pero di voi non Sei sempre lo stesso,
Apoilodoro: non fai che dir male di te c degli altri, e ai tuoi «echi
siamo, mi pare, tutti degl’infelici, all’mhion di So f sodando da te.
Perchè ti chiamino tenero (3), non so, (1) Da questa indicazione
si desume elio il banchetto avrebbe avuto ,U0 %“ e ÌH—. anch’egli uno
scolare di Scorato. Cidatonoo, si faoova, sembra, notare per la sua
smania c m anche in corte abitudini di vita, come, per esempio, in
quella d andar sempi et) Tutti i testi, a cominciare dai piìi
antichi, danno qui |j.a).axo; • mollo • tenero ', lezione respinta
dalla maggior l'arto degli editori, elle hanno accolta invece la
correzione |iavixó? ‘ pazzo \ ‘ turioso ’, occorrente 2 Piatone —
Convito. ir» eai soniDre cosi! «xccrbo con tc ma corto ncll ° ,[ U ' fuo rchè
con Socrate, stesso e con gli alt , dunqu e indiscutibile
che, se j^nso così^'di^mè e di^voi, io debba essere un pazzo
e un insensato? nena 0 ra di leticare ,, r 1,™5» A Fa° SS»
4«* « “ “ “ bbl " , ° Hsrtósfssis-rr » £t meglio
che io mi pori « M .1 »*»*« .1,. capo, come a me lo fece
Aristodemo. ,1 - Egli dunque mi disse (1) di avere incontrato
Socrate cbe usciva dal bagno e calzava delle pantofole cosa che suol fare
(2) di rado, e dovergli chiesto, dove s'incamminasse cosi
rimbellito. . E l'altro: A cena da Agatone. Ieri mi sottrassi
al banchetto della vittoria, per paura della folla. Ma pro¬ misi
che oggi non sarei mancato. E mi Ron fatto bello appunto per presentarmi
bello ad un bello. Ma tu, gli dimandò, come ti senti disposto a venire a
un banchetto non invitato? in parecchi cod«l. La lezione più
antica, ripristinata dal Burnet, nonché dallo Schoenc nella sua revisione
dell’edizione dell’Hug, era già stata difesa dal Ilfìckert, e con buone
ragioni. Ciò che sappiamo dal Fedone, in cui Apollodoro c’ò dipinto come un
carattere impressionabilissimo, clic passava facilmente dal riso al pianto c
viceversa, e che negli ultimi istanti di Socrate si abbandonò a così
incompostc manifestazioni di doloro da provocare un richiamo del maestro,
accenna, mi pare, piuttosto a un uomo d’indole molle, che ad un furioso o
pazzo. Nò la risposta d*Apollodoro, nella quale h’ò voluto veder la
conferma della lezione |iotyiy.Ó£, ò una prova addirittura decisiva,
giacché, osserva il RUekert, non dici haec, ut éxplanelur caussa
cognominis, sed indignantis verbo, esse, conccdcntls, ni fit per
indignalionem, atquc in maim augentis id quod arnione diadi. Qui quii in
rcprchciuliseet nimiam aeveritatem, hoc ipsum, niininm ceso, arripicna,
acerbe rcapondel: concedo, manifestimi est , me qui uliter sentilim atquc
vos, debcrc insanire atquc delirare. Da questo * disse ’ (IcpY)) dipendo
nel testo tutta la narrazióne d*Apollodoro, che nel greco ha la forma
d’uria oratio obliqua. (2) Qui nel testo c’è sTtoóei ‘ faceva’ in
conformità dell’uso greco» che adopera l’imperfetto per significare uno
stato clic dura tuttora nel -presente, àia poiché il racconto si
suppone fatto, mentre Socrate è ancora in vita, ho sostituito il presente
all’imperfetto. Per me, rispose Aristodemo, sono ai tuoi ordini.
Ebbene, riprese, seguimi, affinchè, mutati 1 termini, la si faccia
finita col vecchio proverbio, mostrando cn anche dei buoni ai conviti
vanno non invita i buoni. Omero però, se non mi sbaglio, non si
conten di farla finita con esso, ma volle anche fargli oltraggio,
perchè dopo d'averci rappresentato Agamennone come singolarmente prode in
guerra, e Menelao come un f ia ( * ° guerriero, al sacrifizio ed al
banchetto, offerto < a Agamennone, fa che intervenga non invitato
Menelao, un dammeno alla mensa d’un uomo che valeva di piu U fi
E l'altro nell’udir ciò: Ho paura anch’io, Socrate, di non essere
quel che tu dici, ma piuttosto, secondo Omero, quel dappoco che va, non
invitato, al banchetto d un sapiente. Del resto, dacché vuoi condurmici,
preparati a giustificare la mia presenza, perchè io per me non diro
d’esserci andato senza invito, ma in vitato da te. In due andando
per' via (2), riprese, « consi¬ glieremo su quel che ci converrà di dire.
Per ora andiamo. E scambiate queste parole, s’avviarono.
Socrate cam¬ minava immerso in qualche pensiero, e rimaneva
indietro; e poiché egli si fermava ad attenderlo, gli disse d andai
pure innanzi. Giunto a casa d'Agatone trovò la poi tu, spalancata, e lì,
disse, gli capitò una cosa da ridere. (1) C’ù nella risposta, ili
Socrate un ginoco «li parole che non e ^pos¬ sibile rendere in italiano.
11 proverbio era. pare. BsAfflv sin Batta; taotv aOxóuatot avallo! .
dogi-inferiori ai conviti vanno non invitati i buoni- O anello meglio .
dei vili (o dei deboli) ai conviti vanno non invitati i torti .. Sdorato,
gtuòcando sulla somiglianza elle, a parto l’aceento, e'e tra aYaddW •del
Paoni ’ o ’A T <*W•AY'M-nm ‘ad Agatone' ri f.1 il proverbio in modo
che esso si presti a (Uro tanto . dei Inumi ai conviti vanno i buoni non
invitati -, quanto • da Agatone ai corniti vanno i buoni non invitati ».
E si noti elio anche II nomo ’Ay ec&MV corrispondo suppergiù a ‘ Oinobono
'. Quanto ad Omero poi Socrate, celiando, immagina cito il poeta nel
tìngere* (/(. Il 108) clic Menelao 4 flocco guerriero ’ vada non invitato
alla mensa d’un prode conto Agamennone, abbia voluto addirittura fare
oltraggio (ti proverbio, che egli, invertendone gli estremi, avrebbe
implicitamente (giacché al proverbio In Omero non s’accenna né punto né
poco) rifuggiate io quest "altra forma àralfiSv Èro Baita; taoiv
aùti|iatoi Bs’Aoi • dei forti ai conviti vanno non invitati i vili
(2) Allusione a un luogo omerico: cf. II. X ’224.Giacché gli si lece
subì*. 'J ?^stateti a mema>ano ione-e lo condusse dove g< 1 ’ Come
Agatone lo quasi sul punto di niet ^“ in buon punto ^e:
Oh! Aristodemo f *£’ y g£i per altro, rimet- pcr cenare con noi. il per rcai per invitarti senza ZSJtì
Sin Ma e»m} * »»» « hri biotto Socrate? mi volsi indietro, ma
non •r in nessun luooo che Socrate mi seguisse, e dissi:
“ “S ,2 *•»*. a. lai q«i >11»»- Ed hai fatto benone. Ma
dov’è Socrate? Un momento fa mi seguiva; ma ora dov è. Sono
io mire sorpreso di non vederlo. Va subito a cercarlo,
ragazzo, disse Agatone, e in¬ troducilo qui. E tu, Aristodemo, prendi
posto a lato ad Erissimaco (1). IH. — E mentre un servo gli
lavava i piedi, perchè potesse sdraiarsi, un altro entrò dicendo: Questo
Socrate s’è ritratto nel vestibolo d una casa qui accanto, e sta li
fermo. Io l’ho chiamato, ma non ha intenzione d’entrare. Strano!,
disse Agatone; corri dunque a chiamarlo, e non smettere, finché non si
muova. No, no. diceva d’aver soggiunto Aristodemo. Lascia¬
telo stare. Egli l’ha quest’abitudine. Certe volte si tira da parte e
riman fermo dove gli capita. Verrà ben presto, ritengo. Voti lo
disturbate; lasciatelo stare. Facciamo pure cosi, se codesto è il
tuo avviso, disse Agatone. E voi, ragazzi, dateci da mangiare a noi
altri, e imbanditeci tutto quel elio vi pare. Non c’è nessuno che
vi sorvegli: è una bega che non mi son mai presa. Fate conto che ci
abbiate voi invitati a cena, me e questi altri, e trattateci in modo da
meritare i nostri elogi. Dopo ciò,'diceva, si misero a desinare, ma
Socrate non compariva. Agatone aveva ordinato più volte che
fi) lirlssùuaco, figlio d'Aedmeno, ora, conio il padre, un modico litui
noto in Alene. — 21 s’andasse a rilevarlo, ma egli
non l’aveva permesso. Finalmente, men tardi però che non fosse nelle sue.
altitudini. ma tuttavia quando la cena era già a mezzo, Socrate entrò. E
Agatone, che occupava 1 ultimo posto, per caso da solo: Vien qua,
Socrate, disse; sdraiati accanto a me, affinchè al tuo contatto
m’avvantaggi anch’io di quel pensiero sapiente di cui ti sei
arricchito nel vestibolo. Perchè gli è certo che 1 hai trovato e lo
J possiedi: chè- prima non ti saresti mosso. Socrate si mise
a sedere e rispose: Sarebbe, Agatone, una gran bella cosa, se la sapienza
fosse cosiffatt a, che potesse scorrere dal più ripieno nel più vuoto di
noi. al solo toccarci a vicenda, come l’acqua nei bicehien, che a
traverso un fìl di lana scorre da uno più colmo in un altro più vuoto! Se
lo stesso avviene anche della sapienza, son io che devo far gran conto d
essere accanto a te, giacché penso che, mercè tua, mi riempirò di molta
. e squisita sapienza. La mia non può essere che povera cosa o
anche di dubbio valore, come un sogno;, ma la tua è luminosa e destinata
ad un grande avvenire, dal momento che da te, giovane ancora, ha
sfolgorato poco fa di così viva e chiara luce davanti agli occhi di
piu che trentamila Elleni. Sei un gran canzonatore, Socrate,
disse Agatone. Ma di questa faccenda della sapienza discuteremo fra
poco tu ed io, e, ne prenderemo a giudice Dióniso (1), Per ora
pensa a mangiare. IY. — Dopo di ciò, raccontava Aristodemo, Socrate
si sdraiò, e finito che ebbero di cenare, lui e gli altri, fecero lo
libazioni, cantarono un inno in onore del dio, adempirono tutte le
pratiche di rito (2), e quindi si vol¬ ai Dióniso, il dio
della poesia di'amatloa, por un poeta tragico era il miglior giudico al
quale potesse appellarsi. (2) Questo cori inolilo orano: 1° i
convitati bevono un sorso di vino puro In onoro del ‘ dèmone buono [del
buon genio]; 2° i servi sparecchiano; 3° o portano acqua ^crollò i
convitati si lavino le inani una seconda volta (la prima volta l’han
fatto prima di mettersi a cona); 4° distribuiscono ancora corone ed
unguenti; 5° poi si fanno lo libazioni di vino temperato» pi prima a Zeus
Olimpio (o alla Sanità), la seconda agli Eroi, la terza a •
n \ oli ora fu il primo a prender la s ero al bere. iei< c he regola
terremo nel parola e: Orsù, disse amie . , pel , me V1 c011 .
bere per aggravarci > « g ^h P rabtiso di ieri, fesso che mi
sente e CO sì forse la più parte e h0 bisogno d un po^ Y P edete
dunque come si possa bere°con^la'maggior discrezione
^ossibUe^ «*>. 'U“, « Acumeno. Ed ora non ho
bisogno, che d udire come si 1 in f orz e per bere un. altro solo di voi,
Agatone. no davvero, non me la sento neppnr io, rispose
CO "¥a'nto meglio per noi, mi pare, disse Erisstamco per me .
per Aristodemo; per Fedro e per questi altri, se ma cedete il campo voi
che siete dei bevitori a tutta prova, giacché noi siamo sempre
debolissimi. Quanto a Sociat % egli fa eccezione: si trova a posto in un
caso e nell altro, e gli sarà indifferente comunque si beva. Bacche,
dunque, nessuno dei presenti è disposto a bere rii molto, non vi
rincrescerà, spero, ch’io vi dica la verità a proposito dell’ubriacarsi.
Dalla pratica della medicina ho cavato questa convinzione: che per gli
uomini è dannoso 1 abuso del vino: e di mia volontà non eccederei mai nel
bere, nè lo consiglierei ad un altro, soprattutto se si risente
ancora della sbornia del giorno prima. Per me non c'è caso, prese a
dire Fedro da Mirri¬ li unte (3); io lui l’abitudine di seguire i tuoi
consigli, specie quando parli di medicina; ina ora, se hanno giu¬
dizio, faranno così anche gli altri. Zeus salvatore. I/ultiina
tazza cho ai beveva a questo si diceva la ‘ por- lotta *.; 0 spesso alle
libazioni seguiva una musica di Munti c un bruciamento d’incensi; 7° con la
prima libazione s’accompagnava il canto di un inno religioso. (Da Bonghi). Doveva
esscro un ammiratore di rotori e sofisti, ma è noto soprat¬ tutto come
amante d’Agatonc*. (2) Aristofane, è superfluo dirlo, è il famoso
comediografo. (3) Su Fodro v. la nota alla mia versione del
Fedro. jp£ijÌMpM h'. Udito ciò,
tutti convennero che non si dovesse far del bere il passatempo di quella
riunione, ma che ognuno bevesse quanto e come gli accomodava.
y. _ Poiché è stata accolta la mia proposta, che ognuno beva
quanto gli accomoda, disse Erissimaco, c che non ci sia nessun obbligo,
ne faccio ancora un al inaurila di mandar via la suonatrice di flauto entrata
dianzi, perchè suoni per conto suo o, se vuole, per le donne cu
casa, e che noi oggi si passi il tempo a conversare fra no. E
voglio anche, se me lo permettete, proporvi U tema discorsi.
ìtì Tutti consentirono e lo esortarono a farne fa. 1 posta. E
comincerò, riprese Erissimaco, come la ^ e ' lanippe ’ di Euripide (1):
Miei non son questi detti che m’accingo a pronunziare, ma di Fedro qui
pi sente. Non passa occasione infatti eh egli non mi up •
indignato: «Ma Erissimaco, non è enorme, che mentre poeti han cantato
inni e peani in onore degli alto d , di Eros, un così antico e possente
iddio, neppui u _ tanti poeti, che ci sono stati, abbia mai composto
un eloo-io’f E se poi vuoi guardare ai buoni sofisti, essi ha Sto
in prosa le lodi di Éracles e di altri, come quel valentuomo di Predico
(2)... E questo «ite, esorprendente; ma c’è di peggio. A me proprio una ^oha
accadde dibattermi in un libro d’un sapiente, m cui si facevano
sperticate lodi del sale pei vantaggi che reca, E puoi vedere parecchie
altre cose simili celebrate con lode. Spender tanta cura intorno a siffatti
argomenti, e pii Eros non esserci nessuno fin oggi, che abbia osato lai
ne un degno elogio: a tal punto è trascurato un cosi grande Iddio-
) E in ciò’, secondo me, Fedro ha ben ragione. 10 dunque, oltre che
desidero .li pagare il mio contributo a costui e fargli cosa grata,
ritengo che questo sia per noi qui radunati proprio il momento .li
adornai e di lodi 11 dio. E se così pare anche a voi, ecco trovato
torse un Cf. N.vuoic, Trita- Or. Fratjmm.' tramili. 181, 1>. a
l. (2) è „ueUo elio si trova riferito In sunto da Senofontei nei
Momo- rubili ’ 11 21, 1 sgg., o elio fu tradotto dal Loop®!! col tlt. '
I*.reale . buon argomento di conversazione. In sostanza io pro- onlo
che ciascuno ili noi. per turno a destra, dica le Foladi Eros, come
può meglio, e sia il primo ladro, non Tolo perchè egli occupa il primo
posto, ma anche uerchè egli è il padre del discorso.
^Nessuno, Erissimaco, disse Socrate, voterà contro la proposta, Nè
potrei certo oppormi» io, che dichiaro di non esser competente in altro che m
cose d’amore: nè vi si opporranno Agatone e Pausatila e tanto meno
Aristofane, la cui vita è tutta cosi profondamente devota a Dioniso ed
Afrodite, o qualche altro di quelli che vedo qui presenti. Senza
dubbio, la partita non è uguale per noi che siamo negli ultimi
posti: ma se quelli che ci precedono parleranno esaurientemente e bene, noi
saremo sodisfatti. Dunque, con buona fortuna, inauguri Fedro la serie dei
discorsi e pronunzi l'elogio di Eros. A queste parole anche gli
altri fecero eco e npetet- 178 tero l'invito di Socrate. Ma di tutto ciò
che ognuno disse, nè Aristodemo si rammentava con precisione, nè io,
dal canto mio, di tutto quello che egli mi riferì. Vi dirò per
altro le cose più degne di ricordo e i discorsi, che mi parvero tali, di
ciascuno. Come dunque dicevo, stando al racconto d’Aristodemo,
Ferirò fu il primo a parlare e cominciò suppergiù a questo modo: Eros è un
grande iddio e ammi¬ rabile tra gli uomini e tra gli dei, oltreché per
tante altre ragioni, soprattutto per la sua origine. Perchè
l’essere tra gli antichi iddìi antichissimo è cagion d’onore, diceva, e
ne abbiamo la prova. Difatti genitori di Eros nè vi sono, nè si
rammentano da verun prosatore o poeta ; anzi Esiodo dice (1) che dapprima
fu il caos, ma dopo Oea dall’ampio seno, saldissima,
eterna di tutto sede ed Eros ; (1) Cf. Theog. 116 agg.
e con Esiodo s’accorda Acusilao (1) noU'afferniaro che dopo il Caos si
generassero questi due, Gea ed Eros. E Parmenide dice della generazione
che infra gl’iddìi tutti Eros concepì per il primo. E così da
molte parti si consente che Eros fu tra gli antichi antichissimo. E
perchè antichissimo, è cagione a noi dei più grandi beni. Io infatti non
so dire qual maggior bene possa esservi per chi entri appena nell’età
dell'adolescenza d’un amante buono, e per l’amante d’nn fan¬ ciullo
amato. Giacche ciò che agli uomini deve servir di guida per tutta la
vita, se vogliono nobilmente vivere, questo non valgono ad ispirarlo
altrettanto bene nè la comunanza di sangue, nè gli onori, nè la
ricchezza, ne alcun’altra cosa, quanto l’amore. E che è mai questo
. La vergogna per ciò che è brutto, l’ambizione per ciò che ò
bello, senza le quali nè ad uno Stato, nè ad un privato è possibile operare
grandi c nobili opere. Ebbene io affermo che un uomo che ami, se fosse
sorpreso in atto di commettere qualcosa di brutto o di soffrirla da
un altro senza reagire per vigliaccheria, non s affligge¬ rebbe tanto ad
esser visto nè da suo padre, nè dai com¬ pagni, nè da nessun altro,
quanto dal suo diletto fanciullo. Così del pari vediamo che anche 1 amato
si vergogna soprattutto degli amanti, ove sia sorpreso a commettere
qualcosa di brutto. Se dunque ci fosso modo d avere uno Stato o un
esercito composto damanti e damati, non potrebbe esserci per la loro
città miglior governo ì costoro, perciocché «'asterrebbero da ogni cosa
turpe e gareggiherò di virtù fra loro (3); e combattendo gb
171» Acusilao d’Argo ora uu logografo contemporaneo delle guerre
persiane, autore di ' Genealogie \ (2) Questo Torso faceva parto
del poema llspì cpoactofi Sulla natura > del grande Hlosofo di Elea,
fiorito tra la fino del vi e il principio del v s. a. 0. Cf. Dirla,
Forsokr. P P- 1U2. 13.Lottoralmento: So dunque si trovasse modo ohe oi fosso
uno stato O un esercito d’amnuti o d’amati, non potrebbero governar
meglio la propria citta, elio astenendosi da tutto lo cose brutte e
gareggiando fra loro eoe. £ sLo non possa animare d’un divino
coraggio cosi da renderlo pari all'uomo più di sua natura vaio .roso>.
E QU el che Omero dice (1): avere un dio ispnato l'ardire in taluni
eroi, questo appunto per virtù propiia Eros l’effettua negli amanti.
YII. _ Ed .infatti solo quelli che amano son pront i a
morire in cambio d’un altro; nè soltanto gli uomini, ma anche le donne. E
di questo ci offre, a noi Elioni, una testimonianza bastevole la
figliuola di Pelia, Alcéstide. che fu sola a voler dare la propria ruta
in cambio di quella del marito,, sebbene questi avesse e padre e
madre tuttora viventi. Ma costoro per virtù d’amore ella li sopravanzo
tanto nell affetto, da farli apparire degli estranei al figliuolo e
legati a lui unicamente di nome. E per aver fatto ciò parve non solo agli
uomini, ina anche agli dei che avesse fatto cosa tanto bella, che
quantunque molti avesser compiuto molte belle azioni, a ben pochi gli dei
concessero questo premio, di richia¬ marne l'anima dall’Ade; ma quella di
lei la richiamarono, ammirati di ciò ch’ella aveva fatto; tanto altamente
ono¬ rano anco gl’iddii un amore profondo e virtuoso! Invece
rimandarmi via dall’Ade a mani vuote Orfeo d’Eagro, dopo (riavergli
mostrato il fantasima della moglie, pei' la quale egli 'era sceso laggiù,
senza per altro dargli la donna, perchè parve loro circi mancasse di
coraggio, da quel citaredo ch’egli era, e non gli bastasse l’animo
d’affrontare per amore la morte, come Alcéstide, ma s’ingegnasse da vivo
di penetrare nell’Ade. E però lo punirono, fa - (1) h un modo
<11 dire elio ricorro più volto nei poemi muorici. l.u devozione di
questo, eroina verso 11 marito forma il soggetto (Cuna tragedia
d’Euripidc, intitolata appunto ‘ Alcéstide dolo morire per
mano di donne. Al contrario, onorarono Achille, il tiglio di Tétide, e gli
assegnarono un posto nell’isole dei beati, perchè, sebbene avvertito
dalla madre ohe sarebbe morto come .avesse ucciso Ettore, laddove.
ciò non avesse fatto, ritornato a casa, vi sarebbe finito di
vecchiezza; egli, bramoso di correre alla riscossa dell’amante Patroclo e
vendicarlo, osò non solo di morire ner lui ma di soprammorire a lui
estinto. Ond anche, gli > dei compresi di viva ammirazione, gli
concessero un onore addirittura segnalato, (lacchè aveva mostrato
di tenere in così alto pregio l’amante. Ed Esclnlo vaneggia,
oliando afferma che Achille era l'amante di Patroclo (1). Achille era più
bello non solo di Patroclo, ma (li tutti quanti gli altri eroi, ed era
ancora imberbe, e per giunta più movane di molto, come dice Omero. Gli e
che in realtà, se gli dei onorano singolarmente questa virtù
dell’amare, essi tuttavia ammirano e pregiano e ricompensano più largamente la
devozione dell amato pei l'amante, che non quella dell’amante per
ornato L’AMANTE infatti è qualcosa di più divino dell AMATO, perchè
posseduto dal dio. E perciò appunto gli dei onorarono Achille a preferenza
d’Aleéstide, assegnandoci un posto nell’isole dei beati.. Per
conto mio, adunque, concludo che Eios e t a gli dei il più antico, il più
augusto, il piu capace di rendere virtuosi e felici gli uomini, così in
vita come m morte. Questo a un dipresso, disse Aristodemo, il
discorso di Fedro. Altri ne seguirono (lei quali non si rammentava bene e
che omise, e passo al discorso di Pansaaia, che parlò così: A me pare che
non ci si sta pn>- pitocon chiarezza il tema del discorso, quando se
detto, così senz’altro, di pronunziare 1 elogio di Eros. s.e Eios
non fosse che un solo, via, la cosa potrebbe andare, ( ìa ecco, esso, non
è un solo, e non essendo un solo, e più (1) Accenno iul una
traspaia perduta, intitolata ‘I Mirmldom , nella quale talune espressioni
allettilo» d'Achille erano da alcun, mterpro- tate conio qui si complaco
d‘interpretarle I«edro. criusfo che si fissi in precedenza quale sabbia a
lodare, fo dmu e mi proverò a rimetter le cose a> posto, a due
aual è l’Eros che merita lode, c poi a pronunziarne 'ì’elogio in
maniera degna del mime. Tutti infatti sappiamo che Afrodite non è
senza Eros. Se VENERE fosse una sola, non ci sarebbe che un solo Eros;
rail poiché di Afroditi ce n’è due, due devono essere di necessità anche
gli Erotes. E come non sono due le dee. L’ima è più antica, non ha madre,
e figliuola d Ulano, e però è detta Urania [o celeste]; l’altra è più
giovane, figliuola di Zeus e di Dione e la chiamiamo Pan demos
10 volgare]. Ne consegue perciò clic l'Eros, collabora- lore di
questa, si chiami a buon diritto Pandemos [o volgare] e l'altro Uranio [o
celeste]. E se giusto è elle tutti gli dei si lodino, è pur necessario
provarsi a dire le qualità toccate in aorte a ciascuno dei due.
Perché d'ogni nostro atto può affermarsi questo: che esso di per sé
non è nè hello uè brutto. Per esempio, ciò che ora Tioi facciamo: bere,
cantare, discorrere, nessuna di queste cose è di per sè bella, ma nel
fatto divien tale, secondo 11 modo come si fa. Fatta bene e
rettamente diventa bella; non rettamente, brutta. E così anche l’amare
ed Eros non è tutto bello e degno d’esser lodato, ma solo quello
clic nobilmente spinge ad amare. L’Eros quindi, collaboratore delTAfrodite
vol¬ gare, è veramente volgare, ed opera come gli vien fatto; e
questo è l’Eros che amano gli uomini di animo basso, fòsforo innanzi l
utto amano non meno le donno che i fan¬ ciulli, e poi, pur di quelli che
amano, i corpi a preferenza delle anime, e poi ancora i meno intelligenti
che possano, giacché essi non mirano ad altro, che a sodisfarsi,
non importa se bellamente o no. Onde accade loro ili fare come
capita, nello stesso modo il bene e nello stesso modo il contrario.
Perocché quest/Eros trae anche ori¬ gine dalla dea elio è ben più giovane
dell’altra e che dal modo, onde fu generata, partecipa di femmina e
di maschio. L’altro invece é dell’Afrodite celeste, la quale 1,1 P
r 'mo luogo non partecipa di femmina, ma solo di maschio — ed è questo
l’amore dei giovanetti _ e poi intica pura (fogni lascivia.. Onde al MASCHIO
* pl '‘;! 8Ì volgono gl’ispirati da questo amore, perchè ;UJP u io-ono
quél che è per natura più forte e piu Intel- f 11 :: ; -Ed anche nello
stesso amor pei fanciulli è pos- u • discernere quei che sono
sinceramente mossi da ' S nesto amore. Giacché essi non amano i
fanciulli, se non ? andò questi comincino a dar segni d’intelligenza,
cioè òn lo simulare sul volto della prima lanugine. Coloro infatti
'che cominciano ad amare da quel momento, si mostrali disposti, secondo
me, a legarsi per tutta la vita "Giovanotto AMATO e a viver con esso
m comune, non oi-r dopoché l'abbian tratto in inganno per averlo .sorpreso
nella sua inesperienza giovanile, a ridersi di lui e orrore ad altri
amori. Converrebbe anzi che una le^ge vietasse l’amare i fanciulli,
affinchè un grande studio non si spendesse in cosa d’esito incerto,
perchè incerta e la riuscita dei fanciulli, dove vada a riuscire, quanto
a vizio e virtù d’animo e di corpo. Questa legge, è vero, 1 buoni
se la impongono spontaneamente a sè medesimi; nondimeno sarebbe necessario che
a ciò codesti amanti vogali fossero anche costretti, come, per quanto è possibile,
li costringiamo ad astenersi daU'amare le donne di libera condizione.
Poiché sono essi appunto che hanno anche disonorato l’amore, tanto che
alcuni osali di dire che è brutta cosa compiacere agli amanti. E dicon
cosi, perchè hanno dinanzi agli occhi costoro, e vedon di questi il
procedere intempestivo ed ingiusto, laddov e non c’è cosa che, fatta con
decoro e in conformità del costume. possa giustamente meritar biasimo.
E certo qual sia nelle altre città la norma (1) enea l’amore, è
facile intendere, chò il concetto ne è semplice. Ma da noi e a Lacedemone
essa è varia. Così nell'Elide, tra’Beoti e dove non son punto esperti nel
dire, e senz altio ammesso come bello il compiacere agli amanti; e
nes- Il testo lui fini la pacala vó|io? ‘ leggoelio compiendo cosi
In legge Boritta, la leggo in senso ristretto, corno l’oplnlou pubblica, la
consuetudine, lu nonna, il costumo. Io l’ho tradotta di solito così, ma anello
in qualche caso, nel quale in questo disoorso di Pausania mi son valso
della parola ‘ legge * s’intende olio a questa parola va dato il
significato più. largo cho ha nel greco. im0 sia giovane o vecchio,
oserebbe tacciarlo di turpe affinché, credo, non incontrino difficoltà
nel persuadentigiovani per via di ragionamenti metta come sono al
parlare. Per contro m molti luoghi della Ionia e in altri paesi, soggetti
ai barbari, la cosa e ritenuta senz'altro quale una bruttura. Pei
barbari, infatti, a camion delle tirannidi, è brutto questo, non meli che
lo studio della sapienza e della GINNASTICA, perocché, credo, non
conviene ai governanti che allignino alti sensi nei (invernati e si
stringano indissolubili amicizie e intimità, che, tra tanti altri, è il
più meraviglioso effetto, che si compiace di produrre l'amore. E ciò
anche i nostri tiranni sperimentaron col fatto, cliè l’amore di
Aristogitone e l'amicizia d'Annodio (1), divenuta salda, abbatterono
la loro signoria. E, così, dov’è considerata brutta cosa compiacere
agli amanti, ciò si deve alla malizia dei legis¬ latori, alla prepotenza
dei dominanti e alla viltà dei soggetti; e dove invece fu senz'alcuna eccezione
considerata come cosa bella, alla pigrizia d’animo di chi fece la
legge. Da noi al contrario la consuetudine è assai più bella,
sebbene, come ho detto, non sia, agevole penetrarne lo spirito.Chi
consideri infatti come sia opinion comune che allumare di soppiatto sia
preferibile l’amare palesemente e soprattutto i più generosi e i
migliori, per quanto mori leggiadri d’aspetto, e come per converso
l’amante abbia da tutti mirabile incoraggiamento ad amare, non come chi
faccia qualcosa di brutto, e sia tenuto in gran conto chi conquista e
deriso chi si lascia sfuggire la preda, e come nel tentar di siffatte
conquiste i nostri costumi abbian concesso all’amante d’aver lode,
anche se l'accia cose sbalorditive e tali, che se uno osasse farlo per
correr dietro a qualunque altro oggetto e per conseguire qualunque altro
scopo, aH’infuori di questo, ne raccoglierebbe i maggiori biasimi se, ad
esempio, per ottener danari da qualcuno o un pubblico ufficio o Ad
Armodlo c Artotogitone, 1 famosi tirannicidi, l’opinione colmino degli
Ateniesi attribuiva la cacciata dei Plsistratldi. Cd) Qui il lesto
ha <ptXoooiplas ’ da parto della lllosolln ’. clic la maggior l'arto
dogli editori, compreso il Burnct, s’accordami u considerare corno un
aggiuuta arbitraria o orrore dei copiati. disiasi altro potere uno s ^J^ e
Uc e con gli amati gli amputi, ^ ^ menti e dormono ° e
<rano e supplicano eg ;. rosi delle servitù quali Suanzi alle
porte e serron ™ dal fare BÌ ffatte cose nessun servo; ei saiebbe
nnp^^ ^ ^ rin{accer eb- ei ' iurp n u Mi uni "li
rinfaccereb- e da amici e ila uenuci, cu fiU'^. )f) ammonirebbero e
bere adulazioni e aU ' a .nmnte che faccia tutte arrossirebbero di
ess - 11 fe permesso dal costume queste cose s’accresce grazia,
de> £attì oltre¬ di farle senza biasimo, ‘ ^ che almeno a
quanto modo belli. E quel eh è pmj gU dei perdonano si dice,
se anche „i eHt o amoroso, sosten- di spergiurare perche ‘ e gU
nomini han "ono, non esiste (1). corae la legge di qui
fatto lecita ogni lieenz^ c * credere che nella dice. Da
questo lato, dunque, t (> l’amare e il città nostra si stmii una
P b . padrii preponendo compiacere agli amanti. <1 p lascian
discorrere con dei pedagoghi agli amai , nedagogo, e eoe-
tanei e compagm h vitupera ,^ì vituperano n on son qualcosa
di simile, * ne upur biasimati dai pai d'altronde nè trattenuti 11
"insto... chi badi per anziani, come que che non “ be la s i
ritenga qui l'opposto a tutto ciò, p fecondo me, invece, la
la più brutta cosa del mondo. comc s ’è cosa sta a questo
nioi o. ^ J bella nè brutta; detto in principio, noi 1 ge
bruttamente. I mpure stabile, come colui clic - co», «mw stabile.
Giacché insieme con lo sfiorire < ^ corpo , che egli amava,
v asse no via a volo (2), eliso (!) È un modo proverbiale olio
negli scrittori greci ricorro sotto varie formo. (2)
Reminiscenza omerica; cf. 71. n Tl« norando tanti discorsi e promesse. Ma
chi ama l’indole buona riman costante per la vita, come colui che
s’è isi attaccato a cosa stabile. E costoro appunto il nostro
costume vuol mettere a prova bene e bellamente, e che agli uni si
compiaccia, dagli altri si frigga. E però appunto gli im i esorta a dar
la caccia, gli altri a fuggire, istituendo una gara e mettendo a prova di
qual mai sorta sia l’amante e di quale l’amato. E così, per questo
motivo, in primo luogo il lasciarsi accalappiare subito è ritenuto
brutto, affinchè ci sia di mezzo del tempo, il quale può, sembra, metter
bellamente a prova la maggior parte delle cose; e poi l'essere
accalappiato dal danaro e dalla potenza politica è brutto, sia elle uno,
maltrattato, si avvilisca e non resista, sia che, beneficato di danari
o agevolato nelle faccende pubbliche, non disprezzi. Che nessuna di
tali cose par che sia nè ferma nè stabile; senza due che non può neppur
nascere da esse una generosa amicizia. Sicché, secondo il nostro costume,
una sola via rimane, se all’amante deve bellamente compiacere
l’amato. È infatti legge per noi che, siccome per gli amanti il servii’
volentieri qualunque servitù agli amati non è, come s’è visto, nè
adulazione nè vergogna, così appunto anche un’altra servitù sola
volontaria rimane non vergognosa, e questa è quella che ha per oggetto
la virtù. Perocché presso di noi è ammesso che, ove qualcuno voglia
servire un altro, stimando di poter divenire per via di quello migliore o
in sapienza o in qualsiasi altra parte di virtù, questa servitù
volontaria non è dal canto suo brutta, e non è nemmeno adulazione,
(inde conviene che queste due leggi convergano insieme al medesimo segno,
e quella che ha per oggetto l’AMORE dei fanciulli e quella che ha per oggetto
l’amore della sapienza e d’ogni altra virtù, se dovrà riuscire a bene
il compiacere dell’amato all’amante. Perchè, quando s'incontrino l’amante
e l’amato, ciascuno recando la propria ( gge, 1 uno che nel prestare
qualsiasi servigio al giova- nelio che gli ha compiaciuto, glielo presti
secondo giu- , K lzia ’ * altro che nel concedere qualsiasi favore a chi
o li nde sapiente e buono, glielo conceda secondo giu-s izia, e 1 uno, potente
di senno e d’ogni altra virtù, n . i-altro bisognoso di educazione e
d’ogni altra 1U ‘ ne acquisti; allora, queste leggi convergendo
S Tmedésimo segno, in questo caso soltanto accade che nel So òhe
l’amato compiaccia, all’amante-, m ogni sia n0 B in questo caso anche il
trovarsi ingannato In è punto brutto; in tutti gli altri, si sia o no
ingan- i norta vergogna. B cosi, se qualcuno a un amante, nat P r l
ricco in vista della ricchezza avesse com- st S e si trovasse poi
ingannato e non ne cavasse danari perchè l’amante s’è scoperto povero,
non sarebbe d '' ( ,ùesto men brutto, dappoiché un amato siffatto P
per quel ch’è in lui, che in vista del danaro ri kz ‘ srjtfsc
ramante, divenir migliore, si '"ciò
nonostante^l’inganno^bello, perchèa^e qj^per ciò SSfJS ^
H fÌT5| l r^tSenté bello' compiacere per "Sefò
l’amore S&i di gran pregio e l’amato a porre ogni sono
TLSJL * «»• *£# m’insegnano a lare di si , ‘ Vvist0 [.
ine . Senoncliè vuto. diceva Azistodemo pa aie ^stob m()tiv0
, costui, o per aver mangiato tiojjo P ^ [Uscor . era
stato coltoinetto a destra di lui. c’era il medico iSSSXmA Eri»»»,
«.co» Vaio a lUro l sofisti c i rotori. :i subito di questo
singhiozzo, o di parlare invece mia, finche non mi sia cessato.
Ed Erissimaco: Ma farò runa cosa e l’altra, rispose. Io parlerò ora
per te. e quando ti sarà cessato il sin¬ ghiozzo, parlerai tu invece mia.
E mentre io patio, se, trattenendo a lungo il respiro, il singhiozzo
vorrà andar¬ sene. < tanto di guadagnato >; se no, fa dei
gargarismi con l’acqua. Che se poi fosse addirittura ostinato,
prendi qualche cosa da solleticarti le narici e cerca di
starnutire. Basta che faccia così una o due volte, e cesserà per
osti¬ nato che sia. . Affrettati dunque a parlare,
disse Aristofane; io seguirò i tuoi suggerimenti. Ed Erissinmco disse: Orbene,
dal momento che Pausante,, dopo d aver preso bene le mosse per il
,K6 suo discorso, non l'ha compiuto a dovere, credo che a me convenga di
provarmi a completare il suo discorso. Che Eros sia doppio, pare a me che
egli abbia fatto benissimo a distinguere; però che esso non sia soltanto
negli animi umani rispetto alle belle persone, ma che abbia molti
altri obietti e sia' in altri, nei corpi di tutti gli animali e nelle
piante della terra e, per dirlo in una parola, in lutti gli esseri, credo
d'averlo imparato (bilia medicina, dalla nostra arte, com’egli sia un dio
grande e meraviglioso, ed estenda il suo potere su tutte le cose
umane e divine. E eomincerò, partendo, dalla medicina, anche per rendere
omaggio all’arte. Infatti te natura dei corpi ha questo doppio Eros,
giacché la sanità del corpo e la malattia sono, per consenso unanime,
cosa diversa e dissimile; e il dissimile desidera ed ama cose
dissimili. Altro, dunque, è l’amore che risiede nel sano, altro
quello che risiede nel malato. Ed appunto, come Pausante di¬ ceva
or ora, clic è bello compiacere ai buoni tra gii uomini, ma brutto ai
dissoluti, così anche negli stessi corpi è bello e, conviene compiacere a
ciò che v'è di buono e di sano in ciascun corpo — ed è ciò a cui si dà
nome di medicina — ma' brutto compiacere a ciò che v’è di cattivo e
di morbóso, e si deve negare a questo ogni favore, se si vuol essere un
medico esperto. Perchè la medicina, in sostanza, è la scienza delle
TENDENZE AMOROSE DEL CORPO a riempirsi e
a vuotarsi; e ohi sa distin¬ guere in esse l’amor bello dal brutto,
costui sarà il pili acuto medico; e chi ù capace di produrre tal
mutamento, che i corpi acquistino l'mi amore in cambio dell'altro,
e in quelli, nei quali non sia amore e dovrebbe esserci, sappia
farlo nascere e da quelli nei quali sia e non dovrebbe >, espellerlo,
questi potrà esser davvero un medico abile. Occorre infatti che egli
possegga la capa cita, di metter d’accordo gli elementi più avversi,
esi¬ stenti nel corpo, e procurare che si amino l'un l'altro.
K avversissimi sono gli elementi affatto contrari, il freddo e il
caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l’umido,
via dicendo. TC perchè seppe.ispirare in essi amore e con¬
cordia, Àsclépio (1), il nostro capostipite, come affermano i
nostri poeti, ed io credo, fondò la nostra scienza, ha medicina, dunque,
dicevo, è governata tutta intera da questo dio; e al pari di essa anche
la ginnastica e l’agricol¬ tura. Quanto alla musica poi è chiarissimo a
chiunque W voglia appena riflettervi, che il caso è affatto
identico, c quest o forse volle dire anche Eraclito, sebbene egli
non lo esprima in forma perspicua. L'uno, egli dico, discor¬ dando
con sè medesimo si accorda, come ar¬ monia d’arco c di lira (2). È
difatti un vero assurdo affermare clic l’armonia discordi o risulti da
cose tuttora discordi. Ma forse egli voleva appunto dir questo: che
essa nasce da cose per l’innanzi discordi, l’acuto e il grave; ma che in
seguito si sono accordate per opera del- l’arte musicale, giacche non è
in alcun modo possibile, clic dall’acuto e dal grave, tuttora discordi,
nasca armonia. Asciò pio o Esoulapìo ora un eroe-modico divenuto piti
tardi un ilio-modico. 1 suoi discendenti, gli Asolcpiadl. tra cui
Krlssimaco pone se medesimo, dovevano essere in origino limi gente
congiunta da legami di sangue, in cui era tradizionale la cognizione e la
pratica della medicina. 1 j0 famiglie di Asclepindi più celebri orano
Quelle di Cos, a cui apparteneva, il grande lppoerate, e di ('nido. Ma in
tempi più recenti tutti i medici, compiacendosi di far risalire al <Uo
la propria genealogia, presero indistintamente il nomo d’Asolopiadì.
(•>) (’f. DllCl-s, Vorqokr. V p. S7, .*>1. „ ; n certo ino
rio con¬ che è consonanza, e consonanz^ da cose discordanti, senso,
e U consenso non può ^ ^ discorda e non tinche discordino; e d
altra P Così, per esempio, consente nOn può coautore ai ■ ^ da cose
clic anche il ritmo nas f ^^ consentirono poi. E in tutte
discordavano prima, ma ci dalla me dicma, qui e queste cose il
consenso, come 0 concor dia vicen- ! osto dalla musica, che v ispm
‘ la scienza delle devote. E però la — Soffia e’di ritmo. Nella
* tendenze amorose m tatto e dell armonia composizione,
considerata discernere le tendenze e del ritmo non e punto dime
oliando occorra amorose, nè ,ulvi c'6 Mggg't’SflB. con gli
servirsi del ritmo e dell. c h e chiamiamo uomini, o clic si
compong cbe s’adoperino ‘ melopea ’ [creazione musicale] - ° ™ t _
ed è ciò acconciamente melodie • e metri gn ® usioa i e ] — qui. ohe vien detto ‘
slbi ie artefice. E qui temati, e affinchè diventino pm costumati
q^rni lo sono ancora, Insogna compuie p^ros celeste, volgare
- e questo, a coloro, a cui si somministri, s ha da sonnninistr .re con
molta Cautela, affinché se ne colga il piacere) 18 ma non ingeneri alcuna
intemperata mm nell’arte nostra vai molto sapersi giovale dei
desideri eccitati da una buona cucina in modo che, senza procurarsi una
malattia, se ne goda il piacere. Cosi, dunque, e nella musica e nella
medicina e in tutte le altre cose, umane e divine, si deve, per quanto si
può, aver riguardo a ciascuno di questi due Erotes, perche ci sono.
188 XIII. — Poiché anche la costituzione delle stagioni dell’anno è
piena di tutti e due questi amori; e quando gli elementi, dei quali
dianzi parlavo, il caldo e il freddo, il secco e Tumido, si trovino in
una scambievole e ben regolata relazione d’amore e s’accordino e si temperino
saggiamente, essi vengono apportatori d’nna buona annata e di buona
salute, cosi agli uomini, corno agli altri ammali e alle piante, e non
soglion produrre alcun danno. .Ma quando invece, l’Eros compagno
dell’intemperanza prevalga nelle stagioni dell’anno, egli suol corrompere
'• danneggiare molte cose. E da tali cause derivano di solito e
pestilenze e tante altre malattie diverse e negli animali e nelle piante.
Infatti e le brinate e la grandine e la ruggine dei cereali sono il
frutto della sopercliieria e della sregolatezza vicendevole di cosiffatte
TENDENZE EROTICHE, la cui scienza rispetto al moto degli astri e alle
stagioni dell’anno prende nome di astronomia. Inolt re tutti i sacrifizi
e quei riti a cui presiede l'arte divinatoria — ossia la scambievole comunione
tra gli dei e gl' uomini — non vertono intorno ad altro, se non
intorno alla preservazione ed alla cura di Eros. Giacche ogni forma
d’empietà suol nascere, ove non si compiaccia all’Eros ordinato e non gli si
renda onore e venerazione in ogni cosa, ma si tenga in pregio quell
altro, cosi nei rapporti coi genitori, vivi e morti, come nei
rapporti con oli dei. Ed appunto osservare siffatti amon curarli è il
compito della divinazione, e la divinazione è a sua volta, operatrice
d’amicizia tra gh elei e gu uomini, perchè sa discernere, tra le
inchnaziom ainc^se deo-li uomini, quante tendano alla giustizia e alla
pietà, "l'osi ogni Eros ha un potere esteso e grande, anzi, iu
una parola, universale, ma quello che, e Pi'esso 'li noi e presso gli
dei, trova il proprio compimento nel buie con temperanza e giustizia,
questo ha il maggmr potere e ci assicura ogni felicità, sicché si possa
viveic in pace fra noi ed essere anche amici di quelli che son
ungimii di noi, degli dei. . , , Porse, in questo
elogio di Eros, anche io ho tralasciato molte cose, ma non l’ho fatto apposta.
Se per altro c’è qualcosa ch’io abbia omesso, tocca a te, A
stofane, di supplirvi. Ma se invece ti frulla per il capo di elogiare
altrimenti il dio, fa pure a tuo modo, che anche il tuo singhiozzo è
cessato. Leggo qui Iponas- — 3S — :3 P=
^V5=Hf Bsfc = - s S 8 Sf 3£ iV'l".-» •" t“ d
'"" « caso che ti sfugga qualche cosa da lai
-f sawst.*#>r n ;" ’yffes conto ch'io non abbia detto
ciò che ho detto. E non stare a farmi la guardia, perchè temo di tee>
non g. cose da far ridere — questa sarebbe una fortuna, SpSaSl
fleto mm H«». - ma Ufc te *• 1 " d Bravo. Aristofane! hai
tirato il sasso e nascondi la mano. Ma bada a’ casi tuoi e parla come chi
lui da render conto delle proprie parole. Quanto a me, se mi pare,
ti lascerò in pace. Comunque, caro Erissimaco, disse Aristofane.
io mi propongo di parlare in modo diverso da te e da Pausania. Io
penso che gii uomini non abbiali sentito nè punto nè poco la potenza di
Eros, perche, se la sentissero. gli dedicherebbero i maggiori tempi ed altari
e gli offrirebbero i maggiori sacrifizi, cosa che ora non fanno per
nulla, mentre è ciò clic si dovrebbe fare a preferenza di tutto. Eros è
infatti tra gli dei il più amico degli uomini, perchè è il loro
protettore e il medico di quei mali, la cui guarigione sarebbe per il
genere umano la maggiore delle felicità, lo dunque mi studierò
d’esporvi la. potenza di lui, e voi ne sarete maestri agli altri. Ma,
innanzi tutto, occorre che impariate quale sia la natura umana e le sue
vicende non liete. Giacché la nostra nani Il tosto ilice: hai tirato il colpo e
ora ricusi di svignartela, modo proverbialo anch’esso. tura non era
un tempo la stessa (li oggi, ina tuli altra. In origine c’eran tre
sessi umani, non due, maschio <• femmina soltanto, come ora, ma ce n
era un terzo, clic mrtecipava dell’uno e dell’altro e che, scomparso
oggidì, sopravvive appena nel nome. C’era allora un terzo sesso.,
l’andrògino, che di fatto e di nome aveva del maschio e della femmina, e
questo non esiste piu. fuorché nel nome che suona un oltraggio. Inoltre
ogni uomo aveva una figura rotonda, dorso e fianchi tutt'intorno,
quattro braccia, gambe di numero pari alle braccia, su un collo
cilindrico due visi, perfettamente simili tra loro, un unica I- testa su
questi due rósi, posti l’uno in s|so con ramo all’altro, quattro
orecchie, doppie F (ta e ut l resto come si può supporre da ciò che s e
detto, i ari minava anche ritto come ora, in qualunque direzion volesse-
e quando si mettevano a correre, quei uost progenitori, come i giocolieri
che a gambe per aria an delle capriole a ruota, essi, appoggiandosi sui
loro otto arti si muovevano rapidamente, tacendo la.ruota. I ^ poi
eran tre e cosiffatti per questa ragione: «esso maschile traeva
origine dal sole il J!; rt eripà e lrindrórino dalla luna, perche
anche questa paitccipa del itle e della terra. La loro figura dunque era
rotonda e cofano^ il modo di muoversi, appunto^perchi- «m,l ai loro
genitori. Avevano vigore e gagl ardia tel i 1 c„,o -o». a;
numi. XV - A mesto p*H> « s» «#rt «#? consiglio ,,,
ciò che ^ « «" "Jggg; Non sapevan risolversi ad uccido c
* N i la razza) fulminandoli, come i giganti, perche cosi saie -
( 1 ) Oto «1 Eflolto orano i duo glovonissluil “^“^lonutoto'ùcr
llKliuoU di Aloco, olio dopo dover nca . (H ul)onl t,„ por opera di
Erniosi tredici mesi in uu gran vaso ali von i o. . all * 0sBa tentarono
di dare la . . .. “ essi Omero accenna in 11. V sgg.»
Or. -„ero venuti a privarsi degli onori e dei sacriti/., umani; ^potevano
tollerare che ne facessero d og... sorta, B analmente Zeus, dopo matura
riflessione, disse: « C redo di e -ovato la via. affinchè gli uomini
continuino "a esistere, ma, divenuti più deboli, smettano la
loro tracotanza. Segherò ». disse, « ciascun di loro m due, e S
mentre saranno pii. deboli, ci saranno ad un tempo S utili, perchè
diverranno più numerosi. E cammine¬ ranno ritti su due gambe. Chè, ove
poi seguitino a inso¬ lentire e non vogliano starsene in pace, li segherò
», disse, , ili nuovo in due, cosicché cammineranno su una
gamba sola, a saltelloni (1). » Dette queste parole, venne segando
eli uomini in due, come quelli che tagliali le sorbe per metterle in
conserva, o quelli elio dividon le uova coi capelli. E a misura clic ne
segava uno, ordinava ad Apollo di girargli la faccia e la metà del collo
dalla parte del taglio, acciocché l'uomo,' avendo sotto gli occhi
il proprio taglio, fosse più modesto; e medicargli le altre ferite.
B Apollo girava a ciascuno la faccia in senso opposto, e tirando d’ogni
parte la pelle verso quello ohe ora chiamiamo ventre, come le borse a-
nodo scorsoio, lasciandovi appena una boccuccia, la legava nel
mezzo del ventre, in (pie! punto preciso che chiamano ombelico.
Itti Spianava poi tutte le altre grinze, che orati molte, e
rassettava le costole, servendosi d’uno strumento suppergiù simile a quello che
adoperano i calzolai per spianare sulla forma le rughe del cuoio; ma ne lasciò
poche nel ventre e intorno all’ombelico, ricordo dell’antica pena.
Orbene, poiché la creatura umana fu divisa, in due, cia¬ scuna metà presa
dal desiderio dell’altra, le andava incontro, e gittandole le braccia intorno e
avviticchiandosi scambievolmente, nella brama di rinsaldarsi in un
unico corpo, tnorivan di fame e d’inerzia, perchè l’una non voleva
far nulla senza dell’altra. B quando l’una delle (I) Il greco ha
àoxop.ià£<ms<; cho vuol dire propriamente ' saltumlo sminuire'
(àox4f). • I.'espressione 6 tolta ila un giuoco contadinesco del¬
l'Attica. 1 contadini dulia pollo dui hocco saorllloato a indulso
facevano un otre olio riempivano di vino o ungevano d’olio. Su di usso
saltavano con una sola gamba altornaUvamcnlo, o vinceva old sapova
roggorvlsl. * (Unir). nielli moriva e l’altra sopravviveva, quella che
soprav¬ viveva andava in cerca d'un'altra metà e le si avvin¬
ghiava, sia clic s’imbattesse nella metà d’una donna in- IL quella
appunto elle ora chiamiamo donna — sia che nella metà d’un uomo; e così
morivano. Mosso pertanto a compassiono. Zeus no escogita un'altra: trasporta
le loro pudende nella parte anteriore — lino a quel momento anche queste
le avevano avute al difuori, c generavano e partorivano non tra loro, ma
in terra, come le cicale... gliele trasportò dunque così, sul
davanti, e per tal mezzo rese possibile la generazione fra loro,
per mezzo ilei MASCHIO nella femmina, con questo line, che
nell’amplesso, ove un maschio s’incontrasse in una femmina, generassero e si
perpetuasse la specie; ma. ove invece un maschio s’imbattesse in un
maschio, provassero sazietà dello stare insieme e smettessero e si volgessero
ad operare e attendessero agli altri doveri della vita. Cosicché fin da
quel momento l’amore vicendevole è innato negli nomini: esso ci riconduce
al nostro essere primitivo, si sforza di fare di due creature una sola e
di risanare così la natura umana. O'imn di noi, in conclusione, è
una con tre¬ mala d'uomo, in quanto che è tagliato come le
sogliole, è due di uno; c però cerca sempre la propria contromarca.
Quanti sono una fotta di quel sesso comune, che « loia si diceva andrògino,
annui le donne, e la maggmi p. dogli adulteri soli nati da esso; e cosi
pure le donne. sU truggon per gli uomini, e le adultere provengo.,
da , u eS e m.aL4 T»l* <!»* 1 ‘“'i una fetta di
donna, non corron dietro agli o, un uà sono piuttosto inclinate alle
donne; e ^ questo appartengono le tribadi. Ma quanti sono una fe la
li maschio, danno la caccia al maschio; e 1 ! ut ' u ' ’ S01 " \
r)j coni, fanciulli, conio parte d’un uiasciuo jpu o gli uomini e
godono a giacere e a starsene abbracciata con gli uomini; e questi sono
tra i fanciulli e tra po'anett i migliori, perchè i piè v ' r '*' di hno
na u . • mancali di quelli clic li chiamano inipudent. ina uien
liscino. Perchè essi non lo fanno per impudenza, ma pei baldanza. per
coraggio, per virilità d animo, giacché .si attaccano a ciò che è simile
a sé. Ed ecco vene ima prova decisiva: costoro, a tempo debito, sono 1
soli che negano uomini davvero, adatti alla vita politica. E pervenuti all'età
virile, mettono amore al fanciulli; e al matrimonio e alla procreazione
dei figliuoli non si vol¬ gono per inclinazione naturale, ma costretti
dalla legge, chi* anzi per conto loro soli ben contenti di viver
sempre gli uni con gli altri, da scapoli. Per ciò chi è così fatto,
diventa un amante di fanciulli o un amato, perche desi¬ dera sempre ciò
che gli è congenere. E quando poi 1 amante dei fanciulli e chiunque altro
s’incontra in quella sua propria metà d'un tempo, allora son presi d’un
amicizia, d'un intimità, d'un amore meraviglioso, senza volersi separare
gli uni dagli altri, per così dire, nemmeno un istante. E quelli che
vivono insieme tutta la vita son questi, che non saprebbero neppur dire
che cosa vogliono che avvenga loro all’uno per opera dell’altro,
giacché nessuno può credere che ciò che desiderano sia l'uso dei
piaceri amorosi, quasi che in questo debba cercarsi la ragione per cui
provano un così vivo diletto a stare insieme; ma è evidente che c’è qualche
altra cosa che l'anima di ciascun di loro desidera, qualche altra
cosa che non sa esprimere, ma che sente vagamente e a cui accenna per vie
coperte. E se ad essi nel momento, in cui giacciono insieme, si
presentasse Efesto coi suoi strumenti alla mano e chiedesse loro. Che
volete, o uomini, che avvenga di voi. alFuno per opera dell’altro 1 ?
» e mentre e’ sono tuttora indecisi, soggiungesse: « Desi¬ derale
voi, non è vero? soprattutto essere nello stessissimo luogo l’uno con l’altro
in modo da non separarvi mai né notte nè giorno? Ebbene, se è questo elio
desiderate, io voglio rifondervi e riplasmarvi in un’unica natura, sicché
di due diventiate uno, e finché vivrete, viviate tutti e due in comune,
come un essere solo, e anche da morti, laggiù nell’Ade, non siate, invece
di due, elle un morto solo... Guardate se è questo che amate e se
vi basta di conseguir questo... » a udir ciò sappiamo bene che nessuno,
proprio nessuno, risponderebbe di no, nò mostrerebbe d'aver mai
desiderato altro, ma crederebbe 103 nllit0 precisamente
quello che egli desiderava da tlavei i sentirsi unito e fuso con l’amato,
e dive- tanto ten i solo> e la ragione è appunto questa:
ot0 , eri in origine la nostra natura, e che eravamo Cb teii
'Ebbene, al desiderio e alla caccia dell’intero si da n ° U p,-ima
"dunque, come dico, eravamo uno; ma ora per , ..... nequizia siamo
stati separati di casa dalla mano ’ìV’rno còme gli Arcadi da quella
dei Lacedemoni (1). .... ’ ltra che a non essere ossequenti verso
gli dei.. h . 'incontro a venir segati daccapo, e a dover an-
d.,re intorno come le figure scolpite a bassorilievo sulle Se spaccati
per il mezzo dei nasi, divenuti come dei dirti’tagliati in due (2). Ma
perciò conviene che ognuno esorti ogni altro alla pietà verso gli dei,
affinché si evitino : m; di e si conseguano i beni, tenendo presente che
Eros è nostra guida e nostro duce. A lui nessuno vada conilo __ c
o-n va contro chiunque venga m uggia agli dei _ nerchè divenuti amici del
dio e vivendo in buoni termini con lui. troveremo e incontreremo ì nostri
propri AMATI, il ora capita a pochi. E non sospetti Erissimaco,
mettendo L caiSonatura ì mio discorso, che io alluda a Pausami, cd
Agatone — oliò forse anche essi sono di quelli, e tutti c due maschi per
natura - ma dico avendo di mira tutti e uomini e donne, che m questo modo
il genere nostro troverebbe la sua felicità, se all’amore, e
ciascun di noi, ritornato nell antica natii a, s’imbattesse nel proprio
amato. E se poi qne meglio, ne segue di necessità che di quanto
oiaè nostro potere, il meglio sia ciò che piu vi si avvmuia, e ciò
è rincontrarsi in un amato fatto secondo d piopno “7"
Aristofane accenna, secondo roplnUm.Mplfc £ del 3S5 a. C. Gli
Spartani, vinta Mautinea in Alca, silaggi, della città o la
sciolsero, com’era precedutomene, ci sarebbe Tenuto conto elio il
banchetto avrebbe avuto’ “ wlt0j è n " u è impos- qui un
anacronismo. Ma rnUnsiouo non 6 do . .inlln storia sibilo cho si
accenni a qualche altro avvenimento ante,toro della arcadica. . „
uim mota, conservata l dadi
talvolta si tagliavano in due, c ua.ci tessera, di ricoda duo persone legate da
vincoli di ospitalità, seivna noscimeuto por loro o per lo loro
famìglio. che nel presente ^maggiori affidamenti nel proprio;
e per 1 prota jftà verso gli -lei, ^ -i. ei render,
feUei e beati. v è p lu io discorso intorno altri due,
Agatone e Socrate. XVII - Farò a modo tuo, disse Erissimaco.
perchè il tuo discorso l'ho ascoltato con piacere. E se non sapessi
che Socrate e Agatone sono addirittura dei maestri m cose d’amore, avrei
gran paura clie non doves ®.® 10 , vaisi a corto d’argomenti, tante cose
si son dette e cosi svariate. Tuttavia ho fiducia in loro. 1
E Socrate: Ah, sì, Erissimaco, perche tu te la sei cavata egregiamente.
Ma se fossi dove ora son io, o meglio, dove sarò, quando Agatone avrà
parlato da par suo, temeresti anche di più. e saresti su tutte le
spine, còme son ora io. , Ammaliarmi (1) vuoi,-
Socrate, disse Agatone, affinché io mi turbi, immaginandomi che il teatro
deva essere in grande aspettazione, ch'io parli bene. Mio
caro, dovrei esser proprio uno smemorato, rispose Socrate, se dopo di
aver visto con quanto coraggio e con quanta sufficenza salisti sul palco
insieme con gli attori e guardasti in faccia un teatro così affollato, in
procinto di dare alla scena i tuoi componimenti (2),.senza (1) *
Vantarsi muove l’Invidia degli uomini; ma l’invidia ha il mal¬ occhio e
può ammaliare e turbare senz’altro la persona Invidiata. Sonouohò anche
la lodo esagerata d’un altro (Socrato aveva lodato Agatone) può suscitare
contro costui l’invidia con tutto lo suo tristi conseguenze. (Hug). Da
questo pasqo si concludo clic il poeta insieme col suol attori prima
della recita si presentava in forma solenne al pubblico. E sembra del
pari elio egli presentasse anche il Coro col suo corego. Questa ceri¬
monia, detta Ttpoaywv ‘ preludio ’ o ' preparazione al certame ’
drainatico. .«s ’rr^zk »s« f ”' iS *S Vuko <l<™« to P“™
'’* ™“ £Z?X~*. **? *T; Sarei, Agatone, «pnrtese So bene elio
a se io pensassi di te sag gi, saresti più in
imbatterti m atan- la folla . Ma, bada, probabil- pensiero
per loio e 1 1 buon conto, lì anche ne elici 1 ? fi* So
»»« avresti vergogno, ove « ,.eresse .11 fare qualcosa di male?
Affatone, disse, Ma Fedro, interrompendo: .Mio de i se
gli rispondi, Socrate noi > ^ < basta d’aver resto, qualunque
cosa *qui avven & * ^ )( q dovane. :tis: «i? Jgs» -~f *n s*
ss avrà saldato il suo conto col dio, alloia
''""“'"of'VSto; rispose «M e so,, qui pronto . „’Z,
"ó,, 5 monebe.it ,»i Mft. » >»,.vem,»e spesso con Socrate.
Or dunque io vo’ in prima dire come io deva dire, e poscia dire. Che
tutti quelli, i quali han pal¬ late precedentemente, non hanno, parmi,
encomiato dio, bensì la felicità degli uomini Ivan messa m nlu pei
beni, de’ quali il dio 6 ad essi cagione. Ma qual sia avveniva
ncU’Odeon. teatro fatto costruirò da Pericle, e doveva, com’ò ^supporre.
attirare la curiositi! del gran pubblico, ohe «-interessava così
vivamente agli spettacoli teatrali. egli è il più giovane (legl’iddii. E
una gran prova con porge <*' medesimo fuggendo di fuga la vecchiezza.
che pure è così veloce: la ci raggiunge più presto che non dovria!
E questa Eros per natura la detesta e non le si accosta nemmen da lungi.
Egli sta e resta sempre coi giovani, poiché ben dice l'antico adagio che
sciupio simile con simile s’accompagna (1). Ed io, pur consentendo
con Fedro in molte altre cose, in questo non consento: che Eros sia più
vecchio di Crono e di Già- peto (2); affermo anzi ch'egli è tra’ numi il
più giovane, e sempre giovane; e le vecchie storie che Esiodo e
Par¬ menide (3) ci ricantano dcgl’iddii, a’ tempi d Ananke, [della
Necessità] e non di Eros, risalgono, posto pure che quelli ei contino il
vero. Imperocché non ci sarieno state né evirazioni, né ceppi, né tante
altre violenze reciproche, se Eros fosse stato tra loro; ma amicizia e
paco, come ora, dacché Eros regna sugli iddìi. Egli è dunque giovane,
e perdippiù delicato. E ci vorria un poeta quale Omero per mettere
in luce la delicatezza del dio. Omero infatti dice che Ale è dea e
delicata — e delicati almeno dovevano essere i suoi piedi — dicendo egli
di lei: son delicati i piedi, oliò sovra il suolo non mai
muovesi, ma sul capo ella degli uomini incedo. MlK modo proverbialo e
allusione ,i nn verso omorlco; cf. Od. XVII ì IS. ( ") Ulro modo
proverbiale per impennare alla nifi renn.l.i ....Hoi.n;. Minare
alla più remota antichità. Mille abbia ipii in melile Agatone,
inc sembra che della delicatezza di lei una bella ,-ovu sia
che ella non cammina sul duro, ma sul tenero, r -incile noi (li questa
medesima prova ci varremo per dimostrare di Eros circuii è delicato,
dappoiché e' non cammina sulla terra, nè sui cxanii, che non sono
davvero tèneri, ma in quel che vita di più tenero al mondo e
cammina e s’annida. Egli infatti e nei costumi e negli mimi degl’iddìi e
degli uomini pone sua stanza, e non mica in tutti gli animi, ma ove mai
s’imbatta iti qual- cuno d'indole dura, se ne diparte; ma se tenero è, vi
si •umida. Or poiché adunque egli e co’ piedi e con ogni parte del
corpo tocca sempre quel che ve di più tenero Jra le tenere cose, è giuocoforza
che sia il piu delicato l. > fri (d’iddii. Égli è così il più giovane
e il più delicato-, niu 1- per dippiù flessuoso di forma, che non gli
sana possibile insinuarsi dappertutto, nè penetrar tutta l’anima,
entrandovi la prima volta senza lasciarsi sorprendalo t uscendone, se
duro e’ fosse. Del suo aspetto proporzionato e flessuoso, argomento grande è 1
avvenenza che Eros per confession di tutti in grado eccelso
possiedi. chè tra disavvenenza ed Eros è guerra sempre, ha leggiadria del
colorito, il suo viver tra hon la sigillili., poiché in quel che fiorente
non sia o sui n ’ o anima o qualsivoglia altra cosa, non risi, de L
o . . a ovunque sia un luogo e ben fiorito e fragranti, (pi 1 e
risiede e rimane. Della beltà, adunque, del dio e questo o bastante
e ancora molto sopmvanzat .na; seguiia^m lei]., v i r tù di Eros mi
eonvien dopo no dm. lai < ' i .
h ini che nè fa nò soffre ingiustizia, ni da sano vanto (Il Pii CHI
violenza. Pio nè -1 dio nò da uomo nè ad uomo. Nè già p i ' «'li
nzu e so fre se qualcosa so.Vre - chè violenza noi tango, u
si concede a volente, le leggi, «fello Stato u D). h-n elle è
('insto. E oltreché della giustizia c partecipa della maggior temperanza.
S’ammette infatti che lem- in . Molatori» georgiana.
evidóulomoilto una eluizioni'. (Unir). paranza sia il signoreggiar piaceri e
desideri, e clic di Eros verun piacere sia più potente. Or se meno
potenti, è ovvio che sien vinti da Eros, ed egli vinca; e vincendo
piaceri e desideri, Eros in sommo grado temperante esser deve. E per
fermo, quanto a coraggio, ad Eros neppur Ares contrasta (1). poiché non
Ares possiede Eros, ma Eros Ares — amor di VENERE, come è fama — e
ehi possiede è più possente di chi è posseduto, e chi vince l'iddio più
valoroso di tutti gli altri, e’ dev’essere il più valoroso di
tutti. Ho detto della giustizia, della temperanza, del co¬
raggio del dio; a dir mi rimane della sapienza, e per quanto è possibile,
m’ingegnerò di non fallire alla prova. E in primo luogo, perchè dal canto
mio anch’io renda alla nostra arte omaggio, come alla sua Erissimaco,
poeta è l'iddio, sapiente così, da render anco gli altri poeti. Ohè
ognuno poeta diventa, quand’anche prima di ogni Musa schivo, cui Eros
tocchi. Della qual virtù convienci usare a documento che Eros, a dir
breve, è poeta valente in qualsivoglia genere di creazione che
attenga alle Muse, dappoiché quel che non si ha o non si sa. nemmeno ad
altri non si può dare o insegnare. E invero la creazion degli animali
tutti chi niegherà che sia sapienza di Eros, mercè la quale tutti gli
animali e nascono e si generano! E quanto alla pratica delle arti,
non sappiam noi forse che colui, al quale questo iddio sia divenuto
maestro, famoso diviene ed illustre; e chi per converso da Eros non sia
stato mai tocco, rimansi oscuro! L’arti del saettare, del curare e del
divinare ritrova Apollo, scorto dal desiderio e dall’amore, sicché
anch’egli dir si può scolare d’Eros. E alle Muse fu maestro dell’arte
musicale, ad Efesto di quella dei metalli, ad Atena del tessere, a Zeus
di governar numi e mortali. Laonde anche nelle faccende degl’iddii si
mise ordine, poiché vi si fu generato Eros, amore evidente-
(Da uu verso del ‘Tlesto ’ di Sofocle; cf. Nauck, Tran. Or. Fraomm.*
framin. Da un verso della ‘Stonoboa’
d’Eurlpido; cf. Naucic, Tran. Or. Fraumm.* framm. 063 Verso giambico
probabilmente d’un tragico. meniti; di bellezza — che del brutto non è
amore — laddove per l’innanzi, come da principio ho detto, molte e
terribili cose, a quanto si narra, fra' numi awemano, pr x c i ie vi
regnava Ananlce. Ma dappoiché questo iddio ebbe nascimento, dall’amore
per le cose belle ogni bene nrovenne e agli iddìi e agli uomini.
1 E così panni, Fedro, che Eros, essendo egli per il minio
bellissimo e ottimo, sia dipoi agli altri cagione di Stri cosiffatti
doni. Ed ei mi salta in mente di aggiunger qualcosa in versi, dicendo che
questi è colia il quale ivice tra gli uomini reca, nell' ampio mare
bonaccia calma, riposo ai venti; nel duolo conforto di sonno.
Questi (Fogni sentimento ci vuota che ci strania, d ogai sentimento
ci empie che ci affratella; tali e tonti convegni lri istituito per
ravvicinarci, nelle solennità, ne con. n sacìihzi facendosi nostra guida;
di mitezza ispiratore di rustichezza espulsore; prodigo di benevolenza,
avaro malevolenza; propizio, buono; spettabile ai sapienti, vene¬
rabile agl’iddii; segno d’invidia per chi noi possiede, cu* Sosa di chi
il possiede; di voluttà, di mollezza di del - catezza, di grazie, di
desio, di brama padre; cmant^dc buoni non curante dei tristi; nei
travagli, mu pin^n nelle brame, nei discorsi timoniere, soldato,
commilitone ( ) « xr„“fr!ito-VSlso * ...io .<*>
L, i» A « •>»«”. *" ir*-. — u " si poteva, di
misurata serietà temperato. Quando Agatone ebbe fluito,
diceva.Ariate- demo, lutti i presenti proruppero ni applausi,
lasciai ,n Vò * snidato' nò 'marinalo - equivalgono a iitlPiWQS d»
1 tosto, a llanco il’un altro intendere che il giovane aveva discorso in maniera,
degna- di sé e del dio. Al che Socrate, volgendosi ad Erisslmaco: O
figliuolo d’Actìmeno, disse, ti pare che poco fa io te¬ messi d'un timore
da non temere, o non fossi piuttosto profeta, quando dicevo quel che
dicevo poc’anzi: che Agatone avrebbe parlato mirabilmente, ed io mi
sarei trovato in impaccio? Per un verso, sì, rispose
Erissimaco, lo riconosco, sei stato profeta, che Agatone avrebbe parlato
bene; ma quanto a-1 tuo impaccio, via, non ci credo. E come
mai, beato uomo, riprese Socrate, non dovrei trovarmi ìd impaccio io e
chiunque altro sul punto di parlare dopo la recita d’un discorso così
bello e così varia mente adorno? Certo non tutti i punti sono stati
egual¬ mente stupendi; ma, nella chiusa chi di noi non è rimasto
addirittura intontito dalla bellezza delle parole e delle frasi? Per me,
considerato che non potrò dir nulla che s’avvicini appena per bellezza a ciò
che egli ha detto, quasi quasi per vergogna me ne sarei scappato, se
avessi potuto. Il suo discorso infatti mi ha richiamato alla mente GORGIA,
tanto che m’è occorso quel che dice Omero: ho temuto, cioè, che alla fine
Agatone nel discorrere non scaraventasse contro il mio discorso la testa di
Gorgia (1), par¬ latore da far paura, e mi pietrificasse,
ammutolendomi. E mi sono accorto allora quanto ero stato ridicolo,
allorché avevo preso con voi l’impegno di fare a mia volta l’elogio di
Eros e dichiarato d’esser competente in cose d’amore io, e lo vedo, che
non so nemmeno come s’ha da fare l’elogio d’una cosa qualunque.
Giacché io, nella mia dappocaggine, ritenevo che nell’elogio di
qualsiasi cosa non si dovesse dire che il vero e che questo dovesse
essere il fondo del discorso, salvo a sce¬ gliere Ira- le cose vere le
più belle e metterle in mostra nel miglior modo possibile. E presumevo
assai di me nella fiducia di parlar bene, convinto di saper la
verità sul modo di lodare qualsiasi cosa. Ma ora credo d’accor-
(1) Allusione a mi luogo dell” O di seca ’ (XI 032 sg.). Ulisse,
sceso nell’Ade, temo per un momento che Persofono non mandi contro di
lui la testa della Gòrgóne o Gorgo. Scherzo sulla somiglianza di nome tra
Gorgo e Gorgia, il famoso sofista. germi che noti è questo il modo
di lodar bene una cosa, bensì l’attribuirle i maggiori e i più bei pregi
possibili, li abbia o no; se poi sono falsi, che importai
Dev’essersi infatti proposto, se non erro, che ciascun di noi finga
di pronunziare l’elogio d’Eros, non che lo pronunzi davvero.
E perciò appunto, credo, razzolando da ogni parte, avete attribuito
ogni pregio ad Eros e detto ch’egli è così e così, e autore di tali e
tanti beni, affinché appaia bellis- 199 simo ed ottimo, evidentemente a
chi non sa — non certo a chi sa — e cosi l’elogio assume un aspetto
bello e venerabile. Io, senza dubbio, ignoravo il modo di tesser
l'elogio, e, ignorandolo, presi impegno con voi che a mia volta avrei
anch’io lodato Eros. Ma la lingua promise, la mente no. Dunque, addio
elogio! Io non vi seguirò su questa via — perchè non potrei — quésto è
sicuro; ma, comunque, la verità, se volete, ve la dirò, a modo mio.
senza gareggiare coi vostri discorsi, per non far ridere a mie spese.
Vedi, dunque, Ecdro, se mai anche questa forma di discorso ti accomodi:
sentir dire, la verità intorno ad Eros con quelle parole e con
quella disposizione di frasi che mi verranno per le prime sulle
labbra. Fedro e gli altri, raccontava Aristodemo, approvarono
che dicesse pure come gli pareva di dover dire, Uberamente. E allora, Socrate
aggiunse, Fedro mio, permettimi di rivolgere qualche interrogazioncella
ad Agatone, affinchè, ottenuto il suo assenso, io cominci a
parlare. Ma sì, rispose Fedro, te lo permetto; interroga
pure. E dopo ciò, continuava Aristodemo. Socrate cominciò
suppergiù a questo modo. Senza dubbio, mio caro Agatone, tu ti sei aperta
bene, secondo me, la via nel tuo discorso, dicendo che ti conveniva prima
mostrare quale è mai Eros, e dopo lo opere di lui. E questo principio nr
è piaciuto assai. Orbene, via, poiché d’Eros, per tutto il resto, hai
esposto in forma bella e magnifica quale egli è, dimmi ancora
(1) Allusione ad un verso (612) famoso dell’Ippolito di Euripide. ,
mosto- se eoli è tale che sia amor di qualcuno, di;qualche v r»,7u«i F
bada* non domando se è di madre o £ Bros è eros di madre o di padre
D - ma fa conto, come Te a-proposito d’un padre io ti chiedessi
proprio questoT s’egli è padre di qualcuno o no. A volemu risponder
bene, mi diresti certo, che d padre è padre d'nn figlio o dima figlia. O
no 1 Ma certo, disse Agatone. E non diresti altrettanto
della madre? E Alatone consentì egualmente. Ancora,
soggiunse Socrate, qualche altra risposta, affinchè tu veda meglio ciò
che desidero. Se ti chiedessi, per esempio: E dimmi: un fratello, ili
quanto fratello, è fratello di qualcuno, o no? Ma sì,
rispose. ,, „ „ È fratello, non è vero, d’un fratello o d una sorella.
Appunto, disse. Via, provati a dirmi anche dell’amore: Eros e
amore di qualche cosa o di nulla? Di qualche cosa, senza
dubbio. Ebbene, questo ili che cosa tientelo dentro di te, ma
rammentatene, riprese Socrate. J?er ora dimmi soltanto, se Eros, quello
di cui è amore, lo desideri o no? Ma si, rispose. E
ciò che egli desidera ed ama, lo desidera perche lo ha o perchè non lo
ha? Perchè non lo ha, è naturale. Rifletti, disse
Socrate, se, più che naturale, non sia addirittura necessario clic il
desiderare sia un desiderare ciò di cui si manca, o non desiderare, ove
non si manchi. Poiché in epe)£ UVÓ£ ‘amor (li qualcuno’ o ‘di qualcosa’
il •uve*? può aver valore tanto soggettivo, quanto oggottlvo Socrate
chiarirà con esempi che egli ha inteso darò a xtvó; il valore di genitivo
oggettivo. Ma siccome d’altro lato w Epitì£ xivòg potrebbe anche ossoro
scambiato con un genitivo d’origine (‘ Eros tìglio di qualcuno ’),
Socrate vuole olirainaro anche quest’altro equivoco. In sostanza egli,
paro, vuol dir questo: Io ti domando, non già se Eros ò amato da qualcuno o ò
figlio ili qualcuno, ma se egli ama qualcuno o qualche cosa. Ma il luogo,
non Tacilo, ò stato variamente discusso, e si può prestare audio a qualche
altra Interpretazione. Io almeno, Agatone mio, credo fermamente che, .sia
addirittura necessario. E tal Anch'io, disse. Va bene.
E per conseguenza può mai esserci qualcuno che voglia essere grande,
mentre è grande, c forte, mentre è forte 1 ? Non è possibile,
dopo le nostre premesse. Non può infatti essere manchevole di
queste doti chi già le possiede. È vero.
Perchè, se chi è forte volesse esser forte, seguito So¬ crate e
veloce chi è veloce, e sano chi è sano... poiché forse qualcuno potrebbe
credere che queste qualità e tutte le altre simili coloro che son tali e
le hanno, desiderino ancora quello stesse cose che già hanno, insisto su
questo punto, affinchè non si sia tratti in inganno... si u
rifletti, caro Agatone, costoro devono per necessita avere in quel
momento ciascuna delle qualità che hanno. 1 vogliano o no; e queste olii
mai potrebbe desiderarle? Ma allorché qualcuno dice: « Io. essendo sano,
Aesid di esser sano, ed essendo ricco, desidero d esser ricco; e
desidero appunto queste cose che ho->, noi gh possiamo rispondere: «
Tu, amico, possedendo ricchezze, salute c forza desideri di possedere
queste cose anche m a" 1 ®- perchè in questo momento, che tu lo
voglia o no tu le hai. Guarda dunque, se, quando tu dici: Desidero le
cose presenti, tu non voglia dire altro che questo: D^deio che le
cose che ora ho mi sieno conservate anche tempo avvenire. » E potrebbe
egli negarlo? Al che Agatone rispose assentendo. Orbene, seguitò
Socrate, e questo non e appunto annue quel che non ancora si ha sotto
mano, nè si possiede: il voler conservare e possedere anche nell
avvenne medesime cose? Certamente, disse. E quindi costui ed
ogni altro che desideri, di suit i. ciò che non ha sotto mano e non
possiede m quel mo¬ mento; e ciò che non ha, o che egli stesso non e e
che gli manca, questo è precisamente quello di cui è il desiderici
e l’amore? Niun dubbio, rispose. Suvvia dunque, disse Socrate, riassumiamo
le nostre conclusioni. Prima di tutto Eros è forse altro che amore
di certe cose, e poi amore di quelle cose, delle quali soffra
difetto? Non è altro, rispose. Di più ricordati di che
cosa nel tuo discorso hai detto che Eros fosse amore. Se vuoi, te lo
rammenterò io. Credo che tu abbia detto suppergiù cosi: che nelle
fac¬ cende degli dei fu messo ordine mediante 1 amore del bello,
chè non può esserci amore del brutto. Non hai detto suppergiù così?
Infatti, rispose Agatone, così ho detto. E sta bene, amico
mio, riprese Socrate. Ma se e cosi. Eros non sarà altro che aurore di
bellezza, non mai di bruttezza? Agatone rispose di sì.
O non s’è convenuto che quello di cui uno è manche¬ vole e che non
ha, questo egli ama? Certo, disse. Dunque Eros è
manchevole di bellezza e non l’ha? Necessariamente, rispose.
Ma dunque? Ciò che è manchevole di bellezza e non possiede punto
bellezza, dirai che è bello? Ah, no! E se è così,
continuerai a sostenere che Eros è bello? E Agatone: Temo, Socrate, di non
aver inteso nulla di ciò che ho detto poc’anzi. Eppure hai
parlato splendidamente, Agatone mio. Ma dimmi un’altra cosuccia: ciò che
è buono, non pare a te anche bello? A me, sì. Se
per conseguenza Eros è manchevole di bel¬ lezza, e se bontà è bellezza,
sarà anche manchevole di bontà. Per me, Socrate, non posso
contradirti: sia puro come tu dici. Mio diletto Agatone, è la
verità quella a cui non puoi contradire, chè contradire a Socrate non è
punto diffìcile. Ed ora lascerò in pace te, e vi riferirò su
VrnH li discorso che un giorno udii da una donna di Man- tiuea Diotima
(1), che in questo era sapiente, come in tante' altre cose, e agli
Ateniesi prima della peste suggerì saer iflzi che ritardarono di dieci
anni il male, e fu "iella appunto che ammaestrò me pure in cose
d’amore... nuel discorso, dico, che ella mi tenne, procurerò di
espor¬ celo movendo dai punti concordati tra me ed Aga¬ tone per conto
mio, come posso. E bisogna natural¬ mente, Agatone, come tu hai aperto la
via, chiarire per mima cosa chi sia Eros e quale, e poi le opere di
lui. B mi pare che il modo più spiccio sia chiarirlo come
quella forestiera fece, interrogandomi. Suppergiù anche io dicevo a lei delle
cose simili a quelle che Agatone di¬ ceva a me poc’anzi: che Eros fosse
un gran dio e fosse amor di bellezza. Ma ella mi convinse del contrario
con quelle stesse ragioni con cui io ho convinto costui, dimostrandomi
che secondo il mio discorso Eros non e nè bello nè buono. , „
Ed io: Come dici, Diotima? Eros e dunque brutto e ^ Ed ella:
Parla, ti prego, con reverenza, disse. O credi che quello che non è
bello, debba necessariamente esser brutto? Senza
dubbio. . . on2 E allora anche quello che non è sapiente sarà
gn Tante? E non t’avvedi che c’è qualcosa di mezzo tra sapienza e
ignoranza? E che cosa? , . L’opinar rettamente, anche
senza poterne rende < - gione, non sai, disse, che non è nè sapore —
perchè ciò È un personaggio; storino o addirittura fittalo» Il non
esserci di lei alcun ricordo o. per tacer d’altro, il nomo stesso, che
vaio - onorata da Zeus corno la patria Mantinoa, che paro alluda alla
montica, a ”to divi¬ natoria escluderebbero la prima ipotesi. Ma, fu
osservato, non potrebbe esser IpTtóa in Atene alcuni anni prima della
guerra del Peloponneso e della pestilenza che afflisse la città, una
sacerdotessa straulera <U molta reputazione (comunque chiamata), che
avesse suggerito agli Ateniesi del sacrifizi o Intorno al oul nomo si
fosse formata poi la leggenda, a cui accenna Platone? israr»jsìs. S£
opMm« ; un cbe .li mezzo t» «**»»» e . 6 „or,,»n. Non Attingere
dunque ciò die uon è bello ad esser brutto nè ciò che non è buono ad
esser cattivo. E cosi aule Eros, poiché tu stesso convieni che non è ne
buono nè bello, non per questo devi credere che egli sia di neces-
shà brutto e cattivo, ma qualcosa di ^ Eppure, osservai, si
conviene da tutti che egli ^Da^tutti, vuoi dire, quelli che non
sanno, o anche quelli che sanno’? Da tutti, senza eccezione,
si capisce. Ed ella, ridendo: E come mai, disse, Socrate, si
po¬ trebbe convenire che egli sia un gran dio da quelli che negan
perfino che egli sia dio ? E chi sono costoro? chiesi.
Uno sei .tu, rispose, ed una io. Ed io: Ma come puoi affermar
codesto? Ed ella: Facilmente, rispose. Dimmi: non dici tu che
tutti gli dei sono beati e belli? O oseresti dire che qual¬ cuno degli
dei non è nè bello nè beato? Per Zeus, io no davvero,
risposi. E non chiami tu beati quelli che posseggono bontà e
bellezza? Certamente. E non hai ammesso che Eros,
perchè manca di bontà e di bellezza, desidera queste qualità, delle quali
è man¬ chevole? L’ho ammesso, è vero. E come
potrebbe essere un dio chi è privo di bellezza e di bontà? In
nessun modo, mi pare. Vedi dunque che tu pure ritieni che Eros non
è un dio. E cosi, dissi, che. cosa mai sarebbe Eros? Un
mortale? Nemmen per idea. un che di
mezzo tra il 2C Ma allora, che cosa f ( ’oine
nel caso precedente, t „le e rimmortale. peroni tatto rii, *
» qmloooo « «-» « 11 *> » “W*- I F chiesi, qual è il
suo poterei l’essere interprete e messaggero dagli uomnu agli , ó ?
daS dei agh nomini, degli uni recando le preginole II nvifizi degli
altri gli ordini e le ricompense dei *a- e Stando nel mezzo degli
uni e degli altri, lo riempie eri iz , • , | trovi collegato in sè
medesimo. Atti a- “i’o/lÌ 3 S l’arte «Mi .
7T?.r.Sfy.nir oi tacrifltì, alle WriHtah Sol ™tl g e egei
rapporto eri ogni colavo e a E Cl chS 0 8U0 padre, chiesi, e cln
sua mato ^ La storia è un po’ lunga, a rartela. Quando
nacque .Afrodite, * di Metia [Sa- banchetto, e tra gli altri anche
ì ^l ^ occo gacia], Poh» [ Ac ^® to ^'°“ mend icare, come
avviene sr-V? èrt»* buttato a dormire. Allena Pema, n .
ge a gìacere povertà d’avere un hglmo ° < • h,’ Q E p PV
questo accanto a lui e divenne n t tl S cV Afrodite, perchè
appunto egli è anche seguace e >n perc hè da natura «ito e
bello, come generalmente si crede, e an V ilzo,
senzatetto, uso a dormire sulla nuda coperte, dinanzi alle porte, a cielo
aperto, , _l.vll.i no ri «11 n ini covi Q tendere insidie ai
belli e ai buoni, coraggioso, temerario, impetuoso, cacciatore terribile,
sempre occupato a pre¬ parar lacciuoli, avido d’intendere, ricco d
espedienti, de¬ dito a filosofare per tutta la vita, ciurmadore, mago
e solista insuperabile. E di sua natura non è nè immortalo nè
mortale, ma a volte, nello stesso giorno, germoglia e vive, quando tutto
gli va a vele gonfie; a volte muoie e poi, data la natura del padre,
rivive daccapo, e spreca sempre tutto quel che guadagna, sicché non è mai
ne povero nè ricco, e d'altro lato tiene il mezzo tra la sapienza e
l'ignoranza. E s’intende: degli dei nessuno lilo- soleggia o desidera di
divenir sapiente —- perchè è già tale — e se e'è altri sapiente,. non
filosofeggia nemmeno. Ma, d’altronde, neppur gl’ignoranti filosofeg¬
giano o desiderano di diventar sapienti. Giacché proprio questo è il
guaio dell’ignoranza: che chi non è nè ammodo nè saggio s'illude d’essere
un uomo che basti a sè medesimo. E chi non crede d’esser manchevole
non desidera nemmen per sogno quello di cui non crede di mancare.
E chi. Diotima, diss’io, son quelli che si volgono alla filosofia,
se non sono nè i sapienti nè gl’ignoranti? Codesto, rispose,
dovrebbe esser manifesto perfino ad un ragazzo: son quelli che tengono il
mezzo tra gli uni e gli altri; e tra questi è anche Eros. Perchè la
sapienza è tra Io cose più belle, ed Eros è amore del bello, sicché
necessariamente Eros deve aspirare alla sapienza, deve esser filosofo, e
come filosofo tenere il mezzo tra sapiente e ignorante. E anche questo
gli vien dalla nascita, giacché egli è di padre sapiente e ricco, ma di
madre nò sapiente nè ricca. Questa, mio caro Socrate, è la natura del
dè¬ mone. Che tu poi fi fossi immaginato Eros come te lo eri
immaginato, nessuna meraviglia: tu avevi creduto, se non m'inganno, a
giudicarne da quel che dici, che Eros fosse l’amato, non l’amante, e però
penso che Eros fi paresse bellissimo, perchè difatti ciò che è degno di è
il realmente bello, delicato, perfetto e tale da aU '° rsi beato Ma
l’amante ba tutt’altro aspetto, e pre¬ cisamente quello che t’ho
ritratto. Ed io dissi: Sia pure, ospite; che infin dei conti''
tu ragioni bene. Ma se Eros è tale, che utile reca agU CodTsto, ?
disse, Socrate, mi proverò d’insegnartelo fra lin00 intanto Eros è tale e
nato a questo modo, ed e di bellezza, come tu dici. Ora se qualcuno ci
do¬ mandasse: « Che cosa vuol dire, Socrate e Diotima, Eros di
bellezza? » O più chiaramente: Chi ama ama il bello, e che
ama? Ed io: Possederlo, risposi. Ma, soggiunse, la tua
risposta chiama quest altra do¬ manda: Che' ci guadagna chi possiede il
bello ! Io dissi di non saper veramente che cosa nspondcie,
così, su due piedi, a questa domanda. Ma riprese, fa conto
che qualcuno, mutando 1 ter mini, sostituisse bene a bello, e ti
chiedesse: «Orsù, bo¬ ccate, chi ama ama il bene; e che ama? »
Possederlo, risposi. E che ci guadagna chi possiede il bene!
Ecco M’d»™Tn,l« Pi« «-*.**. « » finisce qui, mi pare.
E onesto 1 desiderio e questo amore credi tu che sia comune a tutti
gli uomini e che tutti vogliano possec ei sempre il bene? O come
dici? Così è, risposi: comune a. tiitti tti diciam o E
perché mai dunque, Sociale, non ,i che amano, se poi tutti amali lo
stessotal uni diciamo che amano e d’altri no! Me ne meraviglio
anch’io, dissi. , No. non meravigliartene, soggiunse, pe ’ a
di aver preso a parte una delle specie d amore, diamo a rme-sta
il nome dell'intero, e la chiamiamo amore, mentre per le altre ci
serviamo di altri nomi. Come sarebbe a dire? chiesi. Ecco per
esempio: sai bene che pohsis, [ Iattura , poesia ’] implica molti
significati, giacché ogni opera¬ zione, la quale faccia che una cosa dal
non essere passi all’essere è poièsis, sicché le produzioni,
attinenti a tutte le arti, sono aneh esse poièseis , e i loro
produttori tutti poiètai. È vero. . , E tuttavia,
disse, sai pure che non si chiamano poteteli, poeti. ma hanno altri nomi;
e una particella sola, distaccata da tutta la poièsis , quella che ha per
oggetto la musica e le composizioni metriche, è chiamata col nome
delimiterò. Soltanto questa infatti prende nome di poesia, e poeti quelli
che posseggono questa par¬ ticella della poièsis. È vero,
dissi. E così, dunque, anche dell amore. La _ somma n è ogni
desiderio del bene e delTesser felice, il massimo e ingannevole amore d'ognuno.
Ma di quelli che vi si volgono per un’altra delle molte vie, o del
guadagno o della ginnastica o della filosofia, non si dice che
amino, nè son chiamati amanti, laddove coloro che tendono a questa
sola specie, e si consacrano ad essa, prendono il nome del tutto, amoree
amare e amanti. Mi pare ohe tu dica il vero, risposi.
Eppure, seguitò, corre per le bocche un certo discorso: che quelli
i quali vanno in cerca della propria metà, questi amano. Il mio discorso
invece dice che 1 amore non è nè della metà nè dell’intero, ove, amico
mio, non si creda di scorgere un bene, poiché gli uomini si
lasciali volentieri amputare e piedi e mani, sempre che paia ad
essi che le loro proprie membra non sieno più buone. Giacché, secondo
ine, non è il proprio quello che ciascuno ha caro, se pure non si chiami
proprio il bene Pare una citazione; ma la frano destò dot sospetti
in parccclii in¬ terpreti, e fu addirittura considerata come un glossema
dall’Hug o dal Bonghi.
n male. Perchè io non vedo altra cosa che gli 206 uomini amino,
all'infuori del bene. E tu? r>,>v Zeus, e nemmeno io. O
dunque, possiamo affermare, così senz’altro, che g li uomini amano il
bene? hTche?' r'iprès™non si deve anche soggiungere che essi
amano d’averlo con sè, il bene l Tpcr dippiù, disse, non solo
d’averlo, ma anche d’averlo sempre? Ssom Eque, concluse,
l’amore è amore di aver sempre il bene con sè. Tu hai
pienamente ragione, dissi. Poiché l'amore è questo sempre per
imparare appunto codeste . partorire nel * - 4et*?-sstiS?*.
gli uomini, Socrate, concipn etòi i a . nostra secondo
l’anima; e, S 1 ' 11 ' < partorire nel brutto natura desidera di
paidon ; m. nU) infn fti del¬ udi può; nel hello, Mi 1 fj?,p°ff rtl „. E
questa è cosa l'uomo c della donna \ mor talo, questo è immortale:
divina, e nel vivente, ^ ora è impossibile che il concepimento c' a
h* ‘ disarmonico è il brutto ciò avvenga nel disaiic m . q iuvooc n
bello. Sicché rispetto a tutto i cl ’ dea de ua nascita e della
morte] Bellezza è Mona 1 » ’ . t0 ed a Ua generazione]. b
srasr? &«*» *' diventa gaia, e nella sua letizia s’effonde e
partorisce e genera. Ma quando al contrario s’appressa al brutto,
si abbuia, e nella sua tristezza si contrae, si volge indietro, si
raggomitola e non genera; ma, trattenendo in sè il feto, si sente male.
Donde appunto nella creatura, gravida e già smaniante di desiderio, l’ansia
grande per ciò che è bello, giacché esso libera ehi lo possiede dalle
gravi doghe del parto. Perchè, Socrate, l’amore non è amore del
bello, come tu pensi. Ma e di che allora? Di generare e
partorire nel bello. E sia, dissi. Mon c’è dubbio,
riprese. Ma perchè poi della genera¬ zione? Perchè la generazione è un
sempregenerato e immortale nel mortale. Sicché da ciò che s’è convenuto
segue necessariamente che l’amore è desiderio d’immortalità nel bene, se è
amore d’aver sempre il bene con sè. E un’altra conseguenza necessaria di
questo ragionamento è che l’amore è anche amore dell’immortalità. Tutte
queste cose ella m’insegnava ogni volta che si ragionava d’amore. E un
giorno mi chiese: Che cosa mai, Socrate, credi tu che sia causa di
codesto amore e di codesto desiderio? O non senti che tenibile
crisi attraversino tutti gli animali, e terrestri e volatili,
quando senton desiderio di generare, ammalandosi tutti e struggendosi
d’amore, prima, di mescolarsi insieme; poi, di allevare la prole; e come
sieno pronti per essa a combattere, i più deboli coi più forti, e a spender la
propria vita in difesa di quella e a soffrire essi la fame, pur di
nutrire i loro nati, e a fare qualunque altra cosa? Degli uomini,
tanto, si può credere che lo facciano per effetto d’un ragionamento; ma e
gli animali, che cosa può indurli a questo prodigio d’amore? Sai
dirmelo? Ed io a risponder daccapo di non saperlo. Ella
ripigliò: E pensi, dunque, di poter divenire esporto in cose d’amore, se
non intendi questo? Ma per questo appunto, Diotima, come dianzi
di¬ cevo, vengo da te, perchè so d’aver bisogno di maestri. Ala tu
dimmene la cagione, e di queste e delle altre cose relative
all’amore. Ebbene, se ritieni per fermo che 1 amore sia pei
tura amóre di quello di cui s’è convenuto più volte, nn te ne
meravigliare: Giacché qui si torna allo stesso bscorso- la natura mortale
cerca, per quanto può, di essere sempre e immortale. E può esserlo
soltanto per està via per la generazione, cliè così lascia sempre
dono di sé qualcos’altro di nuovo in cambio del vecchio. Poiché anche in
quello spazio di tempo durante il quale di ciascun animale si dice che è
vivo e che e lo stesso... „or esempio, d’un uomo, da bambino fino a
che non diventi vecchio, si dice che è il medesimo; eppure costui,
quantunque non conservi mai in sé stesso le stesse cose tuttavia passa
per essere il medesimo, pur rifacendosi in parte incessantemente giovane,
e m parte deperendo e nei capelli e nelle carni e nelle ossa e nel sangue
e in tutto il corpo. E nonché per il corpo, ma anche per l’anima, i
modi, i costumi, le opinioni, i desideri, i piaceri i dolori, le paure,
ciascuna di queste vane cose no rimati punto la stessa in. ciascuno, ma
talune nascono, dire periscono. E, quel che è ben piu sorprendente,
non si le cognizioni, altre nascono, altre periscono m noi e noi non
siamo, nemmen rispetto alle cognizioni, semp ghS, ma anche per ciascuna
= s’avvera lo stesso. Giacche ciò che si ^e meditare^ dice
appunto della cognizione m quanto ^ ' ' 1 ' ticanza infatti è
uscita di cognizione etemeMaage, non con l’essere in tutto sempre
lo stesso, come il <hvi , nuT col' 1 lasciare dopo di sé, in cambio di
ciò che va via , . nn ni cos’altro di nuovo che gli somiglia
pei e invecchia, qualcos altro | ocrat0) diss’ella,
ifmortaio partecipa dell’immortalità, sia corpo, sia checché si
voglia Ma l’immortale procede per altra via. Non meravigliare dunque, se
ogni essere per natura oncia i proprio germoglio, giacché per desiderio d
immortalità siffatta cura ed amore s’ingenera in ogni creatura. All’udire
questo ragionamento ne rimasi sorpreso, è dissi: Sia pure,
sapientissima Diotima; ma è tìoì realmente così? Ed ella,
come i perfetti sofisti: Abbilo per fermissimo Socrate, rispose. Oliò, se vuoi
guardare anche all’amore degli uomini per la gloria, ove tu non
tenga presente ciò che ho detto, avresti motivo di meravigliarti
della loro stoltezza, riflettendo da quale ardore sien posseduti di divenir
celebri e gloria procacciarsi ne’ secoli tutti immortale (2), e come
perciò sieno pronti a sfidare qualsiasi pericolo, anche più che per
i figli, e consumar sostanze e soffrire qualsiasi sofferenza e far
getto della propria vita. Poiché credi tu, disse, che Alcéstide sarebbe
morta in cambio di Admeto o Achille soprammorto a Pàtroclo o Codro-
vostro (3) premorto per assicurare il regno ai figliuoli, se non avesser
creduto di lasciare quel ricordo di sé, che ora noi serbiamo di
loro'? Pi vuole ben altro! disse. Ma per conseguire virtù immortale e
siffatta fama gloriosa, tutti, a parer mio, son pronti a qualsiasi cosa,
e quanto migliori, tanto più, perché amano l’immortale. Quelli dunque che
son gra¬ vidi. disse, nel corpo, si volgono di preferenza alle
donne, e per questa via sono amorosi, procurandosi per mezzo della
generazione dei figliuoli, come pensano, immorta¬ lità, ricordo e
beatitudine per tutto il tempo avvenire. 209 Coloro invece che son
gravidi nell’anima... perchè, di¬ ceva, c’è pure di quelli che son
gravidi nell’anima, ancor più che nei corpi, di ciò che all’anima
s’addice e di con¬ cepire e di partorire; e che cosa le s’addice? la
saggezza c le altre virtù; e di queste sono generatori i poeti
tutti, e degli artisti quanti son detti inventori. E tra le forme
di saggezza, disse, la più alta di gran lunga e la più bella
L’osservazione di Socrate ai riferisco al tono di sicurezza, por- dir
cosi, cattedratico e dogmatico clic assumo Diotima, la quale di qui in
poi abbandona la conversazione familiare per pronunziare un discorso
lungo c filato. Dev’essere una citazione poetica. L’Hng
osserva elio in questa parte Diotima si compiace di versi o di forme
poetiche. Codro ò il leggendario re clic andò volontariamente
incontro alla morte per salvare l’Attica dalla invasione dorica.
che s’occupa degli ordinamenti politici e donic- Ò - q !, cui si dà
nome di prudenza e di giustizia. E allor- S Ì 1C1 ™>i uualcuno di
costoro per esser divino sia da 1
1 gravido nell’anima, e giunta l’età desideri oramai vtnrire e
generare, anche costui, credo, ricerca premurósamente quel bello nel quale
possa generare, giacche 'e 1 brutto non vorrà generar mai. E quindi egli
gravido r 4 si compiace dei bei corpi piu che dei bratti, e °e
s’incontri in un’anima bella e generosa c d indole mona si compiace
vivamente d’un tale insieme e con e òo egli è subito largo di discorsi
intorno alla virtù e su miei che dev’essere l’uomo dabbene e sul tenore
di vita che questi deve proporsi; e si dà a educarlo Perche, ,
credo a contatto della bella persona e nei colloqui con essa egli
partorisce e genera quello di cui da gran tempo e ra 'gravido,
ricordandosi di lei, presente o lontano, e la prole egli alleva in comune
con quella, cosicché uonnn siffatti mantengon tra loro una comunanza assa
P intima che non quella che avrebbero per mento dei figliuoli, e
un’amicizia assai più salda, dacché ^ in comune dei figli più belli e piu
mimo potinoli •per sè preferirèbbe d’aver piuttosto di sillatti h ^
. che quelli umani, guardando a Omero a Esu^ c agli altri poeti
insigni, invidioso dei nati_ l lasciali di sè e che assicurano loro
gioire ; uoi immortale, perchè sono essi stessi inumatali, .
• disse, dei figliuoli come quelli che tediò Um 0 demone,
salvatori di Lacedemone e,spù.c( i-Eliade E da voi è anche onorato Soloiu
pu lì SmS«So o"«iÒff». ta’«ove..por gli umani fin qui a
nessuno. Sino a questo grado nei Socrate forse avresti potuto
iniziarti da b • Ma min dottrinò perfette e contemplative, alle quali,
ove si pio¬ li) Mantengo qui la lozione ilei oodd. 9-stos lov. ceda
rettamente, quelle finora esposte servono di pre¬ parazione, non so se ne
saresti capace, le le esporrò dunque io, disse, e non trala scerò di
metterci tutta la mia buona volontà. E tu cerca di seguirmi, se ti
riesce. Perchè chi vuol incamminarsi per la via diritta a questa
impresa, deve da giovane andare verso i bei corpi, e dapprima, se chi lo
guida lo guida' dirittamente, amare un sol colpo c generare in esso
discorsi belli; e poi intendere che la bellezza in un qualunque corpo è sorella
della bellezza dim altro corpo; e se convien perseguire ciò ohe è
belio d'aspetto, sarebbe una grande stoltezza non sti¬ mare che una sola
e identica sia la bellezza in tutti I CORPI. E inteso che abbia questo,
divenire AMANTE di tutti i boi corpi, e calmare quei suoi ardori per uno
solo, spregiandoli o tenendoli a vile. E in seguito reputare clic,
la bellezza delle anime sia di maggior pregio clic la bellezza del corpo,
sicché, ove uno sia bello dell’animo, quand’anche poco leggiadro, se ne
contenti e Io ami e ne prenda curii e partorisca e cerchi ragionamenti
siffatti, che valgano a render migliori i giovani, affinchè sia dipoi
costretto a considerare il bello clic è nelle, isti¬ tuzioni e nelle
leggi, e riconoscere che esfjo è tutto congenere a sè, e si persuada così che
il hello corporeo non è che piccola cosa. E dopo le istituzioni < In
sua guida > lo conduca più in alto, alle scienze, perché veda alla
loro volta la bellezza»delle scienze, e mirando all'ampia distesa del BELLO,
non più, estasiandosi come uno schiavo, davanti alla bellezza d'una
singola cosa, d’un giovanetto o (L’un UOMO o d’una istituzione sola, e
servendo sia una abietta o meschina persona; ma volto al gran mare
della bellezza, e contemplandolo, partorisca molti e belli e magnifici
ragionamenti e pensieri in un amore sconfi¬ nalo di sapienza, fino a che,
in questo rinvigorito e cre¬ sciuto, non s’elevi alla visione di
queU’unica scienza, che è scienza di cosiffatta bellezza. E
ora, continuava, la di aguzzare rocchio della mente quanto più
puoi.Giacché colui che sia stalo educato fin qui alle cose amorose, contemplando
a grado a grado e rettamente il bello, pervenuto al termine della
via d’amore scorgerà d’improvviso una bellezza di sua mumluìi
natura stupenda, e precisamente quella, Socrate, per la quale si
eran durati tutti i travagli precedenti, quella che innanzi tutto è
eterna, che non diviene e non perisce, non zi 1 cresce e non scema; e
poi, che non è bella per un verso e brutta per un altro, nè a volte si a
volte no, nè bella rispetto a una cosa e brutta rispetto ad un’altra, nè
qui bella e lì brutta, o bella per alcuni e brutta per altri. Ne,
per dìppiù, la bellezza prenderà ai suoi occhi la forma come (li volto o
di mano o d’alcunchè di corporeo, nè d’un discorso o d’una scienza o di
qualcosa che sia in un altro, in un animale, poniamo, o in terra o in
cielo o dove che sia; ma gli apparirà qual è in sè, uniforme sempre a
sè medesima, e tutte le altre cose belle, partecipi (Vessa in tal
modo, che, mentre queste altre e divengono e periscono, essa non divien punto
nè maggioro nè minore, e non soffre nulla. E quando alcuno per aver
rettamente amato i fanciulli, sollevandosi dalle cose di quaggiù,
prenda a contemplare quella bellezza, allora può dirsi che abbia quasi
toccato la meta. Perchè questo appunto è sulla via d’amore procedere o
esser guidato dirittamente da un altro: muovendo dalle belle persone di
quaggiù ascendere via via sempre più in alto, attratto dalla bellezza di
lassù, quasi montandovi per una scala, da un bel corpo a- due, e da due
a- tutti i bei CORPI, e da bei corpi alle belle istituzioni e dalle
istituzioni allo belle scienze per finire dalle scienze a quella scienza
che non è scienza d’altro se non di quella bellezza appunto; e
pervenuto al termine, conosca quel che è il bello in se. Questo,
mio caro Socrate, se altro mai, diceva 1 ospite di Mantinea, è il momento
della vita degno per un uomo d’esser vissuto, allorché egli può
contemplare la bellezza in sè. Ed essa-, ove mai tu la veda., non ti
parrà comparabile nè con oro nè con vesti nè con quei bei fanciulli
e giovanetti, al cospetto dei quali rimani ora sgomento e sei pronto, e
tu e molti altri, guardando codesti vostri amati c standovi con loro, se fosse
possibile, sempre, a non mangiare nè bere, ma soltanto a eontem-
plarveli e starci insieme. E che sarebbe, diceva, se a qualcuno riuscisse
di vedere il bello in sè,' sclùetto, puro, sincero, non infarcito di
carni umane e di colori e di tante altre vanità mortali, ma potesse
scorgere la divina bellezza in sè medesima, uniforme? Creiti tu che sia
una vita da tenere a vile quella di chi possa guar¬ dare colà e contemplare
con 1 intelletto quella bellezza e starsi con essa? O non pensi, disse, che
quivi soltanto, a lui che vede la bellezza con quello per cui essa
è visibile, verrà fatto di partorire, non immagini di virtù, perchè non è
in contatto con immagini, ma virtù vera, perchè in contatto col vero; e
che, avendo generato e nutrito virtù vera, a lui solo è concesso di
divenir caro agli dei, ed anche, se altri mai iu tale al mondo,
immortale? Eccovi, Fedro e voi altri, quel che diceva Diotima,
e io ne fui persuaso; e, persuaso, mi adopero a persuadere anche
gli altri che per procacciare alla natura umana un tanto acquisto non si
può facilmente trovare un collaboratore più valido d’Eros. E perciò
appunto af¬ fermo che ogni uomo ha l’obbligo di rendere onore ad
Eros, e io stesso onoro e coltivo in modo speciale le discipline amorose
e vi esorto gli altri; ed ora e sempre, per quanto è in me, encomio la
possanza e la fortezza di Eros. Questo discorso,
Fedro, ritienilo detto come un elogio d’Eros, se credi; se no, chiamalo
pure come ti piacerà di chiamarlo. Poiché Socrate ebbe finito,
tutti, raccontava Aristodemo, gli rivolsero delle lodi, eccetto
Aristofane, che s’accingeva a dire nòti so che cosa, perchè
Socrate, nel parlare aveva alluso al discorso di lui, quando, a un
tratto, s’ode picchiare violentemente alla porta di strada e insieme un
gran chiasso, come d'i gente avvinazzata, che usciva da un banchetto, e
la voce d’una suonatrice di flauto. Al che Agatone: Ragazzi, disse,
andate a vedere; e se è qualcuno dei nostri, fatelo entrare; se no, dite
che s’è smesso di bere e stiamo già riposando. Ed, ecco, un momento dopo,
si sente noi vestibolo la voce Alla lettera: con quello con cui si
convieno (contemplarlo), cioè v(p * con la monte d’Alcibiade, ubriaco
fradicio, che strepitava: Pov’ò Agatone? Menatemi da Agatone! Entrò, sorretto
dalla suo- natrice e da alcuni dei suoi compagni, e si fermò sulla
soglia dell’uscio. Aveva il capo ricinto d'una folta corona di edera e di
viole e adorno d’una infinità di nastri. E disse: Salute, amici!
Vorrete compiacervi di dare un posto per bere con voi a un ubriaco
fradicio, o dobbiamo andar via subito dopo di aver incoronato Aga¬ tone,
che è lo scopo per cui siamo qui? Ieri non mi riuscì di venire, ma ora
eccomi qui, col capo coperto di nastri, per rieingerne dal mio il capo
del più sapiente, del più bello, lasciatemelo dire, tra gli uomini.
Iriderete voi forse, perchè sono ubriaco? Ebbene, ridete pure; ma io so
di B3 dire la verità. Intanto ditemi senz’altro, se posso o no
entrare a queste condizioni. Siete pronti a bere con me, o
no? Tutti in coro con alte grida gli risposero che entrasse
e si mettesse a giacere, e Agatone ve lo invitò. Egli venne
avanti condotto dai compagni, e poiché si veniva levando que’ nastri per
incoronarne l’ospite, non s’accorse di Socrate, che pure gli stava dinanzi agli
occhi, ma si mise a sedere accanto ad Agatone, tra questo e Socrate,
il quale, come l’aveva visto (2), s’ora tratto da parte. Sedu¬
tosi. abbracciò Agatone e gli cinse il capo. È Agatone disse:
Ragazzi, slacciate i sandali ad Alci- biade, perchè possa sdraiarsi terzo
fra noi. Benissimo, disse Alcibiade; ma chi è questo nostro
terzo compagno? E ad un tempo, volgendo gli occhi, vide Socrate, e
vistolo diè un balzo, esclamando: Per Éraeles. che roba è questa? Socrate
qui? Àncora un agguato! E hai preso questo posto per apparirmi, al
solito, dinanzi, dove meno me l’aspettavo? E ora, perchè sei qui? E
perchè poi ti sei messo a giacere proprio in questo posto? Perchè non
accanto ad Aristofane o a qualche altro, che sia o voglia parere un
burlone, ma tanto ti sei destreg- i Alclbiado voniva coronato,
pcrchò usciva da uu altro banchetto. Le corono, elio solovano essero di
foglio di mirto, di pioppo bianco o di odora intrecciato con roso o In
Atene a proferonza con violo, si distribui¬ vano dal servi, quando,
finita la cena, si passava a boro. * (Hug). (2) Leggo (1)£ éxetvov
xctxstfiev secondo il pap. d’Osslrinco. g iato da venirti a sdraiare
accanto al più bèllo di quanti SOn °B q Soc" Agatone, disse,
guarda un po’ di difendermi. perchè l'amore per me di costui non un dà
poco a fare Dacché presi ad amarlo, non son pm padrone di guardare
o discorrere con nessun altra bella persona senza che costui, roso dalla
gelosia o daU invicha, non faccia cose dell’altro mondo, e mi copra d
insulti, e per poco non mi metta le mani addosso. Guarda che anche
ora non ne faccia qualcuna delle sue. Metti pace tra noi, o, se cerca
d’aecopparmi, aiutami, perche io ho una paura matta dei suoi furori e
delle sue smanie amorose. Pace tra me e te? ribattè Alcibiade; non
è possibile. Ma di questo ti castigherò in qualche altra occasione.
Per ora, Agatone, rendimi un po’ di codesti nastri, perche ne ricinga il
meraviglioso capo di costui qui, e non mi accusi d’aver coronato te, e
lui poi, che vince nei discorsi tutti, e non solo ier l’altro, come te,
ma sempre, non 1 ho coronato. E così dicendo, prese alcuni nastri, ne
cinse capo di Socrate e si mise a giacere. Dopo che si fu sdraiato,
riprese: E che amici? non siete in vena di bere? Io non posso
permet¬ terlo; bisogna bere: è stato il nostro patto. Io scelgo a
re del bere, finché non avrete bevuto abbastanza, me stesso. E Agatone
faccia portare, se c’è, una gran tazza. No, no, non occorre. Ragazzo, a
me quel bigonciolò — all s’eraaccorto che conteneva più di otto colili —lo riempì e bevve per il primo; poi
ordinò clic si mescesse per So¬ crate, aggiungendo: Del resto, amici, con
Socrate la mia astuzia non attacca: si può farlo bere quanto si
vuole, non c’è caso che s’ubriachi. Socrate, quando il
ragazzo gli ebbe mesciuto, bevve. Ma Erisslmaco disse: Che
facciamo, Alcibiade? Tracanneremo così un bicchiere sull’altro senza
intramezzarvi nè un discorso nè un canto, proprio come degli
assetati? Tì Alcibiade: Erissimaco, eccellente figlio
d’eccellente e sennatissimo padre, salute! La eotile equivaleva a
circa un quarto eli litro. E salute a te pure! rispose Erissimaco. Ma che
dobbiamo fare! Quel che tu ordini: a te bisogna obbedire,
Che certo un medico solo vai quanto molti uomini insieme.
Ordina dunque a tuo modo. Ebbene, da’ retta, riprese
Erissimaco. Prima della tua venuta s’era fissato che ciascun di noi per
turno a destra pronunziasse un discorso, il meglio che si poteva,
su Eros, in elogio di questo dio. Tutti noialtri abbiamo parlato. Tu che
non hai parlato, ma hai bevuto, è giusto che ne faccia imo tu pure. Dopo,
imponi a Socrate quel che ti piace, ed egli farà altrettanto per turno a
destra con gli altri. Belle parole, Erissimaco! rispose
Alcibiade. Ma non ti pare che a mettere un ubriaco in gara di discorsi
con gente che ha la testa a posto, la partita non sia pari ! E
dimmi pure, beato amico: ci credi tu a quel che Socrate ha detto or ora
di me? Non sai che è proprio il rovescio di ciò che egli diceva? Giacche
costui, se in presenza sua mi permetterò di lodare un altro, dio o uomo
che non sia lui, non terrà a posto le mani. Parla con più
rispetto, disse Socrate. Per Poseidone, riprese Alcibiade; non
contradirmi. Sai bene che in presenza tua non potrei lodare
nessun altro. E tu fa' come vuoi, ripigliò Erissimaco: loda
So'crate. Come dici! Ti pare, Erissimaco, che convenga? Posso dare
addosso a quest’uomo e vendicarmi di lui sotto i vostri occhi?
Ohe, giovanotto, che ti salta in niente? Con la scusa di lodarmi
vuoi mettermi alla berlina? O che vuoi fare? Dirò la verità. Guarda però
di lasciarmela dire. Ma, certo, la verità te la laseerò dire, anzi
voglio che tu la dica. Son pronto, riprese Alcibiade. E tu
fa’ così: se non dico la verità, interrompimi e dammi una smentita,
che di proposito non dirò nessuna bugia. Ma se salterò di 21 palo
in frasca, come la memoria mi suggerisce, non teue sorprendere, giacché non è
facile per chi è neUgnie condizioni enumerare per filo e per seguo tutti
1 tiatti della tua originalità. Socrate, amici, comiucerò a lodarlo
così, per via di paragoni. Costui crederà forse ch’io voglia farvi
ridere alle sue spade; eppure il paragone mira a rappresentarvelo qual è
realmente, non a metterlo in burla. Dico dunque ch’egli è similissimo a
quei Sileni esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artisti
raf¬ figurano con zampogne o flauti in mano e che, aperti in (lue,
mostrano nell’interno immagini di dei (2). Ili dico per dippiù che
somiglia al satiro Marsia. li/ che tu sia nell’aspetto simile a quelli,
neanche tu, boera te, oseresti metterlo in dubbio. Che poi somigli anche
nel resto, stanimi ora a sentire. Sei un gran canzonatore; o no ?
Se lo neghi, , presenterò dei testimoni. E un flau¬ tista, no? Anzi più
meraviglioso di Marsia. Questi, è vero?, molceva gli uòmini per via di
strumenti con la potenza della sua bocca, e anche oggi chi suona le
com¬ posizioni di lui — perchè già quelle che Olimpo suonava
appartengono senz’altro a Marsia, che gliele aveva inse¬ gnate... e a
buon conto le sonato di lui, o che le esegua un abile flautista o una
flautista dappoco, per essere opera divina, valgono da sole a soggiogarci
e farci sen¬ tire (fili prega gli dei e chi aspira ad essere iniziato.
Ma Il discorso, ohe Plutone la pronunziare ad Aloibiado, oltre ad
essere l’upplioozione pratica della toorlca bandita da Socrato, ohe ci ò
cosi rappresentato domo l’amanto perfetto o il tipo vivente del filosofo, è
assiri probabilmente anche nn'ahilo o splendida difesa di costili contro
lo maligno insinuazioni d'nn sofista. Pollerato, cho in un ili,olio
contro Socrate doveva aver presentato sotto una luco tutt’altro olio
favorevole lo relazioni d’AMICIZIA elio lutoroedovuno tra 11 maestro od
Alclbiado. Questi Sileni orano, paro, una spedo d'armadi, riproducesti
lo fattozzo dei popolarissimi compagni di Dlóniso. e dovovano esseri,
d’uno certa capacita, so nell’intorno potevano contenoro parecchio
statuette o simulacri di numi. E 11 modo corno v'oeconna Aloibiado fa
Intenderò ohe dovessero essere assai noti o comuni !u Atene.Il satiro
Murala, in origino un dio fluviale dell’Asia Minoro, inventore del flauto,
flautista cccoUonte o maestro di Olimpo, a cui Alcibiade accennerà fra
poco, addò ad una gara musicalo Apollo olio suonava la cetra, e, vinto
dal dio, fu tratto fuori , della vagina dolio membra sue tu tu sei (li tanto
superiore a lui, che senza bisogno di strumenti con semplici parole
ottieni questo medesimo effetto. Difatti noi, quando udiamo qualche altro
ora¬ tore sia pure eccellente, pronunziare degli altri discorsi,
non'ce ne interessiamo, per così dire, nè punto nè poco. Ma ove
qualcuno oda te o qualche altro, e sia pure il più inetto parlatore, che
riferisca le tue parole, o che le oda una donna o un uomo o un
giovanetto, no siamo rapiti ed esaltati. Ed io, amici, se non temessi di
pas¬ sare per ubriaco sino alle midolla, vi direi, e giurerei, che
sorta d’effetti ho risentito dallo parole di costui e ne, risento
tuttora. Giacche a me, quando le odo, ben più che agl’invasati d’un
fluoro coribantico, il cuore ini balza nel petto e mi sgorgali le lagrime
ai discorsi di costui; e anche a moltissimi altri vedo che capita
lo stesso. A udir Pericle e altri oratori di grido dicevo tra me e
me: parlano benissimo; ma non risentivo nulla di simile, nè la mia anima
era messa a soqquadro, nè mi attristavo di menare una vita da schiavo. Ma
sotto i discorsi di questo Marsia ch’è qui, ho provato spesso
l’impressione che non valesse la pena di vivere, vivendo come vivo. E questo,
Socrate, non dirai che non sia vero. E anche ora, non lo nego, ho
coscienza che, a volergli prestare orecchio, non potrei resistere, ma
risentirei gli°stessi effetti. Giacché egli mi obbliga a confessare
che, con tante delìcenze che ho, trascuro ancora me stesso per
occuparmi delle faccende degli Ateniesi. E por a viva forza, come dallo
Sirene-, tappandomi gli orecchi, mi sottraggo, fuggendo, per non
invecchiare seduto accanto a costui. E soto davanti a quest uomo ho provato
quel sentimento, che nessuno sospetterebbe m me, il sentimento della
vergogna. Io, sì, ini vergogno soltanto di costui. Perchè sento dentro di
me di non potergli contradiro, che non si debba fare quello a cui egli
mi esorta; ma poi, non appena m’allontano daini, ecco che mi lascio
vincere dalle lusinghe del favor popolare. I Gorlbntltl orano 1 sacerdoti
della doa asiatica l’ibelu, elio o^si 'veneravano con nn colto
orgiastico, nelle ani cerimonie erau presi da un furore
divino. Sicché lo evito e lo fuggo; e ogni volta che lo vedo, mi
vergogno d’aver# dato ragione. E spesso vedrei volen¬ tieri ch’egli non è
più tra gli uomini; eppure, se ciò avve¬ rse, son certo che me ne dorrei
assai dippiù, sicché di quest’uomo non so addirittura che farmi.
Dunque, dalle sonate di costui, di questo satiro qui, e io e molti
altri abbiamo provato questi effetti. Ora statemi a sentire com’egli e
simile, anche pei altri versi, a quelli a cui lo paragonavo, e come e
meraviglioso il potere che possiede. Perche, siatene certi, nessuno di
voi lo conosce. Ma ve lo scoprirò io, dacché mi ci son messo. Voi vedete
che Socrate si strugge di amore per i bei giovani, ed è sempre a loro
dintorno, e se ne mostra fuori di sé, e del resto ignora tutto e
non sa nulla. E non è da Sileno codesto? E come! Ma questa, è
l'apparenza, sotto cui s’è nascosto, come il Sileno scol¬ pito. Ma di
dentro, aperto, indovinate voi, compagni bevitori, di quanta temperanza è
pieno? Sappiate che se uno è bello, a lui non gliene importa nulla, ma lo
disprezza, quanto nessuno lo crederebbe; nè se è ricco, nè so ha
qualcuna di quelle dignità che costituiscono per la folla il colmo della
beatitudine. A tutti questi beni egli non dà nessun valore, e nessuno a
noi — ve lo dico io — e passa tutta la vita a far dell’ironia e a
scherzare alle spalle degli altri. Ma quando fa sul serio ed è
aperto, non so se qualcuno ha visto i simulacri di dentro; ma io li
ho "visti una volta, e mi parvero così divini e aurei e 21?
bellissimi e mirabili da dover fare senz’altro quel che Socrate comanda.
Infatti, credendolo preso davvero della mia bellezza, stimai un guadagno
e una fortuna meravigliosi che mi si offrisse il destro di far cosa grata
a Socrate e udire così tutto quello che egli sapeva, perchè ero
orgoglioso della mia bellezza, e in che modo! Con questo in mente, mentre
prima non ero solito di trovarmi da solo a solo con lui, senza qualcuno
che m’accompa¬ gnasse, d’allora in poi mandavo via il mio
accompagna¬ tore e rimanevo solo con lui... giacché a voi devo dire
tutta la verità; ma voi state attenti, e se mentisco, tu, Socrate, sbugiardami.
Dunque, amici, rimanevo con 1ni solo a solo, e m’aspettavo eli egli mi
tenesse subito uel discorsi che un amante suol tenere con un amato
, rmattr’oeehi, e ne godevo. Eppure non avveniva nulla m mesto: com’era
solito, discorreva con me, e, trascorsa tutta la giornata insieme, andava
via. In seguito lo invitai ad esercitarsi con me nella ginnastica e mi
eserci¬ tavo con lui, illudendomi che così avrei raggiunto il mio
‘ooo E infatti egli si esercitava e lottava con me, spesso senz’alcun
testimone. Ma che! non si faceva un passo. Poiché nemmeno questa via
spuntava, mi parve che con nuest'uomo si dovesse venire ai ferri corti e
non dargli tregua dal momento che mi ci ero messo, ma vederci
chiaro in questa faccenda. Lo invitai così a cena con me, tendendogli un
tranello, proprio come un amante a un amato. E sulle prime non volle
neppure accettare; tuttavia, in capo a qualche tempo, s’arrese. Quando
venne la prima volta, finita la cena, volle andarsene, e pei
allora, vergognandomi, lo lasciai Ubero. Ma un alti a y > fatto il mio
'piano, poiché si finì di cenare, Scorsi con lui sino' a notte inoltrata;
e quando egli voleva andai via, col pretesto che- fosse tardi, lo
costrinsi a rimanere Egli riposava nel letto dove aveva cenato, accanto
a mio, e nella stanza non dormiva nessun altro ah infuori di noi.
Ein qui il racconto è tale, che si può faie in p senza d’ognuno-, ma di
qui in avanti non im sentireste parlare, se in primo luogo, come dice il
proverbio il i ino e senza fanciulli e con fanciulli, non fossi veritiero,
e poi nascondervi un tratto cosi superbo di Socrate, ora 'che son
qui per farine un’ingiustizia. Ma c’è'di più: io sento ancora 1 effetto
eli prova chi è morso da una vipera. Porche, dicono, ì’ha sofferto
non vuol parlare del proprioa ai morsicati, come i soli che sappiano «
smn chsposri a compatire tutto quello che egli e giunto a fare e
dire sotto la, sferza del dolore. Sicché io, morso da tintura più
dolorosa e nel punto più doloroso ni cui si possa Da du^o luogo il
provo.-t.io apparisco corno presente alla mente il ’Aicibia.lo sotto lo
ano formo, tra lo parecchie che so ne .-.coniano. .1. oho £ ’ vi- e
vorilA-, c olvo; xat *«ì8s C ™o o fanciulli < sono >
voritlorl ’. esser morsi... ferito e morso nel cuore, e nell’anima,
o com’altro si voglia chiamare, dai discorsi filosofici che son più
cattivi d’una vipera, quando s’attaccano all’anima non ignobile d’un giovane, e
gli fan dire e fare qualsiasi cosa... E, del resto, in presenza d un
Fedro, d’un Agatone, d’un Erissimaco, d’un Pausania, d un
Aristodemo e d’un Aristofane... Socrate stesso a che- no¬ minarlo?... e
txitti voi altri"? chè tutti siete posseduti dal delirio e dal
furore filosofico... e però tutti udrete, perchè siete tutti in grado di
compatire ciò ch’io feci allora e vi dirò ora. Quanto a voi, servi, è se
c’è altri pro¬ fano e rozzo, tiratevi delle porte ben grandi sui
vostri orecchi Poiché, dunque, amici, fu spenta la lucerna e i
servi andarono a dormire, mi parve che non fosse il caso di ricorrere a
raggiri con lui, ma di spiattellargli francamente quel che sentivo. E,
scotendolo, gli chiesi: Socrate, dormi? No, non dormo,
rispose. Ebbene, sai che cosa ho risoluto? E che cosa?
mi chiese. Tu sei, ritengo, il solo degno d’esser mio amante,
e vedo che esiti a farmene parola. Ora io la penso cosi: credo che sia
una grande stoltezza da parte mia non compiacerti e in questo e in altro,
se hai bisogno delle mie sostanze o dei miei amici. Per me, quello che
soprattutto mi preme è di divenire quanto migliore io possa; e in ciò,
credo, non potrei trovare un collaboratore più valente di te. Sicché a
non compiacere ad un nomo come te mi vergognerei ben più agli occhi delle
persone di senno, che non a compiacerlo, agli occhi dei molti e
sciocchi. Egli mi stette a sentire, e poi con quella sottile ironia, che
gli è propria od abituale, mi rispose: Parto Alcibiade, tu risichi
realmente di non essere un dappoco, se mai è vero ciò che dici di me, e
se c’è in me un potere, per il quale tu possa divenir migliore. Tu
avresti così scorto in me una bellezza irresistibile e La locuzione 6
tolta dal linguaggio del misteri. ma molto superiore alla tua
leggiadria. Cosicché, scorgendola, tenti d’accomunarti con me e
barat- Mre beSa per bellezza, ti proponi di fare a mie spese fca in
(la ano tutt’altro che insignificante, anzi in lao„o a-.o.!».™ 1.
veri.» del teli» e luisidi scambiare veramente ferro con oro (1). Ma,
~ beato- amico, rifletti meglio, se non t’inganni a partito m conto
mio. Bada: gli occhi della mente vanno diventando più acuti a misura che quelli
del corpo per¬ dono del loro vigore, e tu sei ancora lontano da
questo momento. c iò, dissi: La mia idea è questa, e non
ho detto niente di diverso da quel che penso. Quanto a te.
considera quel che ti sembra il meglio nel tuo e nel mio interesse.
, Ma sì, ben detto! rispose. Difatti non mancherà tempo per ripensarci e
fare quel che ci parrà meglio nell inte¬ resse di tutt’e due, così in
questa, come in ogm altra faC Orario, dopo d’aver detto e udito
queste parole e avergli tirato quelle frecciate, lo credetti ferito. E
levatomi dal mio posto e senza più dargli tempo di dir nulla, gli gettai
addosso il mio mantello, proprio questo qui — era anche allora d’inverno
— e nn rannicchiai sotto la mantellina logora di costui, e gettate le
braccia al collo di quest’uomo veramente divino e meraviglioso, me
ne stetti a giacere accanto a lui l’intera notte. E nemmeno in questo, Socrate,
dirai che mentisco. Ebbene nonostante che io avessi fatto tutto questo,
egli si mos r di tanto superiore e tenne così a vile e sprezzò tanto
la mia bellezza e la vilipese a tal punto — eppure io credevo che
qualcosa valesse, o giudici, perche voi ora siete mudici della superbia
di Socrate... ebbene ve lo giuro per tutti gli dei e per tutte le dee,
dopo d’aver dormito accanto a Socrate l’intera notte, mi levai, nò piu uè
meno, che come se avessi dormito con mio padre o con un mio
fratello maggiore. Allusione al cambio dello anni tra Glauoo e Diomede:
et. sgR. E dopo ciò, quale credete
che fosse il mio animo? Da un canto mi vedevo disprezzato, e
dall'altro ammiravo l'indole, la temperanza e la fortezza di
costui, che m’ero imbattuto iu un uomo tale, come non cre¬ devo mai
di poter incontrare il simile per senno e per forza d’animo. Cosicché non
riuscivo nè ad adirarmi con lui e rinunziare alla sua compagnia, nè a
trovar la via per attirarmelo. Ben.sapevo che al danaro egli era.
da ogni parte assai più invulnerabile che Aiace al ferro, e solo
mezzo, per cui credevo di poterlo prendere, m’era sfuggito di mano. E
così, a corto d’espedienti e asservito da quest’uomo, come nessuno da
nessun altro al mondo, io gli giravo sempre dattorno. Questi
casi m'erano già seguiti, quando più tardi facemmo insieme la campagna di
Potidéa (1) ed eravamo compagni di mensa. Ebbene, innanzi tutto, nelle
fatiche egli vinceva non solo me, ma anche tutti gli altri.
Allorché, 220 in qualche luogo, come spesso capita in guerra,
eravamo costretti a patir la fame, gli altri, nel resistervi,
appetto a lui non valevano uno zero, mentre imi nei momenti di
scialo, era il solo che sapesse goderne, e senza esser proclive al bere,
quando v'era costretto, superava tutti, e, cosa anche più sorprendente,
non c’è nessuno che abbia mai visto Socrate ubriaco. E di ciò penso che
ne avrete ben presto la prova. Quanto poi a sopportare il freddo —
e lassù i freddi sono terribili — faceva cose inverosimili, e perfino a
volte, mentre c’eran delle gelate da non si dire, e tutti o non mettevano il
naso fuori o si coprivano fino alla cima dei capelli e calza¬ vano
scarpe e «'avvolgevano le gambe in feltri e pel¬ licce, costui, con un
tempaccio di quella sorta, se n'u¬ sciva coperto della sua, mantellina
abituale, e scalzo camminava sul ghiaccio meglio degli altri calzati, e
i soldati lo guardava]) di traverso, perchè pensavano che egli li
disprezzasse. Politica, colonia di'Corinto nella penisola ili Pallone,
erti, albata tlegli Ateniesi. Ma noi, con l'aiuto dei Corinti o di
Perdlccn re ili Macedonia, si ribellò, e non fu ridotta all'obbedienza,
se non dopo una cam- . rogna o un assedio E questi, non c’è che
flire, fatti. Ma quello -che poi fece e
sostenne il fortissimo uomo (1) ima volta, durante quella
spedizione, mette conto li-essere udito. Assorto in qualche pensiero
stette in piedi odo stesso posto a meditare sin dalle prime ore del
mattino, e poiché non ne veniva a capo, non si moveva, ma rimaneva li
fermo a meditare. Era già mezzodì, la o-ente lo notava e diceva: rSocrate
e li inchiodato a Lunare da stamani per tempo. » Finalmente alcuni
Ioni, sopravvenuta la sera, dopo d'aver cenato — era d estate —
portaron fuori i loro pagliericci; e mentre si metteno a dormire al fresco,
seguitavano a tenerlo d occino per vedere, se ci fosse rimasto anche la
notte. Ed egli ci rimase fermo sino all’alba e allo spuntare del
sole poi fece la sua preghiera al sole e andò via. Ora, se
volete, nelle battaglie — perchè è giusto ren¬ dergli questo merito...
quando avvenne quella battaglia, in cui 1 generali dettero a me anche il
premio del valore, nessun altro mi trasse in salvo se non costui, clic
non volle abbandonarmi ferito, e salvò insieme e le mie armi e me stesso.
Ed io anche allora, Socrate, insistetti presso ì generali, perchè il
premio fosse attribuito a te, e in questo non mi moverai rimprovero, nè
dirai che mentisco, .a poiché quelli, per riguardo alla mia condizione
sociale, volevano dare a me il premio, tu eri anche piu insistenti
dei generali, perchè l’avessi piuttosto io che tu. E ancora, amici, degno
di ammirazione fu il contegno di Socrate, quando l’esercito si ritirò in
fuga da Delio (2). Io cero tra’ cavalieri, lui tra gli opliti. Nello scompiglio
generale egli S i ritirava insieme con Lachete (3). Io
sopraggiungo, e come li vedo, li esorto a farsi animo, e di coloro che
non il) È un verso omerico leggermente modificato; cf. Od. (2)
La battaglia <11 Dello in Beozia, dove gli Ateniesi lurono sconfitti
dai Tolmuì, accadde noi 121 a. C. Era un bravo gonorate ateniese, di poco
più vaccino di Scorato. olio mori In battaglia nel US a. C. Da lui prose
nomo uno doi dialoghi piatonici. Soli abbandonerò. E qui ammirai Socrate
anche più che a Potidea — giacché io stesso avevo meno paura,
perchè stavo a cavallo — in prima, di quanto egli fosse supe--
riore a Lachete per la padronanza di sè, e poi mi pareva — mi servo delle
tue parole, Aristofane — che egli cam¬ minasse lì come qui, con aria
spavalda, gittando gli occhi a destra e a sinistra (1), squadrando
calmo amici e nemici e mostrando chiaro a tutti, anche di lontano, che se
qualcuno lo avesse toccato, egli si sarebbe difeso con la maggiore
bravura. E così se n’anda via con gran sicurezza, egli e l’amico. Perchè
quelli che in guerra mostran questo contegno, quasi quasi non li
toccano neppure, ma danno addosso a chi scappa a gambe levate.
('erto, di Socrate ci sarebbero da lodare molti altri lati, e non
meno ammirevoli. Però d’altre qualità si può forse dir lo stesso anche
per altri, ma quel non essere simile a nessun altro uomo, così tra gli
antichi come tra’ presenti, questo è soprattutto ammirevole. Ad Achille,
per esempio, possiamo paragonar Bràsida (2) e qualche altro, e Pericle a
Nestore e ad Antenore — e ce n’ò
parecchi — e così potremmo trovare dei confronti per altri. Ma un uomo
che sia stato per originalità come costui, e lui e i suoi discorsi,
nessuno non lo troverebbe nemmeno a un dipresso, per quanto cercasse, nè
tra i presenti, nè tra gli antichi, a meno che non lo paragoni a
quelli che dicevo, a nessun uomo, ma ai Sileni e ai Satiri, lui e i suoi
discorsi. Giacché, a proposito, anche questo ho dimenticato di dirvi
da principio, che anche i suoi discorsi sono in tutto simili ai Sileni che
s’aprono. Infatti, se uno volesse prestare orecchio ai discorsi di
Socrate, gli par- (1) Allusione al v. 362 delle ‘Nuvole’. Brasida,
morto in una famosa battaglia, nella quale inflisse uno terribile rotta affli
Ateniesi presso Anflpoli, colonia attica sullo Strimone in Tracia da lui
tolta ai suoi fondatori, fu uno dei più eroici e maffnanimi generali
spartani. Antenore, eroe troiano, che ai distingueva per la sua
prudenza, come per prudenza c valore si distingueva Nestore tra’
Greci. rebbero addirittura ridicoli a prima giunta; tali sono le
parole e le frasi di cui si rivestono, pelle di satiro burlone: non
discorre che d’asini da soma e di fabbri e di calzolai e di conciapelli,
e par che dica sempre le st-esse cose con le stesse parole, sicché
qualunque persona ignorante e sciocca può ridere dei discorsi di lui. Ma
chi per caso li 222 veda aperti e vi s’addentri, prima di tutto li
troverà i soli discorsi che entro di sé abbiano una mente, e poi
divi¬ nissimi e pieni d’innumerevoli simulacri di virtù, ten¬ denti
ad altissimi fini, o, per dir meglio, tendenti a tutto quello a cui deve
mirare chiunque voglia essere un uomo veramente ammodo.
Questo, amici, è il mio elogio di Socrate. E d’altronde,
mescolandovi anche le accuse, v’ho detto in che egli mi offese. Del resto
egli non s’è condotto a questo modo soltanto con me, ma e con Càrmide di
Glaucone e con Eutidemo di Diocle e con moltissimi altri, dei quali
si fingeva l’amante, e ne divenne piuttosto 1 amato. E perciò
appunto avverto anche te, Agatone, di noli lasciarti abbindolare da.
costui, ma, ammaestrato dai nostri casi, sta’ in guardia e non imparare,
secondo il proverbio, come uno sciocco, a proprie spese. Quando Alcibiade
finì di discorrere tutti, al dire d’Aristodemo, scoppiarono in una
grande risata per la franchezza di lui, chè si mostrava tuttora
innamorato di Socrate. E Socrate osservò: Alcibiade, tu non sei, mi pare,
niente affatto ubriaco, altrimenti non avresti potuto, rigirando con
tanta abilità il tuo discorso, nasconder lo scopo di tutto quello che hai
detto, e che hai poi accennato di straforo -in fine di esso, quasi
che non avessi parlato unicamente per questo: pei metter Càrmide
ora zio di Platone dal lato materno. Nel dialogo intito¬ lato da lui cl 6
dipinto corno bello dolio persona e d’animo aperto agli studi filosofici.
Aristocratico o partigiano doll’orìstocrazia, cadde nel. combat- tlmonto
ia seguito al quale fu rovesciato il governo del Trenta tiranni.
(2) Eutidemo di Diodo ora un giovano ammiratore di Socrato da non
confonderò col solista omonimo da cui s’intitola un dialogo platonico.
(3) Aeoonno ad un proverbio olio troviamo gu\ sotto varie forme in
Omero e in Esiodo. male tra ine e Agatone, perchè ti sei
fitto in mente che io devo amare te e nessun altro, e Agatone dev
essere amato da te e da nessun altro. Ma ti sei tradito, e tutti
hanno visto a che mira codesto tuo (trama satiresco e silenico. Senonchè,
caro Agatone, procuriamo che egli non se ue giovi punto, ma fa’ in modo
che nessuno metta male tra me e te. E Agatone: Socrate, in
fede mia, hai ben ragione, mi pare. E lo argomento dal fatto ch’egli s’è
venuto a sdraiare in mezzo tra me e te per tenerci separati. Ma non
ne caverà nulla, anzi io verrò a sdraiarmi accanto a te.
Benissimo, rispose Socrate, vieni qui, alla mia destra. O
Zeus, disse Alcibiade, che mi tocca di soffrire da quest’uomo! Vuol sempre
e ad ogni costo sopraffarmi, ila, se non altro, mirabile uomo, lascia che
Agatone resti almeno fra noi due. Impossibile, riprese Socrate. Tu
hai lodato me, io, a mia volta, devo lodare chi mi sta a destra. Se
Agatone si sdraierà dopo di te, non dovrà egli lodare nuovamente me
piuttosto che esser lodato da me? Ma via, non insiste, divino amico, e non
invidiare a questo giovane le lodi che voglio farne, perchè sono
impaziente di tes¬ serne l’elogio. Ahi! Ahi! Alcibiade, disse
Agatone. Non c’è verso che io resti qui; cambierò posto ad ogni modo per
avere le lodi di Socrate. Ed eccoci alle solite! Dov’è
Socrate, è impossibile che un altro goda delle belle persone. Vedete ora
che pretesto opportuno e plausibile ha saputo trovare, perchè
Agatone vada a mettersi accanto a lui! A questo punto, dunque, Agatone
si levò per andare a sdraiarsi a lato a Socrate. Ma, ad un tratto,
ima numerosa brigata di nottambuli avvinazzati giunse davanti alla
porta-, e trovatala aperta, perchè qualcuno era uscito, si cacciò nella
sala e prese posto a tavola. Allora il chiasso divenne incredibile, e
tutti, senz’alcuna regola, furon costretti a bere disperatamente.
Erissimaco, Fedro e qualche altro, diceva Aristodemo, andarmi via; egli
fu preso dal sonno, e rimase un gran perché le notti eran
lunghe, ne S1 tratto a do ’ . « oa nto dei galli. E destatosi,
*-*• " TJu .o „ se no er.no andnft «de elio h U ‘ ^tofane e
Socrate rimanevano au- soltanto Agatone, AJq ^ ^ verg0 destra, da
coni desti , So ’ ora te discorreva con loro. Di che una gran
donassero, Aristofane non ricordava Costi > c qonneòchiare, e prima cadde
addormen cominciarci < ,, minutar del °iorno, Agatone.
iiiiSBESii naia e «Topo, siiinmbrunire, tornò a casa a
riposare. uno dei " aeiia oitu ° 8oelto
più tardi da Aristotele a sede della sua scuola. rz„thvohro.
Apologià, Crito, Phneilo (K. Bonghi) . . l Mn t O i »e- 0 ; 0 I ? n ^ P
0 hnni sulla vita d, Platone .> 0 I» '£..fed5sicr-.tè » n
" il Fellone • • • ent ,; r ii, curante H. Ottino 1 20 ®
e “*^®ffTni CÌr ° ‘ An “ b “ i ‘ “ •" K,l ”. SI; . . > 2 40
Libri IV, V, ' 1 .> 0 75 Li ber > Al Jri rimedia),
curante H. Ottino.> H Institut.o Cyrt^C P c 1 q uìi i h (prossima pubblio a
zwnt). - 11 Gerone, e cor» Colon0i ourlHÌt e E. De March. . ®
Sofocle* “Tt? ì>e Marchi). 1 S°Cchtnie?curante S. Traduzioni di Autori Latini. V Enitalamio
per le nozze ili 'fetide c l'eleo. Carme 1.X1V. Catullo 0. v Ri
‘moento e traduzione poetica di 1. Gironi ... L. 1 20 'lesto
latino, c.i J _ p 008ie scc lte voltate in prosa italiana, cor-
Catullo, libali»^ Vtoerzo i Se00 „da edizione. . o0 redato di noto da/-.. „ uorro
gallica e civile volg.,nauti da CM ‘ te c-Ugoni SS bmg;.aifchc e
sferiche per cura di G. Pinzi _ commentari sulla guerra gallica ...
.> _ Commentari “ u R“XTett£e piti 'comunemente studiate negli
istituti __ “""“•Soi."Traduzione di VzfcUhcorredata ^TnSi’eJ'rivcdut’a'mi cmeUita suil’ediz.
Tei.tiiicriuna da T. Gironi ( _ Dei Doveri (gli Uiìzi) .*.> ‘2
— La Vecchiezza e l’Amicizia a- x g Pollini . • • > 1 “ Scinione.
Testo eversione pe cu Il «agito cU^o^iono T^to e g- - L’orazione a
difesa di T. A., a Capitani ; traduz. e noto di Z. Canni >
Cornelio N. - De vite degli eqooULnn C 1 t ^ ^ note storiche,
lllolo- Fedri). — Favole voltate in lingua la"™! .1 . s ,
edizione . . . • > gicl.e, geografiche e mitologici e da Atm rm^
Q ^ . . . > - Le favole nuovo recate in v( ;^ 1 (la o. L.
Mabil: Livio T. — La Storia romana, tradotta na .>
l,ibri I-H riveduti da T. Gironi. da !.. Andreozzi. {In ristampa)- fji r0 „i.
con note. > 1 Fasti; volgarizzamento poetico d. i. . , Ut
£ UMli; . • ‘ tro ; nionotu. 'lesto latino e traduzione
to^A.-Trin»mmu8V\T* , ; • ‘.V sia,«nini *. "«uiBnao
scoile; ioni»» w Tibullo. Catullo e Properaio. a 0 . /
Vrtw.5-C? , S? , !h SSutS"., 1 . K«1J« * «* Le imprese
di AU-h-u» 1 poetico d. f. Girci,. e > viratila p m 1,11 Buoolieu
; '•o'K,n,fAf“"' i r s ., lix | 0 n>- 1 ; fllnlnma 0 dhltterpi ih
rtó di' opere e ani Lm-iiif. (tradotta da Caro) coti not' •
n ftr bone gariz/iuneuti di Virgilio, u cura «li * PARAVIA & C. Traduzioni
di Autori Greci Aaaertonle ed Anacreontiche. — Traduzione letterale con
riguardo alla co-* struzione-o brevi note per 01. Aurenghi:
Edizióne espurgata L. 0.80 Demostene — Le tro Orazioni contro Filippo;
traduzione letterale con ri- J._ guardo alla costruzione o note per Ol.
Aurenghi Lo Olinticho; traduzione letterale italiana con riguardo alla
costruzione o note per 01. Auronghi.. . Kschllo. — Le
Eumenidi, dramma. Traduzione letterale con riguardo alla
costruzione 0 uote di 01. Aurenghi.> 1 60 Esiodo. — Le opere e i
giorni. Traduzione di C. Mazzoni ( jìroasima pub¬ blicazione).
filala. — Eo Orazioni contro Eratostene c contro Agorato; traduzione
lct- teralo con riguardo alla costruzione e note poi 01. Aurenghi .
j j0 Orazioni: per un cittadino uccusuto
di moueoligar- chiche — Fer un invalido; traduzione letterale, coti
riguardo alla co¬ struzione, e note di Ul. Aurenghi. Omero.Canto VI
dellTliado; colloquio di Ettore e di Andromaca. Traduzione e noto per 01.
Aurenghi.> 0 60 Iliade; canto I, La peste - L’ira. Trad.
letterale e noto per 01. Auronghi > 0 60 Odissea ; canto I, Concilio
degli Dei - Esortazione di Atena a Telemaco. Traduzione letterale e note
per Ol. Auronghi .L’Odissea tradotta da Pimientonte, con note di X. Festa.> Platone.
I dialoghi. Nuovo volgarizz. di GL Me ini, con argoiuonti e note: Il
Olitone, ossia dello azioni l in ristampo,). L’Eutitxom, ossia del Santo. Apologia
di Socrate.> Fedone, OEsìa della immortalità dell’amiPft.> Il r elione. Ubala uuiiu mimui imiia ucii ...
Il Critone; traduzione letterale italiana con riguurdo alla costruzione
o noto per DI. Auronghi.Apologia di Socrate; traduzione letterale,
italiana con riguardo alla costruzione e noto per 01. Aurenghi.v ..Fedro,Traduzione
di Martini. Il Convito. Traduzione di Martini. Senofonte. Anabasi 0 spedizione
di Ciro, traduzione di Aaibrosoli Mollnori Mi —; Brani scelti di poemi
omerici è dólPErieide nelle migliori iitO/lllTt/ln! I Kt I r. i\ » biuuufiiuin immilli! .. 1
Oi*j “* Crestomazia degli autori grooi e latini nelle migliori
traduz. italiane . > lo —; Botiertl'G, La eloquenza greca. Vita ili Pericle. Epitomo,
nigonmuto © noto Vita di Usila. Apologia prr l uccisione di Eratostonn,
argomento e noto. Orazione contro Erntostono, argomento © noto Orazioni»
contro AvÀrnth nmninanfi. 1» nnit> — vii» ft’Tsn, AUMENTO. Carlo
Alberto Diano. Carlo Diano. Diano. Keywords: errante dalla ragione, emendato, il
segno della forma, il simposio ovvero dell’amore, Mario l’epicureo –
homosocialite – forma, segno, convite, Orazio, Virgilio, filosofia roma antica.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Diano” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Dicante: la diaspora di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Dicerco: la diaspora di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), a
Pythagorean.
Grice e Diconte: la setta di Caulonia -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo
italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.
Grice e Dima: la setta degl’ottimati -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. According to Giamblico a Pythagorean.
Grice e Diocle la setta degl’ottimati --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotona).
Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean – one of those who
left Italy when the Pythagorean communities there came under attack. According
to Diogene Laerzio, a pupil of Filolao di Crotona and Eurito di Taranto.
Grice e Diocle – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Sibari). Filosofo italiano. Pythagorean.
Giamblico.
Grice Diodoro: l’orto di Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A
follower of the Gardener. He committed suicide in a state of contentment and
with a clear conscience, according to Seneca.
Grice e Diodoro –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano. He writes a history of
the world that largely survives. The Library of Hstory is a valuable source of
information about the thought of antiquity. Ed. C. H. Oldfather. Diodoro
Secolo. Diodoro.
Grice e Diodoro:
rettorica filosofica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Suda, a
philosopher and the son of Polio Valerio. He wrote on rhetoric. Diodoro
Valerio. Diodoro.
Grice e Diodoto:
il portico di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Member of the Porch,
tutor of Cicerone. He lives in Cicerone’s house. He dies there and leaves
Cicerone all his property.
Grice e Diogene:
il portico a Roma – filosofa italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. One of a deputation to
Roma – with Carneade and Critolao – before the Senate. Thanks to the lectures
he gives during his Roman holiday, many Romans became interested in the Porch
for the first time.
Grice e Dione:
l’orto di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He appears to have been a
follower of The Garden with whom Cicerone was acquainted but for hom he had
little time or respect.
Grice e Dione: il
principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Cristostomo – Cocceiano –
Taught at Rome, became a philosopher thanks to the influence of Musonio Rufo.
According to Flvio Filostrato, he was acquainted with Apollonio and Eufrate.
One of his pupils was Favorino. He was banished from Italy by Domiziano.
Grice e Dione –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Philosopher. He was
honoured by a statue in Rome.
Grice e Dione:
all’isola – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. A friend of Plato for
years. He had an erratic political career, sometimes seeking or managing to
rule Syracuse either directly or through others, sometimes in exile. During one
of his periods in exile he stayed at the Accademia. He was eventually assassinated.
Grice e Dionigi: l’implicatura
conversazionale intorno al Cratilo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Barletta). Filosofo italiano. Grice:
“I like Dionigi; for one, he wrote on Cratylo, which I love!” – Grice: “In
Plato’s Cratylo there’s possibly all the vocabulary you need to understand
Peirce! As if Plato foreshadows C. W. Morris!” -- “Postmodern Italians like
Donigi, and they created a cocktail in his honour! His philosophising on
Socrates philosophising with Cratilo on semeiosis proves Whiteheads’s dictum
that all pragmatics is footnotes to Grice, and all Grice is footnotes to
Plato!” Si laurea a Barletta. Il suo primo saggio, sotto Althuser, Bachelard.
La "filosofia" come ostacolo epistemologico. Insegna Bologna. Centrale,
nella sua riflessione, e Nietzsche (Il doppio cervello di Nietzsche),
analizzato sia in chiave ermeneutica che logico-filosofica. Anche Bataille e un
lucido bilancio di Marx ("L'uomo e l'architetto”). Il processo di
ripensamento della sinistra italiana lo vide di nuovo impegnarsi in prima
persona. Si accostò poi alla filosofia analitica e alla svolta
"linguistica", vista come approfondimento della critica della
metafisica. Le saggi si concentrano sull'ermeneutica ("Nichilismo
ermeneutico”), sulla semiotica, segnatura, semantica antica (Nomi Forme Cose.
Intorno il “Cratilo” di Platone) e soprattutto sul pensiero di Wittgenstein (Definite
descriptions – descrivere -- La fatica di descrivere. Itinerario di
Wittgenstein nel linguaggio della filosofia), del quale condivideva pienamente
l'esigenza di ripensare il linguaggio (segnatura) come la "cosa
stessa" della filosofia. “Cocktail
Dionigi” e un documentario contenente testimonianze di alcuni dei maggiori
pensatori italiani su Dionigi, tra i quali Berardi, Bonaga, Picardi, Eco, Cacciari,
Marramao. Altre opere: Bachelard. La
"filosofia" come ostacolo epistemologico, Il doppio cervello di
Nietzsche, Bologna, Cappelli Editore, Nomi Forme Cose. Intorno al Cratilo di
Platone, La fatica di descrivere. Itinerario di Wittgenstein nel linguaggio
della filosofia: “Un filosofo tra Platone e il bar” – cf. Speranza, “Grice: un
filosofo tra Aristotele e il pub”. su
ricerca.repubblica, Cocktail Dionigi. The
development of Plato’s “Cratilo”. Commentaries on the Cratilo nella filosofia
romana antica. Cicerone e il Cratilo. Κρατύλος -- Sulla
correttezza -- dei nomi. Personaggi: Socrate, Cratilo, Ermogene. Il Cratilo è
un dialogo di Platone. In esso è trattato il problema del linguaggio, o meglio,
della “correttezza” -- dei nomi o espressioni. Protagonisti del dialogo sono
Socrate, Ermogene e Cratilo. La maggior parte dei filosofi concorda sul
fatto che venne scritto principalmente durante il cosiddetto periodo di mezzo
di Platone. Incontro tra Socrate, Ermogene e Cratilo. Formulazione del problema
e delle due tesi sulla ‘correttezza’ – corretto – lo corretto – di una
espressione o nome. Socrate incontra Ermogene e Cratilo, che stanno discutendo
attorno al problema del ‘corretto’di una espressione e viene messo a parte da
Ermogene delle teorie di cui sono sostenitori. Cratilo afferma infatti che una
espressione e “per natura” – physei -- ossia rispecchia realmente il reale; Ermogene
crede invece che l’espressione e non naturale, ma arbitrario (lo naturale,
physikos; l’arbitrario – thetikos --. deciso dall’uso e dalla
convenzione. Confutazione della tesi di Ermogene: Una espressione racchiude
in sé qualcosa della cosa (il reale) a cui si riferisce. Socrate comincia a
confutare la tesi di Ermogene, mostrando che una espressione non e solo
convenzioni, ma anzi rappresentano un qualcosa della cosa o del reale a cui si
riferiscono; contiene cioè una qualche caratteristica che la rende perfetta
nell'adattarsi alla cosa descritta. Lo dimostra il fatto che esistono un
discorso vero e un discorso falso. Poiché l’espressione (A, B) è parte del
discorso (A e B, S e P), è evidente che l’espressione utilizzata nel discorso
vero deve essere ‘corretta’. Quella usata nel discorso falso non lo e. Colui
che ha deciso l’espressione, il legislatore, uomo sapiente (the master) ha
infatti rivolto la sua attenzione all' ‘idea’ o concetto (implicatum)
dell’espressione, adattandolo poi a questa o quella necessità descrittiva,
adoperando sillabe e lettere differenti. Il legislatore crea una espressione
solo corretta, basandosi proprio sulla natura della cosa, del reale. Ha
qui inizio una sezione etimologica. Vengono presi in considerazione
l’espressione di dèi come “Tantalo” e “Giove” e viene parallelamente sviluppato
un eguale ragionamento sull’espressione delle qualità dell'uomo, come l' “anima”
o il “corpo”. In seguito si passa ad analizzare il ‘corretto” dell’espresione
degli astri, dei fenomeni naturali. Il ragionamento si dilunga sulle qualità
morali dell'uomo. Il corretto di una espressione si misura in base al
corretto degli elementi che lo compongono, le fonemi Dopo questa disquisizione
Socrate spiega ad Ermogene che l’espressione fino ad adesso analizzato e una
espressione composta (complexus). Questa caratteristica di essere un compost
(complexus) la rende suscettibili di un'ulteriore indagine: quella degli
elementi che lo compongono, come le fonemi. Le fonemi, o, più in generale,
l’elemento morfo-sintattico che forma l’espressione (“Fido is hairy-coated”,
Fido was hairy coated, Fido and Rex ARE hairy coated – l’espressione, deve infatti
riprodurre l'essenza della cosa, del reale, giacché è al reale che si riferisce.
Inizia qui l'analisi di alcune fonemi come rho e lambda. Cratilo si oppone a
questa tesi di Socrate. Sostiene che una espressione è sempre giusta, corretta,
propria, vera, perché è della stessa natura delle cose che descrive. Una sbagliatura
non è una espressione. Socrate comincia a confutare la tesi di Cratilo. Non è
possibile infatti dire che l’espressione e il reale a cui si riferisce siano la
stessa cosa. L’espressione “Fido is hairy coated” e il fatto che Fido is hairy
coated e proprio hanno qualcosa in comune, così come un ritratto di Alcebiade
racchiude qualcosa d’Alcebiade che reproduce. Tuttavia non sono due cose
uguali. Se si ammette questo fatto (e Cratilo, seppur poco convinto, lo fa)
bisogna allora ammettere anche che esistono sbagliatura e l’espressione
corretta, vera, giusta. Del resto un ritrattista può nelle intenzioni riprodurre
Alcebiade e poi essere dissimile. Cratilo contesta ancora a Socrate il
problema della conoscenza tramite il linguaggio. Se l’uomo conosce e apprende
il reale attraverso l’espressione, è evidente che non potrebbe esistere nessuna
conoscenza se l’espressione non fosse corretta, vera, giusta, propira, cioè se
l’espressione non fossero della stessa natura delle cose. Socrate sostiene
allora che un legislatore, all’adopere una espressione, non è detto che avesse
un'opinione giusta corretta vera del reale. Il legislatore infatti non poté
apprendere attraverso l’espressione, perché ancora non era stata inventata (cf.
muon). È possibile allora che abbia fatto dell’errore e ciò è dimostrato dal
fatto che una espressione puo non essere corretta, giusta, vera – atomo, anima,
ecc. Esiste un modo migliore per conoscere: non attraverso l’espressione, ma
attraverso il reale; solo il reale puo non essere contraddetto, mentre
l’espressione si presta a molteplici interpretazioni. La possibilità di una
conoscenza (opinione vera e giustificata) e del corretto dell’espressione risiede
nella stabilità del reale. Poiché la natura è stabile, e rimane sempre uguale,
allora è possibile denominarla con precisione. Cratilo si mostra poco
convinto e alla fine si allontana da Socrate insieme ad Ermogene. Ermogene
simboleggia la concezione sofistica del linguaggio. Per il sofista, a partire
dal italico Protagora, se “l'uomo è misura di tutte le cose”, ogni tipo di
espressione si adatta a seconda delle condizioni poste dall'uso. L’espressione
“Fido is hairy-coated” è puramente arbitraria – convenzionale. E possibile che
non c'è nulla in comune tra una espressione ed il reale (traspassa la fase
iconica). Tuttavia l'uso comune fra il mittente e il recettore ha permesso
quest'accettazione (arbitraria da parte del mittente) e si reputa ‘corretto’
spiegare che Fido è ‘hairy-coated (shaggy)’. Tuttavia ugualmente bene andrebbe
l’espressione "scoiattolo" o "cicala" giacché non sussiste
nessuna somiglianza tra l’espressione (“shaggy”) e il reale
(hairy-coatedness). Cratilo simboleggia invece la concezione naturale
(pre-iconica) della communicazione. Esiste un'assoluta identità tra espressione
e espressum, explicatura ed explicatum, implicatura ed implicatum, profferenza
e profferito. L’espressione è vera sempre, perché racchiude in sé la stessa natura
che pervade il reale segnato per il segno che e primariamente iconico. Ogni
espressione è un “indizio” (index, traccia, segnale) di conoscenza, di una
conoscenza meravigliosa, divina, quasi sacrale. Il segno è giusto perché il
primo legislatore a segnare il segnato fu come un dèo che, essendo perfetto,
assegna un segno (fa un segno – significa) perfetti al segnato. Una sbagliatura
non e un segno; Non tutto e un segno --. Platone fonda la sua concezione
della communicazione sull'ontologia. Per Platone è immediatamente evidente che
esista un segnato al di fuori del segno; è il segnato stesso a cui il segno si
riferisce. Bisogna infatti che esista un segnato perché esista una segnabilita.
Senza questo segnato, senza quest'essenza, rimarrebbe inutile segnare, giacché
non si dovrebbe indicare “nulla” con il segno, perché non ci sarebbe nulla da
indicare. Platone allora comincia dal Cratilo ad elaborare una teoria dell’idea
immutabile: di un'essenza stabile nella natura, che rimanga uguale ed
inalterata nel tempo e che renda valida la segnabilità. Più volte Platone fa
riferimento alla figura del legislatore e a quella del dialettico. La figura
del legislatore è la figura di colui che adopera il segno per riferirsi al
segnato. Si utilizza il termine legislatore in senso molto ampio, intendendolo
sia come uomo sia come divinità, secondo la concezione naturalistica di
Cratilo. Tuttavia si è visto come Socrate alla fine dubiti della infallibilità
del legislatore, poiché egli ha assegnato anche un segno errato. La figura del
dialettico rappresenta invece la nuova concezione del linguaggio elaborata da
Socrate. Secondo Cratilo non esiste altra conoscenza al di fuori del segno.
Platone invece è convinto che la vera conoscenza sia al di là del segno,
nell'essenza stessa del segnato. Se il legislatore è colui che crea il segno
sulla sua opinione riferendosi alla natura del segnato, il dialettico conosce
il segnato e in maniera approfondita e, di conseguenza, sa quale segno attribuire
al segnato (H2O). Tale segno (H20) sarà per forza corretto. Genette,
nell'opera Mimologie. Viaggio in Cratilia, parte dal discorso di Platone per
argomentare l'idea di arbitrarietà del segno. Secondo questa tesi, sostenuta da
Grice con il suo “Deutero-Esperanto” e il nuovo “High-Way Code”, il
collegamento tra il segno e il segnato non ha necessita di essere naturale (“A
segna che p” no implica “p”). Le idee sviluppate nel Cratilo, benché datate,
storicamente sono state un importante punto di riferimento nello sviluppo della
prammatica. Sulla base del Cratilo Licata ha ricostruito, nel saggio Teoria
platonica del linguaggio. Prospettive sul concetto di verità (Il Melangolo), la
concezione platonica della semantica, in base alla quale il segno avrebbero un
legame naturale, una fondatezza essenziale, col loro segnatum. Sedley,
Plato's Cratylus, Cambridge. Bibliografia ̈ Ademollo, ‘The Cratylus of Plato. A
Commentary’, Cambridge.. Gaetano Licata, Teoria platonica del linguaggio.
Prospettive sul concetto di verità, Genova: Il Melangolo, Luigi Speranza,
“Platone e il problema del linguaggio” seminario. Lettura e commentario di
testi di filosofia antica. testo completo in italiano e lingua greco antico. Traduzione
integrale del Cratilo su filosofico.net, su intratext.com. Il testo greco
presso il Perseus Project, su perseus.tufts.edu. Sedley, Plato's Cratylus, in Zalta
(a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of
Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Bibliografia su Cratilo.
Dialoghi di Platone I tetralogia Eutifrone Apologia di Socrate · Critone ·
FedonePlato-raphael.jpg tetralogia Cratilo
· Teeteto · Sofista · Politico III tetralogia Parmenide Filebo Simposio (o Convivio)
Fedro tetralogia Alcibiade primo · Alcibiade secondo Ipparco Amanti V
tetralogiaTeage · Carmide · Lachete · Liside VI tetralogia Eutidemo Protagora
Gorgia Menone VII tetralogia Ippia maggiore Ippia minore Ione Menesseno VIII
tetralogia Clitofonte La Repubblica Timeo Crizia IX tetralogia Minosse · Leggi
· Epinomide · Lettere Opere spurie Definizioni Sulla giustizia Sulla virtù
Demodoco Sisifo Erissia Assioco AlcioneEpigrammi. Linguistica Categorie:
Dialoghi platonici CRATILO VEL DE RECTA NOMINVM RATIONE: TRANSLATVS FICINO (si
veda) ad Petrum Medicem uirum clariſſimum. A MARSILIO ec HERMOGENES. CRATYLVS,
SOCRATES. Is igitur sermonem nostrū et cum hoc Socrate conferamus: CRAT. Vo: Io
equidem, si tibi uidetur. HER. Cratylus hic ô Socrates, rebus singulis ait
natura inesse rectam nominis rationem, neqid esse nomen, quod quidã ex
constitutione vocant, dum vocis suæ particulam quandā pronunciat, sed rectam
rationem aliquam nominū & græcis et barbaris eandé omnibus innatam.
Percontor itags ipsum, num revera Cratylus sit eius nomen. Ipfe fatetur.
Socrati vero quod nomen, inquam: Socratesait.Nónne cæteris omnibus,inquã,id eft
nomen quo quenquocamus.Illenõ tibi tamen ait Hermogenes nomen eſt,nec etiã ſi
omnes homines teita uocarint. Dumýobfecro ut ſciſcitanti mihi quidnamdicat
aperiat, nihil prorſus declarat, sed me ludens, simulatſeſe aliquid
uerſareanimo,quali nõnihil hac de re intelligat,quod li uellet
exprimere,cogeret meidipfumfateri,eadēý dicere quæ ipſe dicit. Quamobrem
libenter ex te audirem, siqua ratione Cratyli uaticiniâ potes conījce
se.libentius tamen fencentiam tuam denominum rectitudine,fiquidem
tibiplacet,audi rem. soc. Hipponici fili Hermogenes,ueteriprouerbio fertur.
Pulchra eſſe cognitü Prouerbia e difficilia.Atquiilla nominū notitia haud parua
res eft.Equidem ſi ex Prodico illa quin quaginta drachmarum demonſtrationě iam
olim audiffem, in cuius traditione etiã hæc inerant, ut ipſeteſtatur, nihil
prohiberet quin tu ſtatim nominū rectitudiné intelligeres. cam porrò nun
audiui, fed illamdrachmæunius duntaxat. Quare quid in his uerû ſit, neſcio,inueftigare
autem tecum ſimul &cum Cratylo paratus ſum.Quodautem dicit ti bi noneſſe
reuera nomen Hermogenes,quod à lucro dicitur, mordetteputo quaſi pecu niarum
auidus ſis, & impos uoti. Verum,ut modo dicebam, diſficilia hæc cognicu
ſunt. Oportet autem rationes utring in medium adducendo perquirere,utrum ita
sit ut dicis ipse, an potius ut Cratylus ait. HER.Enimuero ô Socrates,licet frequenter
cum hoc cær terisc permultis iam diſputauerim,nondum tamen perſuaderimihi
poteft aliã eſſe no minisrectitudinem, conuentionemipfam conſenlionemě.Mihi
quidē uidetur quod cungnomen quis cuig imponit, id eſſerectů.Acſi rurſus
comutat,aliudó imponit, ni hilominus o primum, quod illi ſuccedit nomen rectấexiſtere,
quemadmodüſeruis no mina cómutare solemus: nulli quippe rei natura nomē
ineſſe,fed lege &uſu illorum qui fic uocare conſueuerunt.Quod quidem ſi
aliter ſe habet,paratus ſum non à Cratylo tan tum,uerumetiã àquouis alio
diſcere ac audire.soc.Forte'aliquid dicis Hermogenes: Conſideremusitap. quodcũq
imponit quis cuinomen uocato, id illi nomen effe af feris:HER.Mihi ſane'ita
uidetur. Soc. Et ſiue priuatus uocet, ſiue civitas. HER. Affero. soc. Quid vero
si ipſerem aliqua vocem, veluti fi quem nunc hominem vocamus, ego “equum” nominē,
quem'ue equum, hominē: publice quidem erit eidē homo nomen, pricatim “equus”,
&priuatim rurſus homo, publice “equus”. Ita loqueris: HER.Ita uider.soc. Diciterum
num aliquid nuncupes vera loqui, aliquid loquifalſa.HER. Equidem. Soc. Nónne
illa quidem uera erit orario,hæcaūtoratio falſa: HER.Ita prorſus. So c.Illa
uero Quæ oratio oratio quæ existentia dicit ut exiſtűt, vera est,quæ ut no
exiſtűt, falsa: HER.Certe. soc. uera, quæ Est autem hoc,oratione,ea quæ ſunt,
& quæ non ſunt,dicere?HER.Idipfum.soc. Ora- falfa cio quæ uera eſt,utrum
tota quidem eft uera,partes non uerærher. Imò&partes ueræ. soc. Vtrữ partes
magnæ ueræ,exiguæ uero particulæ fallæ,an ueræ ſunt omnes. HER. Omnes arbitror.
soc.Habes orationispartem aliquã minorēnominer HER.Nequaç, Orationis hęceſ pars
minima.so c. Et NOMEN quidē hoc pars orationis ueræ.H ER.Proculdubio. pars
minio soc.Pars utiq uera,utais ipſe. HER.Vera.soc.Pars autem falfa.HER.Aio.
soc. Licet ma eſt nos ergonomen uerű, & nomen falſum dicere, fiquidē &
orationem.HER. Quid prohibet, men soc. Quod quis cuiq nomen esse ait,id &
cuiq; nomen eft? HER. Idipſum. soc. An etiam quotcungquis nomina cuique
tribuit,totidem erunt:ac etiam quandocuno tri buit HERM. Haud equidem habeo
Socrates, aliquam præter hanc nominis rectitudinem am rerum ipſas effe dinens, ut
uidelicetliceat mihi quidē alio rem uocare quodipfe impoſuinomine,tibiay tem
alio quod tuimpoſuifti. Ita equidem in ciuitatibus uideo eorundem ppria quædam
haberinomina, & Græcis ad alios Græcos, & Græcis ad Barbaros. soc. Animaduerta.
Mus Hermogenes,utrum resipilaita se habere tibiuideantur, utpropria rerum apudu
Sententia numquenq effentia fit, quemadmodum Protagoras tradidit: rerum omnium
dicens ho Protagoræ minem effemenſuram, ita ut qualiamihiquæq uidentur,talia
& mihiſint: item qualiad circa eflenti big& tibi talia. An potius
quædam eſſe putes, quæ effentiæ ſuæ quandã habeant firmita
rém.HER.QuandogóSocrates,dubitansad hæc deductusfum, quæ tradit Protagoras. Ita
tamen effe haud fatis mihi perſuadeo.soc. Nunquid & ad hoc aliquando es
dedu ctus, ut tibinequaquam uideretur aliquem eſſe hominem omnino malum: her.
Non per louem.imò fæpenumero ita fum affectus,utexiſtimarem
hominesnonnullosomni nomalos effe, & quidem plurimos.soc. Prorſus autem boninulliadhuc
cibi ufi funt HER. Admodum pauci. soc. Viſi ergo ſunt aliqui.HER. Aliqui.soc.
Quaratione hociudicaschac ne omnino quidem bonos eſſe,omnino prudêtes: prorſus
vero prauos imprudentes omnino: HER.Mihi fane'ita uidetur.soc. Si Protagoras
uera dixit, eſto hæcipfa ueritas,ut qualia quæą cuiq uidentur, talia ſint
fieri'ne poteft,ut alij hominum prudentes ſint,imprudentes alí:HER.Nequaquam.soc.Atqui
hæc, ut arbitror,tibi omnino uidentur,cum uidelicet prudentia quædam &
imprudentia fic,Protagorā baud omnino uera loquipoffe.Neqenim alter altero
reuera prudētiorerit,fi quæcuiquiden Sententia tur,cui uera erunt.HER.Ita
eft.Atneqz Euthydemoaffentiris, utarbitror,dicenti om Euthydemi, nia omnibus
eſſe ſimiliter ac ſemper.Nec enim ali boni, alí mali effent,fiſemper & æ
nibuselle û que omnibus & uirtus ineffet & prauitas. HER. Vera
loqueris. soc. Ergo fineqom. militer, ac nia omnibus inſunt ſemper ato
ſimiliter,ne cuiq proprium unumquodq, cõſtat res femper quæ effentiam quandam
firmam in fe habent,ne® quo ad nosneæ ànobis per imaginationem ſurſum deorfumą
diſtractæ, fed fecundum feipras quoad ipsarum elfen tiam ut natura institutæ sunt
permanentes. HER. Idem mihi quoq uidetur Ô Socrates. soc.Vtrum res ipsæ ita
natura conſiſtunt, actiones autem illarum non ita, ſed aliter: an &
actiones ipsæ similiter quædam rerum species ſunt: HER. Et ipfæ omnino. soc. Ergo
actiones ipfæ secundum naturam ſuam, non ſecundum opinionem noftram fiunt.
Quemadmodum finosrem quampiam diuidere ftatuamus,utrum ſic diuidēdares quæ que
eft,utnos uolumus, & quo uolumus: an potius ſi unumquodqs diuidamus ſecun
dum naturam qua diuidere & diuidioportet, item eo quo ſecundum naturam
diuiſio fieri debet,diuidemus utiqrecte, & aliquid proficiemus,ac recte
iftud agemus: Sinau tem præternaturam,aberrabimus,nihilg proficiemus? HER. Mihi
quidem ita uidetur. soc.Atqueetiam ſicomburere aliquid aggrediamur,non fecundum
omnem opinio nem comburereoporter,fed fecundum opinionem rectam. hæc autem eſt
qua ratione naturaliter quode comburi debet atæ comburere,& quo debet. HER.
Vera hæcfunt. soc.Nónne eadem decæteris ratio: HER. Eadem.Soc. Annon &
dicere una quæ dam operationữeſt: HER.Eft plane.soc.Vtrum rectedicet, qui ut
ſibi dicendum ui detur, ita dicitran potius qui ita dicit,utipſa rerum natura
dicere diciç requiritiet fi quo natura exigit,eo & dicat,aliquid dicendo
proficiet:ſin aliter,aberrabic:nihilós efficier. HER.Ita equidem
utais,exiſtimo.soc.An non dicendipars quædam est NOMINARE: & quinominant, loquuntur
quodamodo? HER.Omnino.soc. Et nominare actio quæ dam eft: quando quidem &
dicere actio quædam circa res eft. HER. Prorſus. soc. A. Ationes autem nobis
apparuerunthaud ad nos reſpicere, fed propriam quandam ſui ha bere naturam. Her.
Est ita.so c.Nominandű itaq; ea ratione qua rerum ipsarum natu. ra nominare ac nominari
poftulat, & quo poftulat, nõ autem PRO NOSTRÆ VOLVNTATIS ARBITRIO,liftandum
est in his quæ dicta sunt. HER. Sic eſt.s o c. Ato ita aliquid per agemus,
nominabimusý, aliter uero nequaquam. HER. Apparet. soc. Quod incidendum eſt,
aliquo incidendű. HER. Aliquo.soc. Et quod texendữ, aliquo certe texendű,
quodue perforandum,aliquo perforandū. HER. Plane. soc. ltem quod nominandũ, aliquo
nominandum. HER. Sic oportet. soc. Quid illud, quo aliquid perforareoportet?
HER. Terebrum. soc. Quid quo texere: HER. Radius pecteng. soc. Quid quo nomina.
Reč HER. NOMEN. soc. Beneloqueris, ideog inſtrumentum aliquod nomen eft. HER Ert
Eft. soc. Si quærerē quod inſtrumentū eſt radiuspectený, reſponderes quo
teximus: HER.Non aliud.soc.Texentes uero quid facimus, an non fubtegmen & stamina
confusa, radio diſcernimus. HER. Iſtuc ipſum.so c. Idem de terebro ac cęteris
reſpondebis: HER. Idem. soc. Potes & circa NOMEN similiter declarare, quid
facimusdum nomine Nomen, res ipso quod inſtrumentū eſt, aliquid NOMINAMVS (H.
P. GRICE. “I name”). HER. Nequeo. soc. Nűquid docemus tias docen's inuicem
aliquid, ac res ut sunt discernimus. HER.Nempe. soc. Nomen itaqrerű ſub di discernen
Itantias docendi discernendig inſtrumentū eſt, ficut pecten & radius ipſe
telę. HER. Sic diğinftru eft dicendű. soc. Radiusporrò textorių eſt
inſtrumentū. HER. Quid nir'. SOCR.Texcor mentum icaç radio ac pectinerecte
uterur, recte, inquā, ſecundű texendirationē. Ille uero quido cet, nomine Pombaur,
& recte, recte uidelicet ſecundű docendi propriâ rationē: HER. Cer te.soc.
Cuius artificis operebene Pombaurtextor, quando radio pectineś Pombaur: HER. Fabrilignari.
soc. Quiſque'nelignarius faber,an potius quiartē habet? HER.Quiha.
betartē.soc.Cuius item opere recte perforator Pombaur? HER.Aerarijfabri.soc. Num
quiſqz eſt faberærariusè an potius quihabet artem: HER.Quiartē. soc.
Ageergo,dic cuius opere ipſe doctorutatur,quotiesnomine uticur.HER.Neſcio.soc.
Allignare & hocneſcis: quis nobis tradit nomina quibus utimur. Her. Ignoro
& hoc. soc. Nónne lex tibi uidet nobis nomina statuisse HER. Videtur. soc.
Ergo legislatoris Pomba opere doctor ,quádo nomine ipfo Pombaur. HER. Opinor. soc.
Códitor legis quilibet tibi æque uidetur, an quiarte eſt præditus. HER. Arte
præditus. soc. Quarenö cuiuſcunq uiri eſt Hermogenes NOMEN IMPONERE,uerũ
cuiuſdam nominữautoris. hic autem etiam, ut videtur, NOMINVM INSTITVTOR,
quirarior omni artifice inter homines reperit. HER. Apparet. Soc. Animaduerte
obſecro, quô reſpiciens NOMINVM INSTITVTOR, NOMINA REBVS IMPONIT:imò ſuperiorű
exempla dýjudica, quò reſpiciens faber radium pecteng cõficit. non nead tale
aliquid quodad texendum natura fit aptum: HER. Prorſus. soc. Siin ipſo operera
dius hic frangatur, utrum alium iterű fabricabit ad fracti iſtius imaginēžan
potius ad ſpe ciem ipfam reſpiciet, ad cuius exemplar radium qui fractus
eſt,fecerat: HER. Adipſam ut arbitror, speciem.soc. Nónneſpeciem ipfam merito
ipſius radij rationé,ipſum pra dium maximenominabimus: HER.Opinor.soc. Siquãdo
oportet cõficiendæ ueſtite nuiuelcraſſiori lineęſiue laneę,ſiue cuiuis
alteriradiữ apparare, radios singulosoportet ſpeciem radīj ipſius habere:qualis
uero cuiqznaturaliter eſt accómodatiſſimus,talem ad opus peragendű,ut natura
poftulat,adhibere. HER.Oportet ſané.soc.Eadem de cætè ris inſtrumétis eftratio.Nam
quod natura cui & congruit; instrumentũadinueniendum eſt,atq id
illiattribuendű,ex quo efficitno qualecunq uult quifabricat, ſed quale natu ra
ipſa exigit. Terebrum nam cuiæ accommodatum ſcire oportetin ferro perficere.
HER. Patet. soc. Radium quinetiam singulis competentem in ligno. Her. Vera hæc
ſunt.soc.Quippeipfa rationenature alius radius telæ alteri competit, & in
alijs eodem modo.HER. Sane. soc. Oportet quoguir optime, ucillenominum
inftitutor nomen Quomố no natura rebus ſingulis aptű in uocibus & fyllabis
exprimat, ad idý reſpiciés quod ipſum minabit qui nomen eſt, ſingula nomina
fingat,atque attribuat, li reuera nominum autor eſt futurus. recte nomi Quod
ſinonñſdem ſyllabis quiſq nominum conditornomen exprimit,animaduerten dum eſt,
quod neq fabriomnesærarñ eodem in ferro id faciunt, quoties eiuſdem gratia idem
fabricant inftrumentum. Verum quatenus eandem ideam attribuunt, licet in alio,
& alio ferro,eatenus recte ſe habet inſtrumentum,ſiuehic,fiue apud Barbaros
fabricēt. Nónne; HER. Maxime. soc.Nónne & eodem modo cenſebis,donec
inſtitutor no minum quiapud nos eſt, & qui apud Barbaros, nominis speciem
cuim cõpetentem tria buunt,in quibuslibet fyllabis nihilo deteriorem efle unű
altero in nominibus imponena dis: HER. Equidem. SOCR. Quis cogniturus eſt utrum
conueniens radij species cui cunqueligno fitimpreſſar num faber qui efficit: an
textor uſurus. HER. Probabile eft ô Socrates,magis eữ quieſt uſurus,
cognoſcere.soc. Quis lyræ fabricatoris opereuti tur:nonne ille qui fabricantem
inſtruere poteft, & opus recte'ne an cótra factâ fit,iudia care: HER. Omnino.soc.Quis
ergo: HER.Cithariſta.soc.Quis autem opere ſtructo. ris nauiữ. HER. Gubernator.soc.Quis
item nominữ conditoris operioptime præſides, bit, & expletû dijudicabit
& apud Græcos & apud Barbaros: Nónne & quiuteſ: HER. Is certe.so
c.Annõ is eſt qui interrogare ſçitç HER. Iſte. $ 0 c.Idem quog reſpondere, HER
nabic zi HER. Nempe. SOC. Eum uero qui interrogare ſcit ato reſpondere, aliumuocas
i diale Dialecticus nouit recte cticum: HER.Dialecticum profecto.socr. Fabri
ita opuseſt temonem facere guber impofita no natore præcipiente,li bonus
futuruseſt temo. HER. Apparet. soc. Nominum quoq au minarebus torisnomen,
monentedialectico uiro, ſi modo recte ponenda ſunt nomina. HER. Vera ſint,
necne hæc funt. Soc. Apparet ergo Hermogenes haud leue quiddam,utipfecenſes,nominis
impoſitionem eſſe,neæ id effe imperitorum &quorumuis hominum opus.NempeCra
tylus uėra loquitur,cum nomina dicit natura rebus competere, neg unum quemuis
eſſa nominum autorem, sed illum duntaxat quiad nomen reſpicit, quod natura cuiq
conue. nit, pofteag ſpeciem eâ literis ſyllabisq inſerere. Her. Neſcio Socrates
qua ratione his quæ dixiſti,lit repugnandã: forte'uero non facile eſt ſubito
fic perſuaderi. Videor autem mihi hâc in modumtibi potius aſſenſurus,fi
oftenderis quam dicaseſſe natura rectano. minis rationem. soc. Equidem ô beate
Hermogenes,adhucnullam dico, ferme'nama è memoria excidic quod dixerā suprà,
meuidelicet hocignorare,uerum una tecum per quirere. Nunc aucem mihi &tibi
limul inueftigantibus hoc duntaxat præter ſuperiora compertõeſt, rectitudinem
aliquã natura nomen habere, nec quemlibetpoffenomen rebus accommodare.Nónne:
her.Valde.soc.Conſiderandum reſtat, ſi noſſe deſide. ras, quænã ipſius ſit
nominis rectitudo,id eftratio recta. Her. Deſidero equidem.soc. Animaduerte
igitur. HER. Quauia inueſtigandâmones. soc. Rectissima estô amice, consideratio,ab
his qui ſciūt hæc perquirere,oblatis pecunis, & gratöjs inſuper actis:hi
uero ſophiſtæ ſunt, quibus frater tuus Callias multis erogatis pecunijs, ſapiês
euafiffe ui detur. Poftquam uero in res paternas iusnon habes,reliquũ eſt
fratrem ſupplex ores, ut te doceat nominâ rectitudinem quam à Protagora
didicit. HER.Quàm abſurda hæcel Veritas no, ſet petitio Socrates, fi cum illam
Protagoræ ueritatem nullomodo recipiã,ea quæ ex uc men ſcripci,ritate illa
dicuntur,alicuius precí æſtimarē.soc.Acuero ſi tibi hæc non placent,ab Ho aut
ironicũ mero cæterisý poetis est diſcendum. HER. Quid de nominibus, & ubi
Homerus ô Socrates,tradic:so c.Paſimmulta, maximauero & pulcherrimaſuntilla,in
quibus diftin guitcirca eadem quæ nomina homines, &quæ dö ipfi inducunt.
Annoncenfes ipſum in his magnificum alíquid & mirandumde recta ratione
nominữ tradere: Constat enim deos nominibus illis ad rectitudinem ipfam uti,
quæ natura conſiſtunt. Annon putas: HER. Certe equidem fcio,fiqua dij
uocant,recte eos admodum nominare. Verum quæ nam ista: Soc. An ignoras quod de Troiano
flumine, quod ſingulari certamine ca Vul cano pugnauit, inquit: quod Xanthứdijuocant,
uiriScamandrum.HER.Scio. SOCR. Annoncenſes magnificum quiddam cognitu
eſſehoc,qua ratione rectius fit flumen il lud Xanthű, quam Scamandrâ nominare. Item
fi uis, animaduerte &iftud, quod auem eandem dicit Chalcidem quidêa dřs,
Cymindin uero ab hominibus nominari. Leuem cognitionem hanc putas, ut fciat
quanto rectius fit eandem auem Chalcidem quam Cy mindin nuncupare, uel Batieam
aros Myrinen, alias permulta &apud huncpoetam &apud alios talia: Verum
iſtarữrerum inuentio acutius ingenium quam noſtrũ exigit. Scamandrius autē
&Altyanax quid ſignificent,humano ingenio, utmihiuidetur, com
prehendi,facile & percipi poteſt,quam rectitudinem eſſeHomerusuelit in his
nomini bus quibus Hectoris filium nuncupat. Scis ea carmina quibusinfunt,quæ
dico: HER. Omnino.soc. Vcrum iſtorum nominâ putasHomerum exiſtimaſſe conuenire
magis puero, Aſtyanacta'ne,an Scamandriã: HER. Ignoro. soc. Sicautem
conſidera:liquis te interrogaret, utrữ putes fapientiores rectius nomina rebus
imponere, an minus ſapien. tes,reſponderes ucią ſapientiores.HER. Sic certe. soc.Vtrũmulieresin
urbibus sapientiores eſſe tibi uidenč, an uiri: quantı ad genus attinet. HER.
Viri.so c. Neſcisquod in quit Homerus, Hectoris filium a Troianis Altyanacta,a
mulieribus Scamandriū nuncu patum: quandoquidem uiri illum Aſtynacta uocare
conſueuerűt. Her. Videtur, soc. Nónne Homerus Troianos uiros fapientiores, quam
mulieres eorũ exiſtimauit: HER. Arbitror equidem. SOCR. Aſtyanacta
igiturrectius quàm Scamandrium nominatum - esse cenſuit, HER.Apparet.SOCR.
Animaduertamusquam ipſe denominationishuius cauſam affert, Solus enim, inquit,
ciuitatem ipſis cutatus eſt amplas mænia. Quapro prer decet, ut uidetur, protectoris
filium nominare &svavaxta, id est regem urbis, urbis, inč,eius, quam pater
ipſiusſeruauit;ut inquit Homerus. HER. Idem mihi quocuider: Soc.Quod aức hoc
maxime;porrò &ipfe nondum fatisintelligo, ô Hermogenes. Tu vero percipis:
HER. Nõ perlouem.soc.Arqui & Hectori ó boneuir,nomen ipfeHo meras impoſuit.
HER. Quamobrem: soc.Quoniã mihi uidet id nomen Hector Aſtya
sactieſſequamproximum: ferme'enim idem SIGNIFICANT, putanta Græciutraq hæcno
mina regiaeffe. Cuiuſcunæ enim quis avaş, id eſt rex extitit,eiufdem eft &
fxTue, id eſt poſtelfor.Conftat enim dominari illi,pofliderecſ, & habere.An
forte'nihil tibidicere ui deor meg fallit opinio, quaHomeriſcientiam circa
nominum rectitudinem, ceu per ue ftigia quædam attingere cöfidebam: HER. Nullo
modo, ut arbitror. forte enim nonni hil actingis. SocR.Decet,utmihiuidetur,
leonis filiū leonem ſimiliter nominare, equi filium equum haud certe dico,
liquid tanquammonſtrum exequo nafcatur aliud quid dam quám equus: fed cuius
generis ſecundum naturam eſt quod naſcitur, hoc dico.Sies nim bouis fecundum
naturam filius equũ gignit,non uitulus qui naſcit, ſed pullus equi nus eſt
nuncupándus.Et fi equus præter naturam gignit úitulum,non pullus equinus di
cendus eſt hic,fed uitulus. Neqetiam ſi ex homine alia proles quam humana
producit, quodnaſciturhomo uocari debet.Idemg eſt dearboribus,dešcæteris omnib.
iudican dum.Probas hæc: HER.Probo equidem. soc.Obſerua me nequid defraudem.
Eadem quippe ratione,fiquis exrege naſcitur, rex eſt nominandus: in alíis uero
& alíjs ſyllabis idemlignificari,nihil intereſt, neck referc ſiue addatur
litera aliqua,ſiue etiã ſubtrahatur, donec ESSENTIA REI SIGNIFICATÆ IN IPSO
NOMINE dominacur.HER. Qui iſtucais:'soc. Nihil mirum nouum ue dico, uerű ita ut
in elementis fieri cernis, ſcis enim quod elementora nomina dicimus,ipfa uero
elementa nequaç, quacuor duntaxat exceptis.dicimus enim &utonów, o fixpou
& whéya. Cæteris autem tam uocalibus quam non uocalibus alias addentes
liceras,ut Båtte 4.7.c. nomina conſtituimus,atq;ita proferimus. Verum quo uſg
elementi ipſius uim declarată inſerimus, conuenit nomen illud uocare ipſum quod
nobis fignificet elementum, ut in Bizu apparet, ubi additis 8. 7.éc, nihil
obftitit quin in tegro nomine natura elementiilliusoſtenderetur, cuiusnominum
autor uoluit:uſquea deo ſcite literisnominadedit. Her. Vera mihi loqui
uideris.soc.Nónne eadē derege ratio erit: Erit ex regerex, ex bonobonus, ex
pulchro pulcher, &in cæteris omnibus fimiliter ex quolibet genere alterữ
quiddam tale,niſi monſtrữ fiat, eademq dicendano: mina.Variare autem licet per
fyllabas,ut uideantur homini rudi,quæ ſunteadem, eſſe di Gería. quemadmodữ
pharmaca medicorũ coloribus &odoribusuariata ſæpe cã eadem fint,nobis
diuerſa uidentur: Medico aūt uim pharmacorũ conſideranti eadem iudican tur,neß
eum additamēta perturbant. Similiter forte qui eſt in nominibus eruditus, uim
illorum conſiderat,neq; eius turbaſiudicium, liqua litera addita eſt, uel
tranſmutata,uel dempta, uelin alijs literisac multis eadē uis
nominisreperitur.Vteanomina quæ fuprà diximus, Altyanax &Hector, liceras
omnino diuerſas,præter folum habent, idem ta menſignificant. Item quod
&exémolis, id eſt,princeps ciuitatis dicitur, quam literarum communionẽ cum
duobus ſuperioribushabet: Idem nihilominus infert. Multaq; ſunt alia, quæ nihil
aliud quam regem SIGNIFICANT. Multa præterea ſunt, quæ exercitus du cem
ſignificant,ut čys, worém cedoOMG,.Alia item quæ medicinæ profefforem declarant,ut
ictportas, a xecik @ poro. Aliaó permulta reperiri poflunt,fyllabis &
literis diſcordantia, ui autem SIGNIFICATIONIS penitus conſonantia. Sic ne
& ipſe putas, an alia ter: HER. Sic certe.SOCR. His profecto quæ fecundum
naturam fiunt, eadem tribu enda ſuntnomina.HER. Omnino. SOCR. Quoties uero
præter naturam hominesali quifiunt in quadam fpecie monftri, uelut quum ex bono
pioq uiroimpius generatur, quigenitus eft,non genitoris nomen ſortiri debet,
ſed eius in quo ipfe eft generis:quem admodum ſuprà diximus, ſi
equusbouisprolem generet,non equum eiusfilium,fedbo uem denominandum.HER.
Siceſt. Socr. Homini igitur impio ex pio genito, non pa rentis, sed generis
nomen attribuendum. HER. Vera hæc ſunt.soc.Neque igitur6tocosia Agy, id eft
Deiamicum, nex uygoitzoy, id eſt Dei memorem, uel talem aliquem huiuſmo
diuocarefilium talem decet, sed contraria SIGNIFICANTIBVS NOMINIBVS appellare,
ſi modo recte nomina inſtituta effe debent.HER. Sic prorſusagendum ô Socrates.
soc. Profe dio Oreſtinomen recte,o Hermogenes,uidetur impoſitum, fiue aliqua
ſors illi nomen dedit, liue poeta quidā, ferinam cius naturã agreſtē
&moncanã nomine eo SIGNIFICANS. HER.Sic apparet,Socrates.soc. Viderur
&patri eius ſecundum naturam nomen esse. HER. Apparet.soc. Apparet utiq
talis efTe Agamemnon,utſibi laborandũcenſeat,to lerandumý, &in ijs
quædecreuit,per uirtutem perfeuerandã. Argumentũuerotoleran tiæ ſuæ apud Troiam
tanto cum exercitu perduratio prębuit. Quod igitur mirabilisper feuerantia uir
hic fuerit, nomen ſignificai Agamemnon, quali ayasos 967 oli ümrovlu. Fortè
uero & Atreusrecte eft nominatus.Nexenim Chryfippi, & crudelitas
aduerſus Thyeſten,noxiữ perniciofumo illum demonſtrant.Vnde cognominatio
parumperde clinat, & clam innuit,ut non quibuslibet naturam huius uiri
declarent:his autem qui no minum periti ſunt, ſatis Atrei ſignificatio pater.
Dicitur enim ſecundum erogès, afeger's atypów, quaſiindomitus, inexorabilis,
noxius contumeliofusq fuerit. Videtur & Pelopi nomen haudab re tributum.
Hominem quippe quæ prope ſunt uidentem,nomen iſtud congrue significat. HER. Cur
illi id conuenit: socR. Quoniam in Myrtilicæde, utfer tur, prouiderenihil
potuit, nec eminus pſpicere quãta toti generi ex hoc calamitas im mineret. Quæ
enim antepedeserant, &ad præsentia tantum respiciebat, hoc autem eſt prope
aſpicere: quod & fecit, cum Hippodamiæ coniugium omniconatu inire conten
dit. Vnde Pelopinomenawines, id eft,prope,& ontos, quodad uiſionem
pertinet. Tan talo quinetiam nomen natura ipſa uidetur impofitum, ſi uera ſunt
quæ circunferuntur. HER. Quænam iſta: soc. Quoduiuentiadhuc illi aduería
plurima &grauia contige runt,tandemý patria eius omnis fubuerſa eſt.
Defuncto præterea faxum in caput immi. net, ſors certe duriffima. hæcprorſuscum
nomine congruar, perinde ac fi quis nomina re THION to you,id eft,
inteliciſſimű uoluiffet, fed paulo locutus obſcurius, pro Talancato Tantalum
poſuifler. Taleutiæ nomen fortuna eius aduerſa ipſorumore gentium præ buiſſe
uidetur. Quinetiam patri eius loui recte nomen eſt indicum,nec tamen facileco.
gnitu.Eftenim uelut oratio quædam louis nomen, quod quidcm bifaijā
partientes,par tim una,partim altera parte utimur. Quidamfive, quidamdia,
uocani. Quæpartes in unumcópofitæ, naturam dei ipſius oftendűt,
quodmaxiinedebernomen efhcere por ſe. Nulla enim nobis cæterisomnibus
uiuendimagis cauſa eſt, quam princeps, rexo omniữ. Quapropter decens nomen eſt
hic Deus fortitus, per quem uita íemper uiuent bus omnibus ineſt.Sectum autem
in duo eft unum, ut diccbam,nomen,in diæ uidelicet ata awa. Hinc Saturnifilium
cum quis audiat, forte inſolentem contumelioſumópu tarit. Verű probabile
eft,magnæ cuiuſdam intelligentię piolem louem elle. Quod enin Hóp - dicitur,non
puerum ſignificat,ſed puritatem mentisipfius, & fynceram integria tem. Est
aurem is opavo, id eft, cæli filius,ut fertur. Quippeafpectus ad ſupera merijo
z pane uocatur, quafi opacz zecvw. Vnde affirmant,o Hermogenes, qui
derebusiutli mibusagunt, puram mentem adeffe, & recevo, iure nomen
impofitum.Siautem genealo giam deorum ab Hefiodo traditam mente tenerem, &
quos horum progenitores indu. cic,recordarer,haudquaq ceſſarem oftendere
tibérecte illis nomina infcripta fuiffe,quo ad huius fapicntie periculü facerem,liquid
ipſa proficiat peragator, & an deficiatnecne, quæ mihi tam ſubito ignoro
equidem unde nuper illuxit. HER. Profecto mitttiden som Ô Socrates iliareorum
quinumine capitatur, protinus oracula fundere. soc. Reor equidem,ô
Hermogenes,hanc in me ſapientiam ab Euclıyphrone Pantij filio emanalie. Illi
fiquidem aſtiti a matutino affiduus,auresó porrexi. Patet igitur eum deo plenú
non modo aures meas beata ſapientia impleuiſle, uerumetiam animum occupalle.
Sic utico agendum arbitror, ut hodie quidem utamur ipfa, & reliqua quæ ad
nomina pertinet, ini dagemus. Cras uero,fiin hoc conſenſerimus,excutiamuscam,
expiemusý, aliquem par ſcrutati,ſiuefacerdotem, feu ſophiſtam qui purgare hæc
ualeat. HER. Probo hæc maxi. me Socrates. libentiſſime nang quæ de nominibus
reſtant, audirem. soc. Ira prorſus agendum. Vnde igitur potiffimum exordiendű
iudicas,poftquam formulam quandam præfcripfimus,ut pernoſcamusſi etiã nomina
nobis ipía teſtantur non caſu quodama. » ata fuiſſe,uerum rectitudinem aliquam
continere: Nomina quidem heroum atq;homi / num nos forte deciperent. horum nang
multa ſecundum cognomenta maiorum pofita) ſunt, & fæpe nequağ conueniüt,
quemadmodã in principio diximus.Multa uero ex uo ') to homines nomina
tribuunt,ut UtuXidmW, owciQ, Itópinoy, alia “ permulta.Talia itaq )
prætermittenda cenſeo.decens eñconſentaneumg maxime reperire nos quæ in rebus
ſempio Lempiternis &naturæ ordine cõſtitutis recte ſunt poſita. Nam circa
iſta in condendis no minibus ftuduiffe maxime decet.Forte'uero ipſorūnonnulla
diuiniore quadam poten tač humanaſunt inſtituta. HER. Præclare mihi loqui
uideris,ô Socrates. soc.Nonne pareſtabipfisdíjs incipere, rationemý inueſtigare
qua bcos uocati ſunt: Her.Nempe, soc.Equidem ita conício.Videnturutiq mihi
Græcorum priſci deos solos putaffe eos, quos etiam his temporibus Barbarorű
plurimiarbitrantur, solem, luna, terrram, stellas, calum. Cum ergo hæc omnia
perpetuo in cursu esse coſpicerent,ab hac natura moldatu få nominalle uidentur,
deinde &alios animaduertêtes omneseodem nominenuncu pale. Habeoquod dico
uerifimile aliquid, nec'ne HER. Habetcerte.
soc. Quid poft hac inucftigandum: Conſtat de dæmonibus heroibusø & hominibus
quærendum eſſe, HER. Dedæmonibus primum. soc. Proculdubio Hermogenes.quidlibi
uultdæmo. nun nomen animaduertenum aliquid dicam.HER.Dicmodo.soc.Scis'nequos
Hes Liolus claipovas effe inquit, HER. Non.soc.Nec etiam, quod aureum genus
hominum zitin principio extitiſſe? HER.Hoc equidem noui. Soc. Ait enim ex
hocgenerepoſt przſentis uitæ fara fieri dæmones
ſanctos,terreſtres,optimos,malorũ expullores,& cu licdes liominum.HCR. Quid
cum: soc.Nempe arbitror uocare illum aureum genus; no ex auro conſtitutū, ſed
bonum atos præclarum.quod inde conſcio, genus noftrum fereum eſſe dicit. HER.
Vera narras. Soc. Annon putas ſiquis nunc ex noſtris bonus fc,aureihunc generis
ab Heliodo æftimari? HER. Conſentaneum eſt.soc. Boni autem anj sprudentes: HER.
Prudentes. $ o c.Idcirco,ut arbitror,eosdæmones præcipuenup cupat,quia fapiêtes
d'ahuontsó erant.Et ex noſtraiſtud priſca lingua nomen exiſtit. Qua obrem
&is, & cæteripoetæ permultipræclare loquuntur, quicunq aiunt
uidelicet,poft quambonusaliquis uita functus eſt, maximam dignitatem præmiumý
ſortitur,fic & dæ monſecundum ſapientiæ cognomentūIca & ipfe affero
dæmuova, id eſt ſapientemom- nem efle hominem, quicung ſitbonus, eumó dæmonicum
effe,id eſt felicem,uiuenten » acc defunctũ, recteý dæmonem nũcupari.HER Videor.
mihi ô Socrates, in hoctecum s maxime conſentire. soc. newsautem quid
lignificar: Id nequaſ inuentu difficile.paur lo enim heroumnomen ab
originediſtac,indicans generationem illorum čre WTO manaſſe. HER.Qua rationeid
ais: soc. Anignoras ſemideos heroas effe: HER. Quid tum: soc.Omnesutiq heroes
uel ex amore deorũ erga mulieres humanas, uel amore uirorum erga deas
ſuntgeniti.Prætereaſi hocfecundã priſcam Acticorum linguam con fideraueris, magis
intelliges.reperies enim quòd pauliſper mutatū eſt nominis gratia ex UTO,undeſunt
heroes geniti: quod'ueaut hincheroum nomen eſt ducium,aut ex eo quòd fapientes,rhetores
fuerunc.facundi uidelicet, & ad interrogandữ diſſerendűó promptiflimi,ziedy
Aang dicere eft:Quare,ut mododicebamus,Attica uoce heroes the tores quidam, &
diſputatores & amatori uidentur. Vnderbetorum ſophiſtarum gee nusheroica
prolesexiſtit. Verum nõ iſtud quidem difficile cognitu,imò illud obfcurű,
quamob cauſam homines ävbewmoi nominantur. habesipfe quid afferas: HER.Vndeid
habeābone uir: Quin ſi reperire quoquo modo poffim,nil cotendo, ex eo quòdtemo
lius facilius“ quammereperturum ípero.so c.In Euthyphronis inſpiratione
confider se mihiuideris.HER.Abſc dubio.soc. Ec merito quidem confidis.Nam belle
nimium mihi nunc uideor cogitafle,ac periculü eſt niſi caueam, nehodie
ſapiêtior quam deceat, uidear euafiffe. Attende ad ea quædicã. Hoc in primis
circa nomina animaduertere de serves cet, quòd ſępe literas addimus, lepe ctiam
demimus pro arbitrio,dum nominamus, & a cuta ſæpenumero transmutamus, ut cum
dicimus dicíres: hoc ut pro uerbo nomen nor bis foret,alterum, inde
excerpfimus, & pro acuta fyllaba media, grauem pronūciamus. Jn alijs
quibuſdam literasinterſerimus,alia uero grauiora proferimus. HER. Vera refers.
soc. Hoc & in ävegen O côtingit,utmihi quidem uidetur.Nam ex uerbo nomen
con ftitutum eſt,uno a excepto,grauiorig fine effecto.HER. Quomodo iſtud ais 's
o c. Itak" hominis nomen illud ſignificat, quod cætera quidem animalia quę
uident,non confide rant,neq; animaduertunt,nec contemplantur: homoautem &
uidet ſimul &contemu platur,animaduertito quod uider.Hincmerito solus ex
omnibus animátibus homočvrse @puro eſt nuncupatus, qualiaabeau contemplans,quæ
ön WT5, id est, uidit. Quid poft ce haqquæram:Anuidelicet quodlibenter
perciperem HER: Maxime.SOC. Succede D teftas reſtatim ſuperioribusmihi
uideturdeanima & corpore cõſideratio.Nam anima& cor pusaliquid hominis
funt.HER.Sine cótrouerſia. soc. Conemurhæc quem ad modū ſuperiora diſtinguere. Quærendum primodeanima
putas, utrecte Luxá nominata fuerit deindede corpore: HER: Equidem.soc.Vtigitur
ſubito exprimarn quod primumm. hinunc ſe offert,arbitror illos qui
ſicanimāuocitarunt,hocpocillimum cogitaffe, quod » hæc quoties adest corpori,
caula est illi uiuendi, reſpirandi,& refrigerandi uim exhibês: 9 & cum
primūdelierit quodrefrigerat,diffoluitur corpus,& interit.Vnde fuxlu noni
21 naffeuidentur, quaſi awatúzov, reſpirando refrigerans.Atuero, si placet, fifte
parumper. Videor mihi aliquid inspicere probabilius apud eos quiEuthyphronem
ſequütur,nım iftud quidem aſpernarenf,ut arbitror, & durû quiddã eſſe
cenferent. ſed uidean hoc ibi sit placiturű.HER. Dicmodo.soc. Quid aliud
animatibiuidetur corpus continae, uehere, & utuiuat & gradiatur
efficerer HER. Nil aliud.soc. Annon Anaxagoræ ce dis,rerum naturam omniẩmente
quadam & anima exornari ſimul & contineri: HIR. Credo
equidem.soc.Pareſt igitur eam potentia nominare quelw.quæ quan,naturan, oxa
& xe, id eft uehit & continet.politius autem fuxó proferſ.HER.
Siceſtomninoji detur & mihiiſtud artificiofius effe.soc. Eft
profecto.Ridiculum aữc quia apparere, si ita ut pofitüfuit, nominaret. Quod
uero pofthoc ſequiſ corpusnonne owua nücupis: HER.Certe.soc. Atquiuidełmihiin
hocnominepauliſper ab origine declinari. nen. pe corpushoc animæ omua, sepulchrâ
quidam eſſe tradunt:qualiipfa præſenti in tempo se ſic ſepulta:ac etiam quia
animaper corpus omualvd,ſignificat quæcung ohelwa lign ficare poteſt.idcirco
& rivec iure uocari. VidenturmihiprætereaOrpheiſectatores no mēhocobid
potiſſimữpoſuiffe,q anima in corpore hoc delictorũ det pænas, & hocci:
cũſepto uallo claudatur,uelut in carcere quodā,utolor ferueſ. Effeitac
uolunthoc ita utnominat,animęoãu ce ſeruandigratia clauſtrữ, quoad debita quæQ
expendar,neq literam aliquã adăciendam putant. HER.Dehis fatis dictum ô
Socrates,arbitror. Veri denominibusaliquorû deorum poſſemus ne ita
utdeloueactum eſt,conſiderare,fecun dum quam rectitudinēnomina lint impoſica:
soc. Per Iouem nos quidē ſimentem ha beremus Hermogenes, precipuũrectitudinismodấarbitraremur,faceri
nihil nos de dijs cognofcere,ne deipſis inquam, neq deipſorīnominibus quibus
iplifeuocant. Con ſtar enim illos quidem ueris ſenominibusnuncupare. Secundâ
uero recte DENOMINATIONIS modum exiſtimo, ut quem ad modülex in uotis ftatuit
precarideos, quomodocung nominarihis placet,ita & nos ipfos uocemus,tanğ
nihil aliud cognoſcētes.Recte não, utmihiuidetur,eft decretū.Quare, li uis,ad
hanc inueſtigationēpergamus,primo quidē díjs præfati,nosnihilde iplis
conſideraturos: neq; enim poſſe confidimus:fed de homini bus potius, qua
potiſfim opinionecirca deosaffectinomina ipfis inſtituerunt. Hoceñ à diuina
indignatione procul.HER.Modeſte loquiuideris ô Socrates, atqita prorfusa
gendum.soc. Nónneà Vesta fecundum legem incipiendű. HER. Sicutim decet. soc.
Quaratione éstav hanc nominatam dicemus HER. Per Iouem haud facile iftud inuen
9) tu.soc.VidenturprobeHermogenes PRIMI NOMINAM AVTORES non hebetes quidā
fuisse, verum acuti fublimium rerum inveſtigatores HER. Quamobrem: soc. Talium
quo rundam hominum inuentione nomina apparent impofita.ac ſi
quisperegrinaconlide. retnomina, nihil ominus quod ſibiuult, unum quodq; reperiret.quemadmodőhocquod nos
días, eſſentiam nominamus, quidam golov nuncupant,alij wvia.Primo quidem
ſecundum alterum nomen iſtorum, haud procula rationeuidetur rerum effentiam
ésiav uocari. & quia nos quod efteffentiæ particeps ésiav uocamus,ex
hocrecte éstæ poffet denominari. Superioresnoftriquondam šriav,tola
uocabant.Quinetiã ſi quis facrorí ritusanimaduerterit, exiſtimabit ſic
eosputaſſe quihæc poſuerűt.Etenim ante deosom nes Veltæ facra faceredecet eos,
qui effentiam omnium Veſtam cognominarunt. Qui item wola
nominarunt,hifermeſecundâ Heraclitum cenfuerüc fluere omnia femper, nihilo
conſiſtere.Cauſam igitur & ipſorum originem ducem ipſum wow, quod impel
lit.quaproptermerito ipſum wola impellentēcauſam nominari. Dehis hactenusitalic
dictų,uelut ab ijs quinihil intelligunt.Poft Veftam aất, de Rheaato Saturno
conſidera reconuenit, quanğ de Saturninomine in ſuperioribus diximus.Forte'uero
nihildico. HER.Curnam ô Socrates: soc. O boneuir, ſapientiæ quoddam examen
animaduer ti. HER. Quale iſtud: soc. Ridiculum dictu.habet tamen
nonnihilprobabile. HER: Quid ais: & quo pacto probabile.so c.Infpicere mihi
Heraclitum uideor, iã pridem ſa pienter nonnulla de Saturno Rhea tradentem, quæ
& Homerus dixerat. HER. Quid iftud ais:'s o c.Ait enim Heraclitus fluere
omnia,nihilo manere,rerum ipſarum pro - ce greflum amnis fluxuicomparás, haud
fieri poffe inquit,utbis eandem in aquam temerou gas.HER.Vera hæcſunt.soc.An
uidetur tibi ille ab Heraclito diſſentire, qui aliorum a deorum progenitoribus
inſeruitRheam atą Saturnữ:Nunquid putas temere illum no mina iſtis
impoſuiſſe.Quin & Homerus Oceanum deorum originem inſtituit, & The tyn
genitricem.Idemouoluit,utarbitror, & Heſiodus.Aitpræterea Orpheus, Oceanű
primum pulchrifluum cõiugium inchoaſſe, quicum Tethy germana ſeſua commiſcuit.
Vide ő maximehæc inuicem cõfonant,omniağ in opinionē Heracliti redeunt. HER.
Viderismihialiquid dicere Socrates. Tethyosautem nomēhaud fatis quid ſibiuelit,
in telligo. soc.Hocutißidem fermeſignificar:quoniam fontis nomēeſt
reconditů.Nam doctons & xlsus,id eſt ſcaturiens & tranſiliens, fontis
imaginem præ ſe ferunt, ex utrif queuero hiſce nominibusnomen tudúceſt
compoſitum. HER. Hoc quidem belliſi mum eſt ô Socrates.soc..Quid ni? Verum quid
deinceps:Deloue profecto diximus. HER. Siceſt.soc.Fratres autem eius
dicamusNeptunum atq Plutonē,nomeno aliud quo ipfum uocant.HER.Prorſus.soc.
Videtur Neptunusab eo qui primum nomina uit,idcirco mooddãy uocatusfuiſſe, quia
euntem ipſum marisnatura detinuit,nec pro, grediultra permitit,ſed qualiuincula
pedibus ipfius iniecit.Maris ita principem rood @ væ uocauit, quaſi qosideouov,
id eſt pedum uinculũ.& uero decoris gratia forte adie ctum fuit. Forſitan
nő hoc fibiuult,fed pro ar, a primo fuit pofitum, quafi dicat mom sidós, id
eftmultanofcens Deus,Fortaſſis ab eo quod dicitur códy, id eft quatere,okwu
ideft quatiens eſtnominatus, cuiw & d fuitadiectū. Plutonem autem quali
zašto, id eſt diuitiarī datorem dicimus, quoniam diuitiæ ex terræ uiſceribus
eruuntur:& dxs uero multitudo interpretatur, quali addis, triſte
tenebroſum'ue. Atæ hocnomen horrentes Plutonem uocitant.HER.Tuuerò quid fentis
Socrates. soc. Videnturmihi homines circa potētiam Deiiftiusmultifariam
errauiſſe,eumg exhorruiſſeſemper,cum minime deceat.Porrò quiſ ex
hocpertimeſcit,quòd nemo poftquam defunctus eſt,hucredit, quod'ueanimanudata
corpore, illucabit. Cæterum hęcomnia & regnum & nomen hư ius dei,eodem
tenderemihiuidentur.HER.Quo pacto: soc. Dicam quod fentio. Dic age. Vtrữ
horũualidiusuinculâ eft ad quoduis animal alicubidetinendű, neceſſitas'ne, an
cupiditas? HER.Longeô Socrates,præſtat cupiditas.soc.Annõ plurimi,&dw quo
tidie ſubterfugerent,niſi fortiſſimo uinculo eos quiillucdeſcendunt,uinciret:
HER. Vi delicet. Soc. Quare cupiditate quadam eos,utuidetur,potius ő
neceffitate deuincit, fi modouinculo nectitfortiſſimo.Her.Apparet.soc.Nónne
rurſus multæ cupiditates funt HER.Multę.so c.Ergo uehemētiſlimaoñiữ cupiditate
nectit eos, fimododebet inſolubilinodo conectere.HER. Certe.soc.Eft'neuehemētiorulla
cupiditas, ş ea qua quiſcrafficitur,dum alicuius conſuetudine meliorem
feuirūſperat euadere: HER.Nul..“ lamehercle Socrates.so C.Hacdecaufa dicendű Hermogenes,
neminem hucillincuel lereuerti, nec etiã Syrenesipfas, imò & eas &
cæterosomnes ſuauiſſimis Plutonis ora tionibusdemulceri.Éſtý,utratio hæcteſtat,
deus is ſophiſta proculdubio diſertiſſimus & ingentia confert his quipenes
ipſum habitãtbeneficia, qui uſ adeo diuitñs affatim abundat, ut tantanobis bona
ſuppeditet,unde & Pluto eſt nuncupatus. Annõ philoſo. phitibiuidet officium,
q nolithominibus corpora habentibus adhærere, sed tūc demữ admittateos,
cũanimus illorum eft corporeis omnibusmalis cupidinibus* purgatus:
Excogitauitnempehic deus hacratione fe animosmaxime detenturũ,ſi uirtutis eos
aui ditate uinciret. Eosautem quiftupore & infania corporis
ſuntinfecti,nepater quidem Plutonis Saturnus ipfe,fuis illis uinculis coercere
ualeret,fecumý tenere. HER.Nonni hil loquiuiderisÔ Socrates. soc.Longeabeft
Hermogenes utnomē& dos, quali cudes id eft trifte tenebroſum'uefit
dictâ,imoab eò trahiturquod eft sid qvac, id eſt noſle omia pulchra.Ex hoc itaq
deus ifteà nominữ conditore &dys eſt nấcupatus.HER.Quid præ terea dicimusde
Cereris nomine, Iunonis“, Apollinis & Minervæ,Vulcanig &
Martis,cæterorumýdeorum: soc. Ceres quidem dwuktor nuncupatur ab ipſa
alimentorī largitione, quaſi didolæ pektyg,hoc est exhibensmáter. Kex uero, id
eſt Iuno, quali fatá, id eft amabilis,propter amorem quo Iupiter in eam
afficit.Forte'etiam ſublimeſpectans quihoc nomen inſtituit,aeram,spav denominauit,
& obſcurelocutus est, ponensin fine principiữ quod quidem
patebittibi,finomen illud frequenter pronüciaueris. DefélQKT say,id eſt
Proſerpinam, & denómw nominare nõnulliuerent, propterea quòdillis ignota
eſt nominum rectitudo. Enimuero permutantes degregóvlw ipsam considerant,graue
id illis apparet. hocautēdeæ ipsius sapientia indicat. Sapientia utic eft quæ
resfluentes attingit,& aſſequi poteft.Quamobrem gegéraqemerito dea
hæcnominaretur,propter fapientiam, & Encolu, id eſt contacta, qepomlis, id
elt eius quod fertur, ueltale aliquid, Quocirca adhæret illi ſapiens ipſe édes,
quia ipſa talis eſt.Nunc autem nomen hocde. clinant,pluris facientes
prolationis gratiam ueritatem, utqepiqastav nominēt. Idem quoq circa Apollinis
nomen accidir. nam pleriq id nomen exhorrent, quasiterribile ali quid preſeferat.Annõ
noſti:HER.Vera penitus loqueris.soc.Hocaūt,utarbitror,hu ius dei potentięmaxime
cõuenit.HER. Quarationeso c.Conabor sententia meam ex primere.Nullű profecto
nomen aliud unum quatuorhuiusdei potentijs reperiri conue nientius potuiſſet,
quod & cöprehenderet omnes, & iplius quodammodo declaret musicam,
uaticinium, medicinam, & sagittandi peritiam. HER. Aperias iam.Mirum quiddã
nomen effe id ais.soc.Congrue quidem compoſitõeſt, conſonatý, utpote quod ad de
um pertinet muſicum. Principio purgatio purificationesø & ſecundum
medicinam,& ſecundum uaticinium,item quæ medicorum pharmacis peraguntur, ac
uatum incanta tiones expiationes, lauacra, & afperſiones, unum
hocintendunt, purum hominem & corpore & anima reddere. HER. Sic omnino.
soc. Nónnedeus qui purgat, ipse erit aro aówn & Ösp núwy,id eft abluensa
malis, solvens,q Apollo ipfe SIGNIFICAT? HER. Abſque Tubio.soc. Quatenusitap
diluitata soluit, uttaliū medicus, åpnvwy merito nuncupa tur. Secunda vero
divinationem uerumg &moww, id est simplex, quod idem eft, recte more
Theſſalicorű nominarehunc poſſumus.hinempe omnes deum hunc ámró uocãt.
Quatenusaấtási Boda wy, id eft ſemper iaculando arcu uehemens eft,ás Badawy
dicipo teſt,hoc eſt,perpetuus iaculator. Secundữueromuſicam, dehoc eſt
cogitandū quemad modum de eo quod dicit & nórolo & « xomis,id
eftpediſſequus,comes, & uxor, in qui. bus& ur & in alijsmultis,
idem quod ſimul ſignificat.Hic quoq && zónas ſignificant uerfionem quæ
ſimul & unaperagitur, quam cöuerfionem dicamus.Ea in cælis eft,quæ per eos
fit quos sónos uocamus:in cantu uero & quovia, quam dicimus ovuqwricw. Quia
in his, uttraduntmuſicæ & aſtronomiæ periti,harmonia quadā ſimulomnia
cõuertunt. Hicaấtdeusharmoniæ præfidet omonwy,id eft fimuluertenshæc
omnia,& apuddeos & apud homines. Quemadmodum igitoorkeudoy &
Oxóxosniv, id eft ſimuleuntem & ſimul iacentē,uocauimus anonovlov &
KOITIY, o in ermutantes, ita Apollinem nomi navimuseum qui erat &Mortondy,
altero a interiecto, quia æquiuo cũfuiſſetduro cum no mine.quod & his
temporib. ſuſpicati pleriq, ex eo q non recteuim nominishuius ani maduertűt,
perindehocmetuunt, ac si perniciem quandã fignificaret.Sed reueranomen
hocomneshuiusdei uires cõplectitur, quemadmodūſupra diximus. Significat eſlim
plicem,perpetuũiaculatorem, expiatorē & conuertentem. Muſarā uero &
muſicæno men,ab eo quod dicitpães, id eft inquirere,indagatione & ftudio
ſapientiæ tractõelt. agtá,id eſt Latona,à manſuetudine dicit,quia fic edereuwy,
id eſt prompta & expofita & Tibens ad id quodpetit quiſqs exhibendű.
Forte'uero ut peregriniuocãt:multinamga, tú nomināt, quod nomen tribuiſſe
uident,quia non rigida illi mens,ſed mitis,ideo agli, quali neopress,id eftmos
lenis & mitis ab illo cognominat. opruis, id est Diana, ex eo quòd aprejés,
quali integra modeſtaciz sit propter uirginitatis electionē. Forſitā etiã qua
fiageplisoge,id eft uirtutis conſciã, uocauit nominis inftitutor.Fortaffis etiã
dicta eft'Ar temis,quafi apo u des Chocous,id eft quafiilla cõgreſſum oderit
uiricum muliere.Vel enim propterhorâ aliquid,uel propteromnia huiuſmodinomen
eſt inſtitutű. HER: Quidue ro dióvvoos & espositor's O.Magna petis
Hipponici fili.Atqui eſtnominâ ratio his díjs inpoſitorâ gemina,ſeria uidelicet
& iocoſa.Seriã quippe ab alñs quære,iocofam aứcni hil prohibetrecenſere. locoſi
fanè & difunt: Dionyſuso eft didòs i ciroy id eſt uinida tor, qual tor,
quafi nobivuosioco quodã cognominatus. Vinum autem merito uocari potest oto 18s
quod efficiatut bibentes pleriq mentealienati, oisdocevouü exay, ideftmentem
habe rele putent. DeVenere Hefiodorepugnarenon decet,ſed concedere propter
ipfam ex dogo, hoc eſt ex ſpuma, generationē đopoditlw uocari.HER.Acuero
Minerua, ô Socra tes,Vulcanūča & Martem,cum fis Atheniēlis,ſilentio nõ
præteribis. soc.Haudquais decet.HER.Non certe.soc.Alterâ quidem eius nomen
quamobrē ſit impofitũ, haud difficile dictu.HER.Quod: soc. Palladē eam
uocamus.HER. Planè.soc. NOMEN hoc cenſendum eſt à faltatione in bello ductum
fuiſſe.porro uelfefe,uel aliud à terra attolles re ſeu manibusaliquid
efferre,dicimus cámay, & wameat,id eſt uibrare,agitare & agitari,&
ſaltare, & ſaltationem perpeti.HER.Ablo controuerſia, Palladem hac ratione
uocamus,acmerito.Her.Alterű eiusnomē quo pacto interpretaris: so c. állwaữ quæris:
HER. Id ipsum. soc. Grauius hocamice: vident prisci å blwaw exiſtimare,quemad,
modum hiquihis temporibusin Homeri interpretationibus ſunteruditi.Nam iftorum
plurimi Homerữ exponuntåbwaw tano mentem cogitationemg finiſſe. Et qui nomi na
inuenit,tale aliquid de illa fenfiffe uidetur,imò etiam altius eam
extollēs,utDeimen tem induxit, perinde ac fi diceret sleovõu, hoc eftutens æ
pro y externo quodam ritu, s uero & o detrahens,fortè'uero non ita, ſed
IGavónas, id eft,utpote quæ diuina cogno ſcat,præ cæterisomnibus deoroli, id
eſt diuina cognoſcentē, uocauit.Neqab re erit,li di xerimus uoluiſſe
illũappellareeam klovólw, qualiipſa in more intelligentia fit. Ipſe poſt modữ,uel
eciam pofteriores in pulchrius,ut uidebat,aliquid producendo,Athenean de
nominarunt.HER.Quid de Vulcano quem aquusov nominãt: so'c. Quidais:Num ge
neroſum ipſum páso- isogæ,id eſt luminispræfidem quæris? HER.Hâc quæliffe
uideor. soc.Hic utcuiq patere poteft, quiso eft,& x ſibiuendicat.Vnde igas
id est,lu minis preſes eſtdictus.HER. Apparet: niſitibiquoq modo adhucaliter
uideaf.s o c.An neuideatur aliter de Marte, interroga.HER.Interrogo.soc.Siplacet,õpys,
id eft Mars, dicitur fecundâ ãgger,id eſt maſculã, & av dogov,id eſt forte.
Quinetiã fi uolueris ob na turam quandã aſperam, duram atq
inuictã,immutabilemý, quod totumägøæby appella tur, ogy uocatum fuiffe, hoc quo
& Deo penitusbellicoſo cõueniet. HER. Prorſus.Soči Deosiam mittamus per
deos obsecro.Nãdehis diſſerere uereor.Adalia uero quecung uis,meprouoca,ut
quales Euthyphronis equiſunt, noueris. HER.Faciam utpetis,ſi unű deme
quæfiuero. meliquidē Cratylus Hermogenē eſſe negat. Inueſtigemus ita quid
épus,id eft Mercurii nomen fignificet,ut fiquid ueri hicloquit,uideamus.soc.
équis, id eſt Mercurius, adſermonē pertinere uidetur, quatenus égjelw rús
eft,hoc eſt interpres & nuncius, furtiuús inloquendo ſeductor,ac uehemens
concionator. Totum id circa fer monem uerfatur.profecto quemadmodum in
fuperioribus diximus, kedy ſermonis eſt uſus.Sæpeuero dehocHomerusait £ukcal,
id eft machinatuseſt. Ex utriſq igitur no. men huius dei componit,tum ex eo
quod loquieſt,tum ex eo quodmachinari & exco gitare dicenda, perindeac ſi
nominis autornobis præciperet: Pareſt, ô viri, ut deum illa quiaipfufukcal, id
eſtloquimachinatus eſt, sipíulw uoceris. Nos aấtarbitratiſice legan tius
eloqui, éguli uocamus. Quinetiam ies, ab eo quod apdu, id eſt loqui, nomen
habet, propterea quod nuncia eſt. HER.Probemediusfidius Hermogenē elleme Cratylus
ne gauilfe uidetur. Adorationis enim inventionem hebes ſum.Soc. Conſentaneâ
quoc amice, wową biformem filium efle Mercurî.HER.Qua rationer'soc. Scis quòd
fermo # aw,id eftomne ſignificat,circuitý & uoluit ſemper,eſtó geminus
uerusuidelicetac falsus: HER. Equidem. soc. Annon id quod eſt in ſermoneuerum,leue
eftatæ diuinâ, ſu praç in dñshabitans.Contrà quod falſum,infrà in hominữmultis,afperű
ato tragicũ: Hincenim fabularum comenta & falfa & plurimacirca tragicam
uitam reperiunt.HER. Sic eft omnino.soc.Merito igitur quiefttaw, id eft totâ
nuncians, & æs monasy, id eſt femper uolutans,7 dezóros biformisMercurij
filiusdiceret, ex ſuperioribus partibus lenis ac delicatus, ex inferioribus
aſper atok hircinus.Eftg Panuelipſe ſermo,uel ſermo nis frater,fiquidem eſt
Mercurij filius.Fratrem uero fratri limilem effe quid mirum: Ce terüiã o beate,
ut & paulo ante rogabā, ſermonem dedñshunc abrumpamus. HER. Ta. les quidem
deos,li uis,mittamuso Socrates,huiuſmodiuero quædam percurrere quid prohibet. Solem,
lunam, ftellas,terram, ætherem,aerem,ignem, aquam, ver & annum: D soc. Multa
funt acmagna quæ poftulas. Sicamen gratum tibi futurum eſt,obfequar.
HER.Pergratum plane.soc. Quid primum poſcis: an utipſenarrabas in primis stov,
id eft folem; HER.Profecto.soc.Manifeſtius id fore uidetur,li Dorico nomine
quis uta tur. Dorici enim asoy uocant,ato ita uocatur ſecundữ &nizdv, id
eſt ex eo quodcongre gat in unum homines,cum exoritur. Item ex eo quod circa
terram &scina, id eſt ſemper reuoluitur.Præterea quia uariat circuitu ſuo
quæ terra naſcuntur. Variareautem & duo. agy idem eft. HER. Quid uero de
anlws, id eft luna,dicendum: soc.Nomen hocui detur Anaxagoram premere.
HER.Cur.soc. Quoniam præ se aliquid fert antiquius, quod ille nuperdixit,
quodlunaà fole lumen haurit.HER.Quo pactors o coenas idem eſt quod lumen; HER.
Idem. SocR.Lumen hocperpetuo circa lumen voy & güvoy eſt id eſt nouum ac
uetus,limodo Anaxagoriciuera loquuntur:nam circûluſtranseam con tinue
renouatur, Vetusautem eſtmenſis præteritilumen. HER.Vtig. soc.Lunam qui dem
odavalav mulcinominant. HER.Certe. soc. Quoniam uero lumen nouum acue tus
ſemperhabet,merito uocarideberetadægurteoddam Nunc autem conciſo uocabulo
ahavice uocatur. HER. Dithyrambicum nomen hoc eſt, ô Socrates. Verum uave, id
eftmenſem:& äspe quomodo interpretaris. soc. Menſis quidem várs recteab
vas. atroce, id eſtàminuendo, iure nuncuparetur. Astra uero & sectic, id
eſt coruſcationis co gnomentum habent. « Soekautem quia au o ads avasosqe,
ideft uiſum ad fe conuer. tit, ánæspon á dici deberet, nunc cõcinnioriuocabuloaspauinominal.
Her.Vnde no men trahil mie & idap, id eft ignis & aqua:' Soc. Ambigo
equidē,uideturg autMuſa meEuthyphronisdeſeruiſſe, authocarduum quiddam effe. Aduerte
obſecro quò confu giam in omnibus quæcunq dubito. HER. Quonam: soc. Dicam
tibi.ſcis ipſe qua ratio ne wüe nominat: HER.Non hercle.soc. Vide quid dehoc
ſuſpicer.Reor equidêmul ta nomina Graecos a Barbaris, eos preſertim quiſub
Barbaris ſunt, habuiſſe. HER. Quor ſum hæc.soc.Siquis rectam iſtorũ
impoſitionem fecundum græcã uocem quærat,non ſecundum eam qua eſt nomen inuentũ
nimirum ambiget. HER. Verifimile id quidem. soc. Vide itaç nenomen hoc
quebarbaricum ſit.neo enim facile eft iſtud græcæ lin guæ accomodare,
conſtataita hocPhrygios nominare parum quid declinantes, & ý. dwg &
xuías,id eft canes, alia permulta. HER. Vera hæc sunt. soc. Ergo distrahereiſta
nihil oportet, quandoquidem deipſis nihil dicere quiſquã poteſt.Quapropter
nomina illa ignis & aquæ huncinmodum reñcio kázautēſic eft dictus
Hermogenes, quia quæ circa terram ſunt, deed,id eſteleuat.uel quia aega, hoc
eft ſemperfluit,uel quia eiusflu xu ſpiritusconcitatur. Poetæ quippe flamina
aktasnuncupant.Forte igitur aer dicitur quali avocTócow, agzóſſow id eſt
ſpiritus fluens, uel fluens flamen, dedica præterea fic exponendum arbitror,
quoniã đa dicirca ãégæ pêwy, id eft ſemper currit circa aerem fluens, quocirca
čeddeks dicipoteft.gæ autē, id eſt terra,planius fenſum exprimit,ſigara
dicatur. yaa enim recte görkodea, id eltgenitrix dicipoteft,utait
Homerus.Nãquod gazdan dicit, genitum in re,inquit. Quid reftat deinceps. HER.
Ver & annus, ô Socra tes. soc. Spore quidē, id eftueris temporapriſca &
Attica uoce dicendaſunt,ſi uis quod conueniens eſt, cognoſcere. Horæ
nanquocant, quia ief80, id eſt terminant hyemem atçæftatem uentosca &
fructus ex terra nafcentes. giveau tos aất & čnos, id eft annus,idem effe
uidet. Quod eñ in lumen uiciſlim educit,quęcung naſcunifiunto exterra,ipſum in
ſeipſo examinat & diſcernit,annus eft: & ut ſupra louis nomen diximus
in duo ſectű, ab aliquibus Pavæ,ab alijs diæ uocari,ita & annữ quidam
giardy yocant, quia in ſeipſo, quidā quia examinat.Integra uero ratio eft ipfum
q in ſeipſo examinat.Vndeexo ratiõeunanominaduo ſelecta funt.quòd eñ
limuldicit,co giairū étolov,id eft in ſeipſo examinās, diſtinctum dicitur
griaunos, & £70s, id est annus. HER. Atuero Ô Socrates,iam longe
pgrederis.soc.Longiusequidēin philoſophia uideor euagari. HER. Quinimò.
soc.Forte'magis cöcedes. Her.Verum pofthancfpeciē libentiſlime contêplarer,qua
rationerectenomina iſta præclara uirtutūſint impofira,ut ogórkas,id eft
prudentia,cuir as, intelligentia, xacoou's, iuftitia, ac reliqua huius
generisomnia.so c.Haud conte. mnendum genus nominū ſuſcitas,ô amice. Veruntamen
poſto leoninā pellem ſum in dutus,haud deterreridecet,imò præclara
ipfa,utais,nomina prudentiæ,intelligentię, cogitationis ſciêtiæ
cæterorūphuiuſmodicõliderare.HER.Quin profecto prius deſiſtere nullo mododebemus.Soc.
Ædepolnõmalemihide eo conijcere uideor, quod modo conſiderabam, antiquiflimos
uidelicet illos nominữ autores, ut & fapientiâ noftrorum plurimis
accidit,ob frequentem ipfam in rebus perueftigandis reuolutionem, præter
ceteros in cerebri vertiginem incidiſſe:quo factum puto utres ipsæ proferri
& vacillareil lis apparerēt.opinionis autem huius caufam.haud interiorem
uertiginem,ſed exterior? cc ipfarum rerű circuitum arbitrātur:quas ita natura
habere ſe putāt, ut nihil in eis firmum. ZE & ftabile fic,fed
fluantomnesferanturo,& omnifariam agitentur, ſemperø gignantur.PC & defluant.
Quod quidem in his nominibus, quæ nuncrelata ſunt, conſpicio. HERM.CC Quo pacto
Socrates.soc. Haudaduertiſti superior nomina rebus qualidelatis, fluentibus,
& iugigenerationetranslatis impofita fuiſſe: HERM.Nă ſatis
percepi.soc.Prins cipio quod primûretulimus,ad aliquid huius generis
attinet.HERM. Qualeiſtud: soc. apórnois,id eſt prudétia eft,qopás a govórous,
id eſt lacionis & fluxus animaduerſio. Signi ficare quog poteſt,recipere
övnou dopás,id eſt lationis utilitatê.Tádem circa ipfam agita tionem uerſatur. Quinetia
liuis yvaus id eft cogitatio fignificat govis várnoip,id eft gene rationis
cõliderationem.you cû quippecõſiderare eſt. voxois autem, id eft intellectio,
eſt réov čois,id eft nouideſideriũ.nouas uero res eſſe,ſignificat eas fieri
ſemper.atqß hoc deſi derare & aggredi animum indicat qui nomēillud
inuenitvsotow. principio nang vósois, nõdicebatur,fed pro,duo se proferēda
erant,ut rebois, quafivéov, id eſt noui toisappe. titio & aggreſſio.ow
poowy,id eſttemperātia illius quodmodo diximus Opornotus, id eſt prudêtiæ, falus
& conſeruatio eft. udtskun,id eſt ſcientia, ab eo quod inftar & fequit
tra &tum eſt,quafi res fluentesſolas animus perſequatur, inſtetø &
comitetur: at negexmo tra poſterior,neæ præcurſioneſicprior.Quare&
interiecto shylew uocare decet ouisas tanquam fyllogiſmus,id eft ratiocinatio
quædam eſſe uidetur.Cum autem owibrac dici tur,idem intelligiturac fi diceretur
etiska. Nam oftendit cum rebusanimum congre dirogix, id eft fapiêtia, agitationis
eft tactus.Obſcurius autem, & alieniushoc à nobis. Verum animaduertendữeſt
in poetis, quoties uolunt aduentantem aliquem & irruen tem
exprimere,ovulo.id eſt erupit,profiljjt,dicere.Quin & illuftricuidam apud
Lacedæ. moniosuiro nomen erat oös,id eſt præpes.Sic enim Lacedæmones
cõcitationis impe tum indicant. Qualiitaqomnia perferantur, huiusipſiusagitationis,
quę eo quod oos di citur,ſignificatur,iniqw,id eft tactum perceptionem aſophia
demonſtrat..yglóxid eſt bonum cuiufqsnaturæ « y« sóy,id eft mirabile, amabile,delectabile
ſignificat.Enimuero poſtos fluuntomnia,partim celeritas, partim tarditas
ineſt.Eft igiturnon omneuelox, fed ipſius aliquid « y « soy.Quod quidēayasov
ipfius& yali nomine declaratur.ductoo uby, ideft iuſtitia,quod xaiov oubsou
ideſt iuſti intelligentiam importet, facile conijcere pol fumus. Quid autem
ipſum singu op fibi uelit, difficile cognitu.Videtur autem huculoa multis quod
dictum eſt cocellum,reliquum uero dubium. Etenim quicung totum mobile
arbitrantur, plurimum agitari ipſum exiſtimāt,per omnealiquid permanare quo
fingula fiant, quod'ue tenuiſlimum fit & uelociſſimum.Nec enim per
omniadiſcurrere polle,nifiadeo tenuelit ut nihil possit
obliſterepenetráci,& adeo uelox, ut cæteris quafi ſtancibus utatur.Quoniam
uero gubernatomnia, dlačov, id eſt diſcurrens & permanans, merito dinglov
eft appellatū, x uno politioris prolationis gratia interiecto. Hactenus quod
modo diximus, inter plurimosconftat hoceffe iuftum.Ego autem Hermogenes urpo te
diſcēdideſiderio flagranshæc omnia perfcrutatus ſum,& in arcanis
percepiquod hoc ipſum iuftum ſit, & cauſa.quo enim res ipfæ fiunt,hoc eſt
caufa:proprieś ita uocariiſtud debere quiſpiam tradidit.Cum uero ab his iam
auditis iftis nihilominus diligenter ex., quiro quid ipfum iuftum ſit, quando
quidem ita fehabet, uideor iam ulterius quam decet exigere, & caueam,utdicitur,uallūý
ſupergredi.Satis enim femperrogaſſeme & audiſ- Prouerbia fereſpondent,meg
uolentes explere alius aliud afferre conantur,neo ultra coſentiunt. Quidam ait
iuſtű hoc, folem effe.Solâ quippe folem diſcurrendo calefaciendog omnia
gubernare. Cum uero hoc alacer cuiquam qualipræclarum audierim, refero, ftatim
ille meridet, quærito nunquid exiftimem post solis occaſum iuftűnihil hominibus
superef le: Percontanti itaq mihiquid ille fentiret,ipfum ait ignem iuftâ
exiſtere.neqid cogni tu facile, quarealius,inquit,nõignem ipſum ſed ipſum
potius innatum ignicalorē.Alius hæc omnia pro nihilo habet.eſſe enim iustamentem
illâ quâ induxit Anaxagoras. Dominam certe illam fuapte natura,necalicuimixtam
exornare omnia inquit, per omnia pe netrantem.Hic quidem ô amice in maiorē ambiguitaté
fum prolapsus, quàm antea dum nihil deiuſtitia ſclſcicabar.Cæterű utredeamus ad
id cuiusgratia diſputaus,nomēillicale propter hæc, quale diximus,eft tribucũ.her.
Videris Ô Socrates, ex aliquo audiſſe hæc, nec ex tua officinaruditer
deprompſiffe. soc. Quid alia: HERM. Non ita. soc. Atten de igitur;
forte'nançsin reliquis te deciperem, quali quæ afferam non audierim.Poſtiu
ftitiam quid reſtare avdgíay, id eft fortitudinēnondum peregimus.iniuſtitia
faneobſtacu lum eiuseſt quoddilcurrit per omnia, dvd piæ in pugnauerfatur.pugna
in rebus fi quidē fluunt nihilaliud fluxusipfe contrarius. Quapropter fi quis d
ſubtraxerit ex nomine hocadipiæ,nomen quod reftat aveia, opusipſum declarat.
constat planè quòd non flu xus cuiuſqz contrarius gom id eſt fluxus,fortitudo
eft,fed oppoficus illi quipræter iuſtum ficfluxui.Neqzenim aliterfortitudo
eſſet laudabilis. žeệw autem,ideft mas, & civip,uir à ſimili quodã
ducâtoriginē,ſcilicet ab ävw gom,id eſt ſurſum fluxu.pusuero,id eſtmulier,
quafi jová, id eſt fæcunda & generatrix,bãiv,id eft fæmina.cn? Begrãs, id
eſt papilla dici tur,oxå saấcuideturHermogenes dici,quia retraçúc, ideft
germinare pullulareg facit,ut irrigans ea quæ irrigantur.HERM.Sicapparet,ô
Socrates.SOCR.Idride,id eſt uireſcere, adoleſcere, floreſcere, augmentum iuuenum
repræſentat, quaſi uelox quiddam & fu bicum, quod innuitille quinomen
conflauit ex leiv, id eſt currere, & &Ma, id eft faltare.
Animaduertismeuelui extra curſum delatâ,poftquãplana ac peruia nactus ſum: Mul
ta quoqz ſuperſunt quæ ad ſeria pertinere uident.HERM.Veraloqueris.soc. Quorữu
num eft utuideamus quid de xuwid eſt ars importet. HERM. Prorſus.SOCR.Nonnehoc
şuu vä, id eſt habitum mentis oſtendit, ſi z demitur,interſerifautêomediữ inter
x & v,& interv & nézován: HERM. Aridenimiū Socrates & inculte. soc.
Anignoras beateuir no mina uetera diſtracta iam effe,atq cõfuſa à ſermonis
tragiciſtudioſis,elegantiæ gratia ad« dentibus & fubtrahentibus literas,ac
partim tēporis diuturnitate, partim exornationis& ftudio undiq
peruertēcibus ucecce in na rów,id eft fpeculo, abſurdű eft ipliusaddi “ tamentū:
Talia certe,ut arbitror,faciâtquioris illecebras pluris æſtimantő ueritatem.
Quamobré cũ multanominibus ipſis adiecerint,tãdem effecerűt, utnemoiam nominūdu
fenfum animaduertat.Quemadmodãdum o qizæ,id eſtmõſtrum quoddã proferunt,cūcl
oqiya pronunciare deberēt,ac cæteramulta. Profecto fidareturcuiş arbitratu ſuo
& de mere& addere,magna utic eſſet licentia, & quodlibetnomē cuiæ
rei unuſquiſq tribueu ret:HERM.Veranarras, so CR.Vera plane, ſed enim
mediocritatem quandam aros decorum ſeruare te decet præsidem sapiętem.HERM.Outinam.soc.Atqui&
ipſe,o Her mogenes, opto uerum ne exacta nimium diſcuſſione, uir felix,
exquiras, neuim meam prorſus exhaurias.Afcendam quippead ſupradictorum apicen:
posto post artem cõli. derauerimus Myjavlw,id eftmachinationéexcogitationemg
ſolertem. Videtautem li gnificare idem quodmultum pertingere &
aſcēdere.Componitur ergo ex his duobus, púxos, id eſtlonge & multum, &
dvey,id eft aſcendere,penetrare,pertingere. Sedutmo. do dicebam, adſummam
dictorum perueniendum eft, quærendum quid nomina iſta significant, opeta, id est
uirtus, & xcxiæ,id eft prauitas.Alterum quidem nondum reperio, alterum
patere uidetur.Nam ſuperioribusomnibus conſonar,nempetanquam eancom nia:Kards
sok,id eſt male uadens:xariæ, id eft, prauitas erit. quarecum animamale adres
ipfas accedet,communiter praua dicetur. proprie uero acmaximeprocedendihæcfa.
culcas inoshiq,id eſt timiditate patet, quam nondum declarauimus.
prætermiſimuse nim. Oportebatautem continuopoft fortitudinem ipfam
inferre.Multa inſuper alia prę teriſſeuidemur. ddníc SIGNIFICAT durum animæ
uinculum.domés enim uinculum eſt.nian uero forte quiddam durumg SIGNIFICAT quare
timiditasuehemensacmaximum eſt ani mæ uinculum: quemadmodum & exeíc,id eſt
defectus inopia, dubium,malum quiddã eſt,ac fummatim quodcuną progreſſus ipfius
impedimentum,idé male progredi uide tur oſtendere,in ipſa uidelicetmotione
impediri atą detineri. Quod cum animaſubit, prauitate plena dicit. Quod ſi
illud prauitatis nomen talibus quibuſdam cõpecit,contra rium osti,id eſt uirtus
ſignificabit.In primis quidē facilē agilemą progreffum, deinde folutum &
expeditū animæ bonæ impetum effe oportet. Quamobréabloaz impedimēto obſtaculog
és béov,id eſt ſemperfluens iure cognominari poffet adgfútn.fortè uero &
αριτίω degerli uocatquis, quia litaliftas aép&TUTTys,id eftmaxime eligendæ.
Verum colliſo uocabulo obetxdenominatur. Forſitan mefingere dices:ego autem
aſſero, ſimodo no men illud prauitatis quod retuli,recte eſt inductum,recte
quoc & iſtud uirtutis nomen induci.HERM.Arranów,id eftmalum,per quod in
ſuperioribusmulta dixiſti, quid ſibi uult: so c.Extraneum quiddam per louem,ac
inuétu difficile. Icaq ad hoc etiam machi namentum illud fuperiusafferam.HERM.
Quid iſtud: SOCR. Barbaricum quiddam & hoc esse dicam.HERM. Probeloquiuideris.
soc. Cæterum hæciam fi placet mittamus, nominauero iſta menon & degeóv, id
eſt pulchrum & turpe, conſideremus. Quid degepon innuat, fatis mihipatere
uidetur.Nempecum ſuperioribus conuenit. uidetur quinomi na ſtatuit, paſſim
agitationis impedimentum uituperare.utecce,és igorri zion pouw, id eft femper
impedientifluxum nomen dedit aegóggow. Nuncuero collidentes degsów
appellant.HERM. Quid nonoy, id eſt pulchrum: soc.Hoc cognitu difficilius,
quanquam ip ſum ita deducitur,utharmoniæ duntaxat & longitudinis gratia
ipſum æ ſit productum. HERM.Quo pacto: soc. Nomen hoc cogitationis cognomentum
quoddam esse videtur. HERM. Quiiſtud ais:'soc. Quam tu cauſam appellationis rei
cuiuſ cenſes: an nó quod nominatribuit: Herm.Omnino.so c.Nónne causa hæc
cogitatio est veldeorũ, vel hominum,uel amborum: HERM. Nempe.soc.Ergo xaréoa,ideft
quoduocatres, & kxaóv,idem accogitatio ſunt.HERM.Apparet.soc. Quæcunq mens
& cogitatio a gunt,laudanda ſunt:quæ non, uituperanda. HERM. Prorſus.soc.
Quod medicinæ par. ticeps,medicinæ opera efficit:quod fabrilis
artis,fabrilia.Tu vero quid fentis? HERM. Idem. soc.Pulchrum ita
pulchra.HERM.Decet.so c.Eft autem hoc,ut diximus,cogi tatio. HERM. Maxime. soc.
Nomen ita @ hoc naróv, id eſt pulchrum,merito erit pru dentiæ cognomentum,talia
quædam agencis, qualia affirmantes pulchra eſſe,diligimus. HERM.
Sicapparet.SOCR. Quid ultra generis huius reftat inveſtigandum: HER M. Quæ ad
bonum & pulchrum ſpectant,conferentia uidelicet, utilia, conducibilia, emo
lumenta,horum contraria. soc. Quid our popov,id eſt conferens ſit,ex
ſuperioribus ip ſeinuenies. Nam nominis illius quodad ſcientiam attinet,
germanum quiddam appa ret.Nihil enim præ ſe ferc aliud quam qopav,id eſt
lationem animæ ſimul cum rebus, quæ ue hinc proueniunt,uocari orredoporre &
ovu qopa, id eſt conferentia,ex eo quod fimul circumferuntur.Herm.
Videtur.soc.Losdantov autem, id eft emolumentum: 7 koše dos, id eſt
lucro.xopdos uero,li quisv prod nominihuic inferat, quod uult exprimit. Ná
bonum alio quodam modo nominai. Quod enim omnibus xopavuutui, id eſt miſcetur
diffuſum per omnia,hanc ipfam eiusuim fignificansnomen illud excogitauit pro
vap ponens, ac Kopdo pronunciauit. HERM. Quid autem vorzask,id eft utile
soc.Vides tur Ô Hermogenes,non ſicut cauponeshoc utuntur, idcirco Avantasy
uocari, quia avesa a whece despaúx, id eſt ſumptusuitat & minuit:uerum quia
cum velocissimum sit, res ftareno finit,neq permittit lationem réao-, id eft
finem progreſſionis accipere atæ ceffare: ſed ſoluitfemper ab illa fugató,fi
quis terminusfuperueniat, ipfamós indeſinentem immor talemg præbet.hac
rationebonum avame18yuocatū arbitror.ipſum enim motionis aú ou do río, id eft
foluens terminum,avandou uocari uidetur.coénomoy uero, id eſt con
ducibileperegrinum nomēeſt, quo ſæpenumero Homerus eſt uſus. Eftauté hocaugen
difaciendio cognomētum.Her.Quid de horâ contrarijs eſt dicendûrsoc. Quæ per negationem
iſtorum dicuntur,tractarenequaquam oportet.HER.Quænã iſtar'sOc.co.uk gogov,kiw
deres davandés, axopdes.HERM.Vera loqueris. soc. Sed Brabopov & yusão s, id
eft noxium & damnofum. HERM. Certe.soc.Braboooy quidembacitou tou how effe
dicit,id eſt quod uult& nav, id eſtimpedire & coercere:pšu id eft
fluxum:hocautem passim uituperat:quodő uultanlay góp pouw, recte bonomopou
appellaret. uerum ornatus gratia Brabopón arbitrornominatū. HERM.Varia
tibifuboriâtur,ô Socrates,nomina.at quimihi uideris in pralentia, quali Palladiæ
legispraeludiữ quoddã præcinuiſſe,dum no men Bracoitopöy pronunciares. so. Nõego
in cauſa ſum Hermogenes,fed quinomēip ſum inſtituerunt.HERM. Vera loqueris.
Verum Cauãdoquid: soc. Quid effe debeat {#ubades dicam Hermogenes: & uide
uere loquar,quoties dico quod addētes ac de mētes literas lõge nominū ſenſum
uariant,adeo ut ſæpe exiguâ quidmutantes, cótraria SIGNIFICATIONEM inducant quod
apparethoc in nomine dear,id eſt opportunữ. uenithocnu permihiin mētem deeo
quod di& urus ſum cogitanti.Recēs eſt profecto uoxnobispul chra
illa,coegitý côtrarium ſonare nobis d'top & {mps&d ov, fenſum ipſum
cõfundens.Ve tus autem quid nomen utrung uulc, explicat. HERM. Qui iftucais:
soc.Dicam equi. dem.haud præteritmaiores noſtrosfrequentero & d
utiſolitos,necrariusmulieres,quæ maximepriſcam uocem feruant.Nunc autem pro
uelipfum & uelx adhibent, produe. ro (quali hæcmagnificentius quiddam
ſonent. HERM. Quo pactorsoc. Vtecceuetu ftiſſimiuiriin op'a diem
uocabant,pofteriores autem partim čuopov,partim su'épow,co cant. HERM.Vera hæc
funt. soc.Scis igitur uetufto illo nomine tantum mentem eius quinomen impoſuit
declarari.Nam ex eo quod imeipzory, id eſt deſiderantibus homini bus
gratulantibus etenebris lumen emicuit,diem inopor cognominarunt. HERM.Ap
paret.so c.Nunc autem illa tragicisdecantata quid ſibiuelit suopa,nequaquam
intelli. gas.quanquam arbitrantur nõnullispopov dici,quod kuopa,id eftmāſueta
quæg efficiat. HERM.Itamihi uidetur.soc.Neq te fugitueteres Puyóv,id eft iugum,
dvozov uocauiſ fe.HERM.Planè.soc.Enimuero luzów nihil aperit. at d'voyou,divoiy
dywylw,id eſt duori conductionem ligandi ſimul gratia,monftrat.Idemø
eftdemultis alijs iudicandű.HER. Patet.soc.Eadem rationediopita pronunciatum
cótrarium nominum omniâ quæ ad bonum ſpectant oſtendit.porro boniſpecies
exiſtens,déondeouós,id eft uinculum quod dam & impedimētum proceſſionis
effe uidet, tanquam Bag Bopo,id eftnoxij affine quid dam.HERM.Icamaximeapparet,ô
Socrates.Soc.Verum nõſicin nomineueteri, quod ueriſimilius eſtrecte inſtitutum
fuiffe, quàm noftrum. Nempe cum ſuperioribus bonis conſenties,fi pro 4,1 uetus
reſtituas.Nec enim deby;ſed toy bonum illud ſignificat,quod ſemper nominūlaudat
inuentor: Atą ita fecũipſenõdiſſidet, imòad idem ſpectat,d'ion, quali δίομ, ώφέλιμομ,
λυσιτελών, κάρδιαλέον, αγαθόν, συμφόβου, εύπορου, ideft facile ad pro,
greffum.uniuerſü hocdiuerlisnominib.innuit aliquid per omnia penetrās, omniaq
pe rornans,idő ubiq laudatü: qd uero obftat & detinet, improbata. Quinetiã
nominehoc {Butãds,liyeterű mored profpoſueris,apparebit tibinomen iſtud
disutisè boy, id eft li ganti fiftentiç quod pergit,impofitum.unde &
Musãdes cognominandum eſt.Herm. Quid ádura,númy, uslupia,uoluptas
ſcilicet,dolor, cupiditas, Socrates, & huius generis reliqua: soc.Haudnimis
obſcura mihi uidentur Hermogenes, šidbvi,id eſt uoluptas lir quidem actionis
illiusnomen eſt, quæ adóvgay, id eſt utilitatem emolumentumo tendit duero
adiectum facit,ut pro eo quod eſt sova,údova proferatur.Ajax, id eftdolor,à
Stanús Gews,id eſtdiſſolutione corporis trahi uidetur.Nam in huiuſmodi paflione
corpus diffol uitur.xvíc, id eſt triſtitia, quod impeditigio,id eft
ire,demonftrat.& aguda, id eft crucia tus,peregrinum nomen uidetur,ab
ängdvö dictum.éduig,id eft dolor & afflictio,ab güdlü Oews,id eft
ingreſſionedoloris denominatur. HERM. Videtur.so Cårigoló, id eftmoe ror
languor,lationis grauedinem tarditatemg ſignificat. ãxto enim onuselt.ioy uero
pergens.xapod uero,id eſt lætitia gaudium,à diazúrews,id eft profuſione, &
progias, id eft facilitate,poas, id eſt motionis animæ, dicitur. Tosalesid eſt
delectatio,ab toptivs,id eft oblectamento ducitur. Topavoy autem à trom,id eft
inſpiratione delectationis in animā Quaremerito uocaretur égaršv,id eſt
inſpirans. Temporis autem interuallo ad Top Arvo deuentum eſt.cuqpoouis,id
eſthilaritas & alacritas, quam ob cauſam dicatur,aſſignareni hil opus.Nam cuicp
patet hocnomen trahiab eo quod dicitur eü, id eſt bene. oum @ opeally id
eft unaſequi qualidicat animabeneres affequi.Vnde cu poporubs uocarideberet:ta
men Bagooutlw appellamus. Sed neg difficile est assignare quid üsgutta, id
eſtcupidi. tas ſibiuelit.Nomen quippehocuim tendentem in Ovuoy, id est animam
& iram & fu rorem oftendit. Ovuós autem à lúoews& toews,id eft
flagrantia, feruore,& impetu animę. proindeiupo,id eft fuauis &
blandaperfuſio,dicitur,jm,id eſt fluxu animam uehemen ter alliciente.ex eo enim
quodiulio ga,ideft incitatusrerumgappetens fluit,animam
uehementerattrahitpropter impetum ſiue incitamērum fluxus.ab hac tota uiHimeros
eſt nuncupatus.Præterea Pothos uocatur,id eſt deſiderium, quod fane præfentem
fuaui tatem nõ reſpicit, quemadmodū iuepo,fed abfentem ardet. Vnde
wale_diciturqualiá wóvrG,id eft abſentis cócupiſcentia.Idem ipſe in id quod
gratñeſt animinixus,præ ſente co quod cupitur iuopo,abſente wólo denominatur. iews
autem, id eſt amor, quia doga,id eft influit extrinſecus,neg propria eſt habēti
gas,id eſt fluxio ilta,fed infuſa per oculos. Quapropterabcogar,id eſt
influere,čopo, id eft influctio,amor ab antiquis no ftris appellabat,nam opro
wutebantur.nuncautem épwsdicitur,wproo interpoſito. Ve. rum quid deinceps
conſiderandum præcipis?HERM. dlófæ, id eft opinio, & talia quædã, undenomen
habentisoc.déke,uel à diwa,id eſtperſecutione dicit, qua pergit & pro
ſequituranima, conditionem rerum inueftigans:uelà tófo Borm,id eft arcus iactu.
uides turautem hinc potiusdependere. oinois, id eft exiſtimatio,huic confonat.
oftendit quip pecioiy,id eſt ingreſſum animæin unumquodß conſiderandum, oioy,id
eſt quale fic:quê admodum & bons,id eft uoluntas a Borá,id eſt iactu
dicitur: & Bóns, id eſt uelle, pro pter ipſum attingendinixum ſignificat
etiamélis,id eſt cupere:& Bonbuch, id eſt cõſu lere. Omnia hæ copinionem
fequentia,Boras ipfius, id eſt iactus & nixus imagines eſſe
uidentur.quemadmodum contrarium, & boniæ, id eſt priuatio
uoluntatis,defectusquidã conſequendiimpos apparet, quali non contendat, neq
etiam quod intendit,uult, cupit, inueftigat,adipiſcatur.HERM.Frequentiora hæc
congerere uideris, ô Socrates. Quare finis iam fic fauence deo. Volo tamen
adhuc,ávéyxlu & Exšonoy,id eſt neceſſarium & uo luntarium
declarari.Nempe ſuperioribusilta ſuccedunt.socRéxóozoy equidem eft si noy,id
eſtcedensneg renitens, hoc fiquidem nomine declaratur zinoy lestorti, id eſt
ces denseunti, quod'ue ex uoluntate perficitur. avayeccoy uero, id eſt
neceſſarium & obfi ſtens,cum præter uoluntatem ſit,circa errorem infcitiam
uerſabitur deſcribiturautem ex proceſſu ſecundum neceſſitatem, quoniam in uia
aſpera denſa inceffum prohibent. Vndeavaysazov dictum eſt,quali per &
yroscop,id eſt per uallē uadēs.Quouſ uero uiget robur,ne deſeramus. Quamobré
interrogaamabo, ne deſiſtas. HERM. Ecce rogo quæ maxima ſunt &
pulcherrima:« aksaa,id eft ueritatem, & fordo,id eftmendacium, & öy,id
eft ens, & quareid quodehicagimus,övoua,id eft nomen, dicitur. SOCR. Quid vo
casmaksa: HERM.Voco equidem inquirere.so c.Videtur nomen hoc ex sermone illo
conflatum, quo dicicuröv, id eſt ens esse,cuiusnomen inquiſitio eſt. Quod
clarius certe comprehendes in eo quod dicimus óvojasóy, id eſt nominandum. hic
enim exprimitur nomen quid ſit, entisuidelicet inquiſitio. &ikbļa uero
ficut & alia componiuider.Nam diuina entislatio, nomine hoc includitur, ankódæ,
quaſi exiſtensOscarx,id eft diuina que dam uagatio.Foido- autem contrarium
motionis. Rurſushic uſurpatur agitationis obstaculum, quod'ue ſiſtere cogit. Nam
à reboudw, id eſt dormio dicitur. 4 uero adiectum ſenſum nominis occulicouuero
& Xoia, id estens et essentia,cum & rx66ą, id eſtueritate, congruunt: fic
apponatur.namrov, id elt uadens ſignificat.Atdrøv id eſt non ens,quidam
nominant xxcov, id eſt non uadens. HERM. Hæcmihiuideris, 6 Socrares, fortiter
admo dum discussisse. Verum si quiste perconteturquæ fitrecta iſtorum
interpretatio, quæ di cuntur čov, id eſt uadens:géov,id eft fluens,doww,id eſt
ligansac detinens, quid illi potiſſi. mum reſpondebimus: habes'ne: Socr. Habeo
equidem.profecto nuper ſuccurrit no bis aliquid, cuiusreſponſione quicquam
uideamur afferre. HERM. Quale iſtud: soc. Viquodminime cognoſcimus, barbaricum
eſſe dicamus. fortè enim partim reuera talia ſunt: forte'uero partim, ac
præſertim nomina prima,temporum confuſione infcru. “ tabilia.Etenim cum paflim
uocabula diſtrahantur, nihilmirum eſſet ſi priſcalingua cum Ç noſtra
collatanihilo à barbarica uoce differret. HERM.haud alienum eſtà ratione quod a
dicis. Socr. Conſentanea quidem affero, non tamen idcirco certamen excuſationem
uidetur admittere.Sed conemur hæc diſquirere, ato ita conſideremus: fiquis
femper uerbailla per quænomen dicitur, quæreret,rurſus illa per quæ dicuntur
uerba, ſciſci taretur, pergeretob ita perquirere, non'ne qui refpondet,
defatigari tandem & renuere cogeretur: HERM. Mihiſane'uidetur. S O CR.
Quando ita quireſponſum denegar, merito ceſſabit: An non poftquam ad nominailla
peruenerit, quæ cæterorum ſunt& ſermonum & nominum elementarHæcutio fi
elementa funt,ex alñsnominibus com pofita uiderinon debent.quemadmodum ſupra
& yalóy,id eſt bonâ diximus, ex « y så, id eſtiucundo amabilio, &
805,id eftueloci compofitum.gooy rurſus ex alijs conftare di cemus,illağ ex
alijs. ſed poftquam ad id peruenerimus quod ultra ex alíisnominibusno
coſtituitur,merito nosad elementű perueniſfe dicemus,nec ulteriusbocin alia
nomina, referendum. HERM. Scite mihiloquiuideris.soc. Annon ea de quibuspaulo
ante in terrogabasnomina eleméta funt oportet rectam illorõrationem aliter quam
reliquorum inueftigare. HER. Probabile id quidem.soc.Probabile certeHermogenes.
Supe riora itaq omnia in hæcredacta uidentur:ac ſi ita ſe res habet, ut mihiuidetur,
rurſusage hic unamecum conſidera, neforte delirem dum rectam primorum nominum rationem
exponeretento. HERM. Dicmodo. ego nang pro viribus meditabor. soc. Arbitror
equidem in hoc tecõſentire,unam efferectam & primi&
ultiminominisrationem, nul lumğ illorum eo quod nomen est, ab alio diſcrepare. HERM.
Maxime.so c.Etenim om 2 nium quæ ſuprà retulimusnominum recta ratio in hoc
cõſticit, ut qualis quæ res litin 7) dicaretur.HERM. Proculdubio. soc. Hocutio
non minus prioribus quam pofteriori. bus competere debet sinomina fucura
sunt.HERM. Prorſus.so-c.Atquipoſteriora no. minaper priora hocefficere
poterant.HERM. Apparet. soc. Primauero quibus alia nõ præcedunt, quo pacto quam
maximeres ipsas nobisoftendēt, ſi nomina effe debet: Adhoc mihireſponde. ſiuoce
& lingua caruillemus,uoluiffemusgres inuicem declara re,nonneperindeac
nuncmuti, manibus capite & cæterismembris ſignificare tenta uiſſemus? HERM.
Haud aliter Socrates, soc. Ergo supernữ quippiam ac leue demonftraturi, cælum
uerſusmanum extuliffemus, ipſam rei naturam imitantes: inferiora uero &
grauia deiectione quadã humiinnuillemus. quinetiã currentem equũuelaliud quic
quam animalium indicaturi,corporum noftrorum geftus figuras ad illorum
ſimilitudi nem quam proximequiſo finxiſſet. Herm. Neceſlariû quod ais
eſſemihiuidetur.soc. Huncinmodűutarbitror his corporis partibus ostensum eſſet,
corpore videlicet quod quifq monstrare voluerat imitante. Herm. Ita certe.soc.
Postquá uero uoce, lingua, & ore declarare uoluimus, nónne ita demum per
hæcoſtenſio fiet,li per ea circa quodli bet,facta fuerit imitatio:
HERM.Neceſſarium puto. soc.Nomen itaq eſt, urapparet, imitatio uocis, qua
quiſquis aliquid imitatur,per uocem imitat & nominat. HER.Idem mihi quoq
uidetur.soc. Nondum tamen recte dictum existimo. HERM.Quamobrē: Soc. Quoniam
hos ouiū & gallorum cæterorum animalium imitatores fateri cogere.
murnominare eadem quæ imitantur.HERM.Vera loqueris. SOCR.Decereid cenſes: HERM.
Nequaquam sed quænam ô Socrates imitatio nomen erit: s o c.Non talisimi. tatio
qualis quæ permuſicam fit,quamuis uoce fiat,nec etiã eorundem quorum & mu.
fica imitatio eſt,nec enim permuſicam imitationem nominare uidemur. Dico autê
ſic: Adeſtrebusuox & figura colorø plurimus.
HERM.Omnino.soc.Videturmihiſiquis hæcimitetur,neq circa imitationes iftas
nominandifacultas cõfiftere. hæfiquidem ſunt partim muſica, partim uero
pictura.jnonne.HERM. Plane. soc. Quid ad hoc: nonne essentia eſſe cuiq putas,
quemadmodú colori & cæteris quæ ſuprà diximus: an nõ ineſt
coloriacuocieſſentia quædam,& alijs omnibus quæcunc essendi appellationefundi.
gna: HERM. Mihi quidem uidetur. soc. Siquis cuiuſą eſſentiam imitari
literisfylla. biscß ualeret,nonne quid unumquodo fit declararet: HERM.
Maximequidem. Soci Quem hunc eſſe dices: ſuperiores quidem partim muſicum,partim
pictorem cognomi nabas,hũcuero quomodouocabis? HERM. Videturhicmihiô Socrates
quem iamdiu quærimus nominandiautor. soc. Siuerum hoc eſt,conſiderandum iam
denominibus illis quæ tu exigebas, pess, ideſt fluxu,igra,id eſt ire, géoews,
id eſt detentione,utrumli teris ſyllabisą luis reuera effentiam
imitantur,nec'ne.Herm.Prorſus. soc. Ageuidea musnunquid hæcſola
primanominaſint,an fint & alia præterhæc. HER.Alia equidem arbitror. Soc.
Consentaneum est cæterum quis diſtinguendimodusunde imitari incir pitimitator: Nónne
quãdoquidem literis ac ſyllabis eſſentiæ fit IMITATIO, præſta tprimu elementa
distinguere: quemadmodum qui rhytmis dant operam, elementorum primo uires diſtinguunt,
deinde fyllabarum tanium, rhythmoscandem iprosaggrediuntur,pri usnequaquam. HERM.
Vtiq.soc.Annon ita & nos primo oportet literas VOCALES distinguere, poftea
reliquas ſecundum ſpecies, mutas & SEMI-VOCALES. Ita enim in his erudi ti
uiri loquuntur.acrurſus uocales quidem,non tamen ſemiuocales, & ipſarű
uocalium ſpecies inuicem differentes. Etpoftquam
bæcbene omnia diſcreuerimus,rurſus induce, renomina,conſiderareg ſi ſuntin quæ
omnia referuntur, quemadmodum elementa,ex quibuscognoſcere licet& ipfa,
& fi in ipſis ſpecies continentureodem modo ficutiner lementis. His
omnibusdiligenter cogitatis,Icire oportet afferre secüdum fimilitudinem unumquodą,
ſiueunum uniſit admouendum, ſeu mulcą inuicem commiſcenda:ceuph Storesctores
similitudinem volentes exprimere, interdum purpureum duntaxat coloré adhi
bent,interdum quemuis alium colorem, quandoq multoscômiſcent,ueluti cum imagi
nem uiri quam ſimilimam effingere uolunt,uel aliud quiddãhuiuſmodi, quatenus
ima goqueo certis coloribusindiget. haud ſecus & noselementa
rebusaccomodabimus,& unum uni, quocunq egere maxime uideatur:oumbona “, id
eſt coniecta conficiemus, quas ſyllabasuocant. Quas ubiiunxerimus, ex eisö
nominauerba constituerimus, rur fusex nominibusac uerbismagnum iam quiddam
& pulchrum & integrum conſtrue mus:& quemadmodum totum ipſum
compoſitum pictura animal uocat, ita noscontes xtum huncintegrű; orationem uel nominandi
peritia,uel rhetorica fábricatam,uel alia quauis quæ id efficiatarte.Imòno nos
iſtudagemus.modūnamą loquendo tranſgref fus fum, quippe ueteres ita
conflarunt,fi ita eſt conſtitutum. Nosautem oportet,fimodo artificiofe
conſideraturiſumus,ipſa omnia fic diſtinguentes, fiue ut conuenit primano mina
& pofteriora ſint poſita,ſiue non,ita excogitare.Aliter autem cõnectere
uidendű eft ôamice Hermogenes,ne forte ſit error.Her. Forte per louem ô
Socrates. soc.Nun quid ipfe cöfidis ita te posse diſtinguere:Ego enim mepoſſe
diffido. HEŘ.Multo igitur magis ipſe diffido.soc.Dimittemus igitur?an uis utcun
@ ualemus experiamur,et ſi pa rum quid horum noſſe poffumus,aggrediamur,ita
tamen utfuprà,dis præfati:ucq illis ediximus,nihil nosueriintelligentes
opiniones hominūdeillis conñcere:ita & nấcper gamusnobiſipſi ſimiliter
prædicentes, quod fi quam optime diſtinguenda hæc fuiffent, uel ab alio quopiam,uela
nobis,ſic certe diſtinguereoportuiſſet: nuncautem,ut fertur, puiribus ifta
nostractare decebit.Admittishęc'uel quid ais.HER. Sic prorſusopinor.
soc.Ridiculum uiſum iri ô Hermogenes, arbitror, quod res ipfæ imitatione per
literas fyllabas a factamanifeſta fiát.Neceſſarium tamen:nec enim
meliushochabemus quic quam,ad quod reſpicientes deueritate primorum nominū
iudicemus:niſi forte quemad modum Tragiciquoties ambigunt, cõmentiris quibuſdam
machinamentis ad deosco fugiunt,ita & nos ocyusrem expediamus,dicentes deos
primanominapoſuiſſe, & idcir corecte inſtituta fuiſſe.nunquid
potiſſimusnobis hic fermoran ille,quod ipſa a barbaris quibuſdam accepimus: Nobis
quippe antiquiores ſuntbarbari,uelquòd ob uetuftatem ita ea diſcerninequeuntut
& barbara: Tergiuerſationeshæ ſunt, & belliſſimæ quidem, illorum
quicunq nolint derecta impoſitione primorum nominû reddere rationem. Ete nim
quiſquis rectam primorā nominum rationem ignorat, ſequentium cognoſcerene
quit.hæcporrò ex illis declaranda ſunt,illa autē is ignorat. quin potius
neceffe eft fequê tium peritiam profitentem,multo prius & abfolutius
antecedentia comprehendiffe,por feq oſtendere, aliter autem ſciredebet fe in
fequentibus deliraturũ.an aliter ipſe confess HER.Haud aliter Socrates. soc. Quæ
ego ſenſideprimis nominibus, inſolentia ridicu lag admodum eſſe
mihiuidentur,eaç tecû, ſi uelis, comunicabo. Siquid uero tumelius
inueneris,mecum & ipſe comunica. HER. Efficiam.fed diciam forti animo.
soc.Princi pio ipſum g uelut inftrumentum omnismotuseſſe uidetur. Curautem
motuslivrosap pelletur,non diximus.patet tamen quoditors, id eftitio eſſe
uult.Non enim » quondam, fedeutebamur.principiữautē ab liay, id eſtire,
quodperegrinum nomen eft,& igra,id eſtire ſignificat.Quare fi priſcum
eiusnomen reperiatur in uocem noftram translatum, recte i'eois APPELLABITVR. Núc
autem ab kiau nomineperegrino, & ipfiusy conmutatione, & vipſius
interpofitione livyoisnuncupatur. Oportebat autem sidingoy uel any dicere.
súčas,id eft ftatio,negatio ipfius iga, id eft ire eſle uult, ſed ornatuscaufa
séas denomi natur.Elementū itaq ipſum qopportunűm motus inſtrumentum, ut modo
dicebā,uiſum eſt nominum autori ad ipfam lationis fimilitudiné exprimendā:
paflim itaggad motus expreſſionē utitur.In primo quidem ipſo jau & goñ, id
eſtfluere, fluxuğ per literampla tioně imitatur,deinde in touw,id eft
tremore,& baya aſpero.item in uerbis huiufmodi, kódy percutere,&gaver
uulnerare, oʻúrdy trahere, @ gúndu frangere eneruareg, kopuerto siddy
incidere,pêué du uacillare, irritare, & circumuerſare. Hæcomnia ut
plurimâperp ad similitudinem motionis effingit. Mitto enim quod lingua in hac
litera pronunciadamini meimmoratur, quin potius cocitatur. Quocirca ad iſtorũ
expreſſione iplo s potiſſimữ uſus fuiffe uider. Vfus eft &, scilicetiota, ad
tenuia quæ per omniamaximepenetran tia.idcirco igra & icadou, id eft
ireprogredió per o imitatur. Quéadmodū per 4.0, quæ E literæ uehementioris
fpiritus ſunt, talia quædam nominum autor exprimit, fuzeów frigt dum, (soy
feruens, osoatare concuti, & communiter aconoy, concuſſionē quaffationem:
quoties uehemens quippiam &fpiritu plenum imitari uult nominum inftitutor,
tales utplurimum literas adhibet.Quinetiam ipſiusd cõpreſſionem aco, linguæ
& uelut ha. rentis retractionem, peropportunã exiſtimaſſe
uideturaduinculi&ftationis potentiâ exprimendam. Etquia in a proferendo
maximelingua prolabitur, idcirco per hoc uelur ex fimilitudine quadam nominauit
nga, id eſt lenia & órcdaerah labi, & noMūdeslie quidum,Ascrapov
pingue, cætera huiuſmodi.Quiauero labentem linguam y remoratur eo interiecto
formauityhioggoy lubricum, gauxudulce, yrādes uiſcoſum, luculentum.
Animaduertens quo&ipfius v ſonum imoin gutture detineri, eo nominauit so
výdby & te gutos, id eſtąd intus eſt,& quæ intrinfecusſunt, utres per
literas repræſentarer.Ipſum uero w,meyer@,id eſt magno tribuit &ipſum %
ukus,id eſt longitudini, quoniamma. gnäliteræ ſunt.in nomineautem spozzinoy, id
eft rotundum,ipfo o indigens, o ut pluri mummiſcuit. Eadem ratione cętera
ſecundum literas ac ſyllabas rebus ſingulis accom modare uidetur nominum
autor,ſignữnomenoconſtitués,ex his deinde ſpecies iamre liquas per
ſimilitudinem conſtituere. Hæc mihi Hermogenes recta uidetur effe nomina ratio,
niſi quid aliud Cratylus hic afferat. H ER.Etenim ở Socrates, fæpemeturbat
Craty lus hic, uc à principio dixi,dum eſſe quandã afferit rectam nominû
rationem, quæ uero sit, non explicat, utdiſcernere nequeam utrum de induſtria,
nec'ne adeòfit obſcurus. In præſentia igitur Ô Cratyle,coram Socrate dicas,
utrum placeant ea tibi quæ Socrates de nominibuspredicat,an preclarius aliquid
afferre poffis:quodfi potes,adducas in me dium, ut uel a Socrate diſcas,uel nos
ambos erudias. CRAT. Videtur netibi Hermoge nes facile eſſe tam breui percipere
quoduis atque docere,nedum rem tantam, quæ maxi mum quid demaximis æstimatur. HER.
Non mihi per louem, quinimò ſcite loquutum Heliodum arbitror, quod operęprecium
ſit paruum paruo addere.Quare fi quicquamli cet exiguum perficere uales,ne
graueris, fed & Socratem istum iuua,& me insuper.de. bes enim.soc. Equidem
ô Cratyle,nihil eorum quæ ſupra comemoraui; aſſererē.Nem peutcunq; uiſumeſt,
cum Hermogenehocindagaui. quocirca aude fi quid melius ha bes, exprimere, tanquã
ſim libenter,quod dixeris,ſuſcepturus.Neqz enimmirarer liquid tu
hiſcehaberespræclarius. Videris porrò &ipfe talia quædã conſideraffe,
&ab alijs di diciſſe. Siquid ergo præstantius dixeris, me interdiscipulos
tuos circa rectam nominā rationem unum connumerato. CRAT. Certe mihi ô
Socrates,utais, curæ hæc fuerunt,ac forte diſcipulum te efficerem.Vereortamen
ne contrà omnino ſe res habeat.Conuenic mihi nuncidem erga te dicere,
quodaduerſus Aiacem in ſacris Achilles inquit.Genero. Iliadosi fe,ait,Aiax Telamonie
populorũ princeps, omnia mea ex ſententia protulifti.Ita cu quo queô Socrates,
nostra exmente uaticinari uideris, fiue ab Euthyphrone fueris inſpira tus, ſiue
Muſa quædam tibipridem inhærens nuncte protinus concitauerit. soc. O uir bone
Cratyle, ego quoß fapientiam meam iampridem admiror,neq nimis confido.qua re
examinãdum quid dicam, exiftimo.Namaſeipſo decipi grauiſſimum eſt.nimis enim 2
periculoſa res eft, quum ſeductorabeſt nunquam ſemperdeceptum proxime comita, tur. Oportetitao superiora frequêter
animaduertere, & utpoeta ille ait, ante illa retros conſpicere.Atqui
&in præsenti videamus quid à nobis sit dictum. Rectam diximus no minis
rationem, quæqualis quæqres fit, oftendit.Nunquid ſufficienter eſſe dictâ
afferi mus: CRAT. Ego quidem aſſero.soc. Docendi igitur gratia nomina ipfa
dicuntur: CRAT. Prorſus.soc. Annon & artem eſſe hancdicimus, & ipfius
artifices: CRAT. Maxime. soc. Quos.CRAT. Quos à principio tu legum &nominum
conditores co gnominabas.soc.Vtrum hanc artem ſimiliter atą alias ineſſe
hominibus, an aliter arhi tramur:Idautem eft quoduolo.pictores quidam
deteriores ſunt,quidam pręſtantiores? CRAT. Sunt.soc. Nónne præstantiores opera
sua pulchriora faciunt, figuras uidelicet animalium: cætericontra:
Aedificatoresquoq ſimiliter partim pulchriores, partim tur piores domos efficiūt:
CRAT.Sic eſt.soc. Nónne et legum ipsarī autores partim opera suapulchriora, partim
turpiora efficiunt: CRAT. Haud ampliusiftud admitto. soc. Non ergo leges
aliæmeliores,deteriores aliæ tibiuidentur. CRAT. Non. soc. Nec etiã nomen
utapparet, aliud melius, aliud deteriusimpoſitum arbitraris. CRAT. Negiſtud. soc.Ergo
omnia nomina recte poſita ſunt. CRAT. Quecunqueuidelicet nominaſunr. soc.Quid
de huius Hermogenisquod ſupra dictum eſt, nomine: Vtrum dicendű non effeilli
iftud impoſitum,niſiquod équo geridews,id eft Mercurijgenerationis illicompe
car: Animpoficum quidem, non tamen recte:CRAT.Nec impofitum eſſe ô Socrates,
arbitror,fed uideri.eſſe autem alterius cuiusdā nomen, cui natura inest quæ
nomine con cinetur.soc.Vtrum nequementicur quisquis Hermogenem eſſe eum
dicit:Nec enim hoc eft dubitandum, quin eum dicatHermogenem eſſe,cum non
fit.CRAT. Quaratig ne id ais: so c. Nunquid ex eo quod non datur dicere falſa,ſermo
tuus conftat, & circa id uerſacur.permulci nempeô amice Cratyle, & nunc
prædicant, & quondam aſſerue runt.CRAT.Quo pacto ó Socrates,dum dicit quis
quod dicit quod non eſt dixerit; An non hoc eſt falla dicere,quæ nõ ſunt
dicere: soc.Præclarior hic fermoamice,quam con dicio mea & ætas
exigat.Attamen mihi dicas,utrum loqui falſa non poſſe aliquis tibi ui
detur,fariautē pofle? CRAT.Neq fari.soc.Acetiam nec dicere,nec apppellare, falu
tare: Quemadmodum liquis tibi obuiushoſpitalitatis iure manu te prehendens
dicat Salue hoſpes Athenienſis, Šmicrionisfili Hermogenes. illeloqueretiſta,uel
fari dicere tur,uel diceret,uel falutaret,appellaretę ita, non te quidem,ſed
hunc Hermogenem,aut nullum: CRAT.Videtur mihi ô Socrates, incaſſum hæc iſte
uociferare.so c.Šat habeo. utrū uera uociferat,qui ita clamat, an falſa: Anpartim
uera, partim falſa: Namhoc quo queſufficiet.CRAT. Sonare huncego dicam feipfum
fruſtra mouentem, ceu fiquis æra pulſer.soc.Animaduerte Cratyle,utrum quoquo
modo conueniamus.Nõne aliud no men, aliud cuius nomen eſt,effe dicis: CRAT. Equidem.
soc. Etnomen rei ipsius imita tionem quandam effe: CRAT.Maxime omniū. So c. Et picturas
alio quodam modo re rumquarundam imitationes: CRAT. Certe.so c. Ageuero, force'ego
quid dicas, non fa tis intelligo,tu autem forſitã recte loqueris.poffumus has
imitationes utraſą & picturas & nomina rebus his quarű imitationes
ſunt, attribuere,nec'ne: CRAT. Poſſumus. SOC. Adverte hocin primis,nunquid
poffit aliquisuiri imaginē uiro, &mulieri mulieris tri buere, & in
alijs eodem pacto: CRAT.Sic certe.soc.Num &contra,uiri imaginem mu
lieri,& mulieris uiro: CRAT. Ethoc. soc. An utræquediſtributioneshuiuſmo directæ
sunt: uelpotiusaltera,quæ cuiæ proprium fimileg attribuit: CRAT.Mihi quidem
uide tur.SOC.Ne igitur ego actu cum ſimusamici, in uerbis pugnemus, aduerte
quod dico. Talemego diſtributionem in imitationibus utriſqz tam nominibuső
picturis rectã uo co. & in nominibus nõrectam modo, fedueram. Alteramuero
diſsimilisipſius tributio nem illationem non rectam,& in nominibus præterea
falſam. CRAT. Atuide ô Socra tes,nefortè in picturis duntaxat id contingere
poſſit,ut quis male diſpertiat, in nomini bus autem minime,fed neceſſariū ſit
recte femper adſcribere.soc.Quid ais: quo ab illo hoc differt: Nonefieri poteſt
ut cuipiam uiro quis obuius dicat,hæctua figuraeſt, oſten datók illi forte'uiri
illius figuram, forte'etiã mulieris: Oftendere,inquam,ſenſibus oculo rum
offerre. CRAT.Certe.soc.Nónneiterum ut eidem factus obuiam dicat, nomen id tuum
est. Imitatio quippe aliqua nomen est, quemadmodũ & figura. Dico
autéita.Nón ne licebit illi dicere,nomen hoctuum eft: deinde in aurē idem
infundere,fortè'eius imi tationem dicendo quod uir eſt,forte' uero fæminæ
cuiuſdã generis humani imitationē, dicendo quod mulier: Non uidetur tibihoc
aliquãdo fieripoffe: CRAT.Concedere ti bi uolo, o Socrates, licefto.soc. Recte
facis amice.acſi id ita fe habet, controuerſia iam tolletur. Porrò si in his
huius modi quædã partitio fit, alterâ uereloqui,alterữloqui falſa uocamus.Si
hocaccidit, & poſſumus non recte nomina diſtribuere, & quænon propria
funt cuic reddere,fimiliter in uerbis aberrare licebit.Sinautem uerba nominağ
ita con gerere datur, necesse est et orationes similiter. Oratio
quippe,utarbitror, eſt uerborum &nominum cõpoſitio. Quid ad iſta Cratyle:
CRAT. Quod & tu.probe namg loqui ui deris.soc. Quinetiã si prima nomina ad
literas ipſas quadã imitatione referimus, cótin. gere poteſt in his quemadmodã
in picturis,in quibusaccidit ut congruas omnes figuras coloresg;
adhibeamus.Item (ut non omnes,fed partim ſuperaddamus,partim ſubtraha mus,plura
& pauciora exhibeamus. Nõne fieri hoc potest? CRAT. Proculdubio.so..
Quicóuenientia oſia tribuit,pulchras literas & imagines reddit. Quiuero
addit,uel au fert,liceras quidem ac imagines &ipſe facit, fedmalas,CRAT. Nempe.
soc. Qui autem per literas ac syllabas rerum eſſentiam imitatur,nónne eadem
ratione fi comperētia om nia tribuit,pulchram imaginem efficit: Idautem nomen
exiſtic.finautem in paucás defi, ciatuelexcedat,imago quidem efficietur, sed
non pulchra: Quamobrem nomina quæ. dam beneinſtituta erunt, quædam contra.CRAT.
Forte. soc.Forſican ergo nominum hicbonus erit artifex,illemalus.CRAT.Profecto.soc.Nónne
huic nomen erat nomi numcõditor: CRAT.Plane.so c.Erititag in hocquemadmodū in
cæteris artibus con. ditor nominum bonus unus,alius uero non bonus,limodo
fuperiora illa inter noscon ftant. CRAT. Vera hæc funt. Verum cernis ô
Socrates, quotiens has literas « & B & quoduis elementorű nominibus per
artē grammaticamattribuimus, ſiquid auferimus, ueladdimus, uel etiam
permutamus, quod nomen quidem ſcribimus;non tamen recte, imò uero id nullo modo
fcribimus,quin potius ſtatim aliud quiddã eſt, cũ primum horű aliquid
patitur.soc.Videndű Cratyle,ne force'minusrecte hoc pacto conſideremus. CRAT.
Quo pacto:so c. Fortaſſis quæcune aliquo ex numero conſtare uel non cõsta
reneceſſe eſt, id quod ais perpetiuntur, quemadmodūdecem, autquiuis alius
numerus. Nam quilibet numerus quocûç additouel ablato, alius ſtatim efficitur.
Fortè uero qua litatis cuiuslibet & imaginis haud eadēratio eſt, ſed
diuerſa. Neg enim omnia imago ba bere debet quæcũą illud cuius imago eſt, li
modoeſt imago futura. Animaduerte num aliquid dicam. Anduoquædam
hęcerunt,Cratylus uidelicet, & ipfius imago, ſiquis deo rum nõmodo colorem
tuum figuramß expreſſerit,ut pictores ſolent,ſed interiora quò que omnia
fimilia tuis effecerit,mollitiem eandem, caloremý, motum,animā, fapientiā;
&ut breui complectar,talia prorſus effinxerit omnia,qualia tibiinſunt:
Varum, inquá, alterum iſtorum Cratylus erit,alterum Cratyli ipsius
imago:AnCratyli potius gemini: CRAT.Cratyli ô Socrates, ut arbitror, duo.soc.Cernis
amicealiam imaginis rationem eſſe quærendam, quàmillorum quæ paulo ante diximus
ne cogendum effe liquiduel additum,uelablatum fuerit,ut non ampliusſit imago
Annonſentis quantã deeſt ima ginibus, ut eadem habeantquæ & illa quorû
imagines sunt: CRAT. Equidem.soc.Ri. diculum aliquid Cratyle exnominibus
contingeret his quorum nomina ſunt, fi prorfus illis fimilia redderentur.Gemina
quippe omniafierent, neutrumą illorūutrum effetpo tius dici poffet,res'ne ipſa
annomen. CRAT. Vera loqueris. soc. Ingenueitaqz fatearis o uirgeneroſe,nominum
aliud bene,aliud contra pofitum effe:nec cogas omnes literas continere,adeò ut
penitus tale fit, quale & id cuius eft nomen:ſed mitte literá quoq mi nus
congruam afferri quãdoq:ſi literam, &nomen ſimiliter in ſermone: ſi in
fermoneno men,ſermonem inſuper nequaq connenientem rebus tribui, et rem ipsam
nihilominus nominari diciç,quoad rei ipſiuscuius fermo eft figura,inſit:
quemadmodü in elemento rum nominibus quæ nuper ego &Hermogenes
comemorauimus,lirecordaris. CRAT. Recordor equidem,soc. Benehercle igitur
quandocung hocinerit, quamvis non om nia conuenientia prorſus adſint,
dicetur.bene quidem, cum omnia:male uero, cum pau ca.Diciitap ô
beate,mittamus,nequemadmodû qui in Aegina noctu circumuagãtur, fero iter
peragūt, ita &nos hoc pacto ad res ipfas reuera ſerius quàm deceat,
perueniſſe uideamur,uelfalutem aliam quandã exquiras rectam nominis rationem,nec
confitea. ris declarationem rei literis ac fyllabis facta,nomen effe.Porrò ſi
ambo hæc dixeris, tibi ipfe conſtare &conſentire non poteris. CRAT.
Viderismihi probeloqui ô Socrates.at que ita pono.soc. Poſtquam de his
conſentimus, quod reſtat diſcutiamus.Si bene no men poſitum eſſe debet,oportere
diximus literas fibi cõuenientes ineſſe. CRAT. Plane. soc.Conuenit autem ut
literæ rerum fimiles inſint. CRAT. Omnino. soc. Quæigi tur recte ſunt poſica
ita pofita ſunt.Siquid autem non recte poſitum eſt ut plurimum qui demex
conuenientibus ſimilibusý literis conſtat, fi quidem imago eſt.habet auté &
ali quidnon conueniens,propterquod non rectâ eſt,nerecte nomen eſt
inſtitutű,Sic'ne an aliter dicimus:"CRAT.Nihileft ô Socrates, ut arbitror,
contendendã: neq enim mihi placet,utņomen quidem eſſe dicatur,non tamērecte
poſitű. soc.Vtrum hoc tibi non placet, quod noměreiipfius declaratio lit:CRAT. Placet.soc.At
vero nomina partim ex primis constituta esse, partim esse primanon probedictâ
putas:CRAT.Probe.soo Enimuero prima ſi quorundā declaraciones effe debent,
habes'ne modû commodiore quo id fiat, qa li talia fiát,qualia illa funt quæ
declarari volumus:Anmodus iſte pocius ei bipla. i biplacet,qué Hermogenesalijý plurimi
tradunt,quòd uidelicet nomina conuentiones quædam lint ijs qui ita
coſtituerunt,acresipfa præcognouere,aliquid referentes:rectas nominis ratio in
cõuentioneconſiſtat,nec interſit utrum quis ita utnunc ftatutű eſt de cernat,
an contra:ut uideliceto, quod nunc o paruũuocatur, o magnum cognominetur, wuero
quodmodow magnum, w paruum dicatur: Vter iftorum magis tibimodus pla cer: CRAT.
Pręſtatomninoô Socrates,fimilitudine referre quod quis oftendere uult, quouis
alio. soc. Scice loqueris. Nõneli nomen rei ſimile eſt,neceſſe eſt elemēra ex
qui bus prima nomina cõponuntur,natura ipſa rebus eſſe fimilia: Sic autem dico:
an aliquis quandox picturā iz ſupra diximus,rei cuiuſquã ſimilem
effinxiſſet,niſi colores ipfi qui bus cõſtatimago, efTentnatura reiillius
ſimiles quam pictoris ſtudium mitatur: Anno impoſſibile: CRAT.Impoſſibile
plane. soc. Eadem rationenomina ipſanun alicuius fimilia fierent,niſi illa
quibus nomina cõponuntur, limilitudinem aliquam haberent ea rum rerű, quarum
nomina imitationes ſunt. Ea vero quibus conſtant nomina, elemen ta funt. CRAT. Sane.
soc. lam tu ſermonis eiuseſto particeps,cuiusnuperHermoge nes.An
rectediceretibi uili ſumus, quod ipſum plationi,motui,aſperitati congruit?
CRAT.Rectemihi quidem.soc.Ipfum aūta leni & molli, accæteris quæ
narrauimus: CRAT. Profecto.so c.Scis'ne quod idem,id eſt aſperitasipſa nobis
quidē oxigpótys uo icatur, Eretrienſibus uero oxi spóryg: CRAT.Vting.soc. Vtrữambo
hæclp& o, eidem fimilia uidentur,idemg oſtendűc tam illis per ipliuse
determinacionē,quam nobis pero nouiſſimű,uel alteris noſtrum nihil referunt:
CRAT. Vtriſą plane demonſtrant. soc. Vtrum quatenus fimilia ſuntp & o,uel
quatenus diſſimilia: CRAT. Quatenus fimilia. soc. Nunquid penitus ſimilia
ſunt,ad lacionē æque ſignificandā: quin & ipſum a inie ctum,cur non
contrariū aſperitatis ipſius SIGNIFICAT. CRAT. Forte'non recte iniectữeſt ô
Socrates, quamadmodūea quæ tu in ſuperioribus cum Hermogenehoc tractabas,dum
&auferebas &inferebas literas ubimaximeoportebat. Acrecte mihi facere
uidebaris. &nunc forte pro 1, s apponendű eſt.so.Probeloqueris. Quid uero
nuncuc loqui nihil percipimus inuicé, quando quis orangón pronunciat: nec tu
quidnuncego dicã, intelligis: CRAT.Intelligo equidem propter conſuetudiné. soc.
Ouir lepidiſſime, cum confuetudinem dicis, quid aliud præter conuentionem
dicere putas. An aliud conſuetu dinem uocas, quàm quodego cum id
pronuncio,illud cogito,eu quoc quod ipſe cogítē percipis: Nonhocdicis: CRAT.
Hoc ipsum. soc. S; id mepronunciante cognoscis, per mne tibi fit declaratio,ex
diſſimili uidelicet eius quod ipſe cogitans profero: quãdoquide ipſum,
diſſimile eft eius quo tu ordygótym, id eſt aſperitatem úocas. Si hoc ita ſe
habet, profecto ipfe ad id teipfum aſſuefacis, & ex hac CONVENTIONE rectam
tibi nominis ratio nem proponis,poſtộ tibi idem tã diſſimiles of ſimiles literæ
repræſentãt propter ipfum conſuetudinis & conuentionis acceſſum. Sin autem CONSUETUDO
CONVENTIO MINIME SIT. Haudadhuc recte dici poterit ſimilitudinē eſſe
declarationem, imò cõſuetudinem dicere oportebar. Siquidē ex ſimilitudine &
diſſimilitudine conſuetudo declarat, Hisaricco ceffis,ô Cratyle nempe ſilentiñ
tuum pro cõceſſioneponam) neceſſe eſt conſuetudině cca aliquid CONVENTIONEM ģconcere,
conferreġ ad eorû quæ ſentimus & loquimur expreſſio nem.Nam ſi uelis,optime
uir,ad numerorũ conſiderationem defcendere, quo pactoſpe ras, adeò propria
reperturű te nomina ut ſingulis numeris ſimile nomen attribuas, ſi no
permiſeris cõcefſionem tuam, CONVENTIONEM AVCTORITATE aliquam circa nominū
rationem habere. Mihi quidē et illud placet,ur nomina quoad fieri poteſt, rebus
fimilia ſinta Coc Vereor tamen neforte, utdicebatHermogenes, tenuis
quodãmodoſic iſtius ſimilitudi nis uſurpatio, cogamurg & oneroſa hacre,
CONVENTIONE uidelicet uti, ad recta nominum rationem:quoniã tunc forte pro
uiribus optime diceretur,cum uel omnino,uel maxima ex parte ſimilibus,id eſt
cõuenientibus diceremus, turpiſſime uero cữ contrà. Hocautē poft hæc inſuper
mihi dicas: quã nobis uim habētnomina, quid'ue pulchrâ perhec effi. cinobis
afferimus. CRAT. Doceremihi quidē nomina uident,ô Socrates, idý fimplicia ter
aſſerendű, quòd quiſquis nomina ſcit, & res itidē ſciat.so. Forte ô
Cratyle,tale quid cuc dam dicis, q cũnouerit aliquisquale ſitnomē,eſt aūt tale
qualis &res exiſtit, rem quoq ipſam agnoſcet, quandoquidē nominis eft res
ſimilis. Arsaūtuna eadem eſt omniüin cor ter ſe ſimiliū. Hac ratione inductus dixiſſe
uideris; quod quiſquis nomina cognoſcit, res ecc quoghi quoq ipfas agnoſcet. cRAT.
Veraloqueris. soc.Age,uideamus quismodus docenda rum rerum iſte ſit,quem
ipſenuncdicis, & utrum alius prætereaſit,hic tamen potior ha beatur, uel
alius præcerhuncnullus. utrum iſtorum pocius arbitraris: CRAT. Hoccerte, quòd
nullusuidelicet alius ſit,fed hic folus & optimus.soc.Vtrum uero &
resipſas ita reperiri cēſes, ut quicung nomina reperit, ea quoq quorum nomina
ſunt,inueniat: An quærendum potiusalium modum quendā,hunco diſcendű. CRAT.Maxime
omniale cundum iſta huncipfum & quærendű & inueniendum. soc.Age,ita
conſideremus, ô Cratyle: ſiquis dum res inueſtigat, nominaipſa ſequitur, rimatur;
quale unãquodą uule elle,uides maximum decepcionis pericula ſubit:CRAT. Quo
pacto: soc.Quoniam qui principio nomina poſuit, quales effe resopinatus est,
talia quoq nomina,ut diceba mus, effinxit.Nonne itar CRAT.Ita prorſus.
Soc.Siergo illenõrecteſenlit, & ut ſenlie inſtituit,nõne & nos
fequentes eius ueftigia deceptos iri exiſtimasť CRAT.Haud ita elt imòneceffe
ſciencem fuiffe illum quinomina poſuit.Aliter autem, ut iamdudâdicebam, nomina
nequaſ effent. Euidentiſlimo autem argumento id eſſe tibipoteſt, haudà ueri
tate aberrauiffe nominum autorē,quòd ſimale ſenſiſſet, nequaq libiita omnia
conſona. rent.An non aduertiſti & ipfe, cum diceresomnia in idem tendere
'soc.Nihil ifta obo. ne Cratyle,ualet defenſio. Quid enim mirum eft, li
primodeceptus nominâ institutor, se quentia rurſusad primum ui quadã
traxit,& ipfi conſonare coegit:Quemadmodücirca figuras interdűexiguo quodam
primo ignoto falſof exiſtente, reliqua deinceps multa Circa prin, inuicem
conſonant. Debetenim quiſo circa rei cuiuſ principium ſtatuendű differere »
cipium ſta, multa,diligentiſſime conliderare,utrum recte decernat,nec ne. quo
quidem fufficiens tuendă diſ ter examinato,cætera iam principium fequidebent, Miror
tamen,fi nomina libímet con i ſereremulta gruunt. Conſideremus iterum quæ ſupra
retulimus. diximus profecto ita nomina effen. oportet tiam ſignificare
qualiomnia currat,ferant & defluant. Ita'nelignificare cenſes? CRAT. Ita
certe. & recte quidē. soc. Videamusitaqs ex illis aliqua repetentes.
Principio nom hocwrshug,id eſt ſcientia ambiguum eſt,magis a SIGNIFICARE uidetur,
quod istory,ideft fiftit in rebus animam, ĝ quod cum rebus pariter
circumfertur:rectiusos eſſe uidetur, ut principium eiusutnuncüdishulu dicamus,
per e ipſius eiectionem, & pro 4, 5 potius adijciamus. Deinde Bébajok, id
eſt firmum dicitur, quoniam badoows & scotas, ideft firmamenti, et status
potius quam lationis est imitation. Præterea igoelæ ad forte ſignifi cat quod
isgor t powi, id eft ſiſtit fluxum, & ipſum nisov,id eſt credendum, isaw,
id eſtfira mare omnino ſignificat.Quinetiã uykusid eſtmemoria,oftendit prorſus
quod in anima nõagitatio eft,fedpovni,id eft quies,ſtabilise permanſio.
Atquifiquis nomina ipſaobler ueta écueapariæ & ovuqoça,id eft error &
cótingentia caſus,idem uidebuntinferre,quod owens & ufiskur, id est
intelligentia at scientia, & cætera nomina quæ præclarisſunt rebus
impoſita.ltem cualíc & cronacíc, id eſt inſcitia & intêperantia,proxima
hisui dentur.icuclic quidē importareuidetur,&cket demi loves aegear, id est
simul cum deo eun tis progreſſum. cronæriæ uero omnino quandam ipfarum rerum
arodubiav,id eft perſe. cutionem atq cogreffum.At ita quæ rerum turpiſſimarű
nominaeffe putamus,nomi num illorû quę circa pulcherrimaſunt,
ſimillimauidebuntur.Arbitror & aliamultare periri poffe,fiquis ad hæc
incumbat, ex quibus iterum iudicabit nominữautorêno cur rentes delataso res,imò
ftabiles indicare. CRAT.Verūtamen multa o Socrates ſecundi agitationis SIGNIFICATIONEM
uides illum conſtituiffe. soc. Quid agemusô Cratyle: Nun quid fuffragiorû
calculorum inſtarnomina ipſa dinumerabimus: at ad hancnormă derecta ratione
nominū iudicabimus,ut ea tandem uera ſint,quibus significationes plu rium
nominum fuffragantur: CRAT.Haud decet. soc. Non certe amice. Sed his iam
omiſſis,redeamus illuc unde digreffifumus. Dixiſtinuper, firecordaris, neceffariñelle,
illűquinomina ſtatuit, prænouille ea quibus nomina tribuebat:perſtasadhuc in
ſenten tia,nec'ne'CRAT. Adhuc.so c.Nunquid & illum quiprimanominapoſuit, nouiſicais
dum poneret: CRAT. Nouiſſe.soc.Quibusex nominibus resueldidicerat,uel invene
rat, quando necdâ primanomina fuerāt inftitutar cum dicta ſit impossibile esse
resuelig vuenire, uel diſcere,niſi qualia nominaſint, didicerimus, uelipfinosinuenerimus.
CRAT: Videris mihinonnihil ô Socrates, dicere. soc. Quo igitur PACTO dicemus
eos ſcientes, nomina poſgillexuellegum et nominü conditores ante POSITIONEM cuiuslibet
nominis extitille extitiffe, eosý res antea cognouiffe, fiquidem nõ aliter quam
ex nominibus diſcires por finer"CRAT. Reor equidem Socratesueriſsimum eum
effe fermonem quo diciturex.co cellentiorem quandam potentiam quam humanam
primarebus nomina præbuiffe, quo neceffarium lit ut recte fuerint diſtributa.
soc. Nunquid putas cótraria libijpfipofuif-cc ſe nominum autorē li dæmõ aliquis
ueldeusextitit: an nihiltibi fupra dixiffe uidemur: CRAT.Forte'nondum alterum
iftorum nomina erant. soc. Vtraigitur erantuir opti me; num quæ ad ftatum
uerguntian quæ ad motum potius Neq enim, utmodo dixi
mus,multitudineiudicabitur. CRAT.Sic decet Socrates.soc.Cum itaque diſſentiant
contendanto de ueritate inuicem nomina, & tam hæcquàm illa uero
propinquiora effe feafferant,cuiusadnormam dijudicabimus.Quò nos uertemus: Nec
enimad alia no mina confugiemus, quia præterhæcnulla. Verum alia quædam præter
nomina quæren da funt,quæ nobis oftendantabſque nominibus, utra iſtorum uera
ſint, rerum uidelicet monſtrantia ueritatem. CRAT.Itamihiuidetur.soc.Si hæc
uera ſunt Cratyle, pof ſunt,utuidetur,
res line nominibus percipi. CROT. Apparet. soc. Per quid potiſsi mum aliud
fperas res ipfas percipere: Nónne per quod conſentaneum ac decenseft: pet
mutuam illarum communionem, fcilicet fiquomodo inuicem cognatæ sunt, &
perse ipsas maxime. Quod enim aliud eft ab illis, aliud quiddam non illas significat.
CRAT. Vera loquiuideris. soc. Dicobſecro nonne iam fæpe conceſsimus,nomina quæ
recte pofita funt, fimilia illorum eſſe quorum ſuntnomina,rerão imagineseffe:
CRAT. Con ceſsimus planè.soc.Si ergo licet res per nomina diſcere, acetiam per
ſeipfas, quæ præ ftantior erit lucidiorý perceptio:Num si ex imagine cogitetur
et imago ipſa utrum re cteexpreſſa fit, & ueritas cuiushæc eftimago:
Anpotiusfi ex ueritate tam ueritas ipſa. quàmipſius imago, nunquid decenter
imago ad eam fueritinſtitucar CRAT. Siexueri tate.soc. Qua ratione res vel per
doctrinam vel per inventione comprehendendęſint; iudicare, maioris quàm meum ac
tuūſit, ingenñ opus esse uidetur. Sufficiat autem nunc internos conftitiffe
quod non ex nominibus,immoex ſe ipſis potiusdifcendæ quæren dæg ſunt. ERAT. Sicapparet
ô Socrates. soc. Animaduertamus & hocpræterea,në mulra hæcnomina in idem
tendentia nosdecipiant, cũ quiilla impofuerunt, currere om nia semper
flueresputauerint,ato ea cõſideratione poluerint:uidenturnempemihiita
exiftimaffe:quorû camēopinio fi talis extitit,falſahabêda eſt.profecto
illiuelut in quan dam delapfi uertiginem, & ipfi uacillant iactanturcs,
& nosin eadem rapientes immer gunt. Cõlidera uir mirifice Cratyle quod ego
sæpenumero fomnio, utrum dicendû est: esse aliquid ipſum pulchrum ac bonum,&
unum quodas exiſtentium ita,nec ne.CRAT. Mihiquidem ô Socrates eſſe uidetur.so
c.Illud igitur ipſum cõſideremus, non ſi uul cus quidam aut aliquid taliú
pulchrum eſt, quippe hæc omnia fluunt:ſed ipſum pulchrữ dicimus, nonne ſemper
tale quale eſt perfeuerat: CRAT. Neceſſe eſt.soc. Nunquid possibile eft ipſum
recte denominare si ſemper fubterfugit, acprimo quid illud fic dein de quale
ſit dicereruelneceſſariû eſt,dum loquimur aliudipſum ftatim fieri,iugitero dif
fugere,nec tale amplius eſſe: CRAT. Neceflarium.soc. Quo pacto aliquid illud
erit, quod nunquam eodem modo ſe habet: Sienim quandoq eodem modo fe habet, eo
in tempore minime permutatur:fin autem ſemper eodémodo ſe habet;idemg exiſtit,
quo modo tranfituelmouetur, cum ideam ſuam non deferat: CRAT. Nullo pacto: so
ca Præterea ànullo cognosceretur. dum enim cognitura uis ipsum aggrederetur,
aliud alie numosfieret.quare quid ſit aut quale cognoſcinõpoffet.nam
cognitionulla ita réper cipit, utnullo modo fe habentem percipiat. CRAT. Eft ut
ais.soc. Sed ne cognitio nem ipfam effe affirmandẫeſt ô Cratyle ſi
deciduntomnia,nihilg permanet.Sienim co gnitio ex eo quod cognitio eſtnon
decidit, permanebit semper, ac ſemper eritcognitio irautem cognitionis
ſpeciesipſa diſcedit,ſimul & in aliam cognitionis fpeciem delabe tur,neæ
cognitio erit.Quod fi perpetuomigrat, ſempernon erit cognitio. Aro hacra.
tionenew quod.cogniturum eſt,nec quod cognoſcen lum,ſemper erit. Sinautem fem
per eſt quod cognoſcit,eft quod cognoſcitur,eft pulchrű,eft & bonum, eſtý
deniq exi. Itențium unűquod & quæ in præſentia dicimus,fluxus lationis
ſimilia non uidentur.Vtrum uero hæcita ſint,an ut dicebantHeraclitiſectatores,
alijg permulti,haud facile di ſcerni poteſt.Nec hominis ſanæmentis eft feipfum
animumg luū nominibuscredere; & autorem nominum sapientem asseverare, atqz
ita de ſeipſo rebus omnibus maleſen 9 ) tire,ut pPomba nihil integrum firmumą
exiftere,ied omnia uelutfictilia fluere atg conci. v dere, &quemadmodum
homines deſtillationibus capitisęgrotantes,fimiliter quoqres w ipsas affici
iudicet, adeo ut deſtillatione et fluxu omnia comprehendantur. Forteộ Cratyle
ita eſt,forteetiã aliter:forti animo &diligenti ſtudio inueftiganda res
eſt.neqením fácile aſſentiendum.Iuuenis adhuces, arque tibi fufficitætas. Et
liquid inveneris inda gando, mihi quog impartiri debes. CRAT. Nauabo operam
Socrates. Ac certe {cito meetiam in præfentia non torpere,immocogitāti mihi et multa
animo reuoluenti mul tomagis ita ut dicebas ipse, quam ut Heraclitus,res ſeſe
habere uidentur.soc.Dein ceps amice poftquam redieris me docero. Nuncautemut
conſtituiſti in agrum perge. Atqui & Hermogenes hicte comitabitur. CRAT. Fietutmones
Socrates.Verum tu quoque iam de his cogita. IL CRATILO -- DELLA.
RETTA INVENZIONE DE' NOMI. ERMOGENE -- CRATILO – SOCRATE. A vuoi tu ancora, che
noi communichiamo il parlar nostro con Socrate? c*. — Se il pare a te.
ehm. O Socrate, Cratilo dice, che ai ritrova in qualunque degli enti per
natura la retta invenzione del nome, nè aia nome quello, onde convenendo
alcuni il chia- mavano, mentre proferiscono certa particella della
sua Toce: ma sia naturalmente certa retta invenzione di nomi la
medesima in tutti e Greci e Barbari. Sicché io Io addimando se daddovero
sia Cratilo il nome di lui, o nò: ma egli confessa esser questo il suo
nome. Or Scrate dissi io, qual nome tiene egli? di Socrate disse: non
hanno tutti quel nome, col quale chiunque il chiama da noi: nondimeno
disse egli uon è il tuo nome Ermogene, nè se ancora tutti gli uomini ti CHIAMASSERO
cosi. E mentre io lo addimando, e desidero sapere, che cosa dica, non mi
dichiara affatto niente: ma beffandomi, simula di aver nell’ animo
alcuna cosa, come egli intenda non so che d’intorno a questo, i! che
se volesse esprimer niartifVstnmfcnte, farebbe che io confessassi, e
dicessi lo stesse, che egli si dice. Laonde udirci da te volentieri, se in
qualche maniera tu potessi congetturare il vaticìnio di Cratilo. Anzi
udirei molto volentieri la tua opiuione intorno alla RETTA INVENZIONE DE
NOMI, se ti fosse in grado, soc. — 0 Ermogene, figliuol di Jponico, è proverbio
vecchio, che sia malagevole da conoscer in qual guisa se ne stiano
le cose belle. Or la notizia de’ nomi non è picciola disciplina. In vero
se io avessi udito già molto tempo da Prodico quella ostentazione di
cinquanta dramme, nella cui dottrina ancora era questo, come egli
ne rende testimonianza; niuno impedimento sarebbe, che tu non
conoscessi incontinente la verità intorno alla retta invenzione de’ nomi.
Ma ora io non I’ . ho udita ma si ben quella d’ una. dramma. Per la quale
cosa; non sò quello che d’ intorno a queslavi sia di vero: ma sono
prrsio ad investigar, inlteoie. con essd.tecoj.èfcon Cratilo. In quanto
poi dice, else tu non abbia' versi mente nome Ermogene, io sospetto, che
egli motteggì; perchè egli forse pensa, che tu sia -desideroso del- lo
acquisto de’ danari, e impoleule.seinjpre ad otieuer- li: ma come ho
detto poco, f», egli è difficile, «Ite ciò si conosca. Or fa misticri, da
tutte due le porli spoetando iu meszo le ragioni, che si investighi se sia
cosi, come tu di o piuttosto come dice Cratilo. e»m.— E pur o
Socrate, tuttoché spesso io abbia disputato già contostai, con altri molti
tuttavia non ancora mi posso persuaderò, che altra ai.» la rotta invenzione del
no- me, phe lo assenso, e il consentimento; perciocché a me pare,
clic quel sia nome retto, il quale impone chiunque a ciascheduno, e se di
nuovo il mutasse, e altro ne ponesse, non meno del primiero quello,
che Si trasportasse sarebbe nome retto, come siamo noi soliti di
cambiare i nomi a servi, non vi essendo per jialura a ninna cosa il nome!
ma per legge, e secon- do la usanza di coloro, che furono soliti cosi
chia- marli. Il che se sia. altrimenti, io sono apparecchiate .ad
impararlo, o adirlo non solamente da Cratilo; ma da qualunque altro, soc.
O Ermogene peravvepto- ra tu dì alcuna cosa: ma consideriamola. Quello
che porrà alcuno, con cui chiama qualunque cosa, sarà egli, il nome
di ciascuna cosa? ehm. A me pare, soc. O se il privato, o la città
il dicesse? uh. Lo assentisco. soc. Ma che, se io chiamassi qua- lunque
degli enti, come per esempio, se quello, che al presente chiamiamo uomo,
chiamassi cavallo, e uo- mo quel, che cavallo: pubicamente sarà egli il
nome all' uomo, privatamente cavallo; e di nuovo privata- mente
uomo, cavai lo puiilicnmenle Parli così tu? erm. — Tosi mi pare. soc. —
Or mi dì questo. Chiami tu alcuna cosa il dir il vero, e il Tabu? erm.—
In vero sì. soc. — Non lia quella vera orazione: ma quest* orazione
falsa? erm. Così affatto, soc.— Quei par- lar poi, che die* le cose, che
sono quali son esse ai » ìli h rero: ma
falso quello, che non come sono? n», — Cosi è. soc. — Adiviene egli
questo, che col par- lare si dicano le cose, che sono, e che non
so- no? ehm. — Si. soc. Il parlar che è vero mi di, se è vero
tutto, non vere le parti? ehm.— Nò: ma le parti ancora, soc. -- Dimmi, le
parti grandi saranno vere: ma le picciole nò, oppur tutte? exm. — Io
mi stimo tutte, soc* Puoi tu dire altra parte piu pic- ciola del
sermone, che il nome? erm In modo nin- no, essendo questa la minima
parte, soc.— .Ed an- cora si dice egli peravventura il nome parte della
ve- ra orazione? erm. - Senza dubbio, soc.— Veramente parte vera,
come è, tu di. erm.— Veramente, soc.— E la parte del falso, non è
ella falsa? erm. — Lo dico si. soc- — Dunque è lecito dir nome vero, e
no- me falso, se si dice ancora la orazione. erm. — In che modo nò?
soc. — Dunque quel nome, che chiun- que dirà, che in alcun si ritrovi,
sarà egli il nome di ciascheduno? erm — Si. soc.— Peravventura
quanti nomi dice alcun, che abbia chiunque, tanti saranno essi? e
allora, quando egli li dice? erm, —Per certo, o Sncrate: io non ho
alcuna retta invenzione di no- / t me, fuor che questa,
in modo, che non sia lecito a « me con altro nome chiamar la cosa, che
con quello, che io ho imposto, nè a te con altro, che con quello,
elle le imponesti. Cosi per certo io veggo nella città, * che si hanno
alcuni propri nomi delle medesime co- se, e fra Greci in verso ad altri
Greci, « in verso a i Barbari, «oc. — Or rediamo o
Ermogene, se pare a te, che gli enti se ne stiano in questo modo; che
ognun di loro tenga la propria essenza, come diceva Prota- gora,
dicendo egli esser 1’ uomo misura di tutte le cose in modo, che quali qualunque
cose mi paiono, tali io le abbia; similmente quali tu, e tali le ti abbi;
o pensi piuttosto che siano alcune cose, le quali tenga- no alcuna
fermezza della sua essenza, eem. — Alcuna volta, o Socrate, dubitando
sono condotto a quello, che dice Protagora: per tanto non mi persuado a
ba- stanza, che se ne stia egli cosi. soc. — Ma che? set tu ancora
alcuna volta condotto a questo, che non li paia in modo niuno, che alcun
nomo sia cattivo? erm. — Per Giove nò; anzi spesse volte cosi sono
disposto, che io stimo, che alcuni uomini siano al tutto catti- vi,
e molti, soc. —Ma che? non ti è parso ancora, che siano molti uomini
buoni? erm. — Molto pochi, soc. — Nondimeno pare a te vero? erm. — A me
si. soc. — In che modo poni tu questo? forse cosi, che i molto
buoni siano molto prudenti, e i rei al lutto molto imprudenti? ebm. — In
vero a me pare cosi, soc. — Se Protagora diceva il vero, e se ò questa
la ventò, che quali qualunque cose pareranno a ciasche- duno, tali
siano; è egli possibile, che altri di noi sia- no prudenti, altri
imprudenti? ebm. —Per certo nò. soc. — E come io penso ti pare ad ogni
modo che Protagora non possa al tutto parlar il vero, essendovi
«erta prudenza, e imprudenza, perciocché non sarebbe veramente l’uno dell’
altro piò prudente, se le cose, che paiono a chiunque, le tenesse
ciascheduno per vere. IBM -Cosi è. Ma nè ed Eutidemo ' assenti-
sci, come io penso, che dice, che tutti abbiamo tutte le cose similmente,
e sempre, perchè cosi' non smeldio. no altri buoni, nitri cattivi, se
sempre, e pariménte si ritrovasse in tulli e la virtù, e la malvagità!
ehm; —Tu palli il vero, soc.— Dunque se nè tutte le rose si
ritrovano sempre in tutti, e simiglmutcìiiente; uè qualunque cosa è propria
di ciascheduno, manifesto è, rise siano le cose quelle, che tengono in su
stesse certa essenza ferma, uè sono in quanto a noi tirate in
diverse parli, nò da noi con la imaginazione e in suso, o in giuso: ma
stabili secondo se stesse in quan- to alla loro essenza, come sono
'ordin. ite dalla natu- ra. uu. — Cosi ini è avviso, elio se ue stia
questo. *oc Dunque mi di, se le còse se ne stanno si per u«-.
torà, ma non nella stessa guisa lu loro azioni o eziandio esse
azioni sono una certa specie degli enti? esm. Ani cora esse ad ogni modo.
soc.— Dunque le azioni sa tonno secondo la natura loro, non secondo
la nostra opinione, come per esempio, se noi si mettessimo a
divider alcuno degli enti, forse sarebbe qualunque co- sa d» dividersi
ila noi come vorremmo, e coti che ci a„ gradissi.? o più tosto, se
volessimo partire quafuo/pio cosa secondo la natura, con cui fa mislieri
che S‘ I 1 al f lisca, e sia partita; parimente con cui secondo l«
tura ti dee fare il partiraento; invero la dividerei. *io« bene, e si
farebbe «la noi alcun profitto, e questo si operetébbe bene; ma se cóntro
la natura travieremmo nè si farebbe niente «la noi? erm Così mi
pare. soc. — E se ci mettessimo ancora àd ffhbrugiiir alcuna cosa:
non fa nilstieri, chieda sì ‘ablmigi secóndo Ogni opi- nione: ma sibbene
secondo la reità opinione/ Qué- sta è poi quella, onde qualunque cosa
naturdlòientc è atta ad abbrugiarsi,' é di abbruciare, e con cui
nai turalmente ne era atta, erm — Queste cose son vere, soc. — Non
si ritrova la stessa maniera d’intorno al- le altre cosi? ehm La medesima
sì. soc— Anco- ra il dire non è egli forse una certa delle azioni,
ehm. -r Certo si. soc. — Or dirà bene chi così dice, co- irne li
par di dire . 5 o piuttosto dii in colai guisa di- ce, come ricerca la
natura del dire, e che si dica? e- se eziandio dicesse con cui ricerca la
natura, in dicendo farebbe alcun profitto, altrimenti 1 .
travierebbe egli, nè farebbe nulla? ehm. —In vero io stimo co- sì,
cometa di. soc.- Dunque il nominar "è particella di dire; perciocché
nominando si fanno i‘ ragionamenti; erm Ad ogni modo. soc. — Dunque e il
nomina- re è 'certa azione, se ancora il dire era certa
azione; d' intorno alle cose? erm.-Così è. soc.— Or le azio- ni ci
par vero di non risguardar a noi: ma di tene.- ré certa propria lor
natura. ehm. - Così è. soc — Sicché è da nominarsi in quella guisa, onde
la natu- ra delle cose ricerca di nominate, e che si nomini, • con cui,
ma uon secondo lo arbitrio deWolcr no- ’ ì ) « (
atro, se ti ba a dire alcuna cosa concorde alle cosa dette. Ed in
colai guisa facessimo noi alcun guada» gno, e nominaressimo: ma
altrimenti nò? krm.— Co- sì mi pare. soc. — Or dimmi ciò, cbe era da ta-
gliarti, diciamo noi cbe era da tagliarsi con alcuna cosa? erm.— Con
alcuna si. soc. —E ciò, cbe si doveva tesser da tessersi con alcuna cosa?
e ciò, che era da forarsi, con alcuna cosa si dovea egli forare?
erm. — Al tutto. soc.—Sim il niente ciò, che nominar si dovea, era da
nominarsi con alcuna cosa? ibi*.— Si- soc. —Ma che era quello, con cui
f«cea mistieri, che alcuna cosa si forasse? erm. — La trivella?
soc. — Che è quello, con cui fa mistieri, che si tessa? erm. — La
navicella, soc. — E che con cui si nomi- ni? erm. —Il nome, soc.— Tu
parli bene. Dunque e il nome è certo stromento. ss**. — E’ si. soc.
— Dunque se io cercassi quale stromento è la navicella • o non
sarebbe d' esso quello, con cui si tesse? erm. Così è. soc. — Or
tessendo, che facciam noi? o non separiamo la trama, e gli stami confasi?
ehm.— Que- sto stesso, soc. — Or potrai tu dir così della trivel-
la, e delle altre cose? erm. —Lo stesso, soc. —Puoi • tu ancora dir
similmente d* intorno al nome ciò, che facciamo mentre col nome,
che è stromento, nominia- mo alcuna cosa? erm.— Nò il posso nò. soc.—
For se di compagnia insegniamo noi mente, c dividiamo le cose, come
sono? erm.— Per certo, soc. — Sicchò il nome è certo stromento di
insegnare, • divide» 1* sostanza, come !a navicella della testura erm. —
1 lassi a dire in colai guisa, soc — La navicella è ella stru-
mento acconcio al tesserei 1 ehm, — • In che modo nò. soc. — Per la qual
cosa il tessitore si vaierà bene della navicella, dice bene, secondo la
maniera del tessere: ma chi insegna, egli si vaierà del nome, e
bene, dico bene secondo la maniera propria dello insegnare, ehm.— Per
certo, soc.— Dell’ opra di quale artefice si vaierà bene il tessitore,
quando si vaierà della navicella? erm.— Di quella del legnaiuolo,
soc. — E egli chiunque legnaiuolo, o piuttosto chi tiene P arte?
erm. —Chi tiene l’arte, soc. — Similmente del- l’ opera di cui il
foratore si vaierebbe bene, quando si valesse della trivella? erm.— Del
maestro del me- tallo. soc. — E forse chiunque maestro di metallo?
o chi tiene l’arte? erm. — Chi tiene l’arte, soc. — ' Stiano le cose
cosi. Dell’opera di cui il dottor si vaie- rebbe, qualora si servisse del
nome? erm.— Nè ciò pos- so dire io. soc. —Ancora non puoi tu dir questo.
Chi ci dà i nomi, dei quali ci serviamo? erm. — Per certo nò, i soc. -
Non pare a tè peravventura, che la legge sia quella, che ci dà i nomi?
erm. — Appari- sce. soc.— Dunque il dottore si vaierà dell’ opra
del legislatore, quando del nome si vaierà, erm. - Io penso si.
soc.— Pare a te, che ognuno egualmente sia facilor di leggi, o chi è
dotato di arte, erm.— Il dotalo delP arte. soc. — Si che o
Erinngene non è. ufficio di qualunque uomo lo imporre i nomi; ma di
certo autor di nomi e costui è come apparisce ii legislatore, il quale
fra gli artefici si fa raro appresso agli uomini, ehm. » Apparisce, soc.—
Deh conside- ra, ove riguardando il legislatore impone i nomi, e *
considera dalle cose antedette ove riguardando il le- gnaiuolo fa la
navicella? non ad una cosa tale, che da natura sia al tesser acconcia?
ehm. — Al tutto, soc.— Ma che? se nell’ opera si rompesse la
navicella, mi di se fabbricherà egli un’ altra di nuovo alla somi-
glianza della rotta, o piuttosto alla specie risguarde* rà, secondo il
cui esempio avrà fatto la navicella,' che si ruppe? erm. — Alla
specie, come io stimo, soc. — Dunque chiameressimo noi meritamente la
spe- cie la navicella? erm. — Io penso si. soc. — Se fa mestieri
alcuna volta, che si apparecchi la navicella per fornir la veste, o
qualunque altra cosa di filo, e di lana sottile, o grossa, bisogno è, che
tutte le navicelle tengano la specie della navicella; e quale
naturalmente è a ciascheduna cosa accommodatissima, tale si usi al fornir
l’opera, come il ricerca la na- tura, erm. — Iti vero fa mislieri. soc. —
La medesi- ma ragione è d’ intorno agli altri stromenti concios-
siachè è da ritrovarsi quale stromento si confaccia per natura a
qualunque cosa, ed è da darsi a lei, con clii si fa ella, uon quale vuole
chi fabbricai ma quale è ella per natura. Perchè fa mistieri, come
ap- pare, che si sappia accommodar a qualunque cosa ciò, die
naturalmente acconcia al ferro, erm. — Cosi si. soc. — ‘Più- oltre nel
legno la navicella confacevole a ciascheduna. e*m. — Egli è vero. soe. —
Percioc- ché. secondo la ragione della natura altra navicella si
confà ad altra tela, e nell’ altre nella medesima guisa, ehm* — Veramente,
soc. —Fa mistieri ancora -ottimo uomo, che il posìlor dei nomi proferisca
un nome per natura acconcio nelle voci, e nelle silla- be a tutte
le cose, e riguardando a quello stesso di cui è nome, formi qualunque
nome, e gli attribui- sca, se daddovero dee esser positor proprio di
nomi. Che se non con le medesime sillabe qualunque po- citor di
nomi esprime il nome, fa mistieri, che noi sappiamo, che nè tutti i fabri
ciò fanno nel ferro per la stessa ragione; qualora fabricauo il medesimo
stro- xnento: ma nondimeno in quanto gli attribuiscono la stessa
idea, in tanto se ne sta egli bene, tutto che in altro e iu altro ferro;
o qui si fabrichi egli, o fra barbari non è egli cosi? ehm. -a. Si. soc.
— Dunque islimerai tu ancora nel medesimo modo finché il po- sitor
dei nomi, ebe è fra noi, e fra barbari concede una specie di nome
convenevole a qualunque cosa in qualunque sillaba, che 1’ uno dell’ altro
non sia punto peggiore nell’ imporrei nomi. ehm.— In vero si.
sqc. — Chi è per conoscer se sia impresso in qua- lunque legno una specie
convenevole di navicella? fpr&e il, legnaiuolo, che la fai o il
tessitore, che se ne dee servire? ehm. O Socrate, gli è verisimile,
die la conosca molto piu, chi se ne dee valere, soc. —
Dunque chi si servili dell’opera del Tacitar dell* lira? non colui Torse,
che benissimo saprà esser so* prastante alla cosa Tatta, e conoscerà
Tatta che sia, se sia Tatta bene o no? ehm. — Al tutto, soc. — Chif
hm. « Il citarista, soc. — Chi poi dell'Opera di co- loro, che Tanno le
navi? erm.— Il governatore, soc. — Chi eziandio benissimo sarà
soprastante all’opra del Tacitar delle leggi, e Tornita la giudicherà e
qui, e Tra barbari? non chi se ne dee servire? ehm.— Cosi è, soc,
*- O non è egli d* esso chi sa interro* gare? ehm. — Costui si. soc, — Il
medesimo che sa- prà risponder ancora? ehm. — Si certo, soc. — Or
chiami tu altro che dialettico chi sa interrogar, e rispondere? ehm. Non
altro; ma lui. soc. —Siche è Tattura di lignaiuolo il Tabbricar il timone
esscn* do soprastante il governatore, se è egli per dover esser
buono, ehm,— Apparisce, soc.— Ancora come è avviso, è opra di positor di
nomi il nome, cui è soprastante 1’ uomo dialettico, se sono per
doversi por bene i nomi. ERM.-*Que$te cose son vere. soc. —
Dunque, a Erraogene, corre rischio, che non Ha cosa lieve, come tu stimi,
il por dei nomi, nè Tat- tura d’ uomini bassi, e vulgari. Per certo
Cratilo par- la il vero, dicendo, che i nomi per natura siano nel-
le cose; nè sia chiunque autore di nomi: ma colui solamente che risguarda
al nome, che è in ognuno per natura, e sia possente di por la specie di
lui nelle lettere, e nelle sillabe, ehm. — O Socrate, io non so in
che modo sia da opporsi alle cose che tu di: ma peravventura non è cosa
agevole il per* «cadérsi cosi allo improviso: ma mi è avviso, che
io ti sarei piuttosto per ubidire in questo modo, se di- mostrassi
quale da te si dica, esser la retta natura del nome. soc. —In vero, o
beato Ermogene, non di- co alcuna: ma tu ti sei scordato di ciò, che io
di- ceva poco inuanzi, cioè, che io non la conosceva! ma, che io la
considererei insieme con esso teca. Al presente poi questo solamente si è
fatto chiaro oltre alle antedette a me, e a te di compagnia in-
vestigando, che Certa retta invenzione per natura tenga nome, nè chiunque
sappia adattar bene esso nome a qualunque cosa, non è egli così? rum. Grandemente,
soc— Dunque rimane da Considerarsi se tu desideri di conoscer quale sia
la retta invenzione del nome, ehm. — In vero la desidero sapere, soc. r-
Dunque cobsidcra. erM.— In che modo adun- que fa inistierì, che si
consideri? soc.^O umico rot- tissima. è la considerasione; ricercandosi
questo da coloro, che sanno con 1' offerir danari, e col il ren-
der loro grazie’ oppresso. Or d’essi sono i sofisti, coi quali Calia tuo
fratello pare, che sia riuscito sag- gio, pagati molti danari, ma poiché
non hai, che fare nella robba patema, rimane, che tu supplichevole
preghi il fratello, che ti insegni la retta invenzione di questétàll
cose, che Protagora egli imparò, erm. — O Socrate, quanta sconvenevole
sarebbe questa dimanda, se non prestando aiuto alla verità di Pro*
tagora amassi le cose, che si dicono con tal verità, quasi degne di
alcuna considerazione, toc. — Ma se a te non piacciono elle, si dee
imparar da Omero, e dagli altri poeti. erm. — O Socrate, e che è in
che luogo ne dice Omero dei nomi? soc. — Per tut- to molte cose: ma
grandissime e bellissime son quel- le, onde distingue d’intorno a quei
nomi, che in- troducono gli uomini, e i Dei, o non istimi tu, che
egli d’ intorno a questi dica alcuna cosa magnifica, e maravigliosa della
retta maniera dei nomi? essen- do manifesto, che i Dei chiamano
rettamente quei, che son nomi naturalmente, o no il pensi tu? ikm.
— In vero io so certo, se i Dei ne dicono alcuni, che essi lr~cbiamano
bene; ma quali di tu questi? soc. — O non sai tu ciò, che si dice del
fiume tro- iano, che con vulcano combatte a singoiar battaglia, il
quale i Dei chiamano santo, gli uomini Scaman- dro. ehm. — Il so. soc. —
Che dunque? non istimi tu certa cosa grave il conoscer in che modo sia
meglio, che si chiami quei fiume santo piuttosto, che Scarnan- do?
ma se vuoi considera questo, che il medesimo dice dell’ uccello, che i
Dei chiamano Calcidei ma gli uomini Cimindi. Tu stimi vii disciplina il
sapere quanto sia meglio, che si chiami il medesimo uccello
Calcide, che Cimindi, o Bracia, e Mirine, e molti al- tri tali, detti da
questo poeta, e da altrui? ma le. invenzioni di queste cose peravvenlura
superano le forze nostre. Cii cbe poi signifìchioo Scamandrio, e
Astiane si può comprender, come mi pare da inge- gno amano, e apprendersi
agevolmente qual retta in- venzione vuole Omero, che sia in questi nomi,
co* quali chiama il figliuolo di Ettore: perciocché tu cer- tamente
sai, ove si ritrovano questi versi, che io di- v co. a**. — Ad ogni
modo, soc, — Dimmi, pensi tu, che di questi nomi stimi Omero che
peravventura pili convenisse Astianate al fanciullo, che
Scamandrio? vrm. — Io no il posso dire. soc. — Or in colai mo- do
considera, se alcuno ti addimantlasse, se tu pen- sassi che i piò saggi
ponessero i nomi meglio alle cose, o i manco saggi, erm. —Chiaro è, che
io ri- sponderei i piò prudenti, soc.— Dimmi, se le don- ne nelle
città pare a te, che siano piò prudenti, o gli uomini? per dir tutto il
genere? erm.— Gli uo- mini. soc. — Dunque tu sai, che dice Omero, che
il figliuolo di Ettore era chiamato da’ Troiani Astiaua. te, dalle
donne Scamandro, poiché gli uomini lo chia- mavano Astianate. erm.—
Apparisce, soc.- Dunque eziandio stimava Omero, che gli uomini Troiani
fos- sero piò saggi, che le lor donne, erm. — Io lo sti- mo. soc. -
Dunque stimò, che egli si chiamasse, me- glio Astianate, che Scamaudrio.
ehm. - Apparisce, soc Consideriamo qual cagione egli apporti di
que- sta denominazione, perchè dice egli, che solo difese
loro la città, e le ampie muraglie. Per la qual co- sa, (come pare)
conviene# che si chiami il figliuolo del Salvatore, cioè di colai, che il
padre di lai sai* va va, come disse Omero, erm. — A me pars soc. —
Per qual cagione? perciocché o Ermogene, nè io lo intendo ancora bene: ma
lo intendi tu? erm. — Per Giove nò. soc.— O uomo da bene ancora
Ome- ro pose ad Ettore il nome. erm. — Perchè? soc. Perchè mi è avviso,
che questo nome si assomigli ad Astianate; e essi nomi si assomiglino a
Greci: dimo- strando quasi il medesimo, cioè che ambidue que- sti
nomi siano regali; perciocché di cui sarà al- cuno re, dello stesso sia ancora
possessore; essen- do manifesto, che egli lo signoreggi, e
possegga, e abbia. O peravventura non pare a te, che io dica
niente? e m' inganna la opinione, onde mi confida- va, come per certi
vestigi, di toccare la opinione di Omero d’ intorno la retta invenzione
dei nomi? erm. -* In modo niuno, come io penso: perchè^forse tu
tocchi alcuna cosa. soc. — Egli conviene, come a me pare, che si chiami
similmente leone il figliuol del leone, il figliuol del cavallo cavallo;
non dico, se alcun’ altra cosa fuor che il cavallo (come mostro)
nasoesse dal cavallo: ma quel mi dico, del cui genere secondo la natura è
ciò, che nasce, se il cavallo na- turale partorisse il figliuolo del bue
vitello contro natura, non sarebbe da chiamarsi poliedro: ma
vitello, nè eziaodio se dall'uomo altra prole si producesse, che
umana, ciò che nascesse si dovrebbe chiamar no* aio. 11 medesimo è da
giudicarsi degli alberi, e delle altre cole tutte, o non pare ancora a te?
erm. — A me par si. soc. — Tu dì bene-, perciocché guardati, che io
non ti inganni in alcun modo; conciosia, che secondo la stessa , ragione
eziandio se alcuna cosa na- scesse da re, sarebbe da chiamarsi re, non
importan- do che si significhi lo stesso in queste, e in quelle
sillabe, o se vi si aggiugni alcuna lettera, o se an- che la vi si levi;
mentre la essenza della cosa dichia- rata nel nome signoreggi./, erm —
Come dì tu cote- sto? soc. — Io non dico oiuna cosa meravigliosa, o
nuova: ma siccome tu sai, che diciamo i nomi degli elementi: ma non essi
elementi, eccettuatine sola- mente quattro, cioè b N E fi ma «1
rimanente, co- sì vocali, come mutoli, tu sai che aggiugnendovi al-
tre lettere, li proferiamo formando i nomi: ma iinchè inferiamo la forza
dichiarata dell’ elemento conviene, che quel nome si chiami ciò, che egli
si dichiara, nor- me per esempio il B, vedi i che il T aggiunte non
impedì che con lo intero nome non si dimostrasse la natura di quello
elemento, di cui volle il positor del nome, siffattamente non li è prestato
fede di aver po- sto bene i nomi alle lettere, erm.— Tu mi pari di
parlar il vero, soc.— Dunque fla la stessa ragion ancora d’intorno al re.
Perciocché sarò alcuna volta il re dal re, il buono dal buono, dal bello
il bello, e le altre cose tutte similmente da qualunque genere certa
altra pro- genie, e sarebbono da dirsi gli stessi nomi, se non ci
facesse mostro. Egli è lecito, che in modo si variino per sillabe, che sia
avviso all’ nomo rosse, che le cose, che sono le stesse siano diverse tra
loro, co- sì come le medicine dei medici variate con colori, •ed
odori spesse volte essendo le medesime, pare a noi, che siano diverse: ma
dal medico considerata la virtii loro, sono giudicate le stesse; nè il
perturbano le cose aggiunte. Similmente peravventura chi è eru- dito
d’intorno a nomi considera la virtii loro nè si perturba il giudició di
lui, se vi è aggiunta alcuna lettera o trasmutata o levata, o se in
altre, e motte lettere si ritrova la stessa virtii del nome. Come
quei nomi, i quali di sopra abbiamo detto Astianate, e Ettore hanno
le lettere ad ogni modo diverse, fuorché il sol T, non pertanto
significano il medesimo... Mei medesimo modo ciò che si dice prencipe di
città, qual communicanza di lettere tiene egli con li due
antedetti? nulladimeno significa il medesimo, e molti altri vi sono, i
quali nient’ altro significano, che il re. Oltre ciò molti sono, che
significano il capitano dell’esercito, come altri ancora, che dichiarano
il professor dell^medecina. E si possono ritrovar mol- ti altri
discordanti nelle sillabe, e nellj lettere: ma accordatisi al tutto nella
virtù, del significare, par egli che così sia, o pur nò? zrm.— Così
certo, soc. — Or a queste cose, che si fauno secondo la natura sono
da darsi gli stessi nomi, ehm. — Adognimodo, soc. — Ma qualora alcuni
uomini si fanno contro la natura in certa specie mostri, come quando
sì genera l’empio dall’ uomo buono, k pio; ohi è gene* rato non dee
sortire il nome del genitore- ma di quel genere, nel quale ei si ritrova,
come diami di cent- rilo; se il cavallo generasse la prole del bue, non
sa» rebbe da chiamarsi il figliuolo di lui cavallo: ma bue* mm.— C
osi è. soc. -Dunque all’uomo empio generato dal pio, bassi a dare il nome
del genere. ehm.— Queste cose sono vere, soc.— Dunque non conviene, che
si chiami un figbuol tale, amico di Dio nè ricordevole di Dio, nè
alcuna cosa siffatta: ina con ' nomi il contrario signi- ficanti se pur i
nomi deono conseguire la retta in- venzione. sbm. — Cosi al tutto o Socrate
è da farsi* soc.— Come ancora Oreste, o Ermogene, corre rischio»
che sia ben messo, o se alcuna sorte H pose il no- me, o alcun poeta; con
quel nome significando la dì lui natura ferina, selvaggia, e montana,
erm. — Cosi apparisce, o Socrate, soc. — Àncora è avviso, che il
parere di lui tenga il nome secondo la natura, erm. — Apparisce, soc.— la
vero tale appar egli, che sin Agamennone, quale pare che si
affatica, e sopporta» imponendo fine alle cose, le quali parvero da
termi- narsi per la virtù. Argomento poi della sua toleranza ne
diede il durar sotto Troia con tanto esercito. Dun- que che questo uomo
sia stato buono nella perseve- ranza, il nome di Agamennone lo significa.
1$ perav- ventura eziandio Atreo se ne sta bene, conciosia, che la
uccisione di Crisipo, e la crudeltà intoruo a Tie- sse sono tutte le cose
daouosc, e perniciose in verso alla virtù, onde la denominazione del nome
declina un tantino, ed è gelata in modo, che non dichiari
.^chiunque la natura di questo nomo: ma cui som» periti di nomi si
mauifesta bastevolmente la signi- ficazione di Atreo; perchè esso nome è
posto bene in- ogni luogo secondo 1* intrepido. Ancora pare che il
nome di Felope non sia dato a lui fuor di proposito, significando questo nome,
che sia degno di que- sta denominazione chi vede le cose dappresso, zbm.—
• In che modo? soc. — Come si dice nella morte di Mirtillo contra
di lui, che egli non abbia possuto pro- veder niente, nè da lunge vedere
di quanta calamità fosse ripieno il genere tutto, riguardando alle
cose, che gli erano innanzi a piedi, e solamente alle pre- senti.
Ciò poi è il veder dappresso, il che ei fece avendosi aiTaticato con ogni
sforzo di accompagnarsi in matrimonio con Ipodamia. Appresso
penserebbe ognuno, che il nome Tantalo li sia stato posto bene, e
secondo la natura, se sono vere le cose, che si rac- contano di lui. erm.
— Quali sono coteste? soc. — Che a lui ancora vivente moltissime cose
avverse, e gravi avvennero, il fio delle quali si era, che tutta la
patria di lui si vogliesse sossopra. Più oltre, lui mor- to gli sta sopra
la testa un sasso, per certo, durissima sorte. Tutte queste cose
adognimodo si confauno col nome, non altrimenti, che se alcun l’avesse
volato nominar pazientissimo: ma avendo parlato alquanto
oscuramente, abbia posto Tantalo per Talantato- In c
vero pare, che un tal nome la fortuna di lui avversa lì abbia dato
col rumor della gente. Anzi che bene si applicò ancora il nome a Giove
padre; nondime» no egli non è agevole da conoscersi» essendo «1 no»
1 me di Giove qual certa orazione, il quale in due par- ti
partendo, in parte si vagliamo d’nna, in parte del» l’altra parte,
chiamandola. alcuni altri, le quali per» ti in uno poste, dimostrano la
natura di Pio, il che dee poter fare il nome massimamente; non
avendo noi, nè tutti gli altri niuna maggior cagione di viver, che
il prencipe, e re di tutti- Dunque avviene, che si nomini bene in cotal
guisa, essendo ‘Dio, per cui ca» gioite il viver si ritrovi sempre in
tutti i viventi. Es- sendo poi uno il nome, è in dtfe parti partito,
come io dico. Questo poi essendo fìgliuol di Saturno clù all’
improviso l'udisse penserebbe cosa insolente. M* è ragionevole, ehesia
prole Giove di certa grande in» telligenza; perchè quello, che si dice
non significa fanciullo; ma purità, e incorruttibilità deliamente
di lui. Egli è poi, come si dice, figliuolo del cielo; con-
ciossiachè lo aspetto alle cose di sopra meritamente sidee chiamare con
questo nome, come all' alto ris- guardi onde, o Ermogene, affermano
coloro, che trat- tano delle cose sublimi, cheavvegna una pura
mente, e a lui si ponga bene il nome del cielo. Or se io tenessi a
memoria la geneologia scritta da Esiodo: e mi ricor- dassi quali egli
introducesse i progenitori loro, in niuu modo non cesserei di
dimostrarti, che fossero scritti loro i nomi bene, finché facessi la
provi» di questa sapienza, se ella faccia alcun profitto, e alcu-
na cosa fornisca e se si dubiti, o nò, la quale io non se certo, onde
poco fa mi sia venuta cosi allo ìmproviso. za»*— In vero, o Socrate, pare
a me, che t« alia similitudine di coloro, che sono da divinità
rapiti, mandi fuori oracoli. soc. O Ermogene, io stimo, che. questa
sapienza si cagionasse in me da Eu- tifrone figliuolo di Panzio; poiché
assiduo gli era in- stami dal matutino, e li porgeva gli orecchi.
Sicché é manifesto, che egli pieno di Dio, non solamente abbia
ripieni di sapienza beota gli orecchi miei? ma occupato t'animo ancora:
io stimo veramente, che si abbia a fare in cotal guisa. Che si vagliamo
-oggi di lei, e si investighi da noi il rimanente, che pertiene a
nomi: diman poi, se in ciò converremo, la manderemo fuori, e la mondaremo con
diligenza, ricer- cando alcun o sacerdote, ovver sofista, che sia
buono a purgar queste cose, bum.— O Socrate, io approvo questo si,
perchè molto volentieri udirei ciò, che ri- mana d'iutorno a nomi. soc.—
Al tutto si dee fare cosi. Dunque ove giudichi tu principalmente,
clic si abbia ad incominciare; poiché abbiamo prescritta Certa
legge per conoscere, se eziandio gli stessi nomi ci attestino, che non
siano stati fatti a «uso: ma con- tengano alcuna invenzione? i nomi
dunque degli croi* C degli uomini peravventura ci inganaereb- bono,
essendo molti di questi posti secondo le denominazioni de’ maggiori, e spesse
volte non conven- gono in modo niuno, come abbiamo detto nel principio.
Molti nomi poi pongono gli uomini quasi pel* voto, come e altri molti Per
la qual cosa io stimo, che siffatti siano da tralasciarsi: ma è cosa
verisimì- le si, che noi ritroviamo i nomi posti bene, e naturali intorno
«Ile cose, che son sempre, convenendosi mollo, che qui si abbia a cercare
diligentemente la maniera del por i nomi: ma peravventura alcuni dì
loro sono stati posti ancora da certa potenza più di- vina, che umana.
ehm.— 0 S ocrate, tn mi pari dì parlar eccellentemente. soc.« Non è egli
cosa con- venevole lo iucominciar da Dei, considerando in qual
guisa sono stali chiamati i Dei bene con questo stes- so nome? erm.-E
verisimile. soc.-In vero cosi io so- spetto; mi par certo, che i primi de’
Greci abbiano pensato quei soli Dei, i quali eziandio sono stimati
in questi tempi da molti ,!«' barbari il sole, la luna, la terra, le
stelle, il cielo. Dunque quasi, che essi ve- dessero tutte queste cose
essere in un perpetuo corso, da questa natura è avviso, che ic si abbiano
nominate,* poscia osservandone altri; le abbiano chiamate tutto con
lo stesso nome. Ciò, che io mi dico tiene egli al- ®uua verisomigliauza,
oppur nò? ««.-Appar molto, soc — che si ha poscia ad investigare? ehm E
ma- nifesto, che si dee cercare de’ demoni, e degli eroi,»
degli uomini. $oc.- De’ demoni? o Ermogene, conside- ra veramente se ti è
avviso, che io ti dica alcuna cosa intorno a ciò. che si vuole inferire il nome
de* demoni, ehm.— DI pure. soc. — Sai tu dunque quali si dica
Esiodo, che siano i demoni? * km— Non inten- do. soc.— Nè eziandio, che
egli dica essere stato de- gli uomini primieramente il genere dell' oro?
erm. — Solio sì. soc.— Or dice d’intorno a lui, poiché la
sorte coprì questo genere, che altri si chiamano demoni puri, terrestri, ottimi
fuggatori di mali, e guar- diani di uomini mortali, erm.— Che poi? soc. —
Per certo io stimo, che egli chiami genere d’ oro, non fatto d’
oro: ma buono ed eccellente, e di ciò ne fo la congettura, dicendo egli,
che il genere nostro sia del ferro, ehm.— Tu narri il vero, soc.— O non
pensi tu, se al presente alcun de’ nostri fosse buono, «he egli si
stimerebbe da Esiodo del genere dell'oro? erm. — E cosa verisimile,
soc- — Or sono alcun' altra cosa i buoni, che prudenti? erm—
Prudenti. soc Sì che come io penso chiama quelli demoni
principalmen- te; perchè erano prudenti ed intelligenti, e pervenne
questo nome dalla nostra lingua antica. Perlaqualco- sa ed egli, e
qualunque altri poeti molti parlano be- ne, che dicono, che poiché alcun
buono si parte di vita, prende in sorte grandissima dignità e premio,
e si fa demone secondo la denominazione della pru- denza. Così mi
affermò ancora, che sia ogni uomo pru- dente, il qual è buono, e sia egli
demonio, e vivendo, e morendo, e si chiami demone bene. erm.— Mi pare o
Socrate, che io consento d’intorno a questo con esso loco, soc.— Poi, SIGNIFICA
egli? ciò non è molto malagevole da considerarsi, essendo poco di*
stante il nome degli eroi, dimostrando che la gene- razione loro sia
derivata dall’ amore. erm. — In che modo dì tu questo? soc.— O non sai
tu, che sono se-, midei gli eroi? erm.— Che dunque? soc. — In vero
tutti sono generali, avendo o Dei portato amore a donna mortale, o
mortali a Dea, oltre ciò se consi- dererai queste secondo la vecchia
lingua degli Ate- niesi il saprai maggiormente; perciocché ti
dichiare- rà che si è mutato nn tantino per causa del nome, onde
so«o fatti gli eroi, o che egli significa gli eroi, o perchè furono savi,
e retori, e facondi, e al dispu- tare acconci, essendo bastevoli allo
interrogare. Sicché quello, che poco fa noi dicevamo, dicendosi gli
eroi nella vece attica pare, che gli eroi siano atctmr relo- ri, e
che interrogano e amano; onde il genere degli eroi si fa genere di retori
e de' sofisti: ciò poi non è malagevole da intendersi: ma più oscuro quello,
per qual cagione Si chiamino gli uomini gf$pcTrol’ P uo * tu dire
il perchè? ersi. Uomo dabbene dove avrei io questo? anzi se io potessi
ritrovare alcuna cosa, uon 1’ affermerei, pensando, che tu meglio di me
sa- resti per ritrovarla, soc. — Egli mi è avviso, che tu ti
confidi nella ispirazione di Eutifrone. erm. — Senza dubbio, soc.— E
meritamente tu ti confidi; percioc- ché troppo bellamente ini pare ora di
aver pensato, ed è pericolo (se io non mi guardassi) che no» pares-
® e °gg>> c h® io fossi divenuto piti saggio, che non
si converrebbe. Or non considera ciò, che io dico; perciocché conviene
primieramente, che si consideri questo intorno a nomi, che spesse volte
aggiugniamo lettere, e ne leviamo, nominandole fuori della nostra
inleuziope, e mutiamo le acutezze, come quando dicia- roo Alì <p'lAo$.
Da questo nome, affine egli ci servi per lo verbo, caviamo poscia fuori
l’uno I, e per la sillaba del mezzo acuta pronunciamo la grave, in alcuni
altri framettendo le lettere, e altre più gravi pro- ferendone. erm — Tu
riferisci il vero. soc. -.Questo come a me pare adivietie ancora al
nome degli uo- mini; essendosi il nome formalo dal verbo, fuori,
che uno A, e fatto grave nel fine. srm. — Come di tu questo? soc. — Cosi.
Egli significa questo nome o’ ivoSt cioè di nomo; perchè le'altre fiere
non con- siderano, nè osservano, nè contemplano alcuna delle cose,
che veggono: ma l’uomo incontinente, che vede (e questo significa 1’
oTTùiTTs) e vede, e contempla, e considera ciò, che ha veduto. Quindi
meritamente l’ uomo solo di tutti gli animali è chiamato,
consideran- do ciò che vide. Che da te poscia addimanderò io?
quello peravyeutura, che io udirei volentieri? erm. — Si. soc. —
Dunque mi è avviso, che incontinente succeda alle cose antedette la
considerazione dell’ a- nirua e il corpo alcuna cosa dell’ uomo. erm.
—In che modo nò? soc. — Ora sforziamoci di distinguere ancora
questo come le antedette, pensi tu, che iunanzi si. ql>bia a cercare dell’
Miima, come sia ella chia- mala bene? poscia del corpo? erm.— In vero si.
soci —Dunque acciò io subitamente esprima quello,' che ora mi si
offerisce primieramente, io : stimo che Colo-i ro, che' cosi chiamarono
l’anima abbiano ciò pensato principalmente, che questa quante Tolte è col
corpo si è-, cagione, che egli viva, dandoli la virtù del ri-
spirare, e rifrigerandolo; e come prima lo abhando-t nera quello, che il
refrigera, eglisi scioglie, e Sene muore, onde pare, che 1’ abbiamo
chiamata, quasi ri- frigerante: rtȈ se, ti aggrada fermati alquanto. Mi
par divedere alcuna cosa più di questa probabile presso coloro, : i
quali seguitano Eotifrooe; perciocché sprez- zerebbono essi questa, come
io penso, e la dimostrereb- bono certa cosa molesta: ma vedi, se ciò ti
sia per dover piacere, erm. —Dì pure, soc.— Qual* alt+a cosa pare a
te, che contegno il corpo, e il guidi, e faccia, che egli v;va, e vadi
intorno* che 1? anima? eatu.ij-' JNient’ altro? soc. — Ma che? non credi
tu ad A nassa-' gpra, che la natura di tutte le cose sia lo
inieMetto,- e l’anima che l’adorna e contiene?. > erm. — Così
si.' soc. — Dunque ben fia, che a quella potenza si applichi questo
nome (pvvgyjnj, cioè contenente la naturai ma si può chiamare ancora
ornatamente. ' erm. — Così è ad ogni modo, e mi pare, che questo . sia
di» quello' più artificioso- soc.— E verameute, anzi par. certo co-
sa ridicolosa, se si nominasse, come le fan posto.: brw” —Or, che
dobbiamo dir api ciò, che segue? soc.— Tu dì del corpo? brm.-Sì. soc. — Questo
a me pa- re in molti modi, se alcun declinasse un tantino. Perciò,
che alcuni dicono, che egli sia all’anima se- polcro, quasi ella sia
sepellita in questo tempo pre* sente, e anco perchè 1’ anima col messo
del corpo significa qualunque cose può significare per questa ca«
gione è chiamato ancora bene. Nondimeno mi Rav- viso, che gli settatori
di Orfeo abbiano posto questo nome principalmente a questo fine; perchè
l'anima iti questo corpo dia la pena de’ delitti, e sia chiusa iti
questa siepe, e trincea affine servi imagine di prigio« ne. Per la qual
cosa vogliono, che sia questo cosi; come è chiamato un chiostro per
custodir l’ anima fin, che purghi qualunque debiti; nè pensano, che vi
si abbia a tralasciar pure alcuna lettera, ehm — Or, O Socrate, mi pare,
che d’j intorno a questo si sia detto bjBstevolmetite: ma de’ nomi de*
Dei potressimo forse noi considerare, come si è fatto di Giove,
secondo qual retta invenzione fossero posti i nomi loro? soc.
Per Giove sì, o Ermogónè; se noi avessimo intellet- to sarebbe una
maniera buonissima il confessare, che iton conosciamo niuna cosa d’
intorno a' Dei, dico nè d’ intorno ad essi, nè a’ nomi loro, co’ quali
si chiamano; manifesto essendo, che essi si chiamino coi veri nomi:
ma la seconda maniera della retta inten- zione si è, che così come ordina
la legge, che si pre-i ghino i Dei ne’ voli comunque aggrada loro di
esser chiamati; così ancora noi li chiamiamo, quasi da noi non si
conosca niun' altra cosa. Perchè si è deterrai. nato bène, come mi pare.
Per la qual cosa, se ti pia- ce, consideriamo quasi avendo detto innanzi
a Dei, che da' noi non sia per conoscersi niuna cosa d’ intorno a loro?
‘non confidandosi noi di esser possenti: ma piò tosto- d' intorno agli
uomini oon che opiniti- ne principalmente intorno a Dei disposti posero
lóro i nomi; essendo .ciò lunge da riprensione. fi erm. O '
Socrate; egli è avviso, che tu parli modestamente, c facciasi da
noi in cotal guisa. .Dunque incominciamo .alcuqg ,co$a da Veste. secondo
le legge.- bum. —Cosi veramente conviene, spc.a-t, Q ual cosa porrebbe
dir alcuno, che considerasse chi la si chiamò Veste? erm. -Io
pon penso per Giove, «bis ciò siaagevole do ri- provarsi. som— O
firnwgene buono. In vero par bene, che i. prinp autori , de’, nomi non
siano «tati certi grò*, solqni; ma investigatori sottili di cose Sublimi.
11» — Perchè? sac— Perchè , mi pare cheil por de' sto- mi sia
stato di . certi uomini siffatti, *' se d leu n consi- derasse i nomi
forestieri^; non tnanbo ritroverebbe ciò, che qualunque significasse,
come eziandio in qae- sto, il qual noi chiamiamo essenza, alcuni sono,.'
che il chiamano altri di nuovo. Primieramente secondo l’uno
di questi nomi,, ,non ^ ovviso^ che si fofamrai forte lontano dalia
ragione la essenza delle Icose, e perchè noi chiamiamo ciò, che è
partecipe dS essenza; per questo si potrebbe nominar Itene; perchè
parte, che ancora noi anticamente,, chiamavamo già <
>?rÌ* o6(rf«fc- Appreso »e «leu* considerali* isàcrifieà,
stimerebbe, che; c^»l cqn|i derisero doloro, ( «bfc .li, & posero;,
perciocché è vcrisùniU iunanM-4-iWtt». • i-, I>«i^ che facessero
i sacrifici a Veste chi denominarono la essenza di tutte le cose.- ma
quanti di;, nuovo ,la.fthia- marono ùaiOCV, stimarono quasi di mlovo
secondo E- ratlito, che sempre scorressero tutte le cose, e Piente
•Don si fermasse. Danqoe la cagione, 'e la origine lo- ro fosse, chi le
spingesse. Sicché meritamente si chia- mi la cagione, che spinge. D’
intorno 1 0 questi fin qui siane detto in .colai guisa, come da coloro,
Che' 'non intendono piente. Dopo Veste con-vien, Che si Iconst-
deri di Rea e di Saturno,* tuttoché de! nome di Sa- turno abbiamo detto
di sopras-hiB forse, chef io noti died nulla. EHM.-Perchè, o Socraté?
soc.— O uomo dabbene, ho considerato certo esime di' sapienzd.
erm.— -Q uale é eglit socv-Cosd'dS dirsi ridfirolosa niol- -U>, fiondimene
'«Urn®, che tenga ‘àfeuno probabil cosà. k*m.>— Q uale n’-è dessa?
soc.— Mi pàrvedere; che E- • radilo già. molto nani chiaramente aldune
cose sag- gio, che si fecero nel tempo di Saturno e dì Rea, fe
quali eziandio si raccontavano da Omero, ehm.— ‘Co me- di tu cotestoì soc. —
Eradito dice, che scorrano tuttéalacose, e, non si fermi nulla; e
assomigliandogli -.enti al flusso d’ un- fiume, dice non esser
possibile, che nei medesimo, fiume tu possa entrar due volte. ehm.—
Q uesto A vero. soc. J— O ti par egli, che colui da praclito dissentisca,
il quale pose Rea e Saturno Si < IVa progenitori degli
altri Dei? dimmi, pensi tn, che egli abbia posto temerariamente i nomi ad
ambi lorò delle flussioni; come ancora Omero dice, che l’Oceano sia
la generaeione de' Dei, e la madre Tele; e il me- desimo, come pare,
volle ancora Esiodo. Oltre ciò db ce Orfeo, che l’Oceano primo abbia dato
incominciai mento alle nozzi; che corrono bene, avendosi accom-
pagnato con Tele sua sorella. Dunque considera come si confacciano
insieme queste cose, e tendano tulli al- la opinione di Eraclito, erm — O
Socrate* pare a me che tu dica alcuna cosai ma non intendo
bastevolmente ciò, che inferir si voglia il nomedi Tele, soc.— E
non- dimeno significa quasi questo stesso, che sia un nome
ricondito di fonte; perciocché quello, che corre, e sì spinge è un
simulacro di fonte, e d’ arnbidue questi nomi è composto il nome erm.— O
Socrate, questo è bellissimo, soc.— In che modo nò? ina che
poscia? di Giove abbiamo detto veramente, ehm. Così è. soc.—
Or diciamo de’ fratelli di lui Nettuno, e di Plutone e dell'altro nome,
col quale è chiamato' da loro. erm. — Al tutto, soc. — Egli è avviso, che
Net- tuno da chi primieramente il nominò, sia perciò sta. to
chiamato* Troa-g/ofiàlt, perchè mentre egli cambiava, «1 ritenne la
natura del mare, uè permise, che se ue andasse più oltre: ma se li fe
quasi legame a piedi. Sicché chiamò Dio 7T0<retc/là>lùX, il
prencipe di questa virtù, come TTOff/c/lefffiolf OVTK, cioè legame
di piedi: ma l’E vi fu trasmesso forse per ornamento, ftla
per- »M avventura non si vuote egli inferir quatto.-
ma in vé- ce di E si diceva primieramente «on due LL come se
dicesse fa ttoAAc bÌ</IÓto<tTov$*ov, ci °è* che qua» si sia
Dio coguitore di molte cose. Peravveotnra dal ctteu, cioè dal movere fu
nominato èa-g/ar, cioè mo. venie, cui si aggiunse poi il P e il OeilD. Or
il no» me di Plutone fu nominato secondo il compartimento delle
ricchezze, cavandosi etle dalle viscere delta ter- ra. Il nome poi
ac/|»J, pare, chela moltitudine gliele abbia dato quasi t ò AeuAtSt c ' 0
^ cosa invisibile, e di questo nome avendo onore il chiami Plutone. ,
eia. — Or in che modo pare a te, o Socrate? soc. — A me pare, che
gli uomini in molti modi abbiano errato intorno alla potenza di questo
Dio, e lo abbiano avu- to sempre in orrore, non convenendosi punto,
teraen • dolo chiunque; perchè morto una fiata sta sempre qui- vi;
e ancora, perchè l'anima del corpo spogliata cola se ne vi ella. Alla
perfine tutte queste cose, e il re- gno, e il nome di questo Dio mi pare,
ebe tendano al medesimo, enti. — In che modo? soc.— Ti dirò ciò,
che mi pare. Perchè dimmi, qual di questi due è le- game pili forte al
tenere in qualsivoglia luogo qualunque animale, la necessiti forse, o il
desiderio? erm. — Di gran lunga, o Socrate, avanza il desiderio,
soc. — Pensi tu dunque, che molti non fuggirebbono lo inferno; se egli
non legasse coloro, che quivi di- scendono con un fortissimo legame?
srm.— C hiaro è. soc.— Sì che li lega, come pare, con certo
desiderio, non con neoesiità, se pure li annoda co* legsmh
fortissimo, erm.— Apparisce, soc.— Sicché di: n«o?0 sono molli i
desideri? «a*i.— -Molti si. • soó. -Dunque li annoda colla
grandissima cupidità, se pur li dee contenere col grandissimo legame.
<rm.— Per certo, soc.— Or vi è «gl* alcuna cupidità maggiore* che
quan- do alcun con altrui accompagnatosi, pensi di dovere esser
uomo migliore per causo di l’uJP «aat. — O So- crate, iti ninn modo per
Giove, soc. — Forte per questa cagione hassi a dire, o Ermogene, che nien
di colà se ne voglia' ritornar qni, nè iè stesse sirene, anzi e
esse, e gli altri tutti siano addolciti; cosi belle parole sa formar lo
inferno, eéttrt apparisce, ed è questo Dio, come testifica questo parlare
Sodala per- fetto; e a colóro apporta gran benefidi, che abitano
presso lui, e dà loro cotanti beni; siffattamente i egli di ricchezze
abbondante in qael luogo, onde ancora di quà ebbe il nome di Piatone, o
non ti pere officio di filosofo il non volersi accostare agli nomini,
che hanno i corpii ma il riceverli allora finalmente, quan- do
l’animo loro é purgato da tutti i mali, e da de- sideri, che sono d’
intorno al corpo? per certo pensò questo Dio di dover tener in questa
maniera gli ani- mi, se li legasse col desiderio della virtìit ma chi sono
infetti da stupore e da pazzia di corpo, nè il pa- dre Saturno sarebbe
possente di raffrenarli con quei suoi legami, e di tenerli seco. efcM.-O
Socrate, pa- re, che tu parli alcuna cosa. soc. — O Ermogene, è forte
lontano, che il nome sia quali imminato invisi- bile, ansi ai cava dal
conoscer tutte le cose belle. Per la qual cosa -da ciò è questo Dio
chiamato idei facitore de’ nomi. erm. — Stiano lé cose cosi. Che
diciamo noi pili oltre del nome di Cerere, di Giuno- ne, di ’ Apolline, e
di Minerva, ’e di Vulcano, e di Marte, e del rimanente de’ Dei? soc.—
Cerere si chiama Jt«T« -rnvc/lótr/l! rriff èj\a>if(is dal dopare gli
alimenti, crtte/loti<r<X d$ (isp, c '°* quella, che dà quasi,
madrq: ma Spx, Cioè Giunone, come gp«r*TlC>. c ‘°,è certa amata,
così come si racconta, che Giove amata l’ebbe. Ancora risguardqqdo
all’alto peravveulura chi ordini) questo nome, denomino l’aere e parlò
oscurar mente, ponendo ci principio nel fine, il che ti si
farà manifesto, se spesso pronuncierai quel nome di Pro- serpina,
ed enroAAtav temono alcuni 'per quello di no- minare, che è ignota: loro
la retta invenzione de’ np; mi: perciocché mutando considerano la <pgp(j-£<pótfW,
e ciò loro par cosa grave. Ciò poi dimostrai c h® Dea sia sapienza. In
vero la sapienza fìa quella, che tocca, e palpa le cose, che scorrono, e
lepuòcopse; guire. Per la qual cosa Qepé'lTCUpX, questa Dea meri-
tamente si chiamerebbe per la sapienza, toccamente di quello, che scorre,
o alcuna tal cosa. E però lo inferno, essendo sapiente è congiunto con
lei per es- ser. ella siffatta. Ma ora schivano questo nome,
stiman- do più la grazia del proferimento, chq la verità: in modo,
che la nominino (pepp&QXTyxi- M medesime Digitized by Google
>3U ancora adìviene intorno al nome dì A polline,
avendo molti in orrore questo nome, come porti seco alcuna terrihil
cosa, o no il conosci tu? ehm.— Il Conosco ai, e tu di il vero. soc. -Ma
ciò, come mi è avviso, è posto benissimo rispetto alla potenea di Dio.
erm. In che modo? soc. — Sforzerommi di esprimere il
mio parere, in vero non si avrebbe possuto ritrovare un’ altro nome
solo più convenevole -alle quattro po- tenze, di Dio, di maniera, che le
tenesse tutte, e in un certo modo dichiarasse la musica, il vaticinio,
la 1 I T u ' ' , medicina, e 1’ arte del saettare. Or
di, per- chè mi è avviso, chp,tu dica un nome strano,, soc. —
Anzi egli è conveuevolmente addattato; essendo Dio musico; perciocché la
purgagioue primieramente, e le mondazioni, che si fanno colla medicina, e
col vaticinio; ancora le cose, che si torniscono col- le medicine ’
de’ medici, e gli incauti degli indovi- ni, C le purificazioni, i
lavacri, egli spargimenti pos- sono questo solo, cioè di. rendere 1’ uomo
puro, e del corpo e deU’aniina; non è egli cosi? erm. — Cosi ad
ogni modo, soc.— Dunque sarà colui il Dio, il qual purga e lava chi
libera da mali siffatti, ehm.— Senza dubbio, soc — Per la qual cosa in
quanto lava, e libera come medico di tali inali; è meritamente chiamato
liberatore. Ma secondo la indovinazione, e il vero, e il semplice,
essendo una stessa cosa il possiamo ancora nominar bene secondo il costume de’
Tessali. Per l * certo tutti costoro chiamauo questo
Dio , semplice: ma perehè sempre imbroca il sogno con l'arte del
saettare, sempre percuote-, si può dire perpetuo percotente. Se-
condo la musica poi, si ha a pensar di costui come di chi si dice, che
segue alcuno; e della moglie, perchè 1 ’ A dimostra, come in altri molti luoghi
il con- giuogimento, e qui ancora significa 1 * accompagnamen- to
delle conversazione, e intorno o cieli, i quali chia- miamo «7 TÓAovff, «
SIGNIFICA eziandio 1 * armonia, che è nel canto, la qual ai chiama
concordanza. Perchè d’intorno a queste cose, come dicono i periti di
mn- •sica e di astronomia, si rivoglie egli con Certa armonia.
•Questo Dio poi è soprastante all’armonia volgendo insie- me tutte
queste cose, e appresso agli uomini, e~a'ppresso V Dei. Dunque così come
T J y o^oa/Afii/Sor, Kffì opó- JtO<T«V, 0, °® va insieme, e chi giace
nello stesso let- to abbiamo chiamato «kuAovSov, X ai SttOITtY, ca-
blando l’ O nell’ A, così quello abbiamo chiamato ■Apollo, il quale era
o’fXOTTCÀàv, frammesso l’altro L: perchè sarebbe stato equivoco
col duro nome. Il che ancora a questi tempi avendo sospettato alcuni •
per quello che non considerano bene la virtù del nome, così il
temono, come significasse certa corruzione. Ma daddovero questo nome
abbraccia- tutte le virtù di questo Dio, come di sopra detto abbiamo;
conciossia, che il significa semplice, perpetuo, ‘ percotente, lavatore,
e insieme conversante. Il nome poi delle mu- se • della musica i cavato
da quello ebe si dice h ( c
'°® cercare i come è avviso, e co* la inve- stigazione, e con lo studio
della sapienza. Latona si dice dall* mansnetndine dèlia Dea, perchè sia
pronta; ed esposta, e presta al dar ciò, che chiunque ricerca. Ma
peravventura, come chiamano i peregrini perchè molti nominano il qual
nome pare che lì sia stato dato, perchè non abbia ella la mente
rigida: ma, mite, perciò si denomini qiwaì Aitò» ì$6$, cioè
costume piacevole e mite $prt[ìl(, cioè Diana per quello che s ‘ a quasi
integra, e modesta per lo desiderio della virginità, ancora lo
institutore del nome la chiamò peravventura quasi òlfSTÌi iffTO p«tj
cioè chi conosce virtù eziandio è detta forse SpTeyttS, quasi £; TÓV
«fyoTOV TOt OtVcApài «’»7V- I ctiKi, cioè che ella abbia avuto'
quasi in odio il congiungimento dell’uomo colla donna essendosi ordina-
to il nome,'o per alcuna di queste 1 cose, 0 per tutte di siffatta sorte,
erm.— Ma che Airfrtfd'O? g'(pp o</IÌTt cioè di Dioniso e Venerei
soc. — O figlinolo di Iponi- co, tu addimandi gran cose. Or è doppia la
maniera de* nomi imposti a questi Dei, 1* una seria, 1* altra
giocosa. Dunque da certi nitri ricerca fa seria: ma la giocosa niuna cosa
vieta, che non si racconti: percioc- ché sono ancora i Dei de’ giuochi
amatori, e sarò uno Al'orvtrog i J\l<Aoùs to'» ODO», cioè Dioniso
mini- atratore divino, quasi cognominato' JU<A\jtvv<roS, nel giuoco.
Ma ti può meritamente chiamar vino; perché faccia, che molti, i quali
beono essendo alienati di mente, pensino di avere intelletto qh
al&S^xl VOÙV »v«<» tò» TTt*óv3fi>v roti : ttoAAoÙs,
d’onde meritamente si può chiamar obi pensa avere intelletto. D’
intorno a Venere non è cosa degna, che si contradica ad Esiodo: ma si
conceda, che si chiami &QfO<AiTH TSt T«V «iJ>poù 7 évetrw, ci°é
per la generazione della spama. MM.-Or, o Socrate, non trapasserai
sotto silenzio Minerva, e Vulcano, e Marte essendo ateniese, soc.— Non
conviene itKolcun mo- do. ehm.— Per certo nò. soc. — Egli non è
malagevo- le da dirsi, perché sia posto l’uno de’ nomi di lei.
Kit».— Quale? soc.— Per certo noi là chiamiamo Palla- de. ehm.— Si certo.
sac^-Or istimando noi, che 1» sia posto questo nome dal saltar fra le
arme, lo sti- meremo bene, come io penso, perciocché lo inalzar se
stesso, o altra cosa in alto, o da terra, o colle ma- ni il diciamo
TróAAetif, e thxAAe adii, Xfid àpX B ^*. vi v XK< c ‘°® cr °ll
are » e crollarsi, e saltare, e patire il salto, ehm.-— Così è. soc
— 'Dunque in colai guisa la chiamano Pallade. ehm.— E meritamente;
ma 1’ altro suo nome, in, che modo lo di tu. soc.— Cer- chi tu tÒ .
À9NV&? ( ehm.— Questo stesso, soc.— Que- sto è piu difficile, o
amico, pare che gli antichi sti- mino £$ come costoro, che a questi tempi
sona dotti d’intorno ad Omero. Perciocché di costoro mal-
Digitized by Google ) 39 < ti interpretando
il poeta dicono, che òt$tlVoiV «- TOV yovv, Kx\ JÌIXVOIXV TTSTTOIHkÌvÓCI,
abbia fatto la stessa mente e il discorso, e chi fece i nomi pare,
che abbia considerato alcuna cosa tale d* intorno a lei: anzi ancora
dall’ alto innalzandola, la introduce come intelligenza di Dio, qnasi
dica, che questa sìa 5eovÓo, cioè quella, che intende Dio, valendosi
dell* X in luogo del y secondo certo rito forestiero; levan- done
appresso lo j e il ma peravventura nè a que- sto modo: ma come,
che ella diversamente dagli altri intenda le cose divine la chiamò
^eoto'nif, cioè inten- dente le cose diyine. Uè fìa fuori di proposito se
di. remo, che egli 1’ abbia voluta chiamare rf$oVÓtf quasi essa sia
intelligeuza d’ intorno a costumi. Egli dopo, o coloro ancora, che
vennero poscia come era avviso tirandola nel meglio, come credettero la
de- nominarono Atene, ehm.— Che di Yulcauo, il quale è nominato
ÌQxHnotf in che modo dì tu? soc.— Ocer- ehi tu il generoso intelligente
di lume? ehm. — Cosi mi e avviso, soc.— Costui come può esser manifesto
a ciascuno è tpoÙffT Off, e si attribuisse lo onde è * . t .
v i detto £ Qxi$TQS- ehm.— Apparisce se eziandio non ti
paresse pra altrimenti, soc.y- Ma acciò non mi paia cosi addimanda di
Marte. ERM.-Addimand,o. soq, —Se li piace KfltTOt TP Xf>ps, y, cioè
Alarle, si dice se- coudo il maschio è «MpetOtfjiCioè forte. Più «lire
sft Digitized by Google ) 4 » ( la
vorrai, che egli aia stato chiamato per certa aspra natura, dura, e
invita, e immutabile, la qual si chiama ttppXTOI, questo ad ogni modo
convenirli al Dio guer- riero. xrm. — A d ogni modo. soc. — Deh per li
Dei lasciamo oggimai i Dei, temendo io di disputar di lo- ro: ma
proponimi qualunque altre cose tu vuoi, af- fine tu conosca quali siano i
cavalli di Eutifrone. un. — Farollo addiinandandoti ancora una cosa
di Mercurio poiché Cratilo nega, che io sia Ermogene, sicché
tentiamo di considerar ciò che significhi éppw$, cioè il nome di
Mercurio: affine conosciamo, se egli dica alcuna cosa. soc. — E nondimeno
g’pgyg, cioè Mer- curio pare che sia intorno al sermone in quanto è
i/tfmete, Iteti sryeAof, noi) tò nhu'juKÓne, k«ì to xTxrnXoi s’r ih *
<?» x*ì tò ciipopxaTinòv, cioè interprete e nuncio, e ha nel
parlare lo ingannar furtivamente, e versa nella piazza. Tutto questo
tratta- to versa intorno alla virth del parlare. Per certo come
abbiamo detto dianzi yò etpeil, ® usanza di parlare.* ma spesse volte
dice Omero di costui e’p scorro , cioè machinò egli. Dunque d’ ambidue si
compone il nome di questo Dio, si di quello, che è parlare, sì di
ciò cbe è il ntachinare e 1’ investigar le cose da do- versi dire, così
come 1’ autor del nome ci ordinasse. O nomini, è cosa decente, che voi
chiamiate quel Dio, il quale ha machinalo il parlare: ma noi al
presente it chiamiamo gpjiìy, pensando di abbellire il nome: anzi, e ipi$
pare che sia chiamata da sip$u per quello, che era messaggera, erm.— Per
Giove pare, che Cratilo abbia negato bene, che io non sia Ermogene, es-
sendo io grossolano alla invenzione del parlare, soc. t- 0 amico, egli è
ancora verisimile, che ir fax figliuol di Mercurio. sia di due forme,
erm. - In che modo? soc.— Tu sai, che il sermone significa il tutto, e
at- tornia, e versa sempre, ed è doppio, cioè, vero e fal- so.
erm.— In vero sì. soc. — Dunque la verità di lui è cosa piana e divina: e
di sopra abita fra Dei: ma la falsità al basso fra la turba degli uomini,
ed è aspra e tragica: perciocché qui si ritrovano molte favole e
falsità intorno la vita tragica, erm. — Così è ad ogni modo, soc.—
Meritamente adunque egli, che significa il tutto, e sempre versa, sarà di
due forme figliuolo di Mercurio nelle parti di sopra molle, e delicato,
nel- le inferiori aspro, e caprino, ed è pane, o il Sermo- ne,
fratello di sermone, poi che è figliuolo di Mercu* /rio. Non è poi
maraviglia che il fratello sia al fratello somigliante. Alla perfine, o
beato, dipartiamoci da’ Dei, il che io poco fa diceva, erm — O Socrate da questi tali sì, se il piace
a te: ma quale impedimento ti tie- ne, che non racconti di questi altri?
cioè del sole, della luna, delle stelle, della terra, del cielo,
dell'ae- re, del fuoco, dell’acqua, della stagione, e dell’anno?
soc. — Sono molte, e grandi le cose, che tu mi comandi; non per lauto dovendoti
esser ciò grato, ti ubidirò. ( ikm — Per cerio tu mi
Tarai cola graia. »oc. — Che chiedi tu prima? o vuoi tu forse, come hai
detto, che discorriamo dei soie. erm. — Invero si, soc.— Questo è
avviso, che potrebbe esser più chiaro, se alcun si valesse del nome
Dorico, chiamandolo i Dorici et\Ì0i ed in cotal guisa è chiamato secondo
xktÌ TO à\i- £s/V e li TOCvyópoòs XìlSp ÓttoIs, C1 °è per quello,
che riduce gli uomini insieme quando nasce : ancora Kfltl "TÙ
TTepì tW «et EtAitv, per quello ched’ intorno alla terra si rivoglie sempre.
Piu oltre perchè varia col suo giro le cose, che nascono nella terra,
il variar poi, è lo stesso, erm. — Ma che si dee dire d»
<reÀÌvt)J, della luna? soc. — Pare, che questo nome premi Anassagora,
erm.— Perchè? soc.— Perchè dimostro alcuna cosa vecchia, il che egli poco
fa di» ceva traendo la luna il lume dal sole, erm.— In che modo?
soc.— Il c-e’A CCS, P er cer to, e la luce è lo stesso* erri.— E’ si.
soc.— Questo lume perpetuamente è d’ in- torno alla luna y£ov, hx'i
BVVOf, cioè nuovo e vecchio, se pure gli settatori di Anassagora parlano
il vero, conciossia che attorniandola di continuo la rinova: ma
vecchio è egli il lume del mese passalo? brm.— Vera- mente. soc.— Molti
chiamano la luna o-sAxtCclxt, erm.— Per certo sì. soc Ma perchè
tiene sempre il lume nuovo, e il vecchio, meritamente si
dovrebbe chiamare <rgAA*eyveo«6t«. Ora poi spezzato il vocabolo si
chiama <rgA<m tot. tMt.— O Socrate, questo nome è ditirambico: ma
come interpreti tu T< j r Cioè il mese, e T * forpx, cioè le stetle?
soc.-ll mese si chiamerebbe bene yg/j, T0 ^ ynuoìfBxu cioè dal
sminuirsi: ma pare, che le stelle abbiano la denominazione di òffTfflnr?S
, cioè del folgore : «TTfMnri poi, perchè a se rivoglie gli occhi si
do- vrebbe dire aTpoì’Jtì: ma ora con vocabolo più ao- concio si
chiama ònTTpentì. erm.— Onde ne cava.il nome "jrSp, nxì TÒ ic/l&p,
cioè il fuoco e l’acqua? •oc.— Dubito veramente del fuoco, e corre
rischio, o che la musa di Eutifrone mi abbia abbandonato, ossia
questo cosa difficilissima. Dunque considera qual «na- chinazione io
introduca, d' intorno a tutte siffatte co- se, nelle quali io dubito,
erm.— Quale? soc.— Dirpl? loti. Perchè rispondimi, potresti tu dirmi,
perchè si chiami fuoco, erm.— Per Giove nò. soc.— Considera ciò,
che io sospetti d'intorno a questo: in vero io sti- mo, che molti Greci
abbiano avuto molti nomi da' Barbari, massimamente coloro, che sono a*
Barbari •oggetti, erm.— A che queste cose? soc. — Se alcun cercasse
secondo la voce greca la retta imposizione di questi, non secondo quella,
dalla quale ha origine il nome, sai tu com’ egli dubiterebbe? erm.—
Verisi- 1 mente si. soc — Sicché vedi che questo nome * 7 ^,
non sia alcun nome barbaro, non essendo agevole lo
accommodarlo alla lingua greca, e manifesto è, che declinando
alquanto, i Frigi lo nominino incoiai guisa, TÒ vJìtof K«ì T«£
KÓKX? KtÒ » cioè l’acqua, ei cani, e altri molti nomi. ehm. —
Questo sì è vero, soc.- Dunque non fa raistieri, che si usi violenza a
quelle cose, poiché d’ intorno ad esse non potrebbe alcuno dirne niente.
Sicché in que- sto modo io rifiuto quei nomi di fuoco, e d’acqua:
ma lo c('ip, cioè 1* oere è cosl dell °» 0 Errao B ene » l ,erchè
crfpsi T« «TTÒ T*S ci0è S0lleva Ci6 ’ Cbe è d ’ ia * torno alla
terra, o perché scorre sempre, o perché si genera lo spirito col flusso
di lui, conciossiachè chia- mano » poeti tHrxs, gli «Pi» - '!'- Dunque si
dice aere peravventura, quasi *7TI(ev(iflCTÓppoi/V , «STOppov» ,
cioè corso di spirito. Ma del cci$epeC >° sospetto in questa tal
guisa, perchè sfóttei, cioè sempre scorre, scorrendo intorno all* aria,
perciò meritamente si può chiamar fatfripo 7* <Aa cioè la terra
maggiormen- te significarebbe ciò che si vuole se alcun la nominasse
7«?«V, perchè •ysvl/VITeipflC S1 P u ° cbiamar bene » cioè genitrice,
come dice Omero. Conciossiachè ciò che si dice yeyiwi, diss’egli
7S76V?<r3*i, c,oè l ’ esser fatto, ehm. — Si stiano le cose cosl. soc.
— Che ci rimane dopo questo? erm. — Le stagioni, e l’anno, o
Socrate, soc.— upxi, cioè le stagioni, sono da dirsi colla voce vecchia, e
Ateniese, se tu vuoi conoscer quello, che è convenevole, essendo elle ore
.upctt, c '°è perchè determinano il verno, e là state, e i venti, e
i tempi, per li fruiti, che nascono dalla terra, e de- terminando esse,
meritamente ore si chiameranno. ilici t/TOff po«* e sTO?> cioè l’anno
pare che sia lo atesso; perciocché quel che a vicenda manda in luce
qualunque cose nascono e si fanno, e le essamina ia se stesso, e discerne
è l’anno, e come di sopra di- cemmo, che ’l nome di Giove era segato in
due, e si chiamava d’alcuni « d’altri a/# cosi ancora chia- mano
qui l’anno altri evi flfUTÒy, perchè in se stesso, . ^ ■ f ^
altri ajoS, perchè essaraina. Ma ia ragione intera è, che chi
.esamina se stesso, si chiami ia due maniere essendo uno dj modo che da
un parlar solo si fac- ciano dpepomi,eVl «t/TÒ», e bT-OSì cioè anno, ehm
— O Socrate, tu te ne vai luoge oggimai. soc.-In vero mi è avviso
di far progresso nella sapienza, ebm.— Ansi si. soc. — Per avventura il
concederai maggiormente, xaw.— Hor dopo questa specie Volentieri
contemplerei, in che rpodo questi nomi eccellenti di virili siano
po- sti bene, come (ppóvn<ris, cioè la prudenza anwdcns, la
intelligenza, JitKCltOffvvì 1* giusti®!», e il rimanente di queste sorte,
soc.— O amico, tu susciti una sorte di nomi da non dispreizarsi; tua
nondimeno, poiché mi sono vestito della pelle del Icope, noa
conviene, M<5 ( . che io mi spaventi, anzi
consideri, come è avviso, i no* mi della prudenza, della intelligenza,
della opinione, della scienza, e delle altre cose siffatte. EnM.—
-Non dobbiamo veramente cessar innanzi in modo veruno, soc.—
Nondimeno per cane non mi è avviso di far mala congettura d’intorno a
quello, che al presente io ho considerato, cioè che questi antichi autori
di nomi, come adivien ancora a molti de’ nostri savi, siano ca-
duti fra gli altri nella vertigine dell’intelletto per la frequente rivoluzione
nell’iuvestigar, come se ne stiano gli enti, e poscia pari loro, che le
cose vadino intorno, c si portino da ogni modo. La cagiou poi di
questa opinione stiman essi non la passione interna, che è presso
loro: ma, che esse se ne stiano così per na* tura, e in loro non vi sia
niente di fermo, e istabi- le; ma scorrino tutte, e siano portate,
essendo ripiene sempre d’ogni portamento, e generazione, e ciò mi
dico considerando tutti i nomi, che ora si son detti, kbm — I n che modo
di tu, o Socrate? non hai consi* derato per avventura essersi posti i
nomi pòco fa dct* ti alle cose, che quasi si portano, e fluiscano, e
si facciano, erm. — Non li appresi bastevolmente.' soc —
Primierameute ciò che abbiamo riferito dinanzi ap- partiene ad alcuna
cosa di questa sorte, ehm. — Quale è cotesto? soc.— E £ <ppóvw<r/J,
c *°è prudenza, es- sendo ella (popi? xotf poi? vÓltO'lt?, c *°è
intelligenza di portamento, e di flusso. Ancora si potrebbe imaginare,
che significasse o»»<m <P0fXÌ, c ‘ oè nlI1 ‘ tà d: P or '‘ lamento;
nondimeno versa ella intorno alla agitazione. Anzi se vuoi *7»a(X»
cioè la opinione significa al tutto 701»? (TX6 i4»IF KOCÌ
l/àima'ir, cioè considerazio- ne di genitura; essendo lo stesso il i/apit
e <rK 0 Trei», cioè il considerare: ma se vuoi lo stesso g’
V0»<rU, cioè la intelligenza è tov 160 U Ciri?, cioè de** 4 ! 0
' rio di cosa nuova; che poi siano gli enti nuovi, si- gnifica, che
essi ai faccian sempre, e dimostra, che ciò desideri, e prenda a far
l’animo, chi pose quel no- me f 0 Hri$ : perchè da principio non si
diceva vonaif: ma erano da proferirsi due in vece di g come quasi
Veoe <r IH, cioè appetito di cosa’ nuova: tracppotri/VU, cioè la
temperanza è salute, e conservazione di quello, che ora abbiamo
considerato, tppovtreaf, cioè della pru- denza: gTriffTItfi», cioè 1®
scienza è tratta da ciò, che insta e segue, quasi segditi, e insti, e
accompagni I' animo le cose sole, che scorrono, nè per dimora sia
ultimo, nè primo col corpo correr innanzi. Sicché fa mi- stieri
fraroettendo 1 ’ g, si nomini eTr/ffTHfiEVDV, cioè prudenza: (ri/VKa’/f
d* nuovo cosi parerebbe esser sil- logismo, ciò certo discorso. Ma
conciossia, che si dica < rvtìevxt si intende lo stesso: come se si
dicesse 8 Tr/ffT«ff 3 (XI, perchè il dice che concorra
l’animo colle cose, aotpl'a, cioè ,a sapienza significa popvf e<pct i
rye<r9c(l, ctoi i* toccar il portatnento. Ciò poi è egli pih oscuro e
istrano: ma da’ detti de* poeti ci abbiamo ad arricordare qualora
vogliono e- sprimere alcuno, che si avvicini, o se ne venga coti
empito, dicono ga-t/,9», cioè usci con empito, anzi fra Lacedemoni ancora
sol/?, cioè veloce era il nome di certo uomo illustre, significando in
colai guisa i La* cedemoni 1’ empito veloce. Dunque la sapienza
significa TKUTHS T*9 cpopocs e’TTOCtpUf, cioè tatto di questo
portamento ; quasi siano portati gli enti : e pure TO «7«3oV, cioè il
bene di tutta la natura significa Tffl ccyxtncò, c *°è *1 mirabile,
perciocché scorrendo li enti vi si ritrova in loro la prestezza e la
dimo- ra. Dunque non è ogni cosa veloce: ma di lei alcuna cosa
xyocaTOVt *1 4 ua * ^ ene s * dichiara col nome dell’ «7«<ttov,
«/IntaioffW*, eTr», c '°è * a S ,ustiz * a possia- mo fare agevolmente
congettura, che sia tosto questo nome 7-5 tou c/ltK0t'/o!/ffl/V6ff8l,.cioè
nella intelligenza del giusto: ma è malagevole da conoscersi quel che è
giusto, parendo fine a certo termine, che sia ciò conceduto da molti: ma
si dubiti poscia. Perchè chiunque stima, che sia in moto il tutto
sospetta, che la maggior parte di lui sia certa cosa tale, la qual
non sia altro, che capire; e per tutto questo sia alcu- na cosa, che
scorra, con cui si facciano tutte le cose che si fanno, e sia ella
velocissima e tenuissima, per- ) 4M eh è non
potrebbe altrimenti discorrer per tatto L’en- te, se tenuissima non
fosse, in guisa, che niente in penetrando le possa far resistenza, e
velocissima in modo, che se ne serva delle altre cose quasi
stabili. Dunque perchè ella governa c/luoi/, cioè discorrendo per
tutte le altre cose, meritamente è addimandata c/I/kociov framesso uno y
per causa di più leggiadro proferimento. Fin qui ciò, che dicevamo poco
fa, si confessa da molti, che sia il giusto. Or io, o Ermogene, ardendo
di desiderio d’ imparare, ho tutte que- ste cose investigato
sccretamentc, quasi questo sia il giusto e la cagione; essendo quella la
causa, per la quale si fa alcuna cosa, e si disse da alcuno, che in
colai guisa si debba chiamarla. Ma tutto che io abbia udito questo,
tuttavia ritorno ad addimandare. Dun- que, o ottimo, che è il giusto,
poiché se ne sta egli cosi? a me par già di ricercar piu oltre di
quello, che si conviene, e salir fuori della fossa; perciocché
dicono che io a sufficienza ho addimandato e udito: e in volendomi empire
sì sforzano di dir chi una, e chi un’ altra cosa, nè convengono più
oltre. Altri dice, che questo giusto si è il sole, poi che egli di-
scorrendo sopra la terra, e riscaldandola governa il tutto. Ma quando io
riferisco questo ad alcuno, quasi io mi abbia udito cosa eccellente,
incontinente egli mi ride, e ricerca se io stimi dopo il tramontar
del sole avauzar agli uomini niente di giusto. Sicché pregradolo,
che di nuovo dica ciò, che sia il giusto, di* ce, che è il fuoco:
nè questo è agevole da conoscer- si: altri poi dice non il fuoco: ma pii»
tosto il calore innato nel fuoco: altri di queste tutte se ne ride: ma
dice, che il giusto sia quella mente, la quale Anossagora introduce. Per certo,
dice egli, che ella sia imperatrice, c adorni tutte le cose; penetrando
ella per tutte, nè mescolandosi con alcuna cosa. Qui, o amico, sono
sdrucciolato in ambiguità maggiore, che prima, mentre io procurava di
saper qual fosse il giusto. Dunque alla fine pare, che QUESTO NOME SIA
POSTO per queste cagioni a quello, d’ intorno al quale noi consideravamo.
erm.- 0 Socrate egli è avviso che tu abbia udito questo da qualcheduno,
nè cavatolo rozzamente dalla tua officina, soc. — Ma che dell al-
tre? ERM.-Non molto, nò. soc. - Dunque attendi: perchè forse io ti
ingannerei d’ intorno alle altre co- se, quasi io le riferisca, non
avendole udite. Che ri- mane dopo la giustizia? non ancora come stimo
ab- biamo raccontato eivJìplxV, c *°è f° rlezza » p erc ‘ oc * chè
la ingiustizia è lo impedimento di ciò, che dis- corre: ma 1’ et\iJ\pix
dimostra quasi, che si nomini nel combattimento. Ma che il combattimento
sia nell’ente s’ egli scorre, non è altro, che il contrario flusso.
Per la qual cosa se alcun leverà via il J\ da questo nome av
«/lp/<«, » nome che rimane * V P lX dÌChlara 1* opera stessa. Dunque è
manifesto, che non a qualun- c que io», cioè flusso, il-
contrario flusso èforhaxa: ma 'quel flusso Che corre oltre il dovere;
perchè bon al- trimenti sarebbe lodévole la fortezza. Or pò affli*
cioè il maschio, e S XV» f, ci ° ò l ’ uom ? lrae l ’ 0ti ‘ gine da
certa cosa somigliante p j iva pó», c,oe dal flusso di sopra. Ma <p UV
», cioè la donna, mi par che voglia esser *yoV») cioè genitura: po
yxf poi cioè Temine pare, che sia stato detto da $»AÌ£, cioè dalla
mammella. B egli poi avviso, o Ermogene, che $n\n «« dica, perchè fa
pgS«A6tr<XI, c,oè B ene ‘ rare e pullulare come quelle coie che si
irrigano? xkm.— Còsi apparisce, o Socrate, soc. — E pure p o 5otA—
Xciv cioè il germogliare mi par, che rassomigli it crescer de’ giovani, facendosi esso
veloce, e alt im- proviso; il che accennò colui, che formò il nome
cavò T0\i reìv, cioè di < Sorrere e «AAso-3«i, c ‘ oè di
saltare, consideri tu, che io sono portato come fuori del corso, poiché
ho ritrovato piana e agevole la via? eziandio rimangono molle cose, le
quali paio- no pertenere al serio? ehm.— Tu di il vero. soc.
Di cui una, si è, che vediamo ciò, che si voglia si- gnificare cioè
l’arte, erm .— Ad ogni modo. soc. — Non si dimostra egli é^tVfOV, .
l’ abito della men- te quasi ej^ovo», cioè avente mente, se si levi il
p, e si fraraetti 1’ o fra il e il y, e f ra '* » e il *?
>**\L è**»— Troppo aridamente, o Oberate, ed incivilmente. 1 •oc
t-r-Q non sai tn, uomo beato, che i nomi, i quali prim|erjqjentf furono
posti, siano stati celati, da cip tragicamente li vogliono narrare;
aggiugnendo essi per eleganza, e levandone via lettere, e parte per
lun- ghezza tempo, ® parte per desiderio di ’ ornamento
'rivoltandoli" ■ da tutte le parti , come per esempio tV TcS
Hpctfaipa, c,oi nello specchio, non parola te disconvenevole che si siaframesso
il pa? per certo tali cose fanno, come io stimo, chi prezzano, pih
* vezzi della bocèa, che la verità, per la qual cosa fra* mettendo
molte cose a’ primi nomi, alla fine fanno, che niun uomo intenda ciò, che
si voglia il nome, come mentre proferiscono T»y aai'y’yce, cioè
certo li i ; .-i • » f'iitij n sì . T ' *17 mostro,
dovendosi pronunciare <r<t>/'yot, e "tolte altre ' !
"!.• T I, . sose. ZBM,— ciò, o Socrate se ne sta veramente
cosi, soc.— Ma se si concedesse di nuovo ad ognuno secon- do il suo
volere di aggingnere e levare a’ borni, gran- de in vero sarebbe la
licenza: e chiunque darebbe qualunque nome a ciascheduna cosa, za»*.— Tu
narri il vero; ma si conviene, come io penso, che da tè presidente
savio, si servi certa mediocrità e decoro. irm.— I o il vorrei si. soc.—
E ancora io, o Ermo’gene, il desidero con esso téco: ma no il nctìncarè,
ò Uòmo félice, coi» troppo eSsata investigazione, affine non
annichili al tutto k virtù mia: perciocché io me ne vengo alla cimjt
delle cose antedette, poiché dopo 1 J-*! •- )53X
arte avremo considerato |iSJ<^«rÌT, cioè la machinazio-< ne,
perchè P 8re ■ me. Che Sia segno f oj) ecw7l, cioè delio aseender
rooho*, perfchè' significo flttOf, cioè lunghezza, vrpo? T<#TroXv,
Cioè appresso al molto. Dunque il nome ^l|^flCy»,.conje egli si com ; -
pone da questi due k«Ì TOÙ àtUÌI, :cìoè di lunghezza, e ascesa. Ma
come ora diceva, 4 da perve- nirsi alla cima della cose dette, e da
ceròarai ciò, che significhino questi nomi «psT*, cioè virtù,- e netti
Oli cioè vizio: .ora V uno nou il ritrovo ancorai l’altro par
manifesto, confacendosi eoa tutte le cose ante* dette, perciocché quasi
scorrano le cose ciò che fìa KftK£>£ iti, cioè è scorre malamente >
sari nati i/ct, cioè vizio. Ed il proceder malamente che si fa
nell’ anima inverso alle cose, ritiene massimamente la de-
nominazione del vizio; ma il hxkù)$ (Si'XI, cioè il prò* cèdere malamente
ciò, che egli si sia, pare a me che si dichiari ancora nel nome
t/fgiA/oe, cioè nella timi- dità, la qual non ancora abbiamo dichiarato;
aveodo* la noi tralasciata; facendo mistieri che la si conside-
rasse dopo la fortezza. Appresso ci è avviso di aver tralasciato molte
altre cose. Dunque it«/ls l A/«x signi- fica il forte legame dell* animai
perciocché 7 -$ Aistf è certa forza. Si che J\ei\ix, cioè la timidità è
il gran- dissimo legame dell'anima, così come ancora j xitopix.
Digitized by Google )>S4C cioè il
dubbio è male,, e , sommariamente qualunque impedimento del. progresso.
Questo dunque pare, che dimostri x,Ò K*k5s ì«»*», cioè l’ andar male
senza mo- versi, e con impedimento; la proprietà quando l’anima tiene si
riempie di vizio, che $e quel nome di malvagità compatisse ad alcune cose
siffatte, il contrario significherà virtlt. Primieramente SIGNIFICANDO abbondanza,
e poscia che il flusso dell' anima buona sia sempre sciolto.
Perlaqualcosa quello- che è senza re- tto tiono e impedimento xò
CÌ<r%B T6>£ Itati ÌKfl»Aw- /eoa, cioè che sempre scorre ha avuto,
come è avviso, questa denomufazióne. Si che stà bene, che alcun lo chiami
À&ippé frtf, 4°*** 8em lj re fluente. Ma peravvèntura lo può chiamar
alcuno oupgx&y, quasi, che qtiesto abito sia da elèggersi
massimamente. Ora Spezzalo il vocabolo si chiama «psT». D *rai lu
forse, che io finga: ma io mi affermo, che se pur quel nome dì
viziò, che io ho riferito è introdotto bene, che an- cor bene si
introduca questo nome di virtù, erm — Ma che si vuole T Ó KfltRf,
cioè >* raa,e i P er *° quandi sopra hai detto molte cosef soc. —
Certa cosa strana per Giove, e malagevole da ritrovarsi. Si che ancora
a questo io apporterò quella machinazione. ehm. — Qual
macbina'zionef soc Il dire, che questo ancora sia certa cosa
barbara. ERM.-EgH è avviso, che tn parli bene. soc. -Alla fine lasciamo
oggimai questi da parte, se il ti piace: ma tentiamo d* sedere In die
modo se ne stiano bene ragionevolmente questi nomi TÒ
K*A<fr, >t«ì TO edxpoi, cioè di bello e di turpé. Or ciò, che
significa oiìc^pat m > par manifesto, per certo egli conviene con gli
antedetti: perciocché mi è avviso, che chi ha posto i nomi biadimi ciò,
che iro- pedhce e ritiene dal corso gli enti* e ora pose il nome
ocel TW povv a ciò, che sempre impedis*. se il flusso
ocsiaryoppovt. Ma ora «pezzato il nome, lo chiamano cthry^p 0». Che si
vuole il’ kccAov, cioè’ il bello?* soc. — Ciò è via pih malagevole
da co- noscersi, dicendosi che questo solamente per causa di
armonia, e di lunghezza sia derivato, donde sì trasse. érm. — In che modo?
soc. — Questo nome pare, che sia certa denominazione di discorso. '
erm. Come di tu questo? soc. — Qual cosa stirai tu, che sia stata
causa della DENOMINAZIONE di qualnuqne degli enti? o non ciò,
che diede i nomi? erm.— Ad ogni modo, soc Dunque questo sarò
discorso o dei Dei, o degli uomi- ni, o di ambidue. erm.— Per certo si.
soc. — Dunque 70 KKÀOV» ret Trp«7(jiflCTflf, cioè quello, che
chiama le cose, e xò k«AÒ? sono lo stesso, che discorso. erm.—
Apparisce, soc. — Dunque qualunque cose fa di nuovo la meote, e il
discorso sono degne di. lodi.- ma quelle, che no, sono da biasimarsi.
erm.— Ad ogni modo. soc. -Dunque ciò, che è alto al medicare
fa > 56 ( le opre della medicina, ciò che è atto
all’ arte del legnaiuolo quelle, che sono proprie di lei: ma tu co-
me >1 potresti dire? ehm.— Cosi. soc. — Si, che ezian- dìo il bello,
le cose belle? ehm.— Fa certo mistieri. soc Poscia è questo egli il
discorso, come diciamo noi? erm. — Si certo, soc. — Si che questo
nome di bello, meritamente fa la denominazione della pruden- za
operante certe cose siffatte, le quali abbracciamo, dicendole belle,
erm.— Cosi apparisce. soCi-Quale altra cosa ..oltre al genere di
lei rimane da investi- garsi? e*m. — Quelle che riguardano al buono e
al bello, cioè quelle, che conferiscono, e sono utili e ci giovano,
e ci sono di guadagno, e le contrarie a que- ste. soc.-Ciò, che sia
quello che conferisce, tu il ritroverai considerandolo dalle cose antedette,
parcndj» certo germano di quel nome, che peritene alla scienza , non
dimostrando egli niun’ altra cosa , che 7HV Ò(piX(pQp XV TUS flBfCt T6IV
'7rpOC'yjiffTOV, cioè il portamento dell' anima insieme colle
cose, e quelle che quinci provengono sono chiamale < pjpoVTK K«(
ffl jpupopX, cioè giovevoli per quello, che sono insieme portate intorno.
e»m— Apparisce. soc.-Il K <xp</l*XeoV poi. ci° è *l ueUo che
dà * l gUad8 ' gno *jrà toDksHovS, cioòdal guadagno: ma M pJ\oS
esprime ciò, che vuole, se inserisse alcuno in questo nome il V per lo J\
nominando il buono in certo altro modo: perchè K gppftlWT«l, cioè
si mescola scorreudo \ in. tutte le cose
li POSE IL NOME, SIGNIFICANDO questa sua virtù; fraroeltendo il J[ per lo
y t il proferì xèpcAo£. jsBM.-Che poi il Av<tìàeAov», cioè l’utile?
soc.— Pare, o Ermogene, che non si ragliano di questo, co. me i
mercatanti, perciò sia chiamato e «¥ X'JTCùAÌm, - perchè schivi, e
isminuisca tÓ XVxAu^X, cioè le spese: ma perchè essendo velocissimo non
lassa, che Je cose si fermino, nè permette che il portamento ri-
cevi TSÀOJ, c '°è il fine del progresso, nè si fermi e cessi.* ma se
alcun ternane si imponesse, Io svorreb- be sempre da lui, e il.
renderebbe incessabile e im- mortale, in colai guisa io stimo, che il
buono sia chiamato Al/fflTeAotio», perchè ha chiamato -j-q
7*15 .* Il ,* - ' . ''VI < . (popis Avo» TO T6À0S, cioè
quello, che scioglie il fine del portamento, à^eAipo» P°'i cioè *1
giovevole è nome forestiero, di cui Omero spesse fiate si serve. Ma
questa denominazione è dello accrescere, e del fa- re. erm. — Che si ha a
dire de’ conlrarii loro? soc. — - non fa in verun modo mistieri, che di
quelli si trai- ti che si dicono per la negazione di questi. erm
Quali sono d’essi, soc.- A<ri[Upopov *i*ì XV 6 )<p sAÓj, ucci
ÌAvafreAs$. srm— T u parli il vero. soc. — 'AAAx fiAxjÌBpoi kxi
^Kp/atc/llS, cioè >1 nocivo, e il dannoso . erm, — Per certo . ■ soc.
— Ed il fiAxfiepov, dice sia t 0 fhAxvyov TO» poD, cioè ) 58
( quello che nuoce si corso, t* J\g jSAatT'yOI, TO
jSot/ÀOfievoV cnrrei», cioè quello, che vuole impedire. e cnTTBIV Reti
c/leTlf, c '°è impedire, e il legare di nuovo significa lo stesso, e
questo biasima per tutto. Dunque ciò, che vuole ecmeil K«ì cAell’ T 0
£>6v Aofteroi I ttntTBlV po0\ l si chiamerebbe bene fiovXonr-
TepOV, nia P er ornamento io stimo, che sia stato no- minato /JActjSspoV.
— O Socrate, vari nomi se ti vanno nascendo di sotto via, e mi pare
al presente, che tu abbia cantato innanzi certa quasi ricercata
del- la legge di Pallade, mentre proferivi il nome jJot )-
.1 AaTTTepoJ/V. soc.-,0 Ermogene, io non sono cagio-
ne. - ma chi posero il nome, ehm,— Tu di il vero: ma che sarà poi il
£uji/£c/|ef, c '°è dannoso? soc. — Vedi, o Ermogeue, ciò, che debba essere
e vedi quahto daddovero io parli, qualora io dico, che aggiugnendo essi,
o ^minuendo le lettere, alterano dì gran lungo il senso de’ nomi» in
modo, che cam- biando certa picciol cosa facciano alcuna volta, che SIGNIFICHINO
COSE CONTRARIE, il che. apparisce in questo nome Jisovjl, cioè opportuno.
Ciò poco fa in pen- sando quello, che io sono per dire, mi e venuto
in mente. In vero noi abbiamo nuova quella voce bella, e ci sforzò
a suonare il contrario TO c/l/o» K*ì TÒ confondendo il senso ma certo
nome vecchio f i s 9 ( dichiara
quello, che ai voglia, e i‘« no e allro me. eem. — Come di t„ cotesto?
soc—Dirolloli, tu sai che , magg.on nostri erano aoliti di vaierai molto
del I e del A, e maggiormente le donne, le qu.fi mmn . t
tengono si la voce vecchia, ma ora in vece del , vii aggiungono
ovver I* g o 1* ma in luogo del J il o come queste suonino alcuna cosa
più magnificamente. che modof soc.— Come per esempio gli uo -
rntm antichissimi eh, amavano T| ; y . cioè il giorno: ma altri
poscia il chiamano é^ p J t e » presenti ^ epxr , erm.— E gli è vero.
soc.-Dun-’ qne tu sai, che con quel vecchio nome si dichiara so. la
mente la mente di colui, che pose il nome; percioc- ché eh, amarono il
giorno S(lepxv> perchè da|Ic ^ bre s, faceva il lume agli «omini
«*/ povìjlt , Che ,1 desideravano , e si allegravano .
IZ “, AP / arÌSCe * S0C ' ~ Ma ° ra in ”0* ninno non intenderesti ,
q ue , , cbe voglia «..tato nelle tragedie, benché stimano alcuni,
che si d,c * Wépct, perchè faccia egli qualunque cose ,u{ po( cioè
mansuete, ehm. - Così mi pare. soc. - Nè ti * occulto, che abbiano
chiamato i vecchi ^ 1070 * cioè ,1 giogo t,yQ Vt ' erm — Per cert0( soo _
Ma ye raraeme T0 ' tyyfo aoa dimostra niente: ma j 0V70t
) fio ( dimostra s'neK# T»? J\oaeu$ 65 *m
«7^7*»,*' cioè il conducimento di due per causa di legare, e
lo stesso si dee giudicar di molti altri, erm. — E mani- festo.
soc. —Nel medesimo modo il to J\&ov cosi pro- ferito dimostra il
contrario di tulli i domi; che ris- guardano si bene; perchè certo
essendo il idea. • * del bene, pare che sia c/ÌSO'piOf,
cioè legame e impe- dimento del progresso » come certa cosa germana
TO jSÀKjSspOÙ, cioè al nocivo. erw: — Ó Socrate, cqs'i appar si. soc. —
Ma non già incoiai guisa nel no- me vecchio, il quale è yerisinaile, che
meglio sia; sta-, to ordinato del nostro, per certo tu coovenirai
coj beni antedetti, se per lo g renderai lo / t come anti-r '
4 camente si diceva; non significando c/|èov : ma J\lói quel
bene, il quale è sempre lodato; dall/ inventore dei nomi; e in siffatta
maniera non discorda egli eoa seco, anzi pare che sia lo stesso t/Isoy,
KCtì (à ftov, kx'i A.t/<r/ TeAow, it«ì nepo'ltfAsuv, K«ì
uyx- 0OV, K*ì <rviUpspov, K x) BV-KOpor Tutto questo uni- verso
significa con diversi nomi alcuna cosa, che ador- na, e penetra per
tutto, e questo è lodato: ma biasi- malo ciò, clic ritiene e lega. Anzi
se in questo nome porrai secondo la usanza dei vecchi il J\
per lo £ ti parerà egli posto giti JlovVTl TO ÌOV, cioè a chi lega,
e ferma ciò, che cantina, onde auco- Digitized by Google
) 6 . ( ra è do 1 nominar»! J \iynSJ\s(. «tto.-Che, o
Socrate «dèi \wnn,£'jn8vyilXI, cioè del piacere, del do- lore, e
della cupidità, e del rimanente di cotal sorte? 'soc. — O Ermogene, non
mi paiono troppo oscuri; per- ciocché a’c/lov», cioè il piacere ha questo
nome, dimo- strando quella azione, la quale tende alla ov*cr/V,
Cioè «dia 'utilità: ma il J\ aggiunto fa, che in vece di tjuello, che
è|,op» si proferisca Dc/bA.», ryv7r#, cioè il dolort pare che si nomini
da^^At/ireaff to? <r&'ft«T0W cioè dallo scioglimento del corpo;
dissòlvendosi egfi con cosi fatta passione, e xVÌX cioè * a
tristezza è quella, ■ , , ■ / che impedisce 7o teVXl,
cioè l’andare A^ye e/l£i>v, cioè il cruciato par nome forestièro detto
da oc^yeiVOV' oJlvì/n poi, cioè il dolore, e FaSlitione si denomina da e
Vc/lu— &BCo$ THS Al/TT»?, c! °è dall’ entrar del dolore, erm.
—Apparisce, soc.— a ‘yJtiJlÒV, cioè il dispiacere chiaro è ad ognuno che
e assomigliato il nome alla gra- vezza del portamento, ma ^ctpx cioè
l’allegrezza, e la letizia par, che sia chiamata da J\ loc^vireus, c '°è
dall* facilità evTTOpixs cioè del movimento dell’anima. Si cava T }
p'M St cioè il diletto da Tg/>4.t?, cioè dal di- lettevole;
maT-gp^j^ydaTÒ rspJWoy da JìtXTÌS £pr\-e&)$, cioè dalla inspirazione
del diletto aell’auinia. Sicché meritamente si chiamerebbe
tpTrrovi, ' ) ( cioè inspirante; ma dal
progresso del tempo il è di- venuto a t«/>TTV 0». Per q ual cagione si
dica cioè l’allegrezza e vigoria non è bisogno renderne conto, essendo
manifesto a chiunque trarsi questo nome da efò, che si dice èv TOÌS
TrpxypLXXI TtV ffvp Hpepsa<pXI, cioè perchè l’anima si porti bene
con le cose, onde si dovrebbe chiamare et/tpEfOtrufl, nom- dimeno
l’appelliamo tvtppotTOVIV. Egli non- ,è poscia • • difficile d’assegnar
ciò che si voglia i'juSvpHX, cioè il desiderio, conciossiache questo nome
dimostri la for- za tendènte Bnr ) T jy et/fxòv, cioè all’ira; ma $^9'
cnrò TI? Bvaeus, *xì leaeas, cioè dal furore, e dall’ ardore
dell’anima, ipepoS e/)è poi cioè il desiderio fu chiamato rÒ [ia\t<rTX
sAkovtj t*V oj-t/jc.»» pò, cioè dal flusso, che tira l’anima
massimamente, perchè da quello che ìepieVOS pel, cioè incitato' corre, e
desi- dera le cose e tira in colai guisa grandemente l’anima, J\lX
TtV etri r TtS pois, P er lo empito, ovver incitamento del corso. Da tutta
questa forza è chiamato "ipLBpoS, Oltre ciò è chiamato -j^oBos, cioè
desiderio; perchè ve. raraenle non risguarda la soavità presente come
fytg/JOl/, ma di quella vede che altrove si trova, ed è assente,
pnjle si dice ttoSos, '* quale quando è presente ciò che si desidera si
chiama 'ipitpos, «sente votQS, sptaS, poi cioè l’amore: perchè eitrp$i
6%a$6V, c '°è influisce dal di fuori nè è proprio questo pon f cioè corso
di chi il tiene: ma per gli occhi infuso. Sicché si chiamava
l’amore dagli ontichi nostri da gg-pg??, cioè dall’in- fluire
tapo$, Cl0 ^ in rt uen * a » valendosi doì dell’ o per Ma ora si dice
gpaj per lo cambiamento del o nel & Or che ordini tu, che si
consideri di poi? erm.— J\o%X, c ' 0 ^ * a °P* n ' one > e certe altre
si fatte cose, onde hanno esse i nomi? soc.*-Si dice J\o£oc, o
da cioè dall’investigazione, con la qual ca- mbia, e segue l’anima
investigando la coudizion delle cose, o da -j-jy TO^OU JèohìSt cioè da ^°
scoccar del- l’arco: ma quinci pare più tosto, che dipenda, | omeri
J, cioè la stimazione a ciò consona, assomigliandosi all* entrar
dell’anima in qualunque cosa, il qual dichiara ciò che sia qualunque
degli enti, cosi come e jgot/A*, cioè lo volontà si dice da »l*Ho
scoccare, • TO £0VÀE<r8*<, cioè a volere P er ,0 sr °"°
del toccamento, significa ancora $<f>lecr$ttl, c,oè ll desi
' derare, e j?ovAst/«<rS«l, cioè 11 con8Ì 8 1,,re ’ Tulte t l ue
* «te cose seguenti la opinione pare che siano simula- ci T«J
jgoÀ»5 del ,iro ’ come '* conlrario » «jSowAi*, cioè il scoccar a falli
apparisce certo, difetto impo- tente *1 percuoter, come non abbia tocco
il segno, nè conseguito ciò che voleva, e di cui si consigliavo, e
mr desiderava. zrm;-P6fc, chè tto metti- insieme
questi nomi più frequenti, si che ornai facciasi fine favorendoci Dio.
Oltre di questo desidero, che mi sia dichia- rato ciò che sia oCVXV.il, e
6X0U<r(0V cioè la necessità^ e il volontario? soc. — Or to'
gKOi/fftOV, cioè il vo- lontario TO 61 K 0 V, K«ì ft« ocrf ITl/TTOt/V, Cl
°è chi ced^ nè contrasta, ma ubidisce a chi camma sarà dichia- rato
con questo nome, che si fa secondo il volere. Ma TO av«7K«tOV cioè il
necessario, e il rimanente essendo fuori della volontà verserà intorno
allo errore, e alla ignoranza, è assomigliato t5 K 0 !T ÒtTot Sc'/VH
TCopstOC, cioè al camino, che è nelle valli, perchè essendo esse
malagevoli, e aspere a passarsi, e dense (V^stTOt/ JeVflft, ritengono dal
caulinare. Quindi dunque fu peravventurà chiamato avcc'yxcclov cioè
necessario assomigliato al cam- mino che si fa per valle. Ma fin che
abbiamo possanza non ci manchiamo sicché ne ancora tu non voler
cessare: ma interrogami. ebm. — Ora io addimando quelli, che
son grandissimi, e bellissimi tdv T6 Oi\^^BlXV, c ‘° &
>- • • > l la verità e t 0 cioè la bugia, e to oy, c,oe
l’ente, e 0V0fi« cioè il nome di cui ora trattiamo, per- chè tenga
questo nome. soc. — Chiamami tu pcc! ecrBxt, alcuna cosa? ebm.— In vero
chiamo lo investigar^,- soc. — Egli è avviso, che questo nome sia
generato da quel sermone, onde si dice esser oy, cioè l’ente, di cui
il nome è investigaiipnfc, il che, pii»,, chìqramat^ con^- prend
erai. Per cert,o In quello che, noi; t}icjwò TOtì voj Utr O-TOl/,
cioè nominato esprimendosi qui ciò, che sia no* •® es ‘ <x\nBelX pòi
cioè la verità pare che sì eorapongi ancora come gli altri,
perciocché il 'portaménto ‘cfivi- . a-ji' •»!*.?
no «n, > dell’ente par che si dica con questo nome
QÒpx, w«>; i.i ri ■ ’ r i otatf ;oq[ no«' r ft. r ql«
essendo quasi flst« Oliffflt «A», c,oe certa > div,na in'
,n t>. et «MI scorreria: ma il >J,sV(/|o5, c ‘°è bugia,
£ al portamento. Perciooehèdi nnovo si disprèggi* quello, che vien’
ritenuto, e costretto; a star quieto* ed è asso» migliàio T<) f
? K*9*v^óy<rl, cioè ai * hi dòrmonoi uid lo 4, aggiuntò occhila il
senso del nome, ov pòi e 0 t/tì" ioti cioè l’ente, e la
essenza si confanno con «Aot/^st, c '°^ ó! .. ,1. 1 1 tip II .10105
5 ; ‘"Iti» eoi vero, gettando via il / perchè significa iptfp
( C'oè lo andante, e di nuovo' tq 6K0V il wn C*U e » come il
nominato alcuni oi/Ktov> cioè che 'non va. sart.— Q Socrate, mi
è avviso, che rimilo fortemente' tu abbi» ventilato questi nomi: 'ma se
alesili) li addiniandassè di questi t# tOV, TO p’eOV,KO U Tft (Httl/V
tosse U retta loro interpretazione, che principalipenle 1»
ris* ponti eremo noi ? i 1 tieni tu forse? soc. — Teugolo certo. In
vero poco fa .tei sovvenire un non. so che, coir la cui risposta pare a
noi di risponder alcuna cosa, san» — Qualej è cotesto? soc.— Che diciamo,
chesia Barbarei ciò, che non conoSeijdno,- perchè forse sono
daddovc- >«( re io parte tali, e malagevoli
da ritrovarsi i nomi pfi- mieri per. l’antichità; perciocché «torcendosi
i nomi per tatto, non sarebbe maraviglia niuna, «e la voce an- tica
colla nostra pareggiata non fosse niente differen- te dalla voce Barbara,
erm. — Non e fuor di proposito ciò, che tu db soc.— Dunque io apporto
cose veri- simili, non per tanto perciò pare, che la contesa am-
metta la scasa: ma sforziamoci di investigarli, e con- sideriamo in colai
guisa, se alcun sempre cercasse quei verbi, per li quali si dice il nomò,
e di nuovo pro- curasse di saper quelli, per li quali si dicono i
ver- bi, nè ciò facendo cessasse, forse non sarebbe egli ne-,
eessario, che alla fine si stancasse il. rispondente? brm. — À me par si.
soc. Dunque quando cesserà merita- mente colui, il qual nega la risposta?
o non quando a quei nomi pervenirà, i quali sono quasi elementi del
rimanente, cioè de’ sermoni e de’ nomi? in vero se in colai guisa ne
stan' essi, non dee parer piò, che d’al- tri nomi siano composti, come
per esempio abbiamo detto poco fa che to otyxS OV, cioè d bene fosse
com- posto da ecyxtTTOv, cioè del mirabile, e $ov, tì °à del veloce
3eOV P°* cioè il veloce, diremo noi che co- sti d’altri, e essi da altri:
ma se alcuna volta a quello perveniremo, che più oltra non si forma
d’altri nomi, meritamente diremo noi di esser pervenuti allo
elemen- to, nè piò oltre faccia mistieri, che’l riferiamo ad al-
tri nomi, bum.—' T u mi parj di parlar bene, soc.— O non sono quei nomi
elementi» i quali tu ora addì- mandi? e fa egli bisogno che altrimenti si
consideri la retta interpretazione? sbm.— Ciò è verisimile, soc. —
Ve- risimile certo, o Ermogene. Per la qual cosa tutti gli
antedetti pare, che siano a questi ascesi, e se ciò se ne sta cosi come
mi pare, or di nuovo considera con esso meco afline per avventura non
impazzisca, mentre tento di dichiarare la retta inlenzion dei primi no-
mi. zbm. Di pure, perciocché io vi penserò secondo il potere, soc. Io
stimo veramente, che in questo tu assentisca, che una sia la retta
invenzione di qualun- que nome, e del primo, e dell’ultimo e niun di
loro in quanto nome discordi dall’altro, ehm.— Si. soc. — E
nondimeno la retta invenzione de’ nomi, i quali poco fa riferito abbiamo,
voleva esser certa tale, che dichia- rasse, quale si fosse qualunque
degli enti, ehm.— Senza dubbio, soc.— Questo veramente non dee
convenir manco o primieri, che agli ultimi, se sono per dover esser
nomi, ebm.— Al tutto, soc. — Ma gli ultimi nomi, come è avviso, potevano fornir
questo per li pri- mieri. ebm. — Apparisce, soc. — Stiano le cose
jcosì. Or i primi, a quali altri ancora sottoposti non sono, in che
modo secondo ’I possibile, ci dichiareranno gli enti, se deono esser
nomi? rispondimi a questo. Se non avessimo voce, nè lingua, e avessimo
voluto dichiarar Vicendevolmente le cose, non avremmo tentato noi
co- si, come i muli al presente, di significarle colle mani, coll*
tetta, e col rimanente del corpo? ibm.- Non al- i ;> i iiit k '
ci : •» !>«M Ili menti, o Socrate, soc. — Ma, come io
penso, se volessi ni o dimostrar il supremo, e il lieve inalzeremo le
•mani in. verso al cielo, la stessa natura delle cose imitando: ma se le
inferiori, c gravi le rivoglieremo alla terra; pia oltre dovendo
dimostrare un cavai corrente; o alcun altro animale, tu sai, che da noi
si sarebbe fin- to i gesti de’ corpi nostri, e le figure quanto più
presso alla loro somiglianza. erm.— Ciò, che tu dì mi pare
necessario, soc. — la questo modo, com’io penso, con lo imitar il corpo,
si sarebbe con queste parti di cor- po dimostrato quello, che chiunque
avesse voluto di- mostrare. erm. —Così certo, soc. — Ma poiché
voglia- mo dimostrar colla lingua, e colla bocca, nou si fa cosj
finalmente la dimostrazione da queste se per esse d’in- torno a qualunque
cosa si fa la imitazione? erm. — Io penso necessario, soc. — Sicché, come
apparisce, è il nome imitazione di voce di quella cosa, la qual imita, e
nomina chi imita con la voce, erm — Il mede- simo mi pare ancora si sia
detto bene, erm — Perchè? soc.— Perchè saremmo costretti a confessare,
ohe ques- ti imitatori di pecore, e di galli, e d’altri animali no-
minassero le stesse cose, de’quali si imitano. *hm.-— Tu pnrli il vero,
soc.— Non pare a te, che stia ben questo? erm. — A menò: ma o Socrate;
qual’ imitazione sia il nome? soc.— Non tal imitazione, qual è quella
che si fa per la masica tutto che si faccia colla voce: nè delle
stesse ancora delle quali la musica eziandio è imitazione; non dicendo
noi, conio è avviso, la imi ta- llone per la musica. Ma così mi dico, li
trova egli iti quaizfnqtre cosavoce, *v figura, e in motte color an-
cora? twm^kd wgnf modo.'- SOC. — Dunque se alcuno queste imitasse,
intorno a queste imitazioni non si ri Irorarebhe io facoltÒdel nominare,
essendo altre d’esse la musica, 1 altre lo dipintura; non è egftì 1 cosi?
va*». — Veramtfhte. soc, — Che a questo? non pensi ta, che
qualunque coso tenga còsi la essenza, come if Colore, e le altre cose,
che abbiamo detto dianri? o hon si ritrova egli* ntìl colore, e nello
vóce certa essenza e in qualunque altre cose, che so n degne della
denominazio- né dell’essere? ehm.— A me parsi, soc. — Che duh"
que è se alcun fosse possente di imitar con lettere, e con sillabe la
essenza di qualonqdé còsa; non dichia* rerebbe egli ciò, che fosse
qualunque 'Cosa, o pur nò. soc.— Qual diresti tu, che potesse far questo?
tu gii antedetti' parte chiamavi' mùsici, parte dipintori:' ma costui,
come il Chiamerai tu? "e»w\— Mi par, o So- crate, che egli sia
l’autore del nominare 1 , ’ ! il quale già molto cerchiamo, soc. — Se
questo ò vero, ò-òggimni da cònbiderarsi d’intorno à quei nomi, che 1 ;
tu ricer- cavi pouj, c ioò del flusso, levai dell’andare,
a-^e<reo£ della retenzionc, se daddovero imitino la essenza,
ovver nò colle lellere, e colle sillabe loro, ras:.— Al tutto, sóc.
— Or vediamo se questi soli sono i nomi primie- ri, o ne siano ancora
altri molti, In vero io sti- mo degli altri, soc.— E cosa
verosimile. Allo perfine, qual maniera sia della divisione, onde
incomincia ad imitare, chi imita, non giova egli primieramente, eh*
» distinguano gli dementi; poiché si fa la imitazione dell’essenza con
lettere, e con sillabe? come chi si maneggiano d’intorno a ritmi,
distinguono primiera- mente la virtù degli elementi, poscia le sillabe e
in colai guisa, se ne vengon essi alla considerazione de' ritmi, e
non prima, ehm. — Così è. soc. — Onon fa pri- mieramente mistieri, che
ancora noi distinguiamo le lettere vocali, dopo il rimanente secondo le specie,
cioè le mutole, e quelle, che non rendon suono? parlando- ne iu
colai guisa gli uomini eruditi, e di nuòvo le non vocali: nondimeno non
al tutto senza suono? e le specie vicendevolmente differenti delle
vocali: e poi- ché avremo ben diviso tutti questi enti: di nuovo fa mistieri
ebe popiamo i nomi, consideriamo se sono quelli, ne’ quali si riferiscono
tutte le cose come elementi, da' quali eziandio lecito è, che essi si
veggano e se si; contengano in loro nel medesimo modo le specie, come
negli elementi. Considerale bene queste cose tutte,' fa mestieri, che si
sappia apportare qualunque di loro, secondo la somiglianza; n se una
aduna sia daappor-. tarsi, o molte da mescolarsi, come i dipintori in
va- lendo assomigliare alcuna volta applicano il color pur- pureo
solamente, altra volta qualunque-altro. colore, al- tra volta ne
raescolauo molti, conta quando vogliono figurare la imagine
somigliantissima all’uomo, o al- tra siffatta cosa in quanto ciascuna
imagine ha bisogno di ogni colore, non altrimenti ancora uoi
accommoderemo gli elementi alle cose, e l’uno all’uno, ove ps- rosse, che
facesse bisogno, fornendo Ta cioè I SEGNI, i quali son detti sillabe. Le
quali poiché avremo congiunte di compagnia, e di loro formati I NOMI E I VERBI i
nomi, di nuovo fabricberemo de’ nomi e verbi cer- ta gran cosa, e bella,
e intiera. E così come si ft li con la dipintura l'animale, così qui
chiameremo orazione fabricata, o colla perizia del nominare, o colla
retlorica, o con qualunque arte, che ciò si faccia, anzi non faremo
questo avendo noi in parlando trasgredito la misura pet* ciocché i vecchi
cosi composero, come si è ordinato.' Ma fa a noi mistieri, che
investighiamo tutti questi in cotal gnisa, se pur siamo per considerarli
artificiosaroeo- l«, distinguendoli così, o se siano posti i primi
nomi come conviene, e gli ultimi, ovver nò: ma lo annodarli al
rimanente è da vedersi o Ermogene amico, che per avventura, non sia
errore, nè secondo il dovere, zaii - Peravveutnra si per Giove, o
Socrate, soc.- Che don- que ti confidi tu di te stesso di poterli
distinguer in questa maniera? perchè io mi diffido potere, ehm— lo
mi diffido molto piò. soc.-— Dunque li dobbiamo lasciar noi? o vuoi tu,
che comunque siamo possenti faccia- mo esperienza, e incominciamo se si
possa da noi conoscer certo poco di queste cose, dicendo davanti a* Dei
così, come poco fa abbia lor detto, che noi non conoscendo nulla di vero,
congetturiamo le opinioni degl, uomini d’intoriv, ad essi: cosi al
presente ancora seguitiamo, predicendo parimente a noi stessi, che
) r*'C •« fosse atil cosa chfe si distinguessero o d’alcun
altro* ** noi, cosi sarebbe mistieri, che si dividessero: ma .ya»
come si dice, converrà, che noi trattiamo que* sto, secondo il potere, ti
par egli posi, o come di tu? erm.— C osi forte mi pare, soc.— O Ermogene,
io sti- mo, che sarebbe per parer cosa ridicolosa, che le cose •i
facessero manifeste con la imitazione fatta per le let- tere, e per le
sillabe; nondimeno necessario è, non a- vendo noi niente di questo
miglioro, al qual riferen- do giudicassimo d’intorno alla verità d e>
noroj primieri, se peravventura, come i tragici, qualora dubitano
ri- corrono alle machinazioni innalzando i Dei, cosi an- cora noi
non, ci . espedissinv* tosto questo dicendo; che da’ Dei siano posti *
primi nomi, perciò siano stati or- dinati be«e. Duuqne questo parlare
sarà egli ottimo presso noi, Oiquello che gli abbiamo ricevuti da
alcuni barbari, essendo i barbari di noi .più antichi, o per la
vecchiezza non li possiamo discernere cosi come i nomi barbari ancora.
Questi sono schermi, o leggiadri al di chiunque non vogliono render la
diffinizione della imppaiaiono retta de’ primi nomi: perciocché
chiunque non tiene la retta diffinizione de'prirui nomi, non può
conoscer i seguenti. Questi per certo sono da dichia- rarsi da quelli,,
de’ quali non è alcuno, che ne sappia nulla. Anzi chiaro è, che chi fa
professione della pe- rizia de* seguenti, abbia compreso gli antecedenti
inolio prima, e perfeltissimamente li possa dimostrare, ma
altrimenti dee sapere, che egli sia per prender errore ne’ seguenti; c siimi tu in ultra guisa? ehm.—
N on al- trimenti, o Socrate, soc.— Le cose dunque, che io sento
d’intorno a' primi nomi mi è avviso, che sinno cose ingiuriose, e
ridicplose, e se vorrqi con esso teco le conferirò: ma se tu ritroverai
cosa migliore, eziaudio tu Con esso meco la' comruunicherai. erm.—
Farollo; ma dì oggimai con fidanza; soc.— Dunque, primiera- mente
jl p pare a me, che sia come stromento del movimento tutto: ma perchè
tenga questo nome non l’abbiamo detto: ma .phiaro è, che vuol esser
(eirtS", cioè andata; perchè non si valevamo noi, per lo-
adie- tro del jj- ma dell' 8) egli significa il principio {la
it/str. cioè t'andare, il qual è nóme forestièro; è egli' lo f e
yJj : ‘il j r r . v ' . r cioè lo atiflarè.- Sicchè^sè
41 prifnt? nóme* di luì si ri- trovasse iraspaptalb nella voce nostra,
bene Ye-rtC si chiamerebbe.' Ora poi chi' K/6/V nome fòre-
stiero, e dal riiutaniento del « e' dal frammettersi il * , ,
‘ y si chiama Ma faceva bi so gii oidio qi dices- , •
!•' • ' ir. t>-| ii -, j — se k ieiveei?, ovver eitr/j, * c/|s
<xrxais, c,oè *° stare h ;•«..» . ;, v "T A'vumsori'.moi .
! vuol esser negativa di temi, cioè dell’audare: ma per
'fiiijs qfeoa •••unric yi. H causa di oruainento si , chiama
Di >080^0 il p elémento, parve come ora diceva* opportuno
stromento del moto all'autore de’ nomi per esprimer la somiglianza del,
portamento perla qual.cqsa'uso il p pec tutto alia espressione del
movimento.- Primieramente T £ 6 Cr. ) 74 ( p e 6 1 V K«ì poti, cioè ne
Ho scorrere, e nel flusso imita il portamento per la lettera p poscia
nella voce •jrpoy.n cioè tremore, e nel Ypxyjs.1, cioè nell’aspero,
ancora nelle parole di colai sorte ^poveiV >1 percuoter, Spxvsiy
il romper fpln$iy il tirare SpvTTT&lV rompere, xeji«T t?
tagliare in pezzi pspjSeiy, vacillare, tutti questi per lo pili
figura per lo p conciOssiache, io la lingua nel proferir questa lettera
non ritarda niente, anzi pili tosto si commove. Sicché egli è avviso, che
si abbia servito del p principalmente alla espressione di que- ste
cose. Eziandio in tutte le cose tenui penetranti massimamente per tutto
si ba servito del t; laonde imita per lo / jofapjCI, KCc'l 70 UcBx, cio «
l’andare, e il far progresso, come ancora per lo q e ^ e e £ le
quali lettere sono di spirito pili veemente. Cose si fatte ci esprime l’
autor del nome, come per esem- pi 0 TO 1° C08a fredda yo ( 90V , la
bogliente, 70 <rele<r9xi, i 1 commoversi, e al tutto
<rej<r{iov, cioè la commozione; e qualora l’ordinatore de’ nomi
vuol imitare alcuna cosa spiritosa per lo pili impone let- tere si
fatte. Oltre ciò la strettezza del </| del y, e il tirar in dietro
della lingua come attaccata, pare che sia estimata molto opportuna alio
esprimer la potenza del legame, e dello stare, e perchè nel proferir il
^o- KiaBxmt y.x\ia'7ct ÌVKÙ77X, sdrucciola la lingua massimamente,
perciò con questo come da certa somi- glianza nominò TfltTfiAfi tot * e cose
piacevoli, e «TOUTO «A/<r0#/veiV lo sdrucciolare, e T0 \nrxpov «1
grasso H«< TO KoAAà^le?, cioè quello che ha virtù di con-
glutinare, e le altre cose di sì fatta sorte. Ma perchè il «y ritarda la
lingua, che se ne scorre, imitò to V A/o-J^.o» >1 lubrico, T0 «yA^KU
*' doIce tt*ì J^Aottà- cAbs, e il viscoso. Di nuovo avvedendosi
dell’interno suono del p con lui nominò to 6»dlov, K«tì TO 6VT0J,
cioè le cose interne, qnasi assomigliando le opre alle lettere- poi diede
ja fts'yotAw, cioè al grande e t£ p*K6l, c *°è “Ha lunghezza perchè sono
lettere gran- di: ma ffTpq'y'yuA^ c *°ù rotondo, avendo egli biso-
gno dell’ o, per lo più nel nome lo mesoolò. E nella stessa guisa 1’
autor del nome pare, che si sforzi di ac- commodar a qualunque ente
segno, e pome secondo le lettere, e le sillabe, e da questi poscia
comporre il ' rimanente delle specie secondo la somiglianza. O Ermogene,
mi pare che questa sia la retta interpretazio- ne de’ nomi, se non
apportasse Cratilo alcun’altra co- sa. ehm. — E pure, o Socrate, spesse
volte mi trava- glia Cratilo, come ho detto da principio, mentre
af- ferma, che vi sia alcuna retta interpretazione di no- mi: ma
nondimeno quale ella si sia non la dice chia- ramente in guisa, che io
non possa conoscere se egli volontariamente lo faccia, o pur nò; cosi ne
parla sem- 6 * ) 7 6 ( prc d'intorno
ad essi. Dunque, o Cratilo, dimmi ora alla presenza di Socrate, se ti
piace il modo, con cui egli ne parla d’intorno a’ nomi,' o Se tu puoi
dire io altra miglior guisa, il che se puoi il dirai a line, che o
da Socrate tu impari, o ammaestri nmhidue noi. ca. — Ma che, o Ermogeuc?
ti par egli ogevol cosa rap- prender in cosi poco tempo, c lo insegnare
qualun- que cosa noti che una cotanta; la qual d’intorno alle
grandissime è stimata certa grandissima cosa?’ ersi.— Per Giove nò, anzi
io stimo, che Esiodo abbia par- lato bene, che utile sia l’aggiuguer il
poco al poco. Sicché se tu sei possente al fornire alcuna cosa se
ben picciola, no il ricusare: ma giova a Socrate, ed a me appresso,
dovendolo tu fare, soc.— In vero, o Crati- lo, nè io stesso affermerei
niuna di quelle cose, le quali dianzi ho raccontato. Ma iu quel modo, che
mi parve ho ciò considerato con Ermogene. Laonde prendi ardir in
esprimere, se hai alcuna cosa migliore, co- me io sia per ricever
volentieri ciò, che dirai: non- dimeno nè mi meraviglierei se tu potessi
dire alcuna cosa di queste migliore, parendo a me, che tu abbia
considerato siffatte cose, e imparatele da altrui. Duo- , que se da te si
dirà alcnna cosa eccellente; mi an- novererai fra tuoi scolari intorno
alla retta investigazione de' nomi, cr.— Per certo, o Socrate, questo tu
di, mi fu a cuore, e ptravvenlura ti farei scolare, nondimeno dubito, che
la cosa se ne stia incontrario ad ogni modo, perchè mi sovvieue di dir in
certa ma- Digitized by Go 5 > 77 (
niera lo stesso in verso a te che disse Achille ne’ sacrifici in verso od
Aiace. O Aiace, nato di Giove, fi- gliuolo di Telamone, re di popoli, tu
hai proferito tutte le cose secondo il mio parere. Ancora tu, o So-
crate, pare che indovini secondo la mente nostra, o essendo tu inspirato
da Eulifrone, o ritrovandosi in te alcun’ altra musa, il che ti era
ceialo innanzi, soc. — O Grati lo, uomo dabbene, ancora io ammiro
già molto la mia sapienza, nè mi confidi troppo. Sicché . io stimo
che sia da considerarsi da nuovo ciò clic io mi dica, essendo gravissima
cosa lo ingannarsi da se stesso; perchè come non fia cosa grave,
quando non è poco lontano: ma sempre presente chi è per ^ingannare?
sicché fa mislieri, come è avviso, voglicr- si spesso alle .cose
antedette, e come dice il poeta, tentar di guardar innanzi, e indietro
parimente. Or al presente vediamo ancora ciò che si è detto. Ab-
biamo detto retta int» rpetrazione di nome ciò, che dimostra quale sia la
cosa. Mi dì, dobbiamo dir noi, che qitesto si sia detto bastevolmente? in
vero io l 'af- fermo. soc — Dunque si dicono i nomi percausa d’insegnare?
eh.— Al lutto. , soc.— Dunque dobbiamo dir noi, che questa ancora sia
arte, e mietici di le.? er.^Sì. soc. Quali? cn— Quelli che da principio
tu chiamavi facitori di nomi. soc. — Mi di, possiamo dir noi, che
questa arte sia negli uomini parimente come le al- tre, o altrimenti?
questo è poi quello, che io voglio I dire. Sono
egli alcuni dipintori peggiori, altri piti eccellenti? ce. — Sono il.
soc. — Non fanno gli ec- cellenti 1’ opere loro più belle, cioè gli
animali? in- contrario gli altri? ancora i muratori fan essi pari-
mente le case parte più belle, parte più turpi? ca. — Cosi è. soc.— Gli
autori eziandio delle leggi non fanno essi l’ opere loro parte più belle,
parte più turpi? ce. — Questo non mi par no. soc.— Dunque non pare
a te, che altre leggi siano migliori, altre peggiori? ca. — Per certo nò.
soc. — Nè anco come apparisce stimi, che altro nome sia posto
migliore, altro peggiore, cr.— Nè questo, soc.— Dunque tutti i nomi
sono posti bene. cr. — Quanti sono nomi, soe. — Che del nome di Ermogene
che si è detto di sopra? come dobbiamo dir noi, che a lui non sia
po- sto nome, se non, cheli compatisca spfiov'yGVEO'EflJ, cioè, che
sia della generazione di Mercurio? o che sia posto: ma non bene? cr. — O
Socrate, non mi è avviso, che ancora gli sia stato posto: ma paia
si: ma che sia d’altrui questo nome, dì cui è la natura ancora, che
significa il nome. soc.-Dimmi, non mentisce chiunque dice, che egli non
si diea Ermo- gene non essendo da dubitarsi, che egli non si dica
Er- mogene non essendo, cr— In che modo di tu questo? soc. — Forse
perchè non è lecito al tutto il dir il falso? e si suol SIGNIFICAR poi
questo il tuo sermone? perciocché, o amico Cratilo, sono alcnni
ancora, che il dicono al presente, e il dicevano già. ca.— Per-
ché, in che modo, o Socrate, mentre dice alcuno ciò, che dice, dirà egli
quello, che non è? o non è egli il dire il falso,, dicendo le cose, che
non sono? ,soc.-0 amico,questo parlar è più eccellente di qnelche
ricerca la condizione, e età mia; nondimeno dimmi se paia a te; che alena
non possa parlar il falso: ma il possa dir sì. ca. — Nè dire, soc— Nè ancora dir- lo, nè chiamarlo? come
se alcuno fattosi incontro prendendoti per la mano iosegoo di ospitalità
dices- se, Dio ti salvi, o Ospite Ateniese Ermogeoe figliuol di
Smicrione; parlerebbe egli questo, o si direbbe che parlasse; a direbbe
questo, o saluterebbe in colai gui- sa non te:, ma Erraogene, o ninno?
ca*— O Socrate, mi pare che costui gridi, ciò in vano, soc. — Que-
sto mi basta, dimmi grida il vero chi cosi grida, o il falso? o parte il
vero, parte il falso? perciocché basterà eziandio questo. ca. — Io direi,
che questo tale strepitasse, indarno movendo se stesso, come
se alcun battesse i rami. soc. — Considera, o Cratilo, se in alcun
modo conveniamo, non diresti tu forse; che sia altra cosa il nome, altra
quello, di cui è il no- me? cr.— Veramente. soc. — Dunque confessi tu,
che ’1 nome sia certa imitazione della cosa? ca. — Sopra il tutto,
toc —Dunque e le dipinture in certo altro modo dì tu, che siano
imitazioni di alcune cose? ca.— Per certo sì. soc.— Or dimmi, perciocché
forse i» non . intendo, quel, che tu di.- ma tu peravventura
parli bene; polressiroo noi dispartire,, e portare ambedue queste
imitazioni, e dipinture, e quei nomi alle co- se, di cui sono imitazioni,
o nò? cr.~ Possiamo si . 1 soc.— Or. questo considera primieramente, se
potesse' alcuno attribuire la imngi.ne dell'uomo all'uomo, e alla
donna quella della donna, e le altre nel medesimo modo? cr. —Così certo,
soc. — Dunque iu contra- rio ancora la imagine dell’uomo alla donna, e
della donna all’uomo? cu. L- E questo, soc. — Or ambe- due questi
compartimenti son forse elli, retti? ovver^ l’un di essi? cn. — L'uno dì.
soc. — Quello pen- so io, il qual dà il proprio, C simile a
ciascheduno. cb, — A me par sì. soc. — Dunque acciò tu e io es-
sendo amici, non contendiamo nelle parole, conside- ra ciò, che io djco.
Io chiamo retto ( compartimento una cosa siffatta in ambedue le
imitazioni e negli ani- mali, e nei nomi: ma ne* marni non solo, retto:
ma vero. Ma l’altro conducimento, e portamento dal dis- simile non
retto, e appresso falso ne’ nomi. cr.—O So- crate redi che ciò
peravventura possa solamente ca- der nelle dipinture, che alcuno
compartisca male: ma non nei nomi: ma sia necessario che sia sempre
bene. soc. — In che modo di tu? d’intorno a che è questo da quelle
differente? non è egli forse possibi- le, che nd alcun uomo fallósi alcun
incontro dica, questa è tua figura, e peravventura a lui dimostri la
figura di lui peravventura anche di donna. Dico essfcr il dimostrare 1*
offerire a sensi degli òcchi.' c».’ <*- Per certo. : soc. Ma che? di
nuoto’ fattosi all» stesso incontra dica, questo è il tuo nóme,
essendo il nome certa imitazione, cosi come la Figura; ma dico in
colai guisa. Forse non fia lecito a Ini di di- re questo è il tuo nome?
poscia infondergli il medesimo nelle orecchie, peravventura dicendo la
imita- zione di lui, che egli è uomo, e forse la imitazione di-
alcun genere umano dicendo, che è donna? non pare a te: che ciò sia
possibile, e si possa fare al- cuna tolta? cr. — Te il voglio conceder, o
Socrate,’ e così sia. soc. — O amico, tu fai bene, se ciò se ne sta
in cotal guisa, perciocché al presente non fa’ mistieri, che d’ intorno a
questo si contrasti. Dunque sequivi,si ritrova on certo tal compartimento;
l’ uno chiamiamo parlar il'vero, l’altro parlar il falso, e se
questo così se rie slà egli, ed è lecito, che non si conipartnno i nomi
bene, nè si rendano a qualunque i propri: ma alcuna fiata quelli sì, che
non sono propri; sia lecito parimente, che si l'accia questo neU le
parole. Ma se possiamo poner i verbi e i no- mi in cotal guisa,
necessario è, che similmente si póbgano ancora le orazioni, essendo esse,
come io penso componimento di .questi, o come di tu, o Cra- tilo?
cr. — Così parendomi, che tu dica bene. soc. — Dunque se assomigliamo i
primi nomi alle lettere con certa imitazione, pnò avvenire d’ intorno a
que- sti come nelle dipinture, che si diano confacevolt tatti
ì colori, e le figure: e medesimamente non li aggiungiamo tutti; ma
parte, e parte ne leviamo, a Li dimostriamo, e più , e manco, non è egli
possibil questo? cr. — Possibile sì. soc. — Dunque chi tutte le
cose rende concordanti, rende le lettere belle, e le imagini: ma chi ne
leva,, o ne aggiugne fa egli lettere ancora, e imagini: ma cattive, cr. —
Per cer- to. soc. — Ma che? chi imita poi la essenza delle cose per
lettere, e per sillabe, non fa egli forse la imagine bella secondo la
stessa ragione, se convene- voli rende tutte le cose? questo poi è il
nome: ma se mancasse poco, o vi aggiugnesse alcuna volta, si
farebbe egli la imagine: ma nou bella? sicché alcu- ni nomi saranno
ordinati bene, altri in contrario? cr. «. Peravventura. soc. -—Dunque fia
questi peravven- tura buon artefice de’ nomi, quegli cattivo? cr. — Veramente.
soc. —Orerà costui facitor de’ nomi. cr. — Veramente, soc. — Dunque per
Giove, fia forse in questo come nelle altre arti, che sia un buon
fa- citor di nomi, l’altro cattivo, se pur fra noi conve- niamo
nelle cose antedette, ca. — Questo è vero: ma vedi tu, o Socrate, qualora
diamo queste lettere 1’ x o il fi, e qualunque elemento a’ nomi con
l’arte della grammatica, se li leviamo alcuna cosa, o li aggiugniamo, o
eziandio mutiamo, che da noi si scrive il nome, nondimeno non bene: anzi
egli non si scrive affatto.- ma incontinente è cosa diversa, se li
adiviene alcuna di queste cose. soc. * E da vederti, o Cratilo» che
peravventura non consideriamo bene, in cotal gai* sa considerandolo, cn.—
Iti che modo? soe.— PeraV- ventura quantunque cose, le quali necessario
è, Che siano, o non siano da alcun numero ciò patirebbo- no, che tu
di come il dieci, o qualunque altro nu- mero, che tu vuoit che se tu ne
levassi alcuna cosa, o la aggiugnessi, incontinente si farebbe diversa:
ma non è questa peravventura la retta maniera di alcuna qualità, nè
di tutta la imagine insieme: ma il contrario; nè al tutto bisogna, che la
imagine tenga itt se qaalunqne cose lien quello, di cui è imagine,
sé pure è per dover esser imagine, e considera se io dico alcuna cosa.
Saranno forse queste due cose, cioè Cratilo, e la imagine di lui, se
alcun de’ Dei non sola* mente esprimerà il tuo colore, e la figura, come
so- gliono i dipintori: ma farà eziandio tutti gli interiori
somiglianti a’ tuoi: la stessa tenerezza, é il calore, il moto, 1* anima,
la prudenza, e per abbracciar in po- che parole, tali affatto farà tutte
le cose, quali in tè sodo? dimmi questa tal cosa forse sarà ella
Cratilo» è la imagine di Cratilo? o due Cratili? CB.—Due Cra- tili,
o Socrate, come io penso. soc. — Vedi tu, o amico, che è da cercarsi
altra retta maniera di ima* gine, che di quelle cose, che abbiamo poco fa
det- te? nè si abbia a sforzare-, se alcuna cosa si aggiuguesse, òri
levasse, che prh imagine non siti? 0 boa ti avvedi tu quanto manchi aHe
imaginì, che ‘tenga- ) m do te stesse cose, che ha
quello, di cui sono imft* gini? ,ca. — Veramente, soc. — O Cratilo,
nvvenirebbe da’, nomi alcuna cosa ridicolosa d’intorno a que- ste cose,
di cui sono nomi; se si rendessero loro somiglianti al tutto, perciocché
si fnrebbono doppie tutte le cose, nè si potrebbe dir qual fosse
l'una, o l’ altra di toro, forse la cosa, o il nome* cr. Tu parli il
vero. soc. — Dunque, o uomo generoso, con fidanza permetti, che altro de’
nomi sia posto be- ne, altro nò; nè voler far forza, che egli abbia
tutte le lettere,, acciò sia tale, quale è quello ancora di cui è
nome: ma permetti, che porti una lettera manco confacevole, e se lettera,
parimente è uomo nell’ora- zione, e se nome, che si porti eziandio
appresso nel parlar sermone non confacevole alle cose, e niente
manco si nomini la cosa, e si dica finché si ritrovi la figura di ciò, di
cui è il sermone, come ne’ nomi degli elementi, se tu li ricordi, quello
che poco fa io, e Ermogene dicevamo, ca. — la vero mi lo ri- cordo.
soc Dunque bene; perciocché quando vi farà questo, benché non si
ritrovino tutte le cose coufacevoli; nondimeno si dirà ben la cusa
quando saranno tutte: ina inale quando poche. Sicché per? mettiamo,
o beato, che si dica, acciò come coloro, che iu Egina vanno vagando di
notte forniscono tardi il viaggio,, così paia, che iu questo modo noi
per- veniamo alle cose piò lardi da buon senuo del do- vere; o
ricerca alcun altra retta maniera d’ intorno al nome; nè confessar tu, che
sia nome la dichiaratone della cosa fatta con lettere, c con sìllabe:
per- chè, se queste due cose dirai, tu non potrai accorda- re, e
convenir con te stessei. ex. — O Socrate, tu pari di parlar bene, é cosi
io assentisco, soc. - Poi- ché d’intorno a questo Convenimmo si ventiti
da noi il rimanente. Se dee esser il nome posto bene, di- ciamo far
mistieri, che si ritrovino lettere a lui de- centi. ce — Per certo, soc.
— Convien poi, che let- tere siano simili alle cose, cm —"Sì. sOc. —
Dunque quelli nomi, che sono posti bene, cosi son posti: ina se
alcuno non « posto bene, perawentura per lo piu sarà di lettere
convenienti, e somiglianti, se do- veri esser iniagine; terrà poi ancora
alcuna cosa noci convenevole, per la quale non sarà buona, nè fatte
bene: diciamo noi in cotal guisa, ovver altrimenti! ***■ ” ® Socrate, io
penso; che non faccia mistieri, che contendiamo, non mi piacendo, -che si
dica esser nome, nondimeno non posto beile.- soc.J- Forse non-'
piace a te, che il nome aia -dichiarazione di 'cosa! CJt — Mi pisce sì.'
suo. —Ma' pensi tu', che non W sia detto bene. Che parte siano i nomi de’
primi compo- sti, e parte siano i primi?' cu. — A me sì. - soc—Or
se deooo esser I PRIMI SIGNIFICAZIONI di alcune cose, hai tu forse più
commoda maniera, onde si 'faccia questo, che se si facessero tali, quali
son quelle, coi se, le quali vogliamo, che si dichiarino? o
piultosttf ti piace, questa maniera, la quale è detta da Erbo*
1 ) 86 ( gene, e da altri molti, cioè,
che i nomi siano certi componimenti, e dichiarino a chi composero le
cose, e le conobbero innanzi, e ne sia questa la retta ma- niera
del nome, cioè il componimento, nè imporli, se componga alcuno cosi, come
si è oro composto, 0 incontrario? cioè come l ’ o picciolo, il
quale ora o picciolo si addimanda, si nominasse o grande: ma l’&
f che al presente si dice o grande, si dicesse o pie • ciolo? qual
di queste due maniere piace a tef ca.— Adognimodo, o Socrate, importo,
che alcun dichiari con somiglianza ciè, che vuole dimostrare: ma
non con qualsivoglia cosa, soc, — Tu parli bene. Dunque non è egli
necessario, essendo il nome simile al- la cosa, che gli elementi, dei
quali si compongono 1 primi nomi, per lor natura siano alle cose
somiglianti? ma così dico, o si sarebbe fatto da altri la dipintura
alcuna volta, la quale dianzi abbiamo det- to simile ad alcuno degli
enti: se i colori, di cui si fa la iraagine non fossero per natura
somiglianti a quella cosa , la quale è imitata dallo studio del di»
pintore? « è egli impossibile? ca — Impossibile certo, soc. ~ Nel
medesimo modo non si farebbouo i nomi somiglianti mai ad alcuna cosa, se
quello, di cui si compone i nomi non tenesse alcuna somigliànzà di
quelle cose, di cni sono i nomi imitazioni. Quello poi, 'di cui si
compongono i nomi, sono gli elemen- ti. cr.-* Veramente, soc. Oggimai
fatti partecipe di quei sermone, del quale ne è partecipe Ermogene pòco
fa. Or dimmi, ti è egli avviso, che noi diciamó bene. Che il p coovehisse
al portamento, al moto e alla asprezza, o non bene? CR.-Bene sii soc. —
Ma A piano, e a! molle, e alle altre cose da noi nar- rate? cr — V
eramente. soc — Sai tu dunque che Io P : chiama da noi
ffKÀ*pOTl£; ma da Eretriesi <rKAty>0T«£?. CR--Corto si.
*oc.— Dimmi , se questi due p e+ paiono somiglianti allo stesso, e
dimostrano il medesimo cosi loro per la de- terminazione del p f come a
noi per lo ultimo o non significa niente agli noi di noi? cr -Anzi
il significa agli uni e agli altri, boc — Forse in quonto sono
somiglianti il p e il o in quanto dissomigliane ti? ca— In quanto
somiglianti, soc.— Dunque ìn quan- to sono simili in ogni luogo?
CR.-Peravventura al SIGNIFICARE almeno il portamento, soc. 0 il \ frames-
so ancora dimostra egli il contrario dell' asperità?
CR—Peravventura, o Socrate, non è framesso bene, co- me quelle cose, le
quali tu trattavi dianzi con Ermogene, mentre e levavi via, e ponevi le lettere
ove massimamente facea mislieri. E tu mi parevi dì far bene, e ora hassi
a por forse il p per lo soc. — Tu parli bene: ma che? al presente
quando alcuno prò- nuncia <rKÀ»/>oif, come dicevamo, non ci
intendiamo tranci? nè sai tu ciò, che io al presente mi dica? cr,-
0 amicissimo, per usanza lo so veramente, soc. ) 88 (
Quando tu dì usanza, pensi tu dir cosa diversa dal componimento?
chiami tu altro usanza, che quando 10 pronunciando questo, e
considerando quello, tu co- nosci, che io considero; non dì tu questo?
cr. — Que- sto stesso, 'soc. — Dunque se tu conoscessi questo pronunciandolo
io, li si fa per me la dichiarazione, cr. —Così è. soc. — Cioè dal
dissimile ili quello, che io pensando proferisco, poi che è dissimile il
\ a quello, che tu chiami <rn?iHp OTUTflC, cioè asprezza, e se ciò se
ne sta così, che altro ha egli se non, che tu I con te stesso sii
convenuto? e ti si fa egli la retta tnaniera del componimento? poiché
cosile simili, come le dissimili lettere li dimostrano lo stesso , conseguendo
lat usanza , e il componimento ma se la usanza nou fosse componimento,
nou si potrebbe, dir bene ancora, che la somiglianza fosse dichiarazio
ne: ma usanza; poiché, come pare, la dichiara colla similitudine, e con la
dissomiglianza. Ma, o Cratilo poiché noi concediamo questo ( couciossiachè, IO
PONGO IL TUO SILENZIO PER CONCESSIONE) è necessario, che la usanza, e il
componimento appartenga alla dichiarazione di quello, che considerando diciamo,
perciocché, se tu ottimo uomo volessi discender alla cousiderazione de 1 '
numeri; donde penseresti tu di poter apportare nomi somiglianti a qualunque
numero, se non permettessi, che la concessione c componimento tuo
tenesse alcuna autorità intorno alla retta maniera do' nomi?
eziandio mi piace, che i nomi in quanto è pos- sibile, siano simigliatiti
alle cose; dubito nondimeno, che peravventura, come diceva Ermogene, sia
in c^rto snodo lubrica la usurpazione di questa somiglianza, e
siamo sforzati a valersi ancora di questa cosa trava gliosa, cioè del
componimento d’intorno alta retta ma- niera de’norai: percbè secondo il
potere peravventura si direbbe allora bene, quando si dicesse o con
tutti, o similmente con la maggior parte, cioè con conve- nevoli:
ma sozzamente quando in contrario. Or ciò ap- presso a questo dimmi, qual
forza tengano appressa noi i nomi o qual cosa beilo affermiamo, che si
faccia da noi col mezzo loro? cb.—O Socrate, pare a me, che insegnino i
nomi, e ciò sia molto semplice, cioè che chiunque sa i nomi, eziandio
sappia le cose. soc. — O Cratilo, tu peravventura dì alcuna cosa
siffatta, che quando conoscerò alcuno quale sia il nome (essendo egli
tale, quale ancora si ritrova la cosa ) eziandio conoscerò la cosa,
poiché è la cosa somigliante al nome; essendo un’arte, e la stessa di
tutte le cose tra loro somiglianti* Da questa ragione indotto pare,
che tu abbia detto, che chiunque conosce i nomi, ancora conoscerò
le cose stesse, cr. — Tu parli il vero, soc. Or vediamo qual sia questa maniera
della dottrina degli enti, la quale ora tu dì, e se piu oltre ve ne sia
d’altra, nondimeno sia questa tenuta migliore; o fuor di lei, non ve ne
sia niun’altra, in qual di questi due snodi pensi tu? ex.— Cosi io stimo,
che nou ve oc 6 Cr. sia d’altra; ma questa sola,
e ottima- soc. -Ma dimmi se questa stessa sia la invenzione degli enti,
che chi ba ritrovato i itomi, abbia ritrovato ancora le cose, «li
cui sono i nomi? o faccia ni isti eri, che .altra maniera '
•„ r c si cerchi, e si ritrovi; e questa si impari?, ca. —
Sopra tutte le cose è da cercarsi questa maniera, e ritrovarsi,
soc. — Or, o Cratilo consideriamo si, se a!cun mentre investiga la cose
segue i nomi, considerando quale dee esser ciascheduno. Consideri tu
forse, che non sia piccini il pericolo di non restar ingannato? cu.
— in che mi'do? soc.— Perché chi da principio pose i nomi quali
stimò egli, che fossero le cose, eziandio tali nomi pose, come diciamo,
non è egli cosi? ca. — Cosi affatto, soc. — Dunque se egli non pensò
bene: ma li pose quali lisi stimò, che pensi Ju, che sia per
avvenir a noi, che lo seguitiamo? altro forse, che di re- star ingannali?
cn.— O Socrate, chi sà, che questo non se ne stia cosi: ma sia necessario,
che' quegli. sia Stato scientifico, che pose i nomi, altrimenti come un
pezzo fa diceva, non sarchbono nomi. Questo poi ti può esser di
evidentissimo argomento, che non traviò dalla verità l’au(o e del nome?
che se avesse avuto rea opi- nione, in moilo niuno tutte le co e non si
accorderei)- bono in colai guisa appresso di lui o non considera-
vi ancora tu quando dicevi; che tolti i oomi tendes- sero nello stesso?
soc.— O buon Cratilo, non vai niente questa difesa, perchè non è cosa
sconvenevole, se da .principio ingannalo ['ordinatore de* naini, tirò di
uuq- ’) s« f ^0 » seguenti nbini con ceria fona
si primo, e I* sforzò ad accordarsi seco, come intorno alle figure, ritrovandosi
alcuna volta la prima figura ignota e falsa, I* • . . . . 1 :
• le rimanenti poscia essendo molte conviene, che insteme Si
accordino; conciossiachè ciascheduno dèe dispu- tar molte cose' intorno
al determinare il principio di (]ualunque!tCOsa, e considerar
diligenlissimainente se il principio è supposto bene o nò, il che
bastevo) men- te esaminato, le altre cose ornai lo deono seguire. Nondimeno
mi maraviglio, se i nomi couvegnano con loro stessi. Perciocché
considereremo da capo le cose di- nanzi da noi narrate, come, che i pomi
ci significhino la essenza, quàsi che l'universo vada, si porli e
scorra. Stimi tu fórse, che èssi significhino in cotal guisa, o
altrimenti.!^ cr.-— Cosi sì, e il significan bene. soc. — Sicché
consideriamo se assumendo alcuna cosa da loro. Primieramente questo nome
CTIffTtlftdt, c ‘°*“ di scien- za, come é egli ambiguo, e pare, che più
tosto signi- fichi, 0T / larniTìv etri tùìs Trptryftoctri rnv
cioè che ferma l'animo nostro nelle cose, che sia egli portato
intorno con esse, ed è meglio, che di- ciamo il principio di lui, come
ora, che gettando l’g dir TriffTtljiltV, ma frammettiamo in vece
del g il /. Pos- cia il jSsjSa/GV, cioè il fermo; perchè è imitazione
fix- o-eas Ttvog, hoc) (TTCUreas, c»°è di certo stabilimen to, e
state, che del portamento. Più oltre g’ tO’TOpt* Digitized by Google
) 9» I Significa per certo questo, che ciò, che
poti» le 1 ™* ‘l corso e TOTTWTO», c*òè quello che sf ha a credere,
significa ad ogni modo tffTXV, c *°è «l fermare. Poscia) j xytiym, cioè
la memoria dimostra certo ad ognuno, che è nell'anima poM, c '°è
fermezza: me non agitazione: come per esempio, se alcuno rolesse
seguire i nomi 0 apiXpTix, ttfltt « ffV[I(pOpX, c * oè 1 ® errore, e la
calamiti; parerebbe di inferire lo stesso, che si riferisce -jr»
e-vvsirej sa) 6Trt<rT»ft», cioè *“ intelligenza, e la scienza, e gli
altri nomi, che posti sono alle cose serie. Ancora £ ec^x 3 ix, xaì rf
XKOfiKfflX, cioè la ignoranza, e la intemperanza paiono simili a
questi; perciocché £ xpixBtX pare, che sia 7-01/ x^ixBsu tOVTOS TTOpelx,
cioè il progresso di chi se ne va in- sieme con Dio: ma cctLOXxrix P are
•* tulto certa «KOÀov- glg' cioè conseguenza alle cose. Ed in colai
guisa quei, che noi pensiamo nomi t^i sozzissime cose pareranno
somigliantissimi a quelli nomi, che sono in- torno alle cose bellissime,
eziandio stimo, che si po- trebhono ritrovare d’altri molti, se a ciò
alcun atten- desse; onde penserebbe di nuovo, che l’autor de’ no-
mi significasse non cose correnti, e portate: ma per- manenti. cb. Nondimeno
o Socrate tu vedi, che la maggior parte de* nomi significavano in quel
modo, «oc.— Che è dunque questo 0 Cratilo: annovereremo
\ forse ì nomi qual suffragi, e sassettif e consisterli ?»
questo la retta maniera, cioè quat di queste due gui- se de' nomi paia di
SIGNIFICAR pili, e questa sia la vera* Non convien nò. soc. — O
amico in modo miuno. ÌOr qui' lasciamoli:' ma consideriamo, se in
cotal guisa ci assentissi, •ovver nò. Dimmi non confessavamo noi
poco la, die -coloro, che ponevano i nomi nel Te città GrCche, e Barbane
fossero ■positori de* 1 nomi, é Ifarte, che ciò poteva ftossC de' nomi
postricé? cr — Al tutto slr «oc.— Or dimmi tu, chi pose i primi nomi,
"cono* scevan essi Ié còse, 1 cui ponevano i nómi, o non le conoscevaSo?
10 c*>. — Io penso, '0 Socrate, che Ie^etìno 1 - scesseroi s oc;— Per
certo, o amidó Crétìlo, non essèit* do essi ignorami; cir.— Non rtìi 2 5
sdt.-iR'itòd niamo di nuoi-o colà, Ondò si '^ipàrtimriro. Perciò posto
fa dicesti-, se tu li raccordi'; èli® era tìeeessario,' che «hi poneva'
i’WóWii conOSctìsè'Ié^'cbse/'cui 'tl penevai dimmi pare à- tu ancóra' ;
cosV; hòP 'cit.4-Eziatf* diO si; "stìd.'— ‘PeTavventura
dllu'J'che chi pose i 'priì ini nómi, cbuoscendòH 'H ponessé. '■ cA.-
Conoseèndòlk soci— .Da’ quàlì homi ' avrebbe egli'imparato, o
ritrova- to le cose,- ! sé Otti a fossero ancora 'pósti i primi no-
mi! e di nhdVo'tfibiamD nóij èhè sià’ Còsa impossibi- le di ritrovar lé'
èòSéj o impararle altrimenti, che imparando i nhiéi/’ ò per noi quàlì siWo 1
ritrovandola CR.— O SOcràte,’fnf è avviso, che lÓ~dìcà alcuna cosa,
toc-— Duriqóe io che ‘modo ‘dirémo''%iòi che essi sa- pendo abbiano posto
? ‘nomi! ossiatro dati facitari dd’ )&<
Domi insanii che si ponesse qualunque nome, e abbia! solessi
conosciate, le cote innaoti, nou potendosi) «Ile «llmnenli imparare, che
co’ oprm? c«.— In vero: io pen- so, Soc Fate, che questa sia_ verissime ragiono,
d’iniorjse questo, che certa .potenza maggior dell utnaud sia stata
qneHa, che pn»e,^pri#»i homi ;fl!e cote, 4t maniera die aia necessario,
chiosai tfi pestiano bm»f.3,»«c.-4.Posc»a penti tu, che Fautpr de’ nptni
li* abbia ppsli contras ri a se stesso, o se fu egli alcun dtnipoe p Dio?
o pare fi r te, che di sopra da noi nop ,^;jgi»(deUo,aicn> te?
ca. — Ma chi sa, che gli altri j nqmj; non fossero di questi, soc. —
Quali d* questi due p , ottimo uomo e^ano. es s > forse di quelli*
che, si rifulgono olio sta? Io? o di quelli pi u,. tosto, che al
mpviinputfe? [ilrciocchè nou ancora si giudicheranno colla moltitudine
seaon r do , quello chq poco^a abbianao ^ttos ; ,^tf^CÌ0si con»-
yjenfj p ^oprate. i u ^o«i e:dV cendo parje di essi .e^er siglili
ajlfl. 1 .flfr fermando di so sa il^ medepi 6 &P ' ’.'U ‘ <d
i r torniremo noi?, ©, a chop^vfln^d^ -pgvfthè fcerlp #4
allri nomi, da .qufstft <K»n;flSftr^rqgjq^»jjii^#r jepdpup.
d’oltrg ma ( c^iarp g 8 »,qfe4 'WW HO fi. Cerca rp, perle, altpp
c«tSf,^C.,^i 0 9hiM r W n 9 TO%- nifeste ^enaft^qiRijop. ci ^mustrer^ngp
^^Ojit*;, de- gli epti^cjoè qapLdt questi due, , <y*.,-n-Coj. si
. mi .parer, Mfij-gp C‘V- 0 -i9f* l lKj c .3Bfia«lé ^.coy tf(
guisa.pqssiappo,, comp pa^iip^arj^ gli enti _5.eBXf «pmL. «h-rApjptfjjcp.
sof.T^P^r- mezzo di qual t)r tra cola pensi tu
principalihénte, che ih possami * tip* prender cose, è forse per mezzo di
alcun’ altra, che per quella, che è convenevole, e giustissima per
U Vicendevole tomunicanza loro, Cioè se in qualche modo sono insieme in
parentela congiunte, e per toro stesse msssimàtneute? perciocché quello,
che è diver* ib da lord divèrsa cosa significa non quelle. cu.*- A
- me pare, che tu dVil vero. ioc.-'-Deh d\, non abbia^ tìio noi
conceduto già molte volte, che siano : i nohàiy i quali Spn posti bene
‘similissimi a quelle‘‘Cose, d'i cup Son nomi*, e imagini loèo? ’ Cr.
-< Per certo l'abbiamo conceduto, soc.— Dunque se lecito; è di imparar
le' Cose per li nomi,i e' per loro-stésse ancora, qual sa-' rebbe
apprensione ‘più eccellente, e più chiara: Corse' se dell’imiigine si
imparasse, esprimendone ella 'beilo' la verità di oui è ella imagine, o
più. 'tosto dalla ve^ rilà còsi ella, eome la imagine di 1 lei, se essa
fosse fatta Convenevolmente? ‘ Cri— Mi par ' necessario dalla
verità- 1 Sòc.— Egli Rppar fattura d’ingegno maggiore' del mio e del tuo,
il giudicare in che modo siano da comprendersi le cose, o per dottrina, o per
invenaione. Basterà poi al presente, che siamo fra noi- convnuti, che elle non
siano da impararsi,’ ie da cercarsi/ i da' nomi: ma per loro stesse più
tosilo.;' er.-i*Cos«i «p*v perisce, o Socrate, sóc.— Appressò-
considenaino/anco- ■« ri' questo, acciochè questi molti nomi nello
stesso/ tercw! denti ‘boa ci ingannino, avendo pensato, ehi si
posero,/ •he Mute le cose corressero scazp(é, e . socrressi.ro, ci
I Ì9 «f «on quella considerazione
«tendali polli, parendome, che essi abbiano pensato in colai guisa. Ma se
a caso, non se ne starebbe egli eoa). In vero essi quasi
sdrucciolati in certa vertigine vacillano, e ai travaglia, no, e nello
.stesso tirando noi, ci alludano. Perchè considera, o Cratilo, uomo
maraviglioso, che io spesse voi* te sogno, se è da dirsi, clic sia alcuna
cosa il bello, e il buono, e Cosi qualunque degli enti, oppur uò? ca. O
Socrate a me par si. aoc.— Dunque consideriamo questo, se alcun viso, o
alcuna delle cose silTalte sia bella, parendo, che scorrino tutte: ina
quello, ebe di-, ciomo bello non persevera sempre tale, qu.de è
egli?, c*.— Necessario è. soc. — Dunque è possibil forse, cha, egli
si denomini bene, se (ugge sempre, e primieramen- te si dica ciò, che
egli sia, poscia quale sia? o neces- sario è mentre parliamo, che egli si
faccia altro incon- tinente, e si fugga, nè più sia tale? cr.— Egli è
necessario. SOC,— In che modo sia quello alcuna cosa; che non se ne sta
mai nella stessa maniera? percioc-,. cbè se alcuna volta se ne sta nello
stesso mod'>, chia- ro è, che non si muta niente in qui 1 tempo, «die
«c do sta cosi: ma se slà sempre uella stessa guisa, ed è il
medesimo, in che maniera si potrebbe mutare, o mo- ver non diseostaudosi
punto dalla sua idea? cr.— tu modo ninno, soc. Più oltre uè alcuno si
conoscereb- be facendosi altro e diverso incontinente, che se no ;
vico quello, che l’ idee conoscere. Sicché non si po- trebbe conoscer
più, che, < quale si sia, o come si ritrovai*®, ♦ per certo niiina
c<jgoÌRÙ)taat$anosce 1* co* sa, la quii conosce, non stendo
ella;inalcuo modo» cu.— figli è coese tei dii i socy7rMe,nè.onAOW* 0
CraltlPià verisimiln che sùdice c©gi»iaioDe,,8e si nantanp tulle le
cose, -e «ente^sù-ffetow-iChèise la cognizione ppo ca« desse da quello,
onde è cognizione, si f cr m erebbe SCO* 1 * pre,* e sarebbe sempre
qognixione. Ma;se essa Specie anr Cora di cognizione 'Si' dipartisse, in
altea^pecie passe* rebbe -insieme ilicognitionenè cogniaìone starebbe»
che sta' pdrileteamewtfe si 1 mutai non sia sempre cognizione» d di
^aéSta' ragiorte,; no® 'sarài eli# nè ciò», che» & per cò'dtfscel^i
ttè fciè, éh« è r -per" dovérsi poposoere: ma se ditèmprè'queito che
conosce, >ed è qoelio ohe si co* no sa e, «d è il bello, ed anche il
buono, ed èoquàl*iB4 qnc degli enti, non mi pare che ciò che diciamo
al presente sia simile al flusso ed al portamento. Or se questo se
ne slà egli cosi, o come dicevano i settatori di Eraclito, e altri molti
non si può discerner agevol* mente, non è ol^jtrid’qaaqèirfbf, jhp
intelletto fidar se stesso, e l’animo suo a’ nomi e raffermar
sapiente l’ootore del nome; e in colai guisa dispreggiar se stes-
so e gli enti, quasi, che niuna cosa sia vera: ma scor- rano, e cadano
tutte, conHMewfcne; e qual gli uomi- ni malati delle distillazioni della
testa giudichi, che iimilmeule si dispongano le cose stesse in modo,
che si tengano tutte dallo scorrimento, o dal flusso. Peravventura, o
Cratilo, egli è cosi peravventura è altrimenti ancora. Dunque egli si dee
investigar questo con aui- Mo fòrte, e heriefaron dovendoti
ammetter ^erolmen- te: perciocché ancora tu sei giovane, e ti à
beetetole la età, e se ritroverai alcuna cosa iti investigante), ezian-
dio la dei compartire con esso meco. ca.— O Socrate, io vi attenderò e saprai
certo, che ancor io al presente non sto senza considerazione; anzi in
pensando,, e in rivolgendomi molte cose per l’animo, pere a me, che
se ne stieno elle maggiormente in quel modo, che. come Eraclito' diceva,
soc.— Da qui innanzi o amico poiché sarai ritornato, mi insegnerai: ma
qra come sei. apparecchiato vattene al campo; perchè ancora Ermogene ti
accompagnerà, ci.— -Si farà, o Socrate, come, tu ammonisci.' ma d’intorno
a quello aforzati ancora tu di considerare. Roberto
Dionigi. Dionigi. Keywords: in torno al cratilo, ermeneutica, svolta
linguistica, cratilo, linguaggio, la forma del linguaggio, forma logica. Nietzsche.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dionigi” – The Swimming-Pool Library. Dionigi.
Grice
e Dionisio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Mentioned
by Cicerone was a philosopher of the Porch who liked to quote poetry when he
was teaching. Grice: “So do I: never seek to tell thy love – for love its own
pleasure – the four corners.
Grice
e Dionisio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A slave
of Tito Pomponio Attico before being set free. Atticus and Cicerone often
referred to him in their correspondence. He was evidently a man of learning who
had studied philosophy.
Grice
e Dionisio: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. The
ruler of Siracusa, the nephew of Dion of Siracusa. Interested in philosophy, he
invited Plato to his court, but Plato’s attempts to put his political ideas
into practice were thwarted. Dionisio is eventually deposed and went into
exile. Dionisio.
Grice
e Dionisodoro: l’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member
of the Accademy. Flavio Mecio Severo Dionisodoro. Dionisodoro.
Grice
e Diofane – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A tutor
in philosophy and acquaintance of Plotino. He teaches that pupils should submit
completely to their tutors, including sexually. Plotino was shocked by this,
and asked Porfirio to come up with an argument to use against D. on this
matter. Diofane.
Grice
e Dionneto: il principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He was
Antonino’s tutor, who first fired the future emperor with enthusiasm for
philosophy. Antonino says that he learned from hin not to be distracted by
trivia, to take a sceptical attitude towards those who claim to be able to work
magic, and to avoid cock fighting. Dionneto.
Grice
e Dioscoro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. D. or
Dioscuro studies philosophy in Rome. He writes a letter to Agustino seeking to
discuss a number of philosophical issues. Agostino replies at length, arguing
that the issues are of no real importance. Dioscoro.
Grice e Disertori: l’implicatura
conversazionale della tensione dell’arco e il volo della freccia – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Trento). Filosofo italiano. Grice: “I like Disertori;
especially his ‘studi platonici’ on the archer, and, ‘under the sky (or is it
heaven – ‘cielo’ is a trick) of Saturn!” Frequenta il Ginnasio liceo Prati. Si
iscrive poi a Firenze e quindi si trasferisce a Genova, dove si laurea con “Fisio-patologia
del sistema nervoso centrale”. Si trasferisce a Milano e si specializza in
neurologia e psichiatria con Besta. Torna a Trento, dove esercita la libera
professione: la carriera pubblica e ospedaliera gli era preclusa in quanto
privo della tessera del Partito Nazionale Fascista. Antifascista da sempre, negli anni quaranta
partecipa attivamente alla Resistenza, incontrando fra gli altri Reale,
Pacciardi, Battisti, Bacchi, e Manci. -- è costretto a riparare in Svizzera.
Finita la guerra ritorna in Italia e, a Trento, diventa primario nel reparto di
neurologia dell'ospedale Santa Chiara e docente sia di neurologia e psichiatria
a Padova, sia di socio-psichiatria e criminologia a Trento. Pubblica più di 300 saggi di filosofia. Per tutto il secondo dopoguerra si occupa
attivamente di politica, ricoprendo la carica di presidente regionale del
Partito Repubblicano. Diventa inoltre presidente della Croce Rossa.Altre opere:
“Il libro della vita”; “Trattato delle nevrosi”; “De anima”; “Trattato di
psichiatria e socio-psichiatria”; “Sfida al secolo, La collezione si trova già
chiaramente ordinata e organizzata dal Disertori stesso, con un ricco carteggio
con scienziati, personalità politiche e del mondo della cultura, documenti
sull'attività scientifica e pubblicazioni; cronache e materiali raccolti
durante i viaggi; recensioni alle sue opere e materiali di ricerche
scientifiche. Coppola, Passerini,
Zandonati. SIUSA. G. Coppola, A. Passerini e G. Zandonati, Un
secolo di vita degli Agiati. “Sotto il segno dell'uomo” D. Atti del convegno di
studio, Trento, Palazzo Geremia, Pensiero e opera letteraria di D., Manfrini,
Calliano (TN), L. Menapace et al., Note biografiche, R. Bacchi et al.,
Biografia, Accademia del Buonconsiglio, Trento, Raccolta
di scritti di D. (con documentazione)
Studi scientifici del periodo svizzero Fascicolo, carte 131,
opuscoli 10 3 Raccolta di articoli e scritti di D. rilegati in volume
denominata "Zibaldino" "Saggi nel cassetto" Fotocopie
rilegate in 3 volumi di scritti inediti di D. "Il libro della
vita" Traduzione in inglese di alcuni capitoli de "Il libro
della vita" ad opera di Nicola Lubimov. Contiene anche: alcune lettere a D.
di Lubimov relative al lavoro di traduzione Fascicolo, carte 360 32
6 Scritti di D. rilegati in volumi Minute dattiloscritte rilegate
in volume. - "Scritti vari
"Scritti vari "Scritti
vari vol. "Scritti vari ; contiene anche carte sciolte "Trattato di psichiatria"
[Minuta dattiloscritta e a stampa con ampie correzioni e integrazioni del
"Trattato di psichiatria e socio-psichiatria", scritto con Marcella
Piazza e pubblicato a Padova: Liviana, Bozze a stampa con correzioni
dell'edizione in spagnolo, Buenos Aires: Libreria El Ateneo. Raccolta di scritti, discorsi, relazioni ed
appunti di Disertori riguardanti argomenti vari Recensioni e
documentazione relativa agli scritti di D. Unità archivistiche 30 Contenuto
Raccolta di recensioni a opere di D. 1 "Gandhi" Recensioni
relative all'opera "Gandhi: pensiero ed azione" (Trento: Disertori,
"Saggio di fisiologia del liquido cerebro-spinale" Estratti e
recensioni relativi al "Saggio di fisiologia del liquido
cerebro-spinale" (Roma: Pozzi); "Encefalite" Recensioni e articoli di giornale relativi ad
alcune pubblicazioni di Disertori sull'encefalite Fascicolo, "Liquor" Recensioni
relative a "Saggio di fisiologia del liquido cerebro-spinale" (Roma:
Pozzi,"Sulla biologia dell'isterismo" Estratti, recensioni e
articoli di giornale relativi a "Sulla biologia dell'isterismo"
(Reggio Emilia: Poligrafica reggiana,
"Il libro della vita"
Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi a "Il libro
della vita" (Verona: Mondadori, "Trattato delle nevrosi"
Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi al "Trattato delle
nevrosi" (Torino: Edizioni scientifiche Einaudi, "Itinerari
pitagorici" Recensioni e documentazione varia relativa all'opera
"Itinerari pitagorici" (Trento: TEMI,
"Parapscicologia e ipnosi" Estratti di riviste e
articoli di giornale riguardanti la parapsicologia e l'ipnosi Fascicolo, "De
anima" Recensioni e ritagli di giornale relativi al "De anima:
saggio sulla psicologia teoretica" (Milano: Edizioni di Comunità,
"Mazzini filosofo" Recensioni e ritagli di giornale relativi a
"Mazzini filosofo: nel centenario dell'Unità" (Trento: TEMI)
Fascicolo, carte "Trattato di
psichiatria" Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi al
"Trattato di psichiatria e socio-psichiatria" (Padova: Liviana) di D.
e Marcella Piazza "Pellegrinaggio in Egitto" Recensioni e
documentazione varia relativa all'opera "Pellegrinaggio in Egitto"
(Venezia: Pozza,
"Timeo" Recensioni
dell'opera "Il messaggio del Timeo" (Padova: "Esperienza
dell'India" Recensioni relative a "Esperienza dell'India"
(Vicenza: Pozza, "Personalità caratteropatiche" Estratti di
riviste e recensioni relative alla pubblicazione di "Le personalità
caratteropatiche submorbose e tetratologiche"; con Marcella Piazza
(Padova: Liviana, "Cronaca di un safari" Recensioni relative a
"Cronaca di un safari" (Venezia: Pozza, "La montagna di
Vishnu" Estratti, recensioni e articoli relativi a "La montagna di
Vishnu: taccuini di viaggio nel sud-est asiatico e nell'Uganda" (Vicenza:
Pozza, "La sfinge
olmeca" Recensioni relative a "La sfinge olmeca: note di
viaggio in Messico e Guatemala" (Vicenza: Pozza, "Trattato di psichiatria e socio-psichiatria" Estratti di riviste, recensioni e
documentazione varia relativa a "Trattato di psichiatria e
socio-psichiatria", scritto con Piazza (Padova: Liviana; Contiene anche:
dispense del Convegno nazionale di psichiatria sociale (Bologna,
"Parkinson" Recensioni relative a "Fisiopatologia e terapia
del morbo di Parkinson e dei parkinsonismi: contributo teorico ed esperinza con
l- dopa" (Padova: Liviana, "La via delle perle"
Documentazione varia, tra cui alcune lettere, relativa a "La via delle
perle: note di viaggio in Birmania, Borneo, Giappone, Cina esterna, golfo del
Siam" (Vicenza: Pozza, "Sfida
al secolo" Recensioni e articoli di giornale relativi a "Sfida
al secolo: la natura, l'uomo, il tessitore" (Padova: Liviana; Trento:
TEMI) Fascicolo, "La stagione dell'infanzia" Estratti,
recensioni e articoli di giornale relativi al contributo "La stagione
dell'infanzia" (Forlì: Cooperativa industrie grafiche) "Luci d'autunno" Recensioni
relative a "Luci d'autunno: diari, taccuini di viaggio, saggi,
poesie" (Trento: TEMI). Contiene anche lettere di Piccoli e Demarchi "Il
monolito dei fulmini" Recensioni relative all'opera "Il monolito
dei fulmini: (note di viaggio in Sud America)" (Vicenza: Pozza, Contiene
anche lettere di Prò e Condini; La tensione dell'arco" Recensioni
relative all'opera "La tensione dell'arco e il volo delle frecce"
(Abano Terme: Piovan). Contiene anche: lettera con recensione di Capasso "Poesie" Recensioni di poesie di D. "L'ombra
eleusina" Recensioni relative all'opera "L'ombra eleusina: studi
su l'arte e la cosmovisione di Annunzio" (Abano Terme: Piovan) Contiene
anche: 2 lettere a Disertori di Lidia Ratti e della Fondazione Il Vittoriale
degli Italiani "Sotto il cielo di
Saturno" Recensioni relative a "Sotto il cielo di Saturno"
(Trento: TEMI). Contiene anche: 1 lettera a Di. Di Graffer Documentazione
raccolta a fini di studio e relativa all'attività accademica , (con
documentazione) Unità archivistiche 13 Contenuto Dispense relative a
studi, scritti e ritagli di giornale 1 Documentazione varia relativa al
Movimento Federalista Europeo "Cronaca su conferenze"
Appunti di Disertori per conferenze e articoli su argomenti vari; "Psichiatria
sociale" Dispense di psichiatria sociale relative a problematiche
socio-economiche
"Criminalità" Dispense relative a criminalità, obiezione
di coscienza, diserzione "Riabilitazione" Dispense riguardanti
terapie di riabilitazione Fascicolo, carte "Stupefacenti, leggi" Testi di
leggi riguardanti gli stupefacenti Fascicolo. Dispense e documentazione varia
relative all'attività accademica. La
documentazione è relativa ad esami e tesi di laurea. Contiene anche: alcune
lettere di studenti a Disertori riguardanti le tesi di laurea. Fascicolo,
carte Relazione di Disertori e Marcella
Piazza circa Copie della relazione presentata al seminario di
neuropsichiatria, psicologia e filosofia a San Miguel de Tucuman (Argentina)
Attività in Sudamerica Raccolta di scritti di Pincherle "Lavori neurologici" Estratti
di riviste e dispense relativi a studi di neurologia; Contributi vari relativi
a terapie farmacologiche e note informative di case farmaceutiche Miscellanea (con documentazione dal 1904) Contiene anche:
autografi di Annunzio inviati a Rovetta; scritti di Marcello D. e ritagli
stampa con anche articoli sulla scomparsa del padre Marcello; manoscritto
"Elementi di fisica per le classi inferiori delle scuole medie",
compilato dai professori Vittorio Magnago e Arcadio Emmert Fascicolo, carte
150, volume 1 Beppino Disertori. Giuseppe
Disertori. Disertori. Keywords: la tensione dell’arco e il volo della freccia, libro
della vita (why do we live?), il messagio di Timeo, itinerari pitagorici,
pitagora e aligheri – tensione dell’arco, volo – eraclito – platone – politeia
di Platone – Grice on Plato’s Republic – plato carmide e la medicina –
dell’anima – psicologia teoretica -- sul segno dell’uomo, de anima. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Disertori” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Dòdaro
– il convito, ossia, tracce di un discorso amoroso – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bari). Filosofo
italiano. Grice: “Dòdaro is an interesting one – totally
cryptic of course! It is as if he were Nowell-Smith, Austin, and Donne,
combined into one! Recall Nowell-Smith’s challenge to Austin: “Donne is
incomprehensible,” “He surely ain’t!” Costretto
a riparare a Turi per sfuggire ai bombardamenti. A Bari si legò a Maglione,
Castellano, Piccinni e, assieme allo zio Silvio, prendeva parte agli incontri
artistici e letterari del caffè-pasticceria Il Sottano (in quegli anni
frequentato da Moro, Albertazzi, Scotellaro, Bodini, Calò ecc.), fondato da Scaturchio,
e agli incontri di Laterza e del circolo La Scaletta di Matera. Nello stesso
periodo conobbe Nazariantz, il quale rappresentò per Dòdaro una sorta di guida,
fu lui, infatti, a introdurlo per la prima volta agli incontri del Sottano dove
ebbe modo di stringere amicizia con Bodini, Calò, Scotellaro. Abbandonò presto
Bari, tentando una prima fuga a Parigi, città in cui sarebbe tornato a vivere
altre volte, prima di tornare a Bari per poi trasferirsi a Lecce. Altre tappe,
prima del trasferimento a Lecce, furono Milano e Bologna. Divenne allievo di Morandi,
presso l'accademia, infatti, prime espressioni della sua attività artistica
furono la pittura, praticata per una manciata di anni, e il teatro, poi diluito
nelle successive esperienze poetiche e narrative. Come pittore produsse alcuni
quadri in cui all'informale materico univa le combustioni, applicate, di fatto:
Verri riporta in suo intervento: arriva con la novità dei colori
"bruciati". Di questo ciclo di opere faceva parte "Svergognato
incantesimo di barca", che gli valse, successivamente, la segnalazione
presso il premio "Il maggio di Bari". Prima del trasferimento a
Lecce, lavora presso l'ufficio stampa della Fiera del Levante, a stretto
contatto con Fiore, figlio di Tommaso, venendo influenzato dal meridionalismo.
Sempre nel clima della Fiera del levante, strinse un ottimo legame con Tot. Al
suo arrivo a Lecce riallacciò i rapporti con Bodini e Calò, oltre che con Suppressa,
conosciuto in occasione del premio Il Maggio di Bari, entrò, inoltre, in
contatto con quelli che sarebbero stati poi suoi amici e compagni artistici:
Durante, Massari, Candia, Pagano. Ebbe frequentazioni con Bene e strinse
importanti sodalizi amicali e letterari con Verri, Gelli, Caruso, il quale, in
corrispondenze private, ebbe modo di rinominare la loro amicizia e
collaborazione come il "sodalizio Caruso-D.". A Leccesi rese protagonista,
con Candia, di un grande falò in cui i due bruciarono tutti i quadri realizzati
fino a quel momento. Per quanto riguarda l'opera pittorica "Svergognato incantesimo di barca",
insieme a pochi altri, si salvò dal falò perché all'epoca custodito presso la
casa dello zio Silvio. Dopo questo iniziale periodo di ricerca e
sperimentazione, abbandona la scena artistica per circa vent'anni, anni in cui
si dedicò allo studio intenso nel tentativo di scoprire il perché del
linguaggio, rompendo il silenzio con la fondazione del Movimento di Arte
Genetica con sede a Lecce, Genova e Toronto. Con tale movimento, rintracci
l’origine dell’italiano o romano nel battito materno ascoltato in età fetale,
teorizzando il romano o italiano come una congiunzione volta a rifondare la
dualità dell’essere umano non un regressus ad uterum, bensì la coppia, la
dualità, ovvero la dimensione originaria della comunione con l’altro e come lutto,
annodandolo alla mancanza di Lacan. Il movimento si doterà di due riviste:
“Ghen”, giornale modulare ideato da D. con sede a Lecce, e “Ghen Res Extensa
Ligu” con sede a Genova e diretta da Mignani. L’idea del modulo come unità di
misura sarà alla base della struttura modulare di “Ghen” oltre che della
concezione dello spazio, mutuata sempre dagli studi sulla dimensione pre-natale,
fino a sfociare nel manifesto "Incliniamo l’orizzonte”. L’italiano o il
romano diventa una congiunzione, una dichiarazione onomatopeica in cui si
alimentava il trionfo del lutto e la mancanza. L’orizzonte diventa orizzonte
mediale: poesie per i treni, per gli altoparlanti e più in là romanzi in tre
cartelle, romanzi su cartolina, collane spaginate, poesie e poesie visive da
proiettare per le strade, poesie per internet, net.poetry, narrazioni su
leaflet, romanzi da muro-narrativa concreta, romanzi di cento parole da
pubblicare in store, nelle vetrine dei negozi. Al Movimento di Arte Genetica
aderirono, o ruotarono attorno alle sue riviste e attività, un numero considerevole
di autori provenienti dalle sperimentazioni poetiche e poetico-visive,
performative, sonore, plastiche: Miccini, Marras, Mignani, Fontana, Munari,
Fiore, Dramis, Perfetti, Pagano, Gelli, Noci, Greco, Lorenzo, Marocco, Massari,
Miglietta, Center of Art and Communication (Toronto), Giorgio Barberi
Squarotti, Toshiaki Minemura, Xerra, Sicoli, Souza, Alternativa Zero,
Experimental Art Foundation (South Australia), Block Cor (Amsterdam),
Genetet-Morel, Lepage, Martini, Valentini, Restany, Etlinger, Caruso, Verri,
Miglietta, Nigro ecc. Con la nascita del movimento di Arte Genetica,
avvia una personale riflessione sull'oggetto-libro e le sue modalità fruitive,
avviava il progetto "Archivio degli operatori pugliesi", per una
catalogazione degli operatori estetici e culturali. Crea e anima «il centro di
ricerca (strutturato, nel nome, sulle
coordinate della Classificazione Decimale Dewey, ad indicare i percorsi di
ricerca: filosofia, linguistica, arte, letteratura), ospitato dalla Libreria
Adriatica di Lecce, e con il quale coinvolge numerosi operatori del territorio
(docenti universitari, il gruppo Gramma, il Centro ricerche estetiche fondato a
Novoli da Greco e Lorenzo, il gruppo Oistros di Durante e Santoro, gli autori
del gruppo di Arte Genetica da lui fondato ecc). Ha diretto la casa editrice
Conte di Lecce, ha fondato a Lecce, il movimento letterario New PageNarrativa
in store. La sua attività letteraria ed editoriale è stata caratterizzata da uno spiccato senso
per la formazione di gruppi e la ricerca di autori da lanciare, rappresentando
sul territorio pugliese un autentico volano per operazioni di ampio respiro che
andavano spesso a coinvolgere autori del panorama letterario internazionale. Idea
e dirige una mole notevole di collane editoriali volte al rinnovamento
dell’oggetto-libro, fra queste: «Scritture» (Parabita, Il Laboratorio),
«Spagine. Scritture infinite» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni)
scritture di ricerca formato poster, spaginate, «Compact Type. Nuova narrativa»
(Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) ovvero romanzi in tre cartelle,
«Diapoesitive. Scritture per gli schermi» (Caprarica di Lecce, Pensionante de'
Saraceni) scritture di ricerca da proiettare, «Mail Fiction» (Caprarica di
Lecce, Pensionante de' Saraceni) romanzi su cartolina, «Wall Word» (Lecce,
Conte Editore,)tradotta in giapponese ed esposta all’Hokkaido Museum of
Literature di Sappororomanzi da muro, ovvero collana di narrativa concreta,
«International Mail Stories» (Lecce, Conte Editore), «Internet Poetry» (Lecce,
Conte Editore) una delle primissime esperienze italiane di net poetry, «Walkman
Fiction. Romanzi da ascoltare» (Lecce, Argo), «E 800 European Literature», in 5
lingue (Lecce, Conte Editore), «Pieghe narrative» (Lecce, Conte Editore),
«Pieghe poetiche» (Lecce, Conte Editore), «Pieghe della memoria» (Lecce, Conte
Editore), «Foglie nude» (Doria di Cassano Jonio), «Locandine letterarie»
(Lecce, Il Raggio Verde), «Romanzi nudi» (Lecce) in unico esemplare, «Carte letterarie»
(Lecce, Astragali), Mail Theatre (Lecce, Astragali), «New Page. Narrativa in
store», (Lecce) narrativa breve, poi anche poesia e teatro, in cento parole,
collana che guarda alla comunicazione pubblicitaria con i testi applicati su
crowner, pannelli cartonati in uso nella comunicazione pubblicitaria, ed
esposti in store, nelle vetrine dei negozi. Nell'ambito della poesia
verbo-visiva e del libro-oggetto, è presente in numerose manifestazioni di
«Nuova scrittura»: Ma il vero scandalo è la poesia. Un salto di codice,
Ferrara, Ipermedia; Attorno a noi poeti in gruppo, Strudà (Lecce), Ospedale
psichiatrico; Dentro fuori luogo, Casarano, Palazzo D'Elia; Centro
internazionale Brera, Documenti di gestione alternativa. Appunti sulla Puglia,
Milano, Chiesa San Corpoforo; Artigianare '81, Lecce; Cercare Bodini, Bari /
Lecce, Ab origine, Martina Franca; Parola fra spazio e suono. Situazione
italiana, Viareggio; Le brache di Gutenberg, Caruso, Visco, Livorno; Far libro.
Libri e pagine d' artsta in Italia, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Il
segno della parola e la parola del segno, Milano, Mercato del sale, Breton et
le poeme-objet, Ugo Carrega, Milano, Mercato del sale, Le porte di Sibari,
Sibari, Visibile Language. Numero speciale sulla poesia visuale. Sezione
Italia, E. Minarelli, USA; Cartoline d'artista, Livorno, Belforte, Terra del
fuoco. Intersezioni per Adriano Spatola, QuartoNapoli, La parola dipinta.
Rassegna di poesia visuale, Belluno, Comune di Gallarate Civica galleria d'arte
moderna. Casa d'EuropaSede di Gallarate, Pagine e dintorni, Libri d' artis ta, Gallarate,L.
Pignotti, “La poesia visiva”, L'immaginazione (Lecce), S-covando l'uovo,
Firenze, Terra del fuoco, QuartoNapoli, Musei Civici di Mantova, Poesia totale.
Dal colpo di dadi alla Poesia visuale. Mantova, Sarenco, Palazzo della Ragione,
Archivio libri d' artista. Laboratorio, G. Gini e F. Fedi, Milano, È presente
in Musei, Biblioteche, Archivi. Tra i più importanti: Biblioteca Nazionale
Centrale di Firenze“Libri e pagine d'artis ta”con l’opera Mar/e amniotico,
1983; Galleria d’arte moderna di Gallarate, con le opere Mourning Processes.
The word, e Processi di lutto. Notizen: dis; Museo S. Castromediano di Lecce,
con l'opera Matram psicofisica, Archivio Sackner, Miami Beach, e Archivio Della
Grazia di nuova scrittura, Milano, con varie opere; Hokkaido Museum of
Literature, con la collane “Wall Word”, nteramente tradotta in giapponese;
Imago mundi-Visual poetry in Europe (Fondazione Benetton, ) ecc. Altre
opere: Dichiarazione onomatopeica (Lecce); Progetto negativo (Lecce,); Disianza
Congiuntiva (Livorno); Disperate Professore (Parabita); dis/adriatico
(Caprarica di Lecce); Tracce di un discorso amoroso (Caprarica di Lecce);
Compact Type. Nuova narrative Con Verri, (Caprarica di Lecc); Sconcetti di luna
(Caprarica di Lecce); Mail Fiction. Free Lances Con A. Verri(Caprarica di Lecce);
Navigli (Caprarica di Lecce); Void Fiction (Sibari,); Street Stories (Lecce)tradotto
in giapponese(SapporoJapan); Parole morte. Dead Words (Lecce); L’addio alle
scene (Lecce); Antonio Verri. Schegge del contestocon M. Nocera (Lecce); 18 i
titoli pubblicati su leaflets (Lecce), 16 «Pieghe narrative» e 2 «Pieghe
poetiche»: “Pieghe narrative”: Vento, vento, I colombi della clausura, Il
figlio dell'anima, La Balilla, Graziato, Il monumento, Dove volano i gabbiani,
La mimosa, Ricordanze zigane, Franco, Cocker, All'ombra del grande vecchio,
Reparto «P», Il tradimento, 27 marzo, L'esame. “Pieghe poetiche”: Rosa
virginale, Il solista; Dichiarazione d'innocenza (Lecce); 7 i «Romanzi nudi»,
titoli in unico esemplare (Lecce, Dis, Era d’autunno, Il falò, L’Objet trouvé,
Silenzi, Why, Ballata migrante, Uscita in marasma (Lecce); Di viole. D’incanti.
Astragali teatro (Lecce ); New Page: In un bosco di frammenti (Lecce), La
parola tramava (Lecce); Le prime notti stellate (Lecce) interrogatorio violento
(Lecce, ) I suoi ramaggi (Lecce, ). Grigiori dell’anima (lecce, ), Di un
solstizio d’amore (Lecce, ), Maria la magliaia (Lecce, ), Teresa. L’Altrove,
(Lecce, ), La mer. Ma mère (Lecce, ), Una notte senza stelle (Lecce). Le
distese di grano, (Lecce), Gastronomia da asporto (Lecce), Una sua lettera
(Lecce), Trincee matricali (Lecce), Compagno d’accademia (Lecce). Tra i
gabbiani (Lecce), Cioccolatini di Chicago (Lecce), Cantata duale (Lecce). La
tromba dell’altrove (Lecce), Il nipote violoncellista (Lecce); ‘Operatori culturali
contemporanei in Puglia. Archivio storico divulgativo, Lecce); “Ambivalenze genetiche”,
Ghen (Lecce) ora in “Genetic Ambivalencie”, Art Communication Edition,
Toronto-Canada) “Links”, Ghen (Lecce), “Il complesso di Edipo e quello di Caino”,
Quotidiano (Lecce); “I processi di lutto. La Weltanschauung ghenica” in, La
parola tra spazio e suono. Situazione italiana, Viareggio, “Codice yem: le
origini del linguaggio, ovvero la rifondazione della coppia”, Ghen (Lecce) (ora
in Regione Puglia, Creatività e linguaggio. Atti del Convegno, Maglie);
“Dis-astro”, in A. Massari, Dis-astro. Loos, Lecce, “L’area inter-media”, in F.
Gelli, Transitional Objects. Mutter Fixerung, Lecce; “Ipotesi interpretativa
del fenomeno droga, formulata da una coscienza che opera nella poetica. Della
scissione. Della prevenzione” in Tossico-dipendenza: progetto di lotta per gli
anni ’80Centro studi giuridici M. Di Pietro. Convegno. Lecce; “Mater
externata”, in L. Caruso, Mater: poesia. Madre e signora dell’acqua, Lecce;
“Lontananze genetiche. Ad cantus enclitico”, in Manifesto mostra gruppo
Ghen, Milano; Progetto negativo, Galatina (ora in Ab origine. Presenze pugliesi
nell’arte contemporanea, Roma-Bari); “La letterarietà di Caruso”, in E. Giannì,
Poiesis: Ricerca poetica in Italia, Arezzo; “La poesia totale di Spatola. Il
convegno di Celle Ligure”, On Board, Lecce; “Wall Word: parole da muro, romanzo
da muro”, in F.S. Dòdaro, Street stories, Lecce; “Dodici haiku. Dodici punti di
rilevamento”, in E. Coriano, A tre deserti dall’ultimo sorriso meccanico. Three
deserts from the shadow of the last mechanical smile, Lecce; “Una pagina
diversa, up to date”, in Pieghe narrative, Lecce; Schede d'arte contemporanea. Implicatura
e Mappatura schedografica degli Autori contemporanei, Lecce; “L’ampliamento
della flessione”, in Archivio libri d’artista. Laboratorio 66, Milano; “Le
anime narranti di Alberto Tallone”, in Tallone. Manuale tipografico, Alpigiano
(Torino), New Page (Lecce); L'ortografia è morta. L'apparato pausativo, in New
Page (Lecce). Francesco Aprile, Già così tenera di folla, in Intrecci, Napoli,
Oèdipus, Edoardo, un cavaliere senza
terra, su bit. Antonio Verri, Edoardo, Un cavaliere senza terra, su bit. Francesco Aprile, Poesia qualepoesia/06:
Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce, su Puglia libre, Testi di
teoria letteraria/editoriale, su utsanga.
Archivio di nuova scrittura, su verbo visual virtuale.org. Cantata duale, Imago mundi-Visual poetry in
Europe, su imagomundiart.com. Antonio
Verri, Una stupenda generazione, SudPuglia, Antonio Verri, Edoardo, un
cavaliere senza terra, SudPuglia, Aprile, Già così tenera di folla, Napoli,
Oèdipus, Francesco Aprile, La parola
intermediale: lineamenti di un itinerario pugliese, in Aprile F.-Caggiula C.,
La parola inter-mediale: un itinerario pugliese, Cavallino, Biblioteca Rizzo, Aprile, Fra parola e new media, in Aprile
F.-Caggiula C., La parola intermediale: un itinerario pugliese (atti del
convegno), Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo,
Cristo Caggiula, Intersezioni asemiche nel movimento di Arte Genetica,
in Aprile F.-Caggiula C., La parola intermediale: un itinerario pugliese,
Cavallino, Biblioteca Rizzo, Visual
poetry: A short anthology, in utsanga, L'ortografia è morta. L'apparato
pausativo, in utsanga, Testi di teoria letteraria/editoriale, Codice Yem, le origini del linguaggio: ovvero
la rifondazione della coppia, in utsanga, Letterarietà di Caruso, in utsanga,
La poesia totale di Spatola/Il convegno di Celle Ligure, in utsanga Francesco
Aprile, Il rapporto Dòdaro-Verri attraverso la critica, in utsanga Francesco
Aprile, Dal modulo all'internet poetry, in utsanga, Aprile, L’Arte Genetica, in
utsanga, Aprile, New Page: Narrativa, Poesia, Teatro, Scavi in store, in
utsanga, Aprile, New Page: la poiesi come approccio etnografico, Cavallino, Biblioteca
Gino Rizzo, Aprile, New Page, collana di critica letteraria, Sondrio, Edizioni
CFR, Intervista a Vincenzo Lagalla,
Francesco Aprile, in utsanga Lamberto Pignotti, Introduzione, L'addio alle
scene, Lecce, Argo,ora in utsanga Lamberto Pignotti, Rebus, iper-rebus. Parole
da vedere, immagini da leggere, in utsanga, Caruso, Frammento, in utsanga
Julien Blaine, Omaggio alla "O" in Francesco Saverio Dòdaro, in
utsanga Ruggero Maggi, Dedica, utsanga Alessandro Laporta, cercarlo dove non
appare, in utsanga, Mignani, Ghen against again. Risarcimento dei supporti o
della signatura dei segni, in utsanga Egidio Marullo, F. S. Dòdaro. L'ultimo
mentore, in utsanga Omaggio, in
utsanga Cantata plurale, materiali 01,
Caprarica di Lecce, Utsanga. AP01-L0T30R0 g lift rhe mi
domandate, U-» [U quello che « svista, mi Inon son pre
molto ch’io mi trovavo a risali Filerò, in città-, ed
ecco, . j.^^-jania da staimi riaonosctoo J d.=«o ^ ^ H,,e-
’ 1 fu/rirt™ 't-irràT ,t punto poco fa, che ^ guita tra
Agatone contarmi la conversazione seg e Socrate e Alcibiade ®
‘j discorsi, sai, di allora parte al convito ^S)> ^ perché me
gli Amore; o che vi si disse C ^ ggntiti da Fe- rapportati un altro
che g detto che nice, figliuol di Filippo (7)>
B Convito li conoscevi anche tu. Ora, egli non nii dir
nulla di chiaro. Sicché ridimmeli tu tu sei proprio quello a cui si
conviene rifèr’'''^ discorsi deir amico tuo. E per prima cosa, ' mi
— domandò — a quella conversazione t-r; Ed io gli risposi : — Si vede
davvero, che di¬ te ne ha fatto il racconto, non t’ha rapporta/'
nulla di chiaro, se tu credi che la conversazióne della quale mi chiedi,
sia succeduta da poco tanto che io ci avessi potuto essere. ’
Ma si. 0 come mai, Glaucone, — dissi io ; — o non lo
sai, che sono anni parecchi che Agatone non è più tornato qui? Mentre da
quando io ho dimesti¬ chezza con Socrate,' e ho fatto mia cura di
sapere giorno per giorno ciò ch’egli fa o dice, non sono ancora
passati tre anni: Prima giravo a caso di qua e di là, e immaginandomi di
far qualcosa, ero l’uomo più misero del mondo, non meno di te ora
che credi di dover fare qua¬ lunque altra cosa piuttosto che
filosofare. E lui — Non celiare, — disse: ma dimmi: quando
ebbe luogo quella conversazione? Ed io Mentre eravamo ancora
ragazzi — risposi quando Agatone vinse per la prima solta nella
gara della tragedia, il giorno dopo e ie egli e i coristi celebrarono il
sacrifizio di ringraziamento (8). Un gran pezzo, dunque, si
vede. Ma chi 'Socrate stesso? B niVff-' ^ ~> “ 1“cl
medesimo che a Fe- un certo Aristodemo, Cidateneo, un omet-
73 29 !h“”" ^ adatta a a‘s _
in t^'^'' ’ „ ai auei discorsi, C ““'?'cosi »»'!»”■“>
''"'“rircipio, "O" P"?. f. com« 'i'“''° "'
’^" t nUssario che io h siccità’ Se duirque ta ^, >50 quanto
alla sprovvista. Cli 'O.! fuor di misura; ment q gente 1
discorsi, e in ispecie a e, me. e ; acca e d’affari, e 1. ne ru
, 1 sento compassione ,,uUa. E forse, pare di far
qualcosa 1 gtimate me uno sfor- c>»-.-"*jtrc-cdi«e il
vero-, ,e lunato; e credo, c ^-«do ma lo so. non die io di
voi non lo credo, ni amico dici Sei sempre lo stesso,
Apollodor ^ sempre male e di te nic esimo ^^iseri, da par
propriamente, die tu £ di dove :ratciii fuori, conlinciando * •
io ti sia venuto il soptamm ^osi dnvvero ; ma cer
50 Convito ne’ discorsi; aspro
con te e coa-1! . .... fu- con Socrate. " ‘“'o
fuorci,(, ^ APOLLODORO E Già s’intende, carissimo;
perchè ia e di me e di voi, sono furioso e deUro^*” AMICO
Non mette conto, Apollodoro, qugsj- ora di ciò; però, quello di cui
t’abbjan°”'"-‘^ chiesto, fòlio e non altrimenti, ma raccontac'i
T discorsi si fecero. II APOLLODORO
Furon su per giù di questo tenore. Ma piut¬ tosto (9) mi proverò a
raccontarvi ogni cosa dal principio, come quello fece a me.
Egli, dunque, mi raccontò, d’essersi incontrato con Socrate, lavato
(io), e anche calzato, cosa che a Socrate non succedeva spesso (ii);
e d avergli domandato dove s’avviasse così rim¬ bellito; e quello
gli rispondesse: A cena da Aga- Olle. oiche ieri a’ sacrifizi del
ringraziamento 0 scansai, per paura della gente; ma gli pro-
son ^ d» un bello Ma'em' è il tur, r- disse, —che
sentimento tato? (12) mudare a una cena non invi- ^d m
— disse ..* . vuoi. '•sposi: Quello che tu perchè
noi’si mm? fiFtese — anche proverbio, sicché dica che
buono P^r guerriero, C ”? aue«o '»■=“" ,otetò il
ré*'»'"^ ^he io, Socrate, cor presentarmi, f»"''“£i,.»
“"’= “Tcinvuó di un ,a- ‘r;.«ona di P““.““°,ó- Guarda tu d,e
m. D uomo, non mvi^ ^hì;, quanto a *0^,6 rveici non inviuro,
bensì italo da te. __ ^^nsuUerem V »» ,::t:;tdi'ci6 “he
.«=0,0 , dire, su, an- III Scambiate che si furono
queste narono. ' Ora, Socrate ^soenava, siero, fermandosi per
istrada, ^ ® che gli ordinava di andar pure innanzi. trovò
quando fu giunto alla casa di Aga o , aperta la porta, e gli
venne”incontro caso ridicolo (i6). Perchè gh ^ Un
ragazzo e lo condusse dove e » 32 . Convito i
giacere, e ii colse, che stavano per nf- cenare (17). E appena
Agatone T j disse : O Aristodemo, tu arrivi in punt°°^
'"'sto nare, s’intende, insieme con noi. venuto per qualche
altra cosa, rimettila Anche ieri t’ho cercato per invitarti ^ m’ò
riuscito di vederti in nessun luogo (ìst come mai non ci conduci Socrate?
' Ed io — disse — mi voltai addietro e non • • in nessun
luogo Socrate che mi seguisse; Si risposi che io ero venuto appunto con
Socrate invitato qui a cena da lui. Hai fatto bene — ripigliò Agatone,
~ lui dov’ è ? Dianzi, egli era per entrare dietro a me -
0 dov’è? Son tutto stupito. Ragazzo, o non t’affretti a
guardare,—riprese Agatone — e non ci meni qui Socrate? e tu, Ari¬
stodemo, dice, sdraiati accanto a Erissimaco, E, mentre il ragazzo
gli lavava i piedi (19), perchè si mettesse a giacere, un altro dei
ragazzi, raccontava, tornò annunziando, che questo So¬ crate,
ritiratosi nel vestibolo della casia accanto, se ne stava li fermo, e per
quanto lui lo chia¬ masse, non era voluto entrare (20). 0 che
strana cosa tu dicil — disse Aga¬ tone. 0, dunque, non lo chiami da capo
(21) e non seguiti? Ma nientaffatto lasciatelo
stare. — riferiva d’aver detto; —anzi Perchè lui ha
quest’usanza-; 33 D
dovunque si trovi, ..•'‘“‘ira («"’" Ja las»»“'°
ripresa 1» "’fs"-» » 1 dStènoùUsi. iP»: ■“ M»
"'’ÈbbePe.«Sf he vói volete, gi»e*“ tg»'°"'=7urittura
?rleervi-, il dte io «on siedili fate COMO ìSSU’’^’ .
epoi mai • invitati da voi, 'C’ppe»” *'T *S°ve 11- eSble»" a
l°to'- ìttateci iti ssi principiarono a c, raccontava,
ess p ^„atone pm ^ m Socrate "°^X'"socrate, ma
Aristo- è 'r^ór óhft.ie.ilopo «hmd»S‘“ .oaonlope™'* ,„a
,emte; s era tanto lungo, con ^ Aratone- si. che a
mezzo della . Qua, So¬ piva solo a giacere ti ^ e _ disse
idea sapiente, che vXlo; giacchi. ^
?::róhtóvó.a,euti-ip™'"'““"” " mosso. ^
S.,rebbe pur bene, — dis- • Socrate sede, e — Sa V -Agatone ,
se la saptcì . rete dal più P''™ t ,ei Wechtol l’«‘l“i'r tdo
ci tocchiamo; come p,u „„ filo di latta, scotte ^ P'“ ^ j rosi,
io 0 (,4). Chi, se 1'“'’= “*: forchi di molta ;o molto lo starti a
’ ^jj,|,j,pito da te. Ila sapienza io sarò, pcn sarebbe tti,
la mia, quando j. siccome un so- -hina c disputabile, g'^c rigoglio
la mentre ò splcmhda e pien, ^ 1., ITONE, Voi.
/-Vt Convito tua, che da te ancor giovine ha
sf„i COSI gran Juce ed ha brillato diana^'® co pm d. trentantila
Elleni per testiSo?'* Tu sei un impertinente, Socrat ^’ 5 ).
‘ Agatone; —se non che questa dell^. f'^Ose . quistione che
decideremo anch’essr qui a poco (26), prendendo Dioniso^” ce (27);
ora, per prima cosa, mettif^'^'^ “ a cena. Dopo ciò,
raccontava, Socrate si mettessi- giacere ; e quando lui e gli altri ebber
finito a - cenare, facessero le libarioui, e cantato l’innò all
Iddio, e compita ogni altra cerimonia ('28') si voltassero al bere; ma
qui Pausania principisi a parlare in questo tenore: Bene sta,
amici — disse — come faremo a bere fi p,u a comodo? Io vi so dire in
ve- ità che mi sento molto aggravato dal bere di cri.*'
"POSO, e cosi, vate ’ ’ g'^^chò jeri ci era- bere
•! in che modo potremmo bere fi pm a comodo. bene
rispose : — Di ciò tu dici certo nel bere"“''"'^.
‘comodità •li jeri ' vocile io sono degli annaffiati
^euiiieno ^^“tito Erissimaco figliuolo di uùa cfsf ~ bene
davvero; si sente in fnr,,'”* ‘f°gna sapere da voi, come per
bere Agatone? c neanclie io
^rispos^^' ^ f““^oC.„.„--rep«‘'>®Sre’p« (tra»
per me e po ne una . ^„3tra, P .entissrmt ne rci''’^ •
se v°' ’ ' } • ntianto a nor > „ ci alto. perche, q^t^n ^i
m t strac"'''Socrate e aU’altra, :>:rradatto
^'7:,n."to, delP-i, si chiamerà dunque, li arante^ o 1
altra. • g-i senta vogha ? a eh nessuno tie’fcse^ Olfo
vi.», ? r*= sia vai.™- ^ * ° aire la medicina La ta«o
%5lS'3sri-" giorno innanzi. j^pse Fedro
acanto a me, " di obbedirti, prendendola parola
massime, in . ;';^bediranno anche gh altri, medicina; ma ora
ti odo se si consigliano bene. unti di non Sentite queste
della lor rm- fare dell’ubriacarsi il ^ piacere ( 29 )’
nionc, ma di bere cos VI ^ poiché s’e
Or bene, - ripigliai ^'"'^^'"Jo^.pole, e non a deciso che
ciascuno beva q _ pp’ altri sia nulla di forzato, fo dopo proposta;
cd è che si congedi la son • trata or ora; lei suoni per conto
suo"^''® piace, alle donne di dentro, e noi si n’ ° il nostro
tempo a conversare. E su qn^p getti, se siete contenti, ve lo
proporrei•’ AI che tutti diceva acconsentissero c 1°' tasserò
a fare la sua proposta; sicché Eriss' riprendesse: II principio del mio
disco^r! conforme alla Menalippe di Euripide (30) • h > non è
mia, bensì di questo Fedro qui, la / che son per dire. Fedro, di fatti,
se'ne lag sempre meco. Non è intollerabile, dice, 0 Eris'' siraaco,
che ad altri Dii si sian composti da’ poeti inni e peani (31), e
all’Amore, che è cosi antico e cotanto Iddio, nessun poeta mai, di tanti
che B ce n’è stati, abbia composto un elogio; aiui se vuoi guardie
a quei bravi sofisti, scrivano’ si, gli elogi di Ercole e di altri eroi
in prosa per esempio l’eccellentissimo Prodico (32); è questa è
anche meno da stupire, ma io stesso mi sono g.à imbattuto in un libro
d’un sapien- l’mTfA’ lodato soprammodo per c drpcV simili
cose tu ne ve- conto 'Tiolte.(33). Fare un cosi gran al
mond ^ l’Amore, nessun uomo <i“esto inneggiarlo fino a
così! (ir') n ' Uu tanto Iddio trascurato «n ragione ’
Fhk^ ^'PPosgio (36) e\l'l"’-'° „ P‘*'’e, che nelli
„ ^ ^ ‘ e insieme mi ''°1 che siamo occasione s’addica, a
. se pare eli l’ecidio. Sic- =>nchca voi,
c’intratterremo Erissi"'^‘'°;rLrto l^on ti direi di
ó»®.ri»' Ù™^™ì di niente sostengo di «ot j, Agatone c ®
,U amore U?-» .-^„fone. t,e sostengo u. . . ^gaiuL^v- -
^ '°’ fi di cose di Vende, Aristofane, ! e neanche, /,8), nè
alcun altro E Mutto Dioniso e A to 1 ^^unque la par¬ afa io
vedo qui. f Jo l'ultimo CsiaP-VP-ritrimi avranno detto
,.tiPlU Clic . Ug auDiuiiw ;’n.« rie peri P« iranno detto
nsto- se non che, _ , Su via, con bbastanz» oa (S)’
,uona fortuna C39;> P 'Amore. . assentirono tutti, e
fe- A ciò anche gh Però, di tutte cero lo stesso invito
di Aristodemo si ri- le cose che omscun > „,ia, di
cordava appuntino, t° P_^ P^^ tutte quelle che npet* _ ' ehe
a me parve di memoria e i discorsi d quelli c fossero tali,
un per uno (.qOA 178 VII discorso di
FEDRO , a-,co raccontava che E per il primo, come dm
, Fedro cominciasse a un n maravighoso tra grande Iddio
fosse l’Amore, e mar 3 ® • r*
Convito gli uomini e tra d;: 7 '“ B 1
essere tra i più antichi T la- g’AMORE ni vi sono, ni si citano j,
''S'"itotì di nè prosatore nè poeta; Està prima fosse il Caos,
dice, nni I ^ terra Dal largo petto, d'ogni cosa
sede' In eterno sicura e Amor. Afferma, che dopo il Caos
queste dn. nascessero, Terra e Amore. Pannenide che la Generazione Pnraissimo
l’Amor di tuttiquanti Iddìi pensò. con Esiodo s’accorda Acusileo ;
da tante i'chiss°“''''"'- antichissimo.
Antichissimo, poi, com’egli è. ci è causa dei nulfa^dr ’Op
eli certo, non so di un appena giovine giovi più
diunorr”!-^^' ^ all’amante viro di tri ^^PPoichè ciò che deve
ser- '’ene Qiip f * intera vita a chi sia per viverla la
ricchezza” Parentela, nè gli onori, nè benencll’nn* ^ "'ont
altro può insinuarlo cosi tiuesto? La'”° come l’Amore. Ora, che è
egli 'azione nei brutti, l’emu- * nè privato qualità nè
C‘tlà nè privato • ' v—*.. «u,. ijuam.i *> c belle Opere
pui S^ado di compiere grandi i o ' ac è tróv affermo che un uomo
^ *°"crarla da ^ qualche brutta cosa ti senza difendersi per
vi hcri«.''° ^ dagU amici nc n^c- che egli
soprattutto da E li^ ,/da ^i-U’amato, che ^ Q^to
vediamo neh , d esser feria' Pantano, n.i Sechi:, se
aie« > ‘" vi »'* '(•«f ts. P"*» Ji »"»>•;.
iiez^a esercito si c P modo di reg T^’non ci i-orc di quello
di co- n uS»‘“‘‘"tre I Sauendo gli 11 ” '
i;c=r;bbcro, s.o pe, dire, li accanto a„ ^mjni tutti quanti ( 44
)- Idre in ponW S'' esser sdsro disertsre i,è un nonio che *
’/.e'» lo ammetterebbe Vsr» » * he eWrrrrriue nitro i
1.,,. persoir» "direbbe morire più volre^ ; prima che
questo, ^ in un pencolo I serro, «bbnmlo"«r^„"„” „
ehe aon dargli ajuto, no .^g^be d’un divino l’Amore di
per se P di pm va- spirito di virtù da che Omero B
lorosa indole (46). E, coraggio m dice (47), nvere un Idd P^
^p,,ato taluni croi, questo 1 An da lui negli amanti.
Vili fi sono disposti a E si, che soli . 8 "
“"Xe uomini, r"»”*'’ morire per
sli-^i"?''^'’testimonianza, quanto le donne. E di ciò ( 4 ^) ‘
,-,inla di Pelio, che basta, agli Elleui Alceste Sglmola C
sola consenti a morire per il marito s pure aveva padre e madre; i quali
essa, pe°f d’amore, tanto superò nell’affetto da farl-°*^^‘^ rere
estranei al figliuolo, e non appartenen lui che per il nome. E per aver
compiuto a ^ st’atto, parve n’avesse compiuto un cosi bei[' agli
uomini e agli Dei, che, avendo pur niohi compiuto molti e belli atti, ad
assai ben pochi det tero gli Dei quest’onore, di ricondurne quassù
l’aninia daH’Inferno, ma la sua la ricondussero D compiaciuti dell’atto
suo. Tanto anche gli Dg; pregiano sopra ogni altra l’osservanza e la
virtù di Amore (49). Invece, Orfeo, figliuolo di lagro, lo
rimandarono via dall’inferno a mani vuote mostrandogli un fantasma della
donna per la quale era disceso, anziché dargli questa stessa,
poiché, come un citaredo che era, s’era chiarito di animo molle, e gli
era mancato l’ardire di morire di amore come Alceste, anzi s’era ingegnato
d’entrare vivo nell’inferno. Sicché per questo gl’inflissero una pena, e
lo fecero mo- E rirc per mano di donne (50); in quella vece
Achille, figliuolo di Tetide, onorarono e man¬ darono alle isole de’
beati; perché egli, sa¬ puto dalla madre, che, se avesse ucciso
Ettore, sarebbe morto, dove, non uccidendolo, avrebbe, tornato a
casa, finito vecchio i suoi giorni (52), 80 osò prescegliere, andando in
ajuto a Patroclo amante suo e traendone vendetta, non solo mo¬ rire
per lui, ma soprammorire(53) ^ lui già uscito * causa gli Dei,
soprammodo anci essi compiaciuti di lui, l’onorarono partico-
rmente, perchè egli aveva tenuto in cosi gran
Conv‘‘<’ racconta fia- Bd Escbf "^\„,ante di
i o^di Patrono era te?'®? col d>*’‘=’ non solo -j^n.
:!^àoi^^\fdcgy^ ^ZXo^to, come dice %eUe> giovi»®
^Lhe‘-llE>cio»o’'^”° :> “ AMARE ; per6
0""°‘n arato >1“““ „uage dell’amante, an
:.3"‘ ''“mv *0 a f r»“''”ri 17) E P« “? Setok
de’beati. - » S^te^idS ret ato e in morte W).
Di questo tenore /“ùssero termi altri ehe „. , dopo im ei li
saltando recr- ,sìrieordav.gran ta m. ’.j^„,l, dicesse, a il
discorso di t'ausa oisoonsQ m DlSCUi<e2>v
\ e ci si sin lon bene, o Eetoo- ^ P-'J,èssere ,osto il
soggetto f ^ i,re Amore. Foi plicemcnte invitati ad elog^^^^^e bene ,
ma %e l’Amore fosse uno^^^ ,gU uno, 0, e’ non è uno. or
, n lSi Convito
coiivieii meglio dire prima qual^ i • amndi io „,i sforzerà a
corregge^ cloanrc quale Aurore bisogna lodare P-i»; ,n erodo degno
dell'Iddio. Perche ,m’,f‘“"•d. che Afrodite non è senza Amore
PP'=''^o fosse una, uno sarebbe Amore- due C6o), anche due è
necessità che ^ siano ( 60 . E come non son due le De ? più antica
e senza madre, figliuola di Ciel„ appunto nominiamo celeste - l’altra
da Giove e Dione, che appuntò chiamTainr^l gare (62). Quindi, è
necessario, l’Amore J deU’una, chiamarlo a buona ragione volcrare
^1° leste l’altro. ^ Ora, gli Dei si devono bensì lodare
tutti (6A- pure, ci si deve provare a dire le qualità sortite da
ciascuno dei due. Imperocché (64) ogni azione ha questa natura; di per sè
nè buona è ne cattiva. Ciò per esempio che noi facciamo o il bere 0
il cantare o il discorrere, son cose di cui buona non è per sè stessa
nessuna; ma ne -tra, per il modo com’è fatta, riesce tale; perche fatta
bene e rettamente diventa buona, così appunto l’amare im ^
buono c degno d’elogio; quello che bene incita ad amare (65).
L’Amore, veracemente •icello con cui ^
veracenii quello CC IL X adunque
dell’Afrodite volgare è vo gare, e opera a caso; ed esso è amano
gli uomini abbietti. Amano cUc i S'O'. iricoo
1*^ ^ piuttosto I costo^°''%i che più stoUa- c P‘='^
^àrdavtdo che a sod- o non ng^'^^'^Xintenù. Onde Dtr' i,e
P°^^°\orc, se V occasione, sen'-"'’"'^ ,cUo di cn' ' il
contra- fa"”®’ //>! ^Perocché es ^p\\’altra, e
p.<- oca ( 67 ) „„iH nascita sua celeste da
contro >’A'".“'%Tfe«,mto, .00 ■"“t'p *
"“"tési" 0 poi cruna e „,aschio (68) > P appunto
si rivol 5°"'"'° li lascivia ( 69 ) •• prediligendo
"““dtscl.io 8Vispi.“^Tme8'lo «lofo , fc per natura pw
forte iigenaa. ^ ^l'^^^^rnte riconoscere jelh ‘T afooo®
i,c“oaiotcn- 1> t®""' “Scindono gii “'"“?„'lata.'>r>-
“ Sfitto,SO«g.-J»;jSrrro««» pcchò q»o»i. frisoUtto 0
ot»« ad amare, sono P““""„„„,e l’intera '.to. col
tancinllo e vvere n co orto e non gii,dopo «'f»;»;” “óra di senno
,0. come giovine, co P uotsi di corsa prendersi beffe di 1». = 'ol
,,,o, fan altro. Vi dovrebbe ““'' "on fosse i" «“ *
cMli non si amino r afffncbl n^^,,^ ^ a cosa spesa di mo ta
cuta^ P .poanto a ' "0 fine dei tandnlli dove 6»“ ’ ora.
> e virtù d’animo e d. corpo
Convito mettono essi questa legge a sè proprio volere;
se non che bi‘sogneS‘ lor cotesti amanti volgari, come appunta ,82
il pm che per noi si possa, a non . libere (73). Chò essi son
quelli volto l’amore in vituperio, tanto che tal dire che turpe
cosa sia il gratificare T ti C74). E dicon così, avendo l’occhio V
di cui vedono l’intempestività (75) ed poiché, di certo, nessun atto
compiuto ordin mente e conforme alla legge potrebbe co.rrT gione
arrecare biasimo. E appunto la legge, che governa 1 amore
nelle altre città, è Exdle ad intendersi poiché nei! concetto uno
solo ; ma qui varia. Dappoiché nell’Elide e nella Beozia e dove
non sanno ragionare, unica legge è questa che é bene gratificare gli
amanti, e nessuno^ nè giovine nè vecchio, direbbe che sia male ;
af¬ finchè, credo, non abbiano a durar fatica a per¬ suadere i
giovani con ragioni, inabili come'sono ^ ragionare (79) ; invece, in
molti luoghi di Ionia, c m molti altri è riputata cosa turpe, tra
quelli lutti che son soggetti a’ barbari (80). Di fatti, Ira 1 arbari,
per ragione delle tirannidi, si reputa ^ turpe questo, e così ancora ogni
studio di sapienza e di GINNASTICA. Poiché quivi, m’im- giova a chi
governa, che si gene- o alterigie grandi nè amicizie d’offnt
g^giiarde, quello che, non meno prattuttn l’Amore so-
’^sperienzrfirr^^^' ii^parato per ini anche di qui; chò
l’amore di 45 ^ -.rnona- Cosi dove
disciolse la lor sig ^^^^fjcare gli salda, di cosa sia il g
^,.^,,c7.^a r SSo delUsoverchlena jiriaa^'’ ' l’hanno
effemminatezza dei dei quella vece, dov^_ a sia in ^n«n
V.cposto hanno (84)- "fo di quelli che cosi dispo^ p.,
bella, e com XI I,uperocchè (85) chi
nJii bello r amare aper ottimi, :s„!esop„«»«o>£frs C 80 -.
e ancorché sieno pm cabile incoraggia- "altra
parte, chi -a nqualcosa mento da tutti,un innamo-
dibrutto; c che il co brutto, e la rato par bello, non cO q
lode, legge ha dato licenza a chi j quah, ;?ndo sia per
conquistar^ ;«^\,„que altra chi osasse fare per correr raccoglierebbe
ca da '“'dfppoUtó, s= P“ ''^ i maggiori biasimi,-•• , q q
averne u di cavar denaro a qualc^'^J^ ^solvesse fido
(90) o un altro g^Jo I 9 amati, 1 a fare quello che g > un
quali nelle lor richieste ‘ dormite sulle implorazioni e giuramenti
C 9 i) ), e servono "" ' servo tollererebbe
serv,v ^ dagli ann-ci e’daC,''' sua adulazione e abL ‘^“elli
vJ monendolo e arr^ ^“'^'ezione fq.x '“Petatid! f-- «li
cosrreT"'' “«*= .?«>- «li i- P=rn.«„ Sr,^ «me a
q„dIo che effetti L ' ^«to. E il pii, tecribile“"r'"“
'"“S a meno dice )a geme, s„,o J,,? “”' 'l«, co». gli_
Dei perdonano, se trasgredisci poiché giuramento Afrodisio i
f^. CosihannoefhDefri,°"""°"«‘- licenza
accordato a chi ama ogni legge di qui. Da questo lato
terrebbe, che nella citf\ nn«t* ’• ' ““*1“®’ “«o n- e
l’amore7- ‘'"''«simo e amore e il mostrarsi amici agli amanti.
Ma Jlh VV’ P^dri, preponendo peda- S g I 3 gh amati,
non permettono che di¬ scorrano cogli amanti (98), e i coetanei e
gli amici (99) \ itnperano quando vedano succedere qualcosa di
simile, e i vecchi, d’altronde, non inter icono cotesti censori, nè Ji
biasimano, come se non dicessero giusto, uno, che per opposto
^ardi^ a tutto ciò, stimerebbe che qui una simile cosa si reputi
bruttissima. Ebbene, la cosa, credo IO, sta così ; non è a mi solo modo ;
eh’ è ciò e ie s è appunto detto in principio, eh’essa non sia
bella nè brutta; ma fatta bellamente bella, ruttaniente brutta (100).
Ora, bruttamente è, belT^ ° gratifichi un malvagio e in malo modo;
niodo^'^'^p'^* quando un uomo probo e in probo malvagio è quell’amante
volgare, che Convi‘0 „on L» i «
r<‘>'"^^' „;, la »ìia. P»''"'^ * ' 1*** •
/Ilfscors* f fprmo Ip IpfTffC l> ' nresto, perchè
s' L' r esser preso p crrutinitore, * truuo 1 esse p
scruti tempo — Aprp da denari e ua- P l ' òl il
lasciarsi prendere da s, sgo- ;;Ucii è brutto, sia eh (loa)
non menti e non resista, s^ e par disprezzi. senza dire
che da cJ sia nè ferma nè stabile, s .^^Ha i «sauna
nobile “rbellan.entc deve leiTge nostra una sola y Dappoiché a
noi Saio gratificale "n.i d questa è la legge;
^'f°"^^Vrervitù verso l’amato servire spontanei qualunq
^^ulazione, cosi s’è concluso, che non ,està non vitupe-
un’ altra servitù sola spon * oggetto- rcvole, quella che ha
la v'rtn p Chò appunto ò ammesso n quando uno si risolva a niH ^
‘ii noi , perchè egli creda di diventa^r^m" ài',''- di
lui o in sapienza o in qualun ^ virtù (104), questa servitù
spontanea no" pur essa brutta, nè sia piaggeria ?• ?"
"«P- queste due leggi, - quelf ch^ regf/? « dei
fanciulli e quella che regge Pai sapienza e di ogni altra virtù (foj)
IT4 correre al medesimo, chi voglia che to™^?' Il compiacere
l’amato all’amante. Chè qual? insieme s’incontrino l’amante e l’amato,
ree nt ciascuno la sua legge - quello che qualunque servizio egli
renda agli amati che lolompTc! ciono, giustamente lo renda, questo, che a
chi sapiente lo faccia e buono, qualunque ufficio egli presti,
giustamente lo presti (106), e l’uno, po¬ tente d’intelligenza e d’ogni
altra virtù, ne dia, a tro manchevole in coltura e in ogni altra sapienza,
ne acquisti, — allora si, queste due concorrendo in uno, egli accade, e
sol- tamo cosi, che bello sia il compiacere l’amato all amante, ma
in altro caso no. In questo, persino il trovarsi ingannato non è punto 85
• ùi ogni altro, o che tu sia ingannato 0 ^,0. ti porta bruttura.
Perchè, se uno che a\- ricco avesse per ragion di ricchezza
perto*i?'"'^°’ ^™vasse deluso per essersi sco- n^en brutto^-^'^^
Povero, non perciò gli sarebbe ’ perchè un siffatto uomo dà a di-
B I anin .0 suo.
a>ep« perché buono c P .j„y;ore egU stesso, diluì
diventare Lll’»'"'^ ' poi deluso, P bello l’ÌBga’^’^°’
anche questi da a divede^_^^^ ^ I,£t«0 V P™"“ “
^T'r^ ''^.1 diventare mighore 5 ^-^.^ontro, e la ‘ •
ter chicchessia; e quest . bello per *'. ?ella cosa di tutte.
Cosi, £ di virtù comptacere ^ Celeste, I '"Questi
ù r Autore della D 1 di gran pregio alla \ amante ' ài
.Uri»"-»" sopra dì st q“»"“ ' volgare. E qaesK
sono dell’ultra Deu.d ^ all’improvviso sono, 0 Fedro, le ’ ^
er la mia parte. intorno all’a\more IO t arreco p „
aiacchè i sapienti Fatto pausa assonanze - avrebbe
m’insegnano a fare di q a. ^ere Aristofane; dovuto, disse
Aristodemo discorre ^ se non che gli era o per _ p ^ altra causa
venuto il • ^aco il medico: -- di parlare, sicché disse ^ ^^i — O
EriS’si- questi giaceva nel letto op cessare (m) maco,
il dover tuo e ^naié il singhiozzo, o di P^^' Erissimaco
rispose; non mi sia cessato „..rché parlerò m E io farò
tutteddue le cose, l ^ Platone, Voi. ì X-
so Convito n'» ™cc, c sato, in
vece mia, p „pi , SP'onao li . guarda se il f P» che ì« jg r«.
nendo ,1 fiato per „„ peaaetto .t”S' E gargarismi coll’acqua.
Se "o. fa'^ lascia vincere, e letichi il naso e
starnutisci ; e quando ®ol- qiiesto una volta o due, ti
cesserà molto forte. _ O parla d„„,re Stofane — io farò
così. ^n- Ed Erissimaco principiò a dire : — Dunque, siccome
Pausania, prese bene le mosse del di- i86 scorso suo, non l’ba compiuto a
dovere, mi par necessario che io mi deva provare a metter la fine
al discorso. Di fatti, che l’Amore sia duplice, pare a me si sia distinto
bene; però, eh’esso non risieda soltanto negli animi umani nè abbia
soltanto i belli per oggetto, ma molti altri siano gli oggetti suoi, e
risieda anche altrove, nei corpi, cioè, di tutti quanti gli animali, e
nelle piante della terra, e per dir cosi, in ogni cosa che viva, a
me pare averlo appreso dalla medicina, 1 arte nostra, come grande e
maraviglioso Iddio egli sia, c a tutto si distenda e per le umane e
le divine cose(ii2). E comincierò a dire dalla medicina, anche per fare
onore all’arte. La natura dei corpi ha il duplice amore aneli’essa,
cd è questo: il sano nel corpo e l’ammalato Convito 5
* .-no per consenso di tutti, cosa diversa e dissi- rnile- e
il dissimile desidera ed ama cose dissi¬ di i • sicché altro è l’amore
che ha sede nel sano. -Itrò t quello che nell’ammalato.
Siccome, dunque, secondo ha detto or ora Pausama e bene gratificare
i buoni tra gli uomini, male i Snaiosi; e cosi anche ne’corpi é bene
grati¬ ficare quanto v’é di buono e di sano in ciascun Spo e si
deve, - e questo fe ciò che si chiama arte medica - e invece male il
gratificare quanto v’é di cattivo e di morboso, e gli si ^^«ve far
brS 0 amore, questi è l’uomo sopra tutu inten¬ derne d medicina. E
chi sa farli mutare, in modo dm in ricambio di un amore si acquisti
J • Mi; ;n cui l’amore non sia, ma bi- tro, e in farcelo nascere,
o, quando sogni generarlo. , -uesti sarebbe davvero un
valente artenc • i,- ip rose che vi sono di "f7^°^n-unaanù
l’altra nemicissime, e la -nnnste il freddo 0 „ «U»™»»'» ,
= 'vi» vi. «-sr aX « tra tali „„asti(ii7) PO^ti ed
pio, secondo la L credo, dico io, è T ,.a\rco.«»
r= gìnnaSca O'ii e l’agricoltura. La musica poi.
Convito' per poco che ci si badi, si vede chi. stesso
tenore, come forse anche p ’deiu .87 dire;chè, quanto alle parole, egh^n
” me bene. Giacché dice che l’uno si accorda con sé, come
armonia lira. Ora, é grande assurdità 17 ° «i' un’armonia discordi
n rieri,,: j. “"’c, che B discordanti.
tuttora derivi da cose tu Se non che forse voleva
dir sto, eh’essa nasca dall’ acuto e grave discordi; priiTiii e
dopo consenzienti per opera dell* * musicale; ché, certo, armonia non
nascerebb"^ dall’acuto e grave discordanti tuttora; ché ar¬
monia é consonanza, e consonanza é un con¬ senso; ora, consenso è
impossibile che provenga da cose discordanti, finché discordano; e
quello d’altra parte, che discorda e non consente, è impossibile
che armonizzi : appunto come il ritmo nasce dal veloce e dal lento,
discordanti da prima e poi consenzienti. In tutte queste cose é la
mu¬ sica quella che mette il consenso, come in quelle altre la
medicina, generandovi un amore e concordia vicendevole. Sicché la musica, alla
sua volta, é scienza dell’amoroso nell’armonia enei ritmo. E nella
composizione stessa dell’ar¬ monia e del ritmo non è punto difficile
discernere l’amoroso, né costì v’è il duplice amore : ma quando
bisogni usare del ritmo e dell’armonia cogli uomini, sia componendo, —
che e quello che chiamano niclopea — sia usando ret¬ tamente di
melodie e metri composti ciò che s’é detto educniione — qui c é la
difficoltà e c’ é bisogno di buono artefice. Poiché torna da capo lo
stesso discorso, che gl> Convito fine che
diventino più uomini J non son tali in tutto, perbene quelli
che « tenerlo caro, e bisogna_ gffceleste, l’amore della ce-
E invece quello di Polimnia leste Musa Ci 7 j> jj deve
amministrar con t il volgare, n qnm ci col<»a bensì
cautela a chi 3’, ?n-eneti punu incon- 11 nostrale gran cosa
l’usar tinenza, i-ome nei -scinte dall’arte della rettamente
nè colga il piacere .cucina, per modo e nella musica :
dJsrdS’1=“-™-'^ “ X.IV ^'^enl^l^X'ddu^qtes\e
indura-^ JlTrquando le co^ caldo e il freddo,
coll’altra, e for- in un «'ontempéranza sapiente. nVmo
un’armonia e una coma ^ vengono apporta ne ^ pinate, e
agli uoniiiu c ‘ «nrln in quella vece non fanno punto diventa
il più fo«e rumore infetto di molte cose c fa nelle
stagioni dell ann ^ jogUono esser generate danno. Di lam» P malattie
diverse d. ..di cagiom. d."<>, “ le piade; c 1»
tanto negli aiiiniali c _gù« miscono dal brinato = 1=
'';„"„*Labpr0PP V accesso e disordine risp amorose, la cui
scienza de' jielle stagioni degli anni si' c1h;‘ as^i ^ Di
pu. ancora, ci sacrili.! tutti e presiede I arte divinatoria, p ® a cui vicendevole comunione degli
dei'èoar'a non hanno altro oggetto, se non Pose. risanamento di
Amore. Chè “ >' suol generarsi, quando uno non grati£
ordinato, e onora e venera in ogni suo questo, ma l’altro, si
rispetto o VIVI 0 morti, si rispetto agli Dei; dove aT punto è
commesso all’arte divinatoria di vigilare gli amori e sanare; sicché, da
capo, 1>arie divinatoria è operatrice di amicizia tra gli Dj! c
gli uomini mediante la scienza di quali tra le propensioni amorose di
questi tendono al le¬ cito (155) e quali all’empietà. Cosi
molteplice e grande, anzi, in breve, una universale potenza ha ogni
Amore; però la mag¬ gior potenza la possiede, si presso noi e si
presso gli Dei, quello la cui sodisfazione è nel bene ac¬
compagnato di sapienza e giustizia (135) ; esso appresta ogni felicità, e
ci mette in grado di convivere gli uni cogli altri e diventare
anche amici agli Dei, migliori di noi. Ora, ancor io (136) forse
nel lodare Amore tralascio molte cose, non però di proposito. Ma se ho
trala¬ sciato qualcosa, spetta a te, Aristofane, di sup¬ plire; o
se tu hai in mente d’elogiare l’Iddio in qualche altro modo, e tu 1’
elogia ; ché ti é anche cessato il singhiozzo. Q.UÌ,
Aristofane, presa la parola, cominciò) raccontava, a dire: Si, è appunto
cessato, non file io ali abbia applicato lo star- : richiedi
iili roihoti e ptent, quii l tr ;Ó Lrnu.0 . Pd"» ‘ ’W'”
ho dppliccto lo su,™». “ «c nW - g«»“p » 1“"“
d"' ';“';'i "™“rl sV 'per cominci»™ » P»*'" >“
' Tu burli, man ^ ^j^ella al discorso tuo, ’^ioTcX
Vdire' qualcosa di ridicolo, mentre ^ avresti potuto parlare
bene, E Aristofane, ridendo, "P istare Erissimaco,
e sia per non a farmi che me n esca SI stanno per . che
sarebbe un gua- rg“o to’S;.™ »>i» «'“» _ e or» cedi
di f“p 'dj ('»> r:.:o„rpdrrr.rm-.p».Mn.»»d stare. Discorso
di Aristofake cominciò a dire E in vero, ménte di discorrere
in Aristofane — lO q^jella che tu e una maniera diversa
^ pare che gh Pansini» «die fitto. pottor» uomini non
abbiano pu Convito di Amore, chè. se l’avessero
con,„ mnakato in onorsuo i maggiori '""fcbbcf, e
celebrato i maggiori sacd£i, noS che di tutto questo non gli si fa
SI dovrebbe fare più che altra cosa / D Perchè è, tra gli Dei, il
più amico dcel essendo soccorritore loro, e medico di ^ dalla cui
guarigione deriverebbe la felicur giore al genere umano. Io, adunque, mi
sCf^ . a dimostrarvi la potenza di lui, e voi ne sarct maestri agli
altri. Ma vi bisogna per prima cosi intendere la natura umana, e i casi
di essa. Ab antico, di fatti, la natura nostra non era quella
medesima d’ora, bensì diversa. Chè da prima E erano tre i sessi umani,
non due, come ora, ma¬ schio e femmina; ma vi se ne aggiungeva un
terzo, partecipante di tutteddue questi, del quale resta oggi il nome, ma
esso stesso è scomparso. Allora, di fatti, v’era e la specie e il
nome uomo-donna che partecipava di tutteddue, ma¬ schio e femmina ;
ora non ne resta che il nome a vituperio. Di poi, l’intera figura di
ciascuna persona era rotonda, colle spalle e i fianchi tutt’intorno, e di
mani n’aveva quat¬ tro, c gambe quante le mani, e sul collo tondo
due visi, simili da ogni parte ; su ciascuno poi de’ due visi posti 1’
uno di rincontro all’ altro una ‘90 sola testa, e quattro orecchi, e due
mem¬ bri, e il rimanente, quale da ciò si può con¬ getturare.
Camminava poi si ritto, come ora, per il verso che voleva, e si quando si
metteva a correre, reggendosi sulle sue otto membra andava via
lesto facendo la rota, a modo di 57 Convito
quelli che, \MssT,'’poi.«=^"° ^ s"’ "Xchè il
Maschio fu in origine pro- tre e siffatti, p , della terra, e il
terzo genie del sole, ^ ^^eddue, della luna, giac¬ che
partecipava “ d’i quello e di que- sta)- "^^gVianza co’loro
progenitori, cammino, per ® ® terribili per forza e per
Sicché in principio grandi e assalirono gli Dei.
XVI r .litri Dei si consultarono Sicché Giove e g i ^ stavano
che cosa occorresse loro^dj in dubbio ; che nc a
fulminarla nt di farne J“"P^""^^^bhero scomparsi
insieme come t celebrati dagli uomim; e gli onori, e 1 ‘
imoerversare. Infine, „ea„d,= volevano If “f 'X" ,4 _ E' mi
pa- Giove si formò a fané. uomini esi- re — disse — avere un
LholffU?). cessino stano e insieme, P"ra - disse - H spar-
dalla petulanza. Giacdr tirò ciascuno m dtie, ^ noi
per- ranno pib deboli, e mstenmj^diritti ché cresciuti di
nunier^ , . ^j^e conti- sopra due gambe. Ght P
Convito 58 luiino a imperversare, e non vogliano
stare quilli, e io, — disse, — li segherò da capo**''' due, sicché
cammineranno sopra una gamba s 7 saltellando (148). E detto questo,
tagliò gli ° ® mini per il mezzo, come quelli che tagliano ] sorbe
per salarle 0 quelli che tagliati le povj E col capello (149): e a quelli
che tagliava, co¬ mandava ad Apollo (150) di girargli il viso, c
metà del collo dalla parte del taglio, peròhù r uomo, guardando il taglio
fatto di lui, si con¬ ducesse con pili misura; il resto lo
medicasse. E Apollo girò il viso, c col tirare da ogni parte
la pelle verso il ventre, come si chiama ora, vi fece, a modo delle borse
a nodo scorsoio, una sola bocca, c la legò nel mezzo del ventre,
tgi quello che si dice ora l’ombelico. E le altre grinze — ve n’ era
rimaste tante — le spianò, e rassettò le costole, servendosi di un
istrumento, su per giù come quello dei calzolai nello spianare
sulla forma le grinze delle pelli, e ne lasciò al¬ cune poche, nel ventre
e nell’ombelico, per ricordo dell’antica jattura. Or bene, quando la
creatura umana fu tagliata per il mezzo, ciascuna metà desiderando
l’altra le si faceva incon- gittandole attorno le braccia, e av¬
viticchiandosi runa all’altra, poiché si strugge- H vano di risaldarsi,
morivano di fame e d’ogni altra sorta d’ozio per non voler fare nulla
l’unO senza dell’altro. E ogni volta che una delle metà morisse, e
l’altra sopravvivesse, la soprav¬ vissuta ne ricercava un’altra c le si
avviticchiava) 0 che s’imbattesse in una metà d’una intera onna, —
quella ^i^g chiamiamo donna Mio,. Giove, „„ «omo; 0
“ ° I o '' ^ «li* • oerchc sino avendo»® oonip pudende,
pej "°rfn terra, come le che me- Sin^e, così sul
negli nlm, diante quelle la femmina (i 5 S) niediame
.tll’abbraccio. se un uomo con questo fine, eh onerasse, e la
specie s> imbatteva J^ttesse maschio con esistesse,
e se im ^^are insieme, maschio, venisse 1°’'° ^ a operare.epren-
e smettessero, e si rnolg dulia vita. D 1 \\
Tini è un contrasse" Ciascuno, dunque, come le gno
d’un uomo, ulte eia- sogliole (157); uno due. S inten
scuno cerca il contrassegno insieme uomini che sono come un
taglio di qu che allora si chiamava i(omo-ioM«a, son ‘ di donne e i
piti degli adulteri da questo sess son proveiiun; e così q^-
"sesso , Convito 6o sono taglio di
donna, le non badano di molto a^Ii uomini queste, ma hanno piuttosto il
cuore alle donne ed il sesso loro è quello da cui prò. vengono le
tribadi, aitanti poi sono taglio di maschio, vanno dietro al masclùo ; e
sinché sono ftnciulli, come particelle che sono di maschio, amano
gli uomini e si compiacciono di giacere - con questi e tenerli
abbracciati, e son costoro ’ i migliori fanciulli e giovinetti, chè non
v’è nature più virili di loro. E v’é chi afferma, che questi sieno
degli svergognati! bugiardi; non è già per svergognatezza che cosi
fanno, ma per ispirito di ,baldanza e virilità e ma- sciiiezza,
appetendo il simile a sé. Una gran prova n’è questa; soltanto costoro
fatti giovani rie¬ scono uomini da attendere agli affari pub¬ blici
E diventati maturi, mettono amore ai fan- li ciulli, c di nozze o di far
figliuoli non si danno pensiero di per loro, ma la legge ve li
costrin¬ ge (160); quanto ad essi, son contenti di vivere gli uni
cogli altri senza ammogliarsi. Sicché un siffatto uomo diventa
addirittura amante (i i) di fanciulli od amato, appetendo sempre nei
due casi quello che gli è congenere. Ora, poi, quando C un
amante di fanciulli, o chiunque altro s ini colla sua propria metà
di prima, allora è una maraviglia come si struggano di amicizia e m
trinsichezza ed amore, tanto da non volere, per cosi dire, separarsi gli
uni dagli altri neancie per un minuto. E questi son coloro, che
riman gono insieme l’intera vita, e non saprebbero neppur dire, che
cosa mai vogliono che per opera dell’uno succeda all’altro. Giacché non
pn'"' t Siòn” r-
insien''® . .v, ciascuno dei esprimere, Lm"^ralcos’
altro, cbe tjo ^ ^-ee ‘^’ 'Tl nrc%ti"‘="^°/'
eoel’instr'if^''"" „ia ha £ se Elesto, cogl
in cnimm sopra di > {. rnai, niano, si domandasse ^ ’
onera del- I.icceda all’altro? ^ ^ ^^^^^dasse da
incerti della risposta, ^.^^nrel’uno nello stessissimo luogo
n nt notte - potervi lasciare l’un liqnefarvi e eoa-
chè se desiderate ° nhe siete, diven- ^ilarvi insieme,
,n tiate uno, e sinché > morti, comune come uno
" \i,m invece di due anche laggiù nei reg ^^^^^date. se è
questo morti uno solo (i6 ^^ddisfatti, quando lo che ’
inmo bene, che, sentito ciò, nessuno, proprio nessun darebbe di
avere strerebbe di volere altro, . ^ desiderava pure
propriamente sentito qu ,j, ^to diventare da un penzo, unito e fuso
coll ^to di due uno. E la causa nò questa, cne , nostra
natura era si desiderio, adunque, e all. d;\ nome
amore. eravamo uno; E prima d’ora, come dico, i ora,
poi, per la malizia nostra, sia paniti di casa dalla mano di Dio,
come i- Arcadi da quella dei Lacedemoni. Sicchfc^ ' cogli Dii non
ci si conduce come si conviene*^ v’è da temere, che si possa essere
segati da capo’ e si vada attorno, come le figure delineate dj
rilievo sulle tombe (164), tagliate per il me^o dei nasi, diventati a
modo di dadi cotisunti. Anzi per questa cagione bisogna che ogni uomo
esorti B ogni altro a condursi piamente verso gli Dei, perchè
alcune si sfuggano, altre si conseguano delle cose, a cui Amore è guida e
capitano. A cui nessuno faccia nulla in contrario ; — e fa in contrario
chi s’inimica gli Dei ( 165 ) — giacché diventati amici dell’Iddio e
rimpaciati con lui, ci succederà di ritrovare- e incontrare i
propri amati nostri, il che ora accade a pochi. Ed Erissimaco non
mi s’immagini, per canzonare il mio discorso, che io parlo di Pausania e
di C Agatone; forse, anche loro sono di quelli, e tutteddue maschi
da natura ; se non che io parlo di tutti, e uomini e donne; chè così la
stirpe nostra diventerebbe felice, se dessimo perfezione all’amore,
e ciascuno s’incontrasse nel proprio suo amato, tornando nell’antica
natura. E se l’ottimo 6 questo, è necessario, che di quanto è oggi
in poter nostro, ottimo sia quello che più vi si avvicina. E ciò è il
ritrovare un amato, fatto secondo il proprio cuore. ^ Del
che, se s’inneggia autore un Iddio, Amo¬ re è quello a cui a ragione
spetterebbe l’inno. Amore che ci è di moltissimo giovamento nel
presente, poiché ci riconduce nel proprio, e ci dà le maggiori speranze
per l’avvenire, — se però noi ,i .-.età v=W sii a»
Só-'r-' xvin j» il mio discorso •
tr.rno ad Amore, di'crs ^ ^ canzonatura, t ‘„%c p-»g*;». "r,
‘=’’' '“ir- .„d,c a pari»"" °
P'""-"" quelli che rimangono P ^ Socrate,
rimangono, di fatti, § , _ raccontava che Ma io taro a tuo
n»do^ j,, ,1 „o rispondesse Enssimaco ^P ^^p^ss,
discorso sono valenti in cose che Socrate e A^a dovessero
es- d’amore, temerei g'"^" ^-ose oramai si
sere impacciati a ’ ‘ ^ro fiducia, son dette e cosi
perchè E Socrate rispose; dóve sono «94 tu te la sei
quando avrà discorso ,ira..uraro, perché io mi turbi, °
che il teatro sia in grande aspettazion me, che io debba discorrer
bene. Sarei d^avvero uno smemorato, Agatone, soggiunse Socrate, — se,
avendo visto 1 raggio e Palterczza con cui tu sali su pa^ co
insieme cogli attori, e guardi in accia ^ gran teatro, quando tu devi
rappresentare 1 64 Convito componimenti, e non ti
mostri sgomento un poco, ora credessi, che tu ti debba a cagione di
questi pochi che siamo Ma che ! — riprese Agatone — non mi
cred Socrate, cosi pieno del teatro, da ignorare ne che a un uomo
di mente fanno più paura n persone di senno che molte senza (169).
Certo, Agatone, non farei bene, — ripigliù So crate, — se pensassi
di te nulla men che gentile Anzi io so bene, che se tu t’imbattessi
in-persone che tu reputassi sapienti, ne saresti in maggior
pensiero che della folla. Ma, bada, che noi non si sia già di quelle;
perchè noi ed eravamo in teatro e facevamo parte della folla. Però, se
tu t’imbattessi in altri sapienti davvero, ne sentiresti tu
rossore, quando tu credessi di fare qualcosa di brutto? (170) o come
l’intendi? Dici il vero — rispose l’altro. E della
folla tu non ti vergogneresti, se tu credessi di fare qualcosa di
brutto? Dove Fedro, raccontava, interloquendo— Caro Agatone
mio, — dicesse — quando tu risponda a Socrate, non gl’importerà più nulla
di nulla, di quello che qui succeda comunque succeda, purché abbia
soltanto con chi conversare lui, spe¬ cie con un bell’ omo. Ora, Socrate
io lo sento conversare volentieri ; ma a me è necessario aver cura
dell’elogio di Amore, e riscuotere da ciascun di voi il suo discorso.
Dopo sodisfatto ddio ciascuno conversi poi quanto vuole. Ma
tu parli bene, Fedro, — disse Agatone — c niente m impedisce di parlare ;
non mancherà poi occasione di conversare con Socrate.
‘.v«mponÌ!n,tntt, Convito > c non li
mostri ‘T pocoi ohi credessi, chr f.® r®"*®
,, ^<^“^chc:t;Td:vTiÉ^ cagione di questi pochi che l- ^
^WÈÉ iS^. . •MucheJ—rbrese Agatont’' Socrate, cOS\ rneno del
teatro, da'i'!" ' f^. -cheuun nòmo di munte.(anno p®, '
itrn> ''.ihr rt» \ ^ P'I Jf m Futdjo che:
molte- -ci Jo. A.-atc-uc, nonfiiiti htne, - nv'l ,>
-.MJ.S - se p*s«*«I di :c nalla uicn chè£ - t so bc«^ , cho se tu
l’imbattessi- • fe?:tB r.epntf. -i rapanti, ne Sare.sti
inV,.’-1 r^’ero che deiia folla. M.s, bada- die .UU fiJ, d! c,
parchi noi cl tuati-0 e fflceaamo parte della folla. Petò,fc.,r» ^
•t’iaib.ittcssì M :iln-it;.»p{cnti davvero-, nc scw.h»- tu t-o$.sore,
quando in crcdtssi di -fare quaì. -li brullo? (170) o come
rintendi? rtk'ci 11 Tcro — rispose Taltro. . il - • j-
. .in f>>}lii tu non ti vergognerusti, t* •* ti i di f.)ro qualcosa
d! brutta? » 4 -’’ l odro, raccontava, inierioquetido->~‘
<S^’j^'t‘UO, -- dicesse — quando tu ris;- V v^:Tàfé. jpon priuaporteri
più nulla^ji ' • f iUo che ani succeda coinunqyu .^ucc '•M
,-i.!: «hb abbia s-^tanto con.chi convcrj.at5glui5^sj^^' • ::;con
un bairomo. Ora, Sgcirate/lo converj^ret'oitn litri ; ma a me è
jiccessarww^^ «tra ik'ir elogia di'Amore (tyt) ^ erlscuoicr -ciascun
di voi il suo disco^-'; .C>opc?»C^*^ l'Iddio clascuuci conversi poi
qyaj 4 l? J Ma in p,i. li bene,.Fedro, c niente
m’impedìsfc di parlarci nph-manv: , poi occasione di cons*etsare cori
.Socrate. ’ Convito 65
95 „ ni AGVrONE Discorso o’ priwa
ha? discorso T’c'ct 72 > P^'^°""^’%arabbiano
l’ldd\o poi dire Cn ^ non ,. .. ^o dei beni, pvand gli
uomini nup\e essendo i --“"'Chiusi l’Iddio; r/ntsuno
l’ba di n tutti cotesti beni ^%*ure, d’ogGi lode go
quale di quali cose E cosi è g^Jf egli u discorso sia
075; ^ • stesso quale eg bello, egli ^^/osiff^to. D P^ ge d
più giovine degli Dei, g foggu di 'quesm suo tratto eg smsso,
P ,e,oce b fuga la vecchiaia, P dovere ci arrii almeno
assai pih pres p aver a a’ fianchi. Ora, P neanche di
lontano, iu odio e non le si acco , ^ ^ ^^^6) ; -b E
sempre co’ giovani usa e « sempre bene sta 1’ antica "oute»- .
consen col simile s’accompagna ( questa non ziente con
phio in conscio, che lui g- c di lapeto O?»)- 5
Platone, Voi. hX. *
66 Convito C vanissimo tra gl’ Iddii c
gio\ gli antichi fatti intorno agh Parmenide dicono (179),
esse di Necessità, e non di Amore, se pur sero il
vero; chò non si sarebbero viste ‘ tazioni e legamenti vicendevoli ed
altri violenti atti, se Amore fosse stato tra lor^b^’ ® amicizia e
pace, come ora, dal di che sopra i Numi regna. Dunque giovine eguT
P e oltreché giovine, delicato (180): solo un poetà gli fa difetto quale
Omero, che mostri la deli¬ catezza di lui. Ché Omero afferma, che
Dea Ate sia e delicata, almeno delicati sieno i piedi di lei,
poetando: I piè di lei son delicati; e il suolo Non tocca;
dei mortali ella sui capi Cammina. Ora, è buono argomento a
mostrare la deli¬ catezza sua, ch’ella non sul duro cammini, ma E
sul tenero. E lo stesso useremo noi argo¬ mento a provare di Amore che
delicato egli è. Che nè cammina sul suolo, nè sui crani i quali
punto teneri non sono, ma nelle più tenere cose e cammina e dimora.
Perocché nelle indoli e ne¬ gli animi degli Dei e degli uomini la dimora
pone, e nè in tutti gli animi del pari, ma dove in uno s’imbatta
d’indole dura, va via; dove di tenera, vi s’accasa. Poiché egli, dunque,
e co’piedi e con ogni sua parte è a contatto delle più tenere g(5
tra le tenere cose, è necessario che delicatis¬ simo sia. Sicché
giovanissimo è e delicatissimo, e di giunta fluido di forma. Ché non
sarebbe 6 ? B Co’ivilo ^
neU’en- U»»' («!?'. C»«o *« s»p» o^. iorf“"”“ ,
M«, ‘l“‘''?Si AmP« pos*'"''’ ,jvveoen='^ „nso di ^ guerra
sempre. .!•" °«P»“ “ T Wer. d=irM» "* chè f
del colore, “ ad anima e ctó.a So.e o cta ' K' I
soggetto la Amore; e dove f ner£, non s’accoppa A ,
Todoroso loco sia, 1» P fiorito c ou perniane-
j iiMddio e basta sin Orbene, della 0'“““‘‘Jella vlrtì
d’A»ore qui e molto resta a g U principalts- conviensi
dopo quella P ^ offesa nt sinio è. cito Amore ^ ^,84>
di Dio o a Dto nc * -tUre eo'U stesso, s Perché nfc per violenza
non tocca ^ qualcosa patisce; - eh ^ volontario i; in
tutti il servigio ' ^ jj^ reme (t 5) > assente a volente, h
legSh , giustizia, affermano che giusto sm- ^ ^i^sinaa.
Peroc; è provvisto di temperanza ora^^ ^ ^esidern chè si consente
che vince P^^^^ non sia temperanza, e che p gè sono da me ,
v’abbia piacere «essuno- O questi è forza che sien
soverchiati 68 Convito soverchi : ma se
piaceri e desidp t.(. E quanto a
coraggio adr^°P^^tut pure Are contrasta » (187). Chi « n«(,
Amore, ma Amore Are possied^'^am^ Afrodite, secondo è fama (188) • or ’l
• di tiene in poter suo il posseduto é più coraggioso d’ogni altro,
debbe esli certo il più coraggioso di tutti (189)^'?®5' della
giustizia e temperanza e coraggio dS'r? d.o s’è toto; resta ddk sapiens,;
; SI può, bisogna provarsi a non ometterla (looT E da prima,
perchè io per la mia parte lodi l’LÌ nostra, come Erissimaco la sua,
poeta è l’Iddio sapiente per modo che rende tale altrui; al¬ meno
diventa poeta, « ancorché pria fosse di Mm privo » (191), quello cui
tocchi Amore. Il qual suo tratto ci si addice usare a testimonianza
che Amore, in somma, è artista buono in ogni crea¬ zione che
attiene alle Muse (192); dappoiché le cose, che uno o non ha o non sa,
non mai le da¬ rebbe ad altri, nè le insegnerebbe ad alcuno.
Oltreché la creazione degli animali tutti, chi vorrà contradire, che non
sia sapienza d’Amore, quella per cui opera gli animali tutti e nascono e
cresco¬ no? Ma nel magistero delle arti, non sappiamo, che quello
di cui questo Iddio si sia fatto maestro, rinomato è riescito ed
illustre; quello, cui Amore toccato non abbia, oscuro è rimasto? L’arti
del saettare e del sanare e del divinare Apollo (193) trovò,
guidato da desiderio e da amore (194) > sicché anche questi discepolo
saria d’Amore, c le Muse ne appresero musica, ed Efesto l’arte
69 « Zi‘^^ ’ le cose dCo' amore, s m
c ' • onpoirto 1 _ • ft-i genererò, vive d'.C ''chfe^rn
brutte..^ ’‘jf di bellez5-a. priircipro ^ o- ;ndc>
,„„onzi, _An SI narra (,19 ai bellez^-'*'’ — , principro u-
-- »"«• inna®'. si ^
; terribili eventi, -t^ecessità % « i“nsi s» ^
;«/»« ts -s"' Vantare Amore, es- o Fedro, a
\ ^ e ottimo, dipoi 1 sr: Ji*"'" ,. ., mar
cairn»,‘‘='"'““ „ ai,caco, . »s> D attesti
<i’0B”i „ empie che cl at- vttOta, e d'ogni mgunate degli
tttt. tmelia, egli. ’S"ttnSsero, aeUe «e cogli
altri instttttl che s, «o ,gli m. ezaa „ei coti, nel saenfien g,
benevolenza • inspira, selvatichezza sband .^^^i^ordioso ai
largo, di “lenabile, buoni (zoo), a sapm ^ custodito d
bile-, invidiato da chi n F . dilettosa, na’rlcco, di
re»').'’»'*''';,"'?» grazie, di brama, i ^ ; m trav g
> tore dei beni, timoniere, ' paure, in pencoli, m
^°^tore ottmm, di I marinaro, commilitone 7 °
Convito quanti gli Dii c uomini adorm bellissimo e ottimo,
che ad ogni'?,?"'’ seguire innepiando e prendendo pa??
canzone, eh egli, molcendo ]’intellel gli Dn e degli uomini, canta (203)
‘«'ti auesto discorso, dice, o Fedrh sia parte offerto in
voto all’Iddio, dove di s^T dove di misurata seriet.^, in quanto ir,
perato. ’ .XXI 198 duando ebbe finito Agatone, tutti,
disse Ari¬ stodemo gli astanti esclamassero, che il giovi- netto
avesse discorso in maniera degna e di sé e dell’Iddio. Sicché Socrate,
volto ad Erissi- maco, dicesse : O figliuol d’Acumeno, ti par egli
che un timore da non intimorire m’intimorisse poco fa (205) e non fossi
invece profeta nel dire quello che io ho detto dianzi, che Agatone
avrebbe parlato mirabilmente ed io mi sarei trovato nel¬
l’imbarazzo ? DeU’una cosa — rispondesse Erissimaco — mi pare
che tu l’abbia indovinata, che Agatone par- B lerebbe bene; ma che tu ti
troveresti imbaraz¬ zato, non lo credo. E come, beat’uomo —
ripigliasse Socrate — non mi troverei imbarazzato cosi io come chiun¬
que altro, che dovesse prendere la parola dopo la recita di un cosi bello
e svariato discorso ? E il rimanente non ò stato altrettanto
maraviglioso; tua sulla fine, quella tanta leggiadria di vocaboli
' ® __ me. di clràdo di dir nulla,
scndr'^- non sarò “ ^^^i^zza, per poco - s> ^-’Cia ^lla
vergogna, se C sono t'^g? Vaiscorso m’ha rrchu- 100’’'*= \ia.
Giacchi-_ occorso 1 caso d’ Omero (ao/b (;ìo8) Agatone
lanciasse^ e nu fa- GORGIA, E ho capito >»''X
s.»->^r:“'?dS” "^ “
1 stato davvero ndmo , q p^^te rSHiSSi che
D Sa";=S==S lualunQue cosa. biso'^ni dire
il ' ì, _ m’immaginavo, che o "ila cosa, quale si
s-^nto; pd, scelto del ; che questo fosse 11 ^ia acconcio
vero il meglio, «pot ° ^ ,He avrei di E presumevo gran c del
ino scorso bene, ^^^ 200 ). Invece, si vede d di lodare ogni
cosa ^ era gì- cose V’ha “1 VVt 'nenzognere, età cosa^^a
mila. Giaccnc s - f. , ‘ v Amore, o dascuno di noi paia di lo
razzolando a che lo lodi, n »1'P““° X cono ed A« ° . ogni patte, e tale, e aotote i
c affermate eh egli
:rj.r ^"T™' “"n b=|,.S”i-l.£-
M» io noncoò»c;:o'rn,“H''“* ' chè non lo conoscevo, mi
so°no"i!°''"'®’P !" r°I ?ì»*» “"''io all, M
“,S” V 3 (zio), questo modo; non nma chè
la lingua ha promeslò” la Adunque, addio elogio; che ì„ odare a
questo modo ; non potrei. plT""" lete, il vero, si, non
ricuso di dirlo di nr^®' e non rispetto ai discorsi vostri perché
S. rida dietro. Ora, tu, o Fedr^'^guarj™f discorso COSI ti fa prò ;
sentir dire il vero di Amore c n quei vocaboli e quella giacitura di
senteme che mi verrà per prima alla bocca. E a questo,
raccontava, Fedro e gli altri Pili- virassero a parlar pure nel modo, che
a lui pa¬ resse di dover fare. Ebbene, Fedro — Socrate riprendesse
— per¬ mettimi anche, che io faccia qualche piccola inter¬ rogazione
ad Agatone, affinchè prima io mi abbia C alcune concessioni da lui, e
poi, così, discorra. Ma si, lo permetto; — rispondesse Fedro
— interroga pure. Dopo di che oramai Socrate avesse cominciato, su
per giù, di qui. XXII Di certo, Agatone caro, tu ti
sei introdotto bene, m’è parso, nel tuo discorso col dire che prima
bisogni mostrare quale egli è, l’Amore, poi E 7
^ . . „vi va a gen'O . Q^^^sto in ogni altra ,re
Ji . via, esposto qnaW HS»-
°'S’e.WB"’'^“Teg'''“^''’'‘"'r? D up questo • t- ^8 ^ nulla ^
D f»'*. L>»' di q0»'*“ “ *d,c o di »« ma ad’a^f jj
padre e cgir P. ondere a dolere. fp^rfi' ° 5““ t ma'drd
del pat>’ • ^ . p anche a questo. ^ jjspondinti
Assentiss ^ . y^^sse gallo ciò I Or bene, -- tu intenda me„
poche altre cose^ P ^^^.«dassi : O
'r;srid^c;.-o.t-e,,o,.tr 'qualcuno o no? Rispondesse,
c D’un fratello oDicesse di si. __ domandasse
dis^SSSaSrsulVatttore.^^ Di^qualcosI ciottissimo- .^„gesse
So- tanto questo. 1 lo desidera o “O ^ Di certo —
r'sp'^ Ora, desidera egli e ai sesso della cosa che desidera"^
j. sedendola? ^ nr,-,-. ama;, 'aoti
Pos. B V D Non possedendola, par
naturale Guarda-riprendesse Socrate natura e, non sia necessario,
che dera desideri ciò di cui è manchevoI ^ desidena dirittura,
quando non ne l "“''o role. Tu non puoi, Agatone,
immagi„are“’'‘'’^*’'- 5 aia necessario a mw • ^ Quanto
grande, es- paia necessario a me; o a te pare?
E anche a me — dicesse. Dici bene : vorrebbe forse chi
è ser grande, o forte chi è forte? Impossibile, dietro
l’intesa. Perchè, appunto, non sarebbe-manchevole di tali
qualità chi le ha. Dici il vero. Percliè, se uno che è
già forte, volesse esser forte — ripigliasse Socrate, — e veloce uno
eh’è veloce, e sano uno eh’è sano... giacché qual¬ cuno potrebbe
credere, che queste e simili qua¬ lità, quelli che son tali e le hanno,
desiderano quelle stesse che hanno; sicché questo io lo dico,
peichè non ci lasci trarre in inganno — or bene, costoro, Agatone, se tu
la intendi, devono pure avere nel presente ciascuna delle qualità
che hanno, o le vogliano, o no, e queste, oh citi mai le desidererebbe?.
Però, quando uno di¬ cesse : Io che son sano, voglio anche esser
sano; ed io che son ricco, voglio anche esser ricco, c desidero appunto
queste cose che ho, — noi gli risponderemmo — Tu, amico, che
possiedi ricchezza e sanità e forza, vuoi possederle anche
7 > o » tu le l’^'- .,,,o qtiello eh
e ^JpSesse ' V untare ^ ^ O non t in proi^“’ Z
che non si ^ ancora t P^ aò l^!^ il inantenerntt pe r
ksic^®’ j presente? '‘*‘0° «no -- *'’°“‘'Tchi«nque altro il 1 “»''
^ E questi, Lello che non tiene desUeri tuttavia, desi J „on ha e t mano e al cui h
manchevole. ”.e egli d i desiderio e Vamotc- ‘n”Sr-
-tSse. ^ ,„cr.te-ri.ssu- ^LLvia.-coimlnd-Socm^^ mianio quello
d. OT poi, di co in primo luogo, e u di cui patisca
difetto Si - affermasse. ^ ^^ente, Jt che Ora, per
^etto che l’Amore sia. tu nel tuo discorso hai „,ente im Anzi,
se vuoi, te giù questo; che Tu hai detto, credo ,assetto per via
d agli Dei le cose ^ ^i bruttezza non amore di
bellezza-, g‘a detto su p potrebb’ essere amore. giù
cosi? rispondesse Agatone- Si che l’ho detto - risp par]:
da galantuomo . e, — ora, se è rnci ,>^ 4 ) Socrate; —
ora e» "““*0 (^214) Acconsentisse. “ ' «on s’è
rimasti d’arr« a CIÒ di cui è in difetto, e che “«0 am
Si - dicesse. >ia? É in difetto, dunque, di bellezza
a non l’ha? ^aiore, ^ Necessariamente — affermasse Che
dunque? quello che è in difetto di 1,, lezza, e non possiede bellezza per
ness^ì^"' oh lo dici tu bello? ^ ^sunmodo^ No
davvero. Ebbene convieni tu ancora, che Amore sia bello,
s’egh è cosi? E Agatone — Risico, — dicesse - 0 Socrate, di
non avere inteso nulla di ciò che ho dettò dianzi. Eppure
hai squisitamente parlato, Agatone - C Socrate ripigliasse. — Ma dimmi
ancora una pic¬ cola cosa: il bono a te non pare anche bello?
A me si. Se, adunque, Amore difetta di bellezza e se
bontà è bellezza, anche di bontà, dunque, esso difetterebbe?
Io — rispondesse — non saprei come con¬ tradirti; sicché sia pure
come tu dici. Alla verità, amato Agatone — concludesse — ^ tu
non puoi contradire; chè a Socrate non i punto difficile.
77 Convito e U discorso in- ^
« io giorno d» Dio- £ ora „ r-he sentii nn ^ ^
,rno iteXe cose, e una ^ " Tdeila peste, fece, col
àP“^''\gli Ateniesi, pt'ttj ^tardasse loro di olia agli _ .ricrifizio.
cbe la_n^e m quella appunto cit ^ g, eh’essa jgcianni,qu ^ ^
discorso, outi fra ose d’antore, punti cou tenne, lo,
roverò a ripetervel , p Agatone, nu P c g’intende, Ag
"' e il «#> *' “impano la via. teogo» “ .1 modo che
tu hai ape VTcorrere chi l’Amore J facile £ fcriiua
discor ^ che P . ?! lco.,amo si. quello,^»
-t°iroono,e,io-og»^'^=„,es.^ Tma Agaldno a me,
*'^"“"Èlei, cose che ora Ag bellezza. _
f'"'do me'còlle stesse ragioni con cui^t^^^^ sSo cosmi,
«., ne n°d^o. come l'inmo^“;r= tinta; ò brutto,
adunque, ^.^p^tto? ” D lei-'' o°-“/;Sp ciré non s.a belio,
rese — o credi, clte 4 brutto? Icbba necessariamente
esser Certissimo. O anche quello che rante? o non
senti, che tra sapienza e ignoranza Coni
E che mai? L’opinar rettamente e senz’essere • di dar
ragione, non sai — dice — V" sapere; poiché come sarebbe mai
coV^-"°'‘ naie la scienza? E neanche é
ignoranz'"''"®' che apporsi al vero, come mai sarebbe
ranza? L’opinione retta è appunto cosi'®,?' cosa di mezzo tra intendere e
ignorare ’ Dici il vero — risposi io. B Non forzare,
dunque, ciò che non è bello a esser brutto, o ciò che non è buono,
cattivo. E ! così anche l’Amore, poiché tu stesso convieni che non
é buono né bello, non credere per ciò che deva essere brutto e cattivo,
ma una cosa di mezzo — dice — tra questi. Eppure, — diss’io —
si conviene da tutti, che é un grande Iddio. Da tutti quelli,
intendi tu, che non sanno o da quelli che sanno? Da tutti
quanti a dirittura. E lei ridendo — O come, Socrate, — disse
— converrebbero che è un Iddio grande coloro, i 0 quali dicono
ch’egli non è neanche un Iddio? Chi costoro? — dissi io.
Uno tu — rispose — e uno io. E io domandai : Come mai dici tu
questo ? E lei — Facilmente — rispose : perchè, dimmi ; tutti
gli Dei non dici tu die sono felici (216)? O che ardiresti tu dire,
che alcuno degli Dei non sia felice? io no " possiedono
'A'„ oo»v.n»to, *= » Di non to’ desidera, appunto,
«a'^" ,4 e boto"'' eoo « "““t in dite»»’
0 come ‘Tni^ r^nt:” oto aneto » A»- To'^aedi un
Dio? . dissi .sarebbe maiVa^more? Che,
dunque, tortale? r*f;“'''ltpto''e-un eto di metto Come
prima V "" rti!«to,Dio.i’’»>^ inno B il
demoniaco e un il mortale. - diss’^- E quale possanza
^gU ^ei D’intetpmte '.«““f oni, degU um," nomini, agli
uomn ^ n^^jjjjii, deg’^ smettendo preghi ^^rrifizh . . pgr
mandi e rieambii de. a fb ,,„i, nenipm pe t nel meato tra gl’
n 20 *^ Convito modo che il tutto resti
colleentr. simo. Attraverso di lui pasfa “'r? I na tutta
quanta e quella de’ sacS" ' saenfizu c le iniziazioni. Dio non
si ^ ì uomo; però ogni conversazione e coll Dei cogli uomini, sia
desti, sia addormì° per mezzo del demoniaco che la si fa p‘> ^ i
che è sapiente in simili cose, è uomo d ^ ^ chi è sapiente in
ogni altra cosa o dUrr'^'°' mestiere, ò un manuale. ^ urte 0
(li 0^a,di questi demoni , 1 Amore è un ,
1 ~ ^ CS^i ò suo padre - dissi io - e chi suà ve ne
son molti e diversi : E chi madre ? É lunghetta —
risposi — a narrare; pure te 10 dirò. Quando nacque Afrodite, gli
Dei cele¬ brarono un banchetto, e v’era cogli altri Poro 11
figliuolo di Meti (218). Quando ebber cenato, ecco che arriva Penia per
accattare, perchè era luogo di scialo; e girava attorno alle porte.
Ora, Poro briaco di nettare, — chè il vino non c’era
peranche, — era entrato nell’orto di Giove, e vi s’era, sopraffatto dal
sonno,-addormentato; sic- C chè Penia, macchinando per la miseria sua
di avere un figliuolo da Poro, gli si mette a giacere accanto e
concepisce Amore. Ed è per questo che l’Amore diventò seguace e ministro
di Afrodite, perchè fu concepito nel giorno natalizio di lei, e
insieme è di sua natura amante del bello, poi¬ ché anche Afrodite è
bella. Perciò come fi¬ gliuolo di Poro c di Penia, l’Amore s’ebbe
questa sorte ; prima eh’ egli è sempre povero, c tutt altro che delicato
c belio, come i più cre¬ dono, anzi duro, e squallido e scalzo, e
senza 8i D 10 + .
dormendo avanù |°«* r nò oi i-sofist* ’ ^ e\io stesso
g' mudre e p Inta ^ada bene del padre, '“T rVa"
»- Ìe<l»»"“ ?‘Sero Aii«>'''"‘"“ Chi h
t*'"’ « ''‘®"°”ret=“° e -- “.“ ^TXìSn: ““Se.'
tr“fi- "S>s;=.»“»sri'S-“‘‘° Sf'“ :.,.eh..o.e.-
0„ _ disse - ^ V»e -li ‘ ole- „„ raBSs». q»e ^ apP»'»
^jd't»"»'!”’ um e altri, e d q cose pmbell ^rio
clic Amore sla filosofo, Convito egli sia un che di mezzo tra
sapiente e • rante. E di ciò gli ò causa anche la sua; perchè lui
viene, si, da padre sapiente'*^'’!? molti ripieghi, ma da madre non
sapiente e se ripieghi. Questa, dunque, è, amico SocrateT natura
del demone; e l’aver tu ritenuto Amore fosse quello che tu hai detto, è
stata una C svista da non doverne fare le maraviglie. credevi, come
a me pare congetturando dalle tue parole, che Amore fosse l’amato, non
gii l’amante. Perciò, credo io, l’Amore ti appariva bellissimo. Chè
di fatti l’oggetto dell’ amore è il veramente bello e il delicato e il
perfetto e il beato ; invece, quello che ama, presenta un’ altra
idea, quale l’ho discorsa. Ed io ripigliai — Sia pur così,
forestiera: chè tu parli bene. Ma se è tale l’Amore, di che uso è
agli uomini? D Q.uesto, Socrate — rispose — mi sforzerò d’in¬
segnartelo ora. Dunque è tale l’Amore, e nato a questo modo, ed è, come
tu dici, amore di bellezza. Ora, se uno ci domandasse — O So¬ crate
e Diotima, che è egli mai l’Amore di bel¬ lezza? Ma lo dirò più chiaro
cosi: — Chi ama la bellezza, che ama egli mai? Ed io risposi
— Che la diventi sua. La risposta — dice — desidera quest’ altra in¬
terrogazione : Qjuello, a cui la bellezza diventa sua, che n’avrà
egli? io A rispondo'' 1' uundo, si sei- ^
i. 8'*'“ f p sé '«'*! S bello e li down-
'.rd;iééoo>d,'“rs«"^“'’*'““ . Socrate, su.
diventi suo ^ Snti suo, che n’avrà ,.,,nriparpihage-
aos 3 sarà felice. ^ ^ possesso del bene ' Di fatti. --
dtsse domandare son feli<^'‘ ' vuole esser felice; an«
Trite ^bbia qui termine. "^'’dIcì la rquesto amore,
credi Ora, questa vo uomini, e eh ? -noTav t
"empfe il bene? o come tutti desiderino di avi. dici tu?
, rnmune a tutti. Cosi - dissi to __ ^-jsse lei — non dt-
0 perchè mai, Socrate lo clamo che tutti diciamo che
amano stesso e sempre, ma di alcuni e di altri no?
._anche io. Me ne maraviglio -- dissi ^ noi. Ma non te
ne maravig i i^ chiamiamo sceverando una specie e .^ig q nome
t col nome del tutto, ass g nomi. amore; e per le altre
usiamo al Come che? - poUsis (aai) Come questo. Tu sa atto eh
cosa di molto comples causa che una cosa qualunque passi dal n
sere all’essere, è poiesis; sicché le operazic^"^ pendenti da
qualsiasi arte sono poieseis operatori poieiai tutti. ’ Dici
il vero. Eppure, tu lo sai — dissé, — non si chiamano tutti
poietai, ma hanno nomi diversi; e una par tirella della poiesis sceverata
da tutte le altre quella che ha per oggetto la musica e i metri’ si
domanda sola col nome dell’intero: giacchi questa sola .si cloiama
poiesis, e poieiai quelli che possiedono questa particella.
Dici il vero — diss’ io. Ora è appunto cosi dell’ amore ; la
somma n’ è ogni desiderio del bene e dell’esser felice; ma quelli
che vi si avviano per un’altra delle molte vie, del guadagnare, poniamo,
o dell’eser¬ citarsi in ginnastica o del filosofare, non si dice
che amino nè che sieno amanti; invece, quelli che mirano a una sua
specie, e a questa pongono il cuore, prendono il nome dell’intero, amóre
e amare e amanti. Risichi — diss’io — di dire il vero.
E v’é — disse — un certo discorso, che quelli amino i quali cercano
la metà di sé stessi; ma il discorso mio dice, che l’amore non sia
nè della metà nè dell’intero, quando, amico mio, non si trovi
essere un bene; dappoiché gli uomim si tagliano volentieri e mani e
piedi, quando le membra lor proprie le credano malandate. Giac¬ ché
non è il proprio, credo io, quello che ciascun uomo ha caro, se già uno
non chiami pròprio il bene, altrui il male ; comecché non sia altro
iciò no-'nspos“°- te P»' 20&
<”'r'di iri - S*pu6 di» s'”'P'‘' dtól- j„e aggl»«8««
- ‘'sTiv. aSS'ffSdd - di £ non . sempre ^
Verissimo — x:^v I Ora, poiché l’amore^
^fo^zo^^dT^chi'vi corre I riprese lei —. la cura chiame- •
dietro, in che modo e m q ^o sai rcbbe amore? che opera e mai
q tu dire? . ^isgi — taato, o Diotima, Non t’ammirerei-
di« ^. per la tua sapienza, m- « q parare appunto questo. ^ .
l’opera é par- Ma te lo dirò io -- tisp j-ome torire
nel bello, nei rispetti deir anima. l’indovino; che mai
Ci vuole — diss io vuoi tu dire? hlon ‘^°™P^^“-egherò pih
chiaro. Ma io-disse lei -telo spiega
D 207 86 ^ Convito Oh uomini
— disse — tutf corpo e nell’anima, e la natura nostra ha desiderio
di" """ '''* partorire nel brutto non può
0 E cosa divina è questa - e^in’ siO tale, questo è
inmtomi;, il co»"”* .'2; rare Ora. l’uno e l’al„„ j succedano
nel disarmonico. E il *'*’'•« cht monico da tutto quanto il divino
bello. Sicché Bellezza é Moira ed’Flir°"Ì.^'‘^ alla generazione.
Perciò, quando la? pregna s’ accosta al bello, diventa ilare gioia
sdilinquisce e partorisce e genera i qu? ! invece al brutto, si rannuvola
e per il dolore • raggomitola (229), e si raggrinza e non genera'
ma, poiché vieta al feto d’uscire, se ne sente male e qui appunto è la
causa che la creatura pregna e già smaniante è presa da ansietà
molta alla vista del bello, perchè questo libera da gran doglia chi
lo possiede. Giacché Socrate, — dis¬ se l’amore non è del bello, come tu
credi. Ma e che? Della generazione e del parto nel
bello. Sia pure — diss’io. Certissimo — rispose lei — ;
ma 0 perchè della generazione ? Perchè la generazione è un gene’
rato sempiterno, e, per mortale, immortale, Però, dietro quello che s’ è
convenuto, è neceS’ sario che dell’immortalità l’amore senta si
desi derio, ma accompagnato dal bene, s’esso èamotf dell’ aver seco
il bene sempre. Sicché, conformi a questo discorso, è necessario, che
l’amore anchi dell immortalità sia amore. ,pnti dunque, mi
dava . nesti insegnami’’ ’ J A,more; nfS S,i. o Socrate.
'8”' "ia mi ‘>»®”taesto .mote e iel deM- : sia causa di 0 °
violenta disposi- it'*, O non „• jllorchè deside- *'"1
enttano gU ““.t “'ti q».»» i «olaf''. ^
S8rlS’m«reomotosamenm^“;' ifcoSattere i per proprio
. . p si a venir meno aeiw qualun- quealtro atto? ^ facciano
per virtù di “';'“''’-o' S # animali, qoale d c
raziocinio, o g rnsi? Lo sai tu dire ^ struggersi d’amor
saprei. Ed io da capo diss ^ ^ai di- in cose dimore, se
non mteod, J'^'^^Ma^ppunto per J^j 2 so''chrho bisogno or
ora, io vengo da te, peretóso ^ di maestri. Ma dimmela m e di
tutt’ altro nelle cos amor Ebbene, se tu credi eh P ^ pib vohe»
sia di quello che abbiamo c ^^.^a il » non te ne ^ale cerca
essere, P L discorso, la natura m ‘gitale - quanto può,
sempre può solo per questa via, per la via dell razione
(232), perchè lascia sempre un n'^”'^' invece del vecchio ; giacché anche
nel tratt'o°'^° tempo che ciascun animale si dice vivere e rare il
medesimo, come, per esempio uno T fanciullo insino a che sia diventato
vecchio t detto il medesimo ; però è cliiamato il desimo,
quantunque non conservi mai b st ig stesse cose, ma parte si rifaccia
sempre giovine parte alcune cose le perda e nei capelli c
nella, carne e nelle ossa e nel sangue e in tutto quanto il corpo.
E non solo nel corpo ; ma anche nel- l’anima il tratto, i costumi,
opinioni, desiderii, piaceri, dolori, paure, tutte le disposizioni
siffatte non sono mai presenti le stesse in ciascuno, ma quale
nasce e quale muore. E, cosa più bizzarra ancora, le cognizioni non solo
alcune nascono c altre muoiono, e non siamo mai neppur rispetto
alle cognizioni i medesimi, ma anche ogni sin¬ gola cognizione è soggetta
allo stesso. Giacché quello che si dice meditare, ha luogo perchè
la cognizione va via; dimenticanza, di fatti, è di¬ partita della
cognizione : meditazione, invece, ingenerando una cognizione nuova in
luogo di quella che se n’è ita (233), salva la cognizione tanto da
parere la stessa. Chè a questo modo tutto il mortale si salva, non col
restare sempre in tutto e per tutto lo stesso, come il divino, ma
col lasciare quello che se ne va e invecchia, qualcos’ altro nuovo, quale
esso era. Con questo mezzo o Socrate — dice — il mortale par¬ tecipa
della immortalità, così il corpo come ogni altra cosa: impossibile in
altro modo., „»r n.»'* 08 “ r,o • siacchè per .8»
xxvn me nc . ««ito q»““ *!“I!°;dio-s»pi“-
dubi»^*^’ . j^.dare all’ amor stupore, “
•'?irfagio'^‘'''°^^”'''^°-h aie io ho uoiuim» . ^ niente ci i>j.jnore
del di- o come si struggono d amor concependo ccn^^ e di
ventare rin ‘ ^ eterno, lasciar di se g ^gnl pericolo e
son pronti per e consumar le so- norto a PATROCLO « ^f^no, se non
avessero figliuoli per salvar loro il reg creduto, die _
una immorta ppuiito conser- • a; loro, come apF
_anzi> rimasta memoria ^j^vvero — ’ viamo noi oraf
i io credo. >> per imniortal virtù
Convito e per siffatta «gloriosa fama,,
, cosa, tanto più, quanto mieiin sono dell’immortale
innamorar pS Ora quelli — disse —, che so ^ poralmente,
si voltano piuttosto" allff^ diventano amorosi a questo modo e
diante la generazione dei figliuoli, ’ ^ « Immortai vita,
insin che il tem,^ ^ « Procurando », ^urì, secondo
credono, e felice e ricordata; i pregni invece nell’anima...
giacché vi sonopu, quelli — dice — , che concepiscono nelle anime
anche più che nei corpi, le cose che all’anima s addice e concepire e
partorire. E oh! che le SI addice? La sapienza e ogni altra virtù,
cose appunto di cui sono generatori i poeti tutti, e quanti v ha
artisti che si dicono inventivi: però d ogni intendere — dice — il
maggiore e il più bello è quello il cui oggetto sono gli ordini
delle città e delle case, a cui si dà nome di temperanza e di
giustizia. E quando poi uno, essendo divino, sia da giovine pregno di
tali cose nel- 1 anima, e, giunta l’età, desideri oramai di par¬
torire e di generare, cerca, credo io, anche lui, girando attorno, il
bello in cui generare ; giacché uel brutto non genererà mai. Sicché, come
pre¬ gno eh’ egli è, si compiace de’ corpi belli piut¬ tosto che
de’ brutti; e quando s’incontri in una Della anima e generosa e di buona
natura, si compiace, e di molto, dell’insieme, e subito con , honda
in „ ^he studii prò- ^ ersona poomo buon venuto ^ette a
educarlo.^ ^„„,ersando con della beila ^15 di cui era
^ntan° credo, e gener {Ìa.pa^^;\cnin> " ^'^to insieme
con quella, %< e alleva il ^ggior comunanza
jU^^^’:,rcbe una molto gVi um "’f figlinoi' (ai?)- !
poicbt in pm cbe e amicir-ia prn accomunati. '‘
immortali ftgbn®^’ " ^ lui nascessero nTe avrebbe caro .^ando
e a D chet: 0 se ti piace, ".f " ^.^eutone,
salvatori d ^ I lasciò Licurgo m L 1 EUade. ^ I
tcedemone, 0, per Solone per la g^n ! E presso di voi °"°;Xi
valenti uomini in altri ' aione delle leggi, ed altr ^ . ^^^.bari,
luoghi parecchi, e tra g^^f/^.ueratori di virtù autori di molte e
belle «per , ^ furono si. eretti per via di tali
5 umani sinora a nessuno. E ,ta qui, qu““ A”"' cui
i.. coi torso, So««“.’!''y„ìtivo (oi® “ k; ma in quello P"'' queste,
quando uno procede bene IO non so se tu saresti capace. Te dunque,
io — dice, — e ci metterò tuttrirb*®"*’ voglia ; e tu provati a
tenermi dietro, se ti • Giacché — dice — chi vuol mettersi per la
via a simile impresa, deve cominciare da gì ad andare incontro ai bei
corpi; e da quando chi lo guida, lo guidi rettamente, ama'r*'*’ uno
di quelli (2J9), e quivi generare bei pensieri^ e di poi intendere, che
il bello di qualunque corpo è fratello con quello di un altro
corpo- e se bisogna andare in cerca di ciò eh’è bello in genere
(240), sarebbe una stolteaza grande non riputare una e medesima la
bellezza su tutti i corpi; e quando abbia inteso questo, renderlo AMATORE
di tutti i corpi belli, e rallentargli quello struggersi violento per uno
solo, facendoglielo sprezzare e tenere a vile; e di poi reputare la
bellezza nelle anime più preziosa di quella nei corpi, di maniera che, se
anche uno, ben fatto di animo, abbia del rimanente poca venustà
(241), egli se ne contenti e lo arai e n’abbia cura e partorisca
pensieri e ne cerchi di tali, che fac¬ ciano migliori i giovani; affinchè
da capo e’sia costretto a contemplare il bello negrinstituti e
nelle leggi, e vedere com’esso è tutto connatu¬ rato con se medesimo; c
dopo gli instituti lo meni alle scienze perchè di novo veda la bel¬
lezza delle scienze ; e guardando ormai a un bello già copioso, non sia,
servendo al bello in una singola cosa come domestico, un’abbietta e
me¬ schina persona, che s’attacca alla bellezza d’un fanciulletto 0
d’un uomo o d’un instituto unico. dclbcUoccontcm- . -
discorsi e ma rivo''° “'torist^^ filosofia infinita, smo
k>' CV' >VTeS»cWto,n<.n;.s»’-ga fcf.a J- *e SU sc.c«
* r^‘'’';Su -'SS. E gù, E •. ctato educsito sin
qui alle cose Qgpetti, pressoch srs* “"ss “qSii»
“pp””®’. ° • rrp<;ce nfe scema, e a y e ora no,
tncii cresce u^i-»i-tn ne or*^ j. verso e per e brutto in un
JJ nt bello in un ”spu«o g neanche il bello qua bello e
qua brutto come un si presenterà alla sua . p ^tecipa il
corpo, visS 0 mani o nient’ altro cm par neppure come
un discorso ^ ^.^,erso, m u^ ^ c eppure come m qual ^ ,ieio o
m animale, per esempio, uniforme s altro, ma esso
stesso di P belle tutte stesso in sempiterno, e che partecipanti
di esso pe periscono, ess queste altre si generano uà patisce
diventa punto maggior nulla. Sicché, quando uno, per aver am
fanciulli nel buon modo, risalendo dallp .. * quaggiù cominci a vedere
cotesto bello all si può dire che tocchi la meta. Giacchi sto è
nelle cose di amore procedere o essT^' condotto bene da altri ; movendo
da’belli sensu^ di quaggiù salire sempre sempre attratto dal bello
di lassù, montando come per gradini, da uno a due e da due a tutti i bei
corpi e dai bei corpi ai begl’ instituti e dai begl’ instituti alle belle
di¬ scipline, e dalle discipline terminare in quella
disciplina, che di altro non è disciplina se non appunto di quel bello ;
e conosca terminando ciò che ò per sè bello (244). Questo, se altro mai,
— disse l’ospite di Mantinea, — è il punto della vita, degno che
l’uomo ci viva, contemplando il bello in sè; il quale, quando tu una
volta lo veda, non ti parrà da metterlo nè con oro, nè con veste,
nè con bei fanciulli e con giovanetti, che vedendo tu ora sei tutto sgomento,
e sei pronto, e tu ed altri molti, se possibile fosse, guardandoli,
questi amati vostri, e vivendo sem¬ pre con loro, a non mangiare nè bere,
ma solo contemplarli e stare insieme. O che cosa — dice — pensiamo,
che debba essere, se uno abbia la sorte di vedere il bello per sè,
sincero, puro, inmisto, e non già ripieno di carne umana e di
colori e d’altra molta inezia mortale, ma possa riguardare esso il divino
bello di per sè uni¬ forme? (245) O credi tu, — dice — che sia
spre¬ gevole la vita dell’uomo che guardi colà, e quello contempli
sempre e stia insieme con esso? O non intendi — dice —, che quivi
soltanto, ri- 9> con coi C
il W'“> "" „“n immagini di »«<, li non vp.ra.
, Kiio con * a .W, ..aa'»'" ' li parto*" ” "
ma vitti vera, tocc^^ una virtù vera e ncca il ^di diventare
amico di ““ ^ ^'riisse aVf anche gli ^1“*»
r 70 di persuader *_ potrebbe da nessuno siffatto non si p
""TC aiuto all’ umana u«umj^. Moro.
'"'"‘‘'•«“'“J’l'onoro io atasso (a4«). uomo onori
Auu°" esercito soprattutto e c nelle cose di am^ ^ ^^.omio
la v’esorto gh ^e a tutto mio pot«e. potenza discorso
tu ritienilo C Or bene, o ,d Amore’, se no. detto, se
ti piace, m ^^^ba. e tu dagli quel nome, che Finito
ch’ebbe raccontava, lodassero , parlando aveva a dire
qualcosa, perch jq ecco all'im- alluso al discorso di lui- q
sentire provviso la porta del au yseiù da^ un un gran
rumore come i ^ una flautista, banchetto, e si ode ^ '^^ „g 22 Ì, non
andate Sicché Agatone dicesse. o entrare se a vedere? e se è
uno di casa no, dite, che nbbiamo finito di ber • E di li a poco si
udì nellS,,,! ci :0 frarlirìn urlando SI
riposa di Alcibiade briaco fradicio, che domandava dove è
Agatone, e ordinav^'j tasserò da Agatone. Sicché la flautista
reggeva e alcuni altri della compagnia^ j tarono da loro ; e, coronato di
una coróna f di edera e viole e tutto coperto il capo dì infinità
di nastri (248), lo fermarono sulla po''*'* ed egli disse: Amici, vi
saluto; un uomo, bria*’ proprio fradicio, lo pigliereste con voi a bere
0 ce ne dobbiamo andar via, dopo avere soltanto coronato Agatone,
eh’ è quello per cui siamo ve¬ nuti ? Giacché -io — dice — jeri non ci
potetti essere, ma vengo oggi, coi nastri in capo, perché dal mio
capo quello del più sapiente e deh più bello io ne recinga. Forse,
riderete di me perché son briaco? Ombè, io, quand’anche voi
ridiate, pure so bene che dico il vero. Ma dite su, a questi patti entro
o no? Beverete 0 no con me? E qui tutti strepitarono e gridarono
che entrasse e si sdrajasse, e Agatone ve lo in¬ vitò: ed egli, condotto
dalla sua gente, venne; e, poiché a un tempo si levava di capo i
nastri come per incoronarne altri, non s’accorse di So¬ crate, che
pure gli stava davanti agli occhi, ma si messe a sedere accanto ad
Agatone in mezzo tra Socrate e questo ; — giacché Socrate s’era
tirato da parte per fargli posto: — c cosi sedutoglisi accanto fece
riverenza ad Agatone e lo coronò. E Agatone qui disse : Ragazzi,
le¬ vate le scarpe ad Alcibiade, perchè si metta a giacere in terzo
con noi. Sicuro — rispose Alci- compagno no jo’
.uj è questo te Socrate, e al •e- - voltato»' f ^
&"<r6 "" Dunque, da capo L«'°. ii!
5°““'“ Tkf”' '» P““’ “”"l Pi qui sdtaU'^®.^,improvviso dove
meno '"'ffpoi ti sei messo a g^ace^ ^P''lcaJto ad
Ma tanto hai a«o o qua dentro. _ uarda luauti sono q
Agatone — disse, ^& E Socrate, cerchi: l’amore che to P
. nii vieni in aiuto ; P un affar fili è diventato per m ,
m- :;rDifatti, dal tempo <^e m *or..o '»i.
“"„rp«-a D ”' dTco”o«“re Ln o-,»no V sto nessuna, ne di
c invidioso fa cos qui ingelosito di ^ "“"J.peri, e poco
manca strabiliare e mi copr Addosso. Guarda, che non mi metta
le m^n dunque, che non faccia un d ,na metti pace tra ° ^el furore
di costui lenza, difendimi tu, perd è addirittura e del
suo innamoram -pigliò Alcibiade: Pace fra te e me ^ jto io ti
g^»«' no davvero. Se non ehejer p,,te girerò poi; ora,
Agatone questa testa qui L nnstri, P»cM .0 «e J
maravìglìosa di ’ oronaw 'e. nien«*= pioverà, che io 1'“ “f
ji,cofii, noi sol¬ ete viiiee tuni gli 7 Platone, Vo/-
9 ^ Convito tanto dianzi, come tu, ma sempre
renato. ’ ho E qui, prese i nastri, ne cinse So mise a
giacere. E quando si fu sdraiato: Su via, amici disse — a noi
; mi sembrate gente che non T ancora bevuto; questo non va, bisogna bere;
cllè cosi è l’accordo nostro. Or bene, io scelgo a re del bere,
insino a che voi abbiate bevuto ab¬ bastanza, me stesso. Agatone porti,
se v’è, un gran tazzone. O piuttosto non occorre- porta qua,
ragazzo, quel bigonciolo vedendo che conteneva più di otto cetili. E
riempitolo, tirò giù tutto prima lui; poi, ordinò, che si mescesse a
Socrate, e insieme disse: Con Socrate, amici, l’invenzione non mi giova a
nulla; questi può bere quanto uno vuole, e non v’è caso che si
ubriachi mai. E Socrate, quando il ragazzo gli ebbe mesciuto, bevve. Qui
Erissima- co, — Che modo è questo — disse —, Alcibiade ? cosi nè
discorriamo di nulla sul bicchiere, nè c’intoniamo un canto; oh! berremo
proprio come assetati ? E Alcibiade di rimando : O Erissi- maco,
ottimo figliuolo di ottimo e sapientissimo padre, salute. E anche io a te
— rispose Eris- simaco; — ma che s’ha egli a fare? Il piacer tuo ;
giacché ti si deve obbedire. Un medico vai solo uomini molti ( 253
); 1 sicché comanda ciò che tu vuoi.
t) „ • a tS»aS» 'TSsfAS:: °» ‘T .Coe
’l‘»”‘> Ti Tjo che «»» fu W» So»»"-»""”*'
parli bene; però bad , non hanno di fronte a discorsi ^
aguale. E insieme, bevuto, può non esser p S gocrate ha
b-ruomo. appunto «>« addosso. , __ disse Socrate?
Ti vuoi chetare Alcibiade -, non Affé di Posidone -
"P‘P^ f non v’ è ci metter bocca; che io in faccia a te,
no nessuno al mondo che o crei. Ebbene, tu fa’ cosi, —
riprese i. se tu vuoi, loda de_? S’ha a fare. Come dici
-ripetè Alcibiade ^ Erissimaco ? Che io dia * lo
gastighi davanti a ^ che hai tu O tu — interruppe Socrate • ^
per il capo? Mi loderai per canzo farai? r\ir<S W
vprn. Convito An^i, il vero Io permetto, e t! dirlo. *1
comando d- Son pronto — disse Alcibiade - • ’ Se io
dico qualcosa di non vero ^osl a mezzo, se vuoi, e di che quella
6 giacché di proposito bugie non ne .“Sia; = '5 però le cose io
le dico, secondo mi c. . in mente l’una dall’altra, non ti
stup°*’’’'““° non è punto facile, a un uomo in quesm lo spiegare
alla lesta e per ordine roriginar°à B c
Socrate, amici, io mi proverò a lodarlo cosi per via d’immagini. E forse
questi crederà, che io lo canzoni; ma l’immagine in verità avrà per
suo motivo il vero, non lo scherzo. Io dico dunque ch’egli è
somigliantissimo a cotesti (254) Sileni esposti negli studii degli
scultori, che gli artisti fanno con zampogna o flauti in mano;i
quali aperti in due mostrano aver dentro imma¬ gini di Dii. E dico per
giunta, ch’egli s’assomigli a Marsia il Satiro. E, che tu sia di aspetto
simile a questi (255), neanche tu, Socrate, ne faresti questione
(256) ; ma come tu somigli anche nel resto, sentilo ora. Sei tu petulante
o no? Ché, quando tu non lo confessi, presenterò testimoni. Ma non
flautista forse? Anzi molto più niira- bile (257); l’altro, di fatti,
attraeva gli uòmini colla potenza, sì, della sua bocca, ma
attraverso istrumenti, e anche ora, chi suona le cose di ui,
giacché quelle che Olimpo sonava, io le D
lOI Convito . o di Marsia, .f^eseguisca un buon
, cenate di quello, o fi ^ causa, Si ““ uno si
»»'* l’S ’ta'bisogno degli Di' ;^ono, f\u gli vai tanto
innanzi, d’iniziazioni. ^«ieni quel medesimo che senza
istrumen . c y Almeno, noi, S.0 =0» f““ “« uii™- Ti
quando si ode discorrer^ ^i dicitore anche nulla, vi so dire,
a un altro, non ne impor te, o un altro nessuno; • gè
anche chi li reciu che reciti i discorsi tuo , ^na sia
proprio un uomo a P^ ^ restiamo sba- d„„L d ua uomo o se non
lorditi 0 '"“““V,, per briaco, vi rac- velessi passare
addinttur p cornerei con giumme»»; fpoSsento tuttora,
risentito dai suoi Che, quando ><= '’SÌ'"'“ ^
XìltnSmi àendo Pericle e altri buoni parlatori, io ero anima
mi ma non provavo nulla di sim , “siTer^nrTa’i “r^esto
Marsia gui mMtanno pib volte fatto tale renili, non sacrate,
tu non dirai ai6 nel mio stato. E ciò, o S , , mscienza
che non sia vero. E che, se volessi prestare sforza
ma mi seguirebbe il medesimo. a convenire, che, con tanti mancamenti
, trascuro me, e attendo agli aflfari Sicché io, turandomi le
orecchie si Sirene, mi fo forza (261) e fuggo vir°'”^ invecchiare
seduto accanto a costui quest’uomo m’ò seguito quello che nessuno
ere- derebbe di me, vergognarsi di uno. Io di solo mi
vergogno. Giacché sento dentro di non poter contradire, che non
bisogni far quello a che lui mi esorta; ma poi, appena io mi son
staccato da lui, ecco, la voga dell’aura po polare mi vince. Sicché io lo
scanso e lo fuggo- e quando lo vedo, mi vergogno di ciò che si t
caduto d’accordo. E tante volte io vedrei vo¬ lentieri che non fosse più
tra gli uomini; ma d’altra parte, se ciò accadesse, so bene che me
ne rincrescerebbe assai più, per modo che di que¬ st’uomo io non so che
mi fare. Dunque, dalle sonate tanto io che molti altri
abbiamo provato tali effetti, da questo satiro. Il resto, sentite da me,
com’egli è simile a quelli a cui l’ho raffigurato, e la potenza ch’egli
ha, come sia maravigliosa. Perché siate ben persuasi che nessun di
voi lo conosce ; ma ve lo scoprirò D io, giacché ho cominciato. Voi
vedete che So¬ crate ha tenerezza pei belli, c gira loro sempre d
intorno e n’ è tutto fuori di sé come mostra la sua figura (262); e non è
da Sileno cotesto? Eccome 1 Giacché e’se l’é avvolta per di fuori’
"“'"ù Sto» scolpi»; »» B 8 “'» ''°'
o>‘‘“s"r- . %A rhe son levai'- «ì^rp e noi altri Ma
quapi» canzonare la ^ ^ erto, io non so se si mette sul
seno ed t • p jo gl* qualcuno ha visto t s'rnulaar^^^„ ^
ho visti una volta, doversi far m aurei e bellissimi e m
^;,enendo tutto 50 della mia bellezza, che sul seno si
fo^s^ ^ inaspettato c una mia lo giudicai un guada S P . modo,
,„„„„a "«"tS,.; d' «pptendera .«.o ci 6 : compiacendo
Socrate ore i che costui sapeva, già ^ Sicché, con ! ne
tenevo non vi so <\ solito di ' CS4) " ursenza uno
accompagna- d- allora io P». ^,o^.a B toro e me no
“i™,“ ' ° bone attenti, e se dire tutta f sbàttimi. Adunque,
io mentisco, tu, bocrate, ^ me ne stavo, amici, ^ meco
nei di¬ devo eh’ egli sarebbe su i o * amato scorsi che un
innamorato questo non a quattr’occhi, e ne 8° 5^0^52 meco
come ne fu nulla, proprio nu s , .era solito, e dopo, passata cou
me tutta nata, se n’andò. Di poi lo . ginnastica (265); troverò quivi il
bL" ^ ' ;->g-avo. Ebbene fece ginnasdcrt ’'"’«’-
lottò spesse volte, senza che ci fo« nessuno. E che s’ha a dire? No
un passo avanti. Poiché non venivo" nessuna di queste vie, mi parve
cheV*^^^'^'^ dovesse assalirlo alla gagliarda, e una voir°u‘ nn ci
ero messo, non smettere, ma oramai che affare é questo. Sicché lo inlv
a cenare meco, tendendogli un agguato propri! come un innamorato all’ amato.
E neanche 0 • diede retta subito; pure col tempo s’arrese. Ora la
prima volta eh’e’ci venne, volle, finito dì cenare, andar via. E per
quella volta io ebbi vergogna e lo lasciai andare; ma la seconda,
fatto il mio piano, dopo che ebbe cenato, con¬ versai con lui molto
avanti nella notte, e sic¬ come voleva andar via, col pretesto che
fosse tardi, lo forzai a rimanere. Ora egli si mise a riposare sul
letto vicino al mio, su cui aveva ce¬ nato, e nella stanza non v’ erano
altri a dormire, fuori di noi. E, sin qui, è un discorso da potersi
fare a chiunque (266) ; ma di qui avanti non mi sentireste parlare, se,
prima, dice il proverbio, il vino non fosse veritiero coi fanciulli e
senza 1 fanciulli (267) : e poi mi pare ingiusto, una volta che mi
son messo a far l’elogio di So¬ crate, di nascondere un suo superbissimo
atto. E per di più l’effetto del morso della vipera ha luogo anche
in me. Giacché raccontano, che la persona che l’ha provato, non vuol dire
com’ egh‘ k stato, se non a’morsicati, poiché questi soli
Convito _ j -inno e compatiranno, 'siccht i -r. £ o-»
-> 105 do- ite"‘^^^‘‘”s°to'’fare e dire
doloroso (jorso fl P potesse essere fTX
‘'“°"®.°e'-e'morso da discorsi ‘ me gli s‘ ^ ' no neggio d’una
vipera, ffamio operare Agatoni, Ens- ,rte vedendomt
davmi Aristofam- simachi, Pausami, ^nsto ^^^jj^inarlo, _e
Socrate stesso, che ^ e dal delirio tanti altri? (268) Che
sen. della filosofia siete m voi B
xxxiv Poiché, dunque, amici, p^^ve^ che io ; i ragazzi
furono usciti, a P lon dovessi pigliarla larga con ^jgsi;
libera quello ^^tto - quello rispo- Socrate, dormi? ^ Che
cosa?- se - Sai tu che cosa ho ^ciso disse. A me — diss
to » „ g ti vedo esitare innamorato «ùo degno ' questa di- a
farmene parola. tJr , grande il sposizione-, io ritengo . g y’è
altro che non compiacerti anche melò e se ti faccia
bisogno della sostane-, „ amici miei. A me nulla è di . ° deei:
quanto diventare il migliore che iT'' ''‘"4 CIÒ io credo, che
nessuno mi sìa aium à di te. Ora, a non compiacere un tua
fatta io mi vergognerei assai più dav ° persone di senno, che non davanti
alla ge stolidi a compiacerlo (270). — E lui^ . ebbe ascoltato, con
aperta ironia, e proL°io'’" è solito, rispose: — O caro Alcibiade
rTw m realtà di essere un uomo non dappoco : cade che sieno vere le
cose che tu dici di’ v’è in me una potenza per cui tu potresti
diven¬ tare migliore ; una infinita bellezza tu avresti scorto in
me, e superiore di molto alla venustà eh’ è attorno a te. Sicché se tu,
avendola vista, tenti di accomunarti con me e barattare bellezza
con bellezza, non è piccolo il vantaggio che tu pensi di prendere sopra
di me, anzi in cambio dell apparenza tu cerchi di acquistare la
realtà del bello, e pensi di barattare davvero « oro con ferro »
(271). Ma, beat’uomo, guarda meglio; che io non sia nulla e tu t’inganni.
Appunto, la vista della mente comincia a vedere acuto, quanto
quella degli occhi prende a scemare del vigor suo; ora tu sei ancora
lontano da questo. — E io, sentito ciò — Quanto a me — ripigliai —,
le mie disposizioni son quelle, nè se n’ è detto nulla diversamente
di come penso : decidi poi tu come tu credi meglio per te e per me. — Ma
di ciò — riprese tu dici bene ; sicché a suo tempo ci consiglieremo
insieme e faremo quello che ci parrà il meglio cosi in questa, come in
ogni 107 Convito cpntite e „ _ Ora io. P''
“'lomTsaW'.'’*® loi”' “reaovo aver lanca» ni la-
fi'"' /'“Vr“iu. 5o réti C Latori' P‘“jJ era <1 ly™ le
mairi alvino (attorno a q ^ cosi l’m^era no • £b-
ffrtrbtare aire, ::tiot-r:it:'t'rpt venustà mia e
la P __ ^ giudici ( 273 ) che valesse qualcosa fJ / x\o di Socrate
— chè voi siete affidigli Dn. affé delle giacché sappiate,
che 1 , dormito con Dee, mi levai da ^ avessi dormito
Socrate, “ to maggiore. I con mio padre 0 coi
xxxv Ora i^oPO f
*'par;» ; rr lataft e la -e^po-a ' U co^» di
lai, io che m'ero “"rX;°,„ai, goanto come non credevo ?orcr }^conn^.
l^^^niera che a saviezza e fortezza d’animo? Dima 10
non sapevo, come ad » neanche vedevo I rinunziare alla sua compag ’
. ^ conoscevo ^ 11 modo di conciliarmelo. invulnerabile
bene, che al denaro egli mezzo da ogni parte che Aiace al
ferro (274), e 1 io8 'invito con cui
solo credevo che si ni era sfuggito di mano. SiLSf P^end zato, e
fatto schiavo da quest’uo'° ’‘nbaf“‘ mai nessuno da nessun altrui-
<:ome casi m-aran ,„.i seguì» cenimo tuttedduela
compagna f' quivi fummo compagni di mensa cominciare,
non solo nel durar ‘le mi vinceva, ma in ogni altra cosa ogni volta
che - son casi che succedonot'’^““- ra - intercettati in alcun posto,
eravamo os^oT- a rimanere senza cibo, gli altri, quanto Tre?
stervi, non valevano un ette. E d’altra narto • banehetti , non c’ era
chi sapesse goderne Se ® lui, cosi 111 tutto il resto, come anche nel
bere- e non ci ha gusto —, s’ei v’era costretto, vinceva tutti
(276); e quello che è più maravighoso, Socrate briaco non c’ è uomo al
mondo che l’ab¬ bia visto mai. E del resto mi pare che di ciò s
avrà la prova subito. Q.uanto poi a resistere al freddo e là gl’inverni
sono terribili (277) — fece cose mirabili in tanti altri casi, e una
volta, essendo gelato come peggio non si può, e tutti o non uscendo
fuori, o, se pure, coperti tanto da fare stupire, e calzati e coi piedi
rinvoltati in feltri e pelli di pecora, ecco lui, con un tempo di
quella sorta, se n’esce con un mantello come quello che soleva portare
anche prima, e scalzo camminava per il ghiaccio meglio che gli
altt* calzati. I soldati lo sogguardavano come uno che li
sprezzasse. CoiifVÌ‘° 109 D
" 'tee e tollerò l’uom forte or che merita di sentirlo.
Ve- „ giorno all’esercrto^ m un r un pensiero
stett r! iJettendo,epof ;;teri E Csniesse. nta ^
/nomini se n’accor- g;; maravigliati ^l^'^^tuminando
qualcosa. ente dall’t^lba J r^g), - poicltè era se-
finirla' alcuni Joni (,27 J __ era » io--' a’estate
— 1 \nsieroe per spiare, se lui sa all'aria fresca, e si, in ^
ghette •ebbe stato ritto ^ non si fu levato ritto, sino
a che non ^ ^ j^ra al sole (279)» il sole; di poi, fatta la preg.
baua- se n’andò via. E ’ - giusto che gh si
glie-giacche questo men^^ , renda -, quando accadd ^
„es- generali dettero la_ palma PP^^^ nou sun altro
uomo '"i salvò ^ volle abbandonarmi ferito. '50 Socrate,
c le armi c me. E j». S»»"“ ’ si desse la sin d’allora dichiarai a g
rimp^vero palma a te, e di ciò tu n avendo i gene- e
non dirai che io «tentisco- e co¬ vali riguardo al mio gta facesti
premura lendo dare la palma a endessi io e non anche
piò dei generali che i* F no tu.
Ancora, amici, valse templar Socrate, quando ] in fuga da Delio
(281); g sente a cavallo, lui da f sbaragliati già tutti, egl
Lachete, e io m’imbatto per li à esorto subito a star
di buon animo loro di non abbandonarli. Or hf’no crate mi dette più
bello spettacolo che in p dea — giacché quanto a me stavo meno in
pa?' per essere a cavallo — prima, in ciò ch’egb perava di molto
Lachete, quanto all’essere p«- B sente a sè; poi a me pareva, o
Aristofane,- sai, la tua frase — che anche li egli camminasse come
qui, « in sussiego e guardando di scan- cio » (282), sbirciando
tranquillo, e lasciando scorgere a tutti, persin da molto lontano, che,
se uno lo toccherà, e’ farà difesa ben gagliarda quest’ uomo. Perciò se
ne andava via sicuro e lui e l’altro; giacche quelli che in guerra
mo¬ strano questa disposizione, non li toccano, sto per dire,
neppure; invece quelli che fuggono C alla dirotta, questi sì,
gl’inseguono. Ora, di molte altre cose e mirabili uno potrebbe lodare
Socrate, però in altre parti si po¬ trebbe forse dire lo stesso anche di
altri, ma quel non essere simile a nessuno nò tra gli antichi nò
tra i presenti, questo a me par degno di ogni maraviglia. Giacché Brasida
(283) e altri uno se li potrebbe figurare come fu Achille; e come D
d’altronde e Pericle, così Nestore e Antenore; t ve ne sono diversi ; e gli
altri uno se li potrebbe figurare del pari (285) ; ma uno fatto
in originalità, e lui e i suoi f ;tono. P“/““
‘S ù. r‘*'^"‘Jbe’ neppn^® a meno che non si as- ^
-^non a nessun uomo, ma ;22 . vho tralasciato
sinora-, che Glacchèquesto to somigliantissitni a. E
nche i discorsi di 1 volesse Sileni che s’aprono. prima gli
pat' jS.«p ‘ ‘r'” tts^òl p»°'p ' >' rebbero da
ridere, tal propriamente di I So»i 1“„S i “t Satiro
petulante, p sempre e calzolai e ’ ^^lodo, sicché ogni per-
stesse cose nello smss ^^.^aerebbe sona inesperw e priva
3, beffa dei suoi discon . rima le vede aperti (286) e
p j^^nno lì „ov«à i soli .<!?'“' in sè «pia poi
dmn®n» ' „.i,o an« di simulacri di Virtù, conviene meditare
con mira a tutto per bene, a chi voglia essere una p
lodo Queste, o amici, son . quelle di Socrate; e in
<^he egli m’ha cui lo biasimo, v ho questo sol- B
offeso. E, in fede nnn.non ^^^^.^ne tanto a me, ma anche ^ ^
tantissimi e ad Eutidemo di Diocle (28?^ altri, ai quali lui
dando ad intendere di v 1 essere ramante, se n’è fatto l’amato in
camk-'^ d’amante. È appunto quello che dico anche*° te, Agatone;
non ti lasciare ingannare da lup ma ammaestrato da’ casi nostri, tienti
in guardia* e non imparare, secondo il proverbio, come un ragazzo
(288), a tue spese. Quando Alcibiade ebbe finito di parlare, si
fece, raccontava, un gran ridere della franchezza con cui egli si dava a
divedere tuttora inna¬ morato di Socrate. E Socrate — O Alcibiade —
disse—,tu non sei per niente briaco, mi pare; altrimenti non ti saresti
provato, rigirando il di¬ scorso con tanta finezza (289), ad occultare
la causa per cui hai detto tutte queste cose ; e l’hai messo poi
come di passaggio, in fine, quasi non D avessi detto ogni cosa per metter
male fra me e Agatone, giacché, a parer tuo, io devo amar te e
nessun altro, e Agatone deve esser amato da te, e da nessun altro al
mondo. Ma ti sei fatto capire; chè cotesto tuo dramma satirico e Silenico
s’è scoperto. Ma, caro Agatone, ch’egli non ne profitti punto; anzi, fa
proposito, che te e me non ci separi nessuno. E Agatone ri¬ spose:
Certo, o Socrate, tu risichi di dire il E vero: e lo argomento anche da
questo ch’egli s’è messo a giacere fra te e me, appunto per
separarci. Or bene, egli non ne profitterà niente affatto; anzi, ecco, mi
levo e mi metto a giacere __ — disse Alcibiade , q
proposto Jm’ba a dare lascia, to"'" Iffarnii
in wtto. Ma se ^ d' lomo che Agatone si lodato niirabd
u^'!: Socrate u capo nie, in uomo, lascia ria me?
(^9°^ ^ ’ onesto giovinetto che sia re e non invidiare ^ f^pto
desiderio di lodato da me; chè . y, -soggiunse Agatone -, no^ mai.
di mutar posto, risoluto, ora P" siamo alle sohte
esser lodato da g^^ate, b mtpos- rispose Alcibiade , P belle
per sibila a chiunque altro di g persuasivo sene. E »«'
«»« p^cUi «stm » ha trovato e con clie u giaccia vicino a
lui xxxi^ 1 Agatone, dunque dar a sdraiarsi
accanto S ^ue .ir improvviso s i, uscita di uno, si [
porte; e trovatele aper P ^ ^ g,^eerc, l fecero avanti m ver . ^i a
bere vino I c tutto andò sossopra e SI tu o ^ B
Platone, Voi. IX. quello che dicessero, Aristodemo
dichiarasse? non ricordarsene nel resto; poiché non v’aveS D
assistito da principio, e sonnecchiava ; ma la som? ma, diceva, era, che
Socrate li costringeva a convenire, che appartenga allo stesso uomo
il saper fare tragedia e commedia, e chi per virtù d’arte (291) sia
autor tragico, sia anche comico; del che costretti a consentire, senza
seguire gran fatto, prendessero sonno, e prima si fosse ad¬
dormentato Aristofane, poi, a giorno fatto, Aga¬ tone. Quanto a Socrate,
dopo averli messi a dormire, si levasse e se ne andasse via, e lui,
com’era solito, lo seguisse; e andato al Liceo, lavatosi, vi si
trattenesse come al¬ tre volte, il rimanente della giornata, e
trat¬ tenutosi cosi, andasse poi la sera a riposare a casa. Francesco
Saverio Dòdaro. Dodaro. Keywords: tracce di un discorso amoroso, mappatura,
signature, segnatura, cantata duale, cantata plurale, cantata duale, origine
del romano, edipo, caino, mancanza di Lanca, communicazione inter-mediale, communicazione
inter-mediale e luto, immagine e segno, senso, sensibilia, visibilia, Freud,
Jakobson, Levi-Strauss, Magritte, “silenzo silenzo silenzo silenzo” Catullo
poema rima ritmo batto cuore figlio madre padre orale genitale ma-ma etymology
of ‘altro’ – Hegel on conscience of ego and conscience of alter, Sartre on
‘nous’ and love affair – infinito – lingua a codice – codice come ripetizione –
ripetizione dei suoni del cuore – ontogenesi ripete filogenesi – commune,
vacuum del ventre della madre, etimologia di termine chiave, fonema, unita
etica, unita emica, Speranza, Schultz, unita emica come classe di unita etica –
criterio: un accordo o codice di relevanza – l’intenzione del mittente. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Dòdaro” – The Swimming-Pool Library. Dodaro.
Grice e Dolabella: l’orto romano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.Publio A follower of the philosophy of
the Garden, and the son-in-law of Cicerone. The achieved the distinction of
being pronounced a public enemy by the Roman Senate. He ordered one of his
soldiers to kill him. Publio Cornelio Dolabella. Dolabella.
Grice e Dommazio – Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A philosopher, known only from
a surviving bust. Dogmatius. Dommatio. Dommazio.
Grice e Donà – sessualità – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice:
“Well, Donà has philosophised on almost anything – I drank wine; he
philosophises on it – ‘bacchiana,’ he calls it – he has also philosophised on
‘eros’ for which he uses the very Italian idea of ‘sesso.’ – And he has also
punned with ‘di-segnare’ – ‘di-segno’ – In sum, a genius!” Si laurea a Venezia sotto
Severino, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Venezia, iniziai a
pubblicare diversi saggi per riviste e volumi collettanei, partecipando, lungo
il corso degli anni ottanta, a diversi convegni e seminari in varie città
italiane. A partire dalla fine degli anni ottanta, collabora con Cacciari
presso la cattedra di Estetica a Venezia e coordina per alcuni anni i seminari
dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Venezia. Sempre a partire
dalla fine degli anni ottanta, inizia la sua collaborazione con la rivista di
architettura Anfione-Zeto, della quale dirige ancora oggi la rubrica Theorein.
In quegli stessi anni, fonda, con Cacciari e Gasparotti, la rivista Paradosso.
Negli anni novanta, invece, ha insegnato Estetica presso l'Accademia di Belle
Arti di Venezia. Attualmente insegna Metafisica e Ontologia dell'arte presso la
Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È
inoltre curatore, sempre con Gasparotti e Cacciari, dell'opera postuma del
filosofo Emo. Dirige per la casa editrice AlboVersorio le collane "Libri
da Ascoltare" e "Anime in dettaglio" ed è membro del comitato
scientifico del festival La Festa della Filosofia. Ha scritto diversi saggi e
articoli per riviste, settimanali e quotidiani di vario genere. Collabora con
il settimanale "L'Espresso". Attività musicale In qualità di
musicista, dopo aver esordito, ancor giovane, con Giorgio Gaslini e con Enrico
Rava, forma un suo gruppo: i Jazz Forms, di cui è leader. In seguito sviluppa
il suo linguaggio trasformando l'idioma ancora bop dei primi anni in una
scrittura più articolata in cui entrano in gioco elementi tratti dalla musica
rock e da molte esperienze etniche maturate nel frattempo con diversi gruppi
musicali. Si esibisce in diverse città italiane con un sestetto, in cui ad
accompagnarlo sono una chitarra, una batteria, un basso, delle percussioni e
una tastiera. Nasce così il D. Sextet.
Suona con musicisti che sarebbero diventati protagonisti della scena musicale
italiana. Suona in jam session anche con alcuni padri storici del jazz, come
Dizzy Gillespie, Marion Brown, Dexter Gordon e Kenny Drew. Riprende a suonare
professionalmente e forma un nuovo gruppo: il Massimo Donà Quintet, con il
quale si esibisce in Italia e all'estero. Il quintetto diventa quindi un
quartetto; che è la formazione con cui Donà suona da almeno tre anni. A
tutt'oggi il nostro ha all'attivo ben sette CD incisi con suoi gruppi. La sua
etichetta di riferimento è sempre la "Caligola Records", il cui
responsabile artistico è Claudio Donà, fratello di Massimo e importante critico
musicale jazz. Altre opere: “Il 'bello, o di un accadimento. Il destino
dell'opera d'arte” (Helvetia, Venezia); “Le forme del fare” (Liguori, Napoli); “Sull'assoluto
(Per una reinterpretazione dell'idealismo Hegeliano” (Einaudi, Torino); “Aporia
del fondamento” (La Città del Sole, Napoli); “Fenomenologia del negative” (Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli); “Arte, tragedia, tecnica” (Raffaello Cortina
Editore, Milano); “L' Uno, i molti: Rosmini-Hegel un dialogo filosofico” (Città
Nuova, Roma); “Aporie platoniche. Saggio sul ‘Parmenide’” (Città Nuova, Roma); “Filosofia
del vino” (Bompiani, Milano); Magia e filosofia (Bompiani, Milano); Joseph
Beuys. La vera mimesi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano); Sulla
negazione, Bompiani, Milano); Serenità: una passione che libera, Bompiani,
Milano); La libertà oltre il male” (Città Nuova, Roma); Il volto di Dio, la
carne dell'uomo, con Piero Coda, AlboVerosio, Milano); Dell'arte in una certa
direzione” (Supernova, Venezia); “Filosofia della musica, Bompiani); Il mistero
dell'esistere: arte, verità e insignificanza nella riflessione teorica di Magritte”
(Mimesis, Milano); L'essere di Dio. Trascendenza e temporalità” (AlboVersorio,
Milano); Dio-Trinità. Tra filosofi e teologi” (Bompiani, Milano); Arte e filosofia”
(Bompiani, Milano); “L'anima del vino. Ahmbè, Bompiani, Milano); “Non uccidere”
(AlboVersorio, Milano); L'aporia del fondamento, Mimesis, Milano), “I ritmi
della creazione” (Bompiani, Milano); La "Resurrezione" di Piero della
Francesca, Mimesis, Milano); Il tempo della verità, Mimesis, Milano; Non avrai
altro Dio al di fuori di me” (AlboVersorio, Milano); “Il conciliabile e L'inconciliabile.
Restauro Casa D'Arte Futurista Depero” (Mimesis, Milano-Udine PANTA decalogo” (Bompiani, Milano); Filosofia.
Un'avventura senza fine, Bompiani, Milano); Comandamenti. Santificare la festa”
(il Mulino, Bologna Abitare la soglia.
Cinema e filosofia, Mimesis, Milano-Udine); “Eros e tragedia, AlboVersorio,
Milano); “Il vino e il mondo intorno. Dialoghi all'ombra della vite” (Aliberti
Editore, Reggio Emilia Figure
d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger” (AlboVersorio, Milano); “Le verità
della natura, AlboVersorio, Milano”; “Filosofia dell'errore” – errore vero, la
verita come errore relative – “Le forme dell'inciampo, Bompiani, Milano); “Parmenide.
Dell'essere e del nulla” (AlboVersorio, Milano); “Eroticamente: per una
filosofia della sessualità” (il prato, Saonara (Padova) Misterio grande. Filosofia di Giacomo
Leopardi, Bompiani, Milano); “Pensare la Trinità. Filosofia europea e orizzonte
trinitario” (Città Nuova, Roma Erranze
(Alfredo Gatto), AlboVersorio, Milano); L'angelo musicante. Caravaggio e la
musica” (Mimesis Edizioni, Milano-Udine); “Parole sonanti. Filosofia e forme
dell'immaginazione” (Moretti & Vitali, Bergamo J. Wolfgang Goethe, Urpflanze. La pianta
originaria; Albo Versorio, Milano); La terra e il sacro. Il tempo della verità,
Luca Taddio, Mimesis, Milano); Teomorfica. Sistema di estetica” (Bompiani,
Milano); “Sovranità del bene. Dalla fiducia alla fede, tra misura e dismisura,
Orthotes, Salerno); “Senso e origine della domanda filosofica, Mimesis,
Milano-Udine); “La filosofia di Miles Davis. Inno all'irrisolutezza” (Mimesis,
Milano-Udine); “Dire l'anima. Sulla natura della conoscenza” (Rosenberg &
Sellier, Torino); “Tutto per nulla. La filosofia di William Shakespeare” (Bompiani,
Milano); “Pensieri bacchici. Vino tra filosofia, letteratura, arte e politica”
(Edizioni Saletta dell'Uva, Caserta); “In Principio. Philosophia sive
Theologia. Meditazioni teologiche e trinitarie, Mimesis, Milano-Udine); “Di
un'ingannevole bellezza. Le "cose" dell'arte” (Bompiani-Giunti,
Milano); “La filosofia dei Beatles” (Mimesis, Milano-Udine); “Un pensiero
sublime: saggi su Gentile” (Inschibboleth, Roma); “Dell'acqua” (La nave di
Teseo, Milano); “Essere e divenire: riflessioni sull'incontraddittorietà a
partire da Fichte” (Mimesis, Milano-Udine); “Di qua, di là. Ariosto e la
filosofia dell'Orlando Furioso” (La nave di Teseo, Milano); “Miracolo naturale.
Leonardo e la Vergine delle rocce” (Mimesis, Milano); "Arte e
Accademia", in Agalma; New Rhapsody in blue, Caligola Records; For miles
and miles, Caligola Records; Spritz, Caligola Records; “Cose dell'altro mondo.
Bi Sol Mi Fa Re, Caligola Records); Ahmbè, Caligola Records; Big Bum, Caligola
Records; Il santo che vola. San Giuseppe da Copertino come un aerostato nelle
mani di Dio, Caligola Records
Iperboliche distanze. Le parole di Andrea Emo, Caligola Records. Il
mistero della bellezza svelato da Massimo Donà. Intervista Alberto Nutricati,
in L'Anima Fa Arte Blog e Rivista di Psicologia Video-intervista sul mistero
dell'esistenza, su asia. "Arte e Accademia", in Agalma, Wikipedia
Ricerca Mascolinità assieme di qualità, caratteristiche o ruoli associati a
ragazzi o uomini La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di
attributi, comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La
mascolinità è costruita socialmente e culturalmente, anche se alcuni
comportamenti considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente
influenzati. Fino a che punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o
socialmente è oggetto di dibattito. Il genere maschile è distinto dalla
definizione del sesso biologico maschile,[5][6] poiché sia i maschi che le
femmine possono esibire caratteristiche maschili. Nella mitologia greca Eracle è uno dei
massimi simboli di mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda
delle diverse culture e periodi storici. Le caratteristiche tradizionalmente,
culturalmente e socialmente considerate maschili nella società
occidentaleincludono virilità, forza, coraggio, indipendenza, leadership e
assertività. Il machismo è una forma di mascolinità che enfatizza il potere ed
è spesso associata a un disprezzo per le conseguenze e la
responsabilità.[12] Il suo opposto può
esser espresso dal termine effeminatezza. Uno dei sinonimi maggiormente usati
per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo. Contesti storici e culturali Modifica
L'interpretazione ed il riconoscimento della mascolinità variano all'interno
dei diversi contesti storici e culturali. Nell'antichità era prevalente
prendere a modello l'uomo d'arme[14]; la figura del dandy, tanto per fare solo
un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità nel XIX secolo, mentre
è considerato al limite dell'effeminato per gli standard moderni[15]. Le norme tradizionali maschili, così come
vengono descritte nel libro del Dr. Ronald F. Levant intitolato
"Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni accenno di femminilità,
non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato il sesso dall'amore,
perseguire il successo e raggiungere uno status sociale più elevato,
l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e
l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto
maschio)[16]. Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di
genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti
appartenere di diritto al genere maschile[17].
Lo studio accademico della mascolinità ha subito una massiccia
espansione d'interesse tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, con corsi
universitari che si occupano della mascolinità passati da poco più di 30 ad
oltre 300 negli Stati Uniti[18]. Questo ha portato anche a ricerche riguardanti
la correlazione tra concetto di mascolinità e le varie forme possibili di
discriminazione sociale, ma anche per l'uso che del concetto se ne fa in altri
campi, come nel modello femminista di costruzione sociale del genere[19]. Natura ed educazioneModifica Competizione sportiva, scontro fisico e
militarismo sono caratteristiche della mascolinità che appaiono in forme
analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura in cui l'espressione
della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o il risultato di
un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del condizionamento
sociale) è stato oggetto di molte discussioni.
La ricerca sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo
sviluppo delle caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione
sessuale specifico per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul
cromosoma Y, che è fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la
proteina chiamata "Fattore di trascrizione SOX9"[20] la quale aumenta
l'ormone antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione. Vi è ampio dibattito poi su come i bambini
sviluppino a partire dalla realtà corporea una propria identità di genere; chi
la considera un fatto di natura sostiene che la mascolinità è inestricabilmente
collegata al corpo umano maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è
legato al sesso maschile biologico, cioè all'apparato genitale maschile il
quale diviene così l'aspetto fondamentale della mascolinità[21]. Altri invece suggeriscono che, mentre la
mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però
ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola
fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti
sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo
spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene
considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a
radersi[22]. Mascolinità
egemonicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Maschilismo. Esempio di
maschio poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture
tradizionali la maniera principale per gli uomini di acquistare onore e
rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia
assumendone al contempo anche il comando e la leadership[23]. Raewyn Connell ha
etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di
mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini
dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare:
"Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata
al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione
dominante degli uomini e la subordinazione delle donne"[24]. Il Dr. Joseph Pleck sostiene che una
gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia
riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio
omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia
etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità,
distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo
per finta"[25]. Kimmel[26] promuove questo concetto, aggiungendo però
anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di
mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio
stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione
dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche
sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed
istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile. CriticheModifica Si tratta di un argomento
dibattuto la questione se i concetti di mascolinità seguiti storicamente
debbano ancora continuare ad essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un
corrente di critica alla mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori
contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che hanno assunto per sé certi
ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la
società d'oggi ha in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine
anche alla promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione
rivolta agli uomini per femminilizzarsi.
Le immagini di ragazzi e giovani uomini presentati nei mass media
possono portare alla persistenza di concetti nocivi alla mascolinità; gli
attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i media non prestano una
seria attenzione alle questioni relative ai diritti maschili e che gli uomini
vengono spesso dipinti in una luce negativa, soprattutto nella
pubblicità[27]. Scholar Peter Jackson
scrive che le forme dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento
economico e di oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di
oppressione varia dai controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti
riproduttivi, attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed
eterosessualità obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro,
le presunte maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione
differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo "[28]. Il lavoro meccanico in fabbrica è associato
con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un
discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni,
sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà
occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi[29][30]. La crisi è anche stata spesso attribuita alle
politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli
uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del
proprio sesso d'appartenenza[31]. Altri
vedono il mercato del lavoro in costante evoluzione come fonte della crisi
della mascolinità, la deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie
fabbriche con nuove tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di
donne di entrare in questo mercato competendo alla pari con gli uomini,
riducendo al contempo la necessità e domanda di forza fisica[32]. Tendenze contemporaneeModifica L'operaio edile, esempio moderno di
mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente
costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte
cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la
mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo
definitivo. Secondo un documento
presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una
diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente
verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi... Uomini e donne
possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che
considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi
disturbi alimentari"[33]. Sia gli
uomini che le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di moda
potrebbero essere psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di
fisico femminile e maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si
esercitano eccessivamente nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano
una forma corporea più attraente, che in casi estremi può portare a disordine
dismorfico del corpo (dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia
riversa). Terminologia I concetti di mascolinità sono variati a seconda del
tempo e del luogo e sono soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più
appropriato parlare di mascolinità al plurale che di una singola tipologia di
mascolinità. Constance L. Shehan, Gale Researcher Guide for: The Continuing
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Society, Holmes & Meier Publishers, 1990 Shuttleworth, Russell.
"Disabled Masculinity." Gendering Disability. Ed. Bonnie G. Smith and
Beth Hutchison. Rutgers University Press, New Brunswick, New Jersey, 2004.
166–178. Voci correlateModifica Androgino Bromance Bushidō Castro clone
Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather Patriarcato
(antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) Collegamenti esterniModifica The
Men's Bibliography, bibliografia completa sulla mascolinità. Boyhood Studies,
bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali
storici della mascolinità applicati agli uomini moderni. The ManKind Project of
Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity,
accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on
men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded
Masculinity: Parsifal and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che
si riferisce alla mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla
narrativa maschile. Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity
Conspiracy, critica mascolina online. Future Masculinity, corso di critica
sulla mascolinità. Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di antropologia Ultima modifica 1 mese fa di Aslog Murivel
Effeminatezza termine Michael Messner
(sociologo) sociologo statunitense
Privilegio maschile privilegio sociale degli individui maschi derivante
solamente dal loro sesso. Massimo Donà. Dona. Keywords: sessualità, eroticamente,
per una filosofia della sessualità. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donà” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Donatelli: l’implicatura conversazionale
dell’esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like
Donatelli – his titles can be too expansive, like the one about ‘philosophy and
common experience,’ as a subtitle, which incorporates the all too controversial
notion of experience simpliciter!” L’etica, la sua storia e le problematiche
contemporanee sono al centro dei suoi interessi. Studia a Roma, dove ha
conseguito la laurea e il dottorato. Insegna alla Luiss Guido Carli. Insegna a
Roma. La sua ricerca spazia dalla ricognizione dei classici dell’etica alla
filosofia morale contemporanea. Si occupa della riflessione sulla vita umana,
in bioetica e nel pensiero teoretico e politico, e del pensiero ambientale. Nel
dibattito bio-etico ha difeso una concezione laica delle istituzioni. La sua
proposta si situa nella filosofia di ispirazione wittgensteiniana (Cavell,
Diamond, Murdoch) che fa incontrare con i temi del pensiero democratico e
perfezionista nella scia della filosofia di Mill. Dirige la rivista Iride.
Filosofia e discussione pubblica (il Mulino). È membro di numerosi comitati,
tra cui del comitato scientifico di Bioetica. Rivista Interdiscliplinare ed
Etica & Politica. Altre opere: “Filosofia morale. Fondamenti, metodi, sfide
pratiche” (Milano, Le Monnier, Il lato
ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune” (Bologna, il Mulino, Etica. I classici, le teorie e le linee evolutive,
Torino, Einaudi); “Quando giudichiamo morale un’azione?” (Roma-Bari, Laterza);
Decidere della propria vita, Roma-Bari, Laterza); “La vita umana in prima
persona duale” (Roma-Bari, Laterza); “Manuale di etica ambientale” (Firenze, Le
Lettere); “James Conant e Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, Roma, Carocci);
“Mill, Roma-Bari, Laterza); “Virtù” (Roma, Carocci); Immaginazione e la vita
morale, Roma, Carocci); La filosofia morale, Roma-Bari, Laterza); Wittgenstein
e l’etica, Roma-Bari, Laterza);Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni”
Milano, LED,I destini dell'etica
Bioetica e progresso morale dell'Italia, su ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica. Bioetica Consulta di bioetica The Italic branch
consists of Latin on the one hand and of the Urabrian-Samnitic dialects,
on the other. Latin, with which the little known dialect Sf
Falerivwas closely related, is known to us from about 300 B. C. onwards.
So long as the language was confined to Latium, there existed no
dialectical differences of any importance. The contrast bet- ween the
popular and the literary language, which had already arisen at the
beginning of the archaic period of literature (from Li vius Andronicus to
Cicero), became still sharper in the classical period, and the further
development of the former is almost entirely lost to our observation
until the Middle Ages, when the popular Latin of the various provinces of
the Roman empire meets us in a form more or less changed and with a
rich development of dialects (Romance languages: Portuguese, Spanish,
Catalanian, Provencal, French, Italian, Raetoromanic and Roumanian)*). We
shall only consider the development of the Latin of, antiquity.
Cp. Corssen Uber Aussprache, Vocalismus und Betonung der
lateinischen Sprache, 2 vols., Leipzig Kuhner Ausfiihrliche Grammatik der
lateinischen Sprache, Hannover, Stolz and Schmalz Lateinische Grammatik,
in Iw. Muller’s Handbuch der klass. Altertumsw. IThe Umbrian-Samnitic
dialects are known to a certain extent through inscriptions, which for
the most part belong to the last centuries before our era , and through
words quoted by Roman writers. We are best acquainted with Umbrian
(Breal Les tables Eugubines, Paris Biichelor Umbrica, Bonn) and Oscan
(Zvotaieff Sylloge inscriptionum Oscarum, Petersburg- Leipzig). Of the
Volscian, Picentine* Sabine, 1) Cp.* Budinszky Die Ausbreitung der lat. Sprache
uber Italicn und die Provinzen des rSmisohen Reiches, Berlin 1881,
Cirober in the Archiv fur lat. Lexikographie g KeUio;^Aequiculau ,
Yestinian, Marsian, Pelignian and Marrucinian dialects we have only very
scanty remains (Zvetaieff Inscriptiones Italiae Mediae dialecticae, Leipzig).
All *tliese dialects were ^forced •into the background at an early period
by the ifitrusion of Latin. The Sabines, who received citizenship., seem
to have been the first to become romanised. The s^west to give way was
Oscan, which in the mountains did not perhaps become fully extinct for
centuries after the Christian era. Cp. further Bruppacher
Osk. Lautlehre, Zurich 1869, Endoris Yersuch einer Formenlehro der osk.
Sprache, Zurich 187L Piergiorgio Donatelli. Donatelli. Keywords: esperienza, let’s
cooperate (cooperiamo), let’s make the strongest utterance; let’s trust each
other; let’s be relevant (siamo relevanti), let’s be perspicuous (siamo
perspicui), prima persona, prima persona duale – noi – nostro – numero nel
verbo greco: singolare, duale, plurale, Mill,
virtu, Conant, ambi, both – the dual – Both conversationalists must
cooperate towards a mutual goal. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donatelli” –
The Swimming-Pool Library. Donatelli.
Grice e Donati: l’implicatura conversazionale
del fra – filosofia italiana – Luigi Speranza (Budrio). Filosofo italiano. Grice: “I like
Donati; most of what he says is very basic, and he says it from what he thinks
is a scientific perspective – but then he writes about morality and you start
to wonder – anyhow, his central concept is that of reflexitvity, which he
multiplies into goal-centred, rule-centred, means-centred, and value-centred –
Since my oeuvre dwells on rellexivity I feel a lot of affection for Donati and
his approach!” Nella sua filosofia occupano una posizione centrale la tematica
epistemologica inerente alla ri-fondazione della ‘sociologia filosofica’, re-interpretata
alla luce della "svolta relazionale”. Su tali basi, vengono svolte l'analisi
del concetto di ‘cittadinanza’, del fenomeno associativo della società civile e
della politiche di welfare state nelle società altamente differenziate;
l'analisi del ruolo dell’istituzione sociale che emergono dai processi di morfo-genesi
sociale, in particolare nelle sfere di terzo settore; l'apertura di una nuova
prospettiva negli studi sul capitale sociale e sui processi di “riflessività” in
rapporto alla legittimazione di nuove forme di democrazia deliberativa. L'elaborazione
di una ‘sociologia filosofica relazionale' è andata di pari passo con la
fondazione filosofica di un nuovo e più generale ‘paradigma relazionale' che si
pone come superamento della contrapposizione fra realismo e costruttivismo, fra
l’individualismo o intersoggetivismo metodologico e olismo o collettivismo metodologico.
Questa prospettiva porta alla elaborazione di nuovi concetti come quelli di “critica
della ragione relazionale” e bene relazionali, come soluzioni rispettivamente
dei problemi inerenti a idiosincrasie culturale e alla mercificazione del
welfare nelle società. L'etichetta "sociologia filosofia relazionale"
viene usata, oltre che da D., da vari filosofi. Emirbayer ha scritto un
‘Manifesto di sociologia relazionale' elaborato in maniera del tutto
indipendente rispetto a D. Crossley usa la medesima etichetta. Alcuni studiosi
assimilano la sociologia relazionale alla network analysis (Crossley, Mische ),
altri tracciano delle differenze fra questi due modi di intendere l'analisi
della società (D., Terenzi, Tronca). Indipendentemente dalla filosofia di
Donati, esistono gruppi e reti di sociologia relazionale in vari paesi, tra cui
il Canada (si veda il sito della Canadian Sociological Association,,
l'Australia (si veda il sito della Australian Sociological Association,). In
Italia, gli filosofi vicini a Donati si riconoscono nel network Relational
Studies in Sociology,). Donati ha prodotto numerosi saggi di carattere
teorico ed empirico. Propone una teoria generale per l'analisi della società:
la “sociologia filosofica relazionale”. Insegna a Bologna, direttore del Centro
Studi di Politica Sociale e Sociologia Sanitaria). Presidente dell'Associazione
Italiana di Sociologia. Direttore dell'Osservatorio Nazionale sulla Famiglia.
Ha fatto parte del comitato scientifico di Biennale Democrazia. Fondatore e
Direttore della Rivista “Sociologia e politiche sociali”, editore FrancoAngeli.
Membro del Comitato Scientifico della Rivista "Sociologia", Istituto Luigi
Sturzo, Roma. Ha ricevuto il riconoscimento dell'ONU come membro esperto
distinto nel corso dell'Anno Internazionale della Famiglia. Premio Capri San
Michele per "Pensiero sociale
cristiano e società post-moderna" (Ave, Roma). Premio San Benedetto per la
promozione della Vita e della Famiglia in Europa. Attraverso la sua filosofia,
Donati mostra con specifiche indagini empiriche in che modo la società possa
essere conosciuta e interpretata come una semplice “relazione sociale” diadica
-- e non come un prodotto culturale. La sociologia relazionale (o teoria
relazionale della società) viene per la prima volta esplicitata con “Introduzione
alla sociologia relazionale”. Questa “Introduzione” è nata come una sorta di
“Manifesto della sociologia relazionale”, anche se da allora pochi se ne sono
accorti. I punti essenziali di quel Manifesto sono varie. La sociologia
relazionale consiste nell'osservare che una società, ovvero qualsiasi fenomeno
o formazione sociale (la famiglia, una impresa o società commerciale, una
associazione, una società nazionale), la società globale, non è né una idea (o
una rappresentazione o una realtà mentale soggetiva) né una cosa materiale (o
biologica o fisica in senso lato), ma è una relazione sociale – una
intersoggetivita. L’intersoggetivo è né un “sistema”, più o meno pre-ordinato o
sovrastante i singoli fatti o fenomeni, né un prodotto di una azione soggetiva,
ma un altro ordine di realtà. L’intersoggetivo è relazione. L’interosggetivo è
fatto di una relazioni fra un soggetto S1 e un soggetto S2, che distinguono la
forma e i contenuti di ogni concreta e specifica “diada. L’intersoggetivo – la
relazione intersoggetiva -- deve essere concepito non come una realtà accidentale,
secondaria o derivata dall’altre entità: il soggetto S1 e il soggetto S2),
bensì come un levello ontologico differente sui generis, appunto,
‘l’intersoggetivo’. Affermare che “la società è relazione” può sembrare quasi
ovvio, ma non lo è affatto ove l'affermazione sia intesa come presupposizione
epistemologica generale e quindi si abbia coscienza delle enormi implicazioni
che da essa derivano. Ogni filosofo parlano dell’intersoggetivo della relazione
di una diada fra soggeto S1 e soggetto S2 (Aristotele: ogni uomo e politico,
Marx, Durkheim, Weber, Simmel, Parsons, Luhman, Grice), ma quasi nessuno ha
compiuto l'operazione che viene proposta dalla sociologia
relazionale: partire dal presupposto che “all'inizio c'è la relazione”,
ossia che ogni realtà sociale emerge da un contesto di relazioni e genera un
contesto di relazioni essendo essa stessa ‘relazione sociale'. Ciò non
significa in alcun modo aderire ad un punto di vista di relativismo. Si tratta
esattamente del contrario: la sociologia relazionale si fonda su una ontologia
dell’intersoggetivo relazionale, e dunque su una ontologia dell’intersoggetivo
della relazione che vede nella relazioni il costitutivo di ogni realtà sociale
seconda la loro propria natura. La sociologia relazionale e una forma del relazionismo
filosofico. Per l’intersoggetivo (la relazione) intende l’intersoggetivo nel
spazio-tempo, dell'inter-umano, ossia ciò che sta fra un soggetto agente S1 e
un soggetto agente S2 chi collaborano, o cooperano. e checome tale costituisce
il loro orientarsi e agire reciproco (o riflessivo, al modo di Grice), per
distinzione da ciò che sta nel singolo attore individualo o collettivo considerati
come poli o termini della relazione. Questa «realtà dell’intersoggetivo – che
Donati chiama ‘il fra’ -- fatta insieme di due soggetti che collaboron, è la
sfera in cui vengono definite sia la distanza sia l'integrazione dei due
soggetti che stanno in società: dipende da questo ‘fra’ – fra tu e me -- (la
relazione sociale in cui le due soggetti si trovano) se, in che forma, misura e
qualità le due soggetti può distaccarsi o coinvolgersi rispetto agli altri
soggetti più o meno prossimi, alle istituzioni e in generale rispetto alle dinamiche
della vita sociale. La teoria relazionale della società ha elaborato nuovi
concetti che sono stati utilizzati non solo da filosofi, ma anche in altri
campi, come il diritto, la legislazione sociale, l'economia. I concetti originali
elaborati da Donati sono varie. Il concetto di ‘privato sociale’ e applicato in
molte leggi dello Stato italiano. Il concetto di ‘cittadinanza societaria è
stato utilizzato dal Consiglio di Stato (Sezione consultiva per gli atti
normativi, Adunanza, N. della Sezione: in importanti deliberazioni. Il concetto
di ‘beni relazionali’ è stato ripreso in campo economico da filosofi come
Zamagni e Bruni. Il concetto di un ‘servizio relazionale’ è stato ripreso nella
legislazione regionale e nazionale in Italia, anche in relazione alla buona
pratica nelle politiche familiari analizzate con le ricerche svolte per
l'Osservatorio nazionale sulla famiglia. Il concetto di ‘lavoro relazionale’ e
il concetto di ‘contratto relazionale’ sono importanti. Il concetto di ‘welfare
relazionale’ e usanto in buona pratica nei servizi alle famiglie (utilizzato
dal Centro studi Erickson). Il concetto di ‘differenziazione relazionale’ si
applica in particolare alla problematica della conciliazione fra lavoro e
famiglia. Il concetto di una critica della ‘ragione relazionale’ e dato come
una possibile soluzione ai problemi dei conflitto. Il concetto di capitale
sociale come relazione sociale con una ridefinizione degli studi sociologici si
applica nel capitale sociale. Il concetto di "riflessività
relazionale" si applica per superare il concetto puramente soggettivo di
riflessività come mera riflessione interiore. Il concetto di "genoma
sociale della famiglia" s’applica nella evoluzione. Ha affrontato una
serie di tematiche di ricerca il cui sviluppo è ancora in corso. La prima e più
estesa riguarda la tematica della sociologia della famiglia. Si vedano I saggi
di Donati, Lineamenti di sociologia della famiglia. Un approccio relazionale
all'indagine sociologica, Carocci, Roma, Donati, Manuale di sociologia della
famiglia, Laterza, Roma-Bari). Si vedano anche i Rapporti Cisf sulla famiglia
in Italia, per gli aspetti applicativi: Sociologia delle politiche familiari,
Carocci, Roma, è il più recenteDonati "La famiglia. Il genoma che fa
vivere la società", Soveria Mannelli, Rubbettino. Un'altra tematica è
quella della salute: si veda Donati Manuale
di sociologia sanitaria” (La Nuova Italia Scientifica, Roma); Sui giovani e le
generazioni nella società dell'indifferenza etica: “Giovani e generazioni.
Quando si cresce in una società eticamente neutral” (il Mulino, Bologna); Sul
cittadinanza e welfare: La cittadinanza societaria, Laterza, Roma- Bari); Sul
welfare state e le politiche sociali, “Risposte alla crisi dello Stato sociale”
(Franco Angeli, Milano); “Lo Stato sociale in Italia: bilanci e prospettive”
(Mondadori, Milano); “Sul privato sociale o terzo settore e la società civile:
Sociologia del terzo settore” (Carocci, Roma); sulla società civile: “La
società civile in Italia, Mondadori, Milano; Generare “il civile”: nuove
esperienze nella società italiana, il Mulino, Bologna); Il privato sociale che
emerge: realtà e dilemmi, il Mulino, Bologna, Sul lavoro: Il lavoro che emerge,
Bollati Boringhieri, Torino); I rapporti fra sociologia relazionale e pensiero
sociale cristiano: Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Editrice
Ave, Roma, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli. Sul
capitale sociale: Donati, Terzo settore e valorizzazione del capitale sociale
in Italia: luoghi e attori, FrancoAngeli, Milano, D., I. Colozzi, Capitale
sociale delle famiglie e processi di socializzazione. Un confronto fra scuole
statali e di privato sociale (FrancoAngeli, Milano). Attraverso queste saggi,
la sociologia relazionale ha sviluppato un nuovo quadro teorico e ne ha
dimostrato la validità sia sul piano della ricerca empirica, sia sul piano
delle applicazioni concrete (in termini di legislazione e di programmi di
intervento sociale). La conoscenza sociologica che la sociologia relazionale
intende perseguire non rifiuta a priori nessuna teoria, né vuole “unificare”
tutte le teorie sotto un'unica bandiera, ma tutte le prende in considerazione e
le valuta per mettere in evidenza quelle verità, anche parziali, che ciascuna
di esse contiene. Tuttavia, perché di solito una teoria offre una visione
limitata, se non riduttiva della realtà, la sociologia relazionale è in grado
di inserire ogni teoria in un quadro concettuale più ampio, nel quale ritrovare
le verità parziali ad un livello più elevato, coerente e consistente di conoscenza
della realtà sociale. Terenzi, Percorsi di sociologia relazionale,
FrancoAngeli, Milano,. Luigi Tronca,
Sociologia relazionale e social networks analysis. Analisi delle strutture
sociali, FrancoAngeli, Milano.Enzo Paci, Dall'esistenzialismo al relazionismo,
D'Anna, Messina-Firenze. Per un nuovo welfare locale “family friendly”: la
sfida delle politiche relazionali, in Osservatorio nazionale sulla famiglia,
Famiglie e politiche di welfare in Italia: interventi e pratiche. I, il Mulino, Bologna, Politiche sociali e
servizi sociali di fronte al modello sociale europeo: lo scenario del “welfare
relazionale”, in C. Corposanto, L. Fazzi, Il servizio sociale in un'epoca di
cambiamento: scenari, nodi e prospettive, Edizioni Eiss, Roma, Quale
conciliazione tra famiglia e lavoro? La prospettiva relazionale, in Donati,
Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo, La valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e
attori Donati, I. Colozzi, FrancoAngeli, Milano, Altre opere: “L'enigma della
relazione” Mimesis, Milano); “La famiglia. Il genoma che fa vivere la società”
(Rubbettino, Soveria Mannelli); “Sociologia della riflessività. Come si entra
nel dopo-moderno, il Mulino, Bologna); “I beni relazionali. Che cosa sono e
quali effetti producono (Bollati Boringhieri, Torino); “La matrice teologica
della società, Rubbettino, Soveria Mannelli); “Teoria relazionale della
società: i concetti di base, FrancoAngeli, Milano); “La società dell'umano,
Marietti, Genova-Milano); “Il capitale sociale degli italiani. Le radici
familiari, comunitarie e associative del civismo” (FrancoAngeli, Milano); “Oltre
il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune, Laterza,
Roma-Bari); “Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari); “Sociologia
delle politiche familiari, Carocci, Roma); “Il lavoro che emerge. Prospettive
del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna, Bollati
Boringhieri, Torino); “La cittadinanza societaria” (Laterza, Roma-Bari); Teoria
relazionale della società, FrancoAngeli, Milano, 1991 La famiglia come
relazione sociale, FrancoAngeli, Milano, La famiglia nella società relazionale.
Nuove reti e nuove regole, FrancoAngeli, Milano); “Introduzione alla sociologia
relazionale, FrancoAngeli, Milano); “Risposte alla crisi dello Stato sociale.
Le nuove politiche sociali in prospettiva sociologica, FrancoAngeli, Milano); “Famiglia
e politiche sociali. La morfogenesi familiare in prospettiva sociologica,
Angeli, Milano); “Pubblico e privato: fine di una alternativa?” (Cappelli,
Bologna). Der Dual ist ein Numerus, der sich in indogermanischen wie
nicht-indogermanischen Sprachen findet. Die indogermanistisch zentralen
Sprachen Altgriechisch und Altindisch haben diesen Numerus in allen
flektierenden Wortarten; andere Sprachen haben ihn nur in einer Wortart. Die
Minderheitensprachen Ober- und Niedersorbisch pflegen den Dual bis heute. Auch
im Bairischen gibt es noch formale Dualrelikte. Das Buch bietet eine
Darstellung der einzelsprachlichen Dualsysteme in der Indogermania und
Rekonstruktionen der Dualsysteme der Zwischengrundsprachen und des
Ur-Indogermanischen. Neben dem genealogischen Vergleich wird auch der
typologische Vergleich mit Dualsystemen anderer Sprachgruppen wie etwa
Finno-Ugrisch, Semitisch und Bantu angestellt. Der Leser gewinnt so einen
Überblick über die Entwicklung einer typologisch markierten grammatischen
Kategorie und einen Einblick in die kognitiven Prozesse, die zum Werden und
Schwinden des Duals im Wandel der Sprachen führen. Rezensionen
"" Salvatore Scarlata in: Kratylos, Pinault in: Bulletin de la
Société de Linguistique de Paris, Pierce in: Journal of Historical Linguistics,
Bohumil Vykypel in: Linguistica Brunensia,
http://hdl.handle.net"" Remo Bracchi in: Salesianum, Lühr in:
Germanistik, Heft, Duale (linguistica) numero grammaticale Lingua Segui
Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento grammatica è solo un
abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Il
duale in linguistica è una delle possibili realizzazioni della categoria
morfologica del numero grammaticaleche può essere espressa tanto nel nome
(sostantivo e aggettivo) quanto nel pronome e nel verbo. Benché sia meno
diffuso di singolare e plurale, il duale è presente in molte lingue del mondo.
Esso è presente nelle più antiche lingue indoeuropee, come il sanscrito o il
greco antico, nel lituano, nello sloveno moderno, nel friulano e anche nelle
lingue semitiche, come l'arabo - che ne fa tuttora uso nelle sue varietà
moderne, sia pure limitatamente al nome - l'ebraico e nell'egizio. Il
duale è frequente per indicare parti doppie del corpo, per esempio le mani, le
narici, le gambe, ma nelle lingue che lo possiedono non è raro il suo uso anche
per indicare oggetti a coppie o semplicemente coppie di oggetti o persone
casuali: due persone, due anni, ecc. ("duale occasionale").
Mentre in francese, in tedesco, in italiano o in spagnolo, tutte lingue che non
presentano la forma duale se non per tracce come per esempio in italiano ambo,
si è soliti anteporre al sostantivo plurale l'aggettivo numerale che ne indica
la quantità esatta (due uova, due amici, ecc.), nelle lingue che posseggono il
duale questo può bastare per indicare una quantità pari a due. Per esempio in
arabo sanah "(un) anno", sanatayn "(due) anni". La
mu'allaqa di Imru l-Qays, una delle più famose poesie arabe, esordisce con un
imperativo duale: Qifâ, nabki... "fermatevi (voi due) e
piangiamo...", riferimento al fatto che il poeta si rivolgeva a due suoi
compagni. Bibliografia Modifica Albert Cuny, Le nombre duel en grec,
Paris, Librairie C. Klincksieck, 1906 Charles Fontinoy, Le duel dans les
langues sémitiques, Paris, Les Belles Lettres, 1969. Marco Molinelli, Il numero
duale nel greco antico, Roma, Fritz, Der Dual im Indogermanischen, Heidelberg,
Carl Winter, 2Grammatica Morfologia (linguistica) Portale
Linguistica: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di linguistica Salvatore
Talia Numero (linguistica) categoria grammaticale Grammatica lituana
regole della lingua lituana Articoli del greco antico Wikipedia Il
contenuto. Grice: “In my seminars I explained explicitly that we would be
dealing only with conversational DYADS!” Grice: “This was my nod to the Old
Latin dual!” – Grice: “Austin used to say that no distinction is too fine, or
too nice. The origin of the Latin fifth declension out of the dual number – We
can provide an EXPLANATION of the appearance of the Latin fifth declension (e
stems) as a result of the LOSS of an earlier dual inflection, whose main
feature is the suffix jk (full grade ej) . The dual character of the Latin -ies
(series) forms can be demonstrated on the basis of their ‘semantic’
development. The dual number in the Indo-European languages. The most ancient
Indo-European languages had three number categories: the singular, the dual,
and the plural. In the Indo-European languages, the dual number was typically
used for NATURAL PAIRS (‘oculi’, the ‘same’, two hands), sometimes also for an
accidental or artificially arranged pair (‘two men’ (andre), two horses pulling
one carriage, two oxen in one yoke), and possibly for two objects of the SAME
kind (two fires, two lime trees). Elliptical usage of the dual is also
attested, ‘two fathers’, as when Homer refers to ‘Ayax and his brother’ or
Latin ‘octo, ‘eight’, originally, or literally, two sets of four finger-tipes
Wackernagel, Campanile, Malzahn, Clackson). The degree of preservation and
PRODUCTIVITY of the dual in the Indo-European languages differ considerably.
Traces of the dual in Latin. The dual number as a separate CATEGORY was
presumably lost by Latin and the other Italic languages already in the
pre-historic period (Buck). Lat. ‘duo,’ ‘two’ < IE duwo < PIE duwo-hj
(Tagliavini). Lat. ‘okto’ ‘eight’ < IE okto, ‘8’ < PIE hkekto-h0. Lat.
viginti, ‘twenty’ (< IE wiknti < PIE dwi-dknt-ih), literally, ‘two tens.’
A few Latin forms – ambo, duo -- have a specific inflexion which may be the
result of the transformation of the dual form within a declension. Thus we have
masc. nom. ‘ambo’ , duo; gen. ‘amborum’, duorum; dative-ablative ‘ambobus’,
duobus; and acc. ambos/ambo, duos/duo. Lat. masc. ‘ambo’. The inflection of
‘ambo’ and ‘duo’ keeps the original dual ending in the nominative. It does not
show the dual ending in the other four cases – where it adops the regular
PLURAL ending. Here we have a case of an ADAPTATION (SUBSTITUTION_of the dual
inflection by the plural inflection. Traces of the dual number in Latin are
restricted to ‘ambo’ , ‘both’, and the numerals (‘duo, octo, viginti) – while
some have traced other dual forms in declesions – Danielsson). The question of
a dual form, e. g. ‘Pomplio,’ (Lat. Pompilio, nom. du. ‘two of the Pompilius
family’), attested in epigraph CIL I 30: M. C. POMPLIO NO. F. DEDRON HERCOLE =
‘Marcus and Gaius Pompilius, the sons of Novious, gave (this) to Hercules.’ The
interpretation of the form POMPLIO as dual may be implicatural rather than
semantic. The form POMPLIO need not be a dual form -- it may be just the nominative singular with
the final s by custom omitted when there is a formal agreement with the second
prae-nomen, though belonging to both. Dual endings in the Indo-European
languages. In proto-Indo-European hl forms the basic dual ending, which may
have a strong form (ehl or hle) in animate nouns. It is assumed that the
numeral ‘two’ has the form ‘duwo-ehl’ (literally, ‘two persons, or animals’),
which later develops into the masculine form. IE ‘duwo, m. Latin for some time
kept the dual ending -e (PIE ejl). The loss of the dual causes the proto-Latin
forms ending in -e (once dual forms) to generate a separate group: a fifth
declension. From a variant dual ending -e, the -e- would have to have formed in
the oblique cases. The genitive dual ending in Indo-European is -es (PIE ejls
gen. du). Both a dual inflection with -e (gen. du. -es) and -e (gen. du. -es)
would have ensured the stabilization of the feature -e- after the loss of the
dual number in the Italic languages. The cause of the loss of the dual number
in Latin. Most probably, the loss of the dual as a separate CATEGORY takes
place within the a- stem and the -o- stem declensions. In the nominal paradigm,
a specifically Latin innovation causes a change in the infection system. This
innovation is the loss of the old plural ending -os, which are well attested in
the other Italic languages, along with the adaptation of the enings of the
PRO-nominal system -oi -- whence Latin ‘-i.’ – cf. nom. sg. m. -os > -us.
Nom. du. M. -o (ambo, octo, duo). The PLURALISATION of the dual in the -o- stem
declension happens largely without a
problem – providing you keep a Griceian ‘eye’ – Cf. ‘pater,’ father. nom. sg.
m. pater; nom. du. m. ‘patere’. nom. pl. m. ‘pateres’. As Austin pointed out to
me, the loss of the dual in the Indo-European languages suchas Latin did not
happen solely via the good old pluralisattion of the dual form, but also by way
of a ‘singularisation’: i. e. the dual inflection is re-fomed into the SINGULAR
inflection. This way of the elimination of the dual number is very much
attested in Latin, in all the forms ending in -ies, for example. Then we have
the dual forms of the Lat. viginti type. The Latin cardinal number ‘viginti,’
‘twenty,’ is a remnant of the dual number. ‘Viginti’ represents the IE
archetype wiknti nom. acc. du. ‘twenty’, from PIE dwihl-dknt-ihl, literally,
‘two tens’. Since, unlike ‘duo,’ it represents a numeral higher than 4 – and
all Latin numerals from ‘quattuor’ up to ‘mille’ did not decline --, ‘viginti’
simply keeps the shape of the nominative dual. Some dual forms with no singular
form underwent a singularization (or sometimes a collectivization). As a result
of such an adaptation, the dual is re-constructed morphologically, and
re-interpreted pragmatically via implicature. This singularization (but
sometimes collectivization) of a dual form creates the need to establish a
declension. The literally DUAL character of some Latin expressions ending in
-ies may be explained through a detailed pragmatic calculation. Pierpaolo
Donati. Donati. Keywords: il fra, relazionalismo, internal conversation,
l’intersoggetivo, realta fra, il fra, fra tu e io, intersoggetivismo
metodologico, communicazione come realta fra, implicatura, reflessivita,
reciprocita. Ambidue. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donati” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Dondi: l’implicatura conversazionale -- l’astrario – iter romanorum – colonna
giulia – la colonna del circo neroniano di Buschetto -- petrarca – filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Chioggia).
Filosofo. Grice: “I like Dondi and I
like a watch chain!” Figlio di Jacopo, studia filosofia a Padova. Insegna a
Padova. Si trasferì a Pavia. Dopo un periodo a Firenze, vi ritorna come
filosofo di corte dei Visconti. Insegna a Pavia. Scrittore di rime, amico e corrispondente di Petrarca,
fu anche tra i pionieri dell'archeologia. In occasione di un viaggio a Roma,
descrisse e misura monumenti classici, copiò iscrizioni e trascrisse i dati
rilevati nel suo ‘'Iter Romanorum'’. La
sua fama è legata soprattutto all'astrario da lui progettato a Padova e
costruito a Pavia, dove, era conservato, nel castello di Pavia, presso la
biblioteca Visconteo-Sforzesca.
L'astrario è un orologio astronomico che mostra l'ora, il calendario
annuale, il movimento dei pianeti, del Sole e della Luna. Per ogni giorno sono
indicati l'ora dell'alba e del tramonto alla latitudine di Padova, la
"lettera domenicale" che determina la successione dei giorni della
settimana e il nome dei santi e la data delle feste fisse della Chiesa. L'orologio
astronomico (o astrario) di D. è andato distrutto, ma è ben conosciuto perché
il suo ideatore ne dette una particolareggiata descrizione nel saggio
“Astrarium”, trasmesso da due manoscritti. Si tratta di un congegno mosso da
pesi, di piccole dimensioni (alto circa 85 cm, largo circa 70), racchiuso in un
involucro a base eptagonale. Grazie ad una serie di ingranaggi l'astrario
riproduce i moti del Sole, della Luna e dei cinque pianeti. Esso indicava anche
la durata delle ore di luce alla latitudine di Padova. Come misuratore del
tempo esso, oltre all'ora, indicava (forse per la prima volta tra gli orologi
meccanici) anche i minuti, a gruppi di dieci. La presenza di trattati di
astrologia nella biblioteca di D. fa sospettare che la progettazione sia stata
influenzata da astrologi antichi. L'orologio astronomico che si può tuttora
ammirare sulla Torre dell'Orologio, Padova, in Piazza dei Signori, è una copia
non dell'astrario di D., ma dell'orologio costruito dal padre Jacopo. Secondo
la tradizione sarebbe stato D. ad introdurre a Padovala gallina col ciuffo,
oggi nota come gallina padovana. In realtà, il giornalista padovano Franco
Holzer in una sua ricerca ha potuto stabilire che non vi è documentazione alcuna
che attesti che D. abbia mai avuto contatti con la Polonia o che l'abbia mai
visitata. A lui è dedicata una delle statue che adornano il Prato della Valle,
a Padova. Il Circolo Numismatico Patavino gli ha dedicato una medaglia
commemorativa opera dello scultore bellunese Massimo Facchin. Ai D. è dedicata
la ballata iniziale di Mausoleum. Siebenunddreißig Balladen aus der Geschichte
des Fortschritts del poeta tedesco Hans Magnus Enzensberger. Altre opere: Rime,
Daniele, Neri Pozza, Vicenza); “Astrarium, E. Poulle, CISST); Opera omnia D., corpus pubblicato sotto la
direzione di Emmanuel Poulle. Padova. Andrea Albini, Op. La Biblioteca
Visconteo Sforzesca, su collezioni. Musei civici.pavia. Andrea Albini,
L'astrario di D., su Museoscienza. Ricerche d'Archivio riguardanti la famiglia
D. Di Franco Holzer.Albini, Machina Mundi. L'orologio astronomico di D., Create
Space, Astrario, Gabriele D. Università degli studi di Padova. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Replica in
scala 1/2 dell'Astrario, su clock maker. Replica in scala ¼, su pendoleria. com.
(D i Cjiovauui Odo ndi òalf'Otcfcgto, TTtedico eli ^Padova, e Dei
uiouumeutv antichi da fui «animati a ctonia, e di afcuui »ceitti
inediti def medesimo. rt A FILIPPO SCHIASSI CAHOMCO MILLA CHIESA
MAGGIORE DI BOLOCRA, E PROFESSORE DI archeologia bella criverbitì.
JL u non ignori certamente , o amatissimo Schiassi, cum io faccia
di le gran cubitale per la somma erudi- zione archeologica che possedi ,
e per la forbitezza dello scrivere latino , nella quale con pochi vai
distinto ; e come poi io non sia ad alcuno secondo nell'osservanza ed
amore verso di te per le doti singolari dell'animo tuo. In verità io ho
sempre desiderato mi fosse pòrta occasione di farti noto pubicamente questo mio
volere ; ma quella mi fallì maisempre, o, a meglio dire, non ebbi
mai ardimento di abbracciarla, parendomi da non do- versi indirizzare a
te cose che non fossero parlo d'in- gegni maturi, fra' quali per fermo
non è da riporsi il mio. Tuttavolta altre ragioni m'inducono ora a
prendere contrario divisamento . Il perchè, in arra di rispetto e
di benivoglienza, ho deliberalo di spedirti questa Lettera intorno a D.,
e publicarla intitolata al tuo nome ; indotto anche da ciò , che in essa
circa V obelisco vaticano , della cui traslazione tu di fresco con
scienza e perizia ne hai scritto . ho io allegate alcune cose ,
dalle quali appare essere ora per la prima volta manifesto come il
medesimo nel medio -evo sia stato atterrato , e non guari appresso di bel
nuovo ristabilito, non altri- menti come sono di comune consentimento i
più accreditati scrittori delle cose passale: de’ quali in ispezialità
qual sia il giudizio da tenersi tu puoi decidere. Io in- tanto a te
sottometto di tallo cuore e senza cerimonie la mia opinione , qualunque
ella siasi: ritieni poi , che con animo a tc per intiero affezionatissimo
mi dispongo a ciò fare. V enezia
v>die Petrarca abbia scritto di D. suo amico non meno con verità die
con magnificenza, essere egli stalo d'ingegno sì sublime e po- tente, che
ito sarebbe alle stelle, se rattenulo non lo avesse lo studio della Medicina,Jo
capiranno coloro spe- cialmente, i quali siano a giorno come il
medesimo siasi reso distintamente celebre nelle scienze mediche,
FILOSOFICHE ed astronomiche ; c, di più, conosca- no come in altre
discipline, a dir vero non comuni, fosse egli oltre l’ usato erudito. Peritissimo
ancora in scienza morale, nella cognizione dei monumenti antichi, e
nel linguaggio delle Muse italiane : le quali cose, come disse Celso in
altra occasione, quantunque non costituiscano il Medico, tuttavolta lo
rendono più atto alla Medicina, e fanno sì che abbia a primeggiare
fra i dotti del suo tempo. Ed in vero, che non si possa lare un
pieno uso della Medicina nella maggior parte delle malatie del
corpo, se quelle dell’animo del pari non si curino, è chiaro di già
abbastanza per concorde dottrina degli antichi e recenti filosofi,
suffragata dalla sperienza. Intorno a ciò sono manifesti i sentimenti di
Aristotele, d’ Ippocrate, di Galeno, e di altri ; come pur anco Lettera
III. a Francesco Sancse.data in luce a Venezia. ne fanno chiara prova
quelle cose che sopra lo slesso argomento ci hanno lasciato in appresso
uomini sa- pientissimi. Che poi da un’accurata osservazione degl’antichi
monumenti, e dalla lettura delle iscrizioni ne ven- gano singolari ajuti
onde conoscere più diffusamente l’ arte medica, ce lo dimostrano le Opere
dei valenti in quella, cioè di Girolamo Mercuriale intorno alla
ginnastica, il quale trattò anche del sito più salubre alla costruzione
delle fabbriche e circa gli strumenti chirurgici ; di Giannantonio Sicco
e di Andrea Baccio intorno ai bagni termali ; di Bartolini sopra l’
antico puerperio : ai quali libri se ne potrebbero facilmente aggiungere
altri di tal fetta, cioè di Bellonio, Gioberti, Cagnato, Reinesio, Rodio,
Patino, Sponio, Trillerò, Ilundertmarki, Cocchi, e altri;cosicché niuno
deve maravigliarsi del progetto di Tomaso Bartolini nel comporre l’
Opera intitolata Antichità necessarie ad un Medico, del cui apparecchio,
in appresso incenerito dalle fiamme , lo stesso autore ne diede breve
com- pendio in una Dissertazione stampata in Hafnia sopra l’incendio
della biblioteca. Le moltissime sue lodi, scritte in prosa ed in
ver- so, ci fanno ampia testimonianza che lo studio della poesia
giova a meraviglia per fecondare e ricreare l’ ingegno, per aggiungere
fregio alla lingua ed allo stile, e per fare acquisto di altre doti
richieste ad un uomo di lettere ; nè vi sarà al certo chi ignori che
i Medici versati nella medesima n’ andrebbero stimati da più che gli
altri, e si leggerebbero con più di di- letto le Opere loro. Noi conosciamo
ancora che gli stessi scrittori dell’arte medica, distinti fra gli antichi,
Ippocrate ed Areteo, succhiarono da Omero il loro bello ; il primo de’
quali fu detto da Eroziano uomo omerico quanto allo stile (Glossar .
Hippocr. Praef. pag. 7, edit. Lips.); e Trillerò fa vedere che al
secondo giovò d’ assai la lettura dello stesso autore ( Opuscula medico -
philologica, Tom. 1. pag. xxi): il che chiaro apparisce parimente di
Galeno e di altri. Eccellente si è la cura posta da Bartolini nel
trattare che fece di questo argomento nella Dissertazione intorno ai Medici-poeti,
publicata in Hafnia; ed ora se ne potrebbe formare un sog- getto con
assai più di splendore. Sono poi da tenersi in gran conto quelle cose che
furono scritte da Fracastoro, uomo grande nell’ una e nell’ altra
facoltà, a Girolamo Amalteo, medico non meno che poeta celebre del suo
tempo; cioè andare di gran lunga errati coloro i quali avessero per
niente la poesia, e la stimassero cosa incompatibile colla Medicina: che
anzi dichiara apertamente con Andrea Navagerio, essere inetti a toccare
il fondo di ogni scienza, o a gustare appieno le bellezze di
qualsiasi arte meccanica, coloro i quali andassero privi e man-
canti di vena poetica (Fracast. Opera edita Corniti). D. per coltivare l’ animo
in questi studj, indotto dall’ esempio ed intrinsichezza del Petrarca, il
quale nei medesimi avea tocco l’ apogèo della gloria, consegnò allo
scritto monumenti non dubj di questo studio, commettendoli ai
posteri; ma quelli inediti, ed appena conosciuti in un codice cartaceo di
quella età, posseduto un tempo dallo stesso autore, toccò per avventura a
me solo di vederli presso Papafava, figlio d’Albertino, fregiato
della primaria nobiltà fra i Padovani e Patrizio Veneto, il quale mi onorava di
singolare cortesia; nel qual codice io stesso ho letti gli scritti
inediti del Dondi senz’ altro giudizio od altro ordine, da quello
in fuori con cui qui li riporto. Vi sono nel codice Lettere intorno
a diversi argomenti, scritte dal Dondi a varie persone ; cioè : Al
Petrarca. Si protesta tornargli a grande vantaggio 1’ amicizia di lui,
per arricchirsi a perfe- zione della morale filosofia ; il che osserva
essere assai conforme all’ insegnamento di Seneca nella Let- tera <08
a Lucilio intorno al conversare co’ filosofi. Nel dipartirmi da te
(scrive egli) ne riporto ogni giorno frutti novelli , e alla tua presenza
mi si ricrea V animo d' insolita gioja. A Giovanni dall’Aquila
fisico (Padova). Annunzia e mostra allo cordoglio per la morte del
Petrarca, d’ improviso avvenuta la notte antecedente. « E
morto un personaggio unico, a dir vero, ed » ammirabile tra i pochi di
ogni età; ma a’ nostri » giorni il solo, a mio giudizio, che v’abbia su
tutta » la terra, e da non potersi trovare in qualsivoglia » parte
di essa: uomo da essere ricordalo e tenuto a » venerazione da tutti i
secoli. Fatale disgrazia e la- » grimevolc a tutto il genere umano, ma
assai più amara a buon diritto all’ Italia , della quale non » senza
gran merito egli n’ era amante perduto, e in » ogni circostanza
partigiano caldissimo ; sopra tulli per altro a me e a te, ai quali era
legato con nodo » strettissimo d’ amore e di singolare benevolenza.
» Mancò un uomo senza dubio grande, ottimo, soavis- » simo, amantissimo
di noi ; ma non per altro cessò » del tutto, poiché anzi diede principio
a vita migliore, richiamato dall’ esiglio alla patria : se vero è » che
gli offici di questa vita mortale, la Religione di continuo venerata e
studiosamente coltivata, l’opera » assidua agli sludj unicamente onesti e
lodati, dieno « fidanza di alcun premio nella vita a venire. » A Leniaco,
uomo di singolare ingegno. Ad Argentino (Arsendino) da Forlì, e a
Pa- ganino da Sala padovano, Dottori in legge. A Guglielmo Ravenna,
fisico. A Geminiano, fisico del Marchese Cesa. f*. A Gasparo
(Broaspina) di Verona.... c Hai pòrto materia, nella quale mi ricordo
di » essere stato titubante aneli’ io, mentre scorreva la »>
Lettera a Lucilio di quell’ eccellente e tutto nerbo » Anneo, maestro mio
e tuo, e di tutti i buoni amici » in generale. » A Gasparo, che lo
dimandava di quelle cose che Seneca scrisse nella settima Lettera a
Luci- lio sopra gli spettacoli dei Romani, gli dà spiegazio- ne
abbastanza chiara, come portavano quei tempi sì riguardo alla materia,
come pur anco alle parole; vi adoperò eziandio dell’arte critica a motivo
delle scorrezioni del testo, per colpa in gran parte della ignoranza
degli amanuensi, e dell*' audacia di coloro che vi posero mano alla
emendazione. 9. A Bartolomeo Mazio di Verona, fisico egregio. A
Petrarca (Padova) Una lunga Lettera circa il metodo di vita da seguirsi
dal Petrarca, la quale i precettori del Seminario di Padova avendo ricevuta da
me, che la trascrissi dal codice soprallegato, non dal Marciano,
come porta l’edizione, aggiuntane un’altra del Pe- trarca al Dondi, fu da
loro data alle stampe. A Lombardo Serico, cittadino padovano. Al
frate Guglielmo da Cremona, teologo. Fa vedere gl’ ingegni degli antichi
di gran lunga supe- riori ai moderni sì in fatto di lettere, come ne
fa chiara testimonianza il Petrarca, non meno che ri- guardo alle
opere famose delle arti più belle, col- l’esempio alle mani di un insigne
scultore soprafatto di ammirazione alla vista di monumenti antichi. A
Leniaco, cittadino veronese. A Cremona, maestro nelle arti liberali. Ad
un suo intimo amico, uomo singolare ed egregio. A Caselle,
cittadino padovano. Aromatario. A Paganino da Sala, Dottore in
legge e uomo di milizia. Con queste si congratula della di- gnità
di Cavallicre conferita di fresco a Paganino; così per altro, che ne fa
di molto più stima dell’onore ottenuto dall’ alloro in Diritto civile,
dal quale egli traeva di già vantaggio e lode. A Nicolò Alessi,
Protonotario e Vice-Cancelliere del Signore di Padova. 21. 22. Ad
Andreolo Arisio Cremonese. Biasima e si fa beffe della scarsezza che v’ è
nelle biblioteche di Francia dei libri specialmente di Filosofìa
morale, di cui era tenuto a giorno per lettere di Arisio cola
dimorante. 23. Al frate Guglielmo, Vescovo di Pavia.
24. Ad Albertino Salso, precettore di Fisica. 25. A Giacobino
Angarano di Vicenza. Data in luce in uno all’ Opera del Pondi intorno alle
Fonti calde nel Territorio padovano, al Maestro Giacomo Vicentino,
fra i Trattati di vari autori circa i Bagni, stampati a Venezia Panno 2C. Ai Professori direttori di Medicina
e delle Arti nello Studio di Padova. Fa loro avere un libro da lui
composto, del quale dà contezza con queste parole: » Ricevete un
Trattatello che vi darà per » ispiegato P ordine oscuro di Galeno nella
distinzione » delle disposizioni dei corpi umani, il quale ei ri* »
strinse con brevità nel libro di Microtegno, asse- n gnandovene le reali
differenze fra quelle, tranne » poche che vollero accennare sin qua di
volo altri » espositori, ma in molte colle relative differenze. Al
maestro Guidoni (di Bagnolo) in Venezia, nomo egregio, fornito di molto
sapere e virtù. Padova, Cappelli, cittadino cremonese. Intorno a
Pasquino, Cancelliere di Giovanni Ga- leazzo Visconti Principe di Milano,
ne fece parola Pietro Lazerio nelle Miscellanee cavate dai libri
manoscrilti nel Collegio Romano dei Gesuiti. Pasquino avea fatto richiesta
delle Lettere scritte dal Dondi a diversi ; e Dondi si argomenta a
tutt’ uomo per dissuaderlo che quelle Lettere non erano tali che
meritassero a pezza le sue dimande. Poscia scrive molle cose circa i
rotti costumi degli uomini del suo tempo, degne alla scorza di un
va- lente filosofo. Queste Lettere sono piene a ribocco di
sentenze morali, siccome quelle che furono composte da un au- tore
che metteva ogni cura nel leggere le Opere di Seneca, e ne avea anche
dilucidate le di lui Lettere a Lucilio, con annotazioni allegate circa
alle medesime da Gasparino Barzizio nel suo Commentario, da me
veduto scritto a mano. Di qual desiderio ardesse il Dondi di vedere
mo- numenti antichi, ne fa aperta testimonianza il viaggio di lui a
Roma, ad unico oggetto di venire in pieno conoscimento dell’antico e
nuovo stato della città. Del qual viaggio non rimane alcuna traccia dalla
publica autorità confermata ; tuttavolta ho letto io stesso nel
codice manoscritto, di cui feci menzione di sopra, le annotazioni dello
stesso D. intorno ai principali monumenti dell’ antichità nel viaggio e
nella dimora che fece a Roma, esaminati, credo io, da lui
appassionatamente ; delle quali annotazioni ei fa fede così dal principio
: « Ilo riportato queste cose scritte in lettere quando fui reduce da
Roma. « Non è prezzo dell’opera il rescrivere qui le anno-
tazioni del D., nelle quali v’hanno anche difetti di scritturazione,
potendosi avere alla mano scrittori famosi per molto sapere, i quali ci
hanno chiarito dei medesimi monumenti con mollo più «li accuratezza
e dovizia. Ci piace di riportare qui sotto la prima sol- tanto, la
quale versa circa l’ obelisco valicano, poi- ché mollo è stimala per
singolare novità, facendoci vedere un distico da nessuno, per quanto io
sappia, riportato, c del quale importa se ne faccia ricerca. Quella
poi suona così : In Roma La colonna Giulia a quattro
lati, che si eleva di costa a S. Pietro, ha di grossezza presso l’
estremità di mezzo, lunghesso ciascun lato, otto piedi all’ in-
circa ; di altezza poi, secondo un buon calcolo, ascen- de a 00 piedi,
ossia a dieci pertiche. Ma un prete ac- casalo lì vicino affermò che un
tale l’aveva misurata con uno strumento ad ombra , e la trovò di braccia.
Martino nella Cronaca dice che la sua lun- ghezza va a un dipresso a 120
piedi; ed Eutropio afferma la stessa cosa. Svetonio poi dice eh’ è di
pie- tra di Numidia. E vi sono poi ne’ suoi due lati lettere incise
di tal maniera: Divo Cnesari Divi Julii F Augusto Ti Cacsari Divi
Augusti F Augusto Sacrimi. Intorno alle antichità romane sogliono
premettere alcune cose più memorabili di Martino Polacco,
Cronicista dei Pontefici e degl’imperatori, specialmente nei codici
ma- noscritti. Quelle poi che trovansi aggiunte come tratte da Eutropio
e da Svetonio, falsamente vengono loro attribuite. ir» Al di sopra della
mela di questa colonna Giulia vi sono scolpili questi due versi:
Ingenio Buzeta tuo bis quinque puellae Appositi s manibus itane
erexere columnam. Plinio {Hi storia Nat..), e Svetonio (nella Vita
di Claudio) dimostrano apertamente che l’in- signe obelisco sia
stalo trasportato dall’Egitto a Ro- ma per comando di Cajo Caligola ; e
in séguito, mes- sa a fondo da Claudio nella costruzione del porto
di Ostia la nave su cui era stato trasportato, la più me-
ravigliosa di quante mai si fossero vedute solcar ma- ri, il medesimo sia
stato collocalo nel circo di Ne- rone ; ned è da entrare in forse che il
medesimo, fre- giato di quella cospicua iscrizione ne’ due lati,
non sia quello stesso che sempre fu tenuto per l’obelisco vaticano.
Di questo attestano tutti gli scrittori più accreditati, che non sia mai
stato mosso da dove per la prima volta fu inalzato, nè in alcun tempo
atter- rato, fino a tanto che, volendolo Sisto V. Pont. Massimo, trasportato
dal luogo, dove pri- ma era posto, mediante un congegno di macchine
ma- ravigliose di Domenico Fontana del contado di Campo Novocomese,
nella piazza di S. Pietro, dove al giorno d’oggi si trova. Di tanto
unanimemente ne stanno mallevadori in particolar modo Angelo
Decembrio, Poggio Fiorentino, Mafeo Vegio, Francesco Alberiino,
Pietro Angelio Bargeo, Onofrio Panvinio, Bartolomeo Marliano, Filippo
Pigafelta, Palladio, Gamuccio, Mercato, Nardinio, Kirhero, Fontana , Bellorio, Fontana,
Bonanno, Bandinio, Milizia, Cancellieri,
Winckelmanno, Fea, Zoega; l’ultimo dei quali, che ci diede un’ Opera
perfettissima sopra gli obelischi, impressa a Roma, come a nome di
tutti gli altri scrisse di quello con facondia. Questo dei romani
obelischi il solo superstite alle » rovine della città, si tenne in piedi
nel Circo vati- » cano fino a tanto che l’architetto Domenico Fontana,
per comando di Sisto V. Pontefice Massimo, lo » trasferì nella piazza di
S. Pietro. Quindi non è da prestarsi credenza a Ciampinio, a Molineto, a
Vitlorellio, a Ficoronio, a Marangonio, a Guattanio, e a pochi altri, i
quali affermarono che il medesimo era di già abbattuto e steso al suolo
allorché si fece la sua traslocazione sotto il Pontefice Sisto V. Tuttavia,
giudice e testimonio D., ora ci si para innanzi all’ impensata il distico
da tempo scol- pito sopra l’ obelisco, dal quale non fuori di
propo- sito n’ è lecito far congettura eh’ esso avesse incon- trata
cogli altri la stessa sorte, e poscia nel medesi- mo sito, dove dapprima
era posto, sia stato di bel nuovo inalzato ; ovvero, se non fu ritrovato
intiera- mente abbattuto e steso a terra, fosse almeno così
piegato, che il suo inalzamcnto si avesse a tenere in conto non altrimenti
che di fatto assai meraviglioso, e da tramandarsi con lode alla memoria
dei posteri per mezzo d’ un monumento cospicuo cesellalo a Roma ; al
quale in séguito, come sarà a vedersi dalle cose che qui sotto si
diranno, se ne aggiunse un altro di simile a Pisa. Per verità, tostochè
lesesi questo distico, ci ricorre alla memoria quel tetrastico
sopra quella grandissima mole di marmo, tradotta per mare ed
inalzata il secolo XI. dalle mani di dieci fanciulle, per il sommo
ingegno del chiarissimo architetto Bu- scheto; il quale tetrastico si
vede scolpito nel medesimo tempo sopra il di lui sepolcro, che fronteggia
il tempio maggiore di Pisa, e parla così : Quod vix mille
boum possent juga junctn movere , Et < fuod, vix poluil per mare ferve
ralis, Busketi iiisu, quod crat mirabile vini , Dena
puellarum turba levabai onus. Del qual tetrastico, siccome è noto,
furono fatte tante e così scipite interpretazioni, che il fatto
delle dieci fanciulle si spacciò per una favola ; quasi che quelle
parole non si potessero applicare all’ inalzamene della gran mole, portato a
termine per opera di Buscheto con tale perfezione, che dieci
donzelle colle sole loro mani sarebbero state da tanto a quel- l’
impresa, e che a loro in certa guisa sembrasse do- versi attribuire la grande
erezione. Pare che P opinione popolare abbia condotto in errore tutti
coloro che di questo fatto hanno discorso per iscritto ; cioè che
il contenuto in quei quattro versi accennasse alle macchine costrutte da
Buscheto nella fabbrica del tempio pisano ; perchè il medesimo, ma in
altri versi, vi si leggeva in lode di Buscheto sulla facciata di
quel tempio. Per quanto poi si sa, nessuno avrebbe sospettato se sia da
intendersi lo stesso intorno al lavoro eseguito in Roma. Se non che
quelli che giudicano imparzialmente de’ fatti, e sono di parere che P
obelisco nel medio- evo sia stato atterralo, e poco dopo novamente
inal- zato da Buschelo, sembra ciò possano fare senza taccia di errore,
se specialmente considerino che tutti quegli aggiunti, rappresentati ab
antico colle stesse parole intorno al trasporto dell’ obelisco sopra
una nave d’ una meravigliosa grandezza, e la maniera stessa
adoperata nel suo secondo inalzamento, acqui- stano insieme chiarezza e
fede ; altrimenti non veggo quello che se ne possa dire di vex*o e di
ragionevole su questo fatto. Che P obelisco sia stato fermo in pie-
di almeno sino all’anno -1053 presso la Cappella della Basilica Vaticana,
nel qual luogo sino dal principio era stato posto , è chiaro dalla Bolla
di papa Leo- ne IX., per Li quale viene confermato il fondo ai Ca-
nonici della Basilica medesima, nel cui terzo lato (dis- se) corre
un'altra via dall'aguglia che si nomina Sepol- cro di Giulio Cesare ;
colla qual denominazione sol- tanto apparisce sia stato in uso nel
medio-evo d’ indi- carsi questo monumento ( Collezione delle Bolle
della Basilica Vaticana di Roma, i 747, Tomo I. pag. 25). Dagli
anni succedenti a quel medesimo secolo fino al 1084 tennero dietro quei
lagrimevoli tempi, ne’ quali per la discordia di Enrico IV. e Gregorio
VII., che tra loro si combattevano, toccò a Roma di patire
moltissime calamità, nonché assedj, incendj, smantel- lamenti e
distruzioni di fabbriche anche in quella parte che si chiamava Città
Leonina, in cui stava l’obelisco: le quali cose tulle noi leggiamo
testimo- niate publicanienle da scrittori di quell’età, c di
già scritte da storici accurati d’ Italia di tempo posterio-
re nei loro divulgati lavori, senza che mai ne accada per avventura di
vedere da essi fatta alcuna menzione dell’ obelisco ; onde sorge qualche
probabilità, che ad esso pure sia toccata in quel tempo la medesima
disgrazia d’essere rovesciato. Questo certamente cade ora in taglio di
osservare, che niuno di quelli de’quali abbiamo gli scritti circa le
antichità di Roma, o di quelli de’ quali abbiamo le collezioni da gran
tempo date in luce delle antiche iscrizioni, ha fatto mai cen- no
del distico intorno a Buscheto; non pure eccet- tuato lo stesso Petrarca,
che sappiamo aver egli stu- diosamente esaminato gli antichi monumenti, e
del- l’ obelisco aver fatto parola soltanto secondo la voce del
popolo ( Epislolae familiares , Lib. VI. Ep. XI. pa- gina 199, edit.
Genev.). Noi pertanto andiamo debitori al Dondi, siccome a quello che
forse primo di tutti ci diede una giusta conoscenza del tetrastico
pisano, e la notizia della mole insigne ultimamente alzata in Roma, la
quale è di moltissimo vantaggio per far conoscere la storia delle arti
meccaniche del medio- evo in Italia : soggetto di un voluminoso ed
utilissimo scritto. Un silenzio così durevole ed universale non
può essere di certo a molti senza ammirazione ; ma ove essi
considerino che l’ obelisco di bel nuovo inalzato era stato a cielo
scoperto bersaglio delle ingiurie dei tempi per il giro di quasi tre
secoli avanti il Dondi, e che mostrava quel distico a lettere sfuggevoli,
sebbene ab antico scolpite, difficili alla lettura per la sconvenienza
del sito, talché siasi preso Buzeta per Buscheto ; e che finalmente nel
secolo XV. le medesi- me erano del tutto scomparse, non avranno più
luogo sì fatte meraviglie. Senza dubio Angelo Decembri o 11011’
Opera ripiena di scelta erudizione e poco conosciuta, scritta circa la metà di
quel tempo, intitolata hibri selle di polizia letteraria , c data ai tipi
in Augusta, ce lo rappresenta tanto ridotto a mal termine, che non dee
fare stupore sia esso sfuggito a’ curiosi indagatori degli an-
tichi monumenti, ed abbia indottoVeronese a parlare in tal foggia: « Quel
lato eh’ è posto a Mez- » zogiorno viene corroso ogni dì più dai continui
va- » pori dell’ Austro e dalle procelle ; e i geometri e gM »
architetti tutti del nostro tempo ne trovarono tanto » di logoro, che
ritengono sia scemato da imo a som- » mo quasi duecento libre. » E il Bembo
nel Dialogo ad Ercole Strozio intorno la zan- zara di Virgilio e le
favole di Terenzio, impresso la prima volta a Venezia l’ anno 1 530 con
altre sue Ope- rette, mette in bocca a Barbaro Ermolao questi delti
: « Appena si può descrivere a parole la grave colpa » che hanno i
Romani per quell’ obelisco vaticano, » i quali, quasi invidiando che
sopravivesse una qual- » che opera alla nostra età, cui lunghezza di anni
o » durata di tempo non valesse a distruggere, adoperarono sì che fosse
quasi tolto alla publica vista per » mezzo di ammonticchiati rottami e
murate easu- » pole. » Ma che il Dondi si abbia procurato
colle osserva- zioni sulle romane antichità cognizioni per dare a
buon diritto lodi secondo le azioni, n’ è prova la Letlera diciottesima a
Paganino Sala, decoralo poco in- nanzi della dignità di Cavalliere :
nella quale difende che la scienza delle leggi è da tenersi in
maggiore estimazione che l’arte militare, scrivendo: « Che il »
Senato e il popolo romano avessero operato secondo questo parere di CICERONE,
lo attestano alcune fac- » ciate, le quali sino al giorno d’ oggi si
conservano nella città scolpite in marmo, alcune delle quali, *) nè
m’ inganna la mia memoria, ho lette io stesso, » dove vengono anteposti
in ordine di scrittura gl’uomini famosi in pace per consiglio a quelli
che » travagliarono nella guerra. A’ piedi della rupcTar- » péa si
conserva uno splendido arco trionfale di » marmo, che tiene inscritti due
grandi uomini, vale » a dire Lucio Settimio e Marco Aurelio, sopra
cui « dopo una lunga serie si offrono a lettera alcune » cose in
proposito, le quali, tienle a mente, sono » queste: Ob rem publicam
restitulam itnperiuinque » populi romani propagatimi insignibus
virlutibus eorum » domi forisque. Ecco preferirsi il publico
interesse » consolidato per senno alla conquista dell’imperio, » e
i grandi in pace a’ grandi in guerra, quantunque » senza dubio l’ una e
l’ altra sia cosa gloriosa. Così » il titolo di Dottore avuto per scienza
in Diritto civile, colla quale si amministrano bene in pace i » publici
affari, si giudica doversi anteporre al titolo » di Condoiliere
d'eserciti , colle armi de' quali si gover- ni nano le cose al di fuori.
» Posciachè il Dondi ebbe osservate le rovine della romana antichità,
nella Let- tera duodecima al frate Guglielmo da Cremona ne scriveva
in tal modo : « Quantunque poche ne sieno » rimaste delle
opere degli antichi ingegni, pure se » alcune qua e là se ne conservano,
vengono ricerca- » te, esaminate, e tenute in gran pregio dagli
appas- » sionati in tal genere; e se vorrai mettere a para- » gone
queste dei giorni nostri con quelle, ti sarà » chiaro come gli autori di
quelle sieno stati più av- » vantaggiati dalla natura e dall’ ingegno, e
più dotti » nel magistero dell’arte. Parlo di edifizj antichi, di »
statue, di sculture, e d’altre cose di simil fatta, » alcune delle quali,
con diligenza osservate dagli artelici di questa età, li fanno dare nelle
meraviglie.» Nella qual Lettera stessa, dopo di avere trattato dif-
fusamente sulla eccellenza degli antichi, aggiunse anche le seguenti cose,
spettanti allo studio degli anti- clii monumenti : « Io avrei credulo che
tu ti avessi » occupato con piacere a leggere di quando in quan- »
do scritti di tale specie, o almeno alcuni dei principali tra essi, ed in
quelli ne avessi considerato in > molte parti, non senza stupore, i
costumi e le azioni dei tempi andati : perchè se vorrai con giustizia »
raffrontare quelli con questi che di presente cono- » sciamo, sarai
costretto a confessare che la giustizia, » il valore, la temperanza e la
prudenza hanno avuto » certamente un seggio luminoso nei loro animi,
e » dall’ impulso di quelle virtù si hanno procacciato » alcun che
di magnifico a gran lunga superiore alle » più larghe mercedi. Del resto,
prova di ciò sono » quelle cose che, ordinate una volta per onorare
» gloriose intraprese, durano ancora nella città di » Roma. Conciossiachè
sebbene molle e delle più pre- » ziose ne abbia mandalo a male il tempo,
e di alcune » sieno mostrate soltanto le rovine, che ci
presen- ti tano alcune tracce di ciò che per lo innanzi erano; »
tuttavia quelle poche e a meraviglia stupende che ne restano, sono più
che bastanti onde fare testi- » monianza che coloro i quali le
decretarono, non » poteano essere che dotati di somma virtù, e che
co- « loro a’ quali venivano dedicate ad eterna ed onore- vole
ricordanza doveano avere operato gesta ma- » gnanime e strepitose. Voglio
dire statue che, fuse » in bronzo o scolpite in marmo, durarono fino
al » giorno d’ oggi ; e mollissimi pezzi sflagellati a tor- li ra,
ed archi trionfali di pietra di gran lavoro, e co- li lonne storiate di
memorabili imprese, ed altre cose » moltissime di tal genere, messe alla
vista di tutti » onde onorare personaggi illustri o per avere sta-
li bilita la pace, o scampata la patria da sovrastante » pericolo, o
disteso il dominio sulle vinte nazioni. » E siccome mi sovviene eli’ io
vi leggeva con molto » mio compiacimento, così voglio sperare che tu
pu- lì re, passandovi sopra qualche fiala, le avrai con- »
siderale, e fatto sovr’ esse alcun segno di meravi- » glia, ed avrai
detto per avventura teco stesso : Que- ll ste per fermo sono prova d’
uomini grandi. » Resta che a fornire l’ elogio del Dondi io lo
di- mostri anche amante dello studio poetico, onde sia manifesto
com’ egli abbia occupato un luogo cospicuo fra i Medici del suo tempo.
Anche i meno esperti di tali cose sapranno che delle sue composizioni
italiane una sola ne fu data alle stampe, indirizzata al Pe-
trarca, la quale con altre dello stesso autore suolsi vedere congiunta, e
ne fu fatta memoria nel Dizionario degli Academici Fiorentini della Crusca. Ma
nel codice manoscritto, di cui sul principio ho fatta menzione, se ne
leggono quaranta del genere di quelle che con vulgare vocabolo è invalso
chiamare Sonetti. Queste trattano di varj argomenti, e specialmen- te
dell’ amore alla virtù, della malvagità dei costumi del suo tempo , della
lode e del biasimo di alcuni Principi allora regnanti, di città vedute
nel suo viag- gio per Roma, di risposte ad amici; e di amorose as-
sai poche, ben diversamente da quello che portava il suo secolo.
Le poesie volgari du D. furono scritte a Petrarca, e a quelli amatori
delle Mu- se che a lui erano legati in istrelta amicizia ; cioè a
Gasparo Broaspitia veronese, a Francesco Vanozzi, a Melchiore e Benedetto
parimente veronesi, a Bar- tolomeo Pace padovano, al frate Guglielmo da
Cremona, a Giovanni di Venezia suo condiscepolo, a Campo, e Castellione
Aretino. D. visitando la tomba del Petrarca in Arquà scrisse forse
il primo di tutti su tale argomento una composizione, imitato poscia da
uomini dotti d’ogni nazione e d° ogni tempo ; cosicché coll’ andare
degli anni io ho raccolto versi in gran copia sopra questo
soggetto, i quali potrebbero uscire in luce con gene- rale
approvazione. La poesia usata dal Dondi non è sempre sciolta
e facile; tuttavia è fornita di gravità e di eleganza: gli piaque
di framischiare sovente versi latini ai volgari, come sappiamo su IP
esempio degli antichi poeti es- sersi usalo fare da alcuni moderai con
vano sforzo. Nella sua giovinezza atlendeva con piacere a verseggiare,
come scrive a Guglielmo da Cremona: Già nella vaga elade de’
prim’anni Mi piaque udir e dir talvolta in rima, Benché
con grosso stile e rude lima: Poi che l’alma vestir di miglior
panni Mi piaque più, perch’io conobbi i danni Dei persi di,
lasciai la via di prima. Prendendo quel che piu prezzo si
stima Con maggior cura e studiosi affanni. I codici scritti a
penna assai di rado ci offrono versi del Dondi, ed io ne ho veduti se non
pochissimi in due soltanto: uno de’ quali trovasi nella Biblioteca
del Seminario di Padova, un tempo posseduto dal Facciolati ; l’ altro
squarcialo, e mal difeso dalle in- giurie dei tempi, fu da me rinvenuto
poco fa nell’ul- tima stanza della Basilica di S. Marco in Venezia,
e portato nella Biblioteca regia : il perchè non dee pa- rere fuori
di ragione eli’ io ponga qui appiedi di que- sta Lettera, come per
saggio, sei componimenti volgari di esso Dondi. Da tutto il
fin qui detto risulta, che presso i giu- sti estimatori degl’ingegni il
Dondi andò fornito di tanta e sì svariata dottrina, che v’ ha onde
tenerlo del tutto eccellente fra i pochi periti in Medicina del suo
secolo, e che perciò non ho gettato inutilmente il tempo e la fatica nel farlo
riconoscere per tale. Venezia, Se’l veder torto del vostro
Giovanni Mira la region terrestre ed ima. La gente ricercando in
ogni clima, Ebrei, Latini, Greci ed Alemanni, Regni comuni, e
sudditi a’ tiranni ; Al mal son pronti, e per quel si
sublima, Spenta è virtù, e la fortuna opima Col vizio sta su
gloriosi scanni. Ito è il tempo che fu col buon Augusto, Rari son
quei che per virtù guadagna; Astuzia e frodo regna con bugia. A cui
dunque direm del calle angusto, Per qual si va con la virtù
compagna? Degno è del mal così lagnarsi pria. Oli puzza abbominabil
di costumi! Oli maledetti dì di nostra etade! Oli gente umana
senza umanitade! Più che senza splendor oscuri fumi!
Convien che ’l mondo in breve si consumi. Poiché giustizia ed
innocenza cade; E sol quell’arte e studio par che aggrade.
Per qual l’un l’altro offenda, inganni e schiumi. Qual’ cieli
infortunati, qual’ figure. Qual’ mimiche stelle o gravi segni
In ogni nostro ben or s’è disperso? Quanto beate fur più le
nature Nell’imperio d’ Augusto, quando ingegni, Virtute e pace ebbe
l’Universo! Cantra insolenliam Fenetorum inferentium guarani Amino
Paduae. Se la gran Babilonia fu superba, Troja,
Cartago, e la mirabil Roma, Che ancor si vede, e quell’ altre si noma.
Ma dove sletler pria stan selve ed erba; E se altra possa fu mai tanto
acerba A metter sopra altrui gravosa soma. Tutte san già quant’ogni
orgoglio doma Al fin colei clic a sè vendetta serba. Però
qualunque è maggior signoria Dovrebbe rifrenar con più misura
Fraterna di giustizia sua potenza; Di aver con suoi minor consorte
pia. Non arrogante, ingiuriosa e dura, E temer sopra sè
dal Ciel sentenza. Cum visitasset sejiulchrum Domini Fraudici
PelrarcUae in A rquada. Ilei sommo cielo con eterna vita Gode
P alma felice tua, Petrarca ; Quindi di sodo sasso in nobil’ arca
La terrena caduca parte uscita. La fama del tuo nome già
gradita Sonando va con gloriosa barca, Di vera lode e d’ogni
pregio carca, Per l’Universo in ogni canto udita. Nelle
scritte sentenze tue si vede La gentilezza dell’ingegno divo,
E qual sii stato in cattolica fede. Forò chi anco t’ama non è
privo Ancor di te; c chi morto li crede Erra, ch’or vivi e sempre
sarai vivo. Y. Joannes ile Domiti socio et eoiuliscipulo tuo Joanni
de Fenetiis studenti in Medicina, qui tcripseral eidem quondam
tmlgares rhythmos. Le tue parole mi par belle tanto, E
sì bene ordinate tutte quante. Qual se dette le avesse o Guido o
Dante, Ovvero esaminate in ogni canto. Però quando fra me mi
penso alquanto, Parmi che tu non sei molto distante Da color che tu
imiti, buon rimante, E che han vestito di quell’arte il
manto. Ond’io ti prego che scrivi talvolta, Sì che
svegli il mio piccol ingegno, Per te sottratto dalla turba stolta.
Onor ti renderò, che sei ben degno. Più che’l fanciul al
maestro ch’ascolta. Guardando a te col balestriere <0 al segno.
(t) Così il codice. Dica contra chi vuol: il saper vale
Più che il folle ardimento, cd ogni schiera Produrrà a torto
quantunque sua fiera: Per ragion giusta, dee terminar male. E
chi per van conforto d’altrui sale Oltra quel che convien a sua
maniera. Degno è che non governi ben bandiera, Nè ben cavalchi
alcun sotto sue ale. Adunque imprenda pria quei che non
sanno, E non ardisca saltar di leggieri ; Contra s’alza a
baldezza di vesciche. Chè chi è corrente ha più volle le
fiche, E scaccomato in mezzo il tavolieri, Sì ch’ei riporta
la vergogna e ’l danno..tK*rCP odiatene di »oti 3oo esemplati.
BUSCHETO di Isa Belli Barsali - Dizionario Biografico degli Italiani - Pubblicità
BUSCHETO (Busketus, Buschetto, Boschetto). - Si ignorano l'origine e gli
estremi biografici di questo architetto attivo a Pisa tra il terzo
venticinquennio del sec. XI e i primi del XII. Compare in due soli documenti
certi, del 2 dic. 1104e del 2apr. 1110 (pubblicati dal Pecchiai), e come
operarius di S. Maria. Fu l'ideatore del progetto della cattedrale pisana e
come tale infatti è ricordato ed esaltato, nel paragone con Ulisse e con
Dedalo, nell'iscrizione che si legge sulla sua tomba collocata nella prima
arcata a sinistra della attuale facciata (trasferitavi da quella primitiva):
"Non habet exemplum niveo de marmore templum. / Quod fit Busketi prorsus
ab ingenio". Una più tarda iscrizione elogiativa aggiunta sul sarcofago in
occasione del trasferimento della tomba dalla vecchia alla nuova facciata (al
tempo cioè dell'architetto di quest'ultima, Rainaldo) esalta del B. soprattutto
le capacità tecniche: "Quod vix mille boum possent iuga iuncta movere / Et
quod vix potuit per mare ferre ratis / Busketi nisu quod erat mirabile visu /
Dena puellarum turba levabat onus". Accenti assai simili aveva un'epigrafe
romana, ora scomparsa, trascritta da G. Dondi (1375), che celebrava un
"Buzeta" per aver nuovamente eretto l'obelisco nel circo neroniano:
"Ingenio Buzeta tuo bis quinque puellae / appositis manibus hanc erexere
columnam". Questa somiglianza di tono nelle due epigrafi, pisana e romana,
indusse il Morelli a proporre l'identificazione di "Buzeta" con
Buscheto. Non risulta certo che sia da identificare con il B. che compare
nel 1076 e 1078 in due atti della canonica del duomo di Pistoia (L. Chiappelli,
Storia di Pistoia..., Pistoia). Per altre ipotesi (B. del fu Giovanni giudice
dei signori di Ripafratta, Monini, pp. 10-14), basate su documenti presunti (10
febbr. 1100 e 1105) o per documenti (Pecchiai, p. 20) poinon rintracciati, si
veda Scalia (pp. 514 s.). I lavori della cattedrale pisana, iniziati nel
1063 al tempo del vescovo Guido da Pavia, proseguirono, sostenuti da donazioni,
tra cui quelle di Enrico IV e della contessa Matilde, per tutto il secolo XI e
i primi decenni del secolo seguente. Papa Gelasio II nel 1118 consacrava la
cattedrale, forse non ancora del tutto compiuta. Dopo questa data, l'edificio
venne ampliato con il prolungamento a ovest del corpo longitudinale della
chiesa, di circa quindici metri, che portò di conseguenza alla costruzione
dell'attuale facciata (per il Sanpaolesi nel secondo quarto del sec. XII. Per
le fondazioni della prima facciata si veda Bacci, 1917).
L'individuazione, ovviamente fondamentale, dell'attività di B. nella parte più
antica del duomo, ha avuto un lungo iter critico. Alla luce degli studi recenti
è da credere che il B. progettasse e iniziasse la costruzione in età ancor
giovane, proseguendone poi la fabbrica fino al primo decennio del sec.
XII. Molte ipotesi sono state avanzate sui tempi e i modi della fabbrica
del duomo durante la direzione di Buscheto (Dehio-von Bezold; Salmi,
1938;Sanpaolesi). Una documentazione indiretta aiuta solo parzialmente.
Accettando l'ipotesi del Burger (1953), che l'epigrafe con data 1085 murata
sulla porta della pieve nuova di S. Maria del Giudice (Lucca) vada riferita al
completamento dell'abside di questa chiesa - anteriore stilisticamente alla sua
facciata - il1085verrebbe ad essere anno ante quem per il completamento di una
parte dei lavori al duomo pisano attribuibili a B., dato il rapporto esistente
tra il duomo di Pisa e l'abside della pieve nuova di S. Maria del Giudice: la
chiesa del contado lucchese sarebbe anche il più antico edificio derivato dalla
cattedrale pisana. I forti pilastri interni all'incrocio del transetto
delineano le dimensioni della cupola e autorizzano a ritenere che B.
progettasse anche questa parte (Sanpaolesi), anche se poi è possibile che i
lavori si protraessero. La cupola originaria - poggiante su un tamburo con monofore
ad archetto e su trombe coniche venute in luce durante i restauri del secondo
dopoguerra - indica rapporti con l'architettura del Mediterraneo orientale e
della Sicilia. Un problema aperto è quello della forma della facciata di
B., forse già compiuta nel 1118 quando fu consacrata la chiesa, certo già
esistente quando nella chiesa fu tenuto un concilio, e disfatta probabilmente
dopo la costruzione della nuova. Ipotesi ricostruttive possono trovare appoggio
nell'esame analitico e comparativo di alcune facciate di chiese pisane (S.
Frediano di Pisa, la pieve di Calci già aperta al culto nel 1111, la pieve di
Vicopisano) e lucchesi (le due pievi di S. Maria del Giudice), tutte in
contatto con la cattedrale pisana. Queste facciate mostrano una ricorrente
tipologia ad archi ciechi su due ordini, che si presenta in logico e armonioso
rapporto con quella soluzione ad archi ciechi che compare nei fianchi del duomo
di Pisa. Il linguaggio di B. non è certo riconducibile ad una tradizione
locale, ed è estremamente colto. Accettando l'ipotesi di identificazione con il
"Buzeta" dell'iscrizione romana, il soggiorno a Roma illuminerebbe
sul sottofondo classico della sua cultura: l'impianto dell'edificio e i grandi
colonnati basilicali, i capitelli foggiati ad imitazione dell'antico, la quasi
completa assenza di decorazioni figurate rivelano infatti la conoscenza e lo studio
delle opere romane; è significativo che anche il neoclassico Milizia ne notasse
"le proporzioni del tutto non... spregevoli" e la
"sodezza". Nello stesso tempo B. è a conoscenza dell'architettura
lombarda e dell'architettura orientale, dalla bizantina all'araba. Contatti e
rapporti culturali sono d'altronde superati in una unitaria visione di grande
respiro, che fa di B. uno dei massimi architetti dei secoli XI e XII. La
cattedrale pisana è capostipite del romanico pisano. All'opera di B. e del suo
continuatore Rainaldo si rifece non solo la generazione a loro più vicina, ma
una folta scuola, estesasi nella Lucchesia, nel territorio fiorentino, e nelle
zone politicamente o commercialmente in rapporto con Pisa (in Sardegna e in
Puglia), scuola che ne mantenne alcuni tratti essenziali, pur modificandosi nel
tempo e nei diversi centri. Fonti e Bibl.: B. Maragone, Annales pisani,
in Rerum Italic. Script., 2 ediz., VI, 2, a cura di M. Lupo Gentile, pp. 1 ss.;
R. Sardo, Cronaca pisana, a cura di O. Banti, Roma, D., ITER ROMANVM, in CODICE TOPOGRAFICO DELLA
CITTA DI ROMA, a cura di R. Valentini-G. Zucchetti, IV, Roma, Milizia, Mem.
degli architetti antichi e moderni, Parma 1781, p. 112; A. Da Morrona, Pisa
illustrata, Pisa, Morelli, Operette, II, Venezia 1820, pp. 285 ss.; R. Grassi,
Descriz. Stor.-artistica di Pisa, Pisa 1836, Parte storica, p. 124; Parte
artistica, pp. 22 ss.; G. Rohault de Fleury, Les monuments de Pise au Moyen
Age, Paris, Rossi, Inscriptiones christianae Urbis Romae, I, Romae, Dehio-G.
von Bezold, Die kirchliche Baukunst des Abendlandes, I, Stuttgart, Monini, B.
pisano, Pisa 1890; P. Schubring, Pisa, Leipzig Venturi, Storia dell'arte
italiana, III, Milano 1903, pp. 835 ss.; J. B. Supino, Arte pisana, Firenze, Pecchiai,
L'opera della Primaziale pisana, Pisa, Papini, Pisa, I, Roma, La costr. del
duomo di Pisa, in L'Arte, Bacci, Le fondaz. della facciata del sec. XI nel
duomo di Pisa, in Il Marzocco, Tronci, Il duomo di Pisa, a cura di P. Bacci,
Pisa 1922; M. Hauttmann, Die Kunst des frühen Mittelalters,Berlin, Salmi,
L'architettura romanica in Toscana, Milano-Roma, Toesca, Il Medioevo, I, Torino,
Guyer, Der Dom zu Pisa und das Rätsel seiner Entstehung, in Münchner Jahrbuch
der bildenden Kunst, Salmi, La genesi del duomo di Pisa, in Boll. d'arte,
Thümmler, Die Baukunst des XI. Jh.s in Italien, in Römisches Jahrbuch für
Kunstgeschichte, Ragghianti, Architettura lucchese e architettura pisana, in
Critica d'arte, Burger, L'architettura
romanica in Lucchesia e i suoi rapporti con Pisa, in Atti del Seminario di
storia dell'arte, Pisa-Viareggio, Sanpaolesi, La facciata della cattedrale di
Pisa, in Riv. dell'Ist. d'archeol. e storia dell'arte, Il restauro delle
strutture della cupola della cattedrale di Pisa,in Boll. d'arte, Burger,
Osservazioni sulla storia della costruzione del duomo di Pisa, in Critica
d'arte,VIII (1961), pp. 28 ss.; R. Barsotti, B. e Rainaldo, in Cattedrale di
Pisa (catal. della mostra), Pisa, Delogu, Pistoia e la Sardegna
nell'architettura romanica, in I Convegnointernaz. di storia e arte,Pistoia
Scalia, Ancora intorno all'epigrafe sulla fondazione del duomo pisano, in A G.
Ermini, Spoleto, Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, V, p. 289, s.v.
Busketus. Wikipedia Ricerca Circo di Nerone Circo scomparso della Roma
antica Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione
sull'argomento siti archeologici d'Italia non cita le fonti necessarie o quelle
presenti sono insufficienti. Circo di Nerone (o Vaticano) Sito archeologico
Roma Nero Circus.jpg Ricostruzione del Circo di Nerone in un disegno di Pietro
Santi Bartoli Civiltà Civiltà romana UtilizzoCirco Localizzazione StatoCittà
del Vaticano Mappa di localizzazione Il circo di Nerone era un impianto
per spettacoli dell'antica Roma lungo 540 metri e largo circa 100, che sorgeva
nel luogo dove oggi si trova la basilica di San Pietro in Vaticano, in una
valle che correva da dove si trova la parte sinistra della basilica fino quasi
ad arrivare al Tevere. L'area dei Carceres, da dove partivano le bighe, era
situata nel punto dal quale la Via del Sant'Uffizio lascia piazza Pio XI,
mentre quella del lato curvo va rintracciata qualche decina di metri dopo
l'abside della basilica di San Pietro. StoriaModifica L'opera, iniziata
da Caligola e completata da Nerone, era stata costruita all'interno della villa
di Agrippina Maggiore, villa che alla morte della madre di Caligola passò in
eredità a Nerone. Nel circo privato dell'imperatore si tenevano corse di
cavalli, bighe e quadrighe, molto popolari a Roma, tanto che in alcune
occasioni l'imperatore, che normalmente vi assisteva solo con la sua corte,
fece aprire le porte del circo al popolo romano. È probabile che l'impianto non
dovesse contenere più di 20.000 spettatori. Qui ebbero luogo, forse per
la vicinanza all'adiacente necropoli, alcune esecuzioni dei cristiani giudicati
colpevoli di aver causato il grande incendio di Roma. Nerone, secondo Tacito,
aggiunse lo scherno al supplizio. Come avvolgere gli uomini con pelli di
animali perché fossero dilaniate dai cani, o inchiodarli alle croci, o
destinarli al rogo come fiaccole, che illuminassero l'oscurità al termine del
giorno. Nerone aveva offerto i suoi giardini per lo spettacolo, e vi aveva
organizzato giochi circensi, mescolandosi alla folla in abito d'auriga o
guidando un carro da corsa. In tal modo si aveva pietà di quei condannati,
benché colpevoli e meritevoli del supplizio, perché venivano sacrificati non
per l'utilità pubblica ma per la crudeltà di uno solo.[1] Il circo fu
abbandonato già verso la metà del II secolo d.C. e l'area fu suddivisa e
assegnata in concessione ai privati per la costruzione di tombe appartenenti
alla necropoli. Tuttavia pare che fino al 1450 ne sopravvivessero ancora molti
resti, distrutti con la costruzione della nuova basilica vaticana.
L'obelisco, che era posto al centro della spina del circo, era stato per volere
di Caligola trasportato fin qui da Eliopoli, dove si trovava nel Forum Iulii.
Qui rimase fino a che papa Sisto V lo
fece spostare al centro di Piazza San Pietro. L'area dove sorgeva
anticamente il Circo di Nerone. Publio Cornelio Tacito, ''Annales, Basilica
di San Pietro in Vaticano Via Cornelia Altri progettiModifica Collabora a
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Nerone. Portale Antica Roma Portale Architettura
Portale Roma Necropoli vaticana Ager Vaticanus Via Cornelia Strada romana
antica Wikipedia Il contenutoGrice: “I thought it was a good idea of the
Anglo-Normans to retain the Anglo-Saxon idea of ‘time’ (as stretch – a rather
English root – cf. German ‘zeit,’ our ‘tide’ --, and borrow from Latin,
‘tempus’, which gives us ‘temporary’, as I use in my ‘Personal Identity,’but
also ‘tense’ – This tense is better than by vice/vyse, since vice and vyse are
both cognate with violence. But tense and tense are not. One is cognate with
Latin tension. The other is just a mispronounciation of Fremch ‘temps,’
Latin/Roman ‘tempus’ – So as Cicero would have it, it’s ‘tempus’ we should care
about!” -- Giovanni Dondi dall’Orologio. Giovanni De Dondi. Dondi. Keywords: l’astrarium,
Leibniz’s Law, time-relative identity, total temporary state (Grice: “I’m
thinking of Hitler”); Wiggins, Myro, The Grice-Myro Theory of Identity,
sameness and substance, Mellor, filosofia del tempo, Prior, Creswell, Mellor –
logica cronologica, ‘tense logic’ ‘tense implicature’ -- “iter romanorum”. Refs:
Luigi Speranza, “Grice e Dondi” – The Swimming-Pool Library. Dondi.
Grice e
Dorfles: l’implicatura conversazionale del kitsch – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste).
Filosofo italiano. Grice: “Must say my favourite Dorfles is his ‘artificio e
natura,’ on the doryphoros!”. Nato a Trieste nell'allora Austria-Ungheria da
padre goriziano di origine ebraica e madre genovese, si laurea a Trieste. Si
dedica allo studio della pittura, dell'estetica e in generale delle arti. La
conoscenza dell'antroposofia di Steiner, acquisita grazie alla partecipazione a
un ciclo di conferenze a Dornach, orienta la sua arte pittorica verso il
misticismo, denotando una vicinanza più ai temi dominanti dell'area mitteleuropea
che a quelli propri della pittura italiana coeva. Isegna a Milano, Cagliari
e Trieste. Fonda il Movimento per l’Arte Concreta (vs. arte astratta). del
quale contribuì a precisare le posizioni attraverso una prolifica produzione di
articoli, saggi e manifesti artistici. Prende parte a numerose mostre in Italia
e all'estero: espone i suoi dipinti alla Libreria Salto di Milano e in numerose
collettive, tra le quali la mostra alla Galleria Bompiani di Milano,
l'esposizione itinerante, e la grande mostra "Esperimenti di sintesi delle
arti", svoltasi nella Galleria del Fiore di Milano. Risulta
componente di una sezione italiana del gruppo ESPACE. Diede il suo contributo
alla realizzazione dell'Associazione per il Disegno Industriale. Si dedica
quindi in maniera pressoché esclusiva all'attività critica. Con la personale
presso lo Studio Marconi di Milano, torna a rendere pubblica la propria produzione
pittorica. L'arte non prescinde dal tempo per esprimere semplicemente lo
spirito della Storia universale, bensì è connessa al ruolo delle mode e a tutti
gli ambiti del gusto. Considerevole è stato il suo contributo allo sviluppo
dell'estetica italiana, a partire dal Discorso tecnico delle arti, cui hanno
fatto seguito tra gli altri Il divenire delle arti e Nuovi riti, nuovi miti.
Nelle sue indagini critiche sull'arte contemporanea si è sovente soffermato ad
analizzare l'aspetto socio-antropologico del fenomeno estetico e culturale,
facendo ricorso anche agli strumenti della linguistica. È autore di numerose
monografie su artisti di varie epoche (Bosch, Dürer, Feininger, Wols,
Scialoja). Pubblicato due volumi dedicati all'architettura (Barocco
nell'architettura moderna, L'architettura moderna) e un famoso saggio sul
disegno industriale (Il disegno industriale e la sua estetica). è il primo
a vedere tendenze barocche nell'arte moderna (il concetto di neobarocco sarà
poi concettualizzato da Calabrese) riferendole all'architettura moderna in:
Barocco nell'architettura moderna. Contribuisce al Manifesto dell'antilibro,
presentato ad Acquasanta, in cui esprime la valenza artistica e comunicativa
dell'editoria di qualità e il ruolo del lettore come artista. A Genova si
occupa anche del lavoro di Costa. Partecipa alla presentazione del libro
Materia Immateriale, biografia di Costa, Miriam Cristaldi, di cui Dorfles ha
scritto la prefazione. L'editore Castelvecchi ha pubblicato Horror Pleni. La
(in)civiltà del rumore, in cui analizza come la scoria massmediatica ha
soppiantato le attività culturali; Conformisti e Fatti e Fattoidi. Pubblica un
inedito d'eccezione, “Arte e comunicazione”, in cui mette la teoria alla prova
con alcune applicazioni concrete particolarmente rilevanti e problematiche come
il cinema, la fotografia, l'architettura. è uscito Irritazioni: un'analisi
del costume contemporaneo, uscito nella collana Le navi dell'editore Castelvecchi.
Con la sua ironia ha raccolto le prove della sua inconciliabilità con i tempi
che corrono. Nel saggio c'è una critica sarcastica e corrosiva all'attuale iperconsumismo.
NComunicarte Edizioni, pubblica 99+1 risposte di Dorfles nella collana Carte
Comuni. Un'intervista "lunga un secolo" con la quale il critico
ripercorre la sua vita e alcuni incontri d'eccezione: da ISvevo a Warhol, da
Castelli a Fini. La Triennale di Milano ospita la mostra "Vitriol,
disegni" Aldo Colonetti e Luigi Sansone; V. I. T. R. I. O. L. è un simbolo alchemico, acronimo del motto
rosa-crociano “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum
Lapidem”. Assieme ad artisti e autori come Anceschi, Enrico Baj, Marchesi,
Mulas e Niccolai, partecipa al numero quattordici di BAU.. Muor e a
Milano, nella sua casa di piazzale Lavater. Zio di Piero Dorfles, critico
letterario della trasmissione televisiva Per un pugno di libri (il padre di
Piero, Giorgio, era fratello di Gillo). Tra i riconoscimenti ricevuti:
Compasso d'oro dell'Associazione per il Design Industriale, Medaglia d'oro
della Triennale, Premio della critica internazionale di Girona, Franklin J.
Matchette Prize for Aesthetics. È stato insignito dell'Ambrogino d'oro dalla
città di Milano, del Grifo d'Oro di Genova e del San Giusto d'Oro di
Trieste. È stato Accademico onorario di Brera e Albertina di Torino,
membro dell'Accademia del Disegno di Città del Messico, Fellow della World
Academy of Art and Science, dottore honoris causa del Politecnico di Milano e
dell'Università Autonoma di Città del Messico. Palermo gli conferì la
laurea honoris causa in Architettura. Ricevette dall'Cagliari la laurea honoris
causa in Lingue moderne. Onorificenze Cavaliere di gran croce dell'Ordine
al merito della Repubblica italiana nastrino per uniforme ordinariaCavaliere di
gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, Di iniziativa del
Presidente della Repubblica» Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e
dell'arte nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della
cultura e dell'arte. Altre opere: “Barocco nell'architettura moderna” (Studi monografici
d'architettura, Libreria Editrice Politecnica Tamburini, illustrazioni); “Discorso
tecnico delle arti, Collana Saggi di varia umanità, Pisa, Nistri-Lischi,Il
pensiero dell'arte, Milano, Marinotti); “L'architettura moderna, Collana serie
sapere tutto, Milano, Garzanti); “Le oscillazioni del gusto e l'arte moderna” (Forma
e vita, Milano, Lerici); “Il divenire delle arti, Collana Saggi, Torino,
Einaudi, ed. accresciuta, Torino, Einaudi; Collana Reprints Einaudi, Bompiani);
“Ultime tendenze nell'arte”, Collana UEF, Milano, Feltrinelli); XXVII ed., UEF,
Milano, Feltrinelli); “Simbolo, comunicazione, consume” (Torino, Einaudi, Il
disegno industriale e la sua estetica, Bologna, Cappelli, Kitsch e cultura, in
Aut Aut, Nuovi riti, nuovi miti” (Torino, Einaudi, Milano, Skira, L'estetica
del mito (da Vico a Wittgenstein), Milano, Mursia, Kitsch: antologia del
cattivo gusto, Milano, Gabriele Mazzotta Editore); “Artificio e natura”
(Torino, Einaudi); Milano, Skira, Le oscillazioni del gusto. L'arte d'oggi tra
tecnocrazia e consumismo, Torino, Einaudi, Milano, Skira, “Senso e insensatezza
nell'arte d'oggi, ellegi edizioni, L'architettura moderna. Le origini dell'architettura
contemporanea; I quattro grandi: Wright, Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe);
Dall'espressionismo all'organicismo razionalizzato, dall'ornamented modern al
brutalismo, ai più avveniristici tentativi attuali, I Garzanti, Milano,
Garzanti, Dal significato alle scelte, Torino, Einaudi, Massimo Carboni,
Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi, Il divenire della critica, Collana Saggi,
Torino, Einaudi); “Le buone maniere, Milano, Mondadori, Mode & Modi,
Collana Antologie e saggi, Milano, Mazzotta, II ed. riveduta, Mazzotta, Introduzione
al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione di serie” (Torino,
Einaudi, L'intervallo perduto, Collana Saggi, Torino, Einaudi, Milano, Skira, I
fatti loro. Dal costume alle arti e viceversa, Milano, Feltrinelli, Architettura
ambigue. Dal Neobarocco al Postmoderno, Bari, Dedalo, La moda della moda, Collana
I turbamenti dell'arte, Genova, Edizioni Costa & Nolan, La (nuova) moda
della moda), Costa & Nolan, Elogio della disarmonia: arte e vita tra logico
e mitico” (Milano, Garzanti, Milano, Skira, Itinerario estetico, Milano, Studio
Tesi, Itinerario estetico. Simbolo mito metafora, Luca Cesari, Bologna,
Editrice Compositori); “Il feticcio quotidiano” (Milano, Feltrinelli, Massimo
Carboni, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi, Intervista come auto-presentazione,
con VII tavole di Giulio Paolini, Collana Scritti dall'arte, Tema Celeste
Edizioni, Preferenze critiche. Uno sguardo sull'arte visiva contemporanea, Bari,
Dedalo, Design: percorsi e trascorsi” (Design e comunicazione, Bologna, Lupetti,
Fulvio Carmagnola, Lupetti, Conformisti, Roma, Donzelli, Fatti e fattoidi. Gli
pseudo-eventi nell'arte e nella società, Vicenza, Neri Pozza, Massimo Carboni,
Roma, Castelvecchi, Irritazioni. Un'analisi del costume contemporaneo, Collana
Attraverso lo specchio, Luni, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Scritti di
Architettura, L. Tedeschi, Milano, Mendrisio Academy Press, Flavia Puppo,
Dorfles e dintorni, Milano, Archinto, Lacerti della memoria. Taccuini intermittenti,
Bologna, Editrice Compositori, L'artista e il fotografo, Verso l'Arte, Conformisti.
La morte dell'autenticità, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Horror Pleni.
La (in)civiltà del rumore, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi); “Arte e
comunicazione: comunicazione e struttura nell'analisi di alcuni linguaggi
artistici” (Milano, Mondadori Education, Inviato alla Biennale, A. De Simone,
Milano, Scheiwiller, 99+1 risposte, Lorenzo Michelli, Trieste, Comunicarte Edizioni,
Movimento Arte Concreta, Luigi Sansone e N. Ossanna Cavadini, Milano, Mazzotta,
Poesie, Campanotto Editore, L'ascensore senza specchio, Quaderni di prosa e di
invenzione, Milano, Edizioni Henry Beyle, Kitsch: oggi il kitsch, Aldo
Colonetti et al., Bologna, Editrice Compositori, Arte con sentimento. Conversazione,
Marco Meneguzzo, Collana Polaroid, Milano, Medusa Edizioni, Essere nel tempo,
Achille Bonito Oliva, Milano, Skira, Gli artisti che ho incontrato, Luigi
Sansone, Milano, Skira, La logica dell'approssimazione, nell'arte e nella vita,
Aldo Colonnetti, Silvana, Estetica senza dialettica. Scritti, al, Luca Cesari,Milano,
Bompiani, Paesaggi e personaggi, Rotelli, Milano, Bompiani, La mia America, Sansone,
Milano, Skira; "Interviene Gillo Dorfles", in alterlinus "Calligaro:
parole e immagini", in Preferenze critiche, Dedalo, "Né moduli, né
rimedi", in Agalma, "Disarmonia, asimmetria, wabi,
sabi", in Agalma, "Feticcio", in Agalma, "Barozzi", in Da Duchamp agli Happening.
Il Mondo di Pannunzio e altri scritti, Campanotto Editore, Traduzioni Rudolf
Arnheim, “Arte e percezione visive” (Milano, Feltrinelli, Arnheim, Guernica.
Genesi di un dipinto, Milano, Feltrinelli); Addio a D. «La mia vita infinita da
Francesco Giuseppe agli smartphone», su corriere. Cazzullo: la mia vita
infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone, Corriere della sera, 1 il Redazione,
Novità formali e riesumazioni di precedenti esempi, il contemporaneo è un
linguaggio nuovo di un sapere condiviso, QM, su quid magazine, biografia sul
sito delle Edizioni Il Bulino, Galliano Mazzon, Mostra antologia: Civico
Padiglione d'Arte Moderna, MMilano, Civico Padiglione d'Arte Moderna, Mostra
antologia di Galliano Mazzon: Civico Padiglione d'Arte Moderna, Milano, Luciano
Caramel, Arte in Italia, su Dioguardi Gianfranco, Processo edilizio e progetto:
vecchi attori alla ricerca di nuovi ruoli, Milano: Franco Angeli, Studi
organizzativi. Fascicolo, Corriere della Sera, Cfr. la raccolta degli scritti raccolti
in Architetture Ambigue: Dal Neobarocco al Postmoderno, Dedalo, Bari Di
Giovanni Marilisa, Il corpo, nuova forma: la “body art”; Cheiron: materiali e
strumenti di aggiornamento storiografico. Lecta web, arte e comunicazione. Vitriol
Triennale, Sussidiaria: GPS/GaPSle Forbici di Manitù (BAU14). Celeste Prize BAU
14 Gnoli, D. il rivoluzionario critico d'arte, La Repubblica, Bucci, Morto, critico poliedrico. Corriere
della Sera, Addio ad Alma D., signora di cultura, Il Piccolo, Sito web del
Quirinale: dettaglio decorato., su Quirinale, dettaglio decorato., su
Quirinale, Intervista su conoscenza.rai. Mandelli, Capire l'arte contemporanea su
youtube.com D., «Mi sveglio, lavoro. Amo il vino», in Corriere della Sera, Cazzullo,
la mia vita infinita da Francesco
Giuseppe agli smartphone, in Corriere della Sera. Natura insieme degli esseri viventi e
inanimati considerato nella sua forma complessiva Lingua Segui Modifica
Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento scienza è solo un abbozzo.
Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i
suggerimenti del progetto di riferimento. Per natura si intende l'universo
considerato nella totalità dei fenomeni e delle forze che in esso si
manifestano, da quelli del mondo fisico a quelli della vita in generale.
Paesaggio naturale Storia del concetto Natura (filosofia). Il termine
deriva dal latino Natura e letteralmente significa "ciò che sta per
nascere": a sua volta deriva dalla traduzione latina della parola greca
physis Il concetto di natura come una totalità che va a comprendere anche
l'universo fisico è una delle molte estensioni del concetto originale; sin
dalle prime applicazioni di base della parola φύσις da parte dei filosofi
presocratici, esso è entrato sempre più nell'uso corrente[1]. Questa
concezione è stata riaffermata con l'avvento del moderno metodo scientifico
negli ultimi secoli. Natura e ambienteModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ambiente (biologia). I boschi
fanno parte del gruppo della Natura. La "natura" può riferirsi alla
sfera generale delle piantee degli animali, ai processi associati ad oggetti
inanimati, al modo in cui determinati tipi di forme esistono ed ai cambiamenti
spontanei come i fenomeni meteorologici o geologici della Terra, la materia e
l'energia di cui tutte queste realtà sono composte. Viene inteso come ambiente
naturale il deserto, la fauna selvatica, le rocce, i boschi, le spiagge, i mari
e gli oceani, e in generale quelle cose che non sono state sostanzialmente
modificate dall'intervento umano, o che persistono nonostante l'intervento
dello stesso. Ad esempio, i manufatti e le trasformazioni umane in genere non
sono considerati parte della natura, venendo preferibilmente qualificati come
una natura più complessa. Più in generale, la natura comprende i seguenti
contesti e dimensioni della realtà: TerraModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Terra. Ulteriori informazioni Questa
voce sull'argomento ecologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla
secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di
riferimento. La Terra è il luogo primigenio degli esseri umani, che ospita la
vita come da noi concepita e conosciuta. Sulla sua superficie si trova acqua in
tutti e tre gli stati (solido, liquido e gassoso) e un'atmosfera composta in
prevalenza da azoto e ossigeno che, insieme al campo magnetico che avvolge il
pianeta, protegge la Terra dai raggi cosmici e dalle radiazioni solari.
La sua formazione è datata a circa 4,54 miliardi di annifa.[3]
VitaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Vita. PianteModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Piante. Le piante (Plantae Haeckel, 1866) sono organismi unio
pluricellulari, che comprendono tutti i vegetali, soggetti a nascita, crescita,
riproduzione e decesso.[4] AnimaliModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Animali. Ulteriori informazioni
Questa voce sull'argomento ecologia è solo un abbozzo. Contribuisci a
migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del
progetto di riferimento. Gli animali comprendono in totale più di 1.800.000
specie di organismi classificati, presenti sulla Terra dal periodo ediacarano.
Il numero di specie via via scoperte è in costante crescita, e alcune stime
portano fino a 40 volte di più la numerosità accertata. Delle 1,5 milioni di
specie animali attuali, 900 000 sono appartenenti solo alla classe degli
Insetti.[6] Ecosistemi Ecosistemi. Una tempesta. Gli ecosistemi
sono costituiti da una o più comunità di organismi viventi (animali e
vegetali), e da elementi non viventi (abiotici), che interagiscono tra loro;
una comunità è a sua volta l'insieme di più popolazioni, costituite ognuna da
organismi della stessa specie. L'insieme delle popolazioni, cioè la comunità,
interagisce dunque con la componente abiotica formando l'ecosistema, nel quale
si vengono a creare delle interazioni reciproche in un equilibrio dinamicocontrollato
da uno o più meccanismi fisico-chimici di retroazione (detti anche
"feedback"). Carl Troll, dall'esame di alcune serie storiche di
foro aeree, notò che gli ecosistemi mostravano una tendenza ad aggregarsi in
configurazioni unitarie (denominate principalmente Macchie, Isole e Corridoi).
Ricordando la dizione di Alexander von Humboldt, Troll chiamò tali formazioni
"paesaggi". Ipotesi GaiaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ipotesi Gaia. L'ipotesi Gaia è la
teoria, inizialmente avanzata da James Lovelock nel 1969, ma già anticipata da
Giovanni Keplero nel diciassettesimo secolo, secondo la quale tutti gli esseri
viventi sulla Terra contribuirebbero a comporre un vasto ed unico organismo
(chiamato Gaia, dal nome della dea greca), capace di autoregolarsi nei suoi
vari elementi per favorire a sua volta le condizioni generali della vita.
Naturale e artificialeModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Natura e artificio. Il concetto più tradizionale della
natura, che può essere usato ancora oggi, implica una distinzione tra naturale
ed artificiale: con "artificiale" si intende cioè che è stato creato
dall'opera o da una mente umana. A seconda del contesto, il termine
"naturale" potrebbe anche essere distinto dall'innaturale, dal
soprannaturale e dall'artefatto.[7] Bottega dello scultore,
miniatura del XV secolo che raffigura l'opera umana di modifica degli elementi
e degli arredi naturali Le difficoltà nella definizione stessa della
naturacomportano un'ambiguità nel rapporto tra uomo e natura.[8] Alle volte il
concetto è usato in senso derivato per riferirsi a quelle zone create
dall'uomo, ma dove grande spazio è riservato alle popolazioni vegetali e
animali. Si può parlare ad esempio della natura di una foresta, anche se
coltivata e sfruttata da secoli. In tal caso ci si riferisce a una modalità di
gestire l'ambiente da parte degli umani, piuttosto che all'assenza di
intervento umano. L'idea di natura è stata rielaborata dalla cultura
urbanache ha formulato la mitica nozione di barbarie per definire tutto quanto
si pone al di fuori della civiltà. Il fatto che il termine «selvaggio» venga
usato da un lato come sinonimo di «naturale», dall'altro per denotare certi
atti come particolarmente violenti o efferati, mette in evidenzia una certa
tendenza ideologica, piuttosto inconsapevole, a considerare parte della natura
come estranea alla culturadominante, come qualcosa di primitivo se non di
malevolo.[9] Paradossalmente accade anche che, in altri contesti, la parola
«naturale» possa venire usata nel linguaggio corrente come sinonimo di «normale»,
«legittimo» o «logico», come la fonte cioè dei principi più retti dell'uomo
civilizzato.[10] Lo sviluppo della scienza e della tecnologia negli
ultimi due secoli è stato a sua volta in gran parte accompagnato da una certa
contrapposizione ideologica tra uomo e natura; la conoscenza viene generalmente
considerata uno strumento di dominio della natura piuttosto che un mezzo per
vivere in armonia con essa. L'epoca moderna ha visto d'altra parte lo sviluppo
della teoria della legge naturale, che pone in risalto i diritti dell'uomo, il
quale sarebbe stato dotato dalla natura di prerogative inalienabili; in tale
contesto si fa riferimento ad una natura umana senza implicare necessariamente
l'appartenenza ad una natura ancestrale.[11] Tutela della naturaModifica
Lo sfruttamento del suolo e il problema dello smaltimento dei rifiuti procede
di pari passo con la crescente urbanizzazione. La crescente industrializzazione
ed urbanizzazione del pianeta ha posto il problema della conservazione della
natura in forme nuove e sempre più urgenti. Agli ambienti naturali si sono
andati via via sostituendo paesaggi artificiali, che oltre a distruggerne
l'amenità, ne hanno alterato la loro peculiare storia ecologica. Sin dalla
preistoria l'uomo è intervenuto a modificare il paesaggio naturale, attraverso
disboscamenti e l'introduzione di colture e animali di importazione, con grave
danno per la flora e la fauna locali, oltre che di quelle non addomesticabili.
Ma è stato soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale che l'umanità si
è dotata di mezzi molto più invasivi, che deturpano gli ambienti fino a
provocarne spesso la desertificazione.[2] Fra le principali cause della
distruzione della natura vi sono: inquinamento, ed emissioni di gas
serra; sfruttamento delle risorse naturali, deforestazione, agricoltura
intensiva con uso di pesticidi, pescamassiccia; estinzione di numerose specie
viventi; ignoranza dell'ambiente biofisico, mancanza di cultura ecologica. Alle
alterazioni della natura ha contribuito inoltre la crescita esponenziale della
popolazione umana, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo.[2] Con la
ricerca scientifica si riesce soltanto a rimediare per lo più parzialmente ai
danni, cercando di razionalizzare lo sfruttamento del suolo, arginare la
diffusione dei parassiti e limitare l'inquinamento. Per il resto, la lenta
crescita di consapevolezza dell'importanza di tutelare la natura nei paesi
industrializzati ha portato a provvedimenti come l'istituzione dei parchi
naturali, sin dal XIX secolo.[2] Dopo la seconda guerra mondiale sono
sorte alcune organizzazioni internazionali per la difesa della natura come
l'IUCN, il WWF, l'UNESCO, l'UNEP. Dagli anni ottanta le varie nazioni del
pianeta hanno iniziato a partecipare a delle conferenze su scala globale per
trattare soprattutto dei problemi del clima, con risultati di scarsa
efficacia.Ducarme e Denis Couvet, What does 'nature' mean?, in Palgrave
Communications, vol. 6, n. 14, Springer Nature, Natura, su treccani.i Newman,
Age of the Earth, in U.S. Geological Survey's Geologic Time, Pianta, su
treccani Baccetti B. et al, Trattato Italiano di Zoologia nsect Species, su
infoplease.com. URL consultato il 27 dicembre 2018 (archiviato il 3 ottobre
2012). ^ John Rawls, Lezioni di storia della filosofia morale, cap. 3,
Feltrinelli, Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti
della civiltà, Feltrinelli, 2000, p. 169 e segg. ^ Franco Brevini, L'invenzione
della natura selvaggia. Storia di un'idea dal XVIII secolo a oggi, Bollati
Boringhieri, Pollo, La morale della natura, cap. 4, Laterza, 2008 ^ Sergio
Belardinelli, La normalità e l'eccezione: il ritorno della natura nella cultura
contemporanea, Rubbettino, 2002. Voci correlateModifica Ambiente naturale
Ecologia Filosofia della natura Ipotesi Gaia Natura (filosofia) Naturalismo
Scienze naturali natura, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata natura, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Natura, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Opere riguardanti Natura, su Open Library,
Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Natura, in Catholic Encyclopedia,
Robert Appleton. Ducarme e Denis Couvet, What does 'nature' mean?, in Palgrave
Communications, Springer Portale Ecologia e ambiente Portale
Scienza e tecnica Ecosistema porzione di biosfera delimitata naturalmente
Ecologia branca della biologia che studia le interazioni tra gli organismi e il
loro ambiente Ecosistema terrestre Madre Natura personificazione della
natura Lingua Segui. Madre Natura è la personificazione della natura.
Joseph Werner, Diana di Efeso come allegoria della Natura, 1680
circa CaratteristicheModifica Madre Natura, figura dal trattato Atalanta
Fugiens (XVII secolo) Essa (a volte conosciuta come Madre Terra) è la comune
personificazione della natura focalizzata intorno agli aspetti di donatrice di
vita e di nutrimento, incarnandoli nella figura materna. Immagini di
donnerappresentanti madre natura, o la madre terra, sono senza tempo.
In età preistorica le dee erano venerate per la loro associazione con la
fertilità, la fecondità e l'abbondanza agricola. Le sacerdotesse mantenevano il
dominio di vari aspetti religiosi delle civiltà Inca, Algonchina, Assira, Babilonese,
Slava, Germanica, Romana, Greca, Indiana e Irochese per millenni prima
dell'inizio delle religioni patriarcali. Talvolta viene indicata come la
sposa di Padre Tempo. Grande Madre Gea Tellus Mati Zemlya Pachamama Altri
progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Madre Natura.Teteoinnan dea azteca della guarigione, e
dei bagni di vapore. Madre Russia personificazione nazionale della
Russia Padre Tempo personificazione del tempo. Gillo Dorfles. Angelo
Eugenio Dorfles. Dorfles. Keywords: filosofia del kitsch, “Artificio e Natura,
natura, artificio, communicazione, mito, simbolo, segno, linguaggio,
interpretazione, semiotica, disarmonia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Dorfles” – The Swimming-Pool Library. Dorfles.
Grice e
Doria: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo italiano. Grice: “I love Doria: a nobleman who should be sailing off
Portofino, is writing a ‘progetto di metafisica’ after discussing the ‘filosofia
degl’antichi’ – you HAVE to love him! Plus, he philosophised WHILE sailing!” Figlio
di Giacomo e Maria Cecilia Spinola, appartenente alla nobile casata dei Doria
Lamba dalla quale provennero ben quattro dogi della repubblica di Genova, ha
un'infanzia travagliata segnata a cinque anni dalla morte del padre. L'uscita
dalla famiglia delle tre sorelle lo fa rimanere solo con la madre che influenza
negativamente il suo carattere melanconico ma vivace, il suo desiderio di virtù
e Gloria. La madre, che egli accusa esser stata de' miei errori la prima e
principal cagione, si era disinteressata del figlio limitandosi ad affidarne l'educazione
a filosofi bigotti che lo fano crescere con la paura delle malattie e della
morte, che gli viene indicata dai suoi educatori gesuiti come un positivo
castigo all’uomino re. Divenne quindi vivace e grazioso nelle
conversazioni affabile con tutti, facile e condiscendente con gli amici e allo
stesso tempo pieno di sé e fatuo divenendo un Petit Maitre disinvolo e alla
moda, e prende per idea di virtù vera ed esistenta ogni vanità e molte volte prende
con l’idea di virtù il vizio ancora! Pieno di sé e fatuo. Compì con la madre il
“grand tour” – Firenze, Capri, Girgentu -- dei ‘viri’ ben nato dal quale ne
usce libero dall’inibizione religiosa, ma con un nuovo abito di un anima
viziosa, la quale lo fa mirare come idea di virtù la rilassatezza nel senso, la
prepotenza con i deboli e la vendetta. Tornato a Genova, la trovò bombardata
dal mare dalle navi di Luigi XIV. In quell'occasione conosce il conte di Melgar
che l’avvia nell’arte militare e lo introduce nel giro del patriziato
mondano. Innamoratosi fortemente di una meritevole donna che muore poco
tempo dopo, cadde in depressione e per distrarsi dal dolore riprese i suoi
dispendiosi viaggi. Ridotto in ristrettezze economiche si reca a Napoli per
recuperare certi suoi crediti ma dove lottare per districarsi dalla palude di
leggi e cavillose procedure al punto che si mise a studiare filosofia con un
certo profitto per ottenere dal tribunale quanto gli spetta. La sua fama
di spadaccino gli fa guadagnare la simpatia del patriziato napoletano che
ritiene massime di cavagliero che fusse atto di disonore e di vergogna il non
punire un uomo a sé inferiore quando si ha da quello qualche offesa ricevuto, e
che il perdonare generosamente fusse vergogna. Ma poscia era massima d'estrema
vergogna il non chiamare a duello un nobile a sé uguale quando da quello
si era qualche offesa ricevuta. Si diede quindi a duellare per qualsiasi
puntiglio cavalleresco tanto da essere messo in prigione aumentando così la sua
fama di duellista e vendicativo presso la nobiltà locale. Comincia a
disgustarsi di questa sua vita fatua e falsa trasformandosi in filosofo
metafisico ed entrando nella cerchia degli intellettuali cartesiani e
gassendisti che caddero sotto l'attacco della Chiesa preoccupata che il loro
sensismo approdasse a un conclamato materialismo. La posizione della Chiesa fu
esplicitata dal grande processo contro gl’ateisti, quegli intellettuali che si
erano illusi di poter modernizzare la dottrina cattolica. Si schierò con
questi frequentando il salotto filosofico Caravita che si era già battuto
contro l'Inquisizione e che era divenuto il centro di diffusione della
filosofia cartesiana. Qui D. ha modo di conoscere il protetto di Caravita, quel
VICO (si veda) che scriverà del genovese che «fu il primo con cui poté
cominciare a ragionar di metafisica nella quale si intravedevano «lumi
sfolgoranti di platonica divinità. Per organizzarsi contro le polemiche dei
tradizionalisti, sostenuti dalla Chiesa cattolica, il Caravita pensò di fondare
un'associazione di intellettuali modernisti che, dopo diverse difficoltà, finalmente
vide la luce col nome di Accademia Palatina e che annoverava fra i 18 soci
fondatori anche Doria che pronunzia in quella sede lezioni concernenti la
teoria politica (Sopra la vita di Claudio imperadore) dove sostene la
superiorità della nobiltà per virtù e non per nascita, e dove contestava la
base valoriale dell'aristocrazia fondata sull'uso delle armi (Dell'arte
militare, Del conduttor degl'eserciti, Del governatore di piazza, Della
scherma). La guerra, scriveva D., non e un privilegio della nobiltà di spada ma
un'attività che richiede l'applicazione di una tecnica e il comando affidato a
ufficiali competenti nel dirigere l'animo umano (Il capitano filosofo,
Napoli) Pubblica la Vita civile e l'educazione del principe, criticata da
alcuni per alcuni fraintendimenti sul pensiero di Cartesio. Non ha inteso il
Cartesio, o ad arte ne tronca o perverte
il senso. Critica la politica di Tacito e Machiavelli sostenendo che questa va
basata non sopra l'idea degli uomini quali sono ma sulla virtù, il giusto e l'onesto».
Lo Stato anda guidato, come dettava l'insegnamento platonico, dal filosofo facendosi
così sostenitore, secondo le nuove idee riformatrici che cominciavano a
circolare in Europa, di un assolutismo moderato nel Regno di Napoli. Doria
cominciò ad interessarsi a temi scientifici mandando alle stampe le sue
Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili e de' corpi
insensibili (Augusta) e una Giunta d iM. Doria al suo libro del Moto e della
Meccanica. Opere queste, dove si critica il metodo di GALILEI (si veda) e si
mette in discussione la distinzione cartesiana fra res extensa e res cogitans
in nome del principio neo-platonico dell'Uno immateriale, che non ebbero il
successo sperato e vennero anzi aspramente criticate da più parti. Divenne un
personaggio ambito da nobili e femmes savantes che lo invitavano nei loro
circoli culturali dove riceve numerosi attestati di stima. Per ricambiare le
nobili dame, sue discepole, pubblica i Ragionamenti ne' quali si dimostra la
donna, in quasi tutte le virtù più grandi, non essere all'uomo inferior. La
donna ha gli stessi diritti naturali dell’uomo e puo governare e fondare grandi
imperi ma non e adatte fisiologicamente a formulare leggi per le quali occorre
una sapienza storica e filosofica. Cartesio infatti aveva errato nel credere
che Dio avesse dato a tutti eguale abilità per intender le scienze, mentre iddio
non ha ugualmente a tutti gli uomini distribuito e perciò vediamo che molti non
son capaci nelle scienze. Quindi la donna che egli ammirava moltissimo e che lo
ricambiavano con tante lodi, deve tuttavia accontentarsi di poter dirigere lo
stato ma non puo essere legislatrice. Un rapporto questo con l'altro sesso che
rimase problematico per Doria che non volle mai sposarsi ritenendo il
matrimonio una legge dura che non trova precisa corrispondenza nella teologia.
Si considera ormai un filosofo metafisico e mattematico che adottando il
platonismo ha pressoché distrutto li saggi di filosofia di Locke ed in parte
ancora la filosofia di Cartesio. Compiva un capovolgimento delle sue
convinzioni moderniste passando nel campo degli antichi quando il suo Nuovo
metodo geometrico (Augusta) e i Dialoghi ne' quali s'insegna l'arte di
esaminare una dimostrazione geometrica, e di dedurre dalla geometria sintetica
la conoscenza del vero e del falso (Amsterdam), furono aspramente criticati da
parte della rivista Acta eruditorum. Ancora più aspre le contestazioni ricevute
a Napoli che gli costarono un sonetto denigratorio che così recitava. Di rispondere
a te nessun si sogna /de' nostri, e strano è assai che Lipsia mandi/ risposta a
un uom che 'l matto ognun lo noma. Illustrazione
alla recensione pubblicata sugli Acta Eruditorum al Capitano filosofo. Gl’Oziosi,
dove profuse tutte le sue energie nel criticare i moderni, seguaci del pensiero
filosofico di Locke, dell'Accademia delle scienze di Celestino Galiani che
aveva detto di lui «il Doria ha ristampato tutte in un corpo le sue
coglionerie. Con l'avvento del re riformista Carlo III di Borbone nel Regno di
Napoli, si trova completamente isolato col suo platonismo pratticabil che
continua a difendere scrivendo “Il Politico alla moda”. Si rendeva ormai conto
di come fosse irrealizzabile il suo ideale di un governo ad opera del concetto
di “sovrano virtuoso” e di “filosofe legislatore.” Il magistrato, il capitano,
il sacerdote e tutti gli ordini che governano hanno diviso la filosofia dalla
politica per unire alla politica la sola prattica; ormai i principi scriveva vogliono
governare lo stato colla politica del mercadante, e non con la politica del
filosofo. Constatava come vi fosse ormai una generale crisi dei valori perché
in questo nostro tempo si corre dietro solamente alla perniciosa filosofia di
Locke e di Newton e si pratica solamente la politica mercantile. Completamente
ignorato dall'ambiente intellettuale, D. malato e in difficoltà economiche
muore indicando nel suo testamento la volontà che fosse pubblicata a spese di
un suo cugino, a saldo di un debito da questi contratto, l'opera “Idea di una
perfetta repubblica”. Quando il saggio e infine edito fu condannato dai
revisori ad essere bruciato per il suo contenuto contro Dio, la religione e la
monarchia. In realtà contesta il celibato ecclesiastico, l'indissolubilità del
matrimonio, la castita, l'eternità delle pene inflitte ai dannati e l'ideologia
etico-politica dei gesuiti. Il governo perfetto doveva essere a imitazione
di quello della Roma repubblicana, perché posto il governo in mano agli uomini,
è forza che sia moderato da un magistrato ordinato alla difesa del popolo
contro la tirannia. Gli unici a esecrare il rogo del saggio furono proprio i giuristi
napoletani difendendo i libri di quel savio e cordato vecchio di D., di cui s'infama
la venerata memoria. E al centro del saggio “La distruzione della fiducia e le
sue conseguenze economiche a Napoli”. Si argumenta che il governo nell'azione
di depredazione del Regno di Napoli ha spogliato i loro sudditi della virtù e
della ricchezza, introducendo al posto loro ignoranza, infamia, divisione e
infelicità. Altra azione, che si rivelerà in seguito disastrosa per la società
napoletana e in genere per il Mezzogiorno, fu lo smantellamento dei rapporti
inter-personali di fiducia tra le diverse classi, necessari per lo sviluppo dei
commerci e dell'iniziativa privata e l'introduzione di una cultura dell'onore
attraverso l'infoltimento dei ranghi nobiliari, il rafforzamento
dell'Inquisizione, l'inasprimento della segretezza dell'attività di governo,
l'incremento delle cerimonie religiose e di devozione ritualizzata, l'aumento
della diseguaglianza davanti alla legge e infine l'indebolimento apertamente
perseguito del rapporto armonioso che si era creato in passato tra i diversi
ordini del Regno: tutto ciò al fine di scoraggiare, minando la fede pubblica,
l'ascesa di una classe imprenditoriale-commerciale che avanzasse i propri
diritti e rompesse l'equilibrio dei poteri tra la corte e il patriziato locale
che gli spagnoli intendevano mantenere. Tutti questi fattori, lesivi di quel
rapporto di fiducia tra le classi necessario per l'avvio e il consolidamento
dell'attività di co-operazione e di intrapresa economica, non tarderanno a
produrre effetti duraturi sulla società meridionale, non solo a livello
mentale-culturale, e di converso a livello economico, costituendo uno dei
fattori prodromici dell'arretratezza socio-economico-culturale del Mezzogiorno
d'Italia. Altre opere: “Considerazioni sopra il moto e la meccanica de'
corpi sensibili, e de' corpi insensibili, In Augusta [i.e. Napoli?, Daniello
Hopper); “Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili, e
de' corpi insensibili. Giunta, In Augusta [i.e. Napoli?, Daniello Hopper; Dialoghi,
Amsterdam, Esercitazioni geometriche, In Pariggi, Duplicationis cubi
demonstration” (Venezia); “Discorso apologetico” (Venezia); “Soluzione del
problema della trisezione dell'angolo” (Venezia); “Vita civile” (Napoli, Angelo
Vocola. Pierluigi Rovito, Dizionario Biografico degli Italiani. “L’arte di conoscer se stesso, in De Fabrizio,
Manoscritti napoletani. Autobiografia, in Cristofolini, Opere filosofiche, R.
Ajello, Diritto ed economia, Vita civile, ed. Augusta, S. Rotta in Politici ed
economisti del primo Settecento. Dal Muratori al Cesarotti, V, Milano-Napoli,
L'arte di conoscere se stesso. Eugenio Di Rienzo, GALIANI, Celestino in
Dizionario Biografico degli Italiani, V. Ferrone, Scienza natura religione.
Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, Manoscritti,
La Politica mercantile, Manoscritti, Idea di una perfetta repubblica "accorato" Ajello. Segnatamente: Del commercio del Regno
di Napoli, in E. Vidal, Il pensiero civile di Paolo Mattia Doria negli scritti
inediti, Istituto di Filosofia del diritto dell'Roma; Della vita civile,
Torino; Massime del governo spagnolo di Napoli, V. Conti, Guida, Napoli Contenuto
nel volume miscellaneo Diego Gambetta, Le strategie della fiducia, Einaudi,
Torino, D. Gambetta, Pierluigi Rovito, «DORIA, Paolo Mattia», in Dizionario
Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roberto
Scazzieri, Il Contributo italiano alla storia del Pensiero Economia, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Giulia Belgioioso, Il Contributo italiano
alla storia del PensieroFilosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
E. Vidal, Il pensiero civile di D. negli scritti inediti, Istituto di Filosofia
del diritto dell'Roma. Fondatore di Roma e primo re de' romani. Romolo fu il
primo re de’ romani e padre della romana republica. Uomo primieramente d’ardentissimo
animo e per le armi grande. E così fatto certamente l'aveva disposto la
fortuna a quello che dovea seguire. Per la cui opera, in tratante
minaccie di vicini , di spinose montagnie surgesse il fondamento dello’mperio
che dovea crescere infino al cielo. Perchè non si potea porre sicuramente
tanta grandezza in debole fondamento. Sì gran cosa richiedea terra
salda e duca d’alto animo. E così e, che dove prima a pena e assai
erba per lo armento d’Ercole, e dove prima a pena solea essere assai
fronde per le capre di Faustulo, in quello luogo puose la fortezza di
tutte le terre e la somma signoria delli uomini. Dunque costui CON REMO
SUO FRATELLO (e insieme con Rea Silvia, la quale e chiamata Ilia, madre
senza dubio) creduto o fitto FIGLIUOLO DI MARTE, incontanente com’elio
nacque prova la crudeltà di Amulio, re dell’albani , e non
solamente contro alla madre, ma eziandio contro a sé e CONTRO AL SUO
FRATELLO. Dal quale Amulio e comandato eh' ellino fossero gittati NEL TEVERE. E
a caso elli sono liberati, o che fosse per divina provedenzia, la
qual cosa è lecito di credere dello imperio che dovea essere sì
grande, quella provedenzia apparecchiante non sperato cominciamenlo
alle grandissime cose. Soperchiando il fiume a caso le ripe e non
potendosi andare a quello, furono gittati quelli fanciulli presso
alla ripa; e, partendosi li famigliari del re, i quali li avevano gittati,
rimasono salvi. A questo luogo, TRATTA DAL PIANTO DI QUESTI FANCIULLI,
venne una lupa (o eh' ella fosse vera o ch'ella fosse cosa finta,
dell'una e dell' altra è nominanza), e , com’ella avesse compassione,
venne a questo luogo, del cui latte elli sono nutricati , traendo con li labri
il latte delle tette della detta fiera, infino che furono trovati da
Faustulo pastore del re, il quale di sopra avemo nominato, e la lupa
similmente, essendo discresciuto il fiume; e in fino agli anni della
pubertà coli' amore del padre sono nutricati. Ma allora più di dì
in dì il suo vigore si mostrava e per effetto diventava Famoso. Già sono cari
da ogni parte e ampiamente sono terribili, ogni cosa ardivano; già il suo
notricatore, per le opere informato, comincia a fermarsi in quella
openione ch'egli aveva pensalo, cioè quelli essere figliuoli del
re. Questo celato per alcuno tempò, finalmente apparve: preso Remo da'
famigli del re e datogli pena, per consolare la ingiuria fu dato a NUMITORE
suo avolo per parte di madre, nel cui terreno tramendue i frategli
avevano fatte correrie. Il quale veduto, non mosso ad ira, com'è usanza, per l'
ingiuria ricevuta, ma mosso verso di quello con una nascosa dolciezza, e
udito ch'elli sono due, considerato da l'una parte l'etade di quelli, da
l'altra l'aspetto nobile e non di pastori, vennegli a memoria i suoi
nipoti; e , dimandando pianamente delle circostanzie, trova poco
meno che costui e l' uno de' suoi nipoti, e di questo non dubita. Però
elio il tene in più libertà, e non come preso ma come suo , come
veramente elio e. E questa e più diritta via a distruzione del re, perchè
manifestato a Romolo non solamente la condizione del presente stato del
fratello, ma la nazione di tramendue nascosta infino a quello tempo;
ammonendoli colui, ch'e tenuto padre, ch'elli non sono suoi figliuoli ma sono
di schiatta reale; e, spostali per ordine l’ingiuria di quegli e
con questa l’ingiuria di suo avolo e di sua madre, fatto Romolo più
animoso , conosciuto il fatto , dispuosesi non solamente a LIBERARE IL
FRATELLO, ma vendicare sé e '1 fratello e l'avolo e la madre, non
manifestamente perchè era dispari in possanza , ma pianamente mandati
alcuni giovani di qua e di là, i quali si trovassono a una ora nella
casa del re. Così disposti gl’agguati, e a tempo accorrendo Remo, corsono
contra Amulio, il quale non si guarda e non pensa sì fatto
pericolo. Morto Amulio, NUMITORE fratello di quello, e innanzi cacciato
da lui, fu ristituito nel regno, essendo allegro, non meno per la
condizione de'trovati nipoti, che per avere acquistato il nonne sperato
regnio. Da poi, perchè elli erano di grande animo, e '1 regno di suo
avolo gli paree picciolo, lassano Alba all'avolo. E, amando il luogo della sua
puerizia ovvero del suo pericolo, procurarono di fondare nuova terra in
quello luogo. E così, per buono agurio, edificarono aspera e, acciò
ch'io dica più propriamente, pastorale casa in SUL MONTE PALATINO. E fu posto
alla terra il nome di Romolo solamente, essendo vinto il fratello nello
agurio: il quale nome e temuto poi al mondo da li popoli e dai re.
Poi, o che tra quelli fosse nata discordia, o che fosse perchè egli avesse
dispregiato il comandamento del fratello, Remo, avendo passato il nuovo
muro, E MORTO. O che e per cupidità della signoria, o per rigore di
giustizia, la credenza è varia nelle cose antiche. Romolo, avendo
presa la signoria, ordina sacrifici della patria e forestieri, e prende
abito di re e ornamenti, e ordina XII littori, e compone la legge.
Solo a fermezza del popolo e fondamento di pace e di concordia tre cose
sommamente li pare di provedere : il consiglio , e io accrescere della
cominciata città, e la durabilità; perchè era in picciola terra pochi abitatori.
E per questo gli e speranza di brevissimo tempo, mancando la
cagione del generare de' figliuoli. Dunque primieramente furono eletti C
antichi al Senato, chiamando questo ordine dalla etade, perchè il
nome de' padri e detto dallo amore e da la cura della republica. Secondo,
intra due boschi fu posto uno tempio chiamano asilo -- i greci il
chiamano santo -- il quale stando aperto, grande turba incontanente venne
di vicini paesi; la terza cosa parea che si dove fare con matrimoni -- perchè
soli i maschi non poteano durare se non una etade -- ; la qual cosa
, perchè e negata da' vicini superbamente e vituperosamente, si fa per forza e
per ingegnio. Perchè in questo mezzo, non mostrando l'ira e il
dolore d'essere rifiutato, il re apparecchiò di fare solenni giuochi a Nettunno
, e comanda di fare dinunziare il dì per li popoli vicini. II quale poi che
sopravenne, molti maschi e femmine delle terre vicine a Roma vennero per
vedere i giuochi, e non meno per cupidità di vedere quella nuova terra
quasi nata di subito. Nel mezzo de’ giuochi, essendo ogni uomo attento
con gli occhi e con l'animo, diliberatamente SONO PRESE TUTTE LE FANCIULLE,
non a fine di sua vergognia, ma di tenerle per mogliere e per avere
figliuoli. Dunque confortate con buone parole, tra lo isdegno e le
lacrime, pelle lusinghe di quegli li quali l'aveano prese, prima Romolo,
e poi gli altri , una per uno ne tolseno per moglie: e questo e cagione e
cominciamento di molte battaglie. I padri e i parenti di queste
fanciulle, lamentatisi della forza e della malvagità de' suoi osti, dai
quali ellino, invitati a giuochi, sono stati offesi per gravissima
ingiuria, incontanente uscirono fuori della terra e tornarono a
casa; e, moltiplicando le lamentanze, aggravarono l'offesa, e pigliarono
l'arme e apparecchiaronsi di fare la vendetta. E di lutti i popoli
si fece una raunanza a Tito Tazio re de' sabini, perchè questi avevano più
possanza e aveano ricevuto più ingiuria. Ma perchè la presuntuosa ira non
può indugiare né ricevere consiglio, e perchè l'apparecchiamento alla
guerra pare pigro per rispetto dello ardore dell'animo, ciascheduno, non
aspettando l'uno l'altro, andarono alla battaglia. E innanzi a tutti i
ceninesi con l' oste corsero nel terreno de' romani : contro ai quali
venendo Romolo, mise in rotta i nimici, e UCCIDE ACRONE, re di
quelli, venuto alle mani con lui in singolare battaglia; e, con lieve
assalto, prende la terra di quelli, la quale era impaurita per la morte
del re e per la fuga del popolo. E, tornando a Roma vincitore, porta
in Campidoglio l'armi del re ed edifica lo primo tempio in Roma e
sacrificollo sotto il nome di GIOVE Feretrio -- dove i capitani de'
romani non portano, quando sono vincitori, se non la preda de'
capitani vinti in singolare battaglia, la quale elli chiamano
grassa robarìa. Dunque in quello luogo egli appicca l'armi del
morto re, per esempio del tempo da venire, rado ma grande dono di
quelli che venieno dietro. I secondi che corsono nel terreno
de'romani furono gli atennati; e questi sono vinti e perderono la terra. Ma per
prieghi di Ersilia, moglie di Romolo, la quale e una di quelle sforzate che
porta a gli orecchi del re i prieghi e i desideri dell'altre, ricevuti a
misericordia, venneno ad abitare a Roma. Da poi i crustumini, movendo
elli la guerra, sono vinti leggiermente, crescendo ogni dì la virtù
di Romolo; e, venuti a Roma quelli chi sono vinti, crescendo Roma per li
danni de'nimici. E più a fare colli sabini, i quali quanto
più tardi tanto più maturamente si moveano: presa la rocca di
Campidoglio, per tradimento d'una donzella figliuola di Spurio Tarpeo, il
quale era castellano della delta rocca, dal quale ancora è nominato
quel monte in mezzo di Roma, e dubiosa battaglia, combattendo
quelli dal luogo di sopra. Nella quale battaglia mancando Osto Ostilio,
il quale e arditamente per la parte de' romani infino ch'elio puo, la
gente de' romani tutta si cessò in dietro, cacciando indietro eziandio
Romolo il quale li contrasta. E elli, non sperando già più della forza
umana, dirizzando al cielo le armate mani, chiamando Giove com' elio e
presente, pregando o che gli togliesse la vergogaia del fuggire vilmente, o eh'
elli fortificasse gli abbattuti animi de' suoi con celestiale
aiutorio, fa voto di fare in Roma uno secondo tempio a GIOVE
STATORE, secondo che piace agli scrittori; e, quasi ricevuta la
promissione dal cielo, fatto più ardito ristoroe con sollecita mano la
battaglia già caduta, dicendo a'suoi chiaramente che Giove comanda
così. Per questo la sua gente, seguendo lo esempio del suo re e il
comandamento di Giove, torna contro a'nimici, da' quali non speravasi
ch'egli tornassino; e combattendo innanzi a gli altri aspramente Romolo,
essendo già mutata la condizione della battaglia, quelli che
incalzavano cominciarono a fuggire. Intra i quali MEZIO CURZIO, secondo
dopo il re de' sabini , uomo famosissimo e in quello di 'nanzi a tutti
gli altri in fatti e in virtù molto ardito, non sostenne il furore. Una
palude, ch'era presso, e pericolo e salute a lui, nella quale
spaurito il suo cavallo furiosamente salta con grande paura de' suoi, ma
confortandolo elli e mostrandogli la via, usce fuori. E di questo
nacque il nome di quella palude, cioè, lago Curzio. Uscitone fuori
costui, gli animi crebbono a' suoi, e ancora, bene che con
varia fortuna contro a' sabini, corsono insieme. E, sendo in questo
stato, la pietà trova via di non sperata pace. Combattendo dall'una
parte i mariti, da l'altra parte i padri, vennero tra questi quelle
eh' erano state sforzate; e, non considerando sé essere femmine , non
temendo il pericolo, con prieghi pieni di lagrime e misero abito,
pregarono che fosse posto fine alla guerra. E se voleano pure
andare dietro, volgessono le spade più tosto contro a quelle, le
quali erano cagione della guerra , che, uccidendosi insieme, bruttassono
se di presente e per lo tempo a venire bruttassero li figliuoli di
quelle -- dall'una parte essendo i figliuoli, dall'altra essendo i
nipoti --- e dessono eterna infamia a quelli che ancora non poteano
peccare. Dall' una parte e dall' altra si piegano gli animi e l'ira s'abbattè
e, che maraviglia è a dire, subitamente nell'una oste e nell'altra
fu arrestato il romore dell'armi e il gridare de’ combattitori, sì umile
ammirazione e intrata per quelle rabbiose menti! E non potè
lungamente stare nascosta: le affezioni mutate incontanente uscirono
fuori, e lo riposo segue a la pietà , e la pace segue al silenzio; la
concordia e fatta toccandosi i re le mani, e Roma maravigliosamente crescette
per lo venire de' sabini. E non meno crebbe Y amore dell'una parte e
dell'altra verso di quelle valenti donne, e innanzi a gli altri di
Romolo, il quale rendè loro grandi e debiti onori. Ancora
restano due guerre. L'una colli fìdenati li quali, temendo la
potenzia della signoria di Roma, la quale cresce, e avendola sospetta ,
per sé fecero la pruova che gli altri aveano fatta. Entrando elli nel
terreno de'romani come nimici, Romolo li anda incontro, e puose il
campo non lungi dalla terra de' nimici; e, mostrando maliziosamente
temere, conduce i nimici nelli agguati, e di questo e una non proveduta
paura e uno subito fuggire, in tanto che , mischiati insieme i
vinti e i vincitori, le guardie delle porte appena discerneano i
suoi cittadini da’ nimici; e, entrati dentro, e presa la terra. L'altra
guerra e con quelli da Veio, li quali si mossono per amore de’ fìdenati
e per odio de’ romani, e questi, vinti in campo, e guasto il paese,
dimandando pace, fecero triegua per cento anni, perdendo parte del suo
terreno. Questi furono i cominciamenti di Romolo, questo e il corso di
sua vita e l’ordine de’ suoi fatti; per li quali, appresso quella salvarla
generazione d' uomini e non ancora assai ammaestrati animi del
vulgo, egli merita essere creduto avere alcuna divinità per lo padre e
per se. Uomo al quale non manca animo né ingegnio, in battaglia
glorioso, in casa savio: ordina centurie del popolo e di cavaglieri,
acciò che in ogni tempo di pace e di guerra elio e niuno nega
ch'elio non e inolio amato. Le opinioni di questa cosa sono varie.
Alcuni dicono ch'elio e portato in cielo e posto nel concilio delli dei.
Ma questo è gran salto a uno uomo armato e gravato di peccati,
bagniato di sangue e ignorante del vero Iddio e della via del cielo. Ma
lo ardente e non temperato amore sì fa credere ogni cosa. Dunque,
achetata la tempesta, essendo risposto da' senatori -- eh' erano stati
d'intorno -- al popolo -- disideroso di vedere il suo re e a pruova
cercandolo -- eh' elio e andato in cielo, affermando uno eh' e' lo ha
veduto, e creduto. E quello e
GIULIO PROCULO, uomo di grande nominanza appresso a' suoi, secondo
che si trova, e di grande santitade e, che manifesto è, di gran nobilitade,
come colui che, nato di re albani, venne a Roma con Romolo ed e cominciamento
della giente de’ Giuli -- il quale, ardito di venire in palese, da parola
d'allegrezza al popolo eh' e in tristizia , dicendo che in quello
medesimo dì Romolo, discéso da cielo in abito più che d'uomo, e stato con lui,
affermando eh' ha comandato a lui, con grande tremore non ardito di
guardare la sua facia, questo,
cioè eh' egli dicesse a' suoi cittadini che onorassino l'arti delle
battaglie, essendo certi che ogni potenzia umana è diseguale alla
sua in fatti d'arme; e che la sua città, così piace alli dei, sarà
capo e donna di tutte le terre. E, dette queste parole, levatosi da
gli occhi monta in cielo. E queste cose sono credute a GIULIO il quale le
conta e giura, e lo dolore della morte e mitigato con lo consolamento
della divinità, e l'ira, la quale il popolo ha concetta per la
morte di sì caro re, e umiliata: così ogni uomo crede leggiermente quello
ch'elli desidera. Ma altri pensano che e morto da' senatori, veduto il
buon destro per la tempesta del tempo, e ch'elli il nascosono
nel pantano della palude, acciò CHE NON APARE ALCUNO SEGNIO DELLA SUA
MORTE. Questa, chente dice Livio, è oscura fama, ma, come piace a
chiarissimi scrittori, certamente è vera; bene che, come dice quello nel
medesimo luogo, quell' altra fu nobile per l'ammirazione dell'uomo
e per la presente paura. Puossi forse credere ancora quello che alcuni
hanno pensato, eh' elio non e portato per divinità in cielo né in
terra morto come uomo, ma eh' elio fu morto per la lempestade e per lo
furore della saetta -- la cui forza è ineffabile, e l' operazione è
nascosa --. E questo essere avvenuto a tutti quegli sono con lui, i quali,
quanto elli sono più presso, tanto sono smarriti più e impauriti. E
la libertà è di molte mani nelle cose dubbiose, ma la verità è una sola,
e questa è profondamente nascosta della morte di Romolo come in
molte altre cose. Paolo Mattia Doria. Doria. Keywords: co-operazione,
duelo – duel, the duelists, cooperation – il sensismo, roma repubblicana, la
aristocrazia romana, Romo, Romolo, aristocrazia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Doria” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Dosseno: l’orto romano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. A
follower of the sect of the Garden. Seneca mentions a monument to him with an
inscription testifying to his wisdom.
Grice e
Dottarelli: l’implicatura conversazionale di Musonio – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Bolsena). Filosofo italiano. Grice: “I
like Donatelli; he is an Etruscan, from Balsena, and it’s only natural that he
is obsessed with the one and only Etruscan philosopher, Musonio!” Si è formato
alla Facoltà di Filosofia dell'Perugia, dove ha studiato con Cornelio Fabro e
si è laureato con una tesi sul dibattito epistemologico del Novecento (Popper, Feyerabend,
Lakatos, Kuhn) sotto la guida di Baldini. Si è poi specializzato in Filosofia
all'Urbino, dove ha avuto come maestri Italo Mancini e Salvucci, con cui ha
discusso una tesi sulle implicazioni epistemologiche della filosofia di Kant.
Ha insegnato nei Licei ed è stato docente a contratto di Filosofia della
scienza, Filosofia morale, Bioetica nelle Università della Tuscia, di Macerata
e Firenze. Ha sempre coniugato il lavoro didattico e di ricerca con
l'impegno civile. Per 13 anni consecutivi è stato Sindaco della città di
Bolsena (VT). Eletto la prima volta con una lista civica di sinistra, è stato
successivamente confermato. Direttore generale della Provincia di Viterbo e in
tale veste, oltre al coordinamento e alla sovrintendenza della gestione
complessiva dell’Ente, ha avuto la responsabilità diretta della formazione e
organizzazione delle risorse umane, del percorso di certificazione EMAS, del
processo Agenda 21 locale e del progetto Arco Latino, strumento per la
definizione di una strategia integrata di sviluppo dell’area del Mediterraneo.
Con Picone, filosofo e psicoanalista junghiano, nel 2004 è stato cofondatore
della Società Filosofica Italianasezione di Viterbo, di cui è attualmente
vicepresidente. Nel ha costituito il
Club per l’UNESCO Viterbo Tuscia, di cui è presidente. I suoi interessi
teorici si sono rivolti all'epistemologia, all'etica, alla filosofia politica e
alla pratica filosofica. In Popper e il gioco della scienza ha svolto
un'analisi critica dell'epistemologia falsificazionista, mostrando come
l'ultimo Popper, pur rendendosi conto della coerenza dello sviluppo
evoluzionistico della propria epistemologia, arretrasse e resistesse dal trarne
le estreme conseguenze, restando fedele al paradigma del razionalismo critico,
difendendolo sino in fondo, ma con ragioni sempre più deboli. Nei suoi lavori
su Immanuel Kant (Kant e la metafisica come scienza, Abitare un mondo comune.
Follia e metafisica nel pensiero di Kant) ha evidenziato sia il proposito
kantiano di fondare come una scienza rigorosa la metaphysica generalis, prima
parte della metafisica come era intesa nella tradizione razionalistica tedesca,
sia il carattere che viene ad assumere la metaphysica specialis, dopo la
critica: un pensare congetturale e analogico che è anche prassi, vita. In
questa prospettiva la filosofia kantiana viene valorizzata per la sua peculiare
dimensione "cosmica", come «scienza della relazione di ogni
conoscenza e di ogni uso della ragione umana con lo scopo essenziale di essa»,
e viene ricollegata alla filosofia come era praticata soprattutto nell'antichità:
arte di vivere, esercizio spirituale. Il filosofo pratico, il maestro di
saggezza tramite l’insegnamento e l’esempio, è così «l’autentico filosofo»,
che, nel quadro della complessiva ed originale riorganizzazione kantiana
dell’orizzonte utopico di derivazione platonica e rousseauiana, diventa esso
stesso un ideale regolativo, al quale colui che più si è avvicinato è stato
Socrate, per via della sua esemplare coerenza di vita. In Freud. Un filosofo
dietro al divano, il lavoro del fondatore della psicoanalisi viene letto come
un episodio della lunga tradizione che ha interpretato la filosofia come
"medicina per l'anima". Il rapporto di Freud con la filosofia si
nutre di una profonda ambivalenza: da un lato un'irresistibile attrazione;
dall'altro quasi la necessità di rassicurare se stesso e gli altri su una
propria «incapacità costituzionale» (Autobiografia) alla pura speculazione e
sulla sua ferma volontà di sottrarsiproprio lui, formidabile affabulatoreal
fascino delle narrazioni filosofiche. La riflessione di Freud non trascura
nessuna delle dimensioni fondamentali della ricerca filosofica. Neanche quella
teoretica, volta a costruire visioni complessive dell’uomo e del mondo; quella
che gli appare la più rischiosa, perché la più astratta, la più esposta alla
frequentazione della metafisica e della religione, sempre in procinto di cadere
nella trappola della verità assoluta. Più a suo agio Freud si sente invece nel
lavorare lungo un'altra linea d’impegno tradizionale della filosofia: la
riflessione critica sui saperi e sulle pratiche umane. Nell'opera di
smascheramento dei meccanismi con cui le ideologie e le prassi individuali e
sociali ammantano la loro miseria “umana, troppo umana”, le potenzialità della
psicoanalisi si esprimono al meglio. Masecondo l'interpretazione di D. la
fatica intellettuale di Freud trova la propria collocazione più appropriata
nella dimensione della ricerca filosofica che interpreta se stessa come
un’attività in cui l’uomo si dedica alla cura e alla fioritura di sé, alla
coltivazione della propria umanità. Questa dimensione della filosofia come arte
di vivere è stata approfondita da D. attraverso la ricostruzione della vita e
del pensiero del filosofo stoico Musonio Rufo nella monografia su Musonio
l'Etrusco. La filosofia come scienza di vita. Testimonianza della vitalità
della tradizione culturale etrusca in epoca romana, la filosofia di Musonio è
espressione significativa di quel crogiolo di idee ed esperienze di ricerca
della felicità che è l'ellenismo della tarda antichità, in cui si rispecchierà
poi la civiltà medievale e soprattutto quella umanistico-rinascimentale.
Musonio ha dato il tono di fondo all'impegno prevalente nella tradizione
filosofica della Tuscia: ricerca di una scienza di vita, studio di perfezione,
imitazione di Dio, àskesis, esercizio per sviluppare la conoscenza e la
coltivazione di sé, finalizzata alla fioritura dell’autentica esistenza umana.
L’adesione del filosofo di Volsinii allo stoicismo è decisamente sotto il segno
di Socrate: la filosofia può proporsi come arte regia in quanto, in primo
luogo, è arte di governare se stessi. L’ideale dell’autosufficienza del saggio
si traduce nella predilezione per l’agricoltura, come attività più appropriata
per il filosofo. «La terra in effettiaffermava Musonioricambia con i frutti più
belli e più giusti coloro che si prendono cura di essa, dando molte volte tanto
quel che riceve ed offrendo grande abbondanza di tutto quanto è necessario per
vivere a chi ha la volontà di faticare: e tutto questo con decenza, nulla di
ciò con vergogna». Ad un analogo sentimento di appartenenza al cosmo e ad un
profondo rispetto per gli altri esseri umani e per tutti i viventi, sono
ispirate anche le sue riflessioni sui rapporti sociali, sulla schiavitù, sulle
donne, sulla nonviolenza, sull'alimentazione, sul vestire e sull'abitare.
Riflessioni che Musoniosecondo la concorde testimonianza dei contemporaneiseppe
tradurre con coerenza esemplare in una efficace pratica di elevazione
spirituale, diretta a coinvolgere, insieme, il corpo e l’anima. Sobrietà,
rispetto, universalità e condivisione sono le parole di riferimento di una
visione etica che anticipa in modo sorprendente istanze fondamentali della
moderna sensibilità ecologista. La visione della filosofia come arte di
maneggiare gli assoluti è approfondita nel libro Maneggiare assoluti. Kant, Levi e altri maestri. La filosofias ostiene D.
anche quella più incline a farsi coinvolgere nell'impresa di estinguere la sete
dell’assoluto, contiene in sé, nella propria vocazione alla ricerca di una
comune verità mediante il dialogo, un antidoto indispensabile al rischio
distruttivo che può annidarsi in ogni tentativo umano, tanto umano di cogliere
la totalità, l’infinito, Dio. Anche le grandi tradizioni religiose, quelle che
da secoli sono impegnate a tracciare sentieri, trovare parole, celebrare
liturgie per saziare la fame di assoluto che agita il cuore e la mente degli
uomini non possono fare a meno di intessere un intenso dialogo con questa
tradizione di ricerca, soprattutto nei momenti cruciali, quando diventa urgente
addomesticare i dèmoni che una frequentazione inadeguata del sacro può evocare.
Dèmoni che portano il nome di fanatismo, intolleranza, totalitarismo e di cui
la storia degli uomini alla ricerca della verità assoluta, della totalità
autentica ed incondizionata, dell’esperienza integrale è purtroppo costellata.
La consapevolezza che anche la filosofia non possa dichiararsi storicamente
innocente, non cancella ma spinge a ritrovare sempre di nuovo la vocazione più
profonda di quest’originale forma di esercizio spirituale: una ricerca
appassionata del bene e della verità, capace di resistere alla suggestione del
possesso compiuto e di mantenersi in quella apertura alla possibilità
dell’errore che è presidio di autentica libertà per sé e per gli altri».
Altre opere: “Il gioco della scienza” (Massari); “Metafisica non scienza”
(Massari); “Abitare un mondo comune: follia e metafisica nel pensiero di Kant
(Introduzione al Saggio sulle malattie dell’anima di I.Kant” (Massari); “Utopia
e ragione come luoghi del incontro dell’ego ed il tu”, in Le ragioni della speranza” (La Piccola
Editrice); “L’assoluto e il relative” (Il Prato); “Musonio” (Annulli Editori); Freud.
Un filosofo dietro al divano, Annulli Editori,
Riverberi Di Tuscia e d’altro, Annulli Editori); “La farfalla dell’anima
e la libertà, Armando Editore. ETRUSCO MUSE® CHIUSINO
DAI SUOI POSSESSORI PUBBLICATO CON AGGIUNTA DI ALCUNI
RAGIONAMENTI DEL DOMENICO VALERIANI E CON BREVI
ESPOSIZIONI DEL CAV. ai© smagata POLIGRAFIA
FIESOLANA A SUA ECCELLENZA IL SIG. MARCHESE ANGELO CHIGI LUOGOTENENTE
GENERALE E GOVERNATORE DELLA CITTA E STATO DI SIENA CAVALIERE DELLA
LEGION D’ ONORE DI FRANCIA CONSIGLIERE INTIMO ATTUALE DI STATO, FINANZE E
GUERRA CIAMBELLANO DI S. A. IMP. E REALE IL GRANDUCA DI
TOSCANA PRESIDENTE DELL’ ACCADEMIA DEI FISIOCRITICI E DELLA
DEPUTAZIONE DEL PIO DEPOSITO DI MENDICITÀ’ CHE LO SPLENDORE
DELLA FAMIGLIA NOBILISSIMA DA CUI DISCENDE CON TANTE EGREGIE
DOTI SOSTIENE ED ACCRESCE E DELLE ARTI LIBERALI CULTORE E
FAUTORE CALDISSIMO SI MOSTRA QUESTA RACCOLTA DI ETRUSCHI MONUMENTI
CHIUSINI CANDIDAMENTE E CON GIOIA 0. D. C. GLI EDITORI
P. B. C. C. F. S. C. A. M. P. F. D. ri si
trova itna mirabile abbondanza di marmi finissimi consistenti in colonne
antiche di granito nero e dell’ Elba e d’Egitto, di granito rosso del più
compatto, di cipollino orientale, e d’altri marmi duri e fin anche di
breccia d’ E- gitto, di che va ricca ed ornata la cattedrale, ove son poste
in uso con antichissimi capitelli di gusto squisito. Anche sparsamente
per la città s’incontrano in copia marmi duri o eretti in usi decorativi
o depositati a parte e non ancora posti in opera. Non mancano monumenti
di romana scultura di raro pregio in basso e tondo rilievo, tra i quali splende
un sarcofago colla caccia di Meleagro, ed una assai bella testa di
Augusto nel palazzo episcopale, e nelle case Paolozzi. Le antiche
iscrizioni lapidarie son pur frequenti per la città sparsamente. E poi
sorprendente il numero dei sotterranei che s’incontrano sotto le
fabbriche del paese, e sono per ordinario eseguiti di ben connesse pietre
quadrate assai grandi. Rieca è pure la città di avanzi di fabbriche antiche
romane, parte delle quali si giudicano bagni. Ed in vero non sembra che
di tali pubblici comodi mancar dovesse un paese, ove si trovano s or genti ab b
ondantis s im e di acqua potabile, e delle quali non ha guari e stata
fatta bella scoperta dal nobile sig. Flavio Paolozzi, in alcuni spaziosissimi
sotterranei, da luì aperti, ove non ancora si è osato avanzarsi attesa la
co nfu sione dei loro sentieri numerosi e feraci di sorgenti, che per via di
canali antichi di piombo somministravano per quanto apparisce, acque abbondanti
e perenni all' antica città. Ma ciò che maggiormente sprona la
curiosità degli eruditi è il visitare nel territorio di Chiusi gli etruschi sepolcreti,
dove fu trovato quanto di più mirabile conserviamo nei nostri musei,
mentre non senza una qualche almen lo tana emulazione col famigerato sepolcro
di Porsenna eretto un tempo in questa nostra patria, presero i suoi
citladini etruschi l'esempio di rendere le lor tombe in vario modo
as- J-Ja dovìzia dì antichi monumenti d’arte nell' etrusco città di
Chiusi nostra patria, non ha guari trovati, e nei nostri musei custoditi,
ci ha fatto sospettare che saremmo giustamente ripresi, qualora tal dovizia si
tenessè fra noi medesimi inosservata ed inutile all’ incremento della scienza
archeologica. A ciò credemmo sufficiente riparo di offrir libero accesso a chi
volesse que’ monumenti osservar con a- gio nelle nostre private
collezioni. Ma riflettendo poi che la più gran parte degli eruditi, cui
non è dato il potersi reca¬ re personalmente a Chiusi, restavan privi del
bene di co¬ noscere questo ramo speciale di etruschi monumenti:
cosi a sodisfare anche questa numerosissima classe di eruditi, non
crediamo che trovar si potesse miglior divisamento di quello da noi già
compito, di far disegnare con fedeltà massima i monumenti più ini ere s santi,
che possediamo, e quindi a nostre spese farli incidere in rame in dugento
sedici tavole distribuiti , raccomandandone l'edizione al cavalier
Francesco Inghirami. A tale nostro invito egli non solo ha cortesemente
aderito c oli’ ine arie ar s ene per nostro conto, ma si è compiaciuto
inoltre di venir più volte da Firenze a Chiusi per confrontare i disegni
coi monumenti originali, e ci ha fatto inoltre il dono da noi gradito
delle brevi interpetrazioni che abbiamo apposte a ciascun monumento, al
che abbiamo aggiunto anche alcuni ragionamenti, donatici dall’egregio
sig. prof. Valeriani nostro concittadino. Chi ha per le mani l’ opera che
ora pubblichiamo, non creda già di conoscere, p e' suoi rami, tutti i
monumenti antichi di Chiusi, mentre n’ è assai più dovizioso il paese.
Qui ì ti dì quei di Tarqui ni a, fo rse perchè ne fu inventore un diverso
architetto. Nell’annoverar che facciamo de monumenti antichi più insigni di
nostra patria, non è da pretermettersi che in vicinanza della città rèsta sotto
una collina di tufo breccioso verso l Oriente un cimitero antico di
cristiani, eh’è noto sotto la denominazione di Catacombe di s. Mus tio la
Vergine e Martire, inclita patrona della città e della diocesi- Questi
sotterranei non solo servivano alla sepoltura de’ cristiani, e in specialità
dei martiri, ma nel giorno di festa e nel natalizio dei Santi vi si
raccoglievano per celebrarvi i divini misteri, ivi oravano, ivi stavano
refugiati nel maggior impeto della persecuzione, a scansar la rabbia dei
tiranni, come descrive un nostro concittadino che di tali sotterranei h a
ragiona to eruditissimamente, L'abbondanza delle cristiane iscrizioni che
spettano a questorispettabile sotterraneo, notante dal prelodato relatore, lo
rendono anche più degno dell'attenzione d'ogni erudito. Il libretto che
a memoria di ciò egli ha scritto con somma eleganza e dottrina, dove si
trova incisa inclusive la piant a dell 1 2 ampio sotterraneo, oltre le
iscrizioni ivi adunate e illustrate ',e l’altro libretto di non inferior
merito, scritto da vari eruditi, circa il già nominato monumento sepolcrale del
Poggio al-moro 1 , forma insieme colla presente opera l’ informazione di quanto
crediamo ess er su ffidente ad erudire i cultori dell' archeologia circa le
antichità osservabili di Chiu¬ si nostra patria. 1 Pastumi,
Relazione di un antico cimitero di cristiani, in vicinanza della città di
Chiusi con le iscri¬ zioni ivi trovate. Montepulciano Sepolcro
Etrusco Chiusino illustrato nelle sue epigrafi dal Prof. Gio. Batt.
Vermigliolì, con l’aggiunta di una memoria del sig. Giuseppe del
Rosso sulla parte architettonica dello stesso monumento ed una lettera
del sig. Dolt. Francesco Orioli. Sta anche negli opuscoli del Vermigliolì ec.,
Perugia sai magnifiche e ricche d' oggetti d'arte. Si è reso celebre fra
gli altri l ipogeo situato in un possesso della g ra ridu¬ cale fattoria
di Dolciano, il quale conserva in se stesso un antico modello rarissimo
di fabbrica etrusco, perchè a differenza degli altri scavati nel tufo, questo
vedesi edificato di travertini tagliati regolarmente, e situati senza
cemento m volta arcuata di tutto sesto, e da varie urne cinerarie
occupato, le quali hanno in fronte sculture vaghissime ed epigrafi etru s
che, dalle quali resulta essere stato questo sepolcro a più famiglie
comune. Altri non meno importanti ipogei scavati nel tufo si
os¬ servano in varie pendici del monticello, sul quale era ed è
tuttora la nostra città. In alcuni di essi, con animo di sodisfare Valtrui
erudita e commendevole curiosità, i proprietari lasciarono in parte i monumenti
meri facilmente amovibili, acciò sia noto come e con quali riti vi fossero
depositati fin da quando ve li posero gli Etruschi. Fra questi
ipogei, mediante le nostre indagini fin ora scoperti, due soli noi trovammo
scavati regolarmente nel vivo tufo m guisa di camere e dipinti : l’uno
aperto nel maggio del 1827 in un podere chiamato P o gg io-al-moro , l
altro in alt ro podere detto il C olle , le cui pitture son riportate in quest’
opera. Pare che lo stesso pittore li dipingesse ambedue, ma l’ ultimo
aperto si conserva assai meglio, forse perchè l’adiacente suolo è men’
umido . I soggetti quivi dipinti son pure i me des imi in amb edue gl’ ip 0 gei
; nòdi {feriscono granfatto, si nello stile, si. nel metodo del
dipinto, e sì nel s og g ett o iv i Ir att ato dalle pitture
dellegrottecornetane, che si altamente sono state encomiate . E probabile
che in questi due sotterranei dipinti vi fossero depositati oggetti
di prezzo ragguardevole, e perciò dagli stessi antichi derubati, perchè non vi
è stato trovato quasi nulla, specialmente in quél sepolcro che l’ultimo è
stato scoperto. È poi singolare, come i soffitti intagliati nel tufo sieno più
elegan- lei il loro cognome anche gli altri re etruschi, cosi
esprimendosi quel dotto ed ingegnoso poeta . Nomina videbis,
modo namque Petulcius idem, Et modo sacrifico Clusius ore
vocor. Questa già potentissima città, che fu detta Camars nella
lingua dei nostri padri, ( il qual vocabolo però significa lo stesso che
il più moderno Clusium, imperocché le dué voci ca, e mar, o mars, che lo
compongono, vengono interpetrate, chiuso dalle paludi ); Che la nominarono pure
Chiamarle, e Camarsoli, Livio, Eutropio , ed Antonio Sabellico, diede
luogo a molte dispute fra gli eruditi per determinare se annoverar si
dovesse fra le dodici antiche città etruschs, capi di origine-, ma le
ragioni addotte in contrario non montano a nul¬ la di fronte all’ unanime
consentimento di tutti i più accreditati scrittori antichi, e moderni,
che lo affermano. Ed lo sorto persuaso che non manchino autorità bastanti
a provare, che non solo ella fu una delle dodici città capi d’ origine,
delle quali era composta la famosa, ed antichissima confederazione etnisca
re¬ sidente a Fiesole, che risale per autorità di molti gravissimi
scrittori, a 2o5o. anni circa prima dell era volgare, ma che avesse puranco l’
onore di tener lunga stagione lo scettro sii tutta l’Etruria, come lo
afferma il dottissimo Dempstero, che sostiene avervelo ella tenuto per
5qo anni di seguito- Di fatti anche Virgilio, parlando di Chiusi -,
nomina un suo re chiamato Osi- nio, la cui età è molto antica, essendo
quello stesso che trovassi impegnalo nel¬ le guerre eli ebbe a sostenere
il Frigio Enea in Italia, contro Turno, ed i Rullili , prima di stabilire i
suoi penati in questa bella, e da tutte le straniere na¬ zioni ambita
penisola. Ma anche molto avanti che quel Troiano quà navigasse, aveva
avuti Chiusi i suoi regnanti, poiché si annovera Osinio trentesimo sesto
* dei regi Etruschi. Ciò che basta a togliere l’onore della fondazione di tal
città, a Tirreno, a Telemaco, e a Clusio . Che poi continuasse
Chiusi a fiorire in potenza, ed in ricchezze, ed anzi Salisse ognora a
maggior altezza nell' una e nelle altre, dai tempi troiani fino a quelli
in cui fu scacciato dal trono Tarquinio Superbo, ne fanno chiara fede gli
storici, ed. i poèti. Imperocché Tito Livio nel secondo libro della prima
deca, narra che i Tarquinii espulsi da Roma, eransi rifugiati presso
Larte Porsena re di Chiusi. Ed aggiunge lo stesso storico, al luogo
citato, che giudicando quel valoroso monarca nobilissima impresa per lui l’
includere quella metropoli nei suoi domimi, mosse a quella volta con
poderoso esercito grandemente inanimito contro i Romani, ed avendo posto il
campo sul Gianicolo, cinse la città et assedio, e tanta costernazione vi
sparse, che mai prima d’ allora sì gran terrore aveva invaso il senato,
ed il popolo romano. Cotanto formidabili erano in quel tempo le genti
chiusine, e sì grande e temuto suonava per le terre italiche il nome di
Porsena . DELL’ ANTICA CITTA DI CHIUSI li impresa malagevole assai
quella di rintracciare le origini delle antichissime città italiche, i
cui fondatori si perdono, per lo più, nel buio delle età favolose . E
quanto furono esse più cospicue, e più potenti, per valor d'armi, e per senno
dei loro abitanti, per sapienza, e per arti belle, tanto cresce la
difficoltà di poterne rinvenire con sicurezza , e fissare i cominciamenti
Avvegnaché i poeti singolarmente, seguiti poi dagli storici ancora, assumendosi
l' incarico di celebrarne i pregi, e cantarne le lodi, pare che siansi
fatto uno studio esclusivo di nasconderci il vero. Questa sorte pertanto
è comune con molte altre anche alla nostra famo¬ sa Chiusi.
Tuttavia, benché io non dissimuli a me stesso, che ben aspro e
certamente il cammino, in che sono entrato , e tale forse ancora da non
trarmene fuori senza pericolo di smarrirmi tra vìa -, pure non so
astenermi, spintovi da quel caldo amor patrio, che mai non tace negli
animi bennati, dallo scrivere alcuna cosa intorno alla città di Chiusi .
E tanto più volentieri lo faccio, m quanto che pubblicandosi un'Opera ove
non sono raccolti che antichi monumenti chiusini , non giudico disdicevole
che vi si legga, cosa fosse nei vetusti tempi quella si splendida, e si
rinomata città. Lasciando pertanto da parte , come, e quando
cominciasse ella ad esistere, se Tirreno, o Telemaco ne ponesse le
fondamenta, come pretesero alcuni scrittori, o sivvero Classo re degli
Etruschi, che si vuole da altri che fosse figlio di un secondo Tirreno, e
se ne riguarda come il fondatore esso pure, ( ed io lo direi meglio
arnpliatore, e ristauralore della medesima, benché s’ ignori in qual
secolo ciò avvenisse ), egli è fuor d' ogni dubbio che questa città risale
ad una remotissima origine . Lochè peraltro discoprire volendo, e
stabilir con certezza, sarebbe lo stesso che mettersi a navigare in un mar
senza sponde. Per lo che, scenderò ad epoche meno lontane, e più
certe, quando già la città di Chiusi teneva ampio dominio sull' antica
Etruria. Mentre pare da un distico che si legge nel primo libro dei Fasti
d Ovidio, che prendessero da Elr. Mas. Chius. zo coll' uccisione del
Console Lucio Cevìlio , e di 3 ooo soldati, furono dalla valida
l'esistenza dei Chiusini obbligati ad abbandonarne l'impresa, e spingersi
a sciogliere il freno ai loro furori contro Roma. Lo che narrasi da Lucio
Floro nel primo libro della storia romana , e possono consultarsi ancora
su questo proposito, Diodoro Siculo, e Polibio. Ne fa pure un cenno Plutarco
nella vita di Numa Pompilio, e ne parla più a lungo in quella di Camillo. Anche
la risposta , che lo storico di Cheronea fa pronunziare con barbara
confidenza da Brenna condottiero dei Galli, agli ambasciatori romani, che
s'erano a lui recati per chiedergli ragione a nome del Senato, del suo
procedere verso i Chiusini, infestandone i possessi, disertando i campi,
e minacciando la città, ne fa viepiù chiara testimonianza intorno alla
celebrità, ed opulenza della medesima, essendosi cosi espresso quél fiero
conquistatore. Ci fanno manifesta in¬ giuria i Chiusini, come coloro che
ambiscono di possedere una estensione di compagne, molto maggiore di
quella che possono coltivare, e superbamente ricusano di concederne una
porzione a noi forestieri , che siamo in gran numero , e poveri.
Circa la fertilità poi dell’ agro chiusino, leggasi Plinio libro 18°.
capo 7 °, ove ne loda il frumento, cosi per la qualità sua, come per la
quantità che ne produceva. E Marziale erasi prima di lui nell ottavo epigramma
del i 3 .° libro espresso in tal guisa « Imbue plebejas clusinis pultibus
ollas jj. Moltissime altre autorità di antichi scrittori avrei
potuto raccogliere , onde mettere in più chiara luce, ed evidenza, la
grandezza, e V opulenza della città di Chiusi iti remotissimi tempi, la
potenza dei suoi re, il valoroso coraggio, e l'operosa industria dei Suoi
abitanti, t libertà del suo territorio, e lo splen¬ dore che la rese
tanto famosa per lunga serie di secoli ,• ma stimo che bastino le già
riferite, ed i pochi cenni che ne ho dati, per farne concepire, a, chi
vorrà leggere questo ragionamento, una giusta, e non umile idèa. Nè
poteva d’altronde dilungarmici gran fatto, attesa V indole di quest'
Opera, e la brevità della periferia , cui ho dovuto perciò ristringermi nel
comporlo. Mi contenterò dunque di aggiungere, che venendo puranco ad
epoche a noi più vicine, dopo lo smembramento dell impero romano per
opera dei Longobardi, ebbe Chiusi, benché decaduta immensamente dall’
antico suo lustro, il titolo di Ducalo; leggendosi presso Anastasio
bibliotecario in s. Zaccaria, che Liutprando mandò ad ossequiarlo il suo
nipote Agiprando, 0 come leggesi in altro codice Adelprando, duca di
Chiusi. Il qual fatto viene riferito egualmente dall’ autore dell’
Etruria Regale. Ed anche giunta la citta di Chiusi all estrema sua
umiliazione, rimase ogno¬ ra città vescovile, come lo è tuttavia, e
fregiata di assai privilegi. E si legge in un manoscritto che tratta di
cose etnische, e conservasi nella libreria Rondoni JlcJlklh che circa di n'
era vescovo un tal Teodosio. Ricavasi pc-i dal decreto di Gregorio, cap.
9.° delle costituzioni, che l' anno 3 II qual fatto
confermano, oltre Polibio, Dionisio d’ Allea mas so , ed altri Storici,
anche sant’Agostino nella sua Città di Dio , Sidonio Apollinare, Chili-
diano, Orazio Fiacco, Marziale, Tzétze , e molti altri. Nè parrà
strana una si gran potenza dei chiusini, ed una tanta opulenza , a
chiunque facciasi a riflettere ai magnifici e sontuosi edifizi, dei quali
Chiusi adornavasi. E basterà riferire a questo proposito la descrizione
del labennto fattovi costruire dallo stesso Porsena, perchè gli servisse
di sepolcro, e che si legge in Plinio al capo decimo terzo del libro
trentesimo sesto , ove riporta, co/n’ ei dice, le parole stesse di Marco
V àrrone. Fu sepolto , scrive egli, questo monarca, sotto la città di
Chiosi ove erasi fatta inalzare una tomba di larghe pietre quadrate, e
compresa da quattro lati, o muri, ciascuno dei quali estendevasi per
trecento piedi in lunghezza , aven¬ done cinquanta di altezza. Nell’ area
interna di nove mila piedi, raggravasi un inestricabile laberinlo, nel
quale chi si fosse introdotto senza un gomitolo di filo, non avrebbe
potuto ritrovare la strada onde uscirne. Ergevansi poi sopra il vasto
quadrato cinque piramidi, quattro negli angoli , ed una nel mezzo, larghe
alla base, ciascuna setlantacinque piedi, ed alte centocinquanta. Slava
nella cima dì ognuna di esse un grosso globo di bronzo, sovrappostovi un
petaso, dal quale scendevano varie catene, cui vedevansi sospesi dei
campanelli mobili, e sonanti quand’ erano agitati dal vento, come
raccontasi pure del tempio di Do- dona. Sulla cima delle grandi piramidi
ne sorgevano altre quattro alte cento piedi', sopra le quali era praticato
un piano, ed in esso pure si alzavano altre cinque maggiori piramidi, che
secondo gli annali degli Etruschi veduti da f ar¬ ro nc, erano tanto
alte, quanto il rimanente dell’ edifizio. Ora domando io : a qual
potenza, ed a quanta ricchezza doveva esser sa¬ lita la città di Chiusi,
onde concepir potesse un suore , e condurre ad effetto la superba idea di
fare erigere una fabbrica di questa sorte, per servirsene* di sepoltura ,
quando ancora si voglia credere esagerato un tal racconto ! E veramente,
o esagerazione, o stranezza vi è certo, nella surriferita descrizione,
giacché è più agevole il disegnare quelle piramidi sulla carta, come saviamente
riflette anche il Pignotti, che il trovar la maniera di farle stare in
piedi. Tuttavia però , benché debbasi ridurre la cosa a più ristretti, e
più giusti limiti', conviene non pertanto ammettere, che la tomba di Porsena
fosse una fabbrica sorprendentissima, e tale da superare di gran lunga
quanto di più grandioso fece ammirare V umana vanità nei trascorsi tempi,
o si ammira pure nei nostri, presso le altre nazioni, se non per altro per la
singolarità della sua costruzione, e per la gigantesca sua mole-, poiché
tal cose possono ingrandirsi bensì dai narratori di esse, ma inventarsi non
mai. Nè meno splendida è da credere che fosse la nostra città, nè
inferiore la sua potenza 284 anni più tardi, quando scesero in Italia i
Galli Senonio Avvegna ché avendola quei barbari cinta d’ assedio, dopo aver
battuti i Romani ad Arez- 5 iig8, il pontefice Innocenzo III
scrisse al vescovo di Chiusi, benché se ne taccia il nome nel luogo donde
ho tratta questa notizia. E finalmente narrano, il Surio tomo l\ ,
e 1 Usuando nel Martirologio, che il dì 3 di luglio, imperando Aureliano,
vi conseguirono la palma del martirio i santi Mustiola cugina dell'
imperator Claudio ed Ireneo diacono, i cui corpi sono esposti alla venerazione
dei fedeli nella stessa città. Non solamente gli antichi monarchi , ed i
grandi Chiusini avevano le loro tombe gen¬ tilizie ; ma le private
famiglie eziandio , e queste più c meno grandiose, a seconda del¬
la propria condizione e ricchezza, come ne fan fede tutti quegl ’ ipogei,
che sortosi in buon numero dissepolti finora . E non dispiacerà , cred ’
io , agli amatori delle cose etrusche , il sapere in qual modo
discopronsi cotali sepolcreti . Nei trascorsi tempi era stato
il solo caso l'au¬ tore di simili ritrovamenti , poiché ì contadini
arando la terra si abbattevano di tempo in tempo in alcuno di essi, senza
cercarne. Ma da varii anni a questa parte , la cosa ha cangiato d 3
aspetto e si è determinata la maniera di rinvenirli a colpo sicuro ,
ed eccone il metodo. Avendo osservato alcuni signori Chiusini, come
, e dove erano situati gl ipogei discoperti dal caso, pensarono di fare
dei tentativi, saggiando il terreno , per discoprirne degli al¬ tri
espressamente cercandoli , ove se ne riscontrasse del sovraimpostoj ed i primi
saggi \ per essi sperimentati, sortirono un felicissimo effetto.
Questi diedero loro animo a procedere ai secondi , e quelli ai terzi , e
così ad altri di ma¬ no in mano. Di modo che nel corso di pochi
anni se ne scoprirono in tal quantità , che alcuni dei sullodati signori
, come fra gli altri, Casuccini, e Sozzi, arricchirono , o
formarono di pianta, ragguardevoli collez- zioni , di urne funebri , vasi
, specchi mistici, idoli , sitale , scarabei, ed altre interessan¬
tissime anticaglie. Le quali collezioni si vanno pure di giorno in giorno
aumentando , mediante i nuovi scavi che si continua¬ no sempre a
fare con caldissimo amore di patria , e senza risparmio di spese. La
qual cosa, se e lodevole in un governo, lo è mol¬ to più nella
condizione privata. Che al nascimento del cristianesimo, ed al tem¬ po
della propagazione di esso , fosse Chiu¬ si tuttavia una rispettabile
città , e fra le prime ad abbracciare la fede evangelica, si deduca
ancora da quanto sono per dire . Nelle catacombe che si trovano
situate alla distanza di circa un mezzo miglio dalla cit¬ tà
medesima , e delle quali fanno menzione, V Ughelli , il Boldetti , ed
altri, essendosi di recente intraprese delle escavazioni , che si
vanno proseguendo con ardore, sono stale riaperte molte strade, ove si è
rinvenuto un numero considerevolissimo di sepolcri murati a più
ordini , che saranno ben presto for¬ malmente aperti. Nei quali, se per
mancan¬ za di autentiche non si potrà asserire con sicurezza che vi
siano siati sepolti corpi di Santi Martiri , non può dubitarsi però
che abbiano servito di tomba ad individui della primitiva
cristianità . In alcuni di essi trovati discoperti si è
osser¬ vato essere state deposle in ciascuno le ossa d{ due o tre
individui : lo che mostra ad evidenza che fosse grande in quei tempi il
nu¬ mero dei cristiani in Chiusi , venendo ciò infermato dall ’
essersi colà diretti dalla stessa Roma, diversi seguaci della nuova
re¬ ligione , fra i quali la surriferita Vergine Mustiola, e dall 3
avervi spedito l* imperatol e Aureliano un suo Prefetto per nome
Par¬ do A promano, affine di perseguitarvi i Cri¬ stiani -, e non
pochi di essi vi subirono il martino , come t due santi nominati qui
sopra le anime goduto dopo ch’elleno son separate dal corpo. Furon varie
presso gli antichi le maniere di figurare un simile godimento, e noi
vediamo frequentemente nelle pitture dei vasi fittili, e ne’bassirilievi
alcune imbandite mense, i cui commensali starinosi lautamente bevendo a!
suono di piacevoli strumenti, poiché prevaleva presso di loro la massima
che il premio concesso alle anime beatificate era il godimento di una
eterna ubriachezza. Al pari dissoluta sembra l’altra massima degli
Etruschi i quali fanno consistere tal beatitudine nel libero consorzio di
ogni senso, per cui si vedono replicatissime pitture nei vasi etruschi d’un
satiro ed una menade, ai qual soggetto si dà nome di baccanale. Men
dissoluta è 1’ im¬ magine del Chiusino scultore antico di quest’ara, ove
al suono di variati strumenti ci rappresenta una mimica danza, replicato
soggetto nelle sculture più antiche di Chiusi a . Il rilievo di questa è
bassissimo, al pari dell’antecedente, e il disegno è parimente un terzo
del suo originale. JSum. j. Tra le molte immaginette in bronzo che
trovaronsi nelle terre degl’Etruschi rappresentative della SPERANZA se ne
incontrano alcune alate come la presente. Le ragioni che mossero questi popoli
ad AMMETTERE LE ALI ALLA SPERANZA, son da me dichiarate nello spiegare i monumenti
etruschi, non meno che il significato della veste che tiene scostata dal fianco.
Qui soltanto ripeterò brevemente, che gl’3truschi hanno spesso confuso LA
SPERANZA colla Nemesi, dando all’ una ed all’altra le ali MA LA SPERANZA,
A DIFFERENZA DI NEMESI, CONTRAE LA VESTE PER AVER PIU SPEDITO IL PASSO, ONDE
MOSTRARE CON QUANTA ANSIETA L’ATTENDE CHI SPERA. La mano elevata suole averè
altresì qualche simbolo o significato, ma di questa nulla diremo per
esser guasta; e solo avvertiremo esser questo disegno uguale in grandezza
al suo originale. JSum. 2 . Lo scarabeo rappresentato in questo
num. 2 , ha una figura scolpita rozzamente al segno da mostrare una sola
gamba, sebben sia nuda in tutto il corpo. Il petto è delineato in guisa
che addita esser donna,- e qualora interpetrar si volesse quel che tiene
in mano, direbbesi non impropriamente un pomo granato, sicché il combinare con
tutto ciò l’atto di stare assisa ci potrebbe far cre¬ der che fosse
Euridice o Proserpina, entrambe dimoranti all’ inferno, dove figurasi assiso
chi vi è destinato, per mostrar cred’ io la stanchezza di quella dimora.
Così Teseo condannato all’ inferno fu non solo così rappresentato dagli
Etruschi 6 , 1 Ivi, ser. i, 4i2. 5 Ivi, Ragionamento ìv , p. 17 5 ,
sq., e cap. u, 2 Micali, Monuments ant. pour l’ouvrage inlilulé p-
110. sq. l'Italie av. la dommation des Romains, pi. xvih, 6 Lanzi,
Saggio di lingua etrusca, tom 11, tav. Vili, 3 Monum. Etruschi;
ser. nij p. 202, sq. n. 2, p. lai» 4 Ivi, p. ao 5 ETRUSCO 2D2IL2.1
S&TftiL2 Non vi è soggetto che abbia tanto occupato il genio degli
artefici scultori nei monumenti ferali, quanto i Dioscuri. Noi vediatno
soventi volte nei cassoni mortuali i simulacri di quei due giovani
allegorici, posti simmetricamente alle due estremità delle cotriposizioni,
senza che abbiano colle composizioni medesime nessuna connessione storica
o favolosa ivi posti manifestamente non solo per ornamento, ma per
allusione speciale al passaggio dalla vita alla morte, e nuovamente dalla
morte alla vita’, come dicevasi dai Gentili che i Dioscuri ebbero da Giove il
vicendevole dono della immortalità 3 . Or poiché il pre¬ sente
bassorilievo è in un’ara di quattro facce, ove da ognuna di esse ripetesi
a guisa d’ornato il soggetto medesimo di due giovani equestri, e poiché
questo monumento è stato ritrovato in una tomba sepolcrale, così non credo
erronea 1’ in- terpetrazione ch'io dò a tal soggetto dei due Dioscuri,
ripetuti simmetricamente per ogni faccia dell’ara. Il rilievo della
scultura è bassissimo, eseguito in pietra tofacea, la quale si lavora con
molta facilità per esser fragile. Il disegno è un terzo dell’ originale.
È frequentissimo al pari dell’antecedente soggetto quello che l’osservatore
trova in queste 4 Tavole distribuito, non altro ivi raffigurandosi che il
gaudio mistico dal- i B. rii. del Mus. Borgia riportato dal Millin
, Galler. Mythologique Pian, lxxx, n. 53o. Co¬ ri , Inscript.
Antiq. in Etruriae urbi bus ex- iati., Pars ni, Tab. x. et xGxrti,
2 Inghirami, Monumenti Etruschi, r nuovo negli oggetti
ferali l’augurio di prosperità che i vivi facevano ai morti, nella
fiducia che godessero una vita migliore *. L’ altezza di questo vaso è un
terzo dell’ originale. tavola IX. Ecco un saggio dei
tanti vasi di bronzo che si trovano a Chiusi. La grandezza del disegno è pari a
quella del suo originale , ed ha ornamenti siffatti, che non disdirebbero
ad un’opera di fusoria dei migliori tempi dell arte; specialmente se
consideriamo quel manubrio a cui si leggiadramente vien data la forma d un
giovine in atto di riposo. Un altro genere d’ utensili tutto diverso dai
fin qui esposti, occupa la Tav. X, ove pure è diverso in tutto lo stile
del disegno che ne traccia la rappresentanza; talché sarei per dire che altri
fossero gli artefici e la scuola di scultura, altra quella di plastica,
altra quella di fusoria, altra quella gliptica, altra quella di grafito
in Chiusi, e che tutte separatamente si vedono in queste dieci tavole. Nel
presente disco manubriato di bronzo rappresentansi fuoi d ogni ub io i
Dioscuri: soggetto ripetutissimo in simili oggetti, che perciò diconsi
spec chi mistici; e su questi e su quelli ho scritto abbastanza,
ragionando dei Menu menti etruschi *. Uno dei giovani colla mano portata
in alto accenna il cielo, l’altro l’inferno col braccio al basso:
attitudine che a meraviglia esprime 1 al tei - ila loro posizione, come
dicemmo spiegando la tavola prima. Onde qui mi resta da notar brevemente,
che questi mistici utensili si trovano tra i cadaveri come un amuleto
relativo al transito delle anime da questa all’ altra vita. Una gran parte
di figure in bronzo quasi esattamente simili alla presente si trova in
vari musei d’ Etruria ; e poiché io ne vidi alcune che sostenevano un
gran disco con una incassatura al lembo di esso, così mi detti a credere che in
an¬ tico siano stati specchi di toelette, il cui disco lucido era
probabilmente incastra¬ to nella ghiera del disco di bronzo ade r ente
alla anzidetta figura, che gli serviva di manico 3 , e della grandezza di
questo disegno, eh'è uguale al bronzo archetipo. Non è dunque inverisimile che
essendo questo un vero specchio da toe¬ lette, sia quel manico dal quale
è retto, la figura di Veneie.3 Ivi, tav. vii. g ma descritto in simile
attitudine anche da Virgilio *. La stessa Euridice si vede rap¬
presentata all’inferno sedendo per terra, in atto d’esser liberata da Orfeo *
11 pomo granato nelle mani delle persone infernali è superstizione che
usavasi anche tra gli Etruschi, rappresentati nei coperchi delle loro
urne cinerarie 3 . Ma in tanta goffaggine chi decide? Num. 3.
Lo scarabeo di questo num. sarà spiegato con altro d'ugual soggetto.
mrriensa varietà di forme che s’incontra nei vasi sepolcrali, ve ne son 1
• j C | 6 ^ 6r °® n ' r ‘o uar do meritano d'esser fatte conoscere coi rami per
la H’ r t0 s ‘ n S°^ ar ‘ ta ; e per quanto non potremo in quest’opera
dar 0 °. °o nuna di esse, pure non
sapremmo astenerci dal farne conoscere le più a™’- 3 ' H t0 r >r *. nc
T a ^ menl:e riguardo alla utilità che queste nuove forme pos- caie a e
aiti meccaniche, ed al miglioramento degli utensili domestici. t . . Pj
ente ,n questa VII tavola figurato è di terra cotta di color rosso, si-
rorrisn 3 m6nte sn P ra a ^ tr ' quattro vasetti insieme uniti al
disotto, ed ai quali • . . n on° quattio fori nel recipiente maggiore
praticati, onde potrebbero ntrodurvs. quattro diversi liquidi, come
si vede chiaramente nel disegno superate " 6 ^ ° recc liette c ^ e servono
di manichi nel vaso di mezzo sono trafoche ' C ° me Se V1 fo8Se P assa t a una
cordicella per appendere tutta la macchinetta, per ques o aggiunto sembra
essere stata di qualche uso. tavola Vili. annoverare
preSeiUe è da re P u tarsi antichissimo, qualora non vogliasi mento
eli occh' imi ^ tlV0 delIe antiche opere plastiche. I profili con gran
’ g a Ì a pert.ss,m. ne. volti che vi son modellati, e quei veli che
hanno nera anche^nfll* *' mm< \ tnche Sono caratteristiche di grande
antichità. La terra sa che tende al ern ° 6 tenuta P er mater ia di
antica manifattura. La forma stes- Quegli animali m ° St ™ Ua
8:11810 non raffil)at ° dal progresso dell’arte. Ses^r r^
neOrHanOllC0r P°’ C0Ì1 ’ 6SSer S6nZa °^ tt0 "1*^ indicano tav XII
eiarrh' T ™ tUr ‘ A j ma del significato loro dò cenno spiegando la
mina in’ una « 6 ^ una leonessa o tigre che sia, con la coda che
ter- sta sull’ fi A r Pe ’ f ebbeS ‘ quest animale riguardar per un
mostro. Il gallo che , , ° e vaso e un au o ur ^° pel morto che fu
cornane fra gli Etruschi e dei ,»], ho trattato anche altrove i. Solo ,ui
r.m.L.o " i Virgil. Aeneid., lib. vi, y. 6iy. l Monum.
etruschi cit , «er. vi, l,v. C5, n. i. Etr. Mas. Chiùs. Tom. I.
3 Ivi, ser. vi, lav. Ha, unni 4 Ivi, ser. i, p. 3 I0 . P-
I#?. SULLA LINGUA ETRUSCA O e egli è vero, come nessuno può
dubitarne, che le lingue sono molto più antiche di tutti i monuménti
delle nazioni, sarà vero del pari che lo studio delle medesime, e
particolarmente lo studio comparativo, possa contribuire più di ogni
altra cosa, a rintracciare con sicurezza le origini dei popoli, le loro
affiliazioni, ed i loro mescolamenti, non meno che le divisioni, e
successive riunioni di essi, e le varie peregrinazioni, cui sono i
medesimi andati soggetti nel corso dei tempi. Ed infatti, chi non vede a
primo colpo d'occhio, per esempio, osservando la gran somiglianza che
passa fra i primitivi vocaboli della lingua samscritica, con altrettanti dell
antica persiana, della greca, della teutonica, della illìrica, e della latina,
che tutte queste lingue, o debbono procedere in prima origine da un
medesimo, fonte od esservi stato in epoche da noi lontanissime un
mescolamento, o per emigra¬ zioni o per cagion di commercio, di tutti
quei popoli che le parlarono ? Oltre di che, sarebbe veramente un voler
andare a ritroso, pretendendo che possa dipendere dalla semplice
casualità un lavoro così metafisico, e così profondamente pensato, quale è
quello dei significamenti dati ai vocaboli di antichissime lìngue, e che
furono parlate da popoli tanto lontani fra loro per geografica posizione e
tanto differenti per indole, per costumi, e per usi religiosi, e civili,
piuttosto che attribuirlo , o ad una sorgente comune, o ai mescolamenti
dei varii popoli in remotissime età, per qualunque cagione, ed in
qualsivoglia maniera siano questi avvenuti. Ciò premesso, e venendo a
parlare più di proposito dell’ etrusco, dirò liberamente che non giungono
a persuadérmi nè punto nè poco ì sistemi formati, e adottati finora dagli
archeologi, intorno a questo antichissimo, e presso che del tutto perduto
idioma, benché io professi una profondissima stima per ognuno di essi. E
vaglia il vero, benché il Cori, ilMajfei, il Guarnacci, il Dernpstero,
gli accademici di Cortona, ed il chiarissimo Abate Lanzi, abbiano fatto
ogni loro sforzo per diradare le tenebre nelle quali giaceva involta la
nazione etrusca, e piu ancora la sua lingua, e ci abbiano aperta colle
opere loro una strada onde poter fate nuovi passi, e nuove scoperte in
questa interessantissima parte della antiquaria, non possiamo tuttavia dissimulare,
che le oscurità non siano peranche grandissime, e singolarmente intorno
alla lingua, primo fondamento di tali studii, e unica face atta ad
illuminare le nostre archeologiche indagini, sulla origine, sulla
remotissima antichità, sui monumenti, e su qualunque vogliasi oggetto,
nguar ante questa nazione perduta. E benché ancora, dopo quei celebri
nomi- Nell' esporre questo pregevole vasetto di terra nera a quattro anse
con coper¬ chio, mi fo pregio di riportare la notizia che annettono al disegno
gli zelantis¬ simi editori di quest’ opera del Museo etrusco chiusino. «
Si crede, essi dicono, che i vasi di questa terra non siali cotti, ma
solamente disseccati al sole, poiché infondendovi dell’acqua li
compenetra, e si disfanno. Cotal genere di vasi non si son trovati fin
ora che a Chiusi e nei suoi contorni ». Questa è la loro avvertenza. L’
animale che vi si vede espresso è chimerico a rammentare i mostri caotici
che precedettero l’ordine della natura. In dimostrar ciò non mi estendo,
perchè abbastanza scrissi altrove onde far conoscere la frequenza di
simili soggetti cosmo¬ gonici >, espressi dagli antichi nei monumenti
sepolcrali. Avverte chi ha fatto eseguire’questa tavola, che sotto al
vaso è copiato un ornato d’oro dalla parte anteriore, il doppio dell’
originale, e sotto è disegnata la parte posteriore di esso, della
grandezza del monumento, ed aggiunge che le due sfingi rappresentatevi
sondi un lavoro mirabilmente finito e minuto. ISCRIZIONI FUNEBRI
ETRUSCHE Quanto saviamente dichiarasi dal eh. pr. Valeriani nel
secondo suo dotto ra¬ gionamento che segue, mi dispensa dall’onere di
spiegare le iscrizioni fu¬ nebri che trovansi nei cinerari etruschi di Chiusi,
perche scritti in una lingua perduta. Tuttavia quel barlume che le
moderne indagini dei dotti sopra di essa ci fan vedere, sarà posto a
profitto dall' eruditissimo sig. prof. Vermigiioli il più meritamente
accreditato in simile materia, onde in fine di quest’opera trovisi qual¬
che notizia di queste iscrizioni funebri chiusine, che ove lo concede lo spazio
vi si distribuiscono, senz’ altro dirne per ora. \ V* : IHd-M
3 Pi -O J I- :ian 0qm v : Pi +i fì® 11 • A? 3 d-flq = i
anq V >/ di. yfìMRY/\ IV. 33 =3 Dliaq => --1 Mti™
V V - , Mooum. Eu.. set. , p. 585 , 5 9 3 , set. m. P . 346, 36» >4
dì^ìosamcnte remota , dice il Pejleuttier nella sua storia dei Celti, gli
antichi popoli di questo nome, o i Cello-Sciti, la cui lingua se non è
primitiva in un senso assoluto, 10 è per lo meno relativamente a quasi
tutte le lingue conosciute, sì furono sparsi da una parte nell Asia
occidentale, e dall altra nell Europa, si estesero in quest ul¬ tima
regione, gli uni al Settentrione, e gli altri lungo il Danubio. La posterità
di questi poi rimontando quel fiume, pervenne in seguito alle sponde del
Reno , le quali oltrepassò, e riempi delle sue numerose popolazioni tutto
l’ intervallo che si estende dalle Alpi ai Pirenei, e ai due mari.
Laonde ovunque la lingua dei Celti mescolandosi agl’ idiomi indigeni, formò
delle combinazioni, ov’ ella dominò sen¬ sibilmente . Ed anche in quei
contorni che aveva trovati deserti, o dai quali aveva fatto scomparire
gli abitanti, il celtico si conservò nella sua purità originale. Alcuni secoli
dopo la popolazione sempre crescente di questi Celti, o Galli, li costrinse
a passare i Pirenei, e le Alpi. In Italia, dopo avere occupato da prima
tutto il paese posto al piede delle montagne, eglino si estesero di mano
in mano, nel- l'Insubria, nell’Umbria, nel paese dei Sabini, in quello
degli Etruschi, degli Osci, dei Sanniti, ed in tutto il resto della
penisola al dì qua del Garigliano. Nel medesimo tempo alcune colonie greche
approdarono all’ estremità orientale d’Italia, e vi formarono degli
stabilimenti. Lasciami poi ben presto le sponde del mare , e spingendosi
sempre avanti, incontrarono finalmente i Celti, che continuavano pure dal
canto loro ad avanzarsi ancor essi • Dopo alcune guerre, poiché questo è
sempre 11 primo caso dei due popoli che s incontrano j sì riunirono
nell’ antico Lazio, e non vi formarono più che una sola società, che
prese il nome di popolo lati¬ no. Allora le lingue delle due nazioni si
mescolarono insieme, e si combinarono con quelle dei primitivi abitanti.
Nè bisogna dimenticarsi di osservare che in quest' amalgama aveva il
celtico un gran vantaggio . Il Greco, che non era allora, o a
grandissima distanza, la lingua di Omero, di Platone, doveva dal canto
suo il nascimento ad un miscuglio di mercatanti fenìci, d’ avventurieri
di Frigia , di Macedonia e d’ llliria, e dì quegli antichi Celto-Sciti,
che mentre i loro compatriotti si precipitarono in Europa, eransigettati sull'
Asia occidentale, donde erano discesi in seguilo fino al paese che fu poi
la Grecia. Eravi dunque del celtico alterato nel greco, che si combinava
di nuovo col cel¬ tico. Dalla qual moltiplice combinazione nacque la
lingua latina, che rozza nella origin sua. ripulita poi, e perfezionata
col tempo, divenne in fine la lìngua di Terenzio, di Cicerone, di Orazio, e di
Virgilio. Ed è questa medesima lingua latina, che dopo un si bel regno
terminato con un sì lungo e tristo tramonto, veniva ad amal¬ gamarsi
ancora un’altra volta col celtico : sorgente comune dei barbari dialetti
dei Goti, dei Lombardi, dei Franchi, e dei Germani, per divenire poco
tempo dopo la lingua di Dante, di Petrarca, e di Boccaccio. Per tali
considerazioni, e per quelle già riferite in questo ragionamento, io credo che
si debba battere un cammino diverso da quello che si è battuto finora
dagli archeologi, nell’ investigazioni intorno gli antichi Etruschi , ed al
loro linguaggio. E non già perdi’ io abbia la nati dì sopra, molta
gratitudine dobbiamo avere ai Signori, Vermiglìolì, Zannoni, Mleali. Orioli,
Ciampi, e più particolarmente all’ infaticabile cav• In- giurami, per i
tentativi che tutti questi hanno fatto, onde aggiungere dal canto loro
nuovi lumi, affine di condurci vie più addentro nei penetrali delle cose etrusche,
non ci siamo non pertanto finquì partiti, quanto alla lingua, dal punto dove
era¬ vamo cinquanta, o sessanta anni, per non dire quasi un secolo
addietro. Nè qui sarebbe per avventura fuor di proposito lo
stabilirese la nazione etrusco debbasi avere assolutamente nel numero delle
perdute, e nel caso affermativo determinare il come, e il quando sia
questo avvenuto, oppure considerare la dob¬ biamo come trasfusa nella
romana , o combinata con tutte quelle che invasero a piu riprese V
Italia. Ma siccome cotali ricerche mi farebbero deviar troppo dallo scopo
che mi sono prefisso in questo discorso, e mi trarrebbero troppo in
lungo, cosi le serbo ad altro tempo, e ad altro lavoro. E per
istringermipiù dappresso al mio soggetto, dovremo noi riguardare la
lingua etnisca, o come primigenia, e indi genia dell antica Etruna,o come
proveniente da altro più vetusto idioma italico-, o sivvero come un
composto di più dialetti stranieri, combinati coll’indigeno, quali sarebbero,
il pelasgo, il lidio, il celtico, il greco antico, il traco-frigio, ed altri,
qua por¬ tati a diverse epoche dalle varie colonie che si venneroa
stabilire nelle nostre belle contrade. Riflettendo che tutti gli
archeologi, i quali procacciarono di rischiarare questa materia
oscurissima, hanno ben poco, o nulla concluso finora circa l’intelligenza dell
antica favella dei nostri padri, e quelli che pretesero di trarla dall’
Oriente senza alcun altro soccorso, e quelli che la vollero derivare dai
Greci e i fautori dell antico latino $ pare che ne inviti la sana
critica, e ne sproni il buon senso, a tentare un’ altra via, per vedere
se si giungesse finalmente a scio¬ gliere questo famoso nodo gordiano. Ed
io penso che giovandosi di quanto si può raccogliere di antichissimo
italico , donde procede in gran parte il vècchio latino, non trascurando
il greco , per le ragioni che svilupperò altrove, e ricorrendo pure ai
dialetti annoverati qui sopra , si possa con sicurezza avanzare qualche
passo, e forse ancora giungere a fissarne un compiuto alfabeto , e quindi
a bén leggere, ed intendere, tutto quello che ci rimane di etrusco.
Imperocché, sia che abbia veramente esistito una lingua primitiva, della quale
tutte le altre non siano che derivazioni, e prodotti, o sia che le diverse
popolazioni umane siensi fatta da principio, ciascuna la sua lingua, e
che per moltiplicate combinazioni, e dopo una lunga serie di secoli,
questi diversi idiomi particolari siano venuti, per cosi dire, a fondersi
in un idioma generale, che in seguito poi siasi diviso, e suddiviso di
nuovo, in lingue, e in dialetti diversi, vi sono pochi argomenti più degni
dell’ attenzione del filologo, e del filosofo ad un tempo, di queste
formazioni, di queste separazioni e di queste riunioni dì linguaggi, che
indicano le principali epoche della formazione, della separazione, e
della riunione dei popoli. L’ idioma Latino che disparve al nascere dell'
Italiano, era stato in una molto recondita antichità il prodotto di una
simile rivoluzione. Quando ad un' epoca prò- Porgiamo alla considerazione
dello spettatore in questo disegno la più grande urna in marmo che siasi fin
ora trovata nei moderni scavi di Chiusi, misurando in lunghezza circa 4
braccia. Ha nel cornicione superiore una lunga iscrizione etnisca, ma
disgraziatamente dipinta, e non conservata come desiderar si potrebbe per
l'intelligenza compita, quantunque da quel che resta comprendesi essere
un aggregato di nomi famigliari e nient'altro. Vi corrisponde la
rappresentanza della scultura, ove si vede la moglie che dal marito
congedasi, o questo da quella per girsene all’altra vita. Una Furia come
addetta al ministero delle anime ’, ab¬ bracciando la donna par che
indichi esser lei la defonta, e non 1’ uomo che il soggetto ivi appella.
Infatti contiene il coperchio dell’urna una donna, come vedremo. Termina
la composizione con altre due Furie, una delle quali è pronta a ricever
l’anima alla porta infernale per dove passavasi quindi agli Elisi a ; e le
altre cinque figure intermedie non altro significano a mio credere che
parenti,e forse anche estinti antenati, de’quali siansi voluti rammentare i
nomi nella iscrizione. Forma questo bel monumento e rarissimo in Etruria
uno dei principali ornamenti del Mueo Casuccini di Chiusi. Ecco il coperchio in
marmo dell’ urna già osservata nella Tavola antecedente. Quivi e una
donna mutilata in parte, come esser sogliono le sculture sepolcrali visi¬
tate dai primitivi cristiani, ed in quella occasione depredati quei loro
sepolcri; ma pure non sempre del tutto, e infatti si è trovato in Chiusi
qualche ornamento d’oro uguale alla collana che riccamente scende sul
petto di questa defonta, la quale è succinta , come esser sogliono le
protome delle donne. Ha in mano un pomo gra¬ nato, conforme davansi a chi
si portava all’ inferno. 3 . Quando si volesse dare una interpetrazione a
quest’oscuro soggetto in bassori¬ lievo, si potrebbe dire essere il
giovane Astianatte genuflesso sul larario, in atto di venire immolato al
furore di Pirro. Il monumento è un’urna di terra cotta non molto
conservata. 1 Monum. Etr., ser. i, p. 191, 229. a Ivi, p.
177, »46. 3 Ivi, ser. 11, p. 229, a 3 o. stolta presunzione
di credermi più perspicace, e più istrutto di quei dottissimi, che si
affaticarono in clamo su questo istesso argomento-, ma solamente perchè
il tentar nuove strade in materia cotanto astrusa, è permesso a chi che
sia, particolarmente quando tutte quelle tentate finora, non sono opportune a
condurci a buon porto . E perché è pur vero che non di rado toccò in
sorte ad uomini di mediocre ingegno e sapere, il discoprimento di ciò che
rimase lungamente occulto alle più profonde, e costanti ricerche di
sapientissimi osservatori. Protesto peraltro ampiamente d’esser
pronto ad abbandonare la mia opinione su questo proposito, quando i dotti
me ne oppongano un’ altra più plausibile, e più idonea allo scopo cui è
diretta. Essendo io scevro affatto di ogni particolare affezione per
essa, ed alienissimo da qualunque spirito di sistema, nè altro cercando che la
verità . Avvegna che, una delle cause positive, anzi la principale, a mio
credere, che abbia così ritardalo, ed impedito la scoperta del vero in
questa materia, è stato senza dubbio lo spirito di sistema, portatovi da
ciascuno di quegli archeologi, che vi eser¬ citarono con particolari
indagini il proprio ingegno, ostinandosi, e forzandosi per ogni maniera,
a derivare da un solo fonte la Unga etnisca. Idifatti, niente è più fu¬
nesto ai veri progressi delle scienze, nè più contrario al discoprimento della
verità, di quello che lo sia uno spirito sistematico. Imperocché tutto
allora si sconvolge, si contorce, si altera, anche senza avvedersene, per
trarlo comunque al proprio si¬ stema, adattarcelo, e farlo a diritto o a
torto, convenire con quello . Ma chi adopra in tal guisa, non và
altrimenti in cerca del vero, e si affatica soltanto a rinvenire ciò che
egli si è preventivamente immaginato di dover trovare. Cosi, tutti coloro i
quali pretesero di far venire gli Etruschi da una colonia di Cananei, o di
altri Orientali, crederono di vedere perfino la forma delle lettere
etnische, in quella delle ebraiche, e più specialmente delle cosi dette
sanimaritane, benché non ve ne fosse la minima idea. E t.enevansi tanto
più sicuri del fatto loro, in quanto che usarono i nostri antichi padri
condurre la loro scrittura da destra a sinistra , come gli Ebrei, i
Samma- rilani,ed altri popoli dell’Oriente.I Sè mancarono di viepiù
confermarsi in tale opinio¬ ne, osservando alcune voci etrusche, simili,
o provenienti dai dialetti semitici-, quasi che fossero queste argomento
bastante a costituire la identità di origine dell' etrusco con quelli, e non
sapessero tutti ifilologi, che s’incontrano delle voci simili di suono, e
di significato ancora, in quasi tutte le lingue conosciute, senza poter
giungere a provare per questa via, che l una derivi con sicurezza dall' altra,
e tutte da un fonte comune. Mentre sono tali somiglianze , ed analogìe,
il prodotto di quei mescolamenti, dei quali ho parlato in principio. E
con tanta maggiore facilità debbono essersi mischiate, e combinate non
poche voci orientali all’ etrusche, per lo commercio singolarmente dei
Fenici coi nostri antenati, in epoche da noi remotissi¬ me, come altrove
si è detto-, insegnandoci concordemente gli antichi scrittori quanto in
ciò valessero gli Etruschi, o Tirreni, e come signoreggiassero i due mavì
che circondano Italia, cui diedero perfino il nome. si vede nel manico è
il sole, come io spiegherò meglio in seguito, e l'atto delle mani e dei piedi
che volgesi in alto, in basso e per ogni senso, è simbolo della generale
influenza dei suoi raggi, cbe si spargono in giro Gli ornamenti a
bassorilievo che circondano questo vaso non hanno un signi¬ ficato
diverso da quei che vedemmo alle Tavole Vili, XII, XIII, e XIX, ed è
perciò inutile ripetere ulteriormente il già detto. M’ immagino che la figura
qui espressa, e ripetuta più volte in molti vasi trovati nei sepolcri,
possa esser Marte, il quale significar vi debba, che il tempo in cui
domina quel pianeta è l’autunno, come in altri monumenti se ne vede l'indizio i
2 , e questo tempo vi si rammentava per la ricorrenza del suffragio delle
anime 3 , al quale oggetto erano istituite feste ed offerte ; o forse
rammentasi la deità degl’itali primitivi. Sono assai numerosi gl’
idoli femminili in bronzo di piccola dimensione pari al presente, eh’ io
credo essere stati nominati comunemente dagli antichi gli Dei Lari, o
Penati, o Geni tutelari, e Giunoni 4 , quando, come questa statuetta,
erano femmine; e dice vasi che ogni donna aveva la sua Giunóne per
protettrice 5 . Il gusto dei Greci, come ricaviamo dalle opere loro
trovate in Ercolano e Pompei, era d’inventare ornamenti per le
suppellettili anche non attinenti al fasto ed al lusso, dove introducevano con
molto genio ed ingegno animali ed umane figure : genio che si propagò per
l’Italia, come vediamo nelle opere di Chiu¬ si ,• di che abbiamo un bell’
esempio nei due manichi di bronzo incisi in questa XXHI Tavola, un
de'quali ha un mascherone bizzarramente travisato con fo¬ gliami, fiori
ed una barba assai schersosamente spartita. Bella è parimente l’im¬
magine dell’altro manubrio disegnato di faccia e di profilo, dove si vede un
anima- i Monumenti etr., ser. 11, Tay. xc, pag. 762. 4 Monumenti
etr., ser. 1, p. 279. % Ivi, ser. vi, tay. F2, num. 3 , p. 17 5
Yirgil. Aneid. 1 . ili, v. ifij , Ovid., fastor. xi 3 Ivi, ser. j,
p. 1 47 » 5x2, 544 * y* 4 ^ 5 .notabile che i coperchi delle urne in terra
cotta sieno di miglior modello eh esser non sogliono quelli scolpiti in
pietra N’ è chiaro esempio questa re- combente figura che servì di
coperchio all’ urna precedentemente esposta. Ognun vede quanto il
panneggiamento sia più ragionato nelle pieghe di quel che osservammo allaTav.
XIV ove ne reputammo l’urna spettante a ricca matrona. Chi sa che il
lusso de marmi non prevalesse in tempo della maggior decadenza delle arti
? La muliebre figura qui esposta fu eseguita in fragile pietra tofacea e
trovata acefala in un sepolcro, colla particolarità che il collo è vuoto
come anche il torso, ed è servito per deposito d umane ceneri e d J ossa
cremate, che vi si trovarono al- 1 aprir della tomba, ove la statua era
sepolta. Il significato non è facile a penetrarsi, ma dal pomo che ha in
mano, e dall atto sedente, non sarebbe fuor di proposito il congetturarne
che fosse una Proserpina, la quale riceve unitamente col suo con¬ sorte
Plutone le anime che scendono al Tartaro. Difatti anche al Museo Pio de¬
mentino vedonsi que’ due numi sedenti a . La singolarità dell’ esposto
monumento esige che se ne mostri anche la parte avversa alla già veduta.
Ivi più chiaramente si nota che a formarne il magnifico sedile concorrono
i simulacri di due sfingi, le quali assai frequentemente s’incontrano in
monumenti ferali; poiché la sfinge reputavasi animale chimerico infernale 3 , e
perciò attamente posti ad ornar la sedia della divinità che attende alle
anime trapassate da questa all’ altra vita. La frequenza dei volti velati che
vedonsi ne’yasi di terra nera, come in questo, non lasciano luogo a porre
in dubbio se siano o nò rappresentanze di larve o Lemuri, cioè delle
anime 5 , ed il gallo che sovrasta al vaso, pare, come ho detto altrove 6
, indubitato simbolo del buon augurio di felicità nella futura vita, che
a quelle anime predicevasi dai superstiti viventi. La figura con faccia
larvata che 1 Monum, etr., ser. ni, p. 4 io, e ser. vi, Tav. 4 Ivi,
ser. v, p. a;8. X 3 , n. 3, p. 3 a. 5 Ivi, ser. i, pag. ai, 52. Visconti,
Mus. P. Clem. Voi. li. Tav- 1, a. 6 Ved. p. 9. 3 Monum. etr. «er.
i, p. 582. Etr. Mas. Chius. SULL’ ALFABETO ETRUSCO
-Uopo che gli uomini ebbero trovato coll’ uso naturale degli organi della
parola, un mezzo facile di comunicare i loro pensieri ai presenti, cercarono,
e trovarono in seguito, quello di parlare agli assenti, e di rammentare a
se stes¬ si, ed altrui, ciò che era stato pensato, e detto da loro, e da
altri, e ciò an¬ cora di che erano convenuti insieme. La prima cosa pertanto
che si presentasse loro allo spirito in questa ricerca, furono le figure
geroglifiche ; ma colai segni non erano abbastanza chiari, e precisi, nè
abbastanza univoci, per adempire lo scopo che avevasi in mira, di fissare
cioè la parola, e di farne un monumento più espressivo del marmo, e del
bronzo. Il desiderio dunque, ed il bisogno di compiere questo disegno,
fecero final¬ mente immaginare quei particolari segni, che noi chiamiamo
lettere ognuna del¬ le quali fù destinata a notare uno dei suoni
sémplici, che formano le parole', la riunione dei quali segni, è ciò che
dicesi alfabeto. Volendo però risalire fino alla prima origine dì questo
maraviglioso ritrovamento, rischieremo sempre di smarrirsi senza riparo,
in un mare di oscurità, e d’incertezze, e circa V epoca in cui giunsero
gli uomini ad un si nobile discoprimento, e circa la nazione che prima di
ogni altra vi pervenne. Lasciando perciò da parte la ricerca di
quello che io giudico moralmente impossibile a rinvenirsi, volgerò le mie
indagini a cosa più certa, od almeno piu probabile, qual e la quistione,
se gli Etruschi, od i Greci fossero i primi a far uso di una cosi bella,
ed utile invenzione. E qui pure siamo costretti a navigare, presso che
senza bussola, m un ampio pelago, sparso di profondissimi vortici, d' orribili
mostri, e di scogli assai pericolosi. Imperocché, se molti dotti
sostennero, e sostengono tuttavia che i Greci sono anteriori agli Etruschi
nell’ uso dell’ alfabeto, e vengono riguardati come i maestri di essi, in
qualsivoglia arte o scienza, non è per altra parte minore il numero, nè
di minor momento V autorità di quelli, che citar si possono per sostenere
il contrario. Perlochè io aderisco a questi ultimi, sembrandomi la loro
opinione più ragionevole , e più giusta, ed i sostenitori di essa
persuadendomi colle loro ragioni, ciò che non giungono a fare i
propagatori del grecismo, ad onta ancora di tutte le parole greche, o
grecizzanti, che s’ incontrano ad ogni pas¬ so in quasi tutti i monumenti
etruschi, discoperti finqui, avvegnaché intorno a le mostruoso, che per
aver motivo d' essere attaccato al vaso figura di morderlo. Sotto è un
Ercoletto giovane, che tiene la mano alzata, vibrando la clava in segno
di recar danno e morte, ed ha cinti i lombi colla pelle di leone,
simboleggiando di non curarsi della generazione ’, come è proprio
d’Èrcole quando figura il sole iemale. Difatti rispetto ai viventi è il sole
che loro apporta la vita coll’universale tepore della natura in
primavera, e porta danni o morte col raffreddamento del tempo iemale.
Qual simbolo può dunque esser più adattato a decorare un sepolcro, che
quello dove rammentasi la vicendevole transizione dalla vita alla morte ?
Lo scarabeo di cui si vede f impronta ha inciso un centauro con un
fanciullo sul dorso, forse Chirone col giovane Achille che dicesi da
taluno essere stato affidato a quel mostro per riceverne la puerile educazione.
La rappresentanza di questo specchio mistico sarebbe forse difficile ad
inter- petrarsi, qualora non fossene venuto a luce un altro di quasi
ugual soggetto. In quello vedesi Giunone sedente in atto di porgere ad
Ercole la mammella, perchè ne succhiasse il latte, il chè succede alla
presenza di Mercurio 3 . Sappiamo infatti che Giove bramava che Ercole
per ottenere l’immortalità, benché nato da mortai femmina, sorbisse
almeno latte divino, onde per uno dei soliti inganni frequen¬ tissimi
nella mitologia, Giunone gliel porse senza avvedersene 4 . Mercurio vi si
crede introdotto, per attestare ad Ercole d’aver egli pure profittato di tale
arguzia, per entrar fra gli Dei, benché nato da Maia donna mortale .
Qui non è espresso l’atto di Giunone per allattar Ercole, ma pur vi si
vede Mercurio che si fa noto col suo cappello, e par che accenni d’ aver
profittato egli stesso dell’espediente che suggerisce ad Ercole, il quale
gli sta davanti. Ha la clava , in mano ed un piede elevato, indicando che
salir deve all’ immortalità 3 per opera di Giunone 6 eh’ è fra
loro. fli8v«q :ian8 j v :ioj vi. j a 11 y fi j 1 :i n tnq r
= o 4 vii. 1 f\ il 8 4 Y d : fi m 3 4 t :42 vili. •-ifi n t v
t :o 4 .• in i n q n o n lx - -4/nm-rfl4 itntnqfl .-4sa x.
§ Monumenti etr. ser. v, p. 3 a. 2 Galleria Omerica Tom. ii,
Tav. cxxi, pag. 2,4. 3 Schiassi, De pateris ariliquor.ex schedis
Blan¬ dirli Sermo ed epislolae tab. x. 4 Diodor., Sic.
Bibliot. bist. lib. il, p. 198. 5 Mon. etr. ser.n, Tavv. lxxu,
lxxìii, lxxiv, lxxv, 6 Zarinoni, Lettere di etrusca erudizione pubblicate
dall’ Inghirami, pure in ogni tempo di tracciare nello stesso modo le loro
scritture. E tutti, c/uesti ultimi specialmente, furono sempre uniformi
in questo, ad eccezione degli Etiopi soli, e degli Abissini, che sebbene
parlino, e scrivano un dialetto semi¬ tico, scrivono tuttavia da sinistra
a destra, come gl’ Indiani, ed i segni deliaco alfabeto hanno un valore
sillabico, come gli alfabeti indiani, ed anche il tibetano , ciascuno dei quali
segni porta seco, in certo modo incorporata una vocale , e forma una
sillaba. Ciò che non accade in nessuno degli alfabeti europei, e neppure
nel giorgiano, e nell 1 armeno, che vengono pure delineati da sinistra a
destra. Laonde non pare poi tanto strana V opinione di quelli, i quali
pensarono, che gli Etruschi propriamente detti, fossero discesi in prima
orìgine da una colonia, o emigrazione asiatica. Ma di ciò altrove.
E se i Persiani, ed i Turchi scrivono da destra a sinistra, benché la lingua
dei primi venga dalle Indie, e quella dei secondi dalla Tartaria, ciò
procede dall’ aver tanto gli uni, che gli altri adottato i caratteri
arabici, ed al tempo stesso la religione del borano. Quindi tenendo in
conto di cosa sacra i suddetti caratteri, non è da maravigliarsi nè punto
nè poco, se essi non abbiano ardito dì alterarli, nè quanto alla
primitiva lor forma, nè quanto alle maniere di rappresentarli colla scrittura.
Ché del resto ben diversi riscontratisi gli antichi carat¬ teri persiani
chiamati zendici, e pelvici, come assai differenti ritrovatisi, e pel
modo di scrìverli, e perla loro forma, ofigura, quelli dei Tartari.
Ciò premesso o siano stati gli Etruschi i ritrovatori dell’alfabeto che
porta il loro nome, o l’abbiano composto di più antichi alfabeti italici,
o V abbiano derivato da al¬ trove, come pare dai nomi stessi che portano
le lettere del medesimo, benché sia diffìcilissimo, e forse impossibile a
provarsi, per mancanza di documenti sicuri, il come, ed il quando abbiano
ciò fatto-, è peraltro fuor d’ogni dubbio, che i Greci non lo comu¬
nicarono loro, e non furono per conseguenza i loro maestrì.Che anzi è da
credere che sia accaduto tutto al contrario, e che gli Etruschi, nazione
mitissima, e potentissima in età molto remote, e quando la Grecia era tuttora
barbara, e selvaggia, 1’ abbiano comunicato ai Fenici per via di
commercio, e che da quelli passasse ai Greci, se vogliamo ammettere ciò
che sostengono quasi tutti gli antichi scrittori, cioè, che Cadmo facesse
loro il dono del primo alfabeto. Del qual Cadmo scrive Plutarco nei
Simposiaci iib. 9 quist. 5, che quel sapiente pose Z'aleph, o alpha per
prima lettera del suo alfabeto, perchè cosi chiamasi il bue nella lingua
dei Fenìci, il quale animale non è da stimarsi nè secondo nè terzo fra le
cose necessarie all’ uomo come pensò Esiodo. Circa poi al grecismo, che
s’incontra nell’ etrusco, e nell’Etruria, e circa le arti greche, che vi
si osservano, come ancora in altre parti dItalia, ne parlerò a lungo in
un discorso, che tutto si aggirerà intorno a questa materia, esclusivamente
da ogni altro oggetto. E proverò allora, che l’idioma degli antichi Etruschi è
nel suo fondo tutt' altra cosa che greco; dimostrando ad un tempo, in
qual modo, e questo grecismo sian da dirsi alcune cose eli io riserbo ad
un altro ragionamento. Ma ritornando al titolo del mio discorso,
cosa è V alfabeto etrusco? É questo un prodotto indigeno dell’ antica Etruria,
o sivvero vi fa trasportato da altra parte del mondo? E se qua venne da
estranei lidi, chi fu mai quel benefico straniero , che fece all ’ Etruria un
dono cosi prezioso ? Ed in questa supposizione, passò egli ai nostri
antenati dall’ Oriente, oppure dall’ antica Grecia ? O si compose egli forse
degli elementi di più antichi alfabeti italici, o di questi, e del
pelasgo fra loro mescolati, e confusi ? E se vi fossero ragioni bastanti
a dichiararlo prodotto indigeno, a quale epoca rimonterebbe l’ antichità
sua , ed a quale ammettendo che sia frutto straniero , e per qual mezzo pervenne
ai padri nostri? A tutte queste quistiom, che possono
opportunamente esser mosse intorno al tema che ho tra mano, io mi
studierò di rispondere, quanto meglio e più con¬ cisamente per me si
potrà, e come sarà possibile rispondere, in qusto breve ragionamento, m una
materia cosi oscura, e difficile • E circa alla prima quistio- ne, l
alfabeto etrusco, quale noi lo possediamo presentemente, non è certo una
cosa diversa dall antico alfabeto greco, ma sono anzi talmente somiglianti fra
loro, se tolgasi il rovesciamento delle lettere nell’ uno di essi, da doverli
giudicare al confronto, senza timore d’ ingannarsi, la stessa cosa-, sia diesi
riguardi la forma delle lettere, o si consideri l uso delle medesime, Nè giova
opporre a questa asserzione, la maniera di scrivere degli Etruschi da
destra a sinistra, avvegnaché usavano di fare lo stesso anche gli antichi
Greci, prima dell’ età di Pronapide, che si pretende essere stato il
maestro di Omero. Che anzi esser potrebbe credi io, una tale
particolarità, un argomento favorevole agli Etruschi, per crederli i
ritrovatori del loro alfabeto• Al che si aggiungerebbe forza non poca,
considerando l antichità loro, più recondita assai di quella dei Greci.
E più ancora verrebbe avvalorato, e confermato un tale argomento, che
gli Etruschi, cioè, siano stati eglino stessi gli autori del loro
alfabeto, riflettendo che i medesimi continuarono in ogni tempo a
scrivere, ed anche sotto la dominazione dei Romani, da destra a sinistra-, lo
che non avvenne dei Greci, iquali cangiarono metodo, e presero a condurre
la loro scrittura da sinistra a destra. Ora è più ragionevole il credere,
che il rovesciamento degli elementi alfabetici, e del modo di scrivere,
siasi operato da chi l’apprese da altri, che da chi ne fù l inventore. E
questo rovesciamento di scrittura presso i Greci, vuoisi fissare, come di sopra
accennava, ai tempi omerici, o di Pronapide. A questo argomento
però se ne potrebbe, per avventura, opporre un altro, di¬ cendo , ché
giusto appunto perchè gli Etruschi scrissero sempre conducendo, e
tracciando i caratteri da destra a sinistra, non debbono riguardarsi come i
ritro¬ vatori del loro alfabeto, ma convien credere che lo abbiano
ricevuto da qualcuno dei popoli asiatici, e particolarmente di quelli
così detti semitici., ì quali usarono T-;,- Per la qual cosa
, mi pare che dopo tutto quello che ho detto finqui', si possa rispondere
alle questioni proposte in questo medesimo discorso, che V alfabeto
etrusco non è venuto dal greco, ma bensì questo da quello j che desso non è
pri¬ mitivamente indigeno dell’ antica Etruria, quanto ai suoi elementi,
i quali furono quà portati da una emigrazione antica, in tempi tanto
reconditi da non poterne fissar V epoca precisa, e che s’ ignora chi ne
fosse il primo inventore, e chi lo portasse il primo fra noi. Sulla qual
primitiva derivazione asiatica dell' alfabeto etrusco, in età da noi
remotissime , dettero un ragionamento a parte, che verrà pubblicato in
seguito in quest’ opera stessa. Ciò peraltro non vuol già dire, che anche
la lingua etnisca sia una lingua del tutto asiatica, come la giudicarono
troppo leggermente alcuni filologi, sebbene asiatici si riscontrino l’ antico
culto, e la maggior parte dei riti religiosi, e civili degli
Etruschi. Or qui farebbe di mestieri combattere, e confutare tutte
le opinioni contrarie ; nè io sarei alieno dal prendermi un tale assunto,
se i limiti prescritti a questi ragionamenti, nei quali non deve olt repassare
, per l’indole dell' opera cui son destinati, la periferia di poche
pagine di stampa per ognuno di essi, me lo concedessero. Non potendo ciò
fare, nel modo che si converrebbe, mi ristringerò ad aggiungere quanto
segue, e mi terrò per ora contento di questo. Il Cori, il Majfei,
ed il Mazzocchi confrontando gli alfabeti punico, e celtibe- ro, o
cantabro coll’etrusco, dicono che vi trovarono minore analogia, quanto
alla forma dèlie lettere, che coll’ ebraico. Il Donati poi che fece la
stessa cosa nei suoi Dittici seguitando le osservazioni, che avevano già
fatte prima di lui a questo proposito, l’ Aquila , Teodozione e San
Girolamo, scrive nell’ opera sua intorno alle iscrizioni, che quelle così
dette Cizzie, sono riguardo ai caratteri, mollo simili alle etnische j e lo
stesso dice ancora del marmo Sanvicense conservato in Osford, che vuoisi
più antico della guerra troiana, e dei caratteri incisi sulla lamina
bustrofeda di bronzo, riportata dal prelodato Majfei nella sua Critica
Lapidaria, non meno che di quelli sulla colonnetta del Museo Nani di
Venezia, giudicata pelasga-tirrena , benché fosse ritrovata a Mitilene
. Questi monumenti, che si credono tutti scrìtti in greco antico, e per
essere questo mollo simile all’ etrusco, specialmente circa la forma
delle lettere, sono stati quelli che hanno fatto mettere in campo, o
convalidare l' opinione di coloro, i quali pensarono che il greco antico,
é l'etrusco fossero la stessa cosa, e che per giunta alla derrata, la
lingua dei nostri antenati sia nata dal greco. Senza avere peraltro mai
pensato a provare, che i Greci, ed il loro alfabeto fossero più antichi
degli Etruschi. Il Gori,fra gli altri, stabili come un assioma, che
la lingua etrusco era greca in non differiva da quella che nel dialetto,
nella quale opinione fu seguito dal Lanzi, e da altri. Ne si avvidero, nè
lui stesso , nè i suoi seguaci, che i Pelasghi, i lirrem, i Pladani, i
Lidii, gli Arcadi, e gli Ausonìi, sono perchè s J introdussero nell'
etrusco, e nèll' Etruria propriamente detta, quel grecismo, e quelle arti. Che
in quanto alla somiglianza, ed anche identità dei caratteri etruschi, e greci
antichi, sii di che fondarono finora il loro più valido argomento tutti
gli archeologi fautori del grecismo, per asserire che l' etrusco , ed il
greco antico sono in ultima analisi la medesima lingua, è il più frivolo,
ed anche il più ridicolo ragionamento, che immaginar mai si possa,
Avvegnaché, vale lo stesso che se io ragionassi cosi: gl’ Italiani, i
Francesi, i Fiamminghi, gli Spagnuoli, i Polacchi, i Portoghesi, ed altri
popoli d' Europa, come gl'in¬ glesi, i Dalmati, e gli Olandesi, si
servono dello stesso alfabeto per iscrivere le loro lingue, dunque tutte
quelle lingue sono la stessa cosa. Ma quante furono in antico le
lettere dell’ alfabeto etrusco, poiché essendone stati pubblicati finora
dagli antiquari fino a tredici, o quattordici, chi ne conta un numero
maggiore, e chi minore ; ed il laborioso, e dotto abbate Lanzi ne ammette
venti nel suo ? Si deve credere che fossero sempre in egual numero ,
oppure che venisse questo accresciuto a più riprese, e ad epoche diverse,
come si narra essere avvenuto dal greco, il quale fù condotto fino al
numero di ven¬ tiquattro lettere, benché non ne avesse che sedici nel suo
principio ? E non sarebbe questa una ragione di più, onde confermare ciò che
accennava poc anzi, che l’ alfabeto, cioè, facesse passaggio dagli
Etruschi ai Fenici, e da questi ai Greci, osservandosi ancora che nessuno
degli antichi alfabeti italici oltre¬ passò mai il numero di sedici
lettere? Difatti nei piu antichi monumenti, fra i quali nessuno vorrà
contradire che siano da riporsi gli atti dei fratelli Ar- vali, non se ne
contano che sedici sole. Di più non trovandosi mai usato l o nelle
epigrafi antiche veramente etni¬ sche, riscontrandosi questa lettera fra
quelle degli altri monumenti italici parimente antichi, come pure fra le prime
sedici dell alfabeto greco, cosi detto cadrneo, sì può dubitare se gli
Etruschi ne avessero neppur tante in principio, e cresce sempre più la
probabilità della mia asserzione. Secondo t enciclopedico Plinio,
le lettere dell alfabeto cadrneo furono le seguenti . cioè: ab r a
eikamnoiipstt. Alle quali poi ne aggiunse quattro Palamede, che sono, e 3
$ x. E finalmente Simonide lo accrebbe di altre quattro, cioè, zìi va. E
pare anche ben naturale, come fù pure osservato dall’ erudito filologo
francese Sig. Letronne, che quei primi sedici caratteri siano stati
inventati avanti agli altri, perchè rappresentano i sedici tuoni elementari,
o semplici, ché formar si possono colla bocca umana, sia per
intuonazione, o per articolazione. Mentre gli altri caratteri aggiunti a
questi, ed usati negli alfabeti dei differenti popoli, esprimono, o delle
gradazioni di quei suoni prin¬ cipali , o la riunione eli più
articolazioni in una sola . Di maniera che ognuno di essi può essere più,
o meno esattamente decomposto nei primitivi suoni eh’ egli contiene. Che
s’è regola di sana critica di non prestar fede agli antichi poeti, in
tutto ciò che narrano di sovrumano, e di misterioso, lo è del pari di
rintracciare il vero anche in mezzo alla favola, che viene giustamente
definita dai sapienti, il velo deila verità, e della storia. Ipoeti dell’
antichità, ché erano più istruiti di tutti gli uomini dell’età loro non
inventarono, come si crede male a proposito, le fa¬ vole, ma bensì
adornarono con finzioni la storia . Rimossele quali finzioni, è co¬ sa
ben facile di rinvenire la verità, nei più notabili avvenimenti per essi
nar¬ rati, e abbelliti. Cosi la pensava S. Agostino nel lib.
della Città di Dio, al cap. i3. E ci av¬ verte il Vossio nell’ aureo suo
trattato De fatione studiorum, che non si dicono favolose le antiche età,
perchè sia falso ciò che di essici vien riferito dagli scrit-, tori, ma
perchè la storia di quella ci è pervenuta insieme colle favole mista, e
confusa. XI. XII. XIII.
XIV. XV. XVI. XVII.
XVIII. XJX. /u M : oj : ntriq r : oqflj v/r 3Hfl
Jiiffl -1 = q/i j/r n# j a
san/urn/Mq/i V/13 : q A : D l = irnoai 4 /ini
AD Jfìlmq 3E : Am 34t : 44 -1V84flHMI3:3Hiq3®:q/1 4/mmq vo •
IHltfl 4 14 : I ?434 : I \IA8 JAMAJll V A'! vq 1 : U434 .- A»
n 33 XX. 4fl mif A4 : Al 3 f 25
tutti popoli anteriori ai Greci, e che trovansi tutti amalgamati cogli
Etruschi nelle età più lontane. Perlochè convien dire che siano gli Etruschi
stessi, i quali portino diverse denominazioni, dalle diverse provincie dà
loro abitate, nelle quali era divisa l’antica Etruria. E come oggi i
Fiorentini, i Senesi, i Pisani, i Lucchesi, ì Magellani, i Casentinesi, e
simili, sono tutti Toscani, cosi pure nei più reconditi tempi gli Umbri,
gli Enotrl, gli Aborigeni, e tutti gli altri anno¬ verati di sopra, erano
Etruschi. Silio Italico lib. a. 0 chiama Ausonia la Lombardia. Ed
Eliano lib. 8.° della Varia istoria, crede che gli Ausoniifossero i primi
abitatori di Italia-, mentre Pirgilio nel io. 0 dell’ Eneide, li confonde con
quelli che popolavano questa bella penisola sotto il regno di Saturno.
Servio poi commentando un tal passo, dice che gli Ausonii furono sì dei
primi popolatori cì Italia , ma non già i primi di tutti, nei soli. Ed
ecco perchè alcuni scrittori hanno compreso sotto il nome di Ausonia
tutta l’Italia. Ora tutti i surriferiti popoli, non esclusi neppure
i Latini, che molti autori vogliono che fossero diversi, e dagl Italici
propriamente detti, e dagli Etruschi, ripetono la loro prima origine da una
colonia, o emigrazione qua venuta dall’Asia, in tempi forse al di là di quelli
che da noi son detti storici. Lo che fu negato acremente da altri per la sola
ragione di potere stabilire, che i Greci furono i primi coloni di
Etruria, e che vi s’introdussero insieme con essi, le arti e le scienze,
e perfino la cognizione dei segni alfabetici. Ma non potendosi negare, senza
offendere il senso comune, che queste regioni erano popolate molti secoli prima
che i Greci le conoscessero per via di commercio, e vi spedissero in
seguito delle colonie, conviene di necessità ammettere, che i Greci non furono
i primi abitatori d’Italia, e per conseguenza neppure di Etruria, e molto
meno insegnarono loro a parlare. Quando peraltro non voglia credersi, ché
i popoli italici, e gli Etru¬ schi, fossero tutti muti prima dell’ arrivo
dei Greci fra loro. Laonde cade, e si annulla il sistema dei fautori del
grecismo. Macrobio infatti ammette un diluvio, non già ai tempi di
Deucalione, e di Ogi- ge, ma bensì a quello di Giano, ch’ei qualifica per
primo re di tutta l'Italia. E Dionisio d’Alicarnasso, che è sempre in
contradizione con se stesso, dopo avere scritto che i Pelasghi furono i
primi popolatori d! Italia, che 5oo anni prima di Giano ne scacciarono i
Siculi, e che gli Enotri eransi prima dei Siculi stabiliti nell’ Umbria,
pretende poi di darci ad intendere, e farci credere, che Giano pre¬
cedesse la venuta di Enea in Italia di un solo secolo, e mezzo. Ma se il
cosi detto secolo d’ oro, ossia il secolo della pace, e della giustizia,
fu secondo Vir¬ gilio, ed altri scrittori antichi, quello in cui regnarono
Saturno, e Giano, que¬ sto non può essere stato posteriore all’ età di
Noè, e de'suoi figli, che dietro gli insegnamenti paterni, calcarono essi
pure la via della giustizia, e coltivarono tutte le virtù sociali.
Etr • Mas. Chius. Tom. I. 3 4
28 nemico se gli Dei, per suggerimento di Nettuno, non lo
avessero voluto sal¬ vo 2 . Or non vedi qui pure Achille che tenendo lo
scudo lungi da se, pone mano alla spada ? Non vedi il Tanato che quasi
obbrobriato volge il tergo alla pugna col suo martello sugli omeri, per
mostrare che morte non avea luogo in quel con¬ flitto, perchè ad ogni
costo dovevasi Enea salvare alla gloria d’Italia? Questo dise¬ gno è una
quarta parte del suo originale in marmo d’ alto rilievo. Qui si mostrano
i due laterali scolpiti del cinerario che è nella Tavola antece¬ dente.
Nell'uno e nell’altro sono rozzamente indicate due porte, che rappresen¬
tano, credo io, le infernali, alla custodia delle quali stan vigilanti due
ministri del Tartaro. La figura femminile al num. 2 è visibilmente una
Furia, come dichiaralo quella face che regge con ambe le mani; di che
detti altri cenni 3 ; la virile col mar¬ tello sugli omeri è il Tanato,
altrimenti detto Cliarun tra gli Etruschi \ e confuso col¬ l’Orco,
ministro anch’egli di morte e d’inferno, che spesso incontrasi nei
monumenti antichi d’Etruria 5 , e non già tra quei de J Greci, nè
de’Romani cosi rappresentato. La testa eh e nel mezzo, serve per
coperchio ad un vaso di terra cotta, di che dovrò trattare altrove; ora
avverto che questa è la terza parte del suo originale : Affinchè I’ urna
cineraria già esposta si mostri compita, fa d’ uopo di non disgregarne il
suo coperchio, dove si vede un seminudo recornbente con una patera in mano,
nell’attitudine stessa che vedonsi rappresentati gli Etruschi a men¬ sa.
Nè la patera disdice a chi cena, mentre vedesi usata a convito dai commensali 6
. La veste che in parte copre il recornbente è detta sindone, pure usata
ai conviti 7. La nudità della persona indica 1’apoteosi, di che altrove
dò conto 8 . Il frammento di scultura segnato in questa tavola, è un tufo
tenero, e del genere di quello notato nelle prime cinque tavole della
presente collezione Chiu- sina. Orchi mai crederebbe, che nella tomba
dove fu ritrovato non vi fossero gli altri frammenti, che ne componevano
l’ara intiera? chi crederebbe che que¬ sta sorte di monumenti in tenera
pietra arenaria si trovino quasi costante- 1 Id. v. a 85 ,
*8, Id. V. 2 ^ 3 , 294» 3 Ved. 1 * spiegazione della Tav.
xm. 4 Monumenti elr. ser. i, p. a 34 - 5 Mono. etr.
ser. i, p. 44 » 73 , 74, 264, 284. 6 Ivi, ser. vi, tav. F. num. 2
. 7 Ivi ser. i, p, 395. 8 Ivi ser. n,j>. 628.
Nelle urne di Volterra parventi ripetuto questo soggetto medesimo, ed ivi spiegandolo,
avventurai l’interpetrazione di un fatto tebano, del quale io stesso poco
andai persuaso, nè ora saprei meglio dire. Vi suppongo Anfiarao nell’atto
d’aver tagliata la testa di Menalippo, che Tideo, sebben ferito, aveva
già ucciso; e gliela portò, per cui da Tideo medesimo fu commessa
l’atrocità di aprir quel cranio, e divorarne le cervella. In ogni
restante ancora son simili queste due sculture, sebbene men rozza l’urna
di Chiusi. Questo disegno è una quarta parte del mo¬ numento originale di
marmo in bassorilievo. Quanto la frequenza delle rappresentanze di
avvenimenti ferocie marziali, co¬ me quei della tavola antecedente, fan
giudicare l’etrusca nazione d’umor malin¬ conico 3 , altrettanto
voluttuosa e molle giudicar si dovrebbe dal presente gruppo che appartiene alla
scultura antecedente, per esser quella un’urna cineraria, questa la di
lei copertura . Credo per altro che l’uno e l’altro soggetto non dal¬
l’indole degli Etruschi abbia origine, ma da loro massime di religione, dove dicevasi
che la vita era un irrequieto contrasto, e la morte conduceva ad un vero
godimento, il quale non sapevasi esprimere che mediante la soddisfazione
dei sensi 3. Mentre il fasto orientale sfoggiava in lusso degli abiti, l’EROISMO
dei Greci caratterizzavasi col MOSTRARSI A NUDO Tra i guerrieri di questo
bassorilievo ne vedi uno vestito , e in questo caso potrebb' esser
troiano, e tra i Troiani credilo ENEA, che soggiacque a mille peripezzie
di grave cimento, senza però mai soccombere , perche gli Dei, per quel che ne
dicono Omero \ e VIRGILIO 5 , avean destinato ch’egli regnar dovea sopra i
superstiti Troiani, e sopra i figli dei figli, e sopra quei che appresso
erano per venire da loro. Difatti racconta specialmente Omero che
Achille, cosa strana ! si sgomentò nel combattere con Enea, e tenendo
discosto da se lo scudo, cercava di sottrarsi ai colpi vibrati da
quell’eroe 6 ; ma poiché questi a vicenda contrattosi colla persona, e
copertosi collo scudo evitava l’assalto dell avversario ', come nel
bassorilievo mirasi espressa la figura che ne occupa la parte media, Achille
allora pose mano alla spada, ed avrebbe trucidato <il 1 Monum.
etruschi, Ser. 1, Tav. lxxxiii, p. 666. 5 Virgil, Aeneid. ]. ni, y . 97,
98. 2 Ivi, p- 667. 6 Homer. Iliad. 1 . xx, v, 261, 26a. 3
Ivi, ser. v, spieg. della Tav. xlv. 7 Ibìd. 278. 4 Homer. Iliad.
lib. xx, v. 307, 3 o 8 . 5o fu detta di lui
consorte. Se consideriamo i due nomi spettanti ai due pianeti Ve¬ nere e
Marte, potremo giudicare la figura terza per un Saturno, altro pianeta.
Nè da ciò si allontanano i di lui attributi, poiché ad esso rompetesi, non
solo quella barba prolissa che gli orna il mento, ma eziandio quelle
fronde, e ger¬ mogli, o gemme di vegetabili che gli cuoprono il capo,
attributi propri di sì an¬ tico nume, non meno che la spada falcata da
lui sostenuta '. Queste tre deita e pianeti possono appellare all j
oroscopo di un’ anima che nella stagione di pri¬ mavera passa agli Elisi,
di che altrove do più esteso conto a . 11 vaso contiene altre tre figure
che saranno spiegate nella Tavola seguente. Ecco le altre tre figure che
vedonsi nel b. rii. del vaso esposto nella Tav. antecedente.
L’interpetrazione dottissima scrittami di esse dal eh. sig. dott. Maggi,
merita d’esser nota preferibilmente a qualunque mia congettura. Egli
dichiara in quel mostro una Gorgone, o un Tanato: in quell’ uomo con
testa ferina un Minotauro: nell’uomo alato che sta nel mezzo un Mercurio.
La totalità della com¬ posizione credesi dal dotto interpetre allusiva al
tempo nel quale facevansi le an¬ nuali commemorazioni delle anime. Quindi
la figura larvata è da esso giudicata il Male personificato in un mostro,
come fecero gli Egiziani del loro Tifone; mentre credevasi che prevalesse
il male all’ entrare dell’ autunno . E questi nel tempo stesso il Charun
degli Etruschi che fingevano orridamente larvato, e di te¬ sta grossa.
Indicano quelle mal collocate sue ali che la morte raggiunge l’uomo
ancorché fuggitivo da essa, di che l’interpetre dà ragioni che appagano. La se¬
conda figura è da esso dichiarata per quel Mercurio, che occupato nell’ uffizio
di accompagnar le anime, ha deposti gli emblemi che lo distinguono per
ministro dei numi. Giudica poi la terza mostruosa figura esser il
Minotauro allusivo al centauro o centauri celesti, piuttosto che al
figlio di Pasifae; e qui pure dà ra¬ gione in qual modo leghi la dottrina
delle anime colle favole dei centauri autun¬ nali. Nota egli che il fiore
sia un anemone significativo del sole passato ai segni inferiori, per cui
sopravviene l’inverno, vale a dire il male che da ciò risente la natura,
e quindi anche le anime come credevasi,- tantoché quel mostro con testa
gorgonica rappresenta parimente il sole iemale. Gli uccelli sono, a tenore del
di lui parere, siderei, anch’essi spettanti ai segni inferiori, e
indicanti la via lattea che percorrevano le anime nel passaggio loro alle
sfere celesti. Da ciò conclude che tutta la rappresentanza sia una spece
di geroglifico significativo dell’autunno, cioè del tempo in cui le anime
dovevan esser suffragate. Egli palesa d’ aver tratta questa
interpetrazione dallq mie opere 3 . i Bianchini, Stor.
universale,cap. li, §x ,p. 84 * >, pag. i8t, lettera al dott. Maggi,
a Inghirami, Lettere di etnisca erudizione, Tom. 3 Lettere cit., p. 174,
lettera del Dott. Maggi. mente mutilati? Eppure è così; nè ciò farà
tanta sorpresa, se consideriamo che anche i vasi fittili sepolcrali si
trovano spesso rotti dagli antichi. Sarebbe forse ella mai una ferale
cerimonia liturgica ? Qui osserviamo ancora un vasetto in pietra
arenaria, tre quarti men grande del suo originale; ed è simile a quei che
prima dicevansi lacrimatorii, e che ora si dicono unguentari 3 , perchè
si vedono in mano di chi versa unguenti sul rogo 3 , nè questo è dei
comuni per la gran somiglianza coi vasi egiziani dell’uso stesso.Notiamo questi
recipienti con volgar nome di bracieri, mentre per tali si tengono quei
che sono atti a contener brace, ed insieme i vasi escari, e culi¬ nari.
Ma l’originale qui copiato a metà di grandezza, non fu vero braciere, nè
veri escari quei recipienti che vi si contengono, mentre l’uno e gli altri sono
di fragile terra cruda, non atta a resistere l’effetto del fuoco . Io
suppongo essere stati adoprali nei riti funebri i veri bracieri di bronzo
detti anche borni, usati a bruciar vittime, e profumi. Quindi al termine
della funebre cerimonia in luo¬ go di lasciar questi nel sepolcro, come
lo esigeva il rigore del rito, altri bracieri di semplice figura, e
formalità, perchè di terra non cotta, sostituivansi a quelli. Il pollo
che vi si vede nel mezzo, è consueto simbolo di buon augurio, che vedemmo
altrove 4 . Le varie teste che ornano l’utensile han pur esse il si¬
gnificato medesimo relativo alle anime, come in altre occasioni ho
notato*. Serve la tavola presente a mostrare qual fosse la forma
esteriore del bra¬ ciere o escaria, o estia che dir si voglia, la quale
vedemmo nella parte ante¬ riore disegnata nella tavola antecedente. Le
sfingi e larve che vi si vedono apposte, sono analoghe all'uso ferale di questi
monumenti 6 .Questo vaso ch’è una quarta parte dell’ariginale, è della solita
pasta nera con ornati, e figure a bassorilievo i, le quali sono in questo
disegno della loro naturai grandezza, e ne occupano tutto il corpo. Ivi
son ripetute tre volte. La prima di esse figure indubitatamente è un
Marte; e in conseguenza la donna che gli è dap¬ presso, quantunque priva
di attributi, può credersi Venere, che nella mitologia 1 Museo
Chiaramonii Tav. xxv. 5 Pollux. 1 . i, segm. 3 . 2 Paciaudi,
Monuoi. peloponues. Voi. u, p. iSo 6 Motium. etr. ser. i, p. aao. 3
V e d. p. ij, 7 V’cd. la spiegazione della Tal. ini. SUL GRECISMO CHE
S’INCONTRA NELL' ETRUSCO, SULLE ARTI GRECHE OSSERVATE IN ETRURIA, E SULL’
ORIENTALISMO CHE RIDONDA PER TUTTA ITALIA. Era involta l’origine degli
Etruschi in ima impenetrabile oscurila fino dal tempo in cui scrivevano i
più antichi storici che noi conosciamo. Lo che fa certamente gran
maraviglia, quando si riflette all’ esteso dominio di quel popolo, sì celebre,
e sì potente, che aveva una Casta sacerdotale, e possedeva tempo
immemorabile un particolare alfabeto, ed era più avanzato nella civiltà
di tutte le altre nazioni di Europa. E ciò molto prima dei Greci,
pensino, e ne scrivano in contrario, i dotti compilatori della Rivis a
Lungo. Tutto quello poi, che noi sappiamo della sua susseguente istoria, e c e
e suìistituzioni, non ci è stato trasmesso che dalle nazioni
contemporanee , giacche gli scritti degli autori etruschi, sono periti da lunga
età. E le loro iscriA ni scolpite sul marmo, e sul bronzo, non sono
finora più intelligibdi per noi, i quello che lo siano i
geroglifici egiziani. Ma se dunque la lingua etrusco, non è in
prima origne la stessa che a greca antica, con piccola diversità di
dialetto, come pretendevano, il Gori, e i suoi fautori, e più
modernamente l industriosissimo Abbate Lanzi, e tutta la sua scuola. Se i
Greci non furono i maestri degli Etruschi, in qual modo, riprendono
quelli di contraria opinione , s J incontra cosi frequente il grecismo
nell' etrusco, e si osservano cosi comunemente le arti greche in Etruria
. ben rispondere a queste domande, sono da premettersi alcune
considerazioni, che verrò qui brevemente esponendo. Ridonda
in primo luogo, nell’ etrusco , il grecismo, per una ragione oppo¬ sta
diametralmente a quella predicata , e diffusa fin qui dagli archeologi,
cioè, perchè furono gli Etruschi ad un’ epoca assai recondita, i maestri
dei Greci, i quali riceverono da essi, e dagli Egiziì, le prime nozioni
della scrittura, per mezzo dei Fenici, come altrove accennammo. Questi
elementi però non erano in prima origine prodotto indigeno della Etruria,
ma v’ erano stati trasportati da una più antica emigrazione
asiatica. Osservansi poi, in secondo luogo, in ogni parte di Etruria, ed anche
nel resto dell’ antica Italia, gli avanzi delle arti greche, perchè
quella vivace, ed ingegnosa nazione, che aveva il talento e V attitudine
di perfezionare , non me- Quando si trova nei monumenti Mercurio che ha
sulle spalle un ariete, se gli dà il nome di Crioforo, e cosi nominavasi
la di lui statua venerata in Lesbo, che avea scolpita Cakmide, a
significare ch'era il dio dei pastori, come crede¬ va la plebe, mentre
altri asserivano eh’ aveva liberato quei di Tanagra dalla peste, girando
tre volte in forma espiatoria intorno alla città, con un montone sulle
spalle. Ma il vero senso, benché mistico di quell’atto, è la congiunzione
del sole col segno dell’Ariete, per cooperare allo sviluppo della
generazione, mediante la quale son rivestite le anime d’utnana spoglia, per cui
cred’io che talvolta il nume vien espresso con lubriche forme. Il
religioso cerimoniale degl’idoli portava in fatti che l’ariete o lo stesso nume
si rappresentasse nelle patere libato¬ rie per onorare i morti 1 . Questa
pittura è nel mezzo d’ una tazza di terra cotta, che ha di più il pregio
d’essere scritta, ove peraltro non leggesi che un saluto di buon augurio
ad Erilo Eprìo; K«)oe. tavola xxxvr. Di questa muliebre
figura non mi occorre dir molto, per esser già nota mediante l'estese
notizie e congetture che ne detti altrove ». Io la giudicai rap¬
presentativa della divinità presso gli Etruschi, giacché ne monumenti
de'Greci non si trova mai, e la dissi una Nemesi Dea ch’ebbe origine in
Asia, e perciò munita di pileo frigio, e di doppie ali, onde mostrare la
velocità del suo corso, per cui le si vedono altresì le scarpe. Ha in
mano un simbolo eh' io giudicai allusivo alla natura prolificante w*,
»««•//>, mentre gli Etruschi tennero la narura e la divinità per una
cosa medesima. La corona che l’attornia è di frassine, vegetabile sacro a
Nemesi. Tutto il monumento, eh’è uguale in grandezza al suo originale, è
un disco di bronzo assai frequente tra i monu¬ menti etruschi, lucido
nella parte avversa, e manubriato in sembianza di specchio; e poiché se
ne son trovati alquanti nelle ciste mistiche, ove Clemente Alessan¬ drino
dice esservi stati riposti gli specchi unitamente ad altri simboli
mistici, così li chiamai ordinariamente specchi mistici 3 .
i Monumenti etr. ser. ti, dispregiarsi l'etimologia , quanti 1 ella è sobria, e
ragionata ,) comincerò da quelli delle lettere dell’ alfabeto . 1 quali
non avendo alcun significamento in greco , e portandone uno analogo alla
loro posizione,ofigura, o suono, negl’ idiomi asiatici, è ben facile a
comprendersi da chicchesia, che non dalla Grecia, ma dal- l’ Asia derivar
debbono la propria origine. E vaglia il vero: Alpha , per esempio,
significa principe, primo, principio, e sìmili, in più dialetti asiatici,
e precisamente in quelli cosi detti semitici, nei quali si pronunzia
aleph , o alepha, e per contrazione alpha, cui pare che fosse dato un tal
nome per essere la prima lettera dell’ alfabeto, Beta, che viene da
beth, betha, suono imitato dal belare delle pecore, e però sempre inalterabile
nella sua naturale Semplicità, checche ne ciancino in contrario i grammatici, i
quali pretendono di farcelo pronunciare bita, ed anche più barbaramente
vita, vale una sorta di casa, per la somiglianza che ha questa lettera
colla casa stessa, nell’ Alfabeto semitico. Gamma viene da ghirnel,
gamia, gamal, che vuol dire carnelo, ed imita colla sua forma la gobba, o le
gobbe di quell’ animale. Cosi delta deriva da da- leth, o deleth ,
deletha, e per sincope delta, e significa porta, cui somiglia pure nella
figura. E cosi ancora epsilon fu presa dalla he semitica, e trae la sua
denominazione dal suono che si manda fuori nel pronunziarla. La zeta,
deriva dalla zain, quasi ziian, che vale un’ arme, perchè somiglia nella
sua forma ad un dardo. E cosi percorrendo l’ intiero alfabeto. La
quale opinione acquista una forza tanto maggiore, in quanto che si osserva, che
gl' ingegnosissimi Greci, non hanno neppure nella loro lingua, che è si
ricca, un vocabolo indigeno per nominare la più bella, e la più maravi-
gliosa di tutte le cose create, qual è il Sole. Imperocché la voce , elios,
di cui si servono per nominarlo, non è altro chela pura semitica, el, o
eloab, inflessa alla greca . E significando essa, fra le altre cose,
anche Dio nel suo primitivo idioma, si vede il perchè si propagasse ancora in
Grecia, come altrove il culto del Sole. A maggior conferma poi del
mio assunto, ecco una serie di nomi, presi qua, è là senza scelta, ed
appartenenti a cose assai diverse fra loro, come a dire, divinità , eroi,
fiumi, monti, città, provincie, popoli, edifici!, e simili, i quali tutti sono
evidentemente orientali, avendo nelle lingue asiatiche, un significato, mentre
non ne contengono alcuno nei linguaggi degli altri paesi. Lo che viene a
provare ad un tempo, che i Greci non sono i ritrovatori della loro
mitologia, e che altro non hanno fatto che foggiare un infinito numoro di
ridicoli Dei, prendendo per cose reali ì simboli degli Orientali, e le loro
allegorie, e parabole . ti. facile infatti avvedersi, che Pale, la
quale presiedeva alle feste rurali in Italia, e Pallade, che mentre era la Dea
della guerra, e delle arti, insegnava la convenevole cultura agli Ateniesi, non
sono che un soggetto medesimo, sotto due nomi diversi; ì quali però vengono
entrambi dalle voci semitiche, palai , e pillai, che significano, regolare i
cittadini , e da pillali, che vuol dire ordine pubblico . no che
l'industria di farsi suoi gli altrui ritrovamenti, mandò a più riprese,
come tutti sanno, colonie in Italia, le quali vi fecero pure lunga
dimora. Queste colonie pertanto, riportarono nelle nostre contrade, più
belle, e più gentili quelle arti mede¬ sime, che ne avevano prima
trasportate, grossolane, e rozze alla terra natale, i loro predecessori.
Ora, siccome andrebbe grandemente errato il giudizio di colui, che
vedendo un italiano vestito alla parigina, o all’inglese, volesse inferirne,
che quella foggia di vestimento sia invenzione italiana, cosi è di
quelli, che tutto voglio¬ no attribuire ai Greci, perchè i monumenti che
ci rimangono dei nostri antenati, sentono più, o meno del greco stile , e della
greca maniera. Nè vale opporre, che mancandoci le autorità degli antichi
scrittori, onde fiancheggiarla, e provarla, fa d’uopo rigettare una tale
opinione. Imperocché, ove siamo privi di monumenti scritti, che bastino a
provare un assunto di questa specie, è giuoco forza ricorrere al senso
comune, e farsi scudo del raziocinio ; i quali valgono m ultima
conclusione più di qualunqué autorità degli scrittori, trattandosi dei
non contemporanei. Ora questo senso comune, e questo
raziocìnio, rafforzati da un gran nume¬ ro di nomi, ( oltre quelli dell
alfabeto, e dei suoi elementi ), di fiumi, di montagne, di città, di
provincie , di divinità, di eroi e simili, ci attestano altamente, e chiaramente
ci dicono, che dessi non possono esser venuti che dall’ Asia, perchè sono
asiatici, e tutti ritrovano il loro significamento negli idiomi di quella parte
di mondo. Ed essendo questi medesimi nomi per la maggior parte assai più
antichi di tutti i monumenti, e di tutte le storie che finqui si
conoscano , non si può negare di ammettere, che se asiatici non furono i
primissimi abitatori di Italia, e per conseguenza di Etruria, tali però debbono
essere stati assolutamente, quelli che insegnarono agli Etruschi l’arte
Ai scrivere, e ne volsero gl’intelletti alla cultura delle arti
necessarie alla vita, e delle utili, e dilettevoli discipline. E
perchè non paia ai nan dotti in tali materie, ed agli imperiti delle
lingue orientali, che io mi tragga dalla propria Minerva siffatte
opinioni, così contrarie alle già invalse, ed approvate dal maggior
numero degli archeologi, che scrissero sull’ Etruria, e sugli Etruschi, è
necessario che io venga esponendo, le opportune prove di quanto
asserisco, ai miei lettori. Perlochè, senza veruna pretensione all'
infallibilità delle mie asserzioni, eccomi pronto alla dimostrazione
delle medesime. E tralasciando di riferire in questo ragionamento tutte le tradizioni,
non mai interrotte dai tempii più reconditi fino all’ età nostra, le
quali dicono essere stati gli antichi Etruschi nazione cultissirna, e
potentissima, mi ristringerò a quella che c’istruisce aver eglino attinti
i primi lumi della loro civiltà, da una colonia, o emigrazione
proveniente dalle parti orientali, che furono la cuna del genere umano, e
di ogni sapere, e non già dai Greci, che erano a quei tempi, se pure
esìstevano , del tutto incolti, e selvaggi. Venendo pertanto all’
etimologia dei suddetti nomi, ( che non è sempre da Etr. Mus. Chius. Tom.
1. ^ libio, e Tolomeo, dalbascuenze pitsà, equivalente a schiuma, perchè
situata, secondo Rutilio, vicino al fiume Ausuro , e sull’ Arno, Quam
cingunt geminis, Arnus, et Ausur aquis. Orvieto, chiamato Herbanum
da Plinio, prende il nome dalle celtiche voci herd, e baun che vagliano
terra alta. E di là scendendo verso Roma , incontrasi non lontano dal Tevere il
lago Vadimone, o all’etrusca Vadimune, oggi lago di Bassano, alle cui
acque attribuisce lo stesso Plinio, fra le altre qualità, vis qua fracta
solidan* tur; la qual salutifera proprietà è significata dalla prima
parte del suo nome, chea vateded equivale in celtico ad utile,proficuo,e
simili. Angiunge poi lo scrittore medesi¬ mo che era quel lago riguardato
come sacro, perchè sotto l immediata protezione di non so qual deità ; lo
che viene espresso dalla seconda parte del nome ch’ei porta, cioè, mund,
o più dolcemente mun che corrisponde difesa, protezione, e tutela.
Trovavasi poi al mezzodì di tal lago Fescennio, luogo celebre per le sue
oscenità , e le quali sono indicate dal nome, essendo gitisi’ appunto licenza,
sfrenatezza, il SIGNIFICAMENTO di quello; e però ne cantarono,
Orazio Fescennina per hunc inventa licentia morena, e CATULLO, Ne
diu taceat procax Fescennina licentia; Oltre di che, il
celtico wels-hein, latinamente Fescennium, s’ interpetra bosco di
Venere. Nomina Tito Livio, Fanum Voltumnae, oggi Viterbo , e
credesi comunemente che questa Voltumna fosse una divinità. Difatti il
Dempstero la reputa la prima fra tutte le etnische, e Banier V annovera
frale campestri. Ma è da credere che Voltumna, venga dalle due voci volt
e tun, e per questo il Fano prendesse il nome non già dalla divinità, ivi
adorata, ma dal luogo ov’ era posto, poiché significa colle percosso dal
fulmine,o colle fulminato. Cosi pure, Auno , famoso Ligure,
ausiliare di Enea, quando venne a stabilirsi in Italia, e che trovasi
descritto nell'undecimo libro dell’ENEIDE, come paurosissimo nello
scontro colla valorosa Camilla, significa precisamente pauroso, timido in
lìn¬ gua armorìca, uno dei dialetti indo-scitici. E Cupavone, che andò
pure col suo na¬ viglio in soccorso di Enea, si traduce capitano di mare,
come Taro,,f ’interpetra gran fracasso, o che fà gran fracasso, rovinìo,
o danno, ed ognuno di leggeri comprende, quanto ciò si convenga ad un tal
fiume romorosissimo , e precipitoso . Iasio viene da iasesc, che
vuol dire, longevo, antico, e ben corrisponde all’idea, che ce ne danno
ipoeti, come Capi deriva da capasci, uomo libero, traendosi da ca- pasc,
libertà. Laberinto procede da labiranta, che vuol dire torre, palazzo;
Tritto- lemo da triptolem, che vale l’apertura dei solchi, Celeo da celi,
vaso, ordigno, mas¬ serizia, e però disse Virgilio , Virgea preterea
Celei, vilisque supellex . Palilie, ossia la festa degl’istituti, e
delle leggi, derivada palilià, c he significa l’ordine pubblico, o da peli],
che vale moderatore/Iella cosa pubblica, il primo in Isaia, Penati,
è voce che deriva da penisi!, luogo interno, o intimo , e la cui radice è
penàh, che vale penetrare; tutte le quali significazioni convengono benissimo a
quelle familiari divinità degli antichi Romani. E Levana deità latina essa
pure, è la medesima che Lucina , la quale sostenta i nati di fresco, e
deriva da Jevanàh, che vuol dir Luna. La Parca, non è cosi
detta a non parcendo, come pretendono i Grammatici, e gli Etimologisti
latini, ma bensì da parech, che vale rottura , perchè tronca essa il filo
della vita; come Cerere, da gheres, spiga matura, e Cibele, da chebel
partorire. Difatti quella prima è la dea delle messi, e viene riguardata
la seconda come la madre di tutti gli Dei . Osservo il Passeri, che
Venere, detta Venus dai Latini, era parola sconosciuta ai Greci, i quali
esprimono questa pagana divinità, colle voci Sfpofarv, topo, Afroditi, o
Afaodite, Kipris, Kitereia. E fu per lungo tempo ignota anche ai Romani,
come attesta Macrobio nel primo libro dei Saturnali. Afferma poi Earrone che il
notile di questa Dea , non conoscevasi fra gli stessi Romani, nè greco nè
latino, neppure sotto ire. Ed aggiunge Pausatila nel suo primo libro, che
era ignoto agli antichi Greci, e che lo aveva trasportato fra loro Egeo dalla
Fenicia, e dall’isola di Cipro. Gli Etruschi però conoscevano benissimo
una tal Dea , eia chiamavano Vendra, come rilevasi da un antico specchio
mistico . E la sua origine sente dì ebraico, avvegnaché, ben-thara vuol dire
figlia del mare perchè tbara significa umidità, dal qual vocabolo fecero
i Grecite, tharas figlio di Nettuno. Quindi furono dette Tbarso quasi
tutte le città marittime, e tarsisc, il mare, il lido, un porto. Dalla stessa
voce ben, che si cangia spesso in ven, per le regioni a tutti note, furono
composti molti nomi di Dee, come quello della Bendit degli Sciti, di
Bentasicima figlia di Nettuno presso Filostrato, ed altri. Nè
vennero da una sola parte, e nomi, e riti, e costumanze asiatiche in
Etruria, ed in tutta Italia, ma per più e diverse vie: peri oche non da
un solo linguaggio asiatico trar si debbono le spiegazioni dì questi
nomi, ma da più, e diverse lingue, e dialetti di quella famosa contrada.
Quindi tutti i celtici, e tutta la gran famiglia degl’ idiomi così detti
indo-scitici, possono esser messi utilmente a contribuzione, come altra
volta accennammo per la retta intelligenza dell’ etrusco, e per interpelrare
gli antichi monumenti del nostro paese-.Dal che viene a dimostrarsi , che il
dotto, ed acuto padre Rardetti, non aveva poi tutti i torti, di che altri
volle troppo leggermente aggravarlo . Ma riprendiamo la nostra disamina. LIGVRIA,
nome di quel tratto di paese, detto la riviera di Genova, fu cosi detta
da Liguria voce bascuenze,che vuol dir soave. E si formarono probabilmente
da questa, il verbo latino, ligurire, che significa mangiare soavemente,
o mangiare cose soavi, e il nome greco liguros che vale anche soave.
Pisa, cosi chiamata , o per la figura dell’ antico suo porto, che si
trarrebbe da pi* se ,che vale in dialetto lidio porto lunato, o se fu
detta Pissa, come la chiamano Po - II NUDO idoletto in bronzo che in
questa Tav. si espone davanti e da tergo, nella grandezza medesima
dell’originale, con altri similissimi a questo, sparsi pe'mu- sei, forma
soggetto di mature, ma non per anche fruttifere riflessioni degli archeologi ,
che se per un lato vi ravvisano una gran somiglianza coi monumenti
egiziani da far sospettare che sian idoli venuti d’Egitto in Etruria,
atteso specialmente il costume e f acconciatura anteriore e posteriore
de’capelli; dall’altra non concepiscono come gli Etruschi abbian potuto ridursi
a mendicare manifatture d’Egitto,menti'’ erano essi medesimi famigerati
artefici; nè la storia ci addita in conto veruno un traffico simile tra
le due sì disgregate contrade. È vero che Strabone veduti i lavori d’ambedue
le indicate nazioni, li giudicò di un medesimo stile, simile a quello dei
Greci antichi ma par ch’ei ciò riferisse allo stile dell’arte, e non al costume
delle figure . In qualunque modo peraltro si volesse risolvere
l’obiezione, qui non sarebbe luogo opportuno di estendervi. L’altro
bronzo che rappresenta una fiera testa di lupo, servì probabilmente per
ornato nel manubrio d’ un arme da taglio. Ebbero gli antichi una singoiar
cerimonia religiosa, alla quale davano il nome di Jettisternio,
consistente in un convito che si faceva nel tempio, o nel sacro recinto,
dove si apparecchiayano le mense ed i letti, perivi stendersi i devoti che
lautamente mangiavano in onor degli Dei, ma vi si preparavano ancora altre
mense ed altri letti, dove si deponevano le statue dei medesimi numi,
a’quali porgevan vivande, come se fossero stati realmente Ior commensali =. È
dunque probabile che il presente rudere antico facesse parte d’un di que’Ietti
che preparavansi per le statue, i quali si potevano usare a tal uopo di
qualunque grandezza. L’ornato stesso di un seguito di figure tutte
ugualmente recombenti, con tazze in mano, come stavasi a mensa, fan sospettare
delbanalogìa di rappresentanza coll’uso accennato del rudere, ch’èdi
pietra arenaria, una terza parte maggiore del presente disegno. Lo stile
a parer mio si mostra imitativo piuttosto che ingenuo d’un’ antichità non
poco lontana. É già noto all osservatore il nome e l’uso di questo
mobile, per le ta¬ vole antecedenti, al cui proposito dissi che \non veri
foculi, ma figure di ì Monum. etr. ser. m, p. 4 oi. a LIVIO
1 . v, § 1 3 . Laurent, de prond.et coena vet, c. zi, conviv. vet. c. 4 *
cap. 28 , il secondo in Giobbe cap. 3i. E Pamilie, festa che veniva dopo la
raccolta, ed il cui significato e 1 uso moderato della lingua , da dove s
introdusse presso i Greci il costume di fare esclamare e rivolgere al popolo le
parole «pi« yWoias tamnete glossas. cioè , troncate le lingue, astenetevi
dal parlare, derivansi da pa-mul, la bocca circoncidere, o da pamylah,
circoncisione della bocca. E siccome era questa una ottima lezione morale
per rendere gli uomini sociabili, e felici, così tutte le piccole società
dei congiunti, o d’altre persone che vivono insieme, furono dette fatniliae,
e da noi famiglie. Camilla è voce pretta etrusca, dicono
Servio, e Festo, e significa ministra degli Dei . Sia pur vero, ma in
idioma orientale significa un tal nome, ciò che dissero i Latini serva a
manu; o filia a rnanu , giacché cam vaia mano, ed bill figliolanza , come
osservò Eccardo al titolo 23 della Legge Salica. E filia a manu, o serva a
manu e una espressione convenientissima alle giovinette , che metter
dovevano le mani in cento cose, essendo destinate a servire. Tarconte
, autore secondo le favole di Tarquinia, fratello di Tirreno, o disceso
da lui, che sopraintese a dodici città, il che non è bagattella ,fà secondo la
verità storica un valoroso soldato, che avendo difesa la sua gente, venne
denominato lo scudo 5 tale essendo ilsignificamenlo del gallico tarcon, o
dell’armorico targad. E finalmente, Tages , o Tagete, che narrano
esser saltato fuori fanciullo, dalla terra che sfavasi arando, che fu
alla nazione etrusca il primo maestro delVaruspicio, che il senatore
Buonarroti lo ha creduto espresso nella tavola 45 fra le aggiunte al
Dempstero, non può venire che dalla voce asfcia, tag, la quale significa
giorno. E pare che gli Etruschi volessero fare intendere con questa
figura, o parabola, che i giorni, p come noi diremmo il tempo, aveva loro
insegnato l aruspicina, o l'arte di antiveder l avvenire. Avvegnaché di
simile parlare figurato , sono ripiene le pagine degli scrittori sacri, e
profani. Dei quali basterà nominar qui, tralasciando gli altri, David,
Pindaro, Tullio, e VIRGILIO. E siccome dice lo stesso Pindaro che le ore
avevano insegnato agli uomini molte delle antiche arti, così poteva
secondo gli Etruschi, aver loro il giorno insegnato l aruspicina-,
Imperocché scrive il prelodato Tullio, che opinionutn commenta del
etdies, naturae iudicia confirmat; E Virgilio cantò, Turne, quod
optanti, divum permittere nemo Auderet, rolvenda dies en attullit
ultro. Domanderò ora ai dotti, se dopo la spiegazione da me data a tanti
nomi dei quali potrebbe estendersene il numero per centinaia , e
migliaia, sia possibile che una fortuita combinazione, possa rendere così
ragionevolmente corrispondenti i loro significati, agli usi, ai tempi, ai
luoghi, ed alle circostanze degli oggetti per essi indicati.
4 ° va spossato di forze; e incontro a lui, come narra Omero i Troiani e
gli Achei si tagliano a vicenda gli scudi e le targhe i 2 ». Il berretto
asiatico, del quale il recombente è coperto in questa tavola, mostra più
manifestamente che altrove la sua qualità di Troiano, e perciò mi
confermo nel crederlo Enea. Gli altri corpi che vedonsi rovesciati a
terra, fan fede che il fatto accade in un campo di battaglia; e nel tempo
stesso più che bellezza, dà merito al monumento quella ricchezza di lavoro, che
ne’tempi dell' arte in decadenza preferivasi al bello, che n’è il vero
pregio. La ricchezza colla quale vedemmo decorata di scultura l'urna
cineraria in marmo, il cui disegno è stato presentato nella tavola
antecedente, tre volte più piccolo della di lei grandezza, non potette
appartenere che a persona qualificata e facoltosa. Ciò si verifica
nell'osservarne il coperchio in questa tavola disegnato, sul quale riposa
un giovine riccamente vestito, decorato di onorifiche insegne, quali sono
principalmente l’anello e la corona di alloro che ha in mano, il torque che gli
orna il còllo , ed un ricco balteo che dall' omero sinistro gli scende al
destro fianco. La corona che ha in capo non è di semplice onore, ma gli
spetta come recombente a convito: posizione che viene affermata dalla tazza che
ha in mano, come usa chi sta a mensa. É stato ragionato dagli antichi di
una guerra delle Amazzoni, la quale ha non poco del favoloso 3 , come lo
prova inclusive la diversità colla quale è narrata, ma nella varietà della
favola v’è gran concordia tra i mitologi per introdurvi i cavalli 4 . Or
poiché veri combattimenti antichi a cavallo non si conoscono descritti dagli
autori de’tempi omerici, o poco dopo, così non resta che quel delle Amazoni, o
con gli Argonauti 5 , o con gli Ateniesi 6 , che incontrisi nei
monumenti, come approvato tra le rappresentanze dell’antichità figurata.
Dunque intendo di calcar le massime consuete spiegando il presente
bassorilievo per un Amazone equestre, la quale com¬ batte con un militare
a piedi, sia pur costui un eroe degli Argonauti seguaci di Ercole, o un
Ateniese del seguito di Teseo. La Furia con face in mano è spesso
introdotta nei combattimenti anche dai tragici greci 7. L’urna cineraria
in marmo originale misura quattro volte questo disegno. La semplicità
dello stile caratterizza questo bas- i Iliad. cit., v, 45 1.
a Inghirami Galleria omerica, Iliade Tav. lxxiv, Monumenti etr.
Ser. in, p. 23 1 4 Diodor. Sic. 1 . iv, cap. xvi. 5
Monum. etr. Ser. cit. p. 2 43 6 Ivi p. 234. 7 Ivi, Ser, 1. p.
269, 3 i 6 , 477 » 534 » 5 ^ 9 » 568 . 3 9 essi erano
quei che si trovavano entro le tombe di Chiusi, perchè essendo di terra
non cotta, potevan soltanto servir per figura in qualche sacra cerimonia 1 2 .
Ecco pertanto in questo disegno uno de’ veri foculi, o thimiateri qualora
questo braciere sia stato in uso per cuocer vittime, percb’è di bronzo, e
per ciò capace a resistere all' azione del fuoco, siccome anche i vasi e gli
al¬ tri arnesi da cucina, che vi si trovarono dentro. Anche la sua
grandezza eh’è due terzi maggiore di questo disegno, attesta della
capacità d’essere stato ado- prato. L’indefessa gentilesca superstizione
ci fa supporre, che non a caso fosse un tale utensile ornato dal Capricorno,
ripetuto nei quattro suoi angoli, mentre ogniun sa che quel celeste segno
fu oroscopo di fortuna, che tennero per loro impresa Cesare Augusto,
l’imperatore Carlo V, e Cosimo I Granduca di Toscana 3 4 . Quell'animale
vi sta dunque in luogo del gallo che vedemmo nell’altro foculo già
rammentato. La forma di questo foculo di terra nera e non cotta permette
che se ne osservino distintamente i vasi da cucina e da tavola ivi
contenuti. Le replicate teste d’ariete ivi affisse, nonlascian dubbio che
il vaso non sia fatto espressamente per uso sacro, ed allusivo a
Mercurio; il quale presedeva alle libazioni, come il mediatore delle
preci che gli uomini porgevano ai numi 4. Oltredichè ci è noto, che alle
anime, come anche ai numi infernali, facevasi olocauso d’un ariete di
color nero 5 ; ed io vidi a questo proposito vari bassi altari nel museo
etrusco di Volterra, ornati di teste d’agnelli, come il foculo qui
esaminato. In un bassorilievo trovato a Chiusi, ove sembrommi di vedere il
medesimo soggetto che nel presente, all'occasione d’averlo dovuto spiegare,
scrissi quanto appresso. « Quando Venere e Apollo ebber sottratto Enea dalle
furibonde armi del prode in guerra Diomede, allora Febo immaginò di
lasciar combattere a sazietà i Troiani coi Greci, sostituendo ad Enea
l’idolo, 9 1’ ombra di lui 6 . Questa poetica immagine del combattimento
di due partiti per un fantasma, fu cara oltremodo agli Etruschi, mentre
ne vediamo la rappresentanza in diversi dei lor cinerari, dove si osserva
il simulacro d’Enea caduto a terra per la percossa del sasso gettatogli da
Dio¬ mede, in atto di cercare una qualche difesa nella trista situazione
in cui si tro- 1 Ved. Tav., VIRGILIO, Aeneid, 1 . vi. v- 2 4 L
Varrò ap. Geli. 2 Inghirami, Im, e R. Palazzo Pitti, p. 88. !• iu,
c. 11. 3 Ved. Tav. xxxi. 6 Ilomer Iliad. 4 Monuin. etr: ser.
n, p. mostra in questa Tavola il disegno rappresentatovi, non potea meglio
esprimere in esso un tale avvenimento, poiché dipinse Peleo qual destro
giovine preparato alle nozze, in atto di tenere stretta la ritrosa Teti,
che quasi è per coprirsi ’J volto col ve lo per l’onta di quell'atto.
Peleo eseguì ciò per consiglio di Chirone divenuto il di lui suocero con
quelle nozze. A lui davanti Peleo conduce la sposa, quasi che gli do¬
mandasse assenso della unione maritale, mentre il centauro coll’atto di stender
la mano dimostra l’annuenza paterna dell’imeneo. È superfluo il sospettar
ch’altra favola sia rappresentata in questa pittura fuor che quella di
Peleo e Teti davanti a Chirone, mentre lo attestano le iscrizioni che vi
si leggono setie teaes kipos, e quindi un no¬ me proprio di Nicostrato
coll’aggiunto consueto nikoztpatos kaaos. Le figure qui riportate son alte la
metà di quelle che vedonsi nella pittura del vaso originale, che ha fondo
nero , con lettere dipinte in bianco appena visibili. I vasi che han la
forma come il presente sogliono avere altresì tre manichi, ed una sola
fronte ornata a figure; questo a differenza degli altri è dipinto da due
parti, una delle quali è descritta nella Tavola antecedente, f abra, che
dir si potrebbe la parte opposta del vaso, a causa della inferiorità
della esecuzione del disegno, è la qui delineata, ed il vaso tracciato
sotto di essa è poco più della decima parte dell’originale, in fondo nero con
figure rosse. 11 vecchio calvo che sta nel mezzo a due donne in atto di
correre o di ballare, è tema comunissimo anche ad altri vasi. Ma in uno
di essi, per quanto appresi da S. E. il principe di Canino esimio possessore e
cogni- tore di tali pitture, uno di essi, io diceva, manifesta con
epigrafe il nome del vecchio Tindaro, dal che si dedurrebbe essere una
delle donne la figlia Elena danzante con una delle sue compagne nel
tempio di Diana, dove fu rapita da Teseo, e portata in Atene: tema che
ora m’avvedo essere più chiaramente espresso nel vaso che io inserii nell’opera
dei Monumenti Etruschi, e che dissi allusivo al corso degli astri a , e
che ora maggiormente confermo per la relazione di quel ballo e di quel ratto
con la guerra dei Dioscuri onde riprender Elena, con altri simili tratti
di quella favola, i quali non significano in sostanza che un continuo
levare e tramontare degli astri 3, e delle combinazioni loro con la luna:
nome che in greco porta con poca varietà anche Elena Selene da sto» la
risplendente, e aiUn la luna. La figura di questa Tavola è dipinta nella
grandezza medesima in una tazza di terra cotta con giallastro colore su
fondo nero, il cui aspetto ha tutti i segni del sati— 1 Ser. v.
Tav. ix. 3 Ivi, ser. n, p. 4 g 8 . 2 Ivi, ser v, p. 87, li 4 , 4 Ivi, p.
567. sorilievo non distante dai buoni tempi dell’ arte; e se la figura
equestre compa¬ risce alquanto piccola, fu condotto a sì ingrata licenza
lo scultore nel volervi introdurre delle figure a piedi e a cavallo
protratte ad un'altezza medesima, e che tutte empissero il fondo sul
quale son collocate. Prima di coricarsi a mensa usarono gl’italiani dei primi
tempi di Roma di spogliarsi de'propri abiti, e prendere un manto che dissero
veste cenatoria o sindone, colla quale in parte avvolgevansi e in parte
potean restare a nudo, per aver le braccia più libere all’azione di prendere il
cibo,- e così coperti dieevansi dai latini semi- amidi, ma quell’uso fu
abbandonato e non tardi, ond’è che da Erodiano fu addotto come affettata
imitazione delle antiche statue Di tal costume par che serbi memoria la figura
della Tavola presente che giace sul coperchio,spettante all’urna in marmo che
antecedentemente abbiamo veduta. Dell'iscrizione sarà dato conto a suo
luogo. Il vaso che qui si mostra un terzo più piccolo dell' originale, è
di que’soliti di terra nera che si trovano a Chiusi, nè potrassi mai
supporre che siano d’altra fàbbrica fuori della chiusina, poiché oltre la
terra nera e non cotta che vi si adopra- va più che in altre officine,
hanno essi vasi certe forme, una delle quali è la presente, che mostrano un
carattere del tutto originale ed unico, sì nelle sagome, sì negli ornati. Accenna
Omero essere stata volontà degli Dei,che Peleo togliesse Teti per moglie, quantunque
Dea; mentre quell’eroe non avrebbe volontariamente aspirato ad una unione
sì eminente. Apollodoro ne spiega più minutamente il successo, e dalla di
lui narrazione par che abbia origine questa pittura. Era fama che Giove unitosi
con Teti, da cui restò incinta d'Achille, ne procurasse 1’ imeneo
posteriore con Peleo, quantunque mortale 3 . Quindi soggiunge Apollodoro,
che il centauro Chirone consigliò Peleo ad impadronirsi della ninfa divina con
sagace destrezza, nè lasciarla andare, per qualunque forma ch’ella avesse presa
. La insidiò difatti Peleo, e quantunque la Dea si trasformasse in acqua, in
fuoco, ed in bestia feroce, egli ritennela finché non ebbe ripresa la di
lei primiera forma di ninfa. Il pittore del vaso di cui si i
Monum. Etr. ser, i, p. 3^6. 3 Scol. ap. Heine lliad.H-imer. lliad. Elr. Mas .
Chius. Torti. I. ragionamento y SUGLI ETRUSCHI Disputarono
lungamente frà loro gli scrittoli, come abbiamo accennalo, intorno all’ origine
degli Etruschi, e fabbricarono su questo soggetto tre sistemi diversi.
Volevano, per esempio, alcuni che eglino fossero un popolo uscito dalla Grecia,
ed una colonia di Pelasghi, mentre sostenevano altri che erano Lidii, e veni
nano dall’ Asia, ed altri finalmente affermavano essere i medesimi
originarli di Italia. La quale ultima opinione è ragionevolissima, e noi
la crediamo la vera. I moderni poi hanno superato gli antichi nel
numero delle ipotesi, e dei sistemi-. Imperocché il Maffei,col Mazzocchi,
ed il Guarnacci, li fanno venire dalla Fenicia, il Buonarroti dall'
Egitto, il Pelloutier, il Bardetti, ed il Frerst, dai Celti. Li crede Guglielmo
de Humboldt I anello di comunicazione frà i Latini, e gl’ Iben, laddove Niebuhr
riguarda la Rezia come la primitiva lor sede. Ed in fine il Mailer suo
discepolo, adottando un termine medio, ammette un popolo primitivo di
Etruria, eh’ ei chiama Rase ni con Dionisio d Alicarnasso, e sulla cui
origine lascia la qm- stione indecisa, benché creda d’ altronde, che
questi Raseni si mescolassero coi Pe¬ lasghi, qua venuti colle loro
colonie di Lidia. Ora questa moltitudine d’ipotesi antiche-, e
moderne, da altra causa non possono cèrtamente procedere, che, oda troppa
leggerezza, e precipitazione nell’ esaminare i monumenti dei nostri
padri, o da impremeditato sistema in coloro, che ne presero a scrivere, o
dal più nocivo di tutti i sistemi, V amore di parte. Per poco infatti che
vi sifaccia attenzione, e si vogliano mettere alla prova, non è difficile
a chicchesia di accorgersi, che q.essuna di quelle ipòtesi, e nessuno di quei
sistemi, contiene elementi che bastino a diradare il buio che involge le
cose etnische, ed a spiegare, anche probabilmente i monumenti che ci rimangono
di quella illustre nazione. Scegliendo peraltro da ciascuna di
quelle ipotesi, e da ognuno di quei sistemi, ciò che vè di più
ragionevole, e di più giusto, e formandone un insieme, vi si troverà, se
il giudizio nostro non và errato, quanto fà di mestieri, per portar piena luce
e spiegare con ogni chiarezza, e senza replica, tutto quello checi rimane
di etrusco. Stabiliremo dunque frattanto, che furono gl’Etruschi un popolo
particolare d’Italia, indigeno di questa bella penisola, che ebbe, com è
naturale, una lingua sua propria; la quale non è la. Stessa che la greca
antica,, come dimostrammo nel precedente ragionamento, e che anzi ne
differisce mollissimo, anche per sentimento del prelodato Mailer. Col
quale aggiungeremo, a conferma di quanta asseriamo, che inori>', dei
loro ro: orecchie ircine, barba prolissa,naso simo e coda di
cavallo. L'otre vinaria ove stassi assiso è pure suo speciale attributo.
L’iscrizione letta come qui rappresentasi, poco giova ad intenderne il
significato panaitios iupos kacos . Non oso farvi emenda, mentre non
avendo io veduto il monumento, non posso nè asserire, nè porre in dubbio
se questa sia la vera lezione. Quando non vogliasi azzardare il supposto
che la terza lettera dell’ ultima voce sia nell’ originale un p, per cui
avremmo due volte ripetuta la voce bello, come in altri esempi si vede,
potremmo almeno pensare ad una omissione dell’asta che del c ne dovea
formare unir, e la voce significativa di pernicioso potrebbe alludere al
vino, quando n’è fatto abuso. Nè nieu dubbie si mostran le altre voci, a
meno che vogliansi leggere ««<05 che sarebbe un saluto al dio Pan
l’autore della universale natura. Ma tali dubbie iscrizioni debbonsi a
mio parere consegnar colle stampe alle indagini di quelli ellenisti che
in particolar modo si occupano dei vasi dipinti e scritti.
Epigrafi tratte dal museo Oasuccini, come le altre venti già stampate, scolpite
in urne di travertino, o segnate in urne di coccio. VI
:fì\u il AH : 43 :4flHfYf = fln-iq/iDvnas : ma : qd
>- tv -7 bifidi) : dfiUfVf: V13M :
lllfttqfi : 04 :4fi0qfl4 : dfidfVf : liHblqfi : 43
#filflfiOmfiq ; invddfi : O4 > /in fio
Doppia epigrafe 4fi Sopra il coperchio
filfin8dV3 Nell’ orlo del coperchio Iffifliqa : ignqfiq :
04 XXVII. Jfi 1 -r fi sic om 131 :
lantqfi : I O q fi 4 xxvin. fiinvi-nai : firmo
filflfl031 6 * 46 il nome di quei nuovi
coloni, e non quello dei primitivi alitanti. Imperocché , trovandosi, prosegue
lo stesso Mailer, nella Tavole Euguhine, la parola Tursee, con quelle di
Tuscom , e di Tuscer, è impossibile di non conchiudere, che dalla radice
Tur si sono fot mali Tursicus, Turscus, e Tuscus, come dalla radice Qp, derivaronsi
Opscus, ed Oscus; Di maniera che Tuprìvoi o Tv eP moi e Tusci, non sono che
le forme asiatiche, ed italiche di un solo, e medesimo nome •
Che del resto, un argomento per noi fortissimo, atto a dimostrare
oltremodo remota la civiltà degli Italioti, e singolarmente degli Etruschi,
ricavasi pure da tutti que¬ gli antichi scrittori, i quali parlano della
cosi detta Confederazione etnisca residente a Fiesole, e da tutti quei
Gronólogisti, che ne fissano lo stabilimento a lobo anni prima dell’era
volgare ; dei quali vedasi, fra gli altri, il Sìg. de Long-Champs, nei
suoi Fasti universali. Lo che ci fa credere che gli abitanti dì questa
regione, avessero già acquistale fino diallora, non ordinarie nozioni di
politica teoria. Ed infatti, benché la voracità dèi secoli, e più
ancora la feroce ambizione , e la crudele prepotenza romana , ci abbiano
invidiate le storie etnische, ed anche la maggior parte dei monumenti di
quel popolo celebratissimo. Benché la vanità senza limiti dei Greci, sia
venuta, per giunta alla derrata, ad involgerne di puerili, e RIDICOLE
FAVOLE, perfino il nome, non che le azioni dei nostri antenati, per quella
loro presunzione stoltissima , di far credere che tutte le altre nazioni
del mondo, non furono nulla , in paragone di loro; esistono pure tuttavia in
Etruria delle costruzioni, che gli eruditi chiamano Ciclopèe , perchè non
hanno il carattere, nè fenicio, nè egizio, e che sono per conseguenza indìgene
, le quali sfidano da quattro mila anni a questa parte,gl’insulti degli
uomini e gli urti del tempo, e stanno a conferma di quanto asserimmo qui
sopra, circa la suaccennata civiltà, e straordinaria potenza, ed energia
degli Etruschi . E tali sono, fra le altre, le mura di Volterra, e di più
altre città dell’ antica Etruria, le quali sono formate di enormi macigni,
senza alcun cemento, resi fermi soltanto dal proprio peso- Mal
epoca della colonizzazione, della quale parlammo di sopra, non si può fissare
che per approssimazione. La quale peraltro credè il Mùller, già citato più
volte, che coincida colla emigrazione dei popoli, e che fosse cagionala,
e prodotta da quella, e se la ragiona cosi- Gli Umbri, dice egli, e lo
ripetono pure i compilatori di Edimburgo, erano potenti nella contrada,
di cui presero possesso i nuovi coloni. I quali ebbero a sostenere
lunghe, e sanguinose guerre, prima di spossessarli delle trecento città,
che eglino occuparono, al dire di Plinio lib. terzo, cap. decimo nono,
nel paese che fu più tardi chiamato Etruria. E poi fuori di ogni dubbio
che gli Etruschi si estesero dalla parte del Mezzogiorno, fino alle sponde del
Tevere, ed anche al di là nel Lazio, come lo prova il nome di Tusculo, o
Tusculano. E dietro le tradizioni popolari, quello stesso Tarconte, al
quale si attribuisce la fondazione delle dodici città di Etruria, condusse
anche dodici colonie al di la degli Appennini, e vi gitlò le fondamenta
di Dei, non sono quelli che s' incontrano presso gli Elleni, e che
trovatisi nelle dottrine dei Sacerdoti Etruschi, molti punti, affatto
diversi dalla greca teologia. E ripeteremo ciò che altrove dicemmo, che
la sorte, cioè, di questa nazione, pare che fosse quella di essere
debitrice dei suoi primi progressi nella civiltà, non ad una tribù greca, o
mezza greca, siccome crede lo stesso Mailer, e con esso lui i dotti
compilatori della Rivista di Edimburgo ; ma bensì ad una emigrazione
asiatica, più antica dei Greci medesimi come abbiamo assento, ed in parte
ancora provato nel precedente ragionamento. Nè punto esiteremo d affirmar
qui, che la lingua etnisca, o ella non fu mai scritta nella sua purità
primitiva, e scevra di ogni mescolamento di stranieri vocaboli, o se pure
lo fu in lontanissima età, non è fino a noi pervenuto alcun monumento scritto,
il quale ce ne possa far fede. E ciò sosteniamo con tutta franchezza, perchè
quelli conosciutifinqui, sono tutti composti, senza veruna eccezione, di
un rnescuglio di voci, prese ad imprestito, per la maggior parte, da ognuno di
quegli antichissimi linguaggi, e dialetti, che nominammo nei ragionamenti già
pubblicati in quest' opera stessa. Di che daremo una sicura prova in
altro discorso a questo solo scopo diretto. Sul proposito però dell'
essere, o non essere gli Etruschi una tribù greca , o mezza greca, è molto
curiosa la novelletta che vanno ripetendo, il prelodato Mùller, e con
esso ancora i surriferiti Compilatori della Rivista edimburghese, ove dicono
che i Toscani attribuivano eglino stessi, nelle loro nazionali leggende, la
propria civiltà alla marittima città di Tarquinia, e nominatamente a
Tarconle. I quali due nomi altro non sono, secondo essi , che due
variazioni di Tirreni . Ma questa è una greca invenzione, ed anche di
moderna data, in confronto della remota cultura degli Etruschi, ed è
similissima a tante altre dello stesso calibro , dai medesimi Greci accreditate,
e spacciate per fatti, intorno all’origine di tutte le più celebri nazioni dell’antichità
. Ed aggiungono i medesimi autori, che sbarcarono precisamente a Tarquinia , e
colà stabilironsi da prima, quei terribili Pelasglii di Lidia, i quali
porta¬ vano seco le arti, e le scienze, che avevano già apprese o nella
patria loro , o nei loro viaggi -, credendo di poter cosi conciliare
maggior fede al loro racconto circa la primitiva civiltà degli
Etruschi. Al venir dunque di si fatti coloni, secondo quell' eruditissimo
prussiano, e quei dotti inglesi, vide per la prima volta 'questo barbaro
paése, degli uomini coperti di bronzo, equipaggiarsi a suono di tromba
per la battaglia. Udì allora per la prima volta , l acuto squillo della
tibia lido-frigia , accompagnare i sagrifizii, e fu testimone della rapida
corsa delle galere a cinquanta remi, Siccome però la tradizione
passando poi di bocca in bocca , non conosceva più limiti, cosi tuttala
gloria del nome toscano, anche quella che non apparteneva prò- priameiife
ai coloid, si attaccò a Tarconte discepolo di Tagete, o d e ! tempo, come
dicemmo nel precedente discorso, riguardandolo quale autore di urlerà novella,
e migliore, nella storia di Etruria. Ed i popoli vicini, vale a dire ,
gli Umbri, ed i Latini ; diederq a questa nazione, che incominciò allora
ad accrescersi, ed estèndersi Nè credo che allia torlo il MiMer,
attribuendo alla preminenza di questi ultimi sul mare inferiore, la
mancanza delle colonie greche, sulla costa setten¬ trionale della
Sicilia, ove al tempo di Tucidide, non eravi che Lnera. Il timo¬ re degli
Etruschi, chiuse per lungo tempo ai Greci, il passaggio dello stretto di
Reggio- E non avvenne che dopo V epoca in cui ebbero acquistata i Focesi
una potenza navale, che fu dato loro di esplorare entrambi i mari.
Ma la rivalità non tardò molto a manifestarsi frà i due popoli, i quali
cércarono d'impadronirsi dell’ isola di Corsica . E gli Etruschi uniti ai
Cartaginesi, disfecero i Focesi. Furono pero meno fortunati nelle loro
guerre marittime coi Borii di Guido e di Rodi che avevano formalo uno
stabilimento a Lipari. Finalmente 474 anni avanti Gesù Cristo, il
popolo di Ciana in Campania, avendo dichiarata la guerra ai Tirreni,
chiamò in suo soccorso Gerone tiranno di Siracusa , che li disfece
completamente, e liberò, dice Pindaro nella prima Ode pizia, la Grecia
dalia schiavitù. E difetti uno scudo di Bronzo trovato nelle rovine di Olimpia,
porta questa iscrizione = Gerone, figlio di Dimmene, ed i Siracusani,
hanno consacrato a Giove queste spoglie dei Tirreni vinti a Clima =
. Ammesso pertanto che furono gli Etruschi un antichissimo popolo d’
Italia originario dello stesso paese, conchiuderemo questo breve
ragionamento, colle riflessioni seguenti. L° Che di necessità
ebbero essi, linguaggio, usi, Leggi, costumanze, arti, scienze, e
religione loro particolari, e proprie, benché dovessero i primi progressi nella
civiltà ad una emigrazione asiatica, in un epoca quasi impossibile a stabilirsi
con precisione. Il.° Che per conseguenza, fra le altre cose ,
che qui per brevità si tralasciano , i vasi dipinti di terra cotta, come
quelli neri, ed altri, di qualunqueforma, e grandezza, siano essi
aretini, o chiusini, o campani, sono genuinamenee etruschi, e non altro
che etruschi. Benché sia piaciuto agli Archeologi di chiamarli vasi
greci, e più modernamente ancora italo-greci. Le quali denominazioni hanno dato
loro quei dotti , perchè vi si scorgono, come pure nelle urne cinerarie,
e nei sarcof agi, disegnate e di¬ pinte, o scolpite, a basso , e a gran
rilievo, rappresentanze, o storie e favole greche; ovvero che tali
divennero dopo essere state prima etnische, e perchè vi si leggono parole
greche, o che alle greche somigliano. Come se non potessero essere nel mondo
due diversi idiomi i quali abbiamo alcuni vocaboli comuni ad entrambi.
Conforme fu sa¬ gacemente osservato, dal dotto, e perspicace sig.
principe di Canino apag .20 del suo Museo Etrusco. Campani poi faron
detti, eziandio tali vasi, perchè se ne fabbricavano . e se ne trovano nella
Campania, che fu pure colonia etnisca, come si dicono chiusini, ed
aretini, da Chiusi, e da Arezzo, ove esisterono speciali fabbriche dei
medesimi. E sul proposito del sig. principe di Canino, sono assai dispiacente
di non aver letto prima d’ora quel suo dotto e giudizioso lavoro, perchè
avendovi riscontrate al- altre dodici città. Lo che serve a trovare
che l Etruria della valle del Pò, fu colonnizzata dall' Etruria del
Mezzogiorno. La. medesima tradizione di dodici colonie, viene ripetuta sul
proposito dello stabilimento degli Etruschi in Campania-, Ed il Miiller
suppone che quelle colonie fossero realmente etnische, contro , l’opinione di
Niebuhr suo maestro, il quale pensa che elleno fossero fondate dai Pelasghi
Tirreni, confusi cogli Etruschi, a cagione dell’identità del nome. In
ogni caso però, sembra allo stesso Miiller, che la popolazione etrusco
della Campania, non debba essere stata molto considerabile, perchè vi
prevalse il dialetto Osco, e perchè non si è mai trovata in tutto quel tratto
di paese, una sola iscrizione veramente etnisca. Laonde convien credere,
prosegue egli, che quel fertilissimo paese, immerso nel lusso, e nella
mollezza, esercitasse la sua fatale influenza sugli Etruschi, che vi si erano
stabiliti, mentre furono obbligali ad abbandonare il possesso delle ricche
pianure di Capua ai Sanniti, colà discesi dalle loro montagne.
Io non saprei qui sottoscrivermi all’opinione del dotto archeologo
prussiano, sembrandomi troppo debole la ragione che egli adduce, per
ìstabilire che fosse piccolo il numero dei coloni Etruschi della
Campania, quella cioè del dialetto Osco rima¬ stovi dominante, poiché
potrebb’ essere ciò avvenuto anche dall' avervi quegli ospiti soggiornato
per breve tempo , oppure da un riguardo che poterono benissimo avere i
Vincitori verso i vinti. Di che abbiamo avuto un esempio noi stessi nelle
nostre contra¬ de al tempo dell’ Impero francese. E certamente gli
Etruschi, non erano cosi feroci, come i Romani, i quali ebbero
l’inumanissimo orgoglio di togliere perfino la lingua ai popoli che
avevano l’infortunio di cadere sotto il loro giogo di ferro : ( checché
ne cantino in contrario ifanatici loro lodatori .) E se è permesso di
paragonare le grandi cose alle piccole, quando sono dello stesso genere ,
dirò in appoggio della mia supposizione, che anche i Chinesi soggiogati
già da piti secoli dai Tatari Mant- sciu, hanno conservato, e conservano
tuttavia dominante il proprio idioma, benché soggetti ad una dominazione
straniera. Oltre di che, viene ad accrescersi la forza del mio ragionamento ,
riflettendo che era ben facile, e naturale il conservare nella Campania il
linguaggio del paese, altro non essendo il medesimo, che un dia¬ letto
della lingua Etnisca. Sembra poi cosa provata , e da non
controvertersi, che i Tirreni dopo il loro sta¬ bilimento in Italia,
esercitassero per lungo tempo la pirateria, e che si rendessero così famosi
nelle pianure della Grecia, ma è peraltro assai difficile a decidersi, se una
tale accusa debba applicarsi a Tirreni del mare Egeo, oppure ai Tirreni
Etruschi', I quali possedendo dei buoni porti sui due mari, conservaronsi la
dominazione dell’uno, e dell' altro, e si resero formidabili, non solamente
alle navi mercantili, colle loro corsare, ma eziandio alle altre potenze, coi
loro navali armamenti. A molti sarà nuovo ed inatteso questo
singoiar monumento,- ma non a chi ha scorsa la mia Opera su i Monumenti
Etruschi ove alla ser. VI, e precisamente alla Tavola G5 ne ho dati a
luce due inediti, nè finallora da nessun altro mostrati, In seguito si
videro esibiti ripetutamente nelle Opere del eh. dot. Dorow '. Io dissi
di quelli, come pur di questo ripeto, esser vasi di terra nera, al cui
orifizio è soprapposto per coperchio un capo umano, ed a suo luogo spiegai come
que’recipienti dovean simboleggiare il mondo, ed il capo sovrimpostovi la
divinità che Io governa dall’ alto de’cieli \ Ma poiché questa specie di
vasi trovasi nei sepolcri, cosi potremo credere che i soprimposti capi
rappresentino deità speciali, cosicché se avrà barba un di essi, come
quello che pubblicai altra volta 3, si potrà dire un Bacco infernale,
mentre nel presente monumento dov’ è un capo imberbe, ed alcune
protuberanze che dan segno di petto femminile ravviseremo una Proserpina.
Se il vaso qui esposto avea ceneri umane, di che non posso giudicare dal
solo disegno ch'io vedo di questi monumenti chiusini, in quel caso
direbbesi che le braccia, avvingendone il recipiente, indicano il
patrocinio che la divinità dovea prendere di quel morto ritornato nel caos
della materia mondiale. Dico tuttociò brevemente perchè in queste materie
mi sono esteso altrove abbastanza. Qui aggiungo l'osservazione che molti
vasi uguali a questi, ma in pietre di varia specie trovatisi nei sepolcri
egiziani e in gran parte anche dipinti nei papiri, nelle casse e nelle pareti
delle tombe; e dai capi che hannovi soprapposti di forme varie 4, si
ravvisano per figure delle principali deità egiziane, Questo vaso in
terra nera è due terzi più piccolo dell’ originale. È tuttavìa non risoluta
questione se figure simili alla presente, cioè che abbiano lunga barba,
corona in testa, abito lungo fino ai piedi un manto sugli omeri con vaso
in mano, ed attorniate da sermenti d’edera o di vite, è questionabile, io
diceva, se dir si debban figure di Bacco o d'un qualche di lui
sacerdote.È altresì cosa degna d’osservazione che l’occhio qui eseguito, non
come dalla natura umana si mostra, è poi disegnato precisamente come si vede
nelle figure de’ vasi di Grecia di Sicilia , e di tutta 1* Italia
meridionale, ove trattisi di pitture che affettino qualche arcaismo nel
loro stile, e specialmente ove le figure sono come qui di color nero sul fondo
gialla- 1 Dorow , Voiage archeologique dans V a °cienne xbtrurie
avec xvi Planches. 1 Voi. io 4 -° P- 46, Paris. 1829. Notizie intorno ad
alcuni Vasi. Etruschi Pesaro 1828 in 8.°. 2 Monumenti
Etruschi, ser. 11, p. 47 1 2 > ser. v f p. 490» ser - Vi* Tav.
G 5 , p. 4 ^. 3 Ivi, ser. vi, Tav. G 5 num. 1, 3 . 4
Ivi * ser. vi, tav. N4, num. 1 , e P4. numm. 1 ,
2. cune opinioni, che mi paiono le più giuste, e ragionevoli in questa
materia, e le quali si accordano con quelle da me emesse nei precedenti
ragionamenti, mi sarei fatto un dovere di render nolo al Pubblico molto
prima, quanta sodisfazione io ni abbia di trovarmi d'accordo con un uomo
di tanto ingegno e di tanta dottrina . 0 Che si avvicina al delirio
l'ostinarsi ancora a voler credere opere greche i suindicati vasi, perle
sopra esposte ragioni, e perchè se ne rinvennero alcuni persino nell' Attica,
ed in altre parli della Grecia, i quali sono peraltro in piccolissimo
numero, in confronto a quelli discoperti in Etruria , e nelle altre parti
d'Italia. Ed una tal foggia di ragionare, è simile a quella di chiunque
osservando per T Italia, o in Francia dei lavori di porcellana della
China, e del Giappone, pretendesse di stabilire, che quei lavori sono italici,
o francesi, solo perchè si trovano in Francia, ed in Italia.
IV. ° Che non è meno strano, per non dire assurdo il pretendere di
togliere agli Etruschi l’ onore di tali manifatture, per farne dono ai
Greci, perchè s‘ incontrano molti dei suddétti vasi che hanno
elegantissima forma, e sono disegnati pure, e dipinti con un gusto squisito.
Quasiché gli Etruschi non avessero fatto che comparire sulla faccia del
globo terrestre, e ne fossero subito scomparsi. Oppure, avendovi di¬
morato per lunga serie di secoli, lo che non hanno saputo negar loro neppure i
più furiosi partigiani dei Greci, fossero stati poi forniti di tale, e
tanta stupidità, da non saper migliorare, ed anche condurre a perfezione,
le loro invenzioni, come fanno tutti i popoli del mondo Che non si
vorrà sostenére finalménte, che le arti non pvesserò presso gli Etruschi,
come presso tutte le incivilite nazioni, che le coltivarono, diverse epoche,
cioè quella della primitiva rozzezza, qxiella del miglioramento, e quella
della perfezione, come quelle del decadimento, e della successiva
barbarie. Nè saprei addurre, per rivendicare questa usurpazione fatta dagli
archeologi ai nostri padri, più bella prova, e più convinciente ragione
dì quella prodotta dallo stesso signor Principe di Canino, apag. ig
dell’opera citata qui sopra. Cioè, che i vasi dipinti non sono
sicuramente greci perchè i Greci stessi non se ne sono vantati giammai.
Ed è ben gloriosa per gli Etruschi una tele invenzione, conforme riflette
pure il prelodalo scrittore, perchè furono essi i primi ad iscoprire colla
meditazione, e colle più profonde indagini, che per eternare le
tradizioni dei popoli, più del marmo, e del bronzo, è valevole Iùmile
terra cotta, perchè ella sola passa a traverso alla fuga dei secoli senza
altera¬ zione veruna . jflniiia : 3 n iq 3© or 248v8 in gran
travertino che serviva di porta ad un sepolcro amq&o :
ofl janqoai Etr. Mus. Chiut. Tom. I. 7
52 ha sulle spalle, e come questo riferir si debbe
all’autunno l'accennai spiegando altri vasi chiusini analoghi a
questo , LVI. Le quattro tavv.LlII, LIV, LV, LVI sono
impiegate a mostrare un bel monumen¬ to di pietra tofaceadella figura
d’ut) cubo, della grandezza due volte maggiore del disegno qui ripetuto,
e che mostra quattro lati scolpiti con figure a rilievo assai basso, come sono
gli altri monumenti di simil natura trovati a Chiusi. Io non saprei dire
se ara sia questa, oppure altare, o foculo, o base, o altr'oggetto
qualunque, perchè non vedendone io che i disegni non posso da essi giudicarne
con fondamento. Esaminiamone le sculture che si vedono in quattro lati
del cubo. È fuori di dubbio che qui si tratta di riti funebri, e d'ultimi
uffici di pie¬ tà resi ad un morto, che vedasi steso sul feretro alla
Tavola LUI. Il fanciulletto eh’ è in piedi presso a quel letto di morte
ha un tale atteggiamento di dolore, che non saprebbesi meglio immaginare
dal più sagace dei nostri artisti, brattan¬ to c’insegna che tenevasi per
atto di duolo il porre le mani al capo. Infatti nel quadro medesimo
compariscono due altri astanti colle mani portate al capo ugualmente, ma ben si
ravvisa che l'atto è suggerito più da formalità che da quel vivo dolore che
esprime IL GIOVANETTO PROBABILMENTE FIGLIO DELL’ESTINTO, di cui qui si
rappresentano l’esequie. Un simile atto, e da uomini similmente abbigliati,
è pure nella pietra di memoria perugina da me pubblicata *, ove
rappresentasi ugualmente la funebre cerimonia che praticasi all’ occasione di
un morto. Espressiva è parimente la prefica a capo al letto, in sembianza
di strapparsi per dolore i capelli, mentre ì’uonio che al cadavere è più
vicino, alza le mani probabilmente per espressione pure di dolore, mista
però di sorpresa. Una figura eh’è ultima nella composizione, suona le tibie con
certa bocchetta che legavasi agli orecchi o al capo in giro. Un tal suono in
occasione di funebre cerimonia non credo che andasse esente da superstizione
tuscanica, passata ai Romani ancora, mentre credevasi di poter porre in fuga
gli spettri coll'armonia della musica 1 2 3 , e così allontanare quelle
malie dalle quali avevano opinione che le anime restassero consacrate alle
deità infernali 4 : superstizione peraltro che manca nel monumento perugino
indicato. Dietro al tibicine alla Tavola LIV vediamo quattro uomini
armati di bastoni, che in mano di Etruschi non è improbabile che siano
augurali, ancorché non 1 Lettere di etnisca erudizione. Tomo i. p.
190. e seguente Tav. xi. 2 Monumenti etruschi, ser. vi, tav.
Za, e Lanzi Della Scultura degli antichi e vari suoi stili
Tav. ìv. 3 Ved. Luciano pitato dal Ma ilei nella sua me¬ moria
sulla religione dei Gentili nel morire ; Osservazioni letter. Tom. 1,
art. ìx. 4 Tacito, Annali 1 . 1. ap, il Mafie! cit. p. 5i
stro 1 2 . Una tale osservazione unitamente con altre può essere di non
poco rilievo per indagare l’origine primitiva dell’uso di porre siffatte
stoviglie dentro i sepolcri. A chi ha buon gusto peri lavori di
metallo sarà gradevole il conoscere la forma singolare e del tutto nuova
non men che bella di questo vasetto di bronzo, disegnato nella grandezza medesima
dell’originale. Apparentemente dovea contenere de’ liquidi, e perciò
l’intelligente artefice operò per modo che tutto vicorrispondesse
l’ornato. Ecco là un uccello aquatico sopra una pianta quadrifoglia palustre,
il che serve di pomo al coperchio: ecco là una conchiglia lacustre che
serve di borchia a! manico : ecco là infine i lunghi manichi formati in
guisa di colli d’uccelli aquatici come del becco loro nel quale han
termine si rav visa. Il vaso di terra cotta di color rosso che vedesi
rappresentato nella parte superiore di questa LII Tavola, è già noto per
la frequenza colla quale si trova nelle collezioni di simili antichi
oggetti. Par che i Gentili 1’ usassero per lucerna; ed alternativamente
colle lucerne trovasi difatti nei sepolcri, ma in esso valutavano anche la
forma di barca e di recipiente, alludendolo a certa favola d'Èrcole
eli’ebbe in dono del sole un vaso, col quale varcò l'Oceano. Come poi si
applicasse al vaso qtìi esposto l’indicata favola è cosa inutile ch’io lo
ripeta, dopo averne sufficientemente parlato nell’ opera de’Monumenti
Etruschi % dove ne ho riportati alcuni di varie forme. L’iscrizione che è
sul manico suole indicare il figulo, o la fabbrica figulinaria. Il
Vaso al disotto in questa medesima tavola è di que consueti chiusini di
color nero sì nella superficie che nell’interna sua pasta. Questa qualità
di vasi aver suole dei bassirilievi, che girano attorno ripetendosi ogni
quattro o sei figure, perchè fatti colle stampe. Bisogna convenire della
gran somiglianza tra quella manifattura, e le cose egiziane. Vedo nella
prima figura femminile l’atto d’alzare un’uccello, così nelle figure
egiziane dei calendari vediamo elevare per la testa, o calare al basso tenuti
per la coda animali, che indicano il sorgere o calare abaco dei segni
zodiacali. Dell’uomo che segue con bastone in mano io non saprei dir cosa
che avesse inoppugna¬ bile sostegno. Ben potrò dire che a lui segue la
chimera colla doppia testa di leone e di capra, ch’io mostrai altre volte
4 esser composto di segui celesti. E poi chiaro il centauro qual
cacciatore, che porta la preda appesa al suo frassine che 1
Moni;memi etr. Ser. v. Tav. lv, p. 5i 2 Ser. li, p. 359, 36 i , 3
62. 3 Ivi ser. vi, Tav. E 4 , F^. 4 Monurn. etr. ser. w, p.
38 a. Vogliamo credere che nella statuetta in bronzo qui rappresentata di
naturai grandezza sia da riconoscersi una Minerva per 1’ usbergo del
quale vedesi armata? Del piccol mostro pure uguale in grandezza all’originale
in bronzo, non fo parola, poiché probabilmente dagli editori di
quest’opera ne saran pubblicati dei simili, ch’io vidi vari anni indietro
a Chiusi. Il vaso è de’soliti che trovansi per tutta 1 Italia
meridionale, con figure giallastre in campo nero, la cui gola soltanto a una
pittura che vedremo nella tavola seguente, mentre è monocromo, ed ha tre
manichi, d una forma essatta- mente ripetuta molte volte coi medesimi
accessori nei ricchi scavi di Canino, e d’altre parti d’Italia. Io
non mi persuado come il mito delle Amazoni combattenti, sì ripetuto nei
vasi fittili di tutta l’Italia, come si vede in questo, non abbia una qualche
allusione religiosa, come ho supposto trattando altre volte questo medesimo
soggetto. Si vedono in fatti sempre come qui le Amazoni a cavallo , ed i
loro avversari sempre a piedi, ed in positure di soccombenti al conflitto,
colle ginocchia piegate. Eppure se alle favole che trattano delle Amazoni
dovessimo ricorrere per Spiegarne il mito, noi le troveremmo sempre vinte o da
Ercole, o da Teseo, o da Achille . Io non vedo in quel mito che 1’
allegorìa del contrasto e del dominio del tempo in cui si trattiene il
sole nei segni inferiori del zodiaco, ma siccome troppo lungo sarebbe il
mostrar qui di tale allegorìa lo sviluppo, così rimando chi legge ad
altri miei scritti, ove trattai lungamente di questa materia a .
Questa è la pittura del vaso, la cui forma vedemmo nella Tavola
antecedente, e che vien riportata nella grandezza di due terzi del suo
originale. xxxi. /uif/mDajmjaa xxxii. jfliDnaD :
an/d-nit/ìi : Yfl xxxm. i/ìvjad anfl-uitfl'i ; or
xxxiv. j/qnqai ; vJDfi : ofl XXXV, V433 : J lf d
Galleria Omerica Tom ii,Tav cLxxxvni.p. 137.VJlDfl : 31 : Vfl
Veil. Mommi, etr. agli articoli A magoni. abbiano la forma di
lituo, come osservansi nel monumonto perugino. Infatti ad essi spettava
il presagire che l’anima del defonto fosse passata in luogo di riposo; di
che se non troviamo prove di antichi scrittori, certamente ne
conosciamola pratica presso gli Etruschi, per mezzo del più volte citato
monumento perugino, dove inclusive il vestiario di quegli auguri muniti
di lituo è simile a quello di costoro che qui hanno in mano le verghe,
eh' io dissi augurali. Dopo gli auguri vengono immediatamente nella Tavola LV
le prefiche, donne prezzolate che a suono di tibia cantavano lamenti, e
piangevano la perdita del morto ed in modo sconcio e forzato strappandosi le
chiome e perquotendosi, mostravano cordoglio di quella disgrazia. Quel che sia
rappresentato nell’aggregato di figure della Tavola LVI non mi è
possibile il dichiararlo nè mi è concesso d’ azzardare quelle congetture
che può immaginare a suo grado ugualmente chi l'osserva. tavola
evie Questo bronzo in tutto uguale al suo originale fu anticamente
uno specchio dall’opposta parte, come lo attesta lo specular pulimento
che vi si trova. Qui nel suo quasi insensibile concavo, invece di grafito
ha soprapposta una lamina cesellata a bassorilievo, e in fondo una
cerneria, forse adattata all'adesione del manico. lo vi
ravviso Bacco, il quale ha sulle spalle una face, che tale vedrehhesi qualora
fosse intiero il monumento, poiché ve ne sono altri esempi 3 . Egli si appoggia
ad un altro nume significativo della forza creatrice dalla quale dipende
Bacco il demiurgo artefice del mondo, che il trae dal disordinato e
tenebroso caos per virtù concessagli dal creatore, e vi porta luce con la
sua face, non men che ordine armonico, indicato da quella ninfa che precede i
suoi passi , arpeggiando la lira: cosmogonica rappresentanza che in cento
guise ripetesi nei monumenti antichi, e della quale ebbi luogo di trattare
altrove 3 , Sebben questa bella tazza sia di bronzo, pure se ne usavano
dagli antichi anche di terra cotta d ugual forma e lavoro, come si vedono
in Volterra nel museo del pubblico, ed in quello del Sig. Cinci. Il
disegno qui esposto è soltanto un terzo minore del suo originale. Il
pezzo aggiunto lateralmente fa vedere l’acconciatura di testa ch’è dalla parte
opposta del recipiente. i Fest. in sua voc. Lecil. Sat. xxn.
» Monum. etr. ser. vi, Tav. Y, n. i. 3 Ivi, ser. ii, p. 563
, 564 , 6oo, 728, ser. v, p. 3 a,, ser. vi, Tav. Y, n. 1 . W'
Principe di Canino, ed altri già se ne conoscevano, dissotterrati
a diverse epoche, ed in luoghi diversi . , Diodora Siculo poi
descrive nel libro quinto, dietro Possidonio le mense degli Etruschi
imbandite due volte al giorno, le loro drapperie ricamate , le loro coppe
eli oro , e d’argento, e le loro falangi di schiavi. Al cui quadro
aggiunge Ateneo nuovi tratti, e. mostrano chiaramente le figure giacenti
nei sarcofagi, che gli aggiunti di pmgues, ed obesi, dati dai Romani per
isclierno agli Etruschi, non erano suggeriti dal¬ la malizia nazionale
soltanto. E Roma prese ad imprestito dall'Etruria i combattimenti dei
gladiatori, benché sembri che l’uso orribile d’introdurli nei conviti, e
nei banchetti, appartenga sopratutto agli Etruschi della Campania, e
specialmente a quelli di Capua. Altrìbuisconsi però agli antichi
Etruschi anche alcune invenzioni nella musica, e singolarmente rapporto
agli strumenti di essa, poiché non havvi autore, ch'io mi sappia, il quale
pretenda che questa nazione abbia discoperto qualche modo particolare di
tale scienza, benché le venga accordata in essa qualche celebrità , egualmente
che nella plastica ; E non già come piace ai compilatori della rivista
edimburghese, perchè e Aino erano vicini ad un popolo, il quale essendo
estraneo ai Greci, era costretto ad imprestar loro tuttociò che
riguardava il miglioramento, o l'abbellimento della vita pubblica, e privata ,
mentre avvenne appunto il contrario. Benché non si possa decidere dietro
alcun monumento storico, se dovessero gli Etruschi a se medesimi, oppure
al commercio che ebbero coi Greci, dopo che già le arti erano giunte ad
un certo grado di perfezione fra loro, i successivi progressi, fatti dai
medesimi nella scultura, e nella statuaria, pur tuttavia ciò che dicemmo in
altro ragionamento intórno all’anteriorità degli uni, o degli altri,
rende quest'ultima supposizione molto probabile. Ma egli è però certo, che se
questo rapporto esistè per qualche tempo fra gli Etruschi, ed i Greci,
non fu mai dì una grande intimità. Lo stile toscano nelle arti presenta
sempre qualche rassomiglianza con quello deoli Egiziani-, E le opere più
perfette di questa nazione , hanno tutta quella durezza, e quella mancanza di
vita, e di espressione, che qualificano la scultura greca, anche prima che
Fidia accendesse la sua immaginazione alle descrizioni omeriche di Giove,
e di Minerva, e che avesse Prassitei e espresso col marmo l'ideale ch’egli
si era fatto della bellezza. Lo che prova essere stati i Greci i
perfezionatori, e non gl'inventori di quelle arti che si dicono belle ; E
viepih si conferma che i medesimi furono in antichissimi tempi i
discepoli degli Etruschi. non già i maestri, come pretendono i nostri grecomani.
Al contrario, in tutta quella parte dell arie ove il meccanismo senza
vero gemo può mungere alla perfezione, gli Etruschi non la cedono in
verun modo ai Greci stessi, biella maggior loro raffinatezza. Ed un poeta
Ateniese riferito da Ateneo nel primo libro dei Dipr.osqfisti, celebra le
opere etnische in metallo, come le migliori m tal genere ; Facendo egli
probabilmente allusione alle coppe, alle lampade, ai candela- QUALI
FOSSERO LA VITA POLITICA, E DOMESTICA, LA RELIGIONE ED IL GOVERNO DEGLI
ETRUSCHI, E QUALI ARTI, EGLINO COLTIVASSERO PRINCIPALMENTE Ma
chi pensasse il pone sieroso tema, E 1 omero mortai che se ne
cerca, Noi hiasmerebbe, se sott’ esso trema. Caute Par. c. 23
- -=-x jgj> 1\ on è
certamente agevole impresa quella di ritrarre i costumi domèstici di un popolo,
che non ha trasmesso alla posterità veruna immagine di se stesso nelle
produzioni letterarie. E tali appunto sono gli Etruschi, della cui prosperità
nazionale pare che sia stata la primaria base l'agricoltura, che veniva
si ben favorita dal loro suolo, e dal loro clima, e che sembra avere in
ogni tempo fiorito in questo paese, quando i benefizii della natura non
sono stati distrutti da un cattivo governo, o da una assurda
Legislazione, Tuttavìa però , non ha mai goduto V Etruria centrale, come
la Campania, di una spontanea fertilità. Fu d'uopo ognora che spiegassero
i suoi abitanti la loro industria, e la loro destrezza, per adattare la
cultura alle diverse qualità del terreno, che s incontrano in questo paese, e
per arrestare le mondazioni del Pò nelle provinole che circondano l
Adriatico, e che ne furono parte nei tempi antichi. I primitivi
costumi degli Etruschi erano semplicissimi, se vogliamo credere alla storia, la
quale ci dice che la conocchia di Tanaquilla fosse conservala lungo tempo
a Roma nel tempio di Sanco ; E pare che un passaggio di Giovenale nella satina
sesia, ci mostri la stretta rassomiglianza che passava fra le virtù
domestiche delle donne romane degli antichi tempi, e quelle delle donne
etnische. Nè ciò desterà maraviglia a chi sappia, che i primi abitatori
dì Roma, non eccettuato il suo fondatore, non furono altro che Etruschi,
della cui energia, e del cui nazionale carattere, formano al parer mio una
sufficiente prova, le grandi loro conquiste, la loro destrezza, ed il
loro coraggio nella navigazione. Ma quando il commercio, e la
conquista nelle parti meridionali d’Italia, ebbero condotto la ricchezza
fra loro, gli Etruschi se ne impossessarono coll’avidità di un popolo
mezzo barbaro ed il lusso invece d‘ introdurre fra essi il raffinamento, e
l’eleganza delle maniere, non vi portò che un vano splendore, ed un gusto
disordinato per ì sensuali piaceri, come rilevasi anche dalle pitture di
alcuni vasi, delti male a proposto italo-greci, dei quali ne ha discoperti un
gran numero nei suoi scavi il signor La forma del governo etrusco, ove
riunivansi l’ aristocrazia , ed il sacerdozio, impedì efficacemente al genio di
quella nazione, di prendere lutto il suo naturale sviluppamelo. Imperocché ai
Lucomoni, ossia alla nobiltà ereditaria, aveva rivelato Tagete, ed il
tempo, gli usi religiosi, che si dovevano osservare dal popolo, col
potere di Applicarli nella maniera che paresse loro la piti propria
aperpetuare il loro monopolio esclusivo, e tirannico-, E per rapporto poi al
potere civile, formavano questi medesimi Lucomoni il corpo governante di
tutte le città di Elruria. Nei primi tempi si parla di re, non già dell’
intiero paese, ma bensì di stati separati, ed il cui potereera senza dubbio
limitatissimo da quello dell’ alta aristocrazia-, E questi re senza potere,
spariscono ben presto intieramente, come più tardi nella stona greca, e
romana-, Mentre che in Etruria , non sorge alcun ordine corrispondente ai
plebei, per rappresentare V elemento popolare della Costituzione. E
molto difficile di poter fissare con esattezza i privilegi del gran corpo della
Casta potente-, Ed il Miiller inclina per l'opinione, e mi pare eli abbia
dato nel segno,che i coltivatori fossero i servi dei proprietarii del suolo,
come furono in tempi a noi piu vicini i Penasti in Tessaglia, e gl Iloti
a Sparta. É cosa certa difatti, che esistesse una classe simile in
Etruria, ma non è però probabile eli ella comprendesse una gran parte
della popolazione, non essendovi altro argomento, al quale appoggiare
questa, ipotesi con¬ trastabilissima, se non quello che i clienti di Roma
fossero servi dei Patrizn. Tuttavia però è fuori di ogni dubbio che l
aristocrazia etrusco teneva gli ordini inferiori in una dipendenza
politica, e che per questo non pervenne quella nazione, al grado di potenza, a
cui avrebbe potuto giungere-, Ma la sua prosperità prova ad un tempo che
non era governata neppure affatto tirannicamente. Non sembra nemmeno che
l’agitasse lo spirito della democrazia, fino al punto di risvegliar dei timori,
ed eccitare la severità della casta governante. Le insurrezioni di cui parlano
gli storici, sono attribuite espressamente agli schiavi. Era
l'antica Etruria fertile di grani, e particolarmente di quel farro che i
Latini chiamarono far, ed anche odor, la cui farina forniva il puls, che
noi diremmo polenta, o polenda e che era l’ordinario nutrimento degli
abitanti di questa parte d’Italia. Il ferro delle sue miniere, e
specialmente quello dell Isola d'Elba era celebre per la sua purità-, E
forniva pure la stessa isola anche del rame per le monete, e perle opere
di bronzo, tanto comuni fra gli Etruschi. È poi molto probabile, anche
secondo il Miiller, che eglino facessero un commercio di ambra, che loro
venisse dal Settentrione. Il precitato Miiller, che è come
abbiamo detto uno degli Scolari di Niebuhr, và discutendo con moli
acutezza nell’ opera sua, la natura dei rapporti che esisterono nei primi
tempi di Roma, e fra i Romani, e gli Etruschi. E si accorda col suo
maestro a preferire alla tradizione che fa di Servio Tullio unfiglio di
schiavo I origine etrusco di quel principe , menzionato dalli Imperatore
Claudio nel suo discorso sull’ammissio¬ ne dei provinciali nel Senato, il
cui testo fu discoperto nel secolo decimo sesto in taòn, ed ai tripodi, e
simili, giacché discopronsigiornalménte alcune di tali opere egregiamente
eseguite. Si spiega però facilmente la differenza che incontrasi
fra le opere degli Etruschi, e quella dei Greci col carattere della
religione dei due popoli. Imperocché la religione dei Greci conti Univa
potentemente al perfezionamento delle arti plastiche, ove quella degli
Etruschi, in ciò che le appartiene in proprio, non ha niente che risvegli, e
che trasporti V immaginazione dell’ artista. Pare anzi che ella favorisse
efficacemente una opinione, che noi ritroviamo del pari nella teologia dei
popoli settentrionali, ed in quella degl’Indii, ed è questa: che gli Dei
erano eglino stessi, come pure il sistema, al quale presiedevano , gli
effetti di un potere che non iscorgevasi che a lunghi intervalli nella
produzione degli esseri, e che assorbiva tutto ciò che aveva crealo, per
crearlo di nuovo. I SIMBOLI di questo potere erano gli Dii involuti della
teologia etnisca, i cui nomi rimanevano ignoti e non erano oggetto di un
culto popolare, ma che Giove stesso con¬ sultava. Gli Du consenti poi,
che erano dodici, sei di ogni sesso, presiedevano alt or¬ dine delle cose
esistenti, e ricevevano degli omaggi, e dei sagrifizii. Manifestatasi la
loro intervenzione negli affari umani, più che in altra maniera con presagi di
grandi disgrazie, che dovevano essere allontanate con espiazioni
sanguinose, e crudeli. Ma se da un Iato potè la moralità guadagnare
qualche cosa dalla religione etrusco, che non corrispondeva in verun modo
alla mitologia ridente, ma licenziosa dei Greci, la poesia e le arti dell
altro, vi dovettero indubitatamente scapitare non poco. Lo stesso
difetto d immaginazione viva e disinvolta caratterizzava la dottrina
etrusco dell immortalità dell’anima. Il loro mondo sotterraneo, non era
altroché un Tartaro senza Eliso. La superstizione non formò in nessuna
parte del mondo, un sistema più completo che in Etrucia, senza
eccettuarne neppure le Indie, e t Egitto Le regioni del cielo erano
divise, e suddivise in modo che ogni prodigio poteva avere la sua spiegazione
precìsa. Ifenomeni dell’atmosfera, il tuono soprattutto, ed i
lampi, erano osservati, e classati comma minutezza, che avrebbe potuto
fornire oli elementi, aduna vera scienza, se gli osservatorifossero stati
veri filosofi, e non Sacerdoti. Ma nel fatto t osservazione di quei fenomeni,
non servi ad altro che ad accrescere la servitù della moltitudine, a
quelli che reclamavano la co'nuzioné esclusiva dei mezzi coi quali potevano
placarsi gli Dei sdegnati contro il genere umano . Non è necessario
di avvertire, che la filosofia nel senso greco di questaparola, vale a dire lo
studio libero dell’uomo della natura, e della provvidenza, era ignota
agli Etruschi, benché non si possano negar loro le cognizioni pratiche,
col mezzo delle quali eseguivano le belle opere d'Architettura, e di
Idraulica, che vengono ad essi attribuite dagli antichi scrittori, i
quali parlano delle cose etnische senza prevenzione veruna , e senza spirito di
parìe . Elv. Mas. Chius. Tom I. 8 Go tavola
lxi. Quanto sia malagevole scioglier l’enigma che nelle strane loro
figure chiudono le pietre incise in forma di scarabei, ben potrebbero
dirlo e il Caylus, e il D’Han- carville, ed altri chiarissimi ed
eruditissimi ingegni che in vano vi si applicarono; e quantunque in gran
parte non mostrino significato nessuno che ragionevolmente si presti alle
indagini dell’erudito, pur taluni, ancorché pochi, han contrassegni da non permettere
che siano annoverati tra i soggetti capricciosi insignificanti e per
conseguenza inesplicabili. Nello scarabeo di n. 1 ci guidano con
qualche indizio 1 epigrafi, che sebbene sconce come le figure alle quali
si vedono applicate, pure danno adito a ragionarvi sopra non senza
qualche fondamento. Quantunque le lettere siano di forma etrusca, pure
nèson disposte all’uso inverso come scrivevano gli Etruschi, nè presentano voci
che dirsi possano etnische, ma ritengono un misto di paleografia, e glossologia,
che partecipano dell'antico greco e dell’antico latino. Qualora non vi fosser
lettere direbbesi che vi si vede Vulcano assiso sulla sua pesante
incudine in atto di ascoltar le preghiere della consorte sua Venere a prò
d'Enea, come ne dà sospetto lo specchio femminile che tiene in mano, la donna è
la libera di lei nudità. Che le lettere esprimenti parole tronche vi si
conformino lo congetturo dal potervi leggere fex, quasi ephestus ch’era
nome grecamente dato a Vulcano anche dagli antichi Latini. Segue 1 altro
bisillabo vev, che se crediamo sformata l'ultima per una v, potremmo leg¬
gervi la voce Venus con poca difficoltà. Ed in vero quella barba, che in un
mo¬ do sì sconcio si volle accennare all’uomo sedente, dà qualche idea
del rozzo costume praticato dal marito di Ciprigna, che qui si vede contro a
lui con assai studiata, sebben antica maniera d’acconciarsi la testa per viepiù
sedurre il manto a compiacerla nell’ inchiesta delle armi pel figlio Enea
: soggetto non raro nella glittografia, dove l’artefice Vulcano è sempre
assiso, e Venere che incontro a lui si trattiene a pregarlo, sempre in
piedi. Quando si voglia credere che la composizione incisa in
questo scarabeo num. 2 abbia un qualche significato allegorico, e non sia
stato fatto a solo oggetto di mostrare lo sgradevole assalto dato da un
leone ad un cinghiale, potremo cre¬ dere che stiano i due animali a
rammentare due precipue situazioni del sole nel cielo, dalle quali ne
avviene il calor benefico dell'estate, e 1 importuno freddo nell’inverno.
Infatti è il segno del Leone che domina in estate , e che abbatte colla
forza dei raggi solari quei mali che alla natura cagiona 1 ingrato e sterile,
inverno significato dal porco, di che ho^scrittu molto nel trattare dei
Monumenti etruschi 1 .1 Ved. ser. 111, p- 3 j 7 - vote eh bronzo a Lione ;
Il quale pretende che il vero suo nome fosse Mastarna, e che foss e
compagno di un capo dicosi detti Condottieri, o mercenarii toscani.
Il fatto si è che la voce etrusco Mastarna, vale imbrattato, ossia di
sordida origine,^ corrisponde cosi a quanta ne dice la tradizione. Ma mentre
JMebuhr si allontana intieramente dalla storia, supponendo che Tarquinio
il vecchio fosse uno di quei Latini pnschi da ha immaginati, pensa il
Mailer eh’ei fosse veramente etrusco, e che traesse il suo nome da
Tarquinia, ( e lo pensiamo noi pure,) il cui dominio estendevasi allora
dalla parte del mezzogiorno, fino alla città di Roma, che erane anche
dipendente in quel tempo . I compilatoli della Rivista edimburghese
non credono che questa opinione sia basata sù fondamenti abbastanza solidi,
benché paia loro più probabile di quelle di lebuhr, per sostituirla ai
racconti della storia comune ; E non sanno comprendere neppure, come dei
fatti accompagnati da circostanze sì ben precisate, quali sono quelle
dell'esistenza di Servio Tullio, e deiTarquinii, del loro paese, e dello stato
loro possano cangiarsi tutto ad un tratto in un simbolo di etnisca
supremazia. Lo che peraltro non desterà nessuna maraviglia a chiunque sia
meglio di loro istrutto delle antichità etnische, e conosca più a fondo
che essi non conoscono, l’universalità dello spinto simbolico di quei
remotissimi tempi. E comunque sia poi la cosa, checché si debba pensare
eh tali supposizioni, il fatto vero si è che Roma fu conquistata dagli
Etruschi sotto la condotta eli Porsetto re di Chiusi, come lo provò, sono
già molti anni, Beau- foit, disvelando gli artifizii , sotto i quali
avevano procuralo i Romani scrittori di nascondere questo colpo
umiliante. Oltre di che, furono, come abbiamo già detto, anche i
fondatori, ed i primi abitatori di Roma, una truppa dibanditi toscani.
Ma circa ad un secolo dopo il regno di Porsena, vennero gli Etruschi
umiliati essi pure dai Celti, e da altre barbare genti, che si resero
padrone di tutto ciò che eglino possedevano sulla riva meridionale del Pò
fino a Bologna, e che occuparono anche. Roma, benché temporanamente. I
Romani però, vincitori dei Galli, e cosi più fonnidabih che mai, non
tardarono molto a conquistare, e colonizzare quella parte i ’truna, che
si estendeva al mezzogiorno della selva Ciminia; Ed anche laCam- pania
eia caduta allora sotto il potere dei Sanniti, e tutte le provinole etnische al
settentrione degl’Apenninì, erano rimaste sotto la dominazione dei
Galli. Tentarono indarno gli Etruschi, dopo la gran disfatta, che ebbero
presso il Lago Va di mone, oggi di Bussano, di chiamare in loro soccorso
i mercenarii Galli, poiché furono battuti di nuovo, perchè le loro
temporarie confederazioni, non poterono oppor¬ re una efficace
resistenza, contro la disciplina, che la vittoria aveva già organizzata
nelle armate romane; Eia potenza di quel popolo celebre, e valoroso per sì
lunga serie di secoli, rimase intieramente abbattuta,prima delle guerre di
Pirro, e di Annibale. del cielo, di che ho trattato in altre mie opere. Le
colonne ed i vasi che son sepolcrali rammentano le ceneri degli avi,
presso i quali fu ucciso l’infelice Laomedonte assalito da Ercole nplia sua
patria presso le lor ceneri. Questo disegno è una quinta parte
della grandezza che ha 1’urna di marmo. La rozzezza della scultura di
quest’umetta in pietra tufacea che nel suo originale è soltanto doppia di
questo disegno, non permette ad ognuno di ravvisarvi il soggetto che a me
sembra esservi espresso. Imperocché io vi scorgo nella figura equestre un’Amazone,
di che ho non lieve indizio nel berretto che le copre la fronte, e quindi in
ogni restante della composizione, che non differisce dalle già esposte
alle tavole XLIII, e LX.Qui v'èuna circostanza che ne scopre sempre più
l’allusione a soggetto ferale, ed è 1’ albero significativo d’ombra, e
privazione di luce : luogo insomma dove passano i mortali dopo il periodo
vitale assegnato loro dalla natura in questa terra 3 . Un pregio
singolare di questi bassirilievi di pietra tofacea è in qualche modo
Tesser tutti chiusini, e d’uno stile che può dirsi unico in questo genere di
antichissimi oggetti d'arte. Quel di Perugia ch’io riportai con esattezza
alla Tav. Z 2 della ser. VI de’ Monumenti etruschi, è inferiore
nell’esecuzione forse per difetto della cattiva scélta nella pietra eh'è
molto più tenace di quella chiusina, e più assai porosa, ed a luoghi
affatto spugnosa. L’originale di questo che abbiamo sott’occhio non è che per
metà maggiore del suo disegno. Si vede assai chiaramente esservi
rappresentata una processione religiosa. La prima figura che ha semplice
manto, e non veste lunga è dunque un uomo che ha in mano una gran foglia,
dalla quale argomento esser questa una pompa sacra, mentre in tali riti
portavansi le foglie, e se ne danno persuadenti ragioni, ch’io esposi altrove 3
. Segue la figura di una donna che per essere assai danneggiata non se ne
sa il destino, Dopo è una figura con bastone in mano,molte delle quali vedemmo
già nelle tavole scorse 4 . Ma siccome tien dalla sinistra mano un uovo , così
potremo in qualche modo congetturare che la pompa della quale quel
seguace fa parte sia espiatoria, e perciò analoga al defonto, presso al
quale quest’ ara è stata trovata. Poco sappiamo di una tale
superstizione, ma ci è noto che all'uovo, dedicandolo ad Ecate
infernale, 1 Ingliirami, Monum. etr. ser. i, p. 5 g 5 , e Gal- leria
Omerica Tom. n, tav. cxciv, p. j 54 * 2 Monumenti etr. ser. v, p.
44 l 2 * 3 Ivi, p. 254 , sq. 4 Ved. le tavole 11, lii, iv, V
, xxxvni, lui , LIV, LV, Lvi. L’Amorino qui espresso è copia
d’un bronzo grande quanto il suo originale, eh’è d’una bellissima patina
verde. Non saprei giudicare dal solo disegno, che m’è sottocchio, qual ne
sia l’azione, e quale il significato di essa, onde mi limito ad osservare
che l’acconciatura di testa, non meno che lo stile assai molle, e sì
vistosamente lontano da quel rigido, che vedemmo nei già esaminati
bassirilievi chiusini, mi fanno giudicare quest’idoletto per un opera
eccellente degli Etruschi, allorché sottoposti ai Romani praticaron le
arti ne’tempi di Adriano. Leggendo lo storico Diodoro ho incontrato
un avvenimento d’Èrcole, che mi sembra molto analogo a quanto si
rappresenta in questo bassorilievo. Narra quello scrittore che tornato
Ercole insieme cogli Argonauti alle spiagge troiane, ove avea lasciati in
deposito a Laomedonte la vinta Esione ed i cavalli di Diomede, invia suo
fratello Ifito, e Telamone a riprendere il deposito affidato a quel re;
ma il perfido ne ricusa la restituzione, ed oltraggia i messaggi. Allora gli
Argonauti muovono contro Laomedonte e contro i Troiani suoi sudditi, e dopo un
vivo combattimento trionfano. Ercole sopra d’ogni altro fa prodigi di
valore, ed uccide di sua propria mano il re Laomedonte Tanto basti a
ravvisar qui E avvenimento or descritto. Ercole ha in mano la spada per
uccidere il perfido Laomedonte che h». già ghermito pei capelli, nè può
altrimenti evitare il colpo fatale di morte. La pelle di leone che si
annoda sul di lui torace lo manifestano per Ercole, seb¬ bene usi spada e
non clava. Laomedonte altresì fassi noto al berretto asiatico proprio dei
Frigi e Troiani in modo speciale, come ripetuti esempi ne dò nella
Galleria omerica 3 . Il bastone pastorale gli è posto in mano dall’ artista ad
oggetto di aumentarne la distinzione, come spettante alla famiglia di
Dardano, eh io dissi altrove 3 essere stata distinta per la sua
occupazione di guardare gli armenti de suoi antenati, non meno che per la
singolare bellezza della quale furono adorni i di lei componenti. Difatti
qui Laomedonte si mostra bellissimo e delicatissimo, in pa¬ ragone del
robusto Ercole, e dell’altro eroe eh’è degli argonauti combattenti in
quella occasione con Ercole. Le due Furie con face rovesciata,
ripetutissime nelle urne etnische, non hanno un positivo ed intrinseco
rapporto col fatto. L'altare serve soltanto di espressio¬ ne per mostrare
che il paziente altro scampo non ha che reclamare la protezione 1
Diod. Sic. Bibl. hist. c. l, p. 29J. 3 Galleria Omerica, Iliad-, Tom. 11, p. i
43 . 2 Voi, 1, Tav. xcv, p. 81. t : 4 le arche
racchiudevano oggetti sacri di mistica rappresentanza, non visibili ad
ogni profano. Il vaso dipinto con queste donne che staccano in giallastro
su fondo nero, fu, cred’io, venerando per gli oggetti contenuti nella cesta,
piuttostochè per le donne che la portano. Nell’interna e concava
parte duna tazza di terra cotta vedesi dipinto con fondo nero un sacrifizio,
che mostra, cred’io l’atto del camillo, o vittimario di cuocer le carni della
vittima sul fuoco acceso nell’ara o foculo, mentre il sacerdote che
sembra di Bacco è pronto a farvi una libazione, versandovi parte della
sacra bevanda. Dalla bassezza di quell’altare, pare che l’atto religioso
fosse diretto al culto di Bacco stigio, che pregavasi perchè fosse
favorevole ai morti; come difatti la tazza dov’è questa pittura fu posta
come le altre in un sepolcro. È invero assai singolare il bronzo num. 1
che qui presentiamo in disegno nella dimensione del suo originale, come
si può riscontrare nel privato e ricco museo del sig. capitano Sozzi di
di Chiusi dov’esiste. Non è del tutto nuovo per altro; ed io vidi un
idolo lungo due piedi e sottile nel museo di Volterra tutto nudo, e colle
braccia aderenti al corpo, senza nessun emblema. Il Gori che lo illustrò, gli
dette nome di Lare domestico ridotto più grande e piu maestoso della
specie umana, oppure un dei Lemuri che credevansi ministri del Genio
malo, ossivvero lo stesso Genio malo, che da Plutarco si dice esser comparso
a Bruto in aspetto più grande di quel ch’esser suole l’umana specie 4 .
lo crederei che più convenientemente confermar si potesse esser
quest’idolo chiusino un Lare domestico, forse anche Lemure, pei lumi che ce ne
dà Plutarco, giacché Tesser vestito e l’aver patera in mano tanto
converrebbe ad un Lare, quannto sconverrebbe ad un semplice Genio. Lo
stesso Gori ha posti nella sua collezione altr’idoletti che hanno la
qualità speciale d’esser più lunghi delle dimensioni spettanti all’umana
specie, ma che l’espositore per bizzaria dichiarò con nomi speciali = , senza
darne sodisfacente ragione. I bronzi notati di numm. 2 e 3 sono le
due estremità d’un manubrio di qual¬ che vaso usato probabilmente per
sacri riti, come lo mostra la testa d’asino che ne compone la superior
parte, mentre si tien per ovvia la notizia che questo 1 Plutarc.
de animi tranquillitate, ap. Gori, Mus. Etrusc. Voi. i, Tab. cim, Voi. n,
p. 23 i. 2 Gctì, Mus. etr. Tom, tab. v. si attribuiva una virtù
espiatoria 1 . La figura virile ultima non ha caratteristica veruna che
la distingua. Da un lato, cred'io, di questo cippo o ara che sia,
v’è un’auriga nell'atto di guidare il suo carro alla corsa : istituzione
antichissima rammentata inclusive da Omero % fra gli onori compartiti da
Achille all’ombra di Patroclo.Sorprenderà gli archeologi la novità di questa
lucerna fittile che porta effigiato un centauro colle ali non più veduto, ch’io
sappia. Ma cangerà la sorpresa in persuasione, tostochè richiamerà alla
memoria quanto dissi altrove rapporto al¬ la composizione siderea di
untai mostro; di che ripeto qui soltanto qualche leggierissimo cenno. Dissi
pertanto che stando alle dottrine d’Ipparco, il Centauro si compone di un
cacciatore, o per meglio dire della costellazione che in antico aveva il
semplice nome di un dardo, e dell’alato cavallo sidereo che dicesi Pegaso 3 .
E poiché questo rappresentasi per metà soltanto nel davanti, così
inventarono di aggregare il restante del cavallo, o sia la posterior
parte al cacciatore arciere. E siccome il Pegaso composto dal Centauro è
figurato con ali, così non è fuor di proposito il trovare in questo
arciere colla caccia in mano la posterior parte del cavallo Pegaso colle
ali che formano il distintivo del destriere abitatore del Parnaso.
Il vaso rappresentato in questa Tavola due terzi più piccolo del suo
originale è di terra cotta di naturai colore, a differenza d’altro simile qui
pure esposto alla Tav. XL1X, eh' è di terra nera. E poi singolare in
questo il veder le braccia staccate dal vaso e fermate con delle cuciture
di fil di ferro agli orecchi o manichi di esso vaso, e pare che abbiano
tenuto qualche cosa nelle mani che soglion esser traforate . Un indizio
di barba rasata ce lo fanno credere un Bacco. Per ogni restante si legga
quanto dissi alla Tav. XL1X. Fu costume frequentissimo nei sacri
riti del gentilesimo l’introdurvi le fem¬ mine canefore, o cistofore ma
specialmente in Etruria, e i monumenti ci mostrano come un tal uso invalse qua
nei tempi antichissimi, come Io mostra il famoso vaso d’argento di Chiusi
da me riportato altrove 4 . Quelle ceste, o picco- i Suid. in VOC.
Excctjjv. a Galleria Omerica Toni, n, lav. ccxvu # 3
Monumenti etr. ser. v^av. lyii, p* 561. 4 Ivi, ser. ih,
Ragionamento vii. SULLA VERA SITUAZIONE TOPOGRAFICA DI V1TULON1A
ANTICHISSIMA SEDE DELL J IMPERO ETRUSCO. AffdS'v’tffzoufft yap y,<x.i
nohU «c rirep av^pwirdi, A. A. . li ori aveva torto lo spiritoso, e
bizzarro filosofo di Samosata, quando scriveva nel suo dialogo intitolato
Caronte, che le città muoiono come gli uomini. Imperocché nel¬ la stessa
guisa che si perde la memoria di moltissimi di questi, così perisce la
ricordanza di non poche di quelle. Nel cui numero è da riporsi con tante altre,
la famosa Vitulonia , prima capitale dell’ Impero Etrusco, della quale sì
scarsamente lasciarono scritto gli antichi, e sì vagamente , e con grande
incertezza ne parlano i moderni. Trovasi infatti accennata dagli uni e dagli
altri, quella già potentissima, e ricca città, con molta dubbiezza, e circa la
vera sua topografica situazione, e circa l’estensione del suo circuito, e
perfino riguardo al modo di scriverne il nome . Avvegnaché PLINIO chiama
Yvi ulonii, e Vetuloniensi i suoi abitanti, e Silio Italico nomina Vetulonia la
città stessa , mentre avvi qualche altro autore, che la dice promiscuamente
Vetulonio e Vetulonia. Quanto poi alla sua topografica situazione, pare
anche dal passo del precitato Plinio, ch’ella fosse come era difatti,
vicina al mare -, poiché sebbene al tempo di quello scrittore già più non
esistesse da lunga data, nondimeno la memoria della sua situazione , e
della sua grandezza sussisteva tuttavìa nella tradizione dei popoli etruschi .
Ed il Cluveno ,lib. ila colloca egli pure non lontano dal mare , e nelle
vicinanze delle paludi caldane, confondendo però, per quanto mipare, le Caldane
volterrane, o i Guadi volterrani, colle Caldane della Fiora, che sono
tutt’altra cosa. Che sorgesse però nei contorni di quel pareggio,
non è da mettersi in dubbio, giacché leggiamo in Dionisio di Alicarnasso,
lib. 3, che al tempo di Tarquinio Prisco , quand’ egli guerreggiava contro i
Latini, i Sabini, e gli Etruschi propriamente delti, fecero legaper
andare contro il medesimo, le cinque popolazioni seguenti, cioè, i
Chiusini, gli Aretini, i Volterrani, i Rosellani, ed i Vètuloniensi , che
Plinio al già citato libro terzo nomina con ordine inverso. Nè senza
ragione è da credere, che quei due gravissimi scrittori nominassero i
popoli, piuttosto che le città dei medesimi, perchè Vitulonia era stata
distrutta molli secoli prima della fondazione di Roma, come congettura il
dottissimo Dempstero, il quale crede ancora giudiziosamente, che perciò
si di rado ne abbiano gli autori fatta menzione. quadrupede spettò a
Bacco 1 o a Vulcano a . Nell'uno e nell’altro supposto converrebbe 1’ unione
loro aiCabiri, che furon detti e figli di Vulcano 3 ,ed apportatori del
culto di Bacco in Etruria E Una tale osservazione mi farebbe credere i
Cabiri o Dioscuri quei due giovanetti sedenti e con berretto in testa,
che trovansi nel1’estremità inferiore del manubrio medesimo . E tanto piu me ne
persuado , in quanto che molti bronzi ritrovati in Etruria hanno Bacco
unito ai Cabiri 5 . Nè si allontana da questa congettura lo stesso lor
gesto che addita il cielo, mentre stanno coricati per terra, giacché tale
additamento del cielo e della terra è lor pro¬ prio in molti antichi
monumenti dell’arte 6 .Il bronzo di questa Tavola veduto da due parti mi vien
descritto di un lavoro squisitamente condotto per la sua esecuzione, al che si
può aggiungere il pregio dell’arte che splende anche nella giusta, non
men che bella proporzione della figuretta che qui si vede per metà
maggiore del vero. Io la credo una di quelle Giunoni, o genii delle donne
che tenevansi nei larari dal gentilesimo. La pittura di questo vaso
consiste in tre figure femminili, che avendo in ma¬ no delle aste armate
di punte, corrono sfrontatamente luna presso l’altra. Così narra Euripide
che Penteo al di lui ritorno in patria udì che la madre di lui con altre
donne Tebane aveano abbandonato il proprio albergo, e n’eran gite sul
mon¬ te Citerone a celebrar le feste di Bacco , piene di lascivo furore 7. ÌR<S>°
1 U : VI I q 3 : aìlflNS XXXVII. J/ìttq A J : ÌV1V :
J33 tfntnqf\ jmn/qo XXXIX. jfjvm/dn •• ©nq/i
XL R13D J/ilflllV 1 Monutn. etr., sei:, u, p. 56.
2 Milli» , Peintures de Vases ani. , Tom. 2 3 , not. (6).
3 Monum. etr., ser. n, p. i52. 4 Ivi, p. 693, 713.
Etr. Mus. Chius. Tarn. 1. 5 Ivi. Ved. la spiegazione delle
Tavole txvvn i, p. e ixxvui. 6 Ivi, tav. xlÌx, e sua
spiegazione. 7 Euripide nelle Baccanti atto primo scena iv in
principio. 9vono discorso anche intorno alle sue terme, ed al suo
anfiteatro, celebrandone le ime , e 1‘ altro. Scrive
La-Martiniere che le rovine dì questa città ritengono tuttavìa t antico
no¬ me, e che si chiamano Vetulia,ree/ che concorda coll'Alberti-, e si
legge in una nota del precitato Cluverio, che Vitulonia era situata fra
Populonia, e la torre dì San Vincenzo, presso alle paludi caldane, ed il fiume
Linceo, detto oggi la Cornia. La quale opinione pare appoggiata da quel
passo del sullodato PLINIO; ove nomina insieme ì Tarquiniesi, i Tuscanesì, i
Vetuloniensi, i Veientani, i Visentini, ed i Volterrani, cognominati
etruschi, com’egli si esprime. Molte altre citazioni, ed altre
notizie avrei potute raccogliere ed aggiunger qui, riguardanti la nostra
Vitulonia, ma le ho tralasciate per brevità, e penso che siano anche
troppe le già addotte, per dimostrare quanta confusione, e quanta
incertezza si riscontri negli autori, ogni volta che ne fanno
parola. Ad onta però di tanta confusione, e di tanta incertezza
degli scrittori antichi, e moderni intorno a Vitulonia, per cui è
sembrato ad alcuni archeologi , non solamente difficile ma eziandio
impossibile di poterfissare, ove sorgesse un giorno quella primitiva sede dell
impero Etrusco, quandi esso estendevasi a tutta l Italia; io voglio non
per- tanto tentare in questo ragionamento di stabilirlo. E voglio in
questo tentativo mettere a profitto le belle, e ricche scoperte di vasi
etruschi, e di altre anticaglie, fatte dall'egregio signor prìncipe di Canino
nelle sue terre di questo nome, e giovandomi ad un tempo dei lumi sparsi
da quel chiarissimo scrittore, illustrando gli uni , e le altre, e per cui
viene ora meritamente lodato in questa materia, come il più benemerito
promotore della gloria dei nostri padri. Tralasciando pertanto di
rintracciare, lo che sarebbe ricerca inutile, e vana, se Vitulonia/bwe
edificata da Tarconte, come pretendono alcuni autori, o dal celeste
Ogige, il quale come vuole non so qual poeta, Itali® Tuscas pelago
descendit ad oras, dove torreggiò Vitulonia, o finalmente lo fosse
dagli Etruschi, regnando su di essi, come piace ad altri quello stesso
Giano Velo che istituì, per quanto si dice, il culto di Vestà, e le
Vestali nelle nostre contrade, diede il suo nome al Gianicolo, combattè
per tre anni coi Celtiberi, e finalmente li vinse, e li sottomise alla sua
dominazione: quello stesso infine, che consacrò , giusta le tradizioni,
una gran selva a Crono nelle vicinanze appunto di Vitulonia, il cui nome
potrebbesi interpetrare stagno, od acqua incostante, passerò in quella
vece a determinarne subito la topografica situazione. Circa la
quale io credo che non possa rivocarsi in dubbio, quanto il sullodato signor
principe di Canino ne ha detto nel primo volume del suo Museo etrusco ,
parlando in particolar modo della sua Necropoli; E sono persuaso che ella
sorgesse veramente nel luogo da lui supposto, e descritto. Bifalti
la prodigiosa quantità di vasi etruschi di sommo pregio, e di somma bellezza, e
nei quali sono rappresentate favole, o storie anteriori alla fondazione di
Ro- Crede Ermolao Barbaro, che Orbetello occupi ora il sito dov era una
volta Vilu- lonia, lo che non può essere. E VAlberti scrive che ai suoi
tempi chiamavasi Veletta , o Vetulia, il luogo ove fu Vitulonia; laddove
altri sostengono, che altro in oggi ella non sia ché un luogo deserto,
distante tre miglia dal mare, fra Populonia, e Pisa. E nonmancano neppure
di quelli che confondono Populonia stessa con Vitulonia, benché fossero
per località, per età e per potenza paranco , l’una ben distinta dall'
altra. Jf erudito Guarnacci poi, dice di non poter determinare
neppur egli, ove giacesse questa famosa, ed antichissima città, perché sì
conosce, secondo lui, solamente il nome della medesima, ignorandosi però
del tutto, a qual distanza precisa fosse ella situata da Volterra, e dal
mare Ma Annio da Viterbo nelle sue note agli Equivoci, di Senofonte, afferma
esservi un colle chiamato Vetuleto, e lo afferma con qualche probabilità, per
l’età sua, sul quale crede che fosse situata altre volte Vitulonia. E
pensa che dopo la rovina di questa, gli restasse un tal nome. Il medesimo poi
ne deriva l’etimologia del nome da due parole araniee , che verrebbero a
significare, capo di molte città; ciò che non sarebbe disconvenevole a Vitulonia,-
ed aggiungendo, quello che in molti altri scrittori si legge paranco, che
essa godeva il privilegio di ammettere i forestieri alla cittadinanza
volterrana , come ancora la privativa in età più remota, di dare i fasci,
e le insegne reali, la qual cosa indica essere stata la medesima al disopra di
Votterrà. Non di meno il chiarissimo Passeri nel suo trattato della
Numismatica etrusca ; la crede colonia dei Voltérrani, benché ciò non
possa essere accaduto, se pure vogliamo ammettere che avvenisse in alcun tempo,
se non dopo la sua decadenza, e totale rovina, e dopo il successivo
ingrandimento dell'altra. Mentre quando eraVitulonia nel suo pieno
splendore, e capo di potente impero, è ben ragionevole il credere che
succedesse tutto il contrario . Lo stesso Silio Italico, citato disopra,
chiamò la nostra Vitulonia splendore della Meonia gente, alludendo
probabilmente a quei Lidii che si dicevano venuti a stabilirsi in Etruria, e
principalmente in quella regione-, e la disse ad un tempo inventrice dei
Fasci, delle scuri, dei Littori, della Sedia Curale, e della pretesta, come
pure le attribuisce il merito di avere adattata l'enea tromba agli usi
guerrieri-, cantando nell’ ottavo libro delle guerre puniche.
Meoniosque decus Vetuionia gentis, Bissenos hoec prima dedit
precedere fasces, Et junxit totidem tacito terrore secures:
Et princeps Tyrio vestem prsetexuit Ostro; Hasc altas eboris
decoravit honore curuies , Heec eadem pugnas accendere protulit
sere. Esistono infatti antiche medaglie, riferite dal prelodato
Passeri, ed anche dal Guarnacci, coll epigrafe Vetiunia, e coll’ emblema
della scure, o bipenne, insegna dei Magistrati etruschi, e precisamente
di quella città. Ed alcuni gravi scrittori mo- Messina, e fuori ancora
dItalia per fiancheggiare le inaudite millanterie di quei medesimi Greci, e
loro forsennati seguaci, riprodurrò qui una opinione singolare, ma vera,
e che mi pare che siastata sostenuta anche dal Vico ; e dirò che le Muse ebbero
origine in Italia, nell’infanzia, per cosi dire, del mondo. Ed aggiungerò, che
da questa bella penisola emigrando, pèr quelle vicissitudini, che
modificano , e fanno cangiar di aspetto continuamente a tutte le cose
umane, passarono in Arcadia, colle prime colonie italiche di Pèlasghi
Tirreni, che erano indigeni di questo delizioso paese, favorito in ogni tempo
sopra di ogni altro dalla natura, per tutte le arti dilettevoli, e per
tutti gli ameni studi. Ed andarono ad invadere, é popolare la Grecia, e la
Tracia, selvagge allora ed incolte, dove ebbero poi nome, e culto per
opera di Anfilone , di Lino, d’Eumolpo, e d’ Orfeo, ma vi si erano
condotte da prima coi sunnominati Pelasglii-Tirreni , pastori ad un tempo ,
e poeti. Da dove ritornarono più tardi in queste benedette contrade in
compagnia di Evandro, e non ne partirono mai più-, ad onta di tutte le
devastazioni e di tutti i flagelli, che vi portarono gli stranieri, i
quali ne fecero in tutte le età il primo oggetto delle loro ambiziose
conquiste . E persuaso come io sono , che Vitulonia dettasse in
remotissime età le sue leggi agli Italioti, potentissimi allora sovra
ogni altra nazione, da quei luoghi medesimi, nelle cui vicinanze
riscontrasi la grande necropoli, discoperta \dal signor principe di
Canino, come Roma le dettò loro, e all’ universo, in altri tempi, dall
alto del Campidoglio, terminerò questo mio ragionamento, ripetendo con VIRGILIO,
Purpureos spargain flores, animasque parentum His saltelli
accumulem donis. Mà non voglio però dar fine al medesimo, senza
rivolgere brevi parole al signor compilatore dal Ballettino archeologico di
Roma, per pregarlo col dovuto rispetto, a volersi compiacere di farmi
comprendere cosa mai ha preteso di dire, quando ha scròto a pag. 226, N"
12, del medesimo, con franchezza più che cattedratica, « Contribuiscono
ad illustrare qualunque parte delle antichità dell' Etruria le utilissime
lettere d’ etnisca erudizione che si pubblicano dal cavaliere Inghirami;
siccome allo stesso tendono nel modo loro particolare, le ingegnose conghietture
del signor Principe di Canino, é quelle di simil genere del professor
Euleriani, premesse ai fascicoli del Museo chiusino » perchè sebbene io
confessi ingenuamente : che mi rifugge t animo alt idea, che debba venire
un Oltramontano ad insegnare a noialtri Italiani, a conoscere le cose
nostre, e quelle dei nostri padri, mi sarà tuttavia gratissimo di potergli rendere
pubblica testimonianza di avere imparato qualche cosa da lui, come non
poche me ne insegnarono altre volte, e di vario genere, ì Dempsteri, gli
Acker- blad, gli Zoega, che qui nomino a titolo cìi onore, ed altri
ancora che per brevità si tralasciano. e 9 ma, e vi si osservano
costumi anti-romani ancor essi, dal medesimo dissotterrati nelle sue
campagne della Cucumella, e Cannellocchio , mostra ad evidenza, che tanta ricchezza
di vasi dipinti, non poteva appartenere che alla Necropoli di una città
grandissima ed opulentissima, e capo di potentissimo impero. Nè i tre ponti
dallo stesso discoperti sulla Fiora cosi l uno all altro vicino, servir
potevano ad altro che a mettere in comunicazione fra loro le due parti di
questa medesima città ; E questa non po¬ teva esser che V itulonia , se
ben si voglia riflettere alla sua località, dietro quello che si legge
negli scrittori antichi, e moderni, benché alquanto oscuramente, intorno
alla situazione di quella metropoli. Che se qualche
ultra-greco si ostinasse ancora a sostenere il contrario, è pregato a
considerare un poco meglio i monumenti dei nostri antichi, e singolarmente
quelli dissepolti nelle terre di Canino, ed anche a porre maggiore
attenzione quandi egli legge le opere degli antichi, e son di parere ,
scorgerà facilmente timpossibilità di provare il suo assunto.
In quanto poi al predicare la civiltà italica molto anteriore a quella
della Grecia, noi non abbiamo fatto altro in ultima, analisi, che riprodurre
quanto era stato opinato nello scorso secolo dai dottissimi archeologi, e
filologi italiani, e stranieri, assai giudiziosi e non greco-mani,
Dempstero, Buonarroti, Maffei, Cori, Guarnac- ci, Bocliart, Mazzocchi,
Lami .Bourguet, ed altri ancora: E più modernamente dalli eruditissimo
poliglotta Acherblad, dall’illustre Gaetano Marini, e dal celebre Ennio
Quirino Visconti, prodigio d’ingegno, e di dottrina, anche a giudizio dei
più dotti Francesi. La quale opinione, propagata da tutti i
surriferiti grandi uomini, che trovasi confermata nelle memorie
dell'Accademia delle iscrizioni di Parigi, e che fu messa in piena luce
da quella mente straordinaria del Vico, è poi quella stessa riprodotta, e
commentata dal sullodato signor Principe di Canino, nei varii articoli
del precitato primo volume del suo Museo etrusco, dopo che la riscontrò
comprovata dai Monumenti da lui discoperti, negli scavi fatti eseguire
nelle sue terre. Nè di poco momento è per me, onde viepiù
confermarmi in questa opinione che mi è divenuta certezza, t autorii a
del profondo archeologo romano Girolamo Amati, uomo di somma perspicacia,
e dottrina, e nelle italiche antichità versatissimo, e che la sostiene
egli pure . Che del resto la iattanza impudentissima dei Greci , è dei
grecomani, circa la civiltà, e le arti italiche, non è nuova in queste
contrade, sapendo ogni mediocre erudito, che per rintuzzarne soltanto la
vanagloriosa ciarlataneria, pose mano Catone a scrivere i suoi libri dèlie
origini, e si mostrò grandemente sdegnato, perche nessuno si fosse
alzatOkprima di lui a rigettar loro in faccia si nauseanti, e boriose
pretensioni, e si grandi sciocchezze. Ora dunque, animato dal
medesimo amor patrio, e stimolato da eguale sdegno, per le tante inezie
che sf vanno ripetendo ogni giorno a piena bocca, dalli Alpi a Etr. Mus .
Chius. Torri. Quando Venere e Apollo sottrassero Enea, come inventa Omero alle
furi¬ bonde armi del prode in guerra Diomede, allora Febo immaginò di lasciar
com¬ battere a sazietà i Troiani coi Greci, sostituendo ad Enea l’idolo,
o popolarmente parlando, l'ombra di lui. Questa poetica immagine del
combattimento de’due par¬ titi per un vano fantasma fu cara oltremodo
agli Etruschi, mentre ne vediamo la rappresentanza in molti de’lor
cinerari, un de’quali eh’è in marmo, fu da me inserito nella serie che ho
data de’monumenti omerici della Iliade 3 , similissimo a questo ch'è di
terra cotta due terzi soltanto maggiore del presente disegno, men¬ tre
quel di marmo è due terzi maggiore di questo modellato in creta. Vi si
ve¬ de pertanto il simulacro d’Enea caduto a terra per la percossa del
sasso getta¬ togli da Diomede, in atto di cercare una qualche difesa
nella trista situazione in cui si trova, spossato di forze. Intorno a lui
si tagliano a vicenda gli scudi e le targhe Troiani ed Achei. L’originale
in terracotta era dipinto a vari colori, ma ora svaniti. L’ iscrizione è
soltanto dipinta in color di porpora, e rammenta, come sapremo a suo
luogo, il nome del morto, le cui ceneri chiudeva l’urnetta. Un licenzioso
stuolo di baccanti si offre allo sguardo dell’.osservatore della tav.
presente, e ci avverte esser questa la pittura d’un vasetto ch’è
rappresentato alla tavola e frattanto si verifica la massima comunemente
inval¬ sa per esperienza, che tre quarti dei vasi fittili dipinti hanno
soggetti bacchici. Questo ha figure nere su fondo rosso ed è il
vasetto originale tre volte mag¬ giore del disegno dato alla tav.
suddetta. La statuetta di Venere che orna quest' ago crinale grande al pari del
pre¬ sente disegno è adattatissima a dar compimento ad un utensile di
muliebre decoro. È singolare il vedere nei Monumenti etruschi la Venere quasi
sempre co¬ perta negligentemente in una sola gamba. Io vi ho spesso,
ravvisato il velo del quale son coperte agli occhi della nostra
penetrazione moltissime delle operazioni della natura: osservazione che dovette
esser propria specialmente degli Etruschi, i quali si magnificano come studiosi
della filosofia naturale. Proporrei ancora il sospetto che l’ago crinale
fosse un simbolo mistico, e per tal cagione posto nel i Iliade
lib. v, v. 449*4^ l -2 Tom. ì, Tav. lxxiv . 7 » Non credasi però
mai da alcuno , che io ni" altlia la stolta pretensione di non
essere criticato, ché anzi mi reputerò sempre ad onore ogni critica fatta
a dovere, Ma quando venga questa in mal tempo, e con peggior garbo, met¬
terò sotto gli occhi di chi vorrà leggermi, il seguente epigramma.
Censura sapiens, et doctus acutnine gaudet : Stultus at
insano carpere dente solet. Ex tribus his titulis, quem vis, tibi
delige lector: Sic sapiens, doctus, stultus et esse potes.
XLI. VIDflDMU 433433 XLII. 4/mvfl4i ••
flnoai ; qn-i XLEL -.43 : F\\F{- 1/1-1 : 43
XL1Y. 4 /ÌOq/ : i4 : 4/RttYf : intblq/d : 41 XLV.
m3iifl4 ; ìi n/qi : 43H3vi : nnn o XLY1.
•.•.•.lamvfliflm : finn o XLVII. ni asiaq'D :
4flim#ì4 : intn.q/a : 433 xLvm. 4/aifn/qi3i lantqfl =
ioqfiN XLIX. ninni m Y 131 : 4An#isa : ianq3i : no
L. 1 nxnn\ M3f : laUfVf : flitifl© !
Al disopra del copercìiio. a Siccome finisce il lembo del coperchio
pare che abbiano continuata la parola al di sopra del
coperchio della stessa urna. I 74 (lutto nell'arte,
mentre qui la Furia infernale esce di sotto terra; come nel teatro. Se
quest’uso non è molto antico, non potremo reputare antichissime neppure
queste sculture ove tal uso è imitato. L’urna è due terzi più grande del
presente disegno. Il soggetto di questo rozzo vasetto non è che un
baccanale. Il vecchio barbato e nudo rappresentar dovrebbe un satiro, mentre a
centinaia s'incontrano i satiri nei vasi che trovansi nei sepolcri, e le
lor mosse costantemente bizzarre, come acche la lor nudità costante, non
permettono di separar questa virile figura dal coro satiresco di Bacco.
Ma la rozzezza del lavoro accompagnato da negligenza; fece dimenticare al
pittore di aggiungere alla sua figura la coda equina che a’ satiri non
manca mai. La donna eh’ è dalla faccia opposta del vasetto, non può
essere per conseguenza che una baccante . I circoli che in buon numero si
vedono attorno alle due figure sono un enigma finora inesplicato. La
grandezza delle figure è uguale a quella dell’uomo barbato. La pittura è
giallastra in fondo nero. I tre recipienti che occupano questa
tavola son vasi con pitture in parte nere e in parte giallastre, che si
mostrano separatamente dai loro vasi, e che ve¬ dremo in seguito coi
respettivi loro richiami. Ma il vaso segnato di numero 2 ha soltanto una
pittura a parte, l’altra di minor conto si vede qui in piccolo.Io vi
ravviso due degli Efebi davanti al ginnasiarca, il quale ha verga in mano
insegno che istruisce e comanda. Tali erano gli esercizi del ginnasio, dove la
gioventù s’istruiva negli esercizi del corpo e dell’animo ; e gran parte
delle pitture de’vasi han simil soggetto nella parte opposta ad altra, che aver
suole qualche rappresentanza mitologica o simbolica, come in questo vaso, dove
si vedrà Ercole accolto dal centauro Eolo. Queste favole cred’io avevano
un senso misterioso, e la gioventù s’istruiva nell’iutelligenza di quel senso
non a tutti palese, per cui ne’ vasi comparisce nel tempo medesimo
l’istruttore e 1 istruzione che rnostravansi con quelle pitture. Questo,
pare a me, eh’esser possa il momento in cui Ercole passando dal monte
Foloe per andare a cercar del cinghiale d’Eriinanto, trattenutosi dal centauro
Folo figlio di Sileno e della ninfa Mitra, fu ricevuto nel modo il più ospitale
che potevasi. Ercole ebbe desiderio di bere del vino. Folo ne avea
soltanto in un vaso eh’era stato dato da Bacco ai centauri in comune, e
perciò non ardiva d’aprirlo. Ma Ercole incoraggillo a deporre ogni timore, ed
apri egli stesso sepolcro dov' è stato trovato . Dissi altrove difatti,
che si venerava in Roma l'ago crinale della Madre Idea custoditovi fra le
cose fatali, da cui facevasi dipendere la stabile conservazione
dell'impero. Le oreficerie degli Etruschi, di che presentiamo qui un saggio,
esser sogliono di uno squisito lavoro. I due pezzi superiori pare che siano
stati usati a formare una collana, poiché di simili ornamenti vedonsi le
belle collane scolpi¬ te al collo delle matrone che si trovano giacenti
sopra i coperchi delle urne 3 . Ciò sia detto per disinganno di coloro
che trovando nella Grecia altri ornamenti muliehri lavorati in oro con
una perfezione e con un gusto simile a quei dei nostri Etruschi, ne
dedussero che di Grecia si facesse smercio in Italia di tali bigotterie; ma
poiché la forma dei due pezzi superiori trovasi ripetuta soltanto nelle
sculture d'Elruria,e non in quelle di Grecia, così non abbiamo pruove che
usassero tali ornamenti fuor dell’Etruria , nè che non si potessero quivi anche
eseguire. Tra le infinite bizzarrie che vennero in testa ai figuli per
variar le forme dei vasi, che servirono per ornar le ceneri dei sepolti,
questa che presentiamo qui non è certamente delle men singolari. Il suo
nome suol essere d' un ciato quando ha forma d’un corno potorio; ma in
figura di gamba non avendone io mai incontrati , per quanto abbia veduti
moltissimi vasi sepolcrali, non saprei certamente quei che possa dirsene.
La sua grandezza è due volte maggiore di questo disegno. È della solita terra
nera di Chiusi, ed ha vernice nera assai lucida che lo cuopre d'uu color
solo. In generale questi eran vasi da bere usati col rito, che dovevasi
affatto votarne il recipiente, per cui non era necessario di tener questi
vasi in piedi, ma suolevano star discenti sulla mensa. La tragica morte di
Eteocle e Polinice è soggetto che fu caro agli antichi Toscani che lo
elessero soventemente per ornarne i loro sepolcri. Qualche mossa, qualche
ornato,lo stile medesimo della scultura, fan vedere che vi fu comunicazione
tra la scuola di Volterra e quella di Chiusi. Il costume della Furia eh' è fra
i due moribondi più che altro manifesta la probabilità di questa mia
opinione; come si riscontra dai paragoni che posson farsene 3. Altrove notai
parimente 1’uso teatrale di far comparire, non già dalle scene i soggetti
infernali, ma dal palco medesimo, quasi che sorgessero di sotto terra ^. Un tal
uso vedesi esattamente intro- 1 Monum. etr. , ser. li J p.
5o. 2 Ved. la Tavola xiv. 3 Monum. etr. ser. i, Tavv. lv , lxvii,
lxxiv. 4 Ivi, p- 75, 355. II vasetto che primo si presenta in
questa tavola è di terra nera, uguale in tutto al disegno. Le teste
velate son così ripetute nei vasi sepolcrali chiusini, che io non dubito
di confermare il già detto, nel supposto che siano indicative di larve Ci
vien fatta peraltro notare 1 ’esattezza del lavoro, non meno che la perfetta
conservazione del monumento. Ai numm. 2, e 3 si osserva un anello
d’ oro eh’ è in proprietà del sig. capitano Sozzi. Il lavoro, per quanto mi si
elicerà finissimo e di grandezza in tutto eguale all’originale. È stato,
per tanto riportato in doppia grandezza l'incavo che tien luogo di pietra
anulare, perchè meglio si osservi lo stile elevato di quel lavoro. I due
animali, il leone cioè e la sfinge potrebbero essere interpetrate pel passaggio
del sole dal solstizio estivo all’autunno , mentre quel mostro con corpo
di leone e testa e petto di donna non altro pare che indichi, sennonché il
sole che uscito dal segno del Leone ardentissimo passa in quel della
Vergine, ove comincia a perdere l’estiva sua forza, per cui si assomiglia a una
femmina 1 2 3 . La galante forma del vaso n. 1 non è comune fra quelle usate
dai Greci. L’impasto della terra è tutto nero, ed in luogo di figure
dipinte ha dei bassiri- lievi minutissimi, da’quali, come da una doppia
fascia, è circondata la più larga parte di esso . In una delle nominate
fasce al n. 3 stanno assisi due uomini con veste talare, in atto di voler
dispensare delle corone, che ricevon coloro i quali stanno in piedi.
Sotto alla lorsedia è un uccello, che secondo le moderne interpe-
trazioni dei geroglifici egiziani, come dissi altrove ?, significa la casa
dello sparviere, eh’è pur simbolo della divinità; e in conseguenza la casa o
regione del cielo, sul quale stabilite si vedono le figure sedenti del
nostro bassorilievo. Porgono esse dunque delle corone ai guerrieri, in premio
di aver combattuto. Le sfingi nei sepolcri le ho sempre credute
indizio del tempo nel quale passa il sole dai segni dell’ emisfero
superiore a quello inferiore 4 , che dicevasi regno dei morti 5 , e per
tal memoria credo esser poste le sfingi nella fascia num. 4 - Nel
bassorii. n. 2 v’è un uomo sedente che ha in mano Io scettro, e ad esso
presentasi un individuo munito di lancia che probabilmente significa
un’anima che passando ad altra vita domanda il premio delle eroiche sue
virtù' 6 , accennando non altro che il tempo di tal passaggio, come ho
provato anche altrove? in quest’Opera. 1 Monum. etruschi, ser. i } p.
20. 2 Ivi , ser- i, Ved. la spiegai, della Tav. lxviii.
3 Lettere di etnisca erudizione Tom. 1 , p. 191 . 4 Monum etr. ,
ser. v, p. 590 : 5 Lettere cit. p.
189 . 6 Vedasi tutta la mia lettera scritta al dottor Maggi nel
Tom. delle lettere, cit., p. 181 . 7 Ved. la pag. 5i , e 52 .
;5 quel vaso dov’era, come appunto si vede in questa pittura. I centauri
tratti colà dall’odore del vino vennero in folla alla cantina del
centauro Folo, armati di grosse pietre, un de quali è qui rappresentato
in dietro ad Ercole in atto di scagliarliela ; e forse è Anchio , o Agrio
che furono uccisi da Ercole, perchè i primi ardirono d’entrare in quella
caverna 1 . Questa pittura con figure giallastre è inetà del suo
originale. In questo bassorilievo ravviso Paride, il quale mentre viveva
oscuro ed ignoto sul monte Ida tra i pastori, scendeva talvolta alla
città di Troia, ove segnalavasi in tutti i giuochi e combattimenti che vi
si facevano, ed in essi riportava la palma sopra ogni altro concorrente,
inclusive sopra Ettore e su gli altri suoi fratelli, che sdegnando d' esser
vinti da un ignoto pastore meditarono di assalirlo ed ucciderlo. Ma
Paride allora si dette a conoscere per loro fratello, e cosi fu salvo. Qui Paride
è NUDO COME SI COMPETE AD UN ATLETA, ed ha lunga palma sugli omeri, qual
vincitore in competenza coi fratelli che invidiosi lo guardano, e meditano la
di lui perdita, istigati a tanto misfattto dalle Furie infernali che loro
si fanno dappresso. 11 ginocchio che Paride tiene sull’ara significala
protezione divina eh’egl’ implora da Venere, come ho detto altre volte a
, e 1 ’ ottiene; mentre Priamo suo padre, a cui si palesò, lo ristabilì
nel suo rango 3 . Il disegno è una terza parte dell’originale.Chi mai trovar
potrebbe in questo vaso un gusto greco? Anzi a rettamente parlare diremo
esservi un fare eh'è tutt'altro che greco.L’ornamento del piede partecipa
delle scannellature che sì frequenti ravvisiamo nelle opere dell'Egitto.
In ogni restante v'è una originalità singolare. I mostruosi animali a
bassorilie* vo che ne ornano il corpo son frequenti in questi vasi
chiusini di terra nera, ed io li tengo sempre per quelli animali caotici
che ad oggetto di rammentare la pili antica delle orientali cosmogonie ne
ornarono i sepolcri, di che ragionai anche altrove L La donna che serve
d'apice a! coperchio del vaso, in quanto al disegno non è molto dissimile
da quelle dipinte in giro nel vaso della Tav. LXXII, come ancora in
riguardo al costume dell’abbigliamento. Questo è dunque l’antico etrusco
stile, o l imitazione di esso, come resulta dal paragone della indicata pittura
pur trovata in Chiusi, ma di stile totalmente greco. Or s’io ripetessi qui
pure, come ho detto altrove 5 , che i Greci lavorarono vasi in Etruria, e
quindi anche i nazionali ma in uno stile del tutto differente, non ne
avrei forse in simili esempi le prove? 1 Diodor. Sicul., iv, 12 . Nonn,
Dionis. xiv, 379 . intit. l’Italia avanti il dominio de’Romani p.i 29 . 2
Monum elruschi, ser.[i,p. /{Q 3 i 4 ^ 5 , 1^628, 693. 4 Monum. etruschi ser. v,
Tav. lx. 3 Ved.le mie Osser.sopra i raonum.ant.uniti all’op. droni
perfino del tuono, e del fulmine, i quali peri loro sorprendenti, e terribili
effetti , somministrarono in ogni tempo e in ogni dove abbondante materia alla
superstiziosa credulità dei popoli. Giammai però, nè presso alcun’altra
nazione, ebbe la scienza tonilruale, efulguraria tanti cultori, come
presso gli antichi Etruschi, nè mai se ne fece altrove uno studio così
costante, come nell’ Etruria propriamente detta, e con successo così,
favorevole. Ma i sacerdoti etruschi, dopo avere immaginata una
scienza profonda, e difficile, sui tuoni e sui fulmini, trovarono ancora
il modo di renderla terribile e spaventevole al volgo della loro nazione.
Imperocché, stabilita la distinzione tra ifulmini di consiglio quelli di
autorità e di decreto, tra i postulatorii, i monitorii, i confermatorii',
gli ausiliarii, gli ospitalieri, ed i fallaci, i pestilenziali, i
micidiali i minacciami, ed i reali, e simili, ne fabbricarono ancora una spece
di Diario, ossia Rituale. Del quale, per darne una idea ai nostri
lettori, ne riporteremo qui uno squarcio, tradotto in italiano.
Questo Rituale adunque, o Diario tonitruale, e locale secondo la luna
coni essi lo chiamavano, fu tratto, per quanto ne dicono le tradizioni, parola
per parola, da Publio Nigidio Figlilo, dagli scritti sacri di Pagete ; Ed
è riportato da Giovanni Lidio nel suo libro dei prodigi al cap. xxvu,
pag. 101, dell edizione fattane a Parigi,per cura di Carlo Benedetto
Tinse. Ecco in qual maniera si esprime il sullodato autore, al
luogo citato, su tal proposito . Se egli è manifesto che gli antichi sapienti
etruschi prendessero in ogni disciplina augurale per guida la luna, poiché
secondo il corso di quella espongonsi qui appreso anche i segni tonitruali,
e fulgorarli, rettamente farà chiunque si sceglierà per duce in questa scienza
le stazioni lunari, Laonde quinci dal cancro, e quindi dal novilunio,
istituiremo la diurna cognizione dei tuoni, secondo i mesi lunari. Dalla
quale passavano i Tusci, o sacerdoti etruschi ad insegnare le osservazioni
locali, anche intorno ai luoghi percossi dal fulmine. E pare che il
principale di tut fi i collegi di questi Tusci risiedesse a Fiesole, leggendosi
in Silio Italico Adfuit et sacris interpres fulminis alis,
Faesula Incominciando poi il Diario , o Rituale fulgurano, e
tonitruale etrusco, dal primo giorno lunare del mese di giugno, dice cosi. Se
tuonerà nel'primo giorno della luna di giugno , vi sarei abbondanza di
biade, eccettuato l'orzo, ed i corpi umani saranno attaccati da perniciosi
morbi ; E se tuonerà nèl secondo, le donne partoriranno piu facilmente, ma peri
ranno le greggi, e vi sarà abbondanza di pesci. Tuon andò poi nel terzo
sara il caldo secchissimo per modo, che non solamente gli asciutti prodotti
della terra, resteranno inariditi, ma si abbruceranno ancora gli umidi e i
verdi. Laddove se tuonerà nel quarto, l’aria sarà talmente coperta, di
nubi, e sì piovosa, che le biade periranno per la putrida umidità.
Se tuonerà nel quinto giorno, sarà dinfausto presagio alla campagna, e si
turberanno tutti quelli, che presiedono ai villaggi, ed ai piccoli castelli, e
borghi ; Se nel RAGIONAMENTO Vili, E IX SULLA SCIENZA TONITRUJLE, E
FVLGURARIA DEGL’ETRUSCHI rpày.[x«Tcc re Fai $u<rto> oyìav
è?s7rovv;'7av ( oi Svpfavot ) sm' Aererò» 9 stai ra 7repe t»jv xepavvosxomav
sarà to*vt&>v àv.S'peomav e^et^yacavro. Diod. Sic. lib. 5 , p. 3 l
6 . B^ovrat xaS' v7rvous ayyèXwv èics Xòyot, Astrampsycb. de
Sonili. interp. F_Ja superstizione, il più funesto di tutti i flagelli
che affliggessero mai, in qualun¬ que regione, ed in qualunque età, Ì
umana specie, facendola gemere sotto il giogo più duro, e più pesante di
quanti ne seppero immaginare, e fabbricare, la tirannide più scaltra, e
il despotismo più sospettoso, mescolando ognora profanamente, per meglio
abbrutirla, ed opprimerla, il venerando nome di Dio, alle loro malvagità le
più enormi, fu sempre, e presso tutti i popoli della terra, il maraviglioso
ordigno, e l’ef¬ ficace strumento, onde si valsero gli astuti, ed i
tristi, a danno dei semplici, e dei buoni, ed i potenti, é gl’ippocriti,
per dominare i deboli, e farsi giuoco dei creduli- Questa Furia
pertanto, esecranda, e crudele, la peggiore di quante ne racchiude nel
suo seno lInferno, che ha percorso sotto varie vestimenta, e con diverso
aspetto, tutta la superficie della terra, è quella che fece risuonare di
strani ululati , e di querule grida le selve di Marsiglia, pei riti sanguinari
di Teuta, le foreste di Norimberga, per quelli d'Irmensul le montagne della
Scandinavia, per placare l ira di Thor o la vendetta di Odino, e le
pianure della Perside, onde rendersi propizio Arimane ; ed è pure quella
medesima, che tinse di umano sangue le rive di Aulide , e della Tauride,
fece scorrer vermigli itessalonìci torrenti, e quelli d Irlanda, acce¬ se
gli orrendi roghi di Lisbona, e di Spagna, desolò le Americane contrade, e
coperse in una sola notte la Francia intiera, di spavento e dì lutto. Questa
Furia spaventevole che prende tutte le forme, e che le varia poi in mille
guise secondo i climi diversi, ed atteggiandosi ancora nel percorrere in ogni
direzione la terra, secondo le differenti passioni, e la varia indole dei
popoli, ebbe anche presso gli antichi Etruschi, influenza grandissima, e
prepotente dominio. Nè avrebbe, potuto accadere diversamente in una
nazione, ove la casta sacerdotale, o i collegi dei Tusci, facevansi ,
come in Egitto, e nelle Indie Orientali, una privativa dell istru¬ zione,
e di tutte le cognizioni letterarie e scientifiche . Ora questa
medesima Erinni,invadendo l’antica Etruria, e facendone in cèrto modo suo
nido, signoreggiò in singoiar guisa gli spiriti dei nostri antenati,
prevalendosi anche presso di loro, di tutti gli strumenti opportuni al
suo scopo. Laonde s impa- Etr. Mus . Chius. Tom. 7 . 11
ri 0 8o o/o dal fulmine aneli essi, come facevano
i loro maestri. Quindi allorché esso partiva dall' Oriente, ed avendo
toccato leggermente alcuno , ritornava da quella parte, era questo il
segno di una perfetta felicità . Non traevasì peraltro nessun augurio del
ful¬ mine, quandi esso altro non faceva che strepito. Quelli poi che
sembravano promettere lene , o male, erano presi per contrassegni della
protezione, o della collera di Dio . Laonde V erano fulmini di cattivo
augurio , dei quali potevasi peraltro allontanare il presagio, come
dipendeva dalla volontà degli uomini il procurarsi quello dei ful¬ mini
di augurio favorevole , per mezzo di cerimonie religiose, e di offerte. Ve n
era¬ no poi altri, di cui non era dato ai mortali di rimovere la
minaccia, per via di alcuna espiazione. Brasi introdotto pure fra i
Romani, come insegnavasi in Etruria , che romoreg- giando il tuono dalla
parte destra, annunziava sempre qualche cosa di felice, e che era di
funesto presagio allorchéfacevasi sentire dalla parte sinistra. I luoghi
colpiti dal fulmine divenivano sacri anche pei Romani, come tali
divenivano per gli Etnischi, e non era più permesso d!impiegarli ad usi
profani. J i s inalzavano allora de¬ gli altari al dio Tonante, e gli
Aruspici avevano cura di consacrarli col sagrifizio di una pecora, dal
cui nome venivano detti bidentali. Anche gli alberi fulminati dovevano essere
purificati, ed una certa classe di sacerdoti delti strufertarii facevano
in tale occorrenza un sacrifizio colla pasta cotta sotto la cenere.
Se dobbiamo prestar fede a P ausonia gli abitanti della città di Seleucia
adorava¬ no il fulmine, che eglino riguardavano come la loro divinità
suprema. Cantavano inni in suo onore, ed il culto di esso era
accompagnato da singolarissime cerimonie. Ma è da credersi che il fulmine
altro non fosse , se non se il simbolo di Giove, che adoravano quegli
idolatri come essendo il padrone degli Dei . Nella Mitologia erano i
Ciclopi che fabbricavano entro la fucina dell’Etna i ful¬ mini al padre degli
Dei, e servivansi per comporli, e temprarli delle seguenti materie. Mescolavano
insieme i terribili lampi, lo strepito spaventevole, le striscianti
fiammé , lei collera di Giove s ed il terrore degli uomini. Il
fulmine però non era l’attributo esclusivo di Giove. Nell’opera di Ralle intitolata
Ricerche sul culto di Bacco, stampata a Parigi nel 1824, domo primo pag.
61, si legge che Proserpina ingenerò Zagreo, cioè Bacco, colla testa ornata di
cor¬ na, il quale da se solo, e senza veruno esterno aiuto, s inalzò al
trono di suo padre, e trattò il fulmine colle mani ancora infantili. E
nella descrizione delle pietre incise del gabinetto Stoscliiano parla il
IVinkelmann, a pag. 234 , di una corniola, rap presentante Bacco con
diversi attributi, ed un Satiro, ai piedi del quale vede si il ful¬ mine.
Anche Luciano, e Nonno panopolita, come pure molti monumenti antichi anno il
fulmine per attributo a Bacco , Tutte le grandi divinità del
paganesimo , avevano due caratteri distinti: Luna generale •, ed era
quello del primo principio, dotato della forza, e della potenza universale, e
l’altro particolare, che ciascuna di quelle divinità riceveva dalle
funzio- , 7sesto s ingenererà un insetto nocino nelle mature biade, e se
nel settimo regneranno dei morbi, senza però che ne molano molti, e
le secche biade cresceranno, mentre s’inaridiranno le umide , e verdi,
. Tuonarldo nel giorno ottavo sarà annunzio di grandi piogge, e della
morte del frumento, nel nono significherà che dovranno perire le greggi
per l'incursione dei lupi, e nel decimo che vi saranno frequenti morti,
ma che tuttavia l'annata sarà fertile;Mentre se tuonerà nelVundecimo,
annunzierà innocenti calori, e letizia alla repubblica, e se nel duodecimo
accadeva lo stesso Quando tuona nel giorno decìmotèrzo, minaccia la
rovina di un uomo prepotente, nel decimoquarto, indica che l’aria sarà
eccessivamente calda, e non dimeno sarà lieto il provento delle biade, con gran
comodità di pesci fluviali, ma i corpi cadranno in languore; E se poi
tuonerà nel decimoquinto i volatili saranno affetti da incomodi nell
estate, e periranno le bestie natanti. Se nel decimo sesto giorno
tuonerà, non solamente minaccia diminuzione dell'an¬ nona, ma anche
guerra, e verrà tolto dimezzo un uomo floridissimo; Se tuonerà nel dectmo
settimo, vi saranno calori grandissimi, e mortalità di topi, di talpe e di locuste
i E non pertanto l’anno apporterà abbondanza e stragi al popolo romano.
Tuonan¬ do nel decimottavo , minaccia calamità ai frutti, nel decimonono
moriranno gli ani¬ mali nocivi agli stessi frutti, e nel ventesimo
minaccia dissezioni al popolo romano. Quando tuona nel ventunesimo giorno,
indica penuria di vino, buon provento del¬ ie altre raccolte, e gran
copia di pesci-, nel ventesimosecondo presagisce un calore dannoso, e nel
ventesimoterzo dichiara letizia, allontanamento di mali, e fine di morti.
E così nel ventesimoquarto annunzia abbondanza di tutte le cose, e nel
ventesimo quinto significa che vi saranno guerre, e mali innumerevoli.
Finalmente se tuonerà nel giorno vigesimo sesto , il freddo nuocerà alle
biade, nel vigesimo settimo, i primati della repubblica avranno da temere
di andare incontro a perigli per parte dei soldati, nel vigesimottavo,
sarcivvi libertà di biade, mentre tuonando nel vigesimonono , le cose
della città si troveranno in migliore stalo, e nel trentesimo, vi saranno
per breve spazio di tempo spesse morti. E così di tulli gli altri mesi.
Allafine poi dell’ultimo mese, a pag. i 55 viene osservato, che Nigidio
oiu- dico che questo Diario tonitruale, non fosse generale, ma per la
sola città di Roma. Nè ciò parra fuori di proposito , a chiunque facciasi
a riflettere che i sacerdoti etru¬ schi, erano solili vendere a caro
prezzo la loro scienza , a tutti quelli che ambivano di farne acquisto, e
singolarmente ai Romani, che ebbero cominciamento da u na ciurma di
banditi d Etruria, e ne divennero poi gli emuli, quindi i nemici, e
final¬ mente i padroni, ed oppressori. Impararono però ben
presto anche i Romani a fare la distinzione fra i fulmini lanciati il giorno, e
quelli che lo erano nella notte-, E credevano che partissero i primi
dalla mano di Giove, ed i secondi da quella di Summanno, la qual dottrina è
tutta etnisca. Dopo questa distinzione, non tardarono molto a trarre ogni
sorta di presa- m p. e. gl' Iotorti, i quali sono quelli che
tracciano cadendo una linea tortuosa, nei quali sono prima di tutto da
ammirarsi,al dire di essi, la loro natura, e la difficol¬ tà di
contemplarli ; Ed aggiungevasi dai medesimi libri, che non lutti producono
i medesimi effetti, neppure quelli che vengono formati, secondo loro,
dall' aria, e dal concorso delle nubi. E vi si trovano più altre
osservazioni di questa, e di altra spe¬ cie, che sono pure riferite da
Lidio a pag. 171, cap. 44 • Afferma anche Arduino che i Tusci
attribuivano a noveDei la facoltà di scaglia¬ re i fulmini, e che ne
distinguevano undici specie diverse j E per viepiù persuadersi che eglino
riguardavano come cosa di grande importanza la scienza dei fulmini, leg¬ gasi
anche Seneca, lib. 2.° cap. 32 , 33 , e seguenti, delle questioni naturali, ov’
egli descrive prolissamente tutta la lor dottrina, e tutta la loro
scienza sui fulmini, ed an¬ che intorno alla divinazione per mezzo dei
medesimi-. Lo che tocca pure Cicerone nel libro primo della divinazione.
Censormo poi al capitolo xi, pag. 69 , De die natali, loda esso pure i
libri rituali degli Etruschi. I medesimi Etruschi avevano eziandio alcune
singolari opinioni per impedire che i fulmini cadessero in certi luoghi,
piuttosto che in altri. E cosi, leggiamo nei Geo- ponìci, o scrittori
delle cose rustiche, lib. 1 , cap. 16 , che sotterrando in un campo la
pelle di un ippopotamo, ivi non cadrà il fulmine-, E nel lib. 8.°, cap. xi, è
soggiun¬ to , con una sentenza di Zoroastro « affinchè nè i tuoni nè i
fulmini facciano svanire i vini » dopo di che si prosegue cosi • Il ferro
sovrapposto ai coperchi dei dogli , e delle botti, allontana qualunque
danno possano cagionare ai vini i fulmini, e i tuoni. Osservazione la
quale fa un poco ai calci colla buona fìsica, ma ciò non monta. Co¬ si la
spacciavano i Tusci ! Certuni poi vi sovrapponevano alcuni rami di alloro ,
i quali dicevano essere giovevoli in ciò, per contrarietà di natura, e
qui avevano ra¬ gione . Nei suddetti libri sacri, e rituali dei Tusci,
incontratisi ancora altri nomi da ti ai fulmini, oltre quelli già
riferiti in questo ragionamento. Imperocché altri ne chia¬ marono Fumidi,
altri Candidi, altri Irruenti, ed altri Presteri,' E ciò dicevano essi di
aver istituito, perchè producono diversi effetti. Quindi soggiungevano che
gli Ardenti sono quelli che si dicono Presteri, e quelli senza fuoco son
chiamati Tifoni, laddove i più languidi son detti Enifie. Diconsi poi
Egide quelli che noi diremmo Prefratti, o rotti prima, i quali sono
portati da un igneo globo • Donde avviene che V etnisca tradizione, mette
le Egide intorno a Giove, quasi insinuando che l’aria è la causa cosi
della procella, come del fulmine, e della concussione del tuono. Quando il
fulmine romoreggiava fra il giorno, e la notte, solevano chiamarlo I ROMANI fulmen
prevorsum, e dietro gl’insegnamenti degli Etruschi attribuivanlo a Giove,
ed a Summanno. Gli Scandinavi, ed i Celti, abitanti delle parli
settentrionali d’Europa',credevano che i rimbombi dei tuoni fossero
cagionati dai colpi di clava, coi È cosa degna di osservazione il vedere
che gli Scandinavi, ed altri popoli del Setten¬ trione facessero
essi pure uno studio particolare sui fulmini , sui baleni, e sui tuoni ,
e che avessero formato di ciò una scienza come gli antichi Etruschi,
giacche rAnnua- ni, alle quali l'aveva ridotta il sistema
del politeismo. Elleno avevano per attributo il fulmine, sotto il primo
rapporto, ed è ciò che si ritrova presso tutte le nazioni an¬ tiche. I
libri degli Etruschi contenevano secondo Pliniolib. 2.° cap. 52 , nove Divinità
che lanciavano i fulmini -,fEd attribuivano a Marte quelli che producevano
degl' incendii. Eravi a Milon in Egitto, un tempio dedicato a
Nettuno fulminante, per testimonianza di Ateneo, lib. 8.° E Sidonio Apollinare
chiama lo stesso Nettuno Giove Tridentifero, in questi versi,
Sacra Tridentiferi lovis hic armenta profundo Pharnacis immergi!
genitor,- Mentre Stazio nel primo libro dell' Achilleide, lo chiama
ii secondo Giove. Apollo veniva spesso rappresentato, secondo il Golzio,
colle ale ed il fulmine j. E si vede su molte medaglie romane colla testa
coronata di lauro, ed il fulmine in mano. Sofocle nell’Edipo Tiranno, v.
47 J, e Plinio, lib. x, cap. 2. 0 , parlano pure di Marte fulminante,
come si vede su diversi monumenti antichi. Vulcano lanciava
aneli’esso il fulmine, secondo Virgilio, e Nonno nelle Dioni¬ siache, ed
alcune medaglie dell isola di Samo, lo rappresentano cosi. Vedesi poi il
Dio Pane col fulmine, su due piccole figure romane in bronzo, e ne parla
Ateneo nell ’undecitno libro dei Dipnosofisti. Cibele si vede
spesso rappresentata col fulmine, e lo portavano pure Minerva, e Giunone
,• E quest’ultima era collocata a Cartagine sopra un lione, tenendo il fulmine
sulla destra, e lo scettro sulla sinistra-, Mentre della prima dice
Virgilio: Ipsa lovis rapidum jaculata e nubibiis ignem.
Finalmente lanciava il fulmine lo stesso Amore -, E questo Amore
Kspmvofofos, cioè laudante il fulmine, era scolpito sullo scudo di
Alcibiade, secondo l’Epigramma 228 dell’Antologia greca. Molti poi
sono i generi degli stessi fulmini. Insegnavano i Tusci, e lo riferisce
anche Plinio, che quelli i quali vengono asciutti, non ardono, ma disperdono, e
che gli umili non bruciano mainfoscano.Quindi ne annoveravano un terzo
genere,chiamato chiaro', i quali sono di una natura veramente mirabile,
imperocché asciugano , p. e. le botti, piene di vino o di altro liquido,
lasciandole intatte , e non iscorgendovisi alcun vestigio per ove le
abbiano vuotate . Di più, l’oro, l'argento, ed il bronzo, vengono da tali
fulmini liquefatti entro gli scrigni o nei sacchetti, ove suino riposti,
senza arderli in verun modo, e neppure abbronzargli, ed anche senza guastare il
sigillo di cera col quale siano stati chiusi. Si racconta che Marcia
principessa romana fu colpita da uno di questi fulmini, essendo gravida, il
quale uccise il feto che ella portava, ed essa poi sopravvisse senza verun
altro incommodo; E narrasi ancora nel prodigi Catilinarii del Municipio
Pompeiano,che Marco Erennio Decurione fu percosso da un fulmine in giorno
perfettamente sereno. Oltre questi generi di fulmini, ì libri dei
Tusci ne contenevano ancora altri, come, Etr. Mai. Chius. Tom. I.
12 84 trar nel cielo: opinioni uscite tutte quante dalle
dipinture allegoriche delle antiche rivoluzioni del nostro globo. I
Brasiliani, ad ogni scoppio di tuono, riguardano tremando il cielo, e
sospirando ; E credono che sia il loro Agnian, o lo spirito maligno, che
minacci di percuoterli. Almeno cosi ci assicura il viaggìator Cereal. In
Circassia, i piartele tuona, escono gli abitanti dai villaggi, e dalla
città, e tutta la gioventù si mette, al dire di Tavernier nei suoi viaggi, a ballare,
e cantare in presenza dei vecchi. Le quali danze, e le quali
cantilene, se non furono funebri, o guerriere nel loro principio, bisogna
dire che la gioia di quei popoli sia fondata sull' idea che il tuono sia
di un felice presagio. Idea conforme ancor questa a quella dei Persi, e di un
gran numero di popoli antichi, ì quali credevano che il fulmine rendesse
sacro tuttocio che toccava-, E ciò perchè presso i Magi era il fuoco
temblèma della Divinità, conforme si può vedere eruditamente provato dal
Signor La [fide, nell opera da lui composta sulla religione dei
Persiani, cap. primo. Presso i sunnominati Circassi, un uomo ucciso dal
fulmine è giudicato avere ri¬ cevuto da Dio un gran favore : E se il
fulmine stesso è semplicemente caduto sulla sua casa, egli e tutta la sua
famiglia sono nutriti per un anno a spese del pubblico . Era
opinione degli antichi idolatri, che Giove punisse, non già con volgari
ga- stighi, ma bensì fulminandoli, tutti gli spergiuri. E però si legge
in Aristofane, nh. w Si i z* tw-wtmSt ~ h cioè « Imperocché Giove scaglia
questo fulmine vera¬ mente mirabile, contro gli spergiuri . Ad onta però
di queste popolari credenze, non mancavano tuttavìa di quelli, che le
schernivano, e se ne ridevano di tutti i volgari ti¬ mori . Difatti
Luciano, nel Timone, riprendendo timprudenza di alcuni uomini, che
spergiuravano in dispregio dei Numi, subindicò il timore del fulmine dìcen o
che que sta specie di mortali , temono più una lucerna spenta , che la
caduta di uri fulmine , e di esserne colpiti. s™» w » «cuy»:. ™ ™ 5
T0= «fawoo vale a dire: pertanto alcuni di quelli che spergiurano,
temerebbe piuttosto una lucerna spenta, che Infiamma di quel
fulmine domatore di tutte le cose. I Romani , che al dire di
Cicerone, presero auspicia et sacra ab Ltruscis, e secon¬ do Valerio
Massimo derivarono tutti i semi della religione dall Etruria, e noi aggiungeremo
francamente, anche ogni demento di civiltà , fecero passare un gran
numero di etruschi Numi a Roma . Quindi provano con buone ragioni, ed autorità
. il Dempstero, ed il Gori, che erano presso che infinite le divinità
adorate dai nostri maggiori, e che la più gran parte presero domicilio in
Roma. Laonde chiameremo temerarie, e stolte le critiche mosse da alcuni
Archeologi più moderni, contro quei te alla prima percossa che
hanno dal fulmime, non dispiacerà ai nasini lettori il vedere mes¬ cle
nessuno animale è arso, o acceso dal te qui a confronto le supersituom
tomtrual, r7P f u l vararle desìi Scandinavi, ed altri
setten- fulmine, se non e morto, e simili. ejiu 0 uiun 5
t j ] , . t j’ /-.p trionali con Quelle desìi cinlichi Etruschi
sui' Lasciando ora da parte quanto siano tali os• inori un /
& servazioni consentanee alla buona fìsica , 1 ° stesso
proposito» quali il loro Dio Thor percuoteva ì Giganti. Il qual
linguaggio è lo stesso che quel¬ lo dei moderni Persiani, i quali credono
che le stelle cadenti siano colpi di fulmini, che gli Angioli scagliano
nelle altre regioni, contro i Demoni, che si forzano di rieri- rio
tonitruale di quelli , ha molta somiglian za col Diario fulgorale, e tonitruale
di questi. Si legge infatti in Olao Magno, lib. i, cap. 3i
della sua storia delle genti, e della natura delle cose settentriouali ,
cne i tuoni di gennaio significano che i venti soffieranno con mag gior
gagliardia del solito, e che sorgeranno le biade più dritte , e grandi. Quelli di
febbraio annunziano una grande mortalità e singolarmente di quelli che
vivono nella delizia. E quelli di Marzo indicano gagliardi venti , e che
vi dev’essere gran fertilità in quell anno , e straordinario strepito
nei giudizii . Indicano i tuoni di aprile che cadrà una
pioggia conveniente elle biade 9 e che la campagna sara abbondante in tutto il
corso del¬ l'anno, mentre quelli di maggio significano tutto il
contrario, cioè, penuria di biade, ed una formidabile carestia di tutte
le cose. Presagiscono poi quelli di giugno una piu abbondante fertilità,
benché predi cono al tempo stesso infermità spaventevoli. 1
tuoni di luglio annunziano abbondanza di frumenti , ma distruzione di
legumi 9 e di frutti . Predicono quelli di agosto che gli uomini
converseranno pacificamente fra toro 9 ma vi saranno malattie pericolose 9
E quelli di settembre denotano fertilità in quelIalino, nel quale però
sovrastano guerra, sedizioni, e morti . 1 tuoni di ottobre sono
qualificati coll’epiteto di portentosi, perche indicano grandi tem
peste in mare, ed in terra ; quelli di novembre, benché raramente tuona in tal
mese , promettono fertilità nell'anno seguente. E quelli finalmente
di dicembre significano abbondanza di tutte le cose , ed una gioconda
conversazione degli uomini fra loro. Altre osservazioni dei settentrionali
sui fulmini , sui lampi, e sui tuoni portano quanto segue. Quando
nell’estate per esempio, tuona più che non lampeggia, significa dover
soffiar venti da quella parte, e per lo contrario se balena più che non tuona,
deve cader molta pioggia. Quando lampeggia essendo il cielo
sereno, vuol dire che vi saranno pioggie , e tuoni 9 e farà un
tempo da inverno E tali cose poi saranno gravissime, ed atrocissime
quando questi lampi , e questi tuoni verranno da tutte le parti del
cielo. Ma se balenerà soltanto dalla parte ciV Aquilone indicherà
pioggia nel giorno seguente j E se i lampi verranno dal punto preciso del
Settentrione 9 soffieranno venti. Lampeggiando dalla, parte di Austro ,
di Coro 9 o f avonio , essendo serena la notte , significherà che devono venir
pioggie, e venti da quelle medesime parti. Dicevano ancora i
settentrionali, che i tuoni che scoppiano la mattina di buonora
annunziano venti e quelli che si sentono nel mezzogiorno predicono
una grossa pioggia . Aggiungevano poi essere imjjortantissimo il sapere
da qua! parte vengono i fulmini , e dove si dirigono. Imperocché
sono crudelissimi quel¬ li che partendosi dal settentrione vanno verso l
Occaso , e sono di ottima natura quando ritornano finalmente a quelle parti
dalle quali sono venuti , perche quando vengono da quella parte del
cielo d’ond’ebbero origine, e poi ritornano alla medesima, presagiscono allora
una somma felicità da quella parte di mondo 9 rimanendo però infelici
tutte le altre. E finalmente altre curiose osservazioni aggiungevano
intorno a quest’articolo , come, che la notte piu che il giorno lampeggia
senza tuoni , che la natura ha dato il privilegio al- l’ uomo di essere
rare volle ucciso dal fulmine, e che se questo accade talvolta , è assai più
conveniente, e pietoso ufficio il sotterrare quel morto , che il bruciarlo .
Che te ferite dei fulmini sono più fredde che tutte le altre, che
le bestie moiono istantaneamen- parla Cicerone nel primo della
divinazione-, nè fa diuopo osservare il diverso inalzarsi della fiamma, o lo
scrosciar della medesima, nè lo scoppiettar dell incenso, delle quali
cose scrisse, secondo Stazio, un tal Tiresia, famosissimo augure etrusco.
J\è occorre tampoco far menzione, per esaltare Tetnisca sapienza, di ciò
che osserva fra gli altri Seneca , Uh. n, cap. 4 1 delle quistioni
naturali, circa l avere i medesimi fatta anche la distinzione tra i
fulmini prodotti nelle nubi, é nell'aria, d onde scendevano in terra, e quelli
che prodotti nella terra slanciavansi in alto, e verso le nubi medesime,
giacché queste, e molte altre simili cose trovansi narrate, e raccolte da
vari autori. Ma non sono però da passarsi sotto silenzio alcune
memorie di PLINIO, ove narra distesamente in due capitoli, le opinioni degli
Etruschi, appoggiate ad una ragionevole fiolosofia, circa lessenza, o la
natura, e circa le diverse specie di fulmini da essi distinte. Conferma
ivi quel sapientissimo scrittore ciò che abbiamo qui sopra accennato, che
vengono cioè i fulmini, tanto dalle nubi, quanto dalla terra, ed assicura
aneli esso, che trovavansi negli scritti etruschi, nove, o più
probabilmente undici specie di fulmini, delle quali ì Romani loro figli, e
discepoli, non ne avevano osservate, e mantenute che due. Il che viene a
confermare sempre piu il detto di Cicerone, che quei superbi
conquistatori, ed oppressori del mondo, ebbero dagli Etruschi non
solamente lorigine, ed i riti religiosi, tutti quanti ne usarono mai, ma
eziandio la civiltà. Egli osserva pertanto particolarmente, la
diversa natura, e diversi singolarissimi effetti dei fulmini, che dal
cielo provengono, e di quelli che dalla terra sono prodotti-, ed avverte
ad un tempo, che queste osservazioni furono trasportate, e trascritte
negli annali romani, aggiungendo inoltre che vi erano pure le maniere ed
i riti per chiama¬ re i fulmini, ed impetrarli dal cielo, come fece forse
Porsernia, che con un fulmine così ottenuto , ed accompagnato da un
mostro chiamato Volta, devastò, come dicono, le campagne dei Volsinii. Ei
dice di più, che in questa scienza era dottissimo Numa Pompilio, e che avendolo
poco bene imitato Tulio Ostilio , fu arso da un fulmi¬ ne-, E che per
questo fra i diversi nomi che per l'etnisca disciplina furono dati a Giove, di
Statore, di Tonante , Feretrio, e simili, s'incontra pure quello di Elido,
o Evocatore. E finalmente che si prevedono in tal guisa le cose future,
benché sia te¬ merità il credere, che si possa comandare alla natura, o
sforzarla . Il medesimo autore osserva poi, come il baleno sia piu veloce
del fulmine , e del tuono , e come perciò il fulmine stesso debbasi prima
vedere, che udire. Circa le qiiali osservazioni di Plinio intorno alla scienza
tonitruale, e fuigurari a degl’Etruschi, vi sarebbero da fare molte
fisiche riflessioni, se l indole dell opera per la quale sono scritti
questi ragionamenti, lo comportasse. E sul proposito di questa
scienza etrusca, nella quale dice il sullodato Plinio essere stato
peritissimo il re ISuma, ascoltisi anche Ino Livio, lib.t, il quale lo
chiama non solamente dotto nelle arti peregrine, ma eziandio nella tetrica , e
trista due dottissimi scrittori ; Colle quali critiche pretendono di
negare, che per esempio , un tal Nume, non abbia potuto aver culto in Etruria,
perchè si cede adorato net Lazio, ed m Roma ,; Avvegnaché dovrebbe
piuttosto aver luogo la congettura contraria, come saviamente rifletteva il
sapientissimo Guarnacci . Imperocché, dovrebbe dedursi che se una
tale divinità si vede adorata in Roma e nel Lazio, è ben ragionevole il
credere, che abbia prima avuto culto in Etruria- quando si voglia
riflettere, che una colonia etrusca erano i Latini, e che lo stesso
fondatore dell Eterna Città, coi suoi primi abitanti, non furono altro come
anche altrove accennammo, che una banda di fuorusciti Etruschi. c
he se poi igrecomani, sottilizzando, ed ostinandosi ognora più a volere
irrefragabili prove, e quasi ancora la fede di battesimo, come diceva il
prelodato Guarnac- ci, che un tale idolo, od un tal monumento qualunque,
sia veramente etrusco, e non greco, nè romano ; Oltre che si può
risponder loro che queste prove intrinseche , non le hanno d’ordinario
neppure le cose veramente greche, e romane, e che l'anti¬ quaria iti
genere si aggira sulle asserzioni degli antichi autori, i quali ci hanno
lasciato scritto, dove i vani Numi, e i diversi riti abbiano avuto l’originario
loro culto-, Si può ad essi aggiungere ancora che ve una probabilità, la
quale confina colla certezza, che dove un si gran numero d’idoli, di vasi ed
altri monumenti di ogni maniera, sono stati trovati, siano stati pur lavorati.
Ed essendo imedesimi stati dissotter¬ rati negli scavi etruschi, ed
indicando una grandissima antichità, e mollo superiore alla civiltà
greca, e romana , è irragionevole , ed assurdo il credere, che i soli Greci , e
Romani li abbiano dappertutto disseminati. Ed anche a ciò che dice
il chiarissimo signor Vermigliali, il qlude pretende ( . E roga ime di
Admeto e di Alceste) che i monumenti italici più sono antichi, e più
grecizzino, ed al contrario latineggino maggiormente, quanto più si
avvicinano all epoca del dominio romano in Etruria, come pure che
gl’itali antichi spesso aspi- cassero, si può rispondere cosa che sarà di
scandalo agli Archeologi pedanti i quali non sanno, o non vogliono trarsi
fuori della traccia segnata dai loro predecessori abbiano essi fatto bene , o
male. Ed è questa : ,o,m , ere l e osservazioni del sullodato filologo
perugino, perchè la lingua greca è figlia della vetustissima etnisca in
quanto alle sue radicali, benché ne differisca grandemente nelle inflesStoni,
édi Greci sono scolari degli antichi Etruschi, ossiano Pelasghi Tirreni,
indigeni d Italia, i quali andarono in remotissima età a colonizzare , e
popolare la Tra¬ cia eia Grecia, come m altro ragionamento accennammo .
In quanto poi alle aspirazioni degl Itali antichi, procedono queste
dall’orientalismo, che ridonda in ogni dove in Italia, e che vi fu
introdotto in tempi da noi oltremodo lontani da una colonia orientale,
coi primi elementi della civiltà, come pure asserimmo nel quarto di ave
Sti ragionamenti medesimi. " e ~ Ma torniamo ai fulmini ed ai
tuoni. Non occorre citar qui i libri fatali degli Etruschi , ricordati da
Tito Livio, hi. V, nè i fulgorali, e gli aruspici, dei quali
j3 Etr. Mus . Chius. Tom. J, Chi mai oserebbe di
qualificare l’avvenimento qui espresso, non vedendovisi che due militari
pronti alle difese e alle offese, senza ravvisarvi ne 1 inimico, ne oggetto
veruno che sia motivo di questa loro disposizione al combattimento? Ma
siccome questa pittura è nel mezzo d’una tazza, intorno alla quale sono
altre figure giallastre, come questa, in fondo nero, così tenteremo di
trarre da quellequalche argomento a cognizione di questa. Un corpo
esanime steso al suolo, presso cui stanno alcuni combattenti che ne
scacciano altri in costume diverso, mi richiama alla mente l’avvenimento del
corpo di Patroclo, contrastato fra i Greci e i Troiani,e finalmente
ottenuto da quelli coll’espulsione di questi '.Non vi sono caratteristiche
assolutamente variate tra combattenti e combattenti, a dichiarar Greci
gli uni, e Troiani gli altri,ma pure la totale nudità dei primi li fa
credere eroi,che la Grecia rappresentar suole in tal guisa 2 ;mentre gli altri
tre hanno in testa un berretto: uso asiatico e particolarmente dei Frigi
3 .Hanno essi pure nella clamide che indossano un segno d'abbigliamento,
che raramente onon mai trascurasi nelle figure asiatiche, per quanto io abbia
nei monumenti antichi osservato. L'uomo steso al suolo qual corpo morto,
è altresì nudo del tutto, e inconseguenza spettante ai Greci, cqme
difatti era Patroclo il caro amico di Achille, che fu ucciso in guerra da
Ettore, secondo Omero l . Probabilmente anche i due guerrieri dipinti nel
mezzo della patera, e che vedemmo nella tavola antecedente,son due Greci alla
custodia e difesa del corpo di Patroclo, ch'è dipinto nel fregio della tazza
medesima. Infatti essi vedonsi ARMATI, MA NUDI, giusta il costume greco
eroico, siccome dicemmo. Qui le figure son ridotte un terzo più piccole
di quelle che vedonsi nella tazza originale, ove sono di color giallastro
in fondo nero. Qualora mi si conceda esser probabile la interpetrazione
dell’antecedente rappresentanza della morte di PATROCLO, e del contrasto tra i
Greci e i Troiani, per ottenerne il cadavere, non mi sarà negata fiducia
nella supposizione eh'io son per proporre, che in questa pittura, la qual
fa seguito all’antecedente, vi siano espressi gli o- nori funebri che
furon resi dall’amico Achille a quell’estinto eroe, e particolar- i
Galleria oraer. Iliade, Voi. 11 , Tavole cxcix , 3 loghirami, MoDum. etr. ser.
11 , p. 45°- cc, cci, ccn.
- a Plot., Vii. Alexand. I? disciplina de vecchi
Sabini ( che erano Etruschi ), di che non vi è stata mai veruna cosa piu
incorrotta, e veneranda. E dicendo che lo stesso Numa era dotto anche nei
liti peregrini, si deve intender qui di quelli di Samotracia, che erano i
idrici , e tri- sti dei Pelasghi, Tirreni, Etruschi ancor essi, come
altrove dicemmo , e lo abbiamo ripetuto pocanzi; E che i Romani
riguardavano come peregrini, perchè tali erano divenuti per loro, essendo
in tempi da essi lontani, passati dagli Etruschi ai Samotraci . La
scienza dei quali riti possedè Porsenna, e molto prima di lui anche
Dardano, il quale portossi in Samotracia pel solo oggetto di conferire
con quei sacerdoti, e per introdurre poi in Troia una religione del tutto
ponforme a quella dei suoi antenati, che era l Etnisca. E si noti, che il
medesimo Livio, e tutti gli antichi scrittori ci fanno sapere che il più
volte nominalo Numa Pompilio fu religiosissimo, e propagatore in Roma di ogni
pia istituzione ; Ove non altro ei propagò certamente, che riti
etruschi. Ed ecco una erudita chiacchierata sulla scienza
tonitruale, e fulguraria degli Etruschi. La quale potrebbesi ancora
condurre più a lungo, ed arricchire di più altre peregrine notizie su questa
recondita disciplina, se non fosse il già detto più che abbastanza pel
nostro scopo. Ma come e quando mai, e per quale sovrumana potenza , andarono a
mancare queste, e tante altre superstizioni, stabilite , ed inveterate
nel mondo, radicatissime nei cuori degli uomini, e venerate, e temute in tutte
le regioni della terra aliar conosciute? In qual modo cessarono i terrori e la
paura, onde avevano saputo gli antichi sacerdoti, di concerto sempre cui
Despoti, invadere gli spiriti dei mortali, tenuti ognora da essi, a bello
studio nella cecità, nel timore e nella più profonda ignoranza con mille
misteriose ambagi, e con mille disperate minac¬ ce? Scomparvero tutte
queste tenebre, e caddero tutti questi arcani e portentosi ordigni, al
comparire della luce Evangelica. Al comparire di quella legge, t unica fra
quante ne vide l'universo, che introducesse la vera libertà, e la vera
eguaglianza fra gli uomini. Al comparire di quella legge in somma, che
mette, davanti a Dio, a livello del più temuto tiranno, e del più potente
monarca, anche il più infimo del popolo. In urna di marmo LI.
: flnoai ; qflj J3 : M : 43 un. fm \iflj : miai : janavi :
armo LIV. : iaruv/Hflm ; f\nn o Nell’orlo d’un
vaso cinerario di terra cotta LV, mtvfl Jtiat v/rji 9°
È questo idoletto in piccolo, quello che dissi esser l'altro,
rappresentato più in grande, e con alquanta varietà nelle Tavole XLIX, e
LXVII di questa raccolta, essendo il presente di grandezza simile al suo
originale. Ma la di lui piccolezza, e 1 non esser vuoto, non permette che si
riconosca per un cinerario, sicché fu tenuto soltanto pel nume che riceve,
abbraccia e protegge gli estinti, che nati dalla materia terrestre
tornano dopo la morte in seno alla terra, o per meglio dire alla natura
mondiale, della quale Bacco era il nume tutelare. E poiché mi si dice che
piu d uno di tali idoletti si trovarono in uno stesso sepolcro, da ciò
argomento che speciale fu nel sepolto la venerazione pel nume da questa
immagine rappresentato. Al numero 2 si vede un fregio in
bassorilievo che ricorre in giro in un vaso dei consueti chiusini di terra
nera, e non v’è differenza in misura tra l’originale e la copia. Il significato
mi sembra lo stesso dei precedenti lavori di simil genere. Vedo ancor qui come
altrove la Chimera, e credo che l’oggetto sostenuto in mano dagli uomini sia,
come nei calendari egiziani, lo Scorpione sidereo. Aoterò di passaggio a tal
proposito che il famoso torso egiziano in basalto, che un tempo fu del card.
Borgia, pubblicato dal eh. Lenoir alla Tavola VI del forno [, num. g si
vede come qui una figura con Io Scorpione tenuto per la coda, e dietro a se v’è
parimente il leone con la coda che termina in un serpe, e con la Capra
sul dorso, nè spiegasi differentemente che pei segni delle celesti
costellazioni. Si vuol peraltro che nella Capra sopra del Leone si
ravvisi il trionfo del Capricorno sopra il Leone, e probabilmente i due
serpen¬ ti che nel nostro bassorilievo si manifestano, saranno quei che
dominano il cie¬ lo nel tempo dell'indicato trionfo. A tal proposito, gli
astronomi osservano, che mentre il Capricorno comparisce al nostro
Zenith, la Vergine si mostra sotto il segno dello Scorpione , o del
domicilio di Marte 3 : e difatti sì nel monumento chiusino, che
nell'egiziano comparisce una figura che ha in mano uno scorpione, se non che
nell'egiziano si mostra femminile quella figura, che qui per la sua nudità,
par eh esser debba maschile, ma ciò non si manifesta con sufficiente chiarezza.
Che i cavalli abbian luogo in simile rappresentanza relativamente ai Cavalli
siderei, già me n espressi altrove abbastanza,, ove mostrai principalmente
essere il cavallo sidereo un paranatellone del levare eliaco dello Scorpione J
. 3 Lettere di etnisca erudizione . 1 Lenoir, Nouvelle explic. des
hieroglyphes a ivi. Tom.i, p. io4- % mente il giuoco
del pugilato col cesto, che Omero 1 * pone il secondo tra gli spettacoli
dati in onore di Patroclo nel di lui funerale 3 4 . Nei vasi, che negli annali
dell’istituto di corrispondenza archeologica si dicono panatenaici,
vedonsi a lato dei combattenti, col cesto come qui, degli uomini coperti
d'un manto con braccio scoperto, e dall'in- terpetre attamente chiamati
rabdofori 3 , i quali assistendo a quel giuoco hanno in mano una verga
biforcata, similissima a questa dei presenti i . Le due ultime nude
figure una soccombente all’altra prevalente, ancorché senza cesti alle mani,
mostrano che i pittori aggiungevan talvolta delle figure e dei gruppi a
capriccio, ad oggetto d'empir lo spazio che doveasi dipingere. Se però
consultiamo i più moderni sentimenti degli archeologi, troveremo-ammessa pure
l’ipotesi, che una fi¬ gura umana stesa per terra presso alcuni
combattenti, ascrivere si debba, unicamente ad alcuno dei contrasti gimnici,
senza ricorrere al particolare avvenimento di Patroclo per isvilupparne il
significato. Un sacerdote di BACCO ed una Menade con dei vasi libatori formano
il soggetto di questa pittura, e son frequentissimi quanto altri mai nei vasi
fittili dipinti , onde potremo giustamente ripetere col Lanzi che di cento vasi
tornati a luce, novanta contengono soggetti bacchici. È singolare il
tirso eh’ entrambe le figure sostengono, mentre ha un'armilla che nei
tirsi non è comune, ma nemmeno del tutto insolita, senza che per altro
s’intenda qual n'era l'oggetto. Nell’oscurità di questo soggetto non
altro saprei ravvisarvi che il celebre gre¬ co Capaneo estinto sotto le
mura di Tebe. Altrove pure narrai come questi van- tavasi che avrebbe
presa Tebe, volesse Giove o non volesse, ma provocati gli Dei con tali
bestemmie, ne accadde che mentre il primo dava la scalata, Giove non
lasciò compier l’impresa, e con un fulmine Io precipitò dalla scala e lo uccise
6 . Or io noto che qui si vede una scala squarciata dal fulmine, un uomo
rovescia¬ to che dall’alto cade a terra, e dietro a lui le mura forse di
Tebe, dove stanno alla guardia militari tebani. Le altre figure si
possono intendere pel restante del¬ l’esercito, eh’è spaventato, e
stramazzato a terra per lo spavento del fulmine. L'urna in marmo è cinque
volte maggiore di questo disegno. i Iliad. a Galleria omerica
Iliade Tom. u, p. 18*. 3 Voi. n, p. 218. 4 Ivi, lav.
xxi, io, 6. xxu, 8. 6. 5 Gerhard, Annali dell’istituto di
corrispondenza ardi. Tom. in. p. 54 Anno 18 3 i 6 Monumenti etr.
ser. i, Tav. tav. lxxxvil. # mv XLIV, e altrove,
mentre altri sono come il presente eseguiti in forma di vasi con
capricciosi ornamenti, rivestiti per lo piu da fogliami, e con iscrizioni
latine, come pur qui si legge, indicando il nome di Lucio Aulo Carino. Io
stesso nella mia dimora in Chiusi vidi molti monumenti e rottami di essi, di
stile greco e romano e bellissimi. Nell’interno d’ una tazza
di terra verniciata in nero, si vedono queste due figure di color
giallastro; e sono, per quanto mi sembra, d'uno .stile perfettamente simile a
gran parte di quelle pitture monocromate dei vasi italo-greci. Vi si
rappresenta un suonatore con cetra e plettro , in atto di attendere dalla
Vittoria il premio del suo valore, e credo che ciò alluda ai pregi morali
dell’ani- ma, che negli estinti son premiati nella vita futura; e perciò
soggetti simili ed analoghi a questo si trovano frequentemente dipinti
nei monumenti che pone- vansi nei sepolcri, ma ora corrono altre
opinioni. Se aver vogliamo un esatto conto d’ogni figura eh’è in
quest’ urna di mar¬ ino, il cui disegno qui è un ottava parte del suo
originale, non saprei se potessimo riescirvi con plausibile disimpegno. Ma se
consideriamo che gli artisti obbligati a trattare nelle opere loro un qualche
mitologico soggetto, eran poi costret¬ ti ad ornarne tutto lo spazio del
marmo che formava il primario lato dell’urna sepolcrale, ancorché il
soggetto da loro scelto non richiedesse tante figure, quante ne
occorrevano ad ornare lo spazio determinato, noi troveremo irreprensibile
lo artista che abbonda in figure, ancorché non richieste dal soggetto che
tratta, co¬ me ne somministra un esempio assai chiaro il bassorilievo di
questa Tavola. Io vi ravviso Ulisse in atto di adoprare il suo arco, il
qual potea dalle sole sue mani esser teso, ed uccide i proci di sua moglie
Penelope, i quali dilapidavano le di lui sostanze. Egli ha un berretto
appuntato, eh’ è la consueta causia che lo distingue come famoso viaggiatore
del mare ’. Sta con un ginocchio sull’ara, mostrandosi protetto dai numi 3
nella difficile impresa d’esterminare egli solo coll'aiu¬ to del figlio
Telemaco i tanti suoi nemici. La colonnetta sulla quale solevansi tener
degli idoli domestici, mostra ch’egli è già penetrato nell'interno della
sua casa, mentre le colonne doriche vedute nella parte opposta danno
indizio che lo avvenimento accade nella sua reggia. La forza ch’egli
mostra di fare col braccio destro per tendere un arco, fa ben ravvisare
ch’ei solo poteva piegarlo a forza. i Inghirami, Monum. etr. ser. 1Ì1, p.
19. % Ved. p. 6i, e sq. e Monum. etr. Qui si mostra
nuovamente un ago, o spillo crinale in oro di un lavoro de¬ licatissimo,
considerando che nel suo capo segnato num. 1, della misura stessa di
questo disegno, vi è il lavoro che portato in grande, si vede al min. 2 ,
il cui ornato è di semplice bizzarrìa. Il monumento di numero 3 si rende
assai singolare, per essere una di quelle solite fermezze che in luogo d
esser di bron¬ zo, come se ne trovano a centinaia, è doro, e rarissima.
Si è creduto da taluno che queste fermezze servissero a chiudere il
cadavere nel lenzuolo d amianto dove bruciavasi, ed in tal guisa è stata
trovata ragionevole l'indifferenza che tali fermezze siano in maggiore o minor numero
in un sepolcro; e se questo è, noi reputeremo più che altri opulente il
morto presso al quale è stata trovata questa fermezza d’oro. Il numero 4 è
similmente d’oro, e credesi frammento d'una collana . II pregio di questo
monumento consistendo principalmente nella iscrizione dalla quale è
circondato, così attenderemo di conoscerne 1 interpetrazione per ope¬ ra
del cultissimo Vermiglioli che unitamente alle altre del Museo chiusino, ce le
piepara per darcele tutte di seguito in quest’ opera stessa. I
Centauri, che nel calendario del gentilesimo, servirono a notare il tempo
d’autunno, in cui celebravasi coi misteri la commemorazione dei morti -,
hanno servito altresì d'ornamento adattato alle lor cassette cinerarie,
come qui si ve¬ de, figurandovi uno di tali mostri che avendo rapita una
delle donne invitate alle nozze d’Ippodamia la difende dai Lapiti, che
vogliono rivendicarla. II disegno del vaso che qui presentasi la metà più
piccolo del suo originale in marmo statuario,ci fa sicuri che in Chiusi,
dove stato trovato, fiorirono due scuole assai diverse di scultura; funa
etnisca, 1 altra romana, giacche si trovano recipienti eseguiti per l’uso
medesimo di riporre ceneri di umani cadaveri, gli uni in forma
quadrangolare a modo di cassetta, con bassirilievi di figure e con etiu-
sche iscrizioni, come ne abbiamo fatti vedere in quest opera alle Tavole
XIII, 1 Inghiraroi, Mommi, etr aer. i, p. 1 47» ^44- Sa
mai v’ha luogo all’interpetrazione di queste due statuette di bronzo num,
i e 2, i cui disegni sono grandi quanto i loro originali, potrei avventurare
che 1 una di a. i fosse d’Apollo laureato in fronte e con tazza in mano,
comesi vede altrove nei vasi dipinti 'ri’altra n. 2. diMercurio
conpetasoin testa,sostenendo con la sinistra ma¬ no una sacca o borsa
,ch’è propria di questo nume, come tutelare del commercio a . La
corniola che qui mostriamo al num. 3 , ci fa istruiti quanto dagli
antichi fosse apprezzato il gruppo delle tre Grazie, che vediamo ripetuto
in un modo medesimo in tanti luoghi e in tanti tempi diversi. La
dimensione della pietra è misurata dall'ellisse num. 4- Fu
posto in ridicolo il Gori celebre antiquario di cose etrusche, perchè fatti
disegnare una quantità d’idoletti in bronzo che si conservano nella R-
Galle¬ ria di Firenze i * 3 , pretese dare a tutti loro un nome speciale
, formandone una serie di etrusche divinità senza rammentarsi che
soggiogati gli Etruschi, signo¬ reggiarono i Romani in questo nostro
paese, ove introdussero colle lor colonie artisti e culti sacri tutti lor
propri. Perch' io vada esente da simil taccia non mi costringa
l'osservatore a dare un nome all’idoletto di bronzo che i sig." editori
del Museo chiusino han posto al num. ì, 2 della Tavola C, che nel disegno
trasmessomi per la incisione trovo notato esser della grandezza medesima
dell'originale come pure l’altro di num. 3 .È grave danno per la scienza
antiquaria che dai collettori di antichi monumenti non facciasi caso nessuno
della maniera come questi si trovano sotterrati, dal che non pochi lumi
trar si potrebbero per la storia dell’arte, non men che dei riti sacri
presso gli antichi. N’è prova la figura che trovo disegnata al num. 3 di
questa Tav., mentre si scorge di un arcaico stile ben diverso da quello che
spet¬ ta alla figura superiore . Or se questi idoletti furon sepolti
promiscuamente fra loro in un sepolcro medesimo, potremo frale
supposizioni lecite ammettere che la figura di num. 3 sia eseguita ad
imitazione dell’ antico stile , e contempora¬ neamente all'altra
modellata certamente quando nell'arte era noto uno stile assai più
perfetto . Dopo varie mie riflessioni sul significato di queste donne che
in piccol bronzo trovansi frequenti negli scavi d’Etruria, restai
perplesso nelle due i Tishbein, Pittare de’ Vasi antichi
posseduti dal cav. Hamilton. Tom. i, Tav. 8, 9 .Visconti, Museo Pio
dementino Voi. 1, Tav. r. 3 Museum etr. exhiben» insigne veterum
Etruscorum monumenta aereis tabulis cc, edita et illustrata .4 Maffei,
Osservazioni letter L uomo già rovesciato per terra, che vedasi nel sinistro
Iato dell’urna rispetto al riguardante, fa conoscere già incorniciata la
carnificina dei proci. 11 giovine che vibra la bipenne sopra un armato
può significar Telemaco, il quale si presta in aiuto del padre alla
strage di quei malvagi. La Furia infernale tra le colonne della reggia
attamente manifesta il terrore di sì lugubre azione che scompiglia la
casa reale d’Ulisse.I due combattenti al sinistro fianco di quell’eroe son figure,
a mio credere, arbitrariamente dall'artista introdotte ad empire un vuoto
che restava senz’esse nel suo bassorilievo, come ho detto poc’anzi, ed
anche in occa¬ sione di spiegar la Tavola. Mi sia permesso di
rimettere ad altro miglior Edipo, ch’io non sono, d’in- terpetrare qual
fosse l’intenzione degli antichi Gentili nel rappresentare questo , come
pure mill’ altri idoletti di bronzo, che trovansi nello scoprire antichi
sepolcri. Io posso dire soltanto essermi noto che innumerabili erano gl’idoli
dagli antichi tenuti nei larari come dissi poc’anzi 1 . Ma non so poi
quel che signi¬ fichino gran parte di essi, come il presente, nè per
quali superstizioni passassero nei sepolcri, qualora non sieno stati
considerati che per semplici bronzi atti a dissipare i maleficii 2
. L’Arpocrate fanciullo inetto e silente, perchè non compiutamente ben
forma¬ to, significativo del sole ibernale, è il soggetto che in questa
piccola statuetta uguale al suo originale in bronzo si rappresenta. Fu
antichissimo in Egitto, e ne conserva nel fior di loto, che ha in capo,
il segnale, ma introdotto a’tempi de’To- lomei fra i Greci e fra i Romani
formossene una divinità pantea 3 con forme non altrimenti egiziane,
fingendolo un Amore, perchè da questi nasce lo sviluppo della natura
produttrice , per cui gli posero in mano il corno dell’abbondanza che
attender dobbiamo dallo sviluppo del calor solare, passato il tempo d’inverno. Il
vasetto di terra cotta è parimente rappresentato di misura uguale al suo
originale, ed è dipinto a figure nericcie con fondo giallastro pendente al bianco,
o piuttosto d’un bianco abbagliato, ed è d’un genere che gli archeologi convengono
di nominare maniera egiziana 4 , sì perchè vi si vedono strane figure sul
gusto di quella nazione, e sì ancora perchè in Egitto si trovan similissimi a
questi. i Ved. la Tavola uxi. a Monum. etr., ser. i,
p. 3 i 6 . 3 Iablonski Pantheon Aegyptior. lib. u, cap. vi,
Etr. Mus. Chius. Tom. 1. § 7* s q- 4 Gerhard,
Annali dell istituto di corrispondenza archeologica voi. in, anno i 83 i,
p. i4> *4 orecchi, piedi e coda di cavallo, con busto
virile: aggregato non comune in Sìmili fantastiche figure, delle quali
ebbi luogo di trattare estesamente altrove, dandole per simboli autunnali
II vaso che ha in mano quel mostro non è che un emblema di più per
indicare la stagione d’autunno, allorquando s’empiono tali olle di vino.
La donna che gli è dappresso è una Tiade seguace di Bacco. II perchè poi
la unione di queste due figure significasse il passaggio della razza umana
dalla vi¬ ta rozza e disordinata, alla virtuosa e civile per opera di
Bacco e dei suoi misteri, è argomento sul quale scrissi altrove
abbastanza per darne il conveniente sviluppo a . Delle due figure ,
che qui sotto al num. 2 si vedono riportate nella misura di un quarto più
piccole dell'originale, dipinte nella parte opposta di questo vaso, non saprei
indovinarne il significato, tranne il supposto d'un’armatura da un
giovane ottenuta nel passaggio all’ età virile i . Il disegno del vaso è
ridotto alla grandezza di un quarto del suo originale . Questo
mistico specchio non può spiegarsi che mediante l'osservazione di molti
altri, nequali per ordinario si trovano insieme dei numi o eroi di opposta
natura o potenza. Spesso vi sono espressi Dioscuri, la cui consueta
combinazione fu da me assai esaminata in altre mie carte , ov’io li
mostrava in sostanza 4 espressivi di due contrarie potenze, le quali
concorrevano, secondo i Gentili alla formazione e conservazione del mondo 5 .
Qui pure è Teti e Giunone perpetuamente nemiche fra loro, di che ho pure
altrove ragionato 6 . Che la donna seduta sulla pistrice sia Teti lo
mostra chiaro un frammento d una tazza etrusca, dove la figura medesima ivi
dipinta ne porta il nome scritto. Che la donna opposta sia Giunone lo
prova Io scettro che impugna. tavola cv. Il manico
doppio di bronzo qui espresso nella grandezza del suo originale num. 1
mostrasi attaccato da un lato ad una testa femminile di nessuna
significazione, e dall altra ad una maschera scenica virile, nel che
manifestasi quanto fossero vaghi gli Antichi di variare ornamenti,
giacché non altro che il capriccio può a\erli dettati, come qui li
mostriamo, per ornarne un vaso di bronzo. Possiamo frattanto tener per
sicuro che gli artisti di Chiusi non furono di meno elevato genio degli
ercolauesi nell’eseguir le opere loro metalliche. Del bronzo in figura di
maschera di cui vedu qui il disegno n. 2 , nulla so dire ad istruzione di chi
l’osserva. 4 Monumenti etr., ser. 11. 5 Plutatc. de
Iside et Osir. in prineip. 6 Galleria omer. voi. 1, tav.
xxxix. opinioni o di assegnar loro il nome di Speranza o quel di Giunone,
invocata dal femminil sesso in loro tutela. Ma chi non sa che la
Speranza, e la Fortuna, ossia la fiducia di migliorar sorte nel mondo, era
l’oggetto primario del culto gentilesco d’Italia? 5 Il bassorilievo della
Tavola presente è un’urna di marmo due terzi maggio- giore di questo
disegno. Qui, a parer mio, si rappresentano i due strettissimi amici
Oreste e Pilade nel pericoloso momento d’essere a Diana immolati, per
l'uso barbaro ordinato da Toante in Tauri, che li stranieri a quel lido
approdati dovevano essere immolati a Diana tutelare del luogo <. Varie
tragedie si scrisse- sero dagli antichi su questo soggetto, taluna forse
delle quali dichiarava Oreste d’età più avanzata che Pilade, o l’età di
questo più avanzata di quella dell’altro, e perciò Pilade più prudente,
per cui cred’io, qui è l’uno imberbe, l'altro, barbato. Le donne che vi
si vedono sono le sacerdotesse di Diana, che vicine al di lei altare
stanno con i coltelli pronte ad immolare li sconosciuti stranieri. Le
teste umane posate sull’ara medesima vi son per indizio della consuetudine
di quel barbaro sacrifizio. Per simil modo vedonsi tali teste pendenti ad
un albero presso l’altare di Diana, ove pure Oreste e Pilade son condotti
al crudo supplizio in un sarcofago del palazzo Accoramboni di Roma, e
recato in luce dal Winkelmann . Questa Pallade in bronzo della gradezza
dell’originale è come ognun vede, d’un gusto squisito. Nè vorremo negare,
che sia di toscanica officina , giacché è trovata a Chiusi, quantunque lo stile
dell’arte ivi usato direbbesi comunemente gre¬ co , o del buon tempo
romano. Oltre di che possiamo additar quest’idolo col ge¬ nerico nome di
Lare, vale a dire un di quei che i Gentili tenevan chiusi per loro
devozione in alcuni armadi delle lor case col nome di larari. E dicevansi
anche patellari, come Plauto li appella 6 , perchè avevano, come il presente, e
co¬ me altri riportati in quest’Opera i, piccole patere in mano, in segno
di doman¬ dare ai devoti le prescritte libazioni agli Dei. Riconosco
per un satiro il mostro dipinto nel vaso num. i, perchè vi si vedono
1 Ved. p. 8. 5 Antichi momim. inedit. N°. 1 44 * 2 Ved. p.
18. 65 . 6 PJautoap. Inghirami Monum etr. ser. il. p. 3 2* 3
Plinio. Nat. Hist. lib. n, cap. vii, § v, p* 73- 7 Ved. Tavv. un, lxx.
4 Euripide, Ifigenia in Tauri nell’argoin. greco. L opposto
lato del vaso che porta l'antecedente pittura ha similmente dipin¬ te
quattro figure ammantate, insegno, secondo alcuni 1 , di precettato silenzio,
co¬ me sembra che non ricusi di ammettere modernamente uno de’ più
attenti ed eruditi interpetri di tali stoviglie, 3 o secondo altri della
palestra e del bagno 3 , e gli ultimi che ne scrissero, notarono in tal
circostanza, che riguardo ai bagni è assai più comune il vedere i loro
utensili posti per dare indizio della palestra, che il trovar particolari
espressioni della loro struttura. Quindi argomenta che i giovani avviluppati
nel manto e forniti degli arnesi atti al bagno si mostrino di là partirne
onde recarsi alla palestra 4 . Io peraltro che soglio dare al significato
di tali pitture maggiore importanza, mentre le vedo sì ripetute da tutto
il paganesimo, dove fu in uso il seppellir vasi coi morti-senza neppure
distruggere l'opinione modernamente invalsa, che significhino esse unicamente
il passaggio dei giovani dai bagno alla palestra, proporrei altresì
l’opinione, a parer mio non re- pugnante, che il vedersi in mano degli
efebi gli strigili che usavansi a purgar la cute da ogni sozzura dopo il
bagno, denotasse l’uso delle virtù catartiche, mediante le quali veniva un’
anima virtuosa a purgarsi d’ogni viziosa impurità, e farsi degna della celeste
beatitudine. Erano infatti virtù somiglianti insinuate nei ginnasi dai
precettori, che in segno di loro autorità non meno che della disciplina
dottrinale che da lor comunicavasi agl’iniziati, e del silenzio che loro
impo- nevasi circa i precetti religiosi dati colla massima segretezza,
tennero, come qui, un bastone in mano 5 . Io dunque vedo nel vaso in
complesso, l’immagine della beatitudine in quel convito eh'è daH’anterior parte
di esso già esposta antecedentemente, e la occulta e misteriosa via di
conseguirla nel significato degli strigili che hanno in mano i giovani
qui espressi davanti ai loro precettori, e inistago- ghi. Leggo nel
disegno di questa incisione mandatami da Chiusi esser le figure, rosse in
fondo nero la metà dell’originale. Ho il piacere di dar termine alla
prima parte di quest’opera sul Museo chiusino, con un monumento de'più
interessanti che vi siano stati esibiti, sì per la perfezione del suo
disegno, come anche per l’epigrafi, dalle quali vanno indicate le figure
di deità che vi si contengono. Quest’ultima qualità che rende il monumento
assai pregevole alla considerazione degli eruditi, voglio dire 1’ essere 3
Ivi, e Gerhard Rapporto intorno ai Vasi Voi- centi. Sta negli Annali
dell’ istituto di corri» spondenza archeologica , voi. m, anno i83i
r primo fascicolo, Monumenti, p. 4 Gerhard , 1. cit.
5 Monum. etr. ser. v, p. 3o. 97. Fin ora sanasi detto esser qui rappresentata
un agape o cena funebre, colla quale si terminavano gli estremi onori che
rendevansi agli estinti qualificati, ed a così giudicare ne moveva per
ordinario il trovar vasi con tali pitture vicini sempre ai cadaveri ‘.Per
simile analogia solevasi dire ancora esser quel con¬ vito, accompagnato
da piacevole melodia, una immagine del godimento riserbato alle anime virtuose
negli Elisi dopo la morte, come promettevasi agli iniziati nei misteri
del paganesimo a . Ma nel momento attuale corre opinione che non altro in
pitture tali debbasi ravvisare, se non che domestiche mense ed allegrez¬
za sociale, senza frammischiarne l'allusione a varun culto religioso 1 2 3 .
Rifletto pe¬ raltro che sfio spiego nel metodo primitivo, cioè
l'allegorico, la mensa priva di commestibili, posso ripeter, come dissi
altrove, non esser l’anima suscettibile di pascolo materiale, essendo la
sola mensa un sufficiente segnale del godimento 4 . Se il pittore ebbe in
animo di rappresentarci con questa pittura non altro che una domestica
cena, dirò che la composizione resta incompleta per mancanza dei cibi,
indispensabili ad effettuare l’azione del mangiare. Spiegai altrove
simbolicamente anche Patto, come è qui, ripetutissimo in al¬ tre pitture,
di una tazza sostenuta da un commensale cori un sol dito 5 , ove dissi
che a tenore d’ una dottrina platonica le anime che debbono scendere in
questa terra si trovano in uno stato il più leggero possibile, e quindi situate
nella più elevata parte del mondo; e conchiusi esserla tazza del recombente
signi¬ ficativa del recipiente del nettare per uso de'numi alzata da lui
per simbolo del- Panima sì per la sua elevatezza, e sì ancora per la
leggerezza che mostra uel- l’esser sostenuta con un dito 6 . E qui mi
giova il notare altresì che nessuno dei tre recombenti mostra di bere
alle tazze da loro sostenute, nè v’ è alcun vaso da cui rilevisi essere state
empite onde bere . Non ostante anche le moderne opinioni hanno tal peso che
meritano considerazione, ed io mi son fatto un pregio di esporle qui non
volendomi caricare del giudizio sulla preferenza delle une sulle altre.
Leggo nel disegno di questa incisione mandatomi da Chiusi es¬ sere la
metà de! suo originale, e le figure di colordi rosa. 1
Vermiglio!!, Lezioni elementari di archeologia Voi. i, lez. •vm, § 6, p.
126. Monum. etruschi ser. v, p. 4y8 . 2 Monum etruschi, ser.
v, 3 Annali dell istituto di corrispondenza archeol. Voi. ili,
anno i 83 i, Gerhard, Monumenti Rapporto intorno i vasi volcenti,
p. 5y. Raf¬ faello Politi, descrizione di due vasi fittili
gre¬ co siculi agrigentini i 83 r. Ved, bullettaio del¬ l’istituto
di corrispondenza archeol. num. xi, 6. novembre 1 83 1. 4
Monumenti etruschi ser. v, p. .874. ò Milli», Peintur. de \ases
ant. tot». 11. PI. 58 . 6 Monumenti etr. ser. v, p.
376. W" . ■ ;.;;Y ; ' Iv i;. 1 1-i. 1 .
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C V 5 V V* . c se ? n 11 a . Egè ri) ' ' ’ ~
: Z > • ' i:- ai* 99 scritto, mi
costringe a tenermi in assai ristretti limiti nel ragionarne, poi¬ ché i
nientissimi sigg. TÌ editori di quest'opera destinarono con savissima
sceltala illustrazione della parte epigrafica di tali monumenti al prof.
Vermiglioli espertissimo quanto altri mai di sì difficile scienza.
A sodisfar dunque soltanto la sollecita curiosità di chi osserva il
monumento qui esposto mi permetto di accennar di volo, esser questo uno
specchio misti¬ co di que’tanti che trovatisi storiati nei sepolcri
d’Etruria, e solamente lisci in quei della Magna-Greeia, ed in esso
esservi quattro figure di deità cioè la Parca, Apollo, Venereletea o
libitina, e Giunone; e presso le indicate persone i nomi lo¬ ro scritti
in etrusco. /3DIVM moiran nome della Parca ripetuto in altri di que¬ sti
manubriati dischi 1 * . V4-1/3 Aplun nome chiarissimo d’Apollo, ed altresì
ripetuto io vari specchi etruschi 3 . HVT34 Letun Venere letea o libitinia , o
Proserpina, che il Gerhard ha così bene illustrata per una Dea infernale, non
distinta però dalla luna 3 , per cui cred’io qui si vede connessa in amplesso
con Apollo considerato come il sole. Ecco dunque per la prima volta incontrato
negli specchi mistici il nome di quella donna che sì ripetutamente vi si
vede rappre¬ sentata, e che per Venere libitina azzardai nominarla tal
volta anche prima della presente ed importante scoperta 4. In fine AH 4/3 0
Talna eh’è nome altresì ripetuto nei mistici dischi, e che io sostenni
con lungo ragionamento esser signi¬ ficativo di Giunone 5 quantunque
disgiunta dai consueti simboli di questa Dea, men¬ tre qui ha lo scettro
che la •fanno indubitatamente conoscere per la regina degli Dei
unitamente con Giove che n’era il supremo loro imperante. Ma una più
sodisfacente interpetrazione dell'etrusche parole qui riferite debbesi
attendere dall’erudito Vermiglio]/', al quale, come io dissi disopra, è
destinata. In urna figulina LVI. i flit
a a = flnflo ) f\XF\Y\M LVH. AlAtlqAD :
1SUfflM : lOqfld In urna figulina lviii.
CO -A < l#q vn : im : fìURO
Idem LIX. | M433 : VfflDt : 33
r Ì433 : VA LX V-ÌV# : VD
flitmao i Monumenti etruschi s a Ivi, p. a 84 -
3 Gerhard, Venere Proserpina illustrata, p. i 5 , e 76, ved.
Nuora collezione d’opuscoli e notizie di scenze, lettere ed arti,
pubb. dal cav. Fr. In- ghirami tom. iv, p. 536 , 4 Monum.
etr. ser. 11, p. 44 <a, 744, e ser. v,p. 193. 5 Ivi p. Sol.
làaBaHBBsasaasa XXXZ'/Z/. «♦- A'/AZY.Y (IX XUI
m ;_i lira vz. 7 ’ LII fC)
i Ouj/ IsUcAenni. eli/ T £,J\ T. L/A'
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T^reiir. ir**:-Jàz-j:. amiBft'igwpcj
&r. CJI. v ~ Grice e Musonio (Bolsena) G. MUSONIO
RUFO C. Musonio Rufo esercita un forte influsso sui contemporanei. Di
famiglia equestre dell’etrusca Volsini (Bolsena) suscita per la sua fama di
filosofo l’invidia di Nerone. C. MUSONIO RUFO segue Rubellio
Plauto nell'Asia Minore e lo incoraggia a togliersi la vita quando Nerone lo
condanna a morte. Ritorna a Roma, dove e bandito insieme
con Cornuto in occasione della congiura di Pisone e
confinato nell’isola di Gyaros nelle Cicladi, ove per la sua rinomanza attira
uditori da ogni parte.Verosimilmente richiamato a Roma da GALBA, negli
ultimi giorni di Vitellio si une ad una ambasceria del Senato presso Antonio
Primo per perorare la causa della pace fra i suoi soldati, ma senza successo.Quando
VESPASIANO assunse il potere, C. Musonio Rufo accusa davanti al Senato P.
Egnazio Celere, quale delatore e falso testimonio nel processo di Borea Sorano.
Vespasiano lo escluse dalla prima espulsione dei filosofi da Roma (71), ma poi
lo esiliò per la seconda volta ; però Tito, che già lo aveva conosciuto,
lo richiamò dopo la sua assunzione al trono. In seguito mancano notizie su di
lui, ma da una lettera di Plinio il Giovane sembra che nel 101-102 non fosse
più in vita. Non risulta che abbia composto e pubblicato seritti, anzi sembra
che si sia servito soltanto dell’insegnamento orale, del quale, però, rimangono
frammenti abbastanza numerosi. Essi comprendono : 19 brevi apoftegmi conservati
da Plutarco, da Aulo Gellio e dallo Stobeo ; 2° altri apoftegmi e trattazioni
filosofiche relaivamente ampie raccolti da Epitteto nelsuo insegnamen-È e
trasmessi i primi da Arriano, le seconde dallo Stobeo ; 3° esposizioni o
lezioni che si trovano nello Stobeo o costituiscono la parte più estesa dei
frammenti. È verosimile che provengano da uno scritto di quel Lucio che si è
già ricordato e che si deve ritenere la fonte più importante dello Stobeo ;
un’altra è Epitteto, cioè Arriano. Sembra che un Pollione (probabilmente
Valerio Pollione da Alessandria, vissuto sotto Adriano) abbia composto
Memorabili di Musonio, ma non ne restano tracce. È giudicata falsa una lettera
di Musonio a un certo Paneratide. Le concordanze che si sono osservate tra i
frammenti di Musonio e il Pedagogo di Clemente di Alessandria hanno fatto
pensare o alla dipendenza di questo da uno seritto di Lucio o alla derivazione
di ambedue da una fonte più antica. Della forte azione di Musonio sui
contemporanei sono prova i suoi numerosi scolari, tra i quali si ricordano
(oltre al genero Artemidoro, amico e maestro di Plinio il Giovane), i filosofi
Epitteto, Dione di Prusa, Eufrate di Tiro e il suo scolaro Timocerate di
Eraclea, e insigni romani, come Rubellio Plauto, forse Borea Sorano e Minicio
Fundano, Musonio si avvicina ai cinici nell’assegnare alla filosofia finalità
radicalmente etico-pratiche, accetta spunti dell’ascetismo neo-pitagorico, ma
nel complesso dipende dallo Stoicismo con influssi posidoniani. Nel sno
insegnamento non trascurò le esercitazioni logiche e i frammenti toccano
argomenti di fisica, ma ciò che vi è detto degli Dei, designati con le
denominazioni della religione tradizionale, non supera la sfera del pensiero
comune e non ha carattere filosofico determinato : invece riporta allo
Stoicismo l'affermazione della necessità universale, che equivale alla teoria del
fato. Però l'interesse di Musonio si concentra sulla funzione pratica della
filosofia, che è assolutamente necessaria in quanto (secondo la tesi introdotta
dai cinici nel I secolo a. C. e poi generalmente accettata) gli uomini sono
malati che richiedono una cura continua la quale dev'essere prestata dalla
filosofia, che perciò è necessaria a tutti, alle donne non meno che agli uomini
: essa però è identificata alla ricerca e alla realizzazione della virtù, per
conseguire la quale non vi è necessità di molti discorsi, nè di molte teorie ;
inoltre, in essa l'esercizio ha maggiore importanza dell’insegnamento (o del
discorso). Siccome la natura ha posto in ogni uomo i germi della virtù, se il
discepolo non è stato corrotto, una breve dimostrazione è sufficiente per
fargli riconoscere i principi etici giusti. Ciò che soprattutto importa è
che maestro e discepolo uniformino la loro condotta ai propri principi. Si
comprende che Musonio si interessasse in primo luogo della formazione etica
degli scolari. Nell’insieme, la morale di Musonio si conforma alle
dottrine tradizionali della sua scuola. Occorre distinguere ciò che è e ciò che
non è in nostro potere: ora da noi dipende soltanto l’uso delle
rappresentazioni, cioè l'assenso dato alle opinioni sul bene e sul male, dalle
quali è determinata la giusta valutazione delle cose e quindi l'intenzione
quale atteggiamento interiore della volontà; in essa, se è retta, consiste la
libertà, la virtù, la felicità. Tutto il resto non dipende da noi | e perciò
rispetto ad esso, ossia alle cose esterne, dobbiamo rimetterci all’ordine
necessario dell'universo e aecettare volentieri ciò che arreca. Soltanto la
virtù è bene, soltanto la malvagità è male e ogni altra cosa è indifferente.
Però, per rafforzare la volontà, Musonio ‘ riteneva necessario, oltre
l'insegnamento e l’esercizio morale, anche l’indurimento fisico, perchè,
essendo il corpo uno strumento indispensabile dell’anima, occorre rafforzare
ambedue. In generale raccomanda, avvicinandosi al Cinismo, la vita semplice e
conforme alla natura e accoglie dal Neo-Pitagorismo il divieto dei cibi
carnei. Oltrepassando le opinioni di molti stoici antichi, esige una vita
morale severissima, raccomanda il matrimonio, condanna la limitazione delle
nascite e l’esposizione dei figli. Nell'insieme, i frammenti di Musonio
rivelano un’anima nobile e retta, appassionata per il bene e guidata dal
desiderio di educare gli spiriti, ma a queste doti non corrisponde il valore
scientifico degli insegnamenti, perchè i suoi pensieri sono molto mediocri e
privi di originalità ; inoltre non si può trovare nelle sue parole
l’espressione di una visione della vita vi- brante di dolore e di amore simile
a quella di Seneca. aio Musonio Rufo. Gaio Musonio Rufo (Volsinii) è
un filosofo romano. Frammento di papiro (P.Harr. I 1, Col.), con
parte di una diatribe. Sulla vita di Gaio Musonio Rufo, stoico, si posseggono
poche notizie certe. È noto che nacque a Volsinii, corrispondente all'odierna
Bolsena, in Etruria, che fu cavaliere. Il ‘prae-nomen’ Gaio lo conosciamo solo
attraverso Plinio il minore che ci fornisce anche un’altra notizia su una sua
figlia (presumibilmente chiamata Musonia, secondo l’uso romano), sposata ad
Artemidoro, al quale Plinio presta aiuto anche per stima e affetto nei
confronti del suocero. Sappiamo dalla voce “Mousonios” della Suda che Musonio e
figlio di Capitone ma non abbiamo altre notizie sulla sua famiglia, che era
comunque di origine etrusca. In effetti, il nomen “Musonius” denotare la gens,
e viene indicato da alcuni studiosi della lingua etrusca come forma latina di
un gentilizio etrusco “Musu,” “Muśu-nia.”. E capo a Roma di un circolo o
gregge filosofico e si dedica anche alla politica, con idee abbastanza
tradizionali e moderate. Fa parte del gruppo creatosi intorno a Rubellio
Plauto, un discendente della famiglia Giulia. Quando Rubellio Plauto e
allontanato da Roma in via precauzionale da Nerone, Musonio lo segue in Asia.
Due anni dopo giunge l'ordine del principe di eliminare Rubellio Plauto.
Musonio ritorna a Roma, ma, in concomitanza
della congiura di Pisone, e mandato in esilio, in quanto allievo di Seneca,
nell'isola di Gyaros, inospitale e rocciosa nel Mar Egeo. Indicativi
della sua integrità morale e della sua coerenza sono altri due momenti della
sua vita, entrambi riportati da Tacito nelle Storie. Dopo essere ritornato
dall’esilio, forse grazie a GALBA, con il quale sembra fosse in amicizia, nella
fase finale della guerra civile seguita alla morte di Nerone, Musonio si rese
protagonista di un primo episodio significativo, rivelatore della sua generosa
attitudine a mettere in pratica i principi morali e gli ideali di pace che
insegna. In una Roma che era teatro di violenti scontri tra le fazioni avverse,
il filosofo di Volsinii si impegna a svolgere un’improbabile opera di
pacificazione. “S’era mescolato agli ambasciatori Musonio Rufo, di ordine
equestre, zelante filosofo e seguace dei precetti dello stoicismo, ed in mezzo
ai manipoli prendeva ad ammonire gli uomini armati con le sue disquisizioni sui
beni della pace e sui mali casi della guerra. Ciò fu per molti motivo di
scherno; per la maggioranza, di fastidio. E non mancava chi l’avrebbe spinto
via o l’avrebbe calpestato, se, dietro consiglio dei più equilibrati e fra le
minacce di altri, non avesse deposto la sua inopportuna esposizione di
saggezza.” Il secondo episodio, ci presenta Musonio Rufo impegnato nella
riabilitazione della memoria dell’amico Barea Sorano, che era stato sottoposto
a processo e condannato a morte insieme alla figlia Servilia e a Trasea Peto.
Contro di lui era stata resa una falsa testimonianza da parte del suo stesso
maestro, Publio Egnazio Celere, anche lui appartenente alla corrente stoica.
Musonio, che pure nei suoi insegnamenti si dichiarava contrario ad intentare
cause per difendere se stesso dalle offese ricevute, in questo caso non esita
ad accusare in Senato il traditore per difendere la memoria dell’amico
condannato ingiustamente. Come scrive Tacito: “Allora Musonio Rufo attacca
Publio Celere, accusandolo di aver attaccato Barea Sorano con una falsa
testimonianza. Evidentemente con quell’accusa si rinnovavano gli odii delle
delazioni. Ma l’accusato, vile e colpevole, non poteva essere difeso. Di Sorano
e santa la memoria. Celere, che fa professione di sapienza, testimoniando
contro Barea, ha tradito e violato l’amicizia.” Musonio porta avanti con
tenacia il suo impegno, che e coronato da successo. “Fu deciso allora di
ri-aprire il processo tra Musonio Rufo e Publio Celere: Publio venne condannato
ed ai mani di Sorano e resa soddisfazione. Quel giorno, che si distinse per la
severità dei magistrati, non manca nemmeno di elogi ad un cittadino privato. Si
era, infatti, del parere che Musonio avesse agito con giustizia in tribunale.
Opinione ben diversa si ha di Demetrio, seguace della scuola cinica, in quanto
aveva difeso, più per ambizione che con onore, un reo manifesto. Quanto a
Publio, non ebbe né animo, né eloquenza sufficienti in quel frangente.»
Più tardi Musonio riusce a guadagnarsi la stima di VESPASIANO evitando la
cacciata dei filosofi. Ci e però un secondo esilio e, dopo il suo rientro a
Roma, voluto da TITO, le fonti tacciono. Potrebbe essere stato espulso da Roma,
assieme agli altri filosofi, a causa di un senatoconsulto sollecitato da
DOMIZIANO, che fa uccidere Aruleno Rustico e cacciare Epitteto e altri. Da
un'epistola di Plinio minore si apprende che egli non era più in vita. Si
proclama suo discendente il poeta Postumio Rufio Festo Avienio. Probabilmente
in modo volontario, sull'esempio di Socrate o Grice e come fa anche il discepolo
Epitteto, non lascia nulla di scritto. I principi della sua predicazione
filosofica si ricavano da una raccolta di diatribe dovuta a un discepolo di
nome Lucio, di cui 21 ampi estratti sono conservati nell'Antologia di Stobeo.
Essi sono intitolati: “Che non è necessario fornire molte prove per un
problema” “Su chi nasce con un'inclinazione verso la virtù” “Che anche le donne
dovrebbero studiare filosofia” “Se le figlie debbano ricevere la stessa
educazione dei figli maschi” “Se è più efficace la teoria o la pratica” “Sul
praticare la filosofia” “Che si dovrebbero disprezzare le difficoltà” “Che
anche un principe deve studiare filosofia” “Che l'esilio non è un male” “Il
filosofo perseguirà qualcuno per lesioni personali?” “Quali mezzi di
sostentamento sono appropriati per un filosofo?” “Sull'indulgenza sessuale”
“Qual è il fine principale del matrimonio” “Il matrimonio è un ostacolo per la
ricerca della filosofia?” “Ogni bambino che nasce dovrebbe essere allevato?”
“Bisogna obbedire ai propri genitori in tutte le circostanze?” “Qual è il
miglior viatico per la vecchiaia?” “Sul cibo” “Su vestiti e riparo” “Sugli
arredi” “Sul taglio dei capelli”. Lo stile delle diatribe è semplice. In genere
viene posta una questione iniziale, poi sviluppata con chiarezza durante il
testo, spesso costruito in modo figurato, usando metafore e similitudini
(spesso sfrutta il paragone con il medico, alcune volte intervengono immagini
di animali). Questa caratteristica si adatta bene alla sua personalità e al suo
tipo di insegnamento, tutto rivolto alla schiettezza della vita. Ci
restano, inoltre, frammenti minori, spesso in forma di apoftegma. A parte
quelli sempre di Stobeo (in numero di 14), due frammenti conservati da Plutarco
sono brevi aneddoti che potrebbero essere definiti come "detti
celebri", mentre tre brani di Aulo Gellio conservano detti memorabili ed
un quarto è lungo abbastanza da rappresentare la sintesi di un intero discorso.
C'è, poi, un aneddoto in Elio Aristide ed Epitteto ne racconta una mezza
dozzina (11, per la precisione). Restano, inoltre, due epistole, concordemente
ritenute spurie. Musonio rappresenta, con Epitteto, il principe
Marc’Aurelio Antonino e Seneca, uno dei quattro esponenti più significativi del
portico romano del principato. Egli, se per certi versi corrisponde appieno
alle istanze propugnate dalla temperie spirituale del suo tempo, per altri si
distingue e mette in luce, soprattutto per il recupero radicale e profondo di
una filosofia intesa come arte del vivere bene e onestamente, cioè mezzo per
conseguire uno scopo riscontrabile nei fatti. Il ruolo della filosofia
Egli crede che la filosofia (stoica) fosse la cosa più utile, in quanto ci
persuade che né la vita, né la ricchezza, né il piacere sono un bene, e che né
la morte, né la povertà, né il dolore sono un male; quindi questi ultimi non
sono da temere. La virtù è l'unico bene, perché da sola ci impedisce di
commettere errori nella vita. Del resto, sembra che solo il filosofo si occupi
di studio della virtù. La persona che afferma di studiare filosofia deve
praticarla più diligentemente di chi studia medicina o qualche altra attività,
perché la filosofia è più importante e più difficile da comprendere di
qualsiasi altra occupazione. Questo perché, a differenza di altre abilità, le
persone che studiano filosofia sono state corrotte nella loro anima da vizi e
abitudini sconsiderate, imparando cose contrarie a ciò che impareranno in
filosofia. Ma il filosofo non studia la virtù soltanto come conoscenza teorica.
Piuttosto, Musonio insiste sul fatto che la pratica è più importante della
teoria, poiché la pratica ci porta all’azione in modo più efficace della
teoria. Sostene che sebbene tutti siano naturalmente disposti a vivere senza
errori e abbiano la capacità di essere virtuosi, non ci si può aspettare che
qualcuno che non abbia effettivamente imparato l'abilità di vivere
virtuosamente viva senza errori più di qualcuno che non è un medico esperto, un
musicista , studioso, timoniere o atleta ci si poteva aspettare che
praticassero quelle abilità senza errori. In una delle sue diatribe, si
racconta il consiglio che offrì a un re in visita, dicendogli che deve
proteggere e aiutare i suoi sudditi, quindi sapere cosa è buono o cattivo,
utile o dannoso, utile o inutile per le persone. Ma diagnosticare queste cose è
proprio il compito del filosofo. Poiché un re deve anche sapere cos'è la
giustizia e prendere decisioni giuste, il principe studia filosofia, anche per
possedere autocontrollo, frugalità, modestia, coraggio, saggezza, magnanimità,
capacità di prevalere nel parlare sugli altri, capacità di sopportare il dolore
e deve essere privo di errori. La filosofia, sosteneva Musonio, è l'unica
disciplina che fornisce tutte queste virtù. Per dimostrare la sua gratitudine
il re gli offrì tutto ciò che desiderava, al che il filosofo chiese solo che il
re aderisse ai principi stabiliti. Musonio sosteneva che, poiché l'essere
umano è fatto di corpo e anima, dovremmo allenarli entrambi, ma quest'ultima
richiede maggiore attenzione. Questo duplice metodo richiede l’abituarsi al
freddo, al caldo, alla sete, alla fame, alla scarsità di cibo, a un letto duro,
all’astensione dai piaceri e alla sopportazione dei dolori. Questo metodo
rafforza il corpo, lo abitua alla sofferenza e lo rende idoneo ad ogni compito.
Crede che l'anima fosse rafforzata in modo simile sviluppando il coraggio
attraverso la sopportazione delle difficoltà e rendendola autocontrollata
astenendosi dai piaceri. Musonio insisteva sul fatto che l'esilio, la povertà,
le lesioni fisiche e la morte non sono mali e un filosofo deve disprezzare
tutte queste cose. Un filosofo considera l'essere picchiato, deriso o sputato
come né dannoso né vergognoso e quindi non avrebbe mai litigato contro nessuno
per tali atti, secondo Musonio. L'opposizione di Musonio alla vita lussuosa si
estendeva alle sue opinioni sul sesso. Pensa che gli uomini che vivono nel
lusso desiderano un'ampia varietà di esperienze sessuali, sia legittime che
illegittime, sia con donne che con uomini. Osserva che a volte gl’uomini licenziosi
perseguono una serie di partner sessuali maschili. A volte diventano
insoddisfatte dei partner sessuali maschili disponibili e scelgono di
perseguire coloro che sono difficili da ottenere. Musonio condanna tutti questi
atti sessuali ricreativi. Insiste sul fatto che solo gli atti sessuali
finalizzati alla procreazione all’interno del matrimonio sono giusti. Denuncia
l'adulterio come illegale e illegittimo. Giudica i rapporti omosessuali un
oltraggio contro natura. Sosteneva che chiunque sia sopraffatto dal piacere
vergognoso è vile nella sua mancanza di autocontrollo. Musonio difende
l'agricoltura come un'occupazione adatta per un filosofo e nessun ostacolo
all'apprendimento o all'insegnamento di lezioni essenziali. Gli insegnamenti
esistenti di Musonio sottolineano l'importanza delle pratiche quotidiane. Ad
esempio, ha sottolineato che ciò che si mangia ha conseguenze significative.
Crede che padroneggiare il proprio appetito per il cibo e le bevande fosse la
base dell'autocontrollo, una virtù vitale. Sostene che lo scopo del cibo è
nutrire e rafforzare il corpo e sostenere la vita, non fornire piacere.
Digerire il cibo non ci dà alcun piacere, ragiona, e il tempo impiegato a
digerire il cibo supera di gran lunga il tempo impiegato a consumarlo. È la digestione
che nutre il corpo, non il consumo. Pertanto, concluse, il cibo che mangiamo
serve al suo scopo quando lo digeriamo, non quando lo gustiamo. Musonio
sostenne la sua convinzione che le donne dovessero ricevere la stessa
educazione filosofica degli uomini con i seguenti argomenti. In primo luogo,
gli dei hanno dato alle donne lo stesso potere di ragione degli uomini. La
ragione valuta se un'azione è buona o cattiva, onorevole o vergognosa. In
secondo luogo, le donne hanno gli stessi sensi degli uomini: vista, udito,
olfatto e il resto. In terzo luogo, i sessi condividono le stesse parti del
corpo: testa, busto, braccia e gambe. Quarto, le donne hanno un uguale
desiderio per la virtù e una naturale affinità con essa. Le donne, non meno
degli uomini, sono per natura compiaciute delle azioni nobili e giuste e
censurano il loro contrario. Pertanto, concluse Musonio, è altrettanto
appropriato che le donne studino filosofia, e quindi considerino come vivere
onorevolmente, quanto lo è per gli uomini. Suda μ 1305: «Figlio di
Capitone, etrusco, della città di Volsinii; filosofo dialettico e stoico,
vissuto ai tempi di Nerone, conoscente di Apollonio di Tiana e di molti altri.
Ci sono anche lettere che sembrano provenire da Apollonio a lui e da lui ad Apollonio.
Naturalmente per la sua schiettezza, le sue critiche e il suo eccesso di
libertà fu ucciso da Nerone. Numerosi sono i discorsi filosofici che portano il
suo nome e anche le lettere» (trad. A. D'Andria). Epistole, III, 11. Di origine
etrusca: cfr. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, VII 16. Cfr. M. Pittau,
Dizionario della Lingua Etrusca (DETR), Dublino, Ipazia Books. Tacito, Annales,
XIV, Epitteto, Diatribe, III 15, 14. Storie, III 81. Storie, IV 10. Cassio
Dione, LXVI, 13. Girolamo, Chronicon, a. 2095: «Titus Musonium Rufum
philosophum de exilio revocat»; Temistio (Orationi, XIII, 173c), inoltre,
attesta l'amicizia tra Tito e Musonio. A. Cameron, Avienus or Avienius?, in
"Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik". L'attribuzione è data nell'estratto XV Hense:
sicuramente questo Lucio era un allievo di Musonio, e uno specifico riferimento
in cui Musonio parla da esule a un esule rivela che anche Lucio partecipò al
bando del suo maestro. Per la datazione, nella diatriba VIII (60, 5) Lucio
riporta una conversazione di Musonio con un re siriano e dice, tra parentesi,
che c'erano ancora re in Siria a quel tempo, vassalli dei romani. Dato che
l'ultima dinastia di sovrani siriani fu detronizzata nel 106 d.C., Lucio deve
aver scritto qualche tempo dopo questa data. nell'edizione Hense del 1905. Una
delle due è una lunga lettera scritta da Musonio a Pancratide sul tema
dell'educazione dei suoi figli (dell'edizione Hense). Diatriba VIII Hense. Cfr.
anche il detto «Un re dovrebbe voler ispirare soggezione piuttosto che paura
nei suoi sudditi. La maestà è caratteristica del re che incute timore
reverenziale, la crudeltà di quello che ispira paura» (in Stobeo). A differenza
del suo allievo Epitteto, che mostrava disprezzo per il corpo, Musonio
sottolinea l'interdipendenza tra anima e corpo. Questa visione, del tutto
coerente con il panteismo stoico, non è estranea al pensiero neoplatonico.
Diatribe III e IV Hense; cfr. M. C. Nussbaum, The Incomplete Feminism of
Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman, in The Sleep of Reason. Erotic
Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome, ed. M. C. Nussbaum and
J. Sihvola, Chicago, The University of Chicago Press. Bibliografia C. Musonii
Rufi reliquiae, edidit O. Hense, Lipsia, Teubner, Cora Lutz, Musonius Rufus, the
Roman Socrates, in Yale classical studies. J. T. Dillon, Musonius Rufus and Education in the Good
Life: A Model of Teaching and Living Virtue. University Press of America.
Renato Laurenti, Musonio, maestro di Epitteto, in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt. Berlino, Walter de Gruyter, Cynthia King, (Musonius Rufus:
Lectures and Sayings. Edited by William B. Irvine. CreateSpace. DOTTARELLI,
Musonio l'etrusco. La filosofia come scienza di vita, Roma, Annulli editori,
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Italiana. Modifica su Wikidata Guido Calogero, MUSONIO Rufo, Caio, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1934. Modifica su
Wikidata Musonio Rufo, Gaio, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata (EN) Gaio Musonio Rufo,
su Internet Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Gaio
Musonio Rufo, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata V · D · M
Stoicismo Portale Antica Roma Portale Biografie Categorie: Filosofi
romani Filosofi Romani Stoic i[altre]. Luciano Dottarelli. Dottarelli. Keywords:
l’implicatura di Musonio, Musonio, Etruscan influence on Roman philosophy, Why
Roman philosophy is not Greco-Roman – The Etrurian connection. Etrurian as
‘antique’ – Etrurian as exotic for Indo-European Aryan Latins (Romans). Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Dottarelli” – The Swimming-Pool Library. Dottarelli. Dottarelli.
Grice e Drimonte:
la setta di Caulonia -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to Giamblico.
Grice e Duni: l’implicatura conversazionale della
costume, o sia, sistema di dritto [sic] universal – il diritto romano
universalizzabile -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo italiano. Grice: “I like
Duni; but of course he errs, as Kant does – for how can a ‘sitte’ a mere
costume, become ‘universal’ – yet that’s the oxymoronic title of his tract,
‘scienza dei costume, ovvero, diritto universale’. Figlio di Francesco, maestro
di cappella della cattedrale di Matera, e fratello dei compositori Egidio Romualdo
ed Antonio, nell'ambiente familiare impara la musica scrivendo anche alcune
composizioni da gravicembalo, pur se non seguì le orme dei fratelli maggiori in
campo musicale, e fu avviato agli studi religiosi nel Seminario della città di
Matera. Si laurea in Napoli. Torna a Matera dove aveva già intrapreso la
pratica di avvocato presso la Regia Udienza e dove, chiamato da Lanfranchi, fu
insegnante presso il Seminario; lo stesso Palazzo del Seminario divenne in
seguito sede del Liceo Classico di Matera, che fu a lui intitolato. Dopo la
morte del padre, lascia Matera trasferendosi dapprima a Napoli e
successivamente a Roma. Presso
l'Università degli Studi La Sapienza fu docente di diritto canonico e di
diritto civile, e pubblica un Commentarius in cui esponeva la dottrina
giuridica del codicillo, con una dedica a Benedetto XIV che in seguito lo
sostenne nella sua nomina alla cattedra universitaria; a Roma entrò in contatto
con le opere di Vico, del quale divenne un convinto sostenitore. Eleggendo Vico
a suo maestro, si propose di realizzare un programma di diritto universale come
fonte di tutte le leggi e costumi umani. Partendo dalla sua formazione
cattolica, crede in Dio creatore del mondo e suo legislatore, e non distinse
l'etica e la giurisprudenza considerandole integrative in quanto tendenti allo
stesso fine, cioè a dare il senso della vita, e quindi facenti parte entrambe
della filosofia. Nacque così il “Saggio sulla giurisprudenza universale”; sua
opera fondamentale, dedicato al promotore della politica riformatrice del Regno
meridionale, il ministro Tanucci. Il “Saggio” indica esclusivamente nel vero il
principio unitario delle conoscenze umane, a cui ricondurre anche la fondazione
delle scienze morali. Il bene o vero morale (Cicerone e buono), che differisce
dal vero metafisico perché comporta anche l'elezione volontaria del vero
conosciuto, si esprime come onestà e come giustizia. La morale propone
l'honestum, cioè il bene secondo coscienza, e opera dall'interno, invece il
diritto indica la via per andare al giusto, regolando i rapporti tra gli
individui o soggetti e quindi la vita sociale. Successivamente al Saggio, scrisse
un'opera sul rapporto tra filosofia e filologia nell'ambito della storia di
Roma, ed in seguito una Risposta ai dubbi proposti da Finetti in cui
polemizzava contro Finetti difendendo la memoria del Vico. Pubblica a Napoli la
“Scienza del costume o Sia sistema del diritto universale”, dedicata a Antonelli,
in cui prosegue l'opera iniziata con il Saggio. Opere: “De veteri ac novo iure
codicillorum commentaries; “Saggio sulla giurisprudenza universale”; “Origine e
progressi del cittadino e del governo civile di Roma”; “Scienza del costume o sia sistema del
diritto universale”. LA A falſa comune
opinione adotta ta co me un'affioma dai Politici, che le So cieti Civili
naſcono colla forma di Governo Monarchico, diede occaſione non meno agli
antichi, che moderni Scrittori della Storias Romana di formare di queſta
Nazione tutt ' altra idea di quella, che fu realmente. I vo caboli di Re e di
Regno appreſi nel ſenſo di quei tempi, in cui viſſero gli Storici, quando già
fioriva in Roma la Monarchia, gli traſportarono a credere, che il Governo
cominciaſſe fin dal tempo di Romolo colla, forma Monarchica. Taluni peraltro
convinti da’ fatti contrari della Storia furono obbligati a confeflare che ne'
primi tempi di Roma quantunque regnaffe la Monarchia, pure.que Ita non poteſſe
dirá alſoluta ma che folle accom accompagnata, e mifta di Ariſtocrazia, ' é,
Democrazia; ' e che in conſeguenza i Patrizi inſieme co ' Plebej
rappreſentaſsero qualche dritto nel Governo, di cui peraltro la ſomma foſse
preſso de' Re. L'Idea adunque che tam luni Scrittori fecero del Governo di Roma
fin dal fuo nafcere, fu di conſiderare Romolo co'ſuoi Succeſsori o per veri
Monarchi; o per Monarchi, che aveſsero comunicato parte dell'amminiſtrazione ai
due Ceti di Patrizi, e Plebej, riputando i Patrizi e Senatori, come Ceto di
Cittadini illuſtri ricchi e favj, im piegati dai Re nelle cariche più gelofe
del lo Stato, ed i Plebej per Ceto anche di Cit tadini ma ignoranti e vili, che
ſerviſsero per le faccende ruſtiche, e per la guerra; e che aveſsero qualche
parte anche ne' pubblici affari. Venne, come diſi, tal falfa opinione fo
ſtenuta da quel comune errore, che tutte le Società Civili non poſsano
altrimenti comin ciare, fe non con la forma Monarchica, non fapendo eſli
immaginare con qual altra for ma di Governo poſsa mai unirli, e comporli B un > 7 un Ceto di famiglie a convivere
tra loro, ed a formare un corpo. Imperciocchè, dico no efli, non è poſſibile di
concepire il prin cipio di tal unione, ſenzachè qualcuno di eſſi, o per
violenza, o per fraudolente ambizione induca gli altri alla di lui foggezione e
Si gnoria; tantoppiù che non ſi faprebbe in al tra maniera immaginare, come i
Padri di fa miglia, i quali prima di entrare in Società Ci vile, facendo ſenza
dubbio la figura di Mo narchi nella propria famiglia, pofsano ſenza il mezzo
della violenza, o dell'inganno, ab bandonare la propria Signoria col
foggettarfi al Governo Civile. Su queſta mal fondata, opinione incontrandoſi
nel fatto della Nazio ne Romana, in cui intefero parlare di Re, e di Regno nel
ſenſo appreſo di Monarca, e Monarchia non dubitarono punto di defi nire il
Governo fotto Romolo, e Tuoi fuccef fori per Monarchico. Ma poichè i fatti
ſteſſi della Storia realmente non s'uniformano all ' Idea di una perfetta
Monarchia, furono co ftretti ad ainiettere una Mon: irchia mitta di
Ariſtocrazia inſieme, e Democrazia. Tutte Tutte le ragioni politiche, che
ſogliono ads durſi dagli Scrittori nel pretendere, che le So cietà Civili non
poſſano altrimenti nafcere che colla forma Monarchica, fono a mio giu dizio
tanto lontane dal dimoſtrarla, che anzi provano tutto il contrario, cioè, che
la unione de' Padri di famiglia, nel comporre la Società Civile, debba
neceſsariamente pro durre forma di Governo Ariſtocratico, e non Monarchico;
poichè fe effi non fanno im maginare, come tali particolari Monarchi di
famiglia poſsano ſoggettarſi alla pubblica, Podeſtà ſenza frode o violenza di
qualcuno di loro, io al contrario non ſo concepire,.come tal violenza o frode
d' un ſolo por fa eſser valevole ad obbligare un Ceto in tiero di Padri di famiglia
avvezzi a ſignoreg. giare in caſa propria per ſoggettarſi al Mo narca,
Qualunque voglia figurarfi la frode o la violenza d'un folo, egli è chiaro che
tali mezzi non faprebbero indurgli a foffrire di buon animo un totale
cambiamento di con dizione, quanto, lo è il paſsare da quella, in cui
trovavanli di Signori aſsoluti, a queſta di B 2 fud E fudditi, trattandoſi di
cambiare condizione in tieramente oppofta; ed ognun fa, quanto rin.: creſce al
Signore il paſſare di fatto dallo ſta to di comandare a quello di ubbidire. Che
ſe mi diceffero, che ciò nafce dalla violenza, cui non ſi può reſiſtere, io gli
riſpondo, che nei naſcimenti delle Repubbliche la for za d'un ſolo non è, ne
può eſſere parago nabile alle forze unite di tanti Padri di fa miglia, quanti
converranno ä formare la So cietà. Sicchè tanto è fupporre, che la forza d'un
folo baſti per opprimere gli altri, quan to è dire, che molti non fiano in
grado di vincere la violenza d' un folo; ciò che o non è affatto poſſibile, o
almeno lo potrà eſſere in qualche caſo troppo raro, e ſtravagante; ma la
ſtravaganza e la rarità non può in durre un ſiſtema generale. Quindi il preten
dere, che le Società Civili debbano necella riamente cominciare colla forma di
Governo Monarchico, è lo ſteſso, che fupporre la violenza, o la frode d' un
folo maiſempre ſuperiore alla forza, ed alla deſtrezza di mol ti; e ciò non
baſta, perchè biſognerebbe an che > 1 che ſupporre, che al numero di molti
non fc gli preſenti mai occaſione favorevole per re fiftere, e liberarſi dall'
uſurpato potere di un ſolo; cioche realmente s’oppone ad ogni no ftra
immaginazione. Se poi vorranno fingere, che dopo la violenza, o frode uſata dal
Mo narca per ſoggettare gli altri, poffa ſeguire il compiacimento degli ſteſſi
ſoggetti, forſe perché il Monarca ſia dotato di virtù tali, che baſtino ad
innamorargli, oltreché une tal ſupporto non ſi può ammettere general, mente,
incontra il maſſimo oſtacolo di non poterſi concepire, come gli Uomini avvezzi
a dominare poſſano cosi preſto invogliarſi della condizione oppofta di ubbidire
per qualunque ammirazione di virtù nella perſona del Moia. narca. Ma poi non è
poſſibile il concepire nel Monarca virtù degna di ammirazione preſo co loro,
che naturalmente, non fanno ſpogliarli di fatto del proprio carattere di
dominare, ſenzaché entrino almeno a parte della pub blica amminiſtrazione; fe
pure non vogliamo fingerli per Uomini affatto ftolidi ed alieni dalla maſſima
delle Umane paſſioni. B 3 Qui Qui potrei co ' monumenti pervenutici de gli
antichiſsimi Popoli dimoſtrare col fatto l? inſuffiſtenza di un tal ſentimento
dei Politici col riconoſcere nelle origini delle Nazioni tutt altra forma di
Governo, che la Monar chica; e che laddove eſli ſuppongono, che la Monarchia
ſia ſtata la prima a forgere nel le Società Civili, fi troverà maiſempre l'ulti
tima a venire dopo l' Ariſtocrazia, e Demo- ' crazia; perché la naturalezza
delle Umane vicende è tale, che i Padri di Famiglia nel formare la Società
Civile dovendo decadere da quella podeſtà afloluta, che eſercitavano in Caſa,
cercheranno di cedere il meno che ſia poſſibile dell'antica Signoria; poichè
l'Uo mo per natura non fa mutarſi di fatto da, uno ſtato ad un altro
direttamente oppoſto al primo, e perciò quando trovali nella contin genza di
dover paſſare da una condizione ſuperiore all' inferiore, procura ſempre di
paſſarci per gradi, e non di ſalto. Quin di è, che fe vogliamo ragionare a
ſeconda, dell'idee Umane, dobbiam dire, che tali Pa dri di famiglia qualora li
vedranno obbligati dalla dalla neceſſitii di laſciare la Monarchia del ta loro
famiglia, ſebbene converranno vo lentieri in Società Civile per trovare mag
gior ſicurezza coll'erezione della poteſtà pub blica compoſta di forze unite, e
per confi gliare ai vantaggi, e comodi della vita; pu Te non ſi diſporranno mai
a cedere dell'anti ca poteſta, fe non quanto biſogna per reg gerſi il Corpo
Civile, e quanto meno liane poflibile di quella dominazione, che lafciano. Or
la forma di governo, che dovranno fce gliere, farà certamente l'Aristocratica,
come quella, in cui fi cede il meno dell'anticas Signoria, formandoſi una
Podeſtà pubblica che riſiede nondimeno preſſo gli iteſi mem bri, che la
compongono, e nel tempo ſtello col Governo Ariſtocratico ſieguono a ſignorega
giare ſul Volgo, e ſulla Plebe, che ſi ricovera ſotto la loro protezione. Che
ſe poi vorremo fare un' efatto giudizio, come coll' andar del tempo dall'una
forma di Governo ſi fuol para ſare all'altra, poſſiamo qul accennare breve.
mente, che ſtabilitaſi la Societ: Civile nella ſua origine colla forma
Ariſtocratica, che dee ellere 1 B 4 priva d'ogni dritto Civile i Indi
l'oppreſſo eſsere la prima a naſcere, gli Ottimati na turalmente faranno
traſportati dall’amor pro prio ad opprimere, e tirannizzare il Volgo, o ſia la
Plebe, che ricoverandoſi ſotto la lo ro protezione, per ſoſtentare la vita,
rimane Volgo creſciuto in numero, maſſime col mez zo della procreazione, pel
deſiderio iſpiratoci dalla Natura di fottrarci dall' altrui tirannia, cogli
ammutinamenti e ſedizioni cerca di li berarſene; e quindi avviene, che dall'
Ari ftocrazia ſi paſſa alla Democrazia. Finalmente il Popolo tutto reſo
partecipe del Governo, naturalmente ſi divide in fazioni, le quali agi tandoſi
continuamente tra loro, non trovano altro ſcampo per ſalvarſi dalle guerre
Civili, che di ricoverarſi ſotto la Monarchia. E que Ito ſembra il corſo
ordinario e naturale delle Origini e de' progreſſi delle Nazioni tutte uniforme
altresì alle memorie pervenuteci del le antichiſſime Nazioni. Ma per non
partirci dal noſtro argomento, ci conviene di fermarci ſull' eſame del Go verno
Civile di Roma. E ſulla prima fa duo po po di ſviluppare dalle tante incoerenze,
che troviamo nella Storia, quella prima forma di Governo, che venne iſtituita
ſotto Romolo nel naſcimento della Città Romána. Dicia ino adunque, che la prima
forma diGover no iſtituita fin dal tempo di Romolo tanto è lungi, che fofle
ftata Monarchica, o miſta di Monarchia, che anzi ſi riconoſce chiaramen te
Ariſtocratica delle più feverè, che mai li poſſa immaginare, come realmente lo
furono le Nazioni tutte nei loro forgimenti. E pri mieramente l'efferſi
attribuita a Romolo, e ſuoi Re fucceffori la Monarchia, nacque fo vratutto,
come diſli, dalla falſa intelligen-. za della voce Rex, col di cui nome vennero
chianati tutti quei, che da ROMOLO fino al la creazione de' DUE CONSOLI ANNALI hanno
la cura di presedere, e far da Capi del Senato regnante. La voce “rex” nei
tempi, in cui gli Storici, come LIVIO e Dionisio compilarono la STORIA ROMANA, e
certamente appresa in SENSO DI “mon-arca”, come temps, in cui fioriva. la monarchia
e con un tal supposto non ſapendo neppur eſi immagina. re re altra forma di
Governo nel naſcimento della Città Roinana, andarono a credere, che o in tutto,
o in parte regnaſſe la Monarchia. Ma ſe vogliamo inveſtigare la vera originaria
fignificazione della voce Rex, troveremo, ch'ella viene da reggere, e ſoſtenere,
e che propriamente dinotava un Capo e Dace del la Repubblica, e non un Monarca
di pode Atà aſſoluta. La ſtella eſpreſſione di rex tro viamo uſurpata in tutte
le altre Nazioni, di cui ci è pervenuta la Storia; ma il Governo del le
niedeſime non ſi può attribuire a Monar chia ſenza ſmentire i fatti medefimi,
dai quali ſcorgeſi, che tali Re altro realmente non era no, che Capi, e Duci
delle Repubbliche: per che inſieme colla perſona del Re troviamo i Senati, da
cui definivanfi gli affari pubblici dello Stato. Soleaſi per altro diſtinguere
l' incombenza dei Re in pace ed in Città da quella, che rappreſentavaſi in
guerra; poi che qualora erano in piegati a far da Capita ni Generali a
comandare l'eſercito, ſpiega vano certamente una podeſtà affoluta, come quella,
ch'è troppo necelaria nel Capitan Gen Generale per lo buon regolamento delle
fac cende militari. Trattaſi in guerra di porre in eſecuzione all'iſtante le
opere militari, le qua li non ſoffrono dilazione, e richieggono la più rigoroſa
ſegretezza per forprendere l'ini mico, ed in conſeguenza i Re in guerra per
natura dell'impiego medeſimo ſpiegavano po teſtà aſſoluta, perchè non giova di
eſercitarſi colla dipendenza dal volere degli altri, è maf fimamente de'
Cittadini, come lontani e che non poſſono eſſer preſenti alle diſpoſizioni mi
Jitari, e perciò non ci dee far maraviglia, fe per conſigliare al pubblico bene
fafi co ſtumato di concedere al Re, quando coman da in guerra, una poteſtà
indipendente e Monarchica. Ma di qualunque carattere ftata foſſe lae poteftà
dei Re in guerra, non dobbiamo con fonderla colla podeſtà da effi loro
praticata in pace e nel Governo Civile dello Stato. In fatti Tacito narrando i
coſtumi degli antichi Germani ci fa ſapere che prello tali antis chi Popoli ſi
diſtinguevano i Re propriamen te 1 te detti nel ſenſo di reggere la Repubblica
dai Capitani Generali; poichè i primi fi eleg gevano dal Ceto degli Ottimati e.
Signori, ed i ſecondi fi ſceglievano tra quei, che li erano reſi celebri pel
valore, ' I Re, dices egli, ſi eleggono dal Ceto de' Mobili, e per Capitani
Generali ſi ſcelgono i più celebri nel valore; Ma i Re non rappreſentano pode
fà libera ed illimitata (a ); quanto a dire che la qualità di Re preflo gli
antichiſſimi Germani non produceva poteſtà fuprema, e Monarchica, tuttoche
Tacito gli aveſſe at tribuito il nome di Rex. Dionisio parlando degli antichi
Re della Grecia fcrive, che i Re delle antiche Greche Nazioni, preffo di cui il
Principato era ereditario, o pure elettivo, governavano col conſiglio degli
Ottimati, come lo atteſtano Omero, e gli antichiſſimi Poeti. Nè quei tali
antichi Re eſercitavano il Prin cipato con poteſtà aſſoluta, come veggiamo a
tempi (a ) Tacit. de moribus Germanorum 9. VII. Reges ex nobilitate, duces ex
virtute fumunt. Nec Regi bus infinita, aut libera poteftas. DI ROMA. 29 tempi
noftri (a ). La voce Rex adunque nell' originaria ſignificazione Latina
dinotava une Capo di qualunque Ceto, o di Repubblica, e non un Monarca z e
queſto Capo qualora veniva deſtinato a comandare in guerra; al lora fpiegava la
poteſtà aſſoluta; Ma nei tem pi poſteriori, quando le Nazioni pervennero allo
ſtato di Monarchia fi ritenne la ſteffa voce “rex”, che paſsò a SIGNIFICARE il
Monarca, quan to a dire, che il nome di Rex attribuito a ROMOLO, ed agli altri
Re successori, non può eſſere un argomento per definire il Governo Monarchico
nel naſcimento della Città Romana. Parliamo ora ad esaminare i fatti narratici
dagli storici, dai quali unicamente dipende lo ſchiarimento di queſto articolo.
Dioniſio, il quale a differenza degli altri s'impegna a de (a ) Dioniſio Antiq.
Rom. lib. 2. Graecanici Reges çerte, qui haereditarium Principatum fumerent,
quolve Populus fibi ipfe praeficeret, confilium habebant ex OPTIMATIBVS ut
Homerus, & antiquitlimi quique Poetarum teftantur.. neque (ut fit in noſtro
feculo ) veteres illi Reges ex ſui tantum animi fententia poo feſtatem
exercebant. deſcriverci minutamente l'origine del Govere no Civile ſotto ROMOLO,
febbene non ſeppe, formare un' eſatto e coſtante giudizio della forma del
Governo, pure ci ſomminiſtra ba. ftanti lumi, onde poſſiamno ſcovrire il vero.
E ſulla prima introduce un allocuzione fatta da. Romolo ai ſuoi Compagni ſul
propoſito di doverſi ſtabilire una forma di Governo che foſſe più utile, e più
atta per tener lon tana la Città dalle fedizioni Civili, e per di fenderla
dagl' inſulti dei Popoli eſteri. E qui ci rappreſenta Romolo per Uomo ben
iltrutto ed erudito delle Nazioni Greche, e delle Barbare, delle forme del loro
Governo della difficoltà nello ſcegliere la migliore; indi gli conſiglia a
riflettere maturamente l' affare, affinchè poteſſero riſolvere, se piutto fto
voleano ubbidire a un ſolo, o pure a pochi, moſtrandoſi pronto e pieno di
moderazione a ſeguire il loro volere. Dopo una ſpe cio Dioniſio antiq. Rom. lQuum
autem diffi çilis fit earum (vitae uempe rationum ) electio, juf lit ciofa
allocuzione i compagni di Romolo te. nendo conſiglio tra loro, non dubitarono
di preſcegliere la forma del Goveno Regio in perſona dello ſteſſo Romolo, non
ſolamente perchè l' aveano ſperimentata la migliore per quanto l'aveano inteſo
approvare dai loro Maggiori, ma perchè giudicavano, che con una tal forma di
Governo ſi otteneffero i due maſimi vantaggi, cioè la libertà propria, e · l'
impero preſſo degli altri (a). Da un tal racconto ognun vede, che Dio. nilio
fit eos re per otium conſiderata dicere, NUM UNI RECTORI, AN PAUCIS PARERE
MALINT. Etenim, inquit, quamcumque Reipublicae formain in ftitueritis, ad eam
recipiendam paratus fum, nec principatu me indignum cxiſtimans, nec detrcaans
imperata facere. (a) Dioniſio loc.cit.Illi, communicato inter fe con filio,
reſponderunt in hunc moduin: nobis nova Reid publicae forma non eft opus; nec a
majoribus proba tam, & per manus traditam mutabimus, fed & pri fcorum
conlilium fequimur, quos non ſine inſigni prů. dentia illam Reipublicae formam
inſtituiſſe credimus, & praefenti fortuna contenti ſumus; cur enim illam
in. cuſemus, quum fub Regibus contingerint nobis bona, quae apud homines
habentur praecipua, LIBERTAS ET IMPERIUM IN ALIOS Haec eft noftra de Republica
fententia &c. niſio compoſe tali narrazioni piuttoſto allas maniera,
com'egli avrebbe penſato di fare, che con quella, che Romolo realmente ufaf ſe
preſſo i lnoi compagni'. E tralaſciando di riflettere le tante improprietà di
ſimile allo cuzione, in cui ci propone Romolo per Uo mo iſtrutto delle Barbare,
e delle Greche Na zioni, anzi delle varie forme del loro Gover no; quando al
contrario, come dimoſtraremo a fuo luogo, i Romani per molti ſecoli fu rono
affatto ſconoſciuti ed ignoti, mallime alle Greche Nazioni, ci giova quì di
notare quell'eſpreſſione, che il Governo Regio po tea loro conſervare il pregio
della libertà, il quale certamente non ſi può ottenere colla Mo narchia preſa
nel ſuo vero fenfo di podeſa d' un ſolo aſſoluta, ed arbitraria; poiché an che
ſul ſuppoſto d'un Monarca dotato della più retta politica ę ſaviezza, e di
coſtumi i più ſublimi ed innocenți, il Popolo non può godere altro pregio di
libertà, ſe non quello, che deriva dalla rettitudine dell'animno dalla ſaviezza
del Monarca medeſimo; mais non ſi può pretendere ſotto la Monarchia di 1 DI
ROMA. godere il dritto e la libertà di reſiſtere, ed oppora al di lui
ſentimento e comando; poiché la forma Monarchica, come tale, racchiude la
fuprema poteſtà preſſo di una folo; e tutto il reſto del popolo potrà fo
lamente eſercitare quell'autorità, che pia ce rà al Monarca di comunicargli;
ficchè ſi conſidera allora ' tale autorità come dipen dente e ſoggetta
maiſempre al voler del Monarca e non libera del popolo, che l' eſercita per
comando del Principe. Ed ecco cheDioniſio leffo finora ci propone il Gover no
Regio non già in ſenſo di Monarchia, ma di Capo e Duce d ' un ceto d' Uomi ni,
che intendono d'eſser membri del Go verno medeſimo, per eſſere anch'eſſi a par
te della libertà di comandare. Siegue indi Dioniſio a narrare la diviſione del
Popolo in Tribù, e Curie, inſieme colla egual partizione de' campi, e de'
terreni tralle Curie; e poi paſſando alla diviſione de' Ceti fatta in Padri e
Plebe, nel riferire il carat tere che i Patrizi doveano rappreſentare nella
Repubblica, chiaramente ci atteſta, Tomo II. С che che ai Patrizi apparteneva
la cura dei Sacri, l'eſercizio de' Magiftrati, l'amministrazione della
Giuſtizia, ed il Governo della Repubblica unitamente con ROMOLO. Ę poco dopo
narran do l'erezione del Senato dal Ceto de? Patrizj replica lo ſteſſo, cioè,
che Romolo avendo ri dotto le coſe in buon ordine, immediatamen-: te creò dal
Ceto de' Patrizj i Senatori, i quar. li doveſſero ſeco lui amminiſtrare la
Repubbli. E queſta ' erezione di Senato l'affomi glia alle Repubbliche delle
antiche Nazioni Greche ſulla teſtimonianza di Omero, e di altri Poeti Greci,
che fanno menzione di fimi li Senati regnanti, cui preſedeva il Re, il qua le
per altro facea da Capo e Duce, in ma niera $ Dionifo loc. cit. Romulus porro
poftquam difcre vit potiores ab inferioribus, mox legibus latis praefcri plit,
quid utriſque faciendum effet: ut Patricii facra curarent, Magiſtratus gererent,
jus redderent,SECUM REMPUBLICAM ADMINISTRARENT. Dioniſio loc. cit. Ceterum
Romulus poftquam haec in decentem ordinem redegit, confeftim decrevit Se
fatores creare, ut ellent, QUIBUS CUM ADMINI STRARET REMPUBLICAM. DI ' ROMA. 35
niera però, che il Governo della Repubblica riſedelle prello il Senato compoſto
degli Ot timati, come per l'appunto furono i Patrizi di Roma (a). Indi
riferiſce le particolari in combenze attribuite a Romolo, come Capo del Senato,
cioè, che prello di lui eſſer do veſſe la principal cura dei Sacrifizj e del le
coſe Sacre: che doveſſe aver cura delle Leggi e de' Coſtumi Patri; che ſi
riſerbaf ſe il giudizio per gli delitti più gravi, e de' minori ne giudicaſſero
i Senatori; che foſſe di ſua incombenza di convocare il Senato ed il Popolo
tutto, colla prerogativa di dover eſſere il primo a profferire il ſuo
ſentimento, ma che le determinazioni del Senato dovef ſero dipendere dalla
pluralità dei fuffragi; e finalmente, che poteſſe ſpiegare Poteſtà aſſo luta in
guerra (b), Paſſando poi a ſpiegare, C 2 qua Dioniſio 796x it. Graecanici Reges
certe > qui hereditarium Principatum fumerent, quoſve populus fibi ipfe
praeficeret, conlilium habebant ex Optimatibus, ut Homerus & antiquiſſimi
quique Poetarum teſtantur &c. Dioniſio loc.cit. His conſtitutis, honorcs,
& potefta tes in fingulos Ordines diſtribuit. Regi quidem eximia mune DEL
GOVERNO CIVILE quale eller doveſſe l'autorità del Senato, fcri ve, che gli
affari del Governo ſi doveſſero dal Re proporre al Senato, preſo di cui non di
meno doveſſe riſedere la potefta fuprema di decidere col mezzo della pluralità
dei ſuf fragj, ſoggiungnendo inoltre, che un tal fix ſtema di Governo folle
ftato appreſo dalla Repubblica dei Lacedemoni, (fempre col falfo fuppofto, che
Romolo in tali tempi aveſſe avuto cognizione de' Papoli della Gre cia ) in cui
i Re non erano Monarchi, nè Die {potici del Governo, ma ſemplici Capi del
Senato il quale fpiegava la fuprema pote ftate munera fuerunt haec: Primum, ut
Sacrificiorum, & re liquorum Sacrorum penes eum eflet principatus, per quem
çumque gereretur quidquid ad placandos Deos attinet; deinde uit legum ac
conſuetudinum Patriarum haberet cuſtodiam, omniſque Juris, quod vel natura
di&ar, vel pacta & tabula fanciunt curam ageret; utque de graviſſimis
delictis ipſe decerneret, leviora permitteret Senatoribus, providendo interim,
ne quid in judiciis pece caretur; utque Senatum cogeret, Populum in concio nem
vocaret, primus fententiam diceret, quod pluçi bus placuiſſet, ratum haberet.
Haec Regi attribuit mu nia, & practerea fummum in bello Imperium, (be
neppur ftà nell'amminiſtrazione della Repubblica. Da tutto queſto racconto di
Dioniſio non v'è chi pofſa negare, che Romolo non eb l'ombra, della poteſtà
Monarchica; poichè colla coſtituzione del Senato la poteità ſuprema riſedeva
preſſo il Senato medeſimo, e preſſo gli Ottimati; e che tutto quello, che fu
attribuito alla perſona del Re, conſiſte va nel fare da Capo del Senato
Regnante col la ſemplice prerogativa di poter proporre gli affari, e di eſſere
il primo tra i Senatori 2 profferire il ſuo fentimento; ma che la poteſtà di
determinargli riſedeſſe preſſo il Ceto dei Senatori, in maniera che le
determinazioni ſi coſtituivano colla pluralità de' Suffragj, a cui il Re
medeſimo dovea foggiacere; ciocchè non ſolamente eſclude ogni idea di Monarchia,
ma C3 ci Dioniſio loc. cit. Senatui vero dignitatem ac po teſtatem hanc addidit,
ut is s de quibus à Rege ad ipſum referretur, de his decerneret, & ferret
calculum, ita ut ſemper obtineret plurium ſententia. Id quoque a Laconica
Republica defumtuin eſt; Lacedaemonio, rum cnim Reges non erant fui arbitrii,
ut, quidquid vellent, facerent; fed penes Senatum erat tocà publi cæ
adminiftrationis poteftas. ro ci
manifeſta chiaramente una perfetta Ariſto crazia compoſta di Senatori, i quali
furono eletti dal Ceto nobile de' Patrizj. Egli è ve che il Re di Roma ſpiegava
la poteſtà aſſoluta ſoltanto in guerra; ma queſta, come dicemmo, non toglie, nè
s’ oppone alla for ma del Governo mero Ariſtocratico, perchè in tutte le
Ariſtocrazie troviamo tal poteſtà ſuprema nella perſona del Capitan Generale,
per la ragione di non poterſi altrimenti eſer citare con felice effetto il
comando del Du ce dell' Eſercito: E qui giova d' oſſervare, che ſebbene nelle
Ariſtocrazie il Capitan Ge nerale faccia ufo di poteſtat aſſoluta in guer ra;
pure la dichiarazione della guerra, e tut to ciò, che appartiene al ſiſtema
generale di eſercitarla, dipende dal volere dello ſteſſo Se nato regnante,
quatito a dire, che tutta live poteſtà ſuprema del Capitan Generale ſi ridu ce
ad eſeguire gli ſteſſi ordini del Senato éd a riſolvere all'iſtante da ſe
medeſimo ciò che non ſoffre dilazione, e l'attendere l'ora colo del Senato
ſarebbe inutile e dannoſo Del rimanente la forma del Governo ſi diſtin gue
ITgue non già dall'uſo della poteſtă, che ſi eſercita in guerra, ma dalla
ragione delle pubbliche determinazioni, le quali, qualora dipendono dall'
arbitrio di quei pochi, che compongono il Senato, ci manifeſtano chiara mente
l'Ariſtocrazia, e non la Monarchia, anzi neppure un miſto dell'una è dell'altra;
perchè la coſtituzione d'un Capo del Senato, ſempreche tutte le pubbliche
determinazioni ſono riſerbate alla pluralità de' Suffragj dei Senatori s non ſi
può aſcrivere, che ad un più ordinato regolamento del Senato mede ſimo, come
avviene in tutti i Ceti di per fone, in cui vi ſia un Capo, il quale ſembra
effer neceſſario, affinchè ſia meglio regolato il Corpo intiero di quei, che lo
compongo ño; ma non già che la coſtituzione del Capo vaglia à mutare o alterare
in minima parte il fiftemå del Ceto medeſimo. So bene, che anche nelle
Monarchie fogliono eſſervi i Se nati, maſlime de Grandi dello Stato ma cali
Senati ſono di gran lunga diverſi da quello, che fu ſtabilito in Roma forto
Romolo; poi chè il Monarca talvolta ſuole commettere a C4 quals 0 qualche Geto di Perſoné la deliberazione de
gli affari, o pubblici, o privati; ma tali de liberazioni non oltrepaſſano i
confini d'un mero configlio, ſicchè rimane maiſempre al Monarca la facoltà di
approvare, di repu diare la deliberazione; quanto a dire, che la determinazione
dipende maiſempre dall' arbitrario fuo volere e non dai ſentimenti dei ſuoi
Conſiglieri; ragion, per cui nelle Mo narchie ſi trovano talvolta ſtabiliti
tali Ceti di perſone, che ſogliono aver nome di Con ſiglieri del Monarca.
All'incontro il Senato di Roma era compoſto di perſone, di cui ognu na ſpiegava
uguale autorità a quella di Ro molo per le pubbliche determinazioni, e queſta
tal ſorta di Senato Regnante è quel la propriamente, che coſtituiſce la vera
forma di Governo Ariſtocratico. Quindi pof ſiamo francamente affermare, che
dove re gna la Poteſtà fuprema nel Senato, ivi non vi può eſſere neppur l'ombra
della Monar chia, ed al contrario dove regna la Monar chia, ivi non può eſſervi
Senato di poteftà ſuprema; perchè l'una e l'altra forma di Go verno 4.1 3 come
verno non ſi diſtinguono in altro, ſe non che nella Monarchia la poteſtà
fuprema riſiede in un folo, e nell' Ariſtocrazia in molti. Ma per eſſer meglio
convinti d'una tal ve rità, ci conviene di eſaminare con maggior diſtinzione
quel Capo di Poteítà, che riguar da lo ſtabilimento delle Leggi, il quale più
d'ogni altro fa diſtinguere la Monarchia dal? Ariſtocrazia, ſecondo che venga
eſercitata da un ſolo, o da molti, è che ſecondo il ſenti mento di tutti i
Politici ſi conſidera la maſſima nell' amminiſtrazione dello Stato. In fatti
tra tutte le pubbliche deliberazioni la più ſpecioſa ed importante è certamen
te quella, che diceſi poteſtà Legislativa; poi chè lo ſtabilimento delle Leggi,
come quel lo, che più d'ogni altro riguarda l'intereſſe e la pubblica
tranquillità, è il punto più ge lofo, che poſſa eſſervi nel regolamento del le
Società Civili, e come tale ci manifeſta, e ci fa diſtinguere ad un tratto la
Monarchia dall'Ariſtocrazia. La ragione ſi è, perchè pre ſcriver la Legge allo
Stato altro non è, che obbligare e ſoggettare tutti i particolari mes membri del Corpo Civile alla cieca obbedien
za di ciò, che la Legge comanda; e perciò ñon li può riconoſcere poteſtà più
ſublime di quella di poter comandare la Legge. Or fen za biſogno di ſoggettarci
ſu tale articolo ai ſentimenti degli Storici; qualora ci riuſciſſe di
dimoſtrare, che la Poteſtà Legislativa di fat. to riſedeva non nella perſona di
Romolo, ma preſſo l'Ordine del Senato regnante, non ci rimarrà luogo da
dubitare, che l'iſtituzio ne del Governo folle di forma mera Ariſto craticào É
qul fa d’uopò di ricorrere alla narrazio ñê del Giureconfulto Pomponio nella
Legge feconda de Origine juris į ove impreſe con particolari cura à trattare
dell'origine delle Leggi Romane · Ci fa egli ſapere, che ſul principio il
Popolo Romano ſi regolava ſenzos leggi certe e determinate; ma che tutto ſi go
Bernava col mezzo della dutorità del Re (a). A tal (a ) L. 2. 9.1. de Orig.
Juris: Et quidem initio Ci vitatis noftrae Populus fine lege cerca, fine jure
certo pri A tal narrazione di Pomponio gl' Interpreti del Dritto Civile,
valutando aſſai più la di lui Autorità, che quella di Dioniſio li dettero a
credere che realmente il Governo iſtituito fotto Romolo folle itato Monarchico,
poichè (dicono eſli ) ſe ne primi principi della fonda zione di Roma al dir di
Pomponio non v'era no leggi ſtabilite, e determinate, ma tutto li regolava collº
autorità del Re, ne liegues neceſſariamente, che la forma del Governo
cominciare dalla Monarchia. Ma io non sò, come tali Interpreti poſſano formare
da quelle parole di Pomponio un tal giudizio, quando dall' altre, che ſeguono,
li dimoſtra il con trario. Indi (fiegue Pomponio ) eſſendoſi ing qualche
maniera ingrandita la città, dicéſi, che lo ſtesſo Romolo aveſſe diviſo il
Popolo in trenta parti, chiumate CURIE a motivo, che allo primum agere
inſtituit, omniaque manu Regis guber nabantur. NellePandette Fiorentine leggefi
MAŇU A REGIBVS GVBERNABANTVR ma de ciocchè fregue, e dall' eller direito il
diſcorſo di Pomponio alla perfona di Romolo, dee fi piuttosto abbracciare la
lezio ne volgata, omniaque manu Regis gubernabantur. allora Spediva gli affari
della Repubblica coi ſentimenti, e colle determinazioni delle medeſime Curie;
ed in tal maniera promulgò egli alcune leggi dette CVRIATE, come fecero altresì
i Re ſuoi successori. Or fe folle vero, che Romolo cominciaſſe a governare la
Città colla fornia Monarchica, dovrebbe eſſer falſo, che lo ſteſso Romolo indi
ſtabiliſſe la Repubbli ca degli Ottimati, con attribuire al Senato l' Autorità
ſuprema di diſporre degli affari pub blici per mezzo della pluralità de'
Suffragi. Nè vale il ſupporre, che Romolo regolaſſe, la Città coi ſentimenti
delle CURIE di puro conſiglio, quafi che ſi riſerbaffe l'arbitra rio volere di
ſeguire, o di ripudiare tali fen timenti. Imperciocchè lo ſtello Pomponio chia
ramente s'eſprime, che gli affari ſi determi navano per Sententias partium
earum, che in buon (a ) Poftea au&a ad aliquem modum Civitate ipfum Romulum
traditur, Populum in triginta partes divififfe, quas partes Curias appellavit,
propterea quod tunc Reipublicae curam per Sententias partium caruni expediebat;
& ita leges quaſdam & ipfe Curiatas ad Populum tulit. Tulerunt &
fequentes Reges. buon latino non poſſono ſignificar Configlio; ed oltracciò le
Leggi ſi chiamarono Curiato non per altra ragione, fe non perchè le de
terminazioni venivano preſcritte co' ſentimens ti delle ſteſse Curie, e non
dall' arbitrario vo lere di Romolo. Egli è vero, che tali Leggi coll'andar del
tempo furono anche dette Regie a cagion che ſi proponevano dai Re ne' Comizj
Curiaci; ma poichè tutti gli Storici con vengono nell'affermare, che gli affari
li de terminavano dalSenato a relazione degli ftelli Re, come Capi di quella
adunanza, non ci dee far maraviglia, ſe le Leggi ſi foſſero dette anche Regie;
perchè venivano propoſte dal Capo del Senato, cui ſi dette il nome di Re.
Dunque fe vogliamo credere più a Pompó nio, che a Dioniſio, pure ſiamo
obbligati coll'autorità dello ſteſſo Pomponio di ammet tere ne' tempi di Romolo
l ' Aristocrazia, u non la Monarchia; perché altrimenti non ſi potrebbero
comporre le prime colle ſeguen ti parole del Giureconſulto. All'incontro egli
farebbe coſa ridicola il ſupporre, che pri ma di ſtabilirſi le leggi certę,
Romolo governaſse da Monarca, e che poi iſtituiſſe l' Ariſtocrazia; e quando
anche potefle'aver luogo una tal fuppoſizione, non dobbiamo at tenerci a quel
che foſſe ſeguito, prima che ſi dalle una certa forma al Goveșno, la quale non
fi dee ripetere, fe non dal tempo, in cui la Città preſe i ſuoi certi
regolamenti. Ма,per meglio chiarirci di tal verità, con „ viene di riflettere,
che quella eſpreſione di Pomponio, cioè, che fu i principi della cit tà non
v'erano leggi certe, ma che tutto ve niva regolato coll'autorità di Romola, non
può ſignificare forma di Governo Monarchi co, come è itata appreſa dagl'
Interpreti. E qut fa d 'uopó d'inveſtigare la vera ſignifi çazione di quelle
parole, Omniaque manu Regis gubernabantur. La voce Manus, è vero, che per
traslato • ſtata anche appreſa da' Latini in ſenſo di poteftà (a); pure non
hanno 1 I Latini quandą apprefero la
voce Manus in senſo di POTESTA', s' avvalſero di quelle locuzioni IN MANU ESSE,
HABERE, IN MANUM CON VE DI ROMA, 47 hanno mai detto gubernare manu in ſenſo di
governarc, colla poteſtà; nè mai trovaremg gubernare, o regere, o altre fimili
parole in ſieme colla voce manu, per ſignificare poteſta nel governo, Molto
meno può adattarſi alla voce manus la ſignificazione di arbitrio, o la
diſpotiſmo, come piacque ad altri Inter preti; perché un tal difpotiſmo altro
non è, che poteft fuprema, ed indipendente; ma comunque ſi apprenda tal poteſtà,
ſiamo pur troppo ſicuri, che nel linguaggio latino quel gubernare many non ſi
può apprendere in ſen ſo di poteft. In queſta eſpreſſione adunque di Pomponio
la voce manus deeſi riferire a tutt'altra intelligenza, che a quella di po
teſtà; e poichè tal voce è ſtata anche appre fa dai Latini in ſenſo di forza, e
di valore di corpo, o d'animo, come la troviamo in tan te locuzioni (a), non
poſſiamo fpiegare il detto VENIRE > DARE, MANU MITTERE fimili. (a) Nel fenſo
di FORZA, VALORE, E CO RAGGIO i Latini han detto MANUS MILITARIS, MA detto di
Pomponio, ſe non nel ſenſo d ' ef ferli in quelle prime origini della Città re
golati gli affari colla forza, col valore, e col la guida di Romolo, come
quegli, che tra quelle poche perſone, che ſi unirono ſeco lui nella fondazione
della Città, facea la fi gura di Capo e Duce. E queſta intelligen za ci fa
intendere altresì tutto il compleſſo del racconto di Pomponio; poichè,
dic'egli, che ne' principi il Popolo vilfe ſenza legge certa, fine lege serta,
fine jure certo; perché prima di ſtabilirſi moltitudine cale di abitanti, che
formafle un corpo abile a comporre una Società Civile, non v'era biſogno di
formare leggi e regolamenti pubblici, ma tutto re golavaſi con quei medeſimi
coſtumi, fecon do i quali erano ſtati educati quegli ſteſli, che unironſi con
Romolo; e perciò dice Pomponio, che ſi vivea ſenza Leggi certe, perché MANUS
ARMATA, MANUM CONSERERE, IN JICERE, INFERRE MANUM ALICUI REI IMPONERE, MANU
DOCERE, e fimili. E noz Italiani abbiamo ritenuta l'eſpreſione di MANO RE GIA
per hgnificare la forza legittima dello Stato di pronta, e spedita eſecuzione.
D'L ROMA.perchè allora la Legge era la voce mede ſima del Capo dell'unione, il
quale poteva occorrere ad ogni diſordine. Ma quando poi crebbe la moltitudine
degli Abitanti, allora biſognava di ſtabilire le Leggi, non poten doli regolare
un Corpo Civile colla fola voce parlante del Duce. In fatti le Leggi certe e
ſtabilite altro non ſono, che voci mute di chi governa; e ſiccome per regolare
i pic coli Corpi può baltare la voce parlante di chi gli regge, cosi
moltiplicataſi l'unione degli abitanti, e pervenuta al grado di formarli un
Corpo conſiderabile richiede neceſariamente lo ſtabilimento di Leggi certe, le
quali pre ſtino l'uffizio della voce medelima di quel Ceto, preſso di cui
riſiede la pubblica pote ftà. Ciò ſuppoſto, fino a tanto che Roina ven ne
abitata da piccol numero di perſone, la vo çe parlante di Romolo baſtava per
regolare gli affari; ma moltiplicatoſi il numero, fi do vette venire alle
determinazioni delle Leggi certe, non potendoſi altrimenti ſoſtenere un Corpo
Civile. Ma prima di ſtabilirfi tali Leg gi non poſſiamo ſupporre, che Romolo co
D man mandaffe coll'arbitrario fuo volere; perchè lo Steffo Po mponio ci
aficura, che quando ci fu biſogno di stabilire le Leggi certe, furono queſte
determinate colla pluralità de' fuffragi delle Curie, o ſia del Senato; e
poichè non è poſſibile l'immaginare, che il Governo per coså breve tempo
dipendeſse dal voler del Mo barca, e che immediatamente poi paffalle nella
poteſtà Ariſtocratica, perciò dobbiams conchiudere coll' autorità dello ſteſſo
Pompo nio, che fin dal principio la Città fu eretta colla forma del Governo
Arittocratico. Ne G può conoſcere altra divertità tra quel tempo, in cui fi
vivea ſenza Leggi certe, e quell' altro, che venne immediatamente, in cui furo
no ftabilite le Leggi, fe non che in quello la poteſtà degli Ottimati
ſpiegavafi colla voce parlante di Romolo, manu Regis, laddove in quefto il
Senato fpiegava la ſua poteſtà colla voce muta delle ſtabilite Leggi; ma l' uno
e l' altro tempo riconobbe la medeſima forma, Ariſtocratica; Quindi è ancora,
che quelle locuzioni di Pomponio ſine Lege certa, fine's jure certo, non si
poſſono apprendere, come fecea fecero alcuni Interpreti, quaſiché il regola
mento in quel tenipo folle vario ed inco ftante, perché non ſi può fingere
ſocietà di Uomini, che vivano ſotto un yario fiftema di Regolamento, ma ſi
debbono riferire a quella intelligenza, che meritano, cioè che tutto veniva
preſcritto a voce ſecondo le opportu nità delle contingenze, che ſpiegavali col
mezzo di Romolo loro Capo; perché non v ' era biſogno ancora di ſtabilirſi
leggi certe, come figui poi colla moltiplicazione degli abitanti, Siegue
Pomponio a narrare, che eſéndoli diviſo il Popolo in trenta Curie, coi di cui
ſentimenti li determinavano gli affari, allo ra cominciaffero a ſtabilirli le.
Leggi cere te, che furono perciò dette Curiate, come fecero altresi i Re fuoi
fucceffori: Et ita le ges quafdam cuo ipſe Curiatas ad Populam tri lit,
tulerunt eam fequcntes Reges: 1 qut gł Interpreţi del Dritto Romano per
ſoſtenere la fognata Monarchia di Romolo caddero in tun'al tro equivoco
nell'apprendere l'eſpreſſione di Pomponio di ferre legem ad populum in fente D2
d'ef d'eſſerſi comandate le leggi da Romolo, e dai Re fuoi fucceffori. E
febbene una tale interpretazione ſi oppone direttamente a cioc. chè lo ſteſſo
Pomponio riferiſce nelle parole antecedenti, cioè che il governo della Re
pubblica ſi amminiſtrava per mezzo de' fen timenti delle Curie: propterea quod
tuma Reipublicæ curam per ſententias earum partium expediebat; pure abbagliati
da quel guberna bantur manu Regis, ſi videro obbligati a rico noſcere nella
perſona di Romolo e degli al tri Re la poteſtà fuprema di comandare le leggi.
Siminaginarono dunque, che lo ſta bilimento delle Curie non toglieva al Re la
poteſtà Monarchica, poichè febbene il Sena to interveniva nelle deliberazioni
dello Stato, pure i ſentimenti delle Curie ſi debbono ri ferire piuttoſto a
ragion di conſiglio, e che in conſeguenza la poteſtà di comandare le Leggi
riſedeſſe preſſo di Romolo, e ſuoi Re ſucceſſori. Or (dicono eſli) ſe la
poteſtà di co mandare le Leggi, al dir di Pomponio, fpie gavaſi dal Re, ne
ſiegue, che la forma del Governo debbafi attribuire anzi a Monarchia, che, che
ad Ariſtocrazia. Ma io non só intendere con qual fondamento poſſano afcrivere
l'e ſpreſſione latina di ferre legem ad populum al fenſo di comandare, e
preſcrivere la legge, quando al contrario egli è coſa notiſlima pref fo i
Latini, che il ferre legem nella ſua vera intelligenza ſignifica ſemplicemente
il propor re la legge per determinarji, o ripudiarſi, e non il preſcriverla, e
comandarla; anzichè qualora dagli Scrittori Latini al ferre legem fi aggiligne
ad populum, ad plebem, e ſimili, non v'è eſempio, che foſſe ſtata mai tal lo
cuzione appreſa in ſenſo di comandare la leg ge al Popolo, alla Plebe, ma
ſempre nel ſen ſo di proporla, per determinarſi dal Ceto del Popolo, o della
Plebe (a ). E quando la lega ge propoſta veniva coi fuffragi ſtabilita v
preſcritta, allora diceaſi lex juſſa, condita; ſic chè altro era il ferre,
altro il jubere legem; il ferre fignificava proporre, ed il jubere pro D 3 pria
(a ) Vedi Briſſonio de Formulis lib. 2. cap. 17. 2 109. il quale traſcrive i
laoghi degli Scrittori Latini ſu sale articolo priamente dinotava la
determinazione, o sia le juffione della legge. Tra gli altri Scrittori Latini
ſono innumerabili i luoghi di Livio, in cui cgli îi avvale dell' eſpreſsione di
ferre legem, o pure rogationem, nel ſuo vero ſenſo di propar re, e non già di
comandare, e ſoprattutto quando riferiſce le pretenſioni de' Tribuni del la
Plebe, in cui fa uſo della voce ferre ine fenſo ſempre di proporre o promuovere,
e lis mili, e non mai di preſcrivere, o comandare, perchè i Tribuoi della Plebe
non aveano altra facoltà, fe non quella di promuovere, e di eſporre le
petizioni del Ceto plebeo, e non già di comandarle. Ma per eller convinti di
queſto vero ſenſo ſecondo l'originaria fua fi gnificazione baſta un luogo folo
di Livio, in eui eſpreſamente ſi addita la differenza tra "! ferre, e
jubere legem. Racconta egli, che pell'anna 372. il Senato -ordinà, che ſi fosſe
pro poſto al Ceto plebeo la deliberazione d' intimark la guerra a' Popoli di
Veletri. I Patrizi co nofcendo d' eſſerſi laſciata più volte impunitra la
ribellione de' cittadini di Veletri, decreta rono, che al più preſto che fosſe
poſſibile, ſi pro poneffc SS ponefe,al
Ceto plebeo l'affare d' intimarye loro la guerra, e che propoftafi una tal
delibera zione tutte le Tribù conſentirono a coman dare', e determinare una tal
guerra. E qui Livio eſpreſſamente fi avvale della voce fer re, quando parla di
proporſi l'affare al Ceto plebeo, e della voce jubere, quando riferiſce la
juffione della guerra ſeguita coi fuifragj di tutte le Tribù (a ). Egli è vero,
che l' eſpreſ Gone di ferre legem é ſtata poi dai Latini tra ſportata anche a
fignificare la promulgazione della legge in quelle locuzioni Lata lex eft, e
limili; ma neppure "la trovaremo uſurpata in queſto ſenſo, quando ci ſi
aggiugne ad Populum, ad plebem c. perchè allora ritie ne l' originaria
ſignificazione di proporre, e non di promulgare (.b). Comunque però fi D4 ap LIVIO.
Id Patres rati contemptu accidere, quod
Veliternis Civibus ſuis tamdiu impuni ' ta dete &tio effet, decreverunt, ut
primo quoque rem pore ad populum FERRETUR de bello cis indicen do...... Tum, ut
bellum JUBERENT, latum ad Populum eft; & nequidquam diffuadentibus Tribu
nis Plebis, omnes Tribus bellum JUSSERUNT. Tum ut bellum juberent, LATUM AD PO
PULUM EST. Livio loc. cit. apprenda, o in ſenſo di proporre, o di pro mulgare,
egli è fuor di dubbio, che non mai può ſignificare juffione è determinazione
della legge. Ciò ſuppoſto, per ritornare ora a Pomponio, ognun vede, che le di
lui parole: Et ito leges quaſdam & ipfe Curiatas ad populum tue lit;
tulerunt ex Sequentes Reges non pofſono apprenderli nel ſenſo, che Romolo, e
gli altri Re aveſſero preſcritte le leggi Curiate ſe non vogliamo tacciare il
Giureconſulto per ignorante del linguaggio latino, ma quel tu lit ad populum
deeſi riferire a quella facoltis che riſedeva ſoltanto preſso la perſona del Re,
di proporre gli affari pubblici in Senato, ed in conſeguenza le leggi, la di
cui juffio ne nondimeno dipendeva dal fuffragio delle Curie medesime per
fententias earum partium, e non dall'arbitrario volere del Re; e le leg gi fi
diſſero Curiate non per altra ragione, ſe non perché vennero preſcritte, e
comandate dalle Curie, e non dal volere del Re, quan tunque egli come. Capo del
Senato, e come riconoſciuto per lo più abile e favio trai Senapa " DI ROM
A 57 Senatori godeſſe la facoltà di proporre cioc chè gli ſembrava più
eſpediente per l'ottimo regolamento dello Stato; ma' una tal prero gativa fu
fpiegata' altresì dopo il diſcaccia-, mento de'Re dai Conſoli, dai Tribuni mili
tari di poteſtà Confolare, dai Ditcatori, e da altre Magiſtrature di ſublime
autorità, le quali tutte proponevano al Senato, alla Plebe, al Po polo tutto,
le determinazioni degli affari pub blici, e maſſime delle leggi; niuno però fin
è ſognato finora di aſcrivere la forma del Governo ſotto i consoli a Monarchia,
perchè la ragione di Capo d'un Popolo senza carattere di potestà assoluta non
può produrre monarchia, fe non vogliamo confondere ! idea del Governo
Monarchico coll' Aristocratico e Democratico. winno Conchiudiamo adunque. Gli
Scrittori chepiù degli altri ci narrano con qualche diſtinzione la forma del
Governo tenuta ſotto Romolo, fo no Dioniſio, e Pomponio. Il primo ci de fcrive
chiaramente la coſtituzione del Senato, dal di cui arbitrio dipendevano le
determina zioni degli affari e l'intiero regolamento dello dello Stato, ciocchè
eſclude di fatto ogniom bra diMonarchia in perfona di ROMOLO. Il fecondo non
ſolamente non fi oppone a quan to riferiſce Dioniſio, anziché ce lo conferma
più chiaramente, prima col riferirci, che nel naſcimento della Città non
v'erano leggi cer te e preſcritte, ma che tutto regolavaſi col conſiglio e
guida di Romolo, ed indi cot narrarci, che creſciuta in qualche maniera la
moltitudine degli abitanti, fu neceffario di venirli allo ſtabilimento delle
leggi certe. Quali leggi inſieme col reſto de' pubblici af fari, eſſendoſi
diviſo il Popolo in trenta Cu rie, furono preſcritte col fuffragio delle me
defime; ragion, per cui fi diſsero leggi Cum riate; e che finalmente la
prerogativa di Rom molo, come Capo del Senato, fi riduceaus alfa - facoltà di
proporre predo il Ceto de Se natori ciocchè gli ſembrava opportuno per
determinarli gli affari dal Senato medeſimo per ſententias carum partium. In
fomma, che Je leggi col reſto delle pubbliche determinazia -ai fi ſtabilivano
colla juſsione delle Curie, o fia del Senato, non si può negare per l'alt
torita DI ROM A. 1 59 torità di Pomponio, di Dioniſio, di Livio, e di tutti gli
Storici, i quali concordemente combinano ſu tale articolo. Il determinarli gli
affari per ſententias delle ſteſſe. Curie e de Senatori, in buon latino non può
fignifica re pareri confultivi, ma juſsione per mezzo della pluralità de*
fuffragi. Quel tulit leges ad populum attribuito a Romolo, ed ai Re fuc celori,
altro non contiene, che la facoltà del Re nel proporle, e non già nel
comandarle, e prefcriverle. Dunque dai detti degli ſteffi Storici siamo convinţi,
che la forma del Gom verno iſtituita fatto Romolo non ebbe nep pur l'ombra
dellaMonarchia, perché doves vi è Senato, preffo di cui rilieda la poteftà.
ſuprema di decidere gli affari dello Stato, ivi non vi può regnare il Monarca.
E per ultimo troviamo nella Storia Civile di Romaun fatto incontraſtabile, che
di ſya natura ci dimoſtra, quanto foffe lontano dalla Monarchia il Governo
Civile iſtituito foto Romolo. Egli è troppo noto il dritto di Pa tria poteſtà,
che eſercitavaſi in Caſa dal Citta dino Romano ſulla ſua famiglia ſenza limiti,
@fen. 3 e fenza la minima dipendenza dal Re, o dal Senato. Non intendā io qui
di quella potefta patria praticataſi nei tempi poſteriori, e maf fime fotto
gl’Imperatori, ma di quell'affolu to Impero Paterno eſercitato fin dalla fonda
zione di Roma, e che dai Decemviri fu tra-. ſcritto nelle xir. Tavole, come
riferiſce Dio-, niſio (a ). Era certamente la Patria poteſtà di quel tempo
fornita d'un aſſoluta dominazio ne ſulla ſua famiglia, finanche verſo i pro
prj. Figli, fovra di cui il ' Padre eſercitava dritti di vera Monarchia,
com'era l'effer di ſpotico della vita, e della morte loro (b), eltre
dell'arbitraria facoltà di poterli vende re, in manierachè dopo la terza
vendita i Fi gli di liberavano dal diſpotiſmo Paterno (c). Or queſto dritto
Patrio, che con vera efpref fione (a) Antiq. Rom. lib. 2. Sull' autorità di
Dioniſio gl' Interpreti del dritco Romano compoſero quel capo di legge delle
mit. Tavole con quelle parole: ENDO LIBERIS JUSTIS VITAE NECIS VENUM, DANDIQUE
POTE STAS EI ESTO. (c ) SI PATER FILIUM TER VENUM DUIT, FILIUS A PATRE LIBER
ESTO: altro capa delle? fione da Valerio Maſſimo (a) e da Quintilia no (b)
venne detto Patria Majeſtas, fu eſerci tato dai Romani non ſolamente dal teropo
della promulgazione delle XII. Tavole, ma fin da’ pri ra, delle xir. Tavole
riferito da Ulpiano tit. 10.5. 1. E Dionifio loc. cit: Romanorum autem
legislator (inc tende di ROMOLO) omuem ur breviter dicam, pour teſtatem patri
dedit in filium, idque toto vitae tem pore, five in carcerem eum detrudere;
five fla gris caedere, five vinctum ablegare ad ruſtica ope five necare libeat,
etiamli filius tractet Rempue. blicam, etiamfi Magiftratus gefferit maximos,
etiamſi fudii erga Rempublicam laudem fit promeritus. Jux ta hanc certe legem
illuſtres viri pro roftris favente plebe concionantes in Senatus invidiam,
fruenteſque aura populari, detracti e ſuggeſto, abducti ſunt apa tribus, poenas
daturi ex ipforum fententia; quos, duin per forum ducerentur, nemo adftantium
eripere poterat, non Conſul, non Tribunus, non ipſa turba, cui tuin adulabantur,
licet omnem poteſtatem ſua minorem exi ftimans. Taceo, quot viri fortes necati
Gnt. a patri bus &c.... Nec contentus hanc poteſtatem parentibus dediffe
Legislator Romanus, permifit etiam vendere fi lium.. Majorem largitus
poteſtatem patri in filium, quam hero in mancipiuin; lervus eniin ſemel
venditus, deinde libertatem adeptus, in poſterum fui juris eſt; fi lius vero a
patre venditus, fi liber fieret, rurſum fub ра tris poteftatem redigebatur;
iterum quoque venunda tus, & liberaçus, fervus patris crat tertiam demum
yendiționem eximebatur e patris po teſtare & c. (b ) Declamat. 378., ut ante? poſt primi
tempi di Roma, poichè Ulpiano (a ) afferma d'ellerli introdotto moribus, cioè,
non per legge ſcritta, ma per antichillimo coftu me Patrio; Dioniſio (6) lo
riferiſce ad una legge di Romolo; e Papiniano (c) l' attri buiſce ad una legge
Regia. Ma Ulpiino a mio giudizio l'indovina meglio di tutti, coll' affermare
d'eſerli tal dritto di Patrią poteſtå ricevuto per coſtume; e la ragione ſi è,
perchè una tal poteſtà diſpotica del Padre di famiglia dobbiamo fupporla nata
inſieme col la coſtituzione delle Famiglic medefime, e prima che quefte
conveniſſero a formare So cietà Civile, ſicchè troyandofi tal coſtuine già
introdotto nello Stato di famiglie, natu ralmente fu conſervato e ritenuto
dalle Fa miglie, che convennero con Romolo nella fon dazione di Roma. In fatti
tal coſtume trovali quaſi uniforme in tutte le Nazioni ne'loro for gimenti per
le chiare teſtimonianze degli an tichi (a) L. 8. de his, qui ſunt fui, vel
alieni juris. (b ) Loc. cit. (c ) Collar. leg. Mofaic. tit. 4. ). 8. 3 tichi
Scrittori (a ). E ſebbene Triboniano (b ) credette, che folle queſto dritto
proprio de' Romani, pure s'inganno, forſe dall' avere of fervato, che ne’tempi,
in cui i Romani eſer citarono queſto dritto con aſſoluta poteſtà, e. nel
maſſimo ſuo rigore, l'altre Nazioni l'avea. no già raddolcito con ridurlo a
limiti più be. nigni ed umani, come avvenne altresì pref fo gli itefli Romani,
mallime fotto gl'Im peradori, nella di cui età la poteità Patria decadde in
buona parte dall'antico fuo ri gore. Comunque sia, quanto al preſente ar
gomento çi baſta di potere afficu are colla tea ftimonianza di tanti Scrittori,
che il Diſpo tilmo Patrio fu eſercitato da'Romani fin dai primi tempi di Romolo.
Qui cade in acconcio di riflettere ciocche gli Storici ci narrano dell'accuſa
d'Orazio per aver ucciſa la Sorella in atto, che ritornava trion (a) Ariftotele
Nicomache lib. 8. cap. 10. Cefare lib. 6. de bell. Gill. cap. 9. Plutarco in
Lucullo Giustiniane Novel la 1 34 • (b ) Inf. lib. 1. tit. 9. 1. 2. trionfante
per la vittoria contro i Curiazi. Dioniſio fembrami', che racconti il fatto al
ſai meglio di Livio, allorchè cinarra l'accuſa, e'l giudizio d'Orazio, in cui
non fa men zioné né del Giudizio de' Duum viri, nè dell' appellazione propoſta
da Orazio al Popolo, che ſono le due circoſtanze che fi leggo no in Livio (a );
ma ſemplicemente ci rac conta, che füll'accuſa propoſta da taluni con tro
Orazio al Re Tullo, il Padre di Orazio, oltre di aver dichiarato di non
meritare fuo Figlio la minima pena, pretendeva, che un tal giudizio
apparteneſſe privativamente alla di lui cognizione, tractandoſi d'un fatto acca
duto tra i ſuoi figli, e che in confeguen za per dritto di poteſtà Patria dovea
egli ef fere il giudice di queſta Cauſa. Ma il Re per una parte credeva
anch'egli di doverli af fólann (a) Lib. 1. cap 26. (b) Dioniſ. Antiquit.
Romanarum lib. 3. Pater contra patrocinabatur filio, acculans filiam, &
negans eam dicendam cædem, fed poenam verius, poftulabatque fibi de fuis malis
permitçi Judicium ut qui ambo rum effet Pater. 2 • Í folvere Orazio io
benemerenza della vittoria ed in conſiderazione dell'inſulto di parole fat to
dalla Sorella al Fratello in tempo, che aſpettava dà lei piùcche da ogni altro
lode, ed applauſo per un'opera egregia preſtata alla Pa tria; è molto più à
cagione, che il Padre preſſo di cui rifedevå fecondo i coſtumi di que' tempi
l'indipendente poteſtà di giudica re ſulle perſone de propri Figli fi era
dichia rato d'averlo già adoluto (a ).Dall'altra parte il Re temeva il tumulto
Popolare eccitato dagli emuli, ed inimici d'ORAZIO. Tra tali dubbiezze pensò di
prendere l'eſpediente di rimettere la cognizione della Caufa al Popo lo, il
quale confermò il giudizio Paterno con affolvere l' accufato Orazio. Un tale
rac conto è molto più verifimile di quel; che ci narra Livio fúl giudizio de '
Duumviri, e dell' appellazione propoſta da Orazio al Popolo; poichè in que'
tempi l'Impero Paterno eras Tomo 11. E nel Dioniſ. loc. cit. Praeſertim patrc
quoque ipſum abfolvente, quem potiſſimum Filiae ultorem jus * natura fecerar:
nel ſuo miglior vigore; nè il Re fenza of fendere le leggi del Patrio Impero
potea to gliere il giudizio di queſta Cauſa dallauto gnizione del proprio Padre,
e tasferirlo ai Duumviri, e molto meno in ſimili Cauſe era permello al Popolo
di prenderne cognizio ne in pegiudizio del dritto Paterno; Ma la contingenza
ſtraordinaria d ' eſſerſi mella, la Città in rivolta per queſto fatto,
produſela neceflità di ſedarſi il tumulto coll’eſpedien te politico di
rimettere l'affare al giudizio del Popolo, e l' Impero privato del Padre
dovette cedere alla ragione della pubblica tranquillità. E quindi intendiamo
ancora la ragione, per cui Dioniſio riferiſce, che que Ita fu la prima volta,
in cui il Popolo preſe cognizione d ' un giudizio Capitale (a), non gia perchè
prima di queſto tempo non aveſſe mai il Senato giudicato di delitti capitali,
come (a) Pion. lor. cit. Populus autem Romanus tum pri mum Capitalis Judicii
poteftatem nactus, compro bavit Patris fententiam Juvenemque abſolvit a cac dis
crimine, come ſe prima non foſſero mai accadute con tingenze fimili o fe al
Senato, che gode vala ſuprema poteſtà del Governo folle mancata fino allora
quella di poter giudica re di delitti Capitali; Ma l'eſſere ſtata que. fta la
prima volta, in cui eſercitoſli dal Po polo il dritto di giudicare d ' un
delitto Capitale, deeſi riferire al fatto particolare, di cui ſi trattava, cioè
alla poteſtà di giudicare d'un Figlio di Famiglia contro il ricevuto ca ſtume
dell'Impero Paterno, a cui privativa mente ne apparteneva la cognizione. Or per
tornare al noſtro propoſito diciamo, che fe que? Scrittori, i quali
s'immaginarono, che Romolo infieme coi Re ſucceſſori fpiegaro no carattere di
Poteſtà Monarchica, aveſsero fat to oſſervazione ſull'Impero Patrio, e familia
re praticato da ’ Romani fin dalla fondazione della Città, ſi ſarebbero accorti
dell' impof ſibilità di poterſi unire inſieme Monarchia, Civile prello del Re,
e Monarchia familiare preſſo i privati Cittadini; poichè chi dice Monarchia
familiare prello de' privati Citta dini cfclude ogni ombra di Monarchia preſſo
E 2 il ma dello il Re; e la ragione ſi è, perchè fe i Padri di famiglia ſenza
la minima dipendenza non folamente del Capo del Senato fteſſo Senato regnante
erano gli aſſoluti Mo narchi dell'intiera loro famiglia, ſia de ' figli, fia
dei fervi, e famoli, come mai poſſiamo figurarci, che tali Monarchi familiari
foſſero nel tempo ſteſſo ſoggetti alla Monarchia Ci vile? Chiamaſi Monarchia
Civile quello fta TO, in cui tutto l'intero Corpo Civile in tutte le ſue
faccende pubbliche e private trovali ſoggetto all'autorità fuprema d'un folo
che comanda. Or chi non vede la manifeſta diſſonanza e contradizione nel
ſupporre il Ceto 'de' Cittadini fornito di po* teftà ſuprema, ed indipendente
nella fua fa miglia, é foggetto nel tenipo Ateſo al Mo narca? E come mai
poſſono fingerfi unite in ſieme poteſtà fuprema, e foggezzione? In tutte le
Società Civili, ove regna la Monar chia, non trovaremo mai poteftà familiare in
dipendente dal Monarca, perchè l'una eſclu de direttamente l'altra. In fatti
tali poteft:s private in perſona de' Cittadini non pollonio altri 3 1 1 1
altrimenti eſercitarſi, fe non in quelle Socie tà Civili, che ſiano governate
colla formas Ariſtocratica perchè tal forma di Gover no ſolamente può
comportare diviſioni di po teſtà pubblica, e privata; pubblica preſso il Ceto
degli Ottimati e privata preſo le perſone particolari degli ſteſſi rappreſentan
ti della Repubblica, i quali ſpiegano la po teſtà pubblica, quando uniti
inſieme com pongono l'autorità regnante, e la privata, quando ſeparatamente
regolano gli affari para ticolari delle loro famiglie: Or quanto tal diviſione
di poteftà pubblica, e privata è comportabile call' Ariſtocrazia, altrettanto
fi oppone direttamente alla Monarchia veggiamo colla ſperienza, la quale coſtan
temente ci atteſta, che la Monarchia non mai ammette un tale impero paterno
nelle famiglie, come in fatti avvenne preſſo i Ro mani in tempo, che la
Repubblica cadde nella poteſtà aſſoluta del Monarca. Ne poſliamo figurarci, che
la poteſtà fa niliare de' Romani foſſe ſtata in qualche ma niera ſubordinata
alla poteſtà pubblica; pero E 3 chè 9 come / E ché ſono troppo chiare le
teſtimonianze de gli Storici, come abbiam veduto, dalle quali Siamo a ſacurati,
che l'Impero Paterno de' Romani in que' tempi avea carattere di po teſtà
aſſoluta; ed indipendente; e quando al tro mancaffe il dritto vite e necis, e
di vendere i propri figli ci dimoſtra chiaramen te, che non potea eſſere un
dritto ſubordina to; poichè i dritti ſubordinati, e dipendenti riconoſcono
neceffariamente certi confini, ol tre de' quali non lice di eſercitarli; ma
qualo ra ſi tratta di dritto ſulla vita, ch' ċ l'ulti mo termine di ogni
poteſtà aſſoluta ſi poſſa uſare ſulle perſone, ceſsa ogni ſoſpetto di
ſubordinazione; ed oltracciò colle chiare teſtimonianze degli Storici ſiamo
convinti, che l'impero paterno di fatto fu eſercitato da’ Romani ſenza la
minima dipendenza del la poteſtà pubblica. Dunque non abbiam cam po da fuggire
da quel dilemma, cioè, che o fi dee ammettere per punto di Storia certa, che
quei Padri di famiglia eſercitavano poteſtà fuprema in caſa, e non poſſiamo
fingere poteſtà Monarchica Civile; o fe vogliamo nega negare tal poteſtà
familiare ai Padri di fami glia, allora ci ſi chiude affatto la ſtrada di
fapere la Storia Civile di Roma; perchè fe voglianio mettere in dubbio i punti
di Sto ria confermatici concordemente da tutti gli Scrittori, non ſiamo più in
grado di dar fe de a tutto il reſto. Grice: “Unfortunately, Duni, being the
elitist he is, spends more time on the monarchy than the republic, and focuses
on the concept of ‘citizen.’ Wikipedia Ricerca
Imperativo categorico concetto della filosofia kantiana L'imperativo categorico
è il principio centrale nella filosofia morale di Immanuel Kant, così come
dell'etica deontologica moderna, altrimenti chiamata legge morale.
Immanuel Kant Introdotto nella Fondazione della metafisica dei costumi,
potrebbe essere definito come lo standard della razionalità da cui tutte le
esigenze morali derivano. DescrizioneModifica Secondo Kant, gli
esseri umani occupano uno speciale posto nella creazione, nella quale la
moralità può essere definita come somma ultima dei comandamenti della ragione,
o imperativi, da cui ciascun uomo deriva tutte le altre obbligazioni e i
doveri. Egli definì un imperativo come una proposizione che dichiara una certa
azione (o anche un'omissione) essere necessaria. Mentre la massima è un
principiosoggettivo, l'imperativo categorico è invece un principio oggettivo;
l'intenzione è poi il fondamento intrinseco della massima. L'etica di Kant si
riferisce a massime e ciò a cui attribuisce grande importanza è
l'intenzione. Un imperativo ipotetico costringe all'azione in determinate
circostanze: se io desidero dissetarmi devo assolutamente bere qualcosa.
Un imperativo categorico, d'altro canto, denota un'assoluta e incondizionata richiesta:
un "devi" incondizionato, che dichiara la sua autorità in qualsiasi
circostanza, entrambi necessari e giustificati come un fine in sé stesso. È
meglio nota nella sua prima formulazione: "agisci soltanto secondo
quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge
universale"ma esistono altre due formulazioni dello stesso imperativo
categorico: "agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua
persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente
come mezzo." e "La volontà non è semplicemente sottoposta alla
legge, ma lo è in modo da dover essere considerata auto-legislatrice e solo a
questo patto sottostà alla legge."[3] Kant espresse estrema
insoddisfazione per la cosiddetta filosofia popolare dei suoi tempi, credendo
che non avesse potuto mai superare il livello degli imperativi ipotetici: una
persona utilitarista direbbe che l'omicidio è sbagliato perché non massimizza
il bene per il maggior numero di persone, ma questo è irrilevante per coloro i
quali sono interessati solo nel massimizzare risultati positivi solo per sé
stessi. Conseguentemente Kant argomentò che i sistemi di morale ipotetici
non possono convincere all'azione morale o essere visti come base per giudizi
morali verso altri, perché gli imperativi sui quali si basano si rifanno troppo
pesantemente a considerazioni soggettive. Egli presentò un sistema di morale
deontologica basata sulle richieste degli imperativi categorici come
alternativa. Natura del concettoModifica Dal punto di vista di Kant un
atto morale è un atto che sarebbe giusto per qualsiasi tipo di persona, in
circostanze simili a quelle nelle quali un agente si trova nel momento di
eseguirlo. La facoltà che ci permette di prendere decisioni morali è chiamata
ragion pratica pura, che è in contrasto con la ragion pura (la capacità di
conoscere) e la semplice ragion pratica (che ci permette di interagire con il
mondo dell'esperienza). La guida alle azioni determinate dall'imperativo
ipotetico ha un uso strumentale: ci dice cosa sia meglio raggiungere per i
nostri obiettivi. Non ci dice, in ogni caso, niente circa i fini che dovremmo
scegliere. Kant, viceversa, considera il giusto essere antecedente al buono
come importanza assoluta; infatti sostiene che il buono raggiunto ha una
irrilevanza morale. La giusta moralità non può essere determinata con
riferimento a niente di empirico o sensuale; si può determinare solo a priori,
con ragion pratica pura. La ragione, separata dall'esperienza empirica, può
determinare il principio secondo il quale tutti gli obiettivi possono essere
determinati come morali. È questo principio fondamentale della ragione morale
che è conosciuto come imperativo categorico. La ragion pratica pura, nel
determinarlo, determina cosa sarebbe necessario intraprendere senza riferimenti
ai fattori contingenti empirici. Questo è il senso in cui la meta etica di Kant
è oggettivistapiuttosto che soggettivista. Le questioni morali sono determinate
indipendentemente dal riferimento al particolare soggetto che viene loro posto.
È per il suo essere determinata dalla ragion pratica pura, piuttosto che dal
particolare empirico o dai fattori sensoriali, che la moralità è universalmente
valida. Questa morale universale è considerata come un aspetto distintivo della
filosofia morale kantiana e ha avuto un grosso impatto sociale sui concetti
politicie legali dei diritti umani e dell'uguaglianza sociale. Libertà ed
autonomiaModifica Kant vide l'individuo umano come un essere razionale
autocosciente con una scelta di libertà "impura": La facoltà di
desiderare in base a concetti, nella misura in cui il motivo determinante della
sua azione va individuato in lei stessa e non in un oggetto, si chiama facoltà
di fare o di non fare a piacimento. In quanto legata alla coscienza della
capacità della sua azione in vista della produzione dell'oggetto, essa si
chiama arbitrio, mentre se è priva di questo legame, il suo atto si chiama
aspirazione. La facoltà di desiderare, il cui motivo determinante interno,
quindi anche il gradimento, è da cercare nella ragione del soggetto, si chiama
volontà. La volontà è quindi la facoltà di desiderare considerata non tanto
(come l'arbitrio) in rapporto all'azione, quanto piuttosto in rapporto al
motivo determinante dell'arbitrio in vista dell'azione. Inoltre non ha di per
sé in verità alcun motivo determinante, ma, in quanto può determinare
l'arbitrio, la volontà è piuttosto la ragione pratica stessa. Nell'ambito della
volontà può rientrare l'arbitrio, ma anche la semplice aspirazione, in quanto
la ragione può determinare la facoltà di desiderare in generale. L'arbitrio che
può essere determinato dalla ragione pura, si chiama libero arbitrio. Quello
che si lascia determinare soltanto dall'inclinazione (impulso sensibile,
stimulus), sarebbe arbitrio animale (arbitrium brutum). Al contrario l'arbitrio
umano è tale da venire sì sollecitato dall'impulso, ma non determinato, e non è
dunque puro di per sé (prima di acquisire la prerogativa della ragione), ma può
essere determinato ad agire dalla volontà pura. Immanuel Kant, Die
Metaphysik der Sitten, 213 (Metafisica dei costumi, tr.it. a cura di Giuseppe
Landolfi Petrone, testo tedesco a fronte, Milano, Bompiani) Per
poter considerare una volontà "libera", dobbiamo intenderla capace di
influenzare il potere causale senza essere essa stessa causata a fare ciò. Ma
l'idea dell'essere di un libero arbitrio "senza legge", vale a dire
un volere che agisce senza alcuna struttura causale, è incomprensibile. Dunque,
un libero arbitrio dovrebbe agire sotto leggi che esso dà a sé stesso.
Sebbene Kant ammise che non vi potesse essere alcun esempio concepibile di
esempio di libero arbitrio, perché un qualunque esempio ci mostrerebbe solo
come una volontà come ci appare — come soggetto alle leggi naturali — in ogni caso
argomentò contro il determinismo. Propose che il determinismo fosse
inconsistente dal punto di vista logico: il determinista afferma che A ha
causato B, e B ha causato C, che A è la vera causa di C. Applicato al
caso della volontà umana, un determinista potrebbe discettare sul fatto che la
volontà non ha un potere causale perché qualcos'altro ha causato la volontà di
agire come ha fatto. Ma tale argomentazione semplicemente assume cosa si era
prefigurato di dimostrare; che la volontà umana non è parte della catena causale.
In secondo luogo Kant sottolinea che il libero arbitrio è intrinsecamente
inconoscibile. Poiché dunque anche una persona libera non potrebbe avere la
conoscenza della propria libertà, non possiamo usare le nostre sconfitte per
trovare una prova del fatto che la libertà esiste o l'assenza di essa. Il mondo
osservabile non potrebbe mai contenere un esempio di libertà perché non
mostrerebbe mai una 'volontà' come appare a "se stessa", ma solo una
'volontà' che è soggetta alle leggi naturali imposte su di essa. Ma alla nostra
coscienza appariamo come liberi: dunque trasse le conclusioni che per l'idea
della libertà trascendentale questa sarebbe, libertà come presupposto della
domanda "cosa sarebbe necessario che io faccia?". Questo è ciò
che ci dà base sufficiente per definire la responsabilità morale: il razionale
e il potere dell'auto-realizzazione dell'individuo, che egli chiama
"autonomia morale": «la proprietà che la volontà ha di essere una
legge per essa stessa». Buona volontà, dovere e l'imperativo categoricoModifica
Dacché considerazioni dei dettagli fisici dell'azione sono necessariamente
legati alle preferenze soggettive di una persona, e potrebbero essere attivate
senza l'azione del volere razionale, Kant concluse che le conseguenze che ci si
attendeva di un atto sono esse stesse neutrali moralmente, e quindi irrilevanti
alle delibere morali. L'unica base oggettiva per un valore morale dovrebbe
essere la razionalità della buona volontà, espressa in riconoscimento del
dovere morale. Il dovere è la necessità di agire in rispetto della legge
dettata dall'imperativo categorico. Poiché il suo valore morale non scaturisce
dalle conseguenze di un atto, la sorgente della sua moralità dovrebbe essere
semmai la massima sotto la quale l'atto è eseguito, senza rispettare tutti gli
aspetti o le facoltà del desiderio. Un atto può dunque avere un contenuto
morale se, e solo se, è eseguito con riguardo verso il senso di dovere morale;
non è sufficiente che l'atto sia consistente con il dovere, deve essere intrapreso
in nome dell'adempimento del dovere. NoteModifica ^ Immanuel Kant,
Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di
Pietro Chiodi, Torino, UTET, Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in
Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, UTET, Kant, Fondazione della
metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, UTET,
Orlando L. Carpi, Il problema del rapporto fra virtù e felicità nella filosofia
morale di Immanuel Kant, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, Etica Imperativo
ipotetico Imperativo categorico, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Imperativo categorico,
in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Portale Filosofia: accedi
alle voci di Filosofia. Critica della ragion pratica testo filosofico di
Immanuel Kant Imperativo ipotetico termine Fondazione della
metafisica dei costume. Emanuele Duni. Duni. Keywords: costume, o sia
sistema di dritto [sic] universale, diritto
universale – diritto filosofico -- Vico, filologia, Roma, universalita –
Cicerone e buono. Cicerone e onesto – Cicerone dice la verita, il diritto
romano universalisabile --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Duni” – The
Swimming-Pool Library. Duni.
Grice e Duso: l’implicatura conversazionale di Romolo
e compagnia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Grice: “While Duso is
right that Hegel makes constitution and freedom analytically connected, the
Romans didn’t! -- Grice: “My favourite Duso is his study of Hegel on freedom
and the constitution – but Duso, who could have drawn from ‘diritto romano’
doesn’t!” Studioso dei concetti della politica moderna e riconosciuto per i
suoi interventi su Althusius e sul giusnaturalismo. Studia a Padova. Si laurea
con “Hegel interprete di Platone” (cf. “L’influenza di Hegel su Platone”). Assistente
di Storia della filosofia e Professore di Storia della logica. Insegna a
Padova. Dirige un Gruppo di ricerca sui concetti politici. È stato membro della
redazione delle riviste "Il Centauro" e Laboratorio politico. Membro
della Direzione della rivista "Filosofia politica", membro fondatore
dell'associazione "Centro di ricerca sul lessico politico europeo",
insieme a Roberto Esposito, Alessandro Biral, Adone Brandalise, Nicola Matteucci
e altri. Fonda con alcuni colleghi il Centro Inter-Universitario di Ricerca sul
Lessico Politico e Giuridico Europeo (CIRLPGE), con sede presso l'Istituto suor
Orsola Benincasa a Napoli, di cui è Direttore. Ha tenuto corsi di Storia della
Filosofia politica, di Filosofia politica e di Analisi dei Linguaggi e dei
Concetti Politici a Padova. In occasione della sua ultima lezione
"ufficiale", gli allievi del gruppo di ricerca padovano sui concetti
politici hanno edito in suo onore il volume "Concordia discors”. Il 27 maggio
l'Universidad Nacional de San Martín gli conferisce la laurea honoris
causa per il suo lavoro accademico in quanto "costituisce un fondamento
teorico indispensabile per comprendere l'attualità" -- è tra i principali
fautori italiani di una riflessione sui concetti del politico, che si inserisce
nel solco della Begriffsgeschichte tedesca di Brunner, Conze, Koselleck. Nei
confronti di quest'ultima il gruppo padovano coordinato da D. ha elaborato una
originale linea di ricerca caratterizzata in modo duplice dalla filosofia: in
primo luogo in quanto i concetti che si affermano e si diffondono con la
Rivoluzione francese sono esamila loro genesi, che avviene nell'ambito delle
dottrine del ‘contratto’sociale e dei sistemi di ‘diritto’ naturale; ma
soprattutto perché filosofico è il movimento di pensiero di chi pratica una
storia concettuale consistente nell'interrogare e mettere in questione (nel
senso dell'elenchos socratico) il concetto (‘diritto’, ‘ius’, ‘uguaglianza’,
‘libertà’ ‘potere’ ‘democrazia’) che sono in genere ritenuti ovvii sia nel
dibattito intellettuale, sia nella lotta politica. La storia concettuale
consiste in questo modo nel comprendere la genesi, la logica e le aporie dei
fondamentali concetti politici. "Storia dei concetti"
(Begriffsgeschichte) compare per la prima volta nelle “Vorlesungen über die
Philosophie der Geschichte” diHegel. Stanti le caratteristiche di quel testo,
non si sa se ‘Begriffsgeschichte’ sia di conio hegeliano, o non piuttosto
frutto di interpolazione. Esso allude ad una delle tre modalità storiografiche
discusse da Hegel, ed in particolare alla "storia interpretativa" (“reflektierte
Geschichte”), che indirizza la storia generale o storia del mondo o storia
universale (“Weltgeschichte”) alla filosofia, da un punto di vista universale.
Quest'uso della “Begriffsgeschichte” resta senza seguito. La tradizione
storico-concettuale evolve invece, tra il XVIII secolo ed il XIX, nell'alveo della
lessicografia filosofica. Nella
riflessione di Duso, la filosofia politica da una parte coincide con il lavoro
critico della storia concettuale, e dall'altra tende, sulla base delle aporie
emerse, a trovare linee di orientamento per un nuovo pensiero della politica.
In tal modo viene messa in questione la modalità generalmente accettata di
pensare la politica, che ha la sua radice nello sviluppo teorico che va dalla
nascita della sovranità sulla base del concetto di ‘libertà’ ai concetti
fondamentali delle nostre costituzioni democratiche, in particolare ‘sovranità
del popolo’ e ‘rappresentanza politica’. Il lavoro critico sul concetto ha
perciò una sua ricaduta nella messa in questione del dispositivo formale sia
della ‘democrazia rappresentativa’ che della ‘democrazia diretta’, e nel
tentativo di pensare la politica mediante nuove categorie. Altre opere: “Hegel e Platone, Padova; Contraddizione
e dialettica nella formazione in Fichte, Argalìa, Urbino; Weber: razionalità e
politica Arsenale, Venezia; La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt Arsenale,
Venezia; Il contratto nella politica (Il Mulino, Bologna); Filosofia politica e
pratica del pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss e Hannah Arendt”
(FrancoAngeli, Milano); “Il potere. Per la storia della filosofia politica
modernaCarocci, Roma (disponibile su cirlpge); “La logica del potere. Storia
concettuale come filosofia politica” (Laterza, Roma-Bari (Polimetrica, Monza (disponibile su cirlpge); “La libertà nella
filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e
Hegel (ed. con G. Rametta), Milano, FrancoAngeli); “La rappresentanza politica:
genesi e crisi del concetto, Franco Angeli Milano, cirlpge)(Duncker &
Humblot, Berlin, 2006 (disponibile su cirlpge); “Oltre la democrazia. Un
itinerario attraverso i classici” (Carocci, Roma); Sui concetti giuridici e
politici della costituzione dell'Europa (ed. con S. Chignola), FrancoAngeli,
Milano, Polimetrica, Monza; Ripensare la
costituzione. La questione della pluralità, (ed. con M. Bertolissi e Antonino
Scalone), Polimetrica, Monza, (disponibile su cirlpge) Storia dei concetti e
filosofia politica, (con Sandro Chignola), FrancoAngeli, Milano; Come pensare
il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali (ed. con A. Scalone),
Polimetrica, Monza (disponibile su
cirlpge). Santander, Il concetto di ‘libertà’ e costituzione repubblicana nella
filosofia politica di Kant, Polimetrica, Monza,
(disponibile su cirlpge) Ripensare la rappresentanza alla luce della
teologia politica, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico
moderno», (centropgm.unifi) Libertà e costituzione in Hegel” (FrancoAngeli,
Milano, Parti o partiti? Sul partito
politico nella democrazia rappresentativa, in «Filosofia politica» cirlpge); “Buon
governo e agire politico dei governati: un nuovo modo di pensare la democrazia?
(A proposito di Rosanvallon, Le bon gouvernement), in «Quaderni fiorentini per
la storia del pensiero giuridico moderno», centropgm.unifi. libri scaricabili gratuitamente in formato dal
sito del Centro Interuniversitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico
Europeo. Nello stesso sito sono disponibili inoltre altri saggi dello stesso
autore. Carl Schmitt Georg Wilhelm
Friedrich Hegel Johann Gottlieb Fichte Roberto Esposito Alessandro Biral Adone
Brandalise Gianfranco Miglio. CIRLPGE: Sito Ufficiale. Wikipedia
Ricerca Romolo primo leggendario Re di Roma Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi
Romolo (disambigua). Romolo Brogi, Carlo - n. 8226 - Certosa di Pavia -
Medaglione sullo zoccolo della facciata.jpg Romolo e suo fratello Remo da un
fregio del XV secolo, Certosa di Pavia. 1° Re di Roma In carica753 a.C.[1] -
717 a.C.[2] Predecessorecarica creata SuccessoreNuma Pompilio[3][4]
NascitaAlba Longa, 24 marzo del 771 a.C. MorteRoma, il 5[5] o il 7 luglio del
716 a.C.[2] Casa realedi Alba Longa DinastiaRe latino-sabini Padre Marte MadreRea
Silvia ConsorteErsilia[8] Figli Prima e Avilio Romolo (in latino: Romulus, in
greco antico: Ῥωμύλος, Rōmýlos; Alba Longa, 24 marzo 771 a.C.[1] – Roma, 5[5] o
7 luglio 716 a.C.[2]), gemello di Remo, è il nome della figura leggendaria a
cui la tradizione annalisticaattribuiva la fondazione di Roma e delle sue
principali istituzioni politiche, nonché il ruolo di primo re della città e
l'origine del toponimo. La sua storicità è oggetto di dibattito da parte degli
studiosi dall'inizio del XIX secolo, così come l'inizio della tradizione
letteraria sulla sua figura. Di origini latine-Sabine, figlio - a seguito
di un rapporto estorto con la forza - del dio Marte e di Rea Silvia,[7]figlia
di Numitore, re di Alba Longa,[1] secondo la tradizione fondò Roma tracciandone
il confine sacro,[7] il pomerio, il 21 aprile 753 a.C..[10] In tale occasione
uccise il fratello gemello Remo, reo di aver varcato in armi il sacro confine
[10]: tale fratricidio è stato sovente evocato come segno violento della
necessaria unicità del potere regale. Una volta costruita la città sul colle
Palatino, egli invitò criminali, schiavi fuggiti, esiliati e altri reietti a
unirsi a lui con la promessa del diritto d'asilo. Così facendo Romolo popolò
cinque dei sette colli di Roma, rapendo poi le donne ai vicini Sabini della
città di Cures, così da dare delle mogli ai suoi uomini. Ciò provocò una guerra
tra i due popoli, che alla fine si risolse con una pace con i Sabini che
poterono insediarsi sul vicino colle del Quirinale con il loro re, Tito Tazio,
che condivise con Romolo il potere per cinque anni. Romolo divise il popolo tra
coloro che potevano combattere e coloro che non potevano farlo. Scelse 100 tra
i più nobili cittadini per formare il Senato, tanto che i loro discendenti
andranno a costituire l'élite nobiliare della Repubblica. Romolo istituì anche
i comizi curiati, a cui spettava il compito di ratificare, tra le altre cose,
le leggi. Romolo condusse, quindi, diverse guerre di conquista. A lui risale la
divisione della popolazione patrizia nelle 3 tribù di Tities, Ramnes e Luceres
- a loro volta suddivise in dieci curie ciascuna - le quali dovevano in caso di
pericolo fornire all'esercito romano un contingente militare costituito da
cento fanti e dieci cavalieri, per un totale complessivo di 3 000 fanti e 300
cavalieri. Dopo aver regnato per poco più di 37 anni, Romolo, secondo la
leggenda, fu rapito in cielo durante una tempesta. Secondo i suoi stessi
desideri, una volta morto fu divinizzato nella figura di Quirino, dio sabino
venerato sul Quirinale. Leggenda Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Romolo e Remo. Origini familiariModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Enea, Alba Longa, Rea
Silvia e Marte (divinità). Secondo la leggenda Romolo e Remo erano figli di Marte
e di Rea Silvia, sacerdotessa vestale figlia del re di Alba Longa, Numitore,
diretto discendente di Enea.[4] Romolo era quindi per parte materna di stirpe
reale albana. Plutarco racconta che un certo Lucio Taruzio, matematico,
astrologo ed amico di Marco Terenzio Varrone (l'autore del De lingua Latina),
aveva calcolato il giorno esatto in cui i due gemelli furono concepiti (24
giugno del 772 a.C.) e nacquero (24 marzo del 771 a.C.).[1][16] Dopo la
fuga da Troia, Enea giunge nel Lazio e viene accolto dal re Latino, che gli fa
conoscere sua figlia Lavinia. Enea se ne innamora, ma la fanciulla era già
promessa a Turno, re dei Rutuli.[4] Il padre di Lavinia ascolta le intenzioni
di Enea ma temendo una vendetta da parte di Turno si oppone ai suoi desideri.
La disputa per la mano della fanciulla diventa una guerra, a cui partecipano le
varie popolazioni italiche, compresi Etruschi e Volsci; Enea si allea con le
popolazioni di origine greca stanziate nella città di Pallante sul Palatino,
regno dell'arcade Evandro e di suo figlio Pallante. La guerra è molto
sanguinosa (subito muore Pallante ucciso da Turno), e per evitare ulteriori
vittime si decide che la sfida fra Enea e Turno dovrà risolversi in un
combattimento tra i due "comandanti" e pretendenti. Enea ha il sopravvento,
sposa Lavinia e fonda la città di Lavinium (l'odierna Pratica di Mare).[4]Ben
diversa la versione di Livio nei capitoli 1 e 2 del I libro della sua "Ab
Urbe Condita" (il titolo è traducibile dal latino con "dalla
Fondazione di Roma"). I Troiani nel loro peregrinare arrivano nell'agro
Laurente e dopo uno scontro Enea addiviene a un patto d'alleanza con il re
Latino e ne sposa la figlia, Lavinia, e fonda la città di Lavinio dal nome
della moglie. Dal loro matrimonio nasce Ascanio.[4] Turno, re dei Rutuli, a cui
era stata promessa in sposa Lavinia, dichiara guerra ai Latini, come si
chiamano le genti del luogo dopo il patto. I Latini hanno la meglio ma Enea
muore combattendo. Infanzia ed adolescenzaModifica Romolo e Remo
allattati dalla Lupa dipinto di Rubens, ca.1616, Roma, Musei capitolini
La lupa, Romolo e Remo, nella monetazione romana del II secolo a.C.. Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lupercale. Dopo
trent'anni, Ascanio (detto anche Iulo) fonda una nuova città, Alba Longa,[18]
sulla quale regnano i suoi discendenti. Molto tempo dopo il figlio e legittimo
erede del re Proca di Alba Longa, Numitore, viene spodestato dal fratello
Amulio,[18] che ne costringe la figlia Rea Silvia a diventare vestale e a fare
quindi voto di castità.[4][19] Tuttavia il dio Marte s'invaghisce della
fanciulla e la rende madre di due gemelli, Romolo e Remo.[20] Il re Amulio
ordina l'uccisione dei gemelli, ma il servo incaricato di eseguire l'assassinio
non ne trova il coraggio e li abbandona alla corrente del fiume Tevere. La
cesta nella quale i gemelli sono stati adagiati si arena sulla riva, presso la
palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio in un luogo chiamato
Cermalus,[22] dove si trovava il fico ruminale.[6] Qui i due vengono trovati e
allevati da una lupa (probabilmente una prostituta, all'epoca chiamata anche
lupa, di cui si ritrova oggi traccia nella parola lupanare) e da un picchio
(animale sacro per i Latini) che li protegge, entrambi animali sacri ad
Ares.[23] Li trova poi il pastore Faustolo (porcaro di Amulio) che insieme alla
moglie Acca Larenzia li cresce come suoi figli. Una volta divenuti adulti e
conosciuta la propria origine, Romolo e Remo fanno ritorno ad Alba Longa,
uccidono Amulio e rimettono sul trono il nonno Numitore. Fondazione di
RomaModifica Roma attorno all'anno della sua fondazione, nel 753 a.C.
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fondazione di
Roma, Roma quadrata, Roma antica e Septimontium. Romolo e Remo, non volendo
abitare ad Alba Longa senza potervi regnare almeno fino a quando fosse stato in
vita il nonno materno, ottengono il permesso di andare a fondare una nuova
città, nel luogo dove erano cresciuti. Romolo vuole chiamarla Roma ed
edificarla sul Palatino, mentre Remo la vuole battezzare Remoria e fondarla
sull'Aventino. È lo stesso Livio che riferisce le due più accreditate versioni
dei fatti: «Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non
poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano
quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il
nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per
interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il
primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo.[27] Dal momento che a
Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato
annunciato,[28] i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro
contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla
priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque
una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo,
colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale
Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena
erette [più probabilmente il pomerium , il solco sacro] e quindi Romolo, al
colmo dell’ira, l’avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così,
d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.» In questo modo
Romolo s’impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome
del suo fondatore.» (Livio, cit., I, 7 , Garzanti 1990, trad. di G.
Reverdito) Regno (753 - 716 a.C.)Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Rex (Roma antica) e Lex regia. Plutarco narra
che una volta seppellito il fratello Remo, morto nello scontro che precedette
la fondazione della città, Romolo fece venire dall'Etruria esperti di leggi e testi
sacri che gli spiegassero ogni aspetto del rituale da attuare. Fu scavata una
fossa circolare attorno al Comizio e deposte offerte votive per ottenere il
favore degli Dei. Romolo però aveva bisogno di più abitanti per popolare la
nuova città, e così accolse pastori latini ed etruschi, alcuni anche d'oltre
mare, Frigi affluiti sotto la guida del suo avo Enea, oltre ad Arcadi arrivati
sotto quella di Evandro.[29] «Dopo la fondazione Romolo riunì uomini
errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio compreso tra la
sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei
vicini villaggi che si rifugiassero lì.» (Strabone, Geografia, V, 3,2.)
Ogni abitante portò una piccola zolla di terreno e la gettò, mischiata alle altre,
nella fossa chiamata mundus, che costituiva proprio il centro della città. Fu
poi tracciato il solco primigenius tutto intorno alla città, i cui confini ne
rappresentavano il pomerium, racchiuso all'interno delle mura
"sacre".[30] Quindi Romolo chiese al popolo quale forma di
governo volesse per la città appena fondata[31], e questo rispose che avrebbe
accettato Romolo come proprio re. Ma Romolo accettò la nomina solo dopo aver
preso gli auspici favorevoli del volere degli dei, che si manifestò con un
lampo che balenò da sinistra verso destra.[33] Dal ratto delle Sabine
alle guerre di conquista nel Latium vetusModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia delle campagne dell'esercito
romano in età regia e Latium vetus. Romolo, divenuto unico re di Roma, decise
per prima cosa di fortificare la nuova città, offrendo sacrifici agli dèi
secondo il rito albano e dei Greci in onore di Ercole, così com'erano stati
istituiti da Evandro.[34]; successivamente dotò la città del suo primo sistema
di leggi e si circondò di 12 littori.[35] Con il tempo Roma andò
ingrandendosi, tanto da apparire secondo Livio "così potente da poter
rivaleggiare militarmente con qualunque popolo dei dintorni". Erano le
donne che scarseggiavano.[36]Questa grandezza era destinata a durare una sola
generazione se i Romani non avessero trovato sufficienti mogli con cui
procreare nuovi figli per la città,[37] nonostante Romolo avesse proibito di
esporre tutti i figli maschi e la prima tra le figlie, tranne che fossero nati
con delle malformazioni.[38] «[...] Romolo su consiglio dei Senatori,
inviò ambasciatori alle genti vicine per stipulare trattati di alleanza con
questi popoli e favorire l'unione di nuovi matrimoni. All'ambasceria non fu
dato ascolto da parte di nessun popolo: da una parte provavano disprezzo,
dall'altra temevano per loro stessi e per i loro successori, ché in mezzo a
loro potesse crescere un simile potere.» (Livio, Ab Urbe condita libri,
I, 9.) L'intercessione delle Sabine, olio su tela di Jacques-Louis David,
1795-1798, Parigi, Musée du Louvre. La gioventù romana non la prese di buon
grado, tanto che la soluzione che andò prospettandosi fu quella di usare la
forza. Romolo, infatti, decise di dissimulare il proprio risentimento e di
allestire dei giochi solenni in onore di Nettuno equestre,[4] che chiamò
Consualia(secondo Floro erano dei ludi equestri) e che si celebravano ancora al
tempo di Strabone.[4] Quindi ordinò ai suoi di invitare allo spettacolo i
popoli vicini: dai Ceninensi, agli Antemnati, Crustumini e Sabini, questi
ultimi stanziati sul vicino colle Quirinale. L'obiettivo era quello di compiere
un gigantesco rapimento delle loro donne proprio nel mezzo dello spettacolo. Arrivò
moltissima gente, con figli e consorti, anche per il desiderio di vedere la
città nuova.[36] «Quando arrivò il momento stabilito dello spettacolo e
tutti erano concentrati sui giochi, come stabilito, scoppiò un tumulto ed i
giovani romani si misero a correre per rapire le ragazze. Molte cadevano nelle
mani del primo che incontravano. Quelle più belle erano destinate ai senatori
più importanti. [...]» (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.) Terminato lo
spettacolo i genitori delle fanciulle scapparono, accusando i Romani di aver
violato il patto di ospitalità. Romolo riuscì a placare gli animi delle
fanciulle e, con l'andare del tempo, sembra che l'ira delle ragazze andò
affievolendosi grazie alle attenzioni ed alla passione con cui i Romani le
trattarono nei giorni successivi. Anche Romolo trovò moglie tra queste
fanciulle, il cui nome era Ersilia. Da lei il fondatore della città, ebbe una
figlia, di nome Prima ed un figlio, di nome Avilio.[40] Tutto ciò diede
origine ad una serie di guerre successive.[36] Dei popoli che avevano subito
l'affronto furono i soli Ceninensi ad invadere i territori romani, ma furono
battuti dalle schiere ordinate dei Romani.[41] Il comandante nemico, un certo
Acrone fu ucciso in duello dallo stesso Romolo, che ne spogliò il cadavere e
offrì gli spolia opima a Giove Feretrio, fondando sul Campidoglio il primo
tempio romano.[41]Eliminato il comandante nemico, Romolo si diresse contro la
loro città che cadde al primo assalto,[2][42]trasferendone, poi, la
cittadinanza a Roma e conferendole pari diritti a quelli dei Romani. Gli stessi
Fasti trionfali celebrano per l'anno 752/751 a.C.:[44] «Romolo, figlio di
Marte, re, trionfò sul popolo dei Ceninensi (Caeniensi), calende di marzo (1º
marzo).» (Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di RomaFasti
Triumphales : Roman Triumphs.) Tale evento era, invece, avvenuto secondo
Plutarco, basandosi su quanto raccontato a sua volta da Fabio Pittore, solo tre
mesi dopo la fondazione di Roma (nel luglio del 753 a.C.).[45] Dopo la
vittoria sui Ceninensi fu la volta degli Antemnati.[2][46] La loro città fu
presa d'assalto ed occupata, portando Romolo a celebrare una seconda ovatio.[8]
Ancora i Fasti trionfali ricordano sempre per l'anno 752/751 a.C.:[44]
«Romolo, figlio di Marte, re, trionfò per la seconda volta sugli abitanti di
Antemnae(Antemnates).» (Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di
RomaFasti Triumphales : Roman Triumphs.) Rimaneva solo la città dei Crustumini,
la cui resistenza durò ancora meno dei loro alleati.[2] Portate a termine le
operazioni militari, il nuovo re di Roma dispose che venissero inviati nei
nuovi territori conquistati alcuni coloni, i quali andarono a popolare
soprattutto la città di Crustumerium, che, rispetto alle altre, possedeva
terreni più fertili. Contemporaneamente molte persone dei popoli sottomessi, in
particolar modo i genitori ed i parenti delle donne rapite, vennero a
stabilirsi a Roma. Il Latium vetus con le città elencate in questo
capitolo di Caenina, Antemnae, Crustumerium, Medullia, Fidenae e Veio. L'ultimo
attacco portato a Roma fu quello dei Sabini del Quirinale, nel corso del quale
si racconta della vergine vestale, Tarpeia, figlia del comandante della rocca
Spurio Tarpeio, la quale fu corrotta con dell'oro (i bracciali che vedeva
rilucere alle braccia dei Sabini[48]) da Tito Tazio e fece entrare nella
cittadella fortificata sul Campidoglio un drappello di armati con l'inganno. L'occupazione
dei Sabini della rocca, portò i due eserciti a schierarsi ai piedi dei due
colli (Palatino e Campidoglio), dove più tardi sarebbe sorto il Foro
romano,[51][52] mentre i capi di entrambi gli schieramenti incitavano i propri
soldati alla lotta: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio Ostilio per i Romani.
Quest'ultimo cadde nel corso della battaglia che poco dopo si scatenò,[53]
costringendo le schiere romane a ripiegare presso la vecchia porta del
Palatino. Romolo, invocando Giove e promettendo allo stesso in caso di vittoria
un tempio a lui dedicato (nel Foro romano),[52]si lanciò nel mezzo della
battaglia riuscendo a contrattaccare e ad avere la meglio sulle schiere nemiche.
Fu in questo momento che le donne sabine, che erano state rapite in precedenza
dai Romani, si lanciarono in mezzo alla battaglia per dividere i contendenti e
placarne la collera. Da una parte supplicavano i mariti [i Romani] e dall'altra
i padri [i Sabini]. Li pregavano di non commettere un crimine orribile,
macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di evitare di macchiarsi
di parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti
per altri.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13.) «Là mentre
stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo
incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei
Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall'altra, in
mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i
mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un Dio. Alcune avevano tra le
braccia i loro piccoli... e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia
ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e
lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo.» (Plutarco, Vita di
Romolo, 19, 1-3.) Con questo gesto entrambi gli schieramenti si fermarono e
decisero di collaborare, stipulando un trattato di pace, varando l'unione tra i
due popoli con comunanza di potere e cittadinanza,[4] associando i due regni
(quello di Romolo e Tito Tazio),[57] lasciando che la città dove ora era
trasferito tutto il potere decisionale continuasse a chiamarsi Roma, anche se
tutti i Romani furono chiamati Curiti (in ricordo della patria natia di Tito
Tazio, che era Cures) per venire incontro ai Sabini.[13][58] Contemporaneamente
il vicino lago nei pressi dell'attuale Foro romano, fu chiamato in ricordo di
quella battaglia e del comandante sabino scampato alla morte (Mezio Curzio),
Lacus Curtius,[13] mentre il luogo in cui si conclusero gli accordi tra le due
popolazioni, fu chiamato Comitium, che deriva da comire per esprimere l'azione
di incontrarsi.[59] Qualche anno dopo Tito Tazio fu ucciso a Lavinium e
Romolo, che non reagì al fatto con alcuna azione militare, rimase unico
regnante della città.[4][60]Successivamente Romolo riuscì prima a conquistare
Medullia, poi a battere Fidenae installandovi 2.500 coloni,[61] a farsi amici
ed alleati i prisci Latini,[62] a battere gli abitanti di Cameria (sedici anni
dopo la fondazione[63][64]) ed infine sconfiggere la potente città etrusca di
Veio, sottraendole i territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e
delle Saline,[64] in cambio di una tregua della durata di cento anni.[65]
Questa fu l'ultima guerra combattuta da Romolo.[66]
IstituzioniModifica Romolo, uccisore di Acrone, porta le sue spoglie al
tempio di Giove dipinto di Jean Auguste Dominique Ingres, 1812 Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lex regia, Senato romano, Gentes
originarie, Tribù (storia romana) ed Esercito romano. Al regno di Romolo si
attribuiscono i primi ordinamenti romani. Sembra, infatti, che per prima cosa
organizzò l'esercito, sulla base della popolazione adatta alle armi. Successivamente
istituì un'assemblea, formata da 100 Patres, mentre i loro discendenti furono
chiamati patrizi, a cui diede il nome nella sua globalità di Senato (Senatus da
senex per la loro anzianità). A lui si attribuisce l'istituzione del diritto di
asilo, a quanti erano stati banditi o fuggivano dalle città vicine; la
circostanza si può ricollegare all'esigenza di popolare la città. Gli si
attribuisce anche il fenomeno del patronato dei patrizi nei confronti dei
plebei che gli facevano da garanti e protettori in cambio di favori conosciuto
anche con il termine clientela. Tito Livio racconta che in seguito alla
pace stipulata con i Sabini di Tito Tazio (con il quale regnò in assoluta
armonia, fino a quando quest'ultimo non fu assassinato a Lavinio[60] cinque
anni dopo l'inizio del loro regno congiunto[11]), essendo raddoppiata la
popolazione, non solo furono eletti altri 100 Patres tra i Sabini, e
raddoppiati gli effettivi dell'esercito (ora composto da 6 000 fanti e 600 cavalieri),[70]
ma divise anche l'intero popolo in tre tribù: i Ramnes, i Titiesed i Luceres, a
loro volta suddivisi in dieci curie ciascuna, attribuendo ad esse i nomi di
trenta donne. Plutarco racconta che i due re, Romolo e Tazio, non tennero un
consiglio comune tra loro, ma ognuno deliberava prima separatamente con i
propri 100 Patres, e poi si radunavano tutti insieme in uno stesso luogo per
deliberare. Plutarco racconta che Romolo, inorgoglitosi dei successi conseguiti
contro tutte le popolazioni limitrofe alla città di Roma, con grande arroganza
abbandonò la precedente tendenza democratica, per sposare un modello di
monarchia assoluta, opprimente ed intollerabile.[66] Egli indossava un mantello
purpureo e una toga bordata di porpora, dava udienza su di un trono, attorniato
da alcuni giovani, chiamati celeres (una forma di guardia del corpo reale da
lui creata), ed era preceduto da alcuni littori, che respingevano la folla con
dei bastoni a difesa del rex. In effetti si tratterebbe di un'istituzione già
presente nelle città etrusche, dalla quali fu probabilmente ripresa ed
introdotta in Roma in epoca storica. Si racconta, inoltre, che, quando il
nonno Numitore morì, a Romolo spettasse il governo della città di Alba Longa,
ma egli preferì affidarne l'amministrazione al popolo, attraverso un suo
magistrato che eleggeva annualmente, e così insegnò anche ai cittadini più
potenti di Roma a desiderare di vivere in una città senza un rex, autonoma.
Infatti a Roma, da quando Romolo aveva mutato il suo atteggiamento da
democratico a dispotico, i cosiddetti patrizi, pur partecipando alla vita
pubblica, portavano solo un "titolo" onorifico ed un prestigio
apparente, riunendosi in Senato più per abitudine che per esprimere un parere.
Di fatto tutti si limitavano ad obbedire agli ordini di Romolo, avendo un unico
privilegio: quello di essere informati per primi sulle decisioni de re,
rispetto alla moltitudine.[76] Plutarco aggiunge che Romolo coprì di ridicolo
il Senato, distribuendo personalmente ai soldati la terra conquistata in guerra
e restituendo gli ostaggi ai Veienti, senza aver preventivamente consultato ed
ottenuto l'assenso da parte dei senatori.[77] Prime forme di diritto
privato romanoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Diritto romano. A Romolo si fa tradizionalmente risalire l'introduzione della
proprietà terriera privata a Roma, con l'atto, legato alla fondazione della
città, di attribuire ad ogni gens un heredium di terra, che sarebbe poi passato
in proprietà agli eredi.[78] Romolo stabilì anche una legge secondo la
quale una moglie non potesse lasciare il marito. Al contrario la donna poteva
essere ripudiata se tentava di avvelenare i figli, di sostituire le chiavi di
casa o in caso di adulterio. Nel caso in cui fosse stata ripudiata per altri
motivi, il marito era tenuto a versarle una quota del suo patrimonio e ad
offrirne una seconda al tempio di Demetra. Chi ripudiava la propria moglie era,
infine, tenuto a sacrificare agli dei Inferi.Curioso che Romolo non stabilì
alcuna pena contro i parricidi, ma definì parricidio tutte le forme di
omicidio, come se il parricidio fosse un delitto impossibile da
compiersi.[81] Festività e riti sacriModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Religione romana, Festività romane e
Mitologia romana. Sabini e Romani, una volta uniti sotto Tito Tazio e Romolo,
parteciparono alle rispettive feste e riti sacri, senza eliminare nessuno di
quelli che ciascun popolo aveva fino a quel momento celebrato singolarmente. Al
contrario ne istituirono di nuovi, come i Matronalia,[82] i Carmentalia[83] ed
i Lupercali.[84]Romolo decise di accogliere i rituali dedicati ad Ercole, unico
tra i riti non romani da lui accettati,[85] e sempre a lui (o al suo
successore, Numa Pompilio) è inoltre attribuita l'istituzione del culto del
fuoco, con la creazione delle vergini sacre a sua custodia, chiamate
Vestali.Calendario romuleoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLostesso
argomento in dettaglio: Calendario romano. La tradizione afferma che Romolo
avrebbe istituito per primo il Calendario romano (un calendario lunare con
inizio alla luna piena di marzo, costituito da 10 mesi - 6 mesi di 30 giorni e
4 mesi di 31 giorni, per un totale di 304 giorni; i restanti 61 giorni di
inverno non venivano assegnati ad alcun mese). Va altresì segnalato che altri
storici come Eutropio, sostengono possa essere stato il suo successore Numa
Pompilio.[88] Questo fu un argomento molto dibattuto dagli storici del tempo
(da Tito Livio a Dionigi d'Alicarnasso o Plutarco) poiché alcuni di loro
affermavano trattarsi di un calendario piuttosto disordinato, dove i mesi
variavano da 20 giorni a 35 giorni. Morte, sepoltura e
deificazioneModifica Dopo trentotto anni di regno,[89] secondo la tradizione
(all'età di cinquantaquattro anni[89]), Romolo venne assunto in cielo[90]
durante una tempesta[2] ed un'eclissi,[91] avvolto da una nube, mentre passava
in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla Palus Caprae in Campo
Marzio.[92][93] L'improvvisa scomparsa del loro fondatore fece sì che i Romani
lo proclamassero dio (con il nome di Quirino,[65][94][95] in onore del quale fu
edificato un tempio sul colle, chiamato in seguito Quirinale[96]), figlio di un
dio (Marte), re e pater (padre) di Roma.[97] Ancora ai tempi di Plutarco si
celebravano molti riti nel giorno della sua scomparsa, avvenuta secondo
tradizione il 5[5] o il 7 luglio del 716 a.C.[2] Sembra anche che, per
dare maggiore credibilità all'accaduto, la tradizione racconta che riapparve al
suo vecchio compagno albano Proculo Giulio,[98] il più antico personaggio noto
appartenente alla gens Iulia. «Stamattina o Quiriti, verso l'alba,
Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso
davanti ai miei occhi. [...] Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è
che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici
nell'arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra
può resistere alle armi romane.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I,
16.) L'evidente somiglianza delle tradizioni, ha indotto alcuni storici a
ritenere che questo racconto abbia ispirato quello relativo alla risurrezione
di Gesù.[99]Nella probabile realtà storica, invece, il primo re di Roma sarebbe
morto assassinato dai Patres durante una seduta del consiglio regio al Volcanal
(ovvero il tempio di Efesto nel Foro romano). Si racconta infatti che, a causa
delle continue limitazioni che aveva posto al Senato, organo divenuto più che
altro di facciata ad una forma di monarchia sempre più "assoluta",
soprattutto dopo la morte di Tito Tazio, caddero sui suoi membri sospetti e
calunnie.[77] Il suo corpo sarebbe stato poi simbolicamente smembrato dai
senatori, "a causa del suo carattere troppo duro"[91] e le sue parti
(divise tra gli stessi membri del Senato[101]) sepolte nelle varie aree
componenti il territorio della città. Dietro la leggenda: la realtà
storico-archeologicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Populi albensese Gentes originarie. La reale esistenza di Romolo
è stata lungamente discussa, ma secondo lo storico Theodor Mommsensarebbe
comprovata dalla presenza tra le gentesoriginarie di Roma (di cui parla Tito
Livio) della gens Romilia, nota da iscrizioni, che è stata identificata con il
clan familiare dei discendenti di Romolo, e che diede anche il proprio nome ad
una delle più antiche Tribù territoriali. Se ne ha conferma da una glossa di
Festo(la 331 nell'epitome di Paolo Diacono, edita da Lindsay), che riporta
appunto l'esistenza di una tribù Romulia. Altri autori ritengono sia una
creazione artificiale, fantasiosa quella di Romolo, pur riconoscendo nella
stessa figura "leggendaria" la sintesi di elementi topografici,
politici e religiosi realmente accaduti, a partire dalla tribù dei Romili oltre
alla figura di Remo, identificabile con l'antico centro di Remuria nei pressi
della Roma quadrata(sull'Aventino). Secondo il linguista Carlo de Simone,[105]
i nomi di Roma e Romolo sarebbero collegati ed entrambi deriverebbero da un
termine ricostruito in ruma, al quale la tradizione romana assegnava il
significato di "mammella". Il termine sarebbe di origine etrusca,
perché non ne è stato trovato l'etimo indoeuropeo (e l'unica lingua
non-indoeuropea della zona era appunto l'etrusco). Il termine sarebbe entrato
come prestito nel latino arcaico e avrebbe dato origine al toponimo Ruma (più
tardi Roma) e ad un prenome Rume (in latino divenuto Romus), dal quale sarebbe
derivato il gentilizio etrusco Rumel(e)na[106], divenuto in latino Romilius. Il
Villar, invece, sostiene che il nome Romafosse, molto probabilmente, il nome
preindoeuropeo del Tevere trasferito alla città che esso bagnava, come accadeva
frequentemente a quel tempo. Secondo altre ipotesi (sempre più smentite dalle
campagne archeologiche), i più antichi dei re di Roma sarebbero figure
principalmente simboliche (in particolare sembrano complementari i primi due,
Romolo e Numa Pompilio, che avrebbero introdotto le massime istituzioni
politico-militari e religiose dello stato). La reale esistenza della
figura di Romolo come effettivo fondatore, primo legislatore e re-sacerdote, è
stata rivalutata dall'archeologo Andrea Carandini, sulla base di moderni scavi
condotti alle pendici del Palatino, che avrebbero portato al rinvenimento dell'area
corrispondente alla vera Regia di Romolo, nonché dell'antico tracciato del
pomerio. Ivi sono stati rinvenuti reperti fittili, resti di una palizzata e di
un muro in tufo (derubricato come «muro di Romolo») databili con certezza al
secolo VIII a.C., circostanza che darebbe conferma anche dell'esattezza
cronologica delle fonti storiografiche latine sull'epoca della fondazione di
Roma e della consistenza del suo rito di fondazione. Inoltre, sulla base di una
fonte letteraria, la scoperta del sito del lapis niger fu associata all'ipotesi di un possibile sito
della tomba di Romolo o di un arcaico luogo di culto a lui dedicato. A
possibile conferma di quanto sopra, nel febbraio 2020 nella zona sottostante
alla scalinata di accesso alla Curia è stato rinvenuto un cenotafio ipogeo
databile al VI secolo a.c. dedicato al suo culto, contenente un sarcofago della
lunghezza di circa m 1,50, che alcuni studiosi hanno ipotizzato possa essere
stata la sua tomba, mentre altri hanno escluso tale possibilità. Va osservato
tuttavia che la lunghezza del sarcofago, (corrispondente in modo abbastanza
preciso alla statura media degli uomini di quell'epoca) farebbe pensare ad una
funzione di inumazione di un corpo integro, non delle sue parti. [112]
Antenati Genitori Nonni Bisnonni Dio Giove Dio Saturno Dea OpiDio Marte Dea
GiunoneDio Saturno Dea Opi Romolo Numitore Proca Rea Silvia Eutropio,
Breviarium ab Urbe condita, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 2. ^ a b
Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 2.1. ^ a b c d e f
g h i j k l m n o Strabone, Geografia, V, 3,2. ^ a b c Plutarco, Vita di
Romolo, 27, 4. ^ a b c Livio, Ab Urbe condita libri, I, 4. ^ a b c d Floro,
Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.1. ^ a b c d Livio, Ab
Urbe condita libri, I, 11. ^ Marcone, p. 19. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita
libri, I, 7. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 23, 1-3. ^ Strabone, Geografia, V,
3,7. ^ a b c d e Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13. ^ Plutarco, Vita di
Romolo, 27-29; Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15. ^ Floro, Epitoma de Tito
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Alicarnasso, II, 24-25. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 22, 4. ^ Plutarco, Vita di
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romano, Russo: "L'ipogeo scoperto non è la tomba di Romolo", su
rainews.it, 19 febbraio 2020. URL consultato il 20 febbraio 2020.
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Villar, Gli indoeuropei e le origini dell'Europa, Il Mulino, Romolo e Remo
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di Roma, compreso tra il 753 e il 509 a.C. Battaglia del lago Curzio
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dell'esercito romano dal 753 al 509 a.C. Grice: “I consider
myself, like Rawls, a contractualist – my steps towards a quasi-contractualism,
are formulated elsewhere.” Grice: “I should not be confused with Grice – a
FULL-BLOWN contractualist!” Grice: “’May’ only has one sense – it may rain, you
may run. Credibility and desirability modalities are not Fregeian senses! ‘may’
is aequi-vocal. In Latin it is more obvious, since there is only ‘possum’ for
‘I may’. ‘Can’ is of course a solecism!” Giuseppe Duso. Bepi Duso. Keywords:
Plato-Hegel, Aristotle-Kant – Plathegel, Ariskant – zoon politikon – contratto
sociale – democrazia – repubblica – il primo contrattualista cita Aristotele –
Contratto nel diritto romano – aporia della rappresentazione – concetto di
politica, concetto di soveranita – concetto di potere – io posso – concetto di
liberta – la filosofia politica italiana – l’influenza di Fichte nell’idealismo
rivoluzionario del risorgimento --. Regime di governo – storia del concetto –
aporia del concetto -- Welsh philosopher
Geoffrey Russell Grice, modalita, verbo modale, verbo servile, verbo
aussiliare, puo, posso, possiamo. Modalita aletica o doxastica (posso passarti
la sale) e deontica (puoi ma non puoi – you can but you may not --. Contract,
pact, compact. Foundations of morality – contract in ethics, meta-ethics,
politics, meta-politics. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Duso: zoon politikon” – The Swimming-Pool Library. Duso.
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