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Sunday, April 28, 2024

GRICE ITALICO A/Z D

 

Grice e Damocle: la spada e la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean. Grice: “Not to the confused with the infamous one with the sword.” Damocle.

 

Grice e Damone: all’isola con Fintia -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. A Pythagorean. According to Giamblico di Calcide, when Dionisio di Siracusa condemns D.’s friend, Fintia di Siracusa, to death, Fintia asks for time to arrange his affairs, saying D. will stand hostage for him while he is away. Dionisio is amazed when D. agrees to the arrangement, and even more amazed when Fintia duly returns at the end of the day to accept his punishment. Dionisio is so impressed that pardons Fintia, and asked the pair join their sect – but they turned him down. Damone.

 

Grice e Damostrato: i paradossi dei filosofi -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. D., or Demostrato. Roman senator. A historian as well as an authority on fish and fishing. Said to be, like Grice, particularly interested in paradoxes and is regarded by some other philosophers as a philosopher. Demostrato. Damostrato. Keyword: paradox. Luigi Speranza, “Grice e Damostrato: le paradossi dei filosofi” – per il gruppo di gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Damotage: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide. Grice: “In the old days, surnames were not felt to be necessary; but then, with a first name (if not Christian) like ‘Damotage’ – would YOU care?”. Luigi Speranza, “Grice e Damotage” – per il gruppo di gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Dalmasso: l’implicatura conversazionale della giustizia nel discorso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Dalmasso is what at Oxford we call a ‘derivative’ philosopher, and at Cambridge a ‘Derrideian’! But he’s written some original work too, mostly as editor, as in “La passione della ragione” – he has also explored ‘discourse’ in terms of ‘rationality’ and ‘fairness’ – In my model, both conversationalists are symmetrical, so questions of unfairness do not apply! I took the inspiration from Chomsky!” – Si laurea a Milano. Insegna a Calabria, Roma, Pisa, e Bergamo. Membro della Societa Italiana di Filosofia Teoretica. Studia Derrida, ha commentato “La voix et le phénomène” e “De la grammatologie (Jaca Book). Comments on “L’offerta obliqua” e “Passioni” --Dai problemi del soggetto del discorso e della genesi del segno nel dibattito sul nichilismo i suoi interessi si sono rivolti alla ragione in rapporto all'etica e Hegel. Pubbllica in Oltrecorrente, di Magazzino di Filosofia. Altre opere: Hegel, probabilmente. Il movimento del vero (Milano: Jaca).Hegel e l'Aufhebung del segno, Chi dice io. Chi dice noi (duale). L’implicatura del noi duale. Razionalità e nichilismo, Jaca, Milano, La passione della ragione. Il pensiero in gabbia. La politica dell’imaginario, la verita in effetti. La sovranita in legame. Etica e ontologia: fatto, valore, soggetto, l’interosoggetivo. Il tra noi. Di-segno – la giustizia nel discorso. Hegel e l’Aufhebung del SEGNO. L'implicatura del noi duale. L’in­trec­cio fra sa­pe­re e ra­gio­ne Il tema della filosofia di D. ri­guar­da la do­man­da ori­gi­na­ria. Do­man­da e ori­gi­ne sono pro­ble­mi del pen­sie­ro che, fin dal­l’i­ni­zio della fi­lo­so­fia, non co­sti­tui­sco­no un ap­proc­cio di con­trol­lo e di do­mi­nio del­l’e­si­sten­za, quan­to piut­to­sto un ri­pie­ga­men­to su sé stes­si che si in­ter­ro­ga sulla pro­pria ge­ne­si. In ter­mi­ni meno esi­sten­zia­li e più an­ti­chi tale que­stio­ne oc­cu­pa il posto del­l’a­ni­ma. Dalla con­sa­pe­vo­lez­za del­l’in­com­be­re della morte nel primo sta­si­mo del­l’An­ti­go­ne al co­sti­tuir­si, per così dire, di un’interiorità nella so­fi­sti­ca e in Pla­to­ne, l’a­ni­ma (animatum) ha fun­zio­na­to come prin­ci­pio ori­gi­na­rio in una forma di­ver­sa che il do­mi­nio. Prin­ci­pio che an­no­da e che ma­ni­fe­sta, se­con­do vie non solo im­me­dia­te e spe­cu­la­ri, il logos (la ragione), il noein come co­no­scen­za e mi­su­ra di un or­di­ne. Quan­do il nous, at­tra­ver­so Ari­sto­te­le, ac­qui­sta tutto il suo svi­lup­po con­cet­tua­le e stra­te­gi­co, nel pen­sie­ro tardo-​an­ti­co, a par­ti­re da Plo­ti­no, l’ anima ri­ma­ne ed è ri­ba­di­ta come il luogo e il ve­ni­re a co­scien­za del rap­por­to con lo stes­so “nous,” cioè con il for­mu­lar­si del­l’o­ri­gi­na­rio (uno, bene o atto che sia).  Grice e D. scel­gono di leg­ge­re Bradley e Hegel. Scel­ta mo­ti­va­ta da loro in­te­res­si di ri­cer­ca, ma anche, più am­pia­men­te, dall’attualità di un lin­guag­gio che è in grado di ri­for­mu­la­re que­stio­ni sul­l’as­set­to mo­der­no del sa­pe­re e sul sog­get­to – e l’intersoggetivo -- di tale sa­pe­re. Su un ‘noi’ duale, che, nella espli­ci­ta stra­te­gia he­ge­lia­na, ar­ti­co­la e rad­dop­pia il ruolo di due anime. Sa­pe­re su di un noi duale è co­mun­que per Hegel un sa­pe­re sulle strut­tu­re di un noi duale chi, che sono in grado di for­mu­la­re una do­man­da ori­gi­na­ria.  Il testo, di cui Bradley propone al­cu­ne note es­sen­zia­li di com­men­to, ri­guar­da i pa­ra­gra­fi dalla “Psi­co­lo­gia razionale”della Fi­lo­so­fia dello Spi­ri­to con­te­nu­ta nella edi­zio­ne dell’En­ci­clo­pe­dia. A dif­fe­ren­za dell’“an­tro­po­lo­gia”, in cui due a­ni­me sono con­si­de­ra­te come l’a­spet­to im­me­dia­to della vita dello spi­ri­to (le due anime con­si­de­ra­te come il sonno dello spi­ri­to, pro­ble­mi del rap­por­to del­le due anime con I due corpori, que­stio­ni del sonno, della ve­glia, delle sen­sa­zio­ni ecc.) la Psi­co­lo­gia non è scien­za delle due a­ni­ma, ma scien­za del sa­pe­re in­tor­no al­le due a­ni­me, cioè scien­za ve­ra­men­te tale, nella sua por­ta­ta con­cet­tua­le. Per Bradley e Hegel, ‘scien­za’, Wis­sen­schaft, ogni scien­za, e so­prat­tut­to quel­la scien­za mas­si­ma­men­te ri­go­ro­sa che è la fi­lo­so­fia (‘regina scientiarum) è scien­za sem­pre di se­con­do grado: scien­za che con­trol­la e che ha come og­get­to la sua stes­sa ge­ne­si. La filosofia e la regina scientiarum, la scien­za che mi­su­ra il ne­ga­ti­vo ri­spet­to al suo as­sun­to e al suo stes­so me­to­do, scien­za che è in grado di smar­car­si dal piano del suo stes­so sa­pe­re e di com­pren­de­re il rap­por­to di­na­mi­co, ge­ne­ra­ti­vo e mai astrat­ta­men­te “spe­cu­la­re” o reflessivo delle due anime, in cui la inter-co­no­scen­za si co­sti­tui­sce. Così, nel caso del testo com­men­ta­to da Bradley, i con­te­nu­ti della psi­co­lo­gia sono cu­rio­sa­men­te tutti di­ver­si da quel­li che nel­l’as­set­to della fine del­l’Ot­to­cen­to e del primo No­ve­cen­to ci si aspet­te­reb­be da una psi­co­lo­gia del tipo elaborato a Oxford dai Wilde lecturer in ‘mental philosophy”: Stout, -- cf. Prichard – cit. da Grice, “Intention and dispositions”. La psi­co­lo­gia filosofica o razionale non è scien­za delle leggi delle anime o psi­chai, ma del mo­vi­men­to ge­ne­ra­ti­vo delle leggi delle anime o delle psi­chai.  I testi che sono og­get­to del com­men­to di Bradley sono, come Bradley nota, estre­ma­men­te dif­fi­ci­li. Prima di co­min­cia­re Bradley fa qual­che ri­lie­vo sul pro­ble­ma della difficoltà in ge­ne­ra­le nella let­tu­ra del testo di Hegel. La que­stio­ne si pone se­con­do tre punti di vista. In­nan­zi tutto come que­stio­ne della na­tu­ra e della de­sti­na­zio­ne del testo. Ad esem­pio l’ “En­ci­clo­pe­dia delle scien­ze fi­lo­so­fi­che”, nel no­stro caso, è pen­sa­ta come un rias­sun­to delle le­zio­ni per i ‘tuttee’. In se­con­do luogo il pro­ble­ma del si­gni­fi­ca­to espres­so, del voler dire del di­scor­so he­ge­lia­no. In terzo luogo, che è quel­lo de­ci­si­vo, la que­stio­ne del me­to­do di com­po­si­zio­ne del testo di Hegel, me­to­do che ri­guar­da, d’un colpo solo, due anime: mittente e recipiente. Que­stio­ni, dette al­tri­men­ti, di sin­to­niz­zar­si con il testo che, per quan­to ri­guar­da il me­to­do filosofico di Hegel, non può es­se­re altro che ri­per­cor­re­re l’e­le­men­to ge­ne­ra­ti­vo del si­gni­fi­ca­to di ciò che Hegel explicitamente communica. Senza di que­sto in­ces­san­te ri­per­cor­ri­men­to a li­vel­lo della ge­ne­si del testo, il suo ‘segnato’ posse appare in­com­pren­si­bi­le o ap­piat­ti­to. Ap­piat­ti­to come su di una su­per­fi­cie, in modo che il gioco delle in­ter­pre­ta­zio­ni del tutee, anche nel caso si trat­ti di stu­dio­so molto qua­li­fi­ca­to, tende spes­so a sbiz­zar­rir­si in gro­vi­gli di ipo­te­si fi­lo­lo­gi­che o di ca­rat­te­re ideo­lo­gi­co-​me­ta­fi­si­co. Il mi­ni­mo comun de­no­mi­na­to­re è la per­di­ta del nesso fra il segnato di ciò che è detto nel testo con li mo­vi­men­to ge­ne­ra­ti­vo di tale segnato. Così si può se­pa­ra­re per­fi­no il con­cet­to di ne­ga­ti­vo dal con­cet­to di ge­ne­ra­zio­ne so­vrap­po­nen­do l’uno sul­l’al­tro e ren­den­do in­com­pren­si­bi­li en­tram­bi. Que­stio­ne che si pone in modo non in­fre­quen­te, anzi ma­les­se­re spes­so dif­fu­so anche nel com­men­to di Bradley. Ini­zia­mo la let­tu­ra par­ten­do dalle prime righe.  Lo spi­ri­to si è de­ter­mi­na­to di­ve­nen­do la verità del­l’a­ni­ma e della co­scien­za, cioè la verità di quel­la totalità sem­pli­ce e im­me­dia­ta e di que­sto sa­pe­re. Ades­so il sa­pe­re, in quan­to forma in­fi­ni­ta, non è più li­mi­ta­to da quel con­te­nu­to, non sta in rap­por­to con esso come con un og­get­to, ma è sa­pe­re della totalità so­stan­zia­le, né sog­get­ti­va né og­get­ti­va, ma intersoggetiva. ll pro­ble­ma del rap­por­to fra il sa­pe­re e la ra­gio­ne inau­gu­ra qui il di­bat­ti­to sulla scien­za della psi­che. L’in­trec­cio fra sa­pe­re e ra­gio­ne ini­zia a di­pa­nar­si nel pa­ra­gra­fo se­guen­te:  L’a­ni­ma è fi­ni­ta nella mi­su­ra in cui è de­ter­mi­na­ta im­me­dia­ta­men­te, cioè de­ter­mi­na­ta per na­tu­ra.  La co­scien­za è fi­ni­ta nella mi­su­ra in cui ha un og­get­to.  Lo spi­ri­to è in­ve­ce fi­ni­to, “in­so­fern ist end­lich,” nella mi­su­ra in cui esso, nel suo sa­pe­re (in sei­nem Wis­sen) non ha più un og­get­to, ma una de­ter­mi­na­tez­za, nel senso che è fi­ni­to per via della sua im­me­dia­tez­za e — che è la stes­sa cosa — perché è sog­get­ti­vo, è cioè come il Con­cet­to. Lo spi­ri­to è fi­ni­to nella mi­su­ra in cui esso, nel suo sa­pe­re, non ha più un og­get­to, ma una de­ter­mi­na­tez­za. Lo spi­ri­to sem­bra es­se­re quell’attività in grado di con­te­ne­re e con­trol­la­re l’in­trec­cio fra la ra­gio­ne e il sa­pe­re, anche se ora solo nella forma del­l’im­me­dia­tez­za. L’in­trec­cio si or­ga­niz­za su due poli: la ra­gio­ne e il sa­pe­re. Essi si im­pli­ca­no re­ci­pro­ca­men­te. A se­con­da che si con­si­de­ri come con­cet­to la ra­gio­ne o il sa­pe­re.  Qui è in­dif­fe­ren­te ciò che viene de­ter­mi­na­to come con­cet­to dello spi­ri­to e ciò che viene in­ve­ce de­ter­mi­na­to come realità o “Realität” di que­sto con­cet­to. Se in­fat­ti la ra­gio­ne as­so­lu­ta­men­te in­fi­ni­ta, og­get­ti­va, viene posta come con­cet­to dello spi­ri­to, al­lo­ra la realità è il sa­pe­re, cioè l’in­tel­li­gen­za; se in­ve­ce è il sa­pe­re a es­se­re con­si­de­ra­to come il con­cet­to, al­lo­ra la realità del con­cet­to è que­sta ra­gio­ne e la rea­liz­za­zio­ne (Rea­li­sie­rung) del sa­pe­re con­si­ste nel­l’ap­pro­priar­si della ra­gio­ne.  La fi­ni­tez­za dello spi­ri­to per­tan­to con­si­ste in ciò: il sa­pe­re non com­pren­de l’Es­se­re in-​sé-​e-​per-​sé della sua ra­gio­ne. In altri ter­mi­ni: la ra­gio­ne non si è ma­ni­fe­sta­ta pie­na­men­te nel sa­pe­re.  C’è un di­sli­vel­lo dun­que strut­tu­ra­le con la ra­gio­ne che fun­zio­na nel sa­pe­re. Di­sli­vel­lo strut­tu­ra­le che per i greci era in­ve­ce co­sti­tui­to dal rap­por­to fra il sa­pe­re e la verità. Co­mun­que la realtà, con­si­de­ra­ta come realtà del sa­pe­re o come realtà della ra­gio­ne, si co­sti­tui­sce e fun­zio­na per Hegel come un farsi che è un in­trec­cio ine­stri­ca­bi­le. Una purità e verginità del­l’o­ri­gi­ne è in­tro­va­bi­le.  La que­stio­ne di un sa­pe­re dello/sullo spi­ri­to si ar­ti­co­la ul­te­rior­men­te nel pa­ra­gra­fo. Il pro­ce­de­re dello spi­ri­to è svi­lup­po (“Ent­wic­klung”) nella mi­su­ra in cui la sua esi­sten­za, il sa­pe­re, ha entro se stes­sa l’es­se­re — de­ter­mi­na­to in sé e per sé, cioè ha per con­te­nu­to, “Ge­hal­te,” e per fine, “Zweck” il ra­zio­na­le, “Ver­nunf­ti­ge.” L’attività di tra­spo­si­zio­ne è dun­que pu­ra­men­te e sol­tan­to il pas­sag­gio for­ma­le nella ma­ni­fe­sta­zio­ne e, in que­sta, è ri­tor­no entro sé, “Rückkehr in sich.” Nella mi­su­ra in cui il sa­pe­re, af­fet­to dalla sua prima de­ter­mi­na­tez­za, è sol­tan­to astrat­to, cioè for­ma­le, la meta dello spi­ri­to è quel­la di pro­dur­re il ri-em­pi­men­to og­get­ti­vo, “die ob­jec­ti­ve Erfüllung her­vor­zu­brin­gen,” e quin­di, a un tempo, la libertà del suo sa­pe­re. In que­sto testo il mo­vi­men­to del sa­pe­re e il suo sa­per­ne si ar­ti­co­la come que­stio­ne della co­no­scen­za del­l’o­ri­gi­na­rio. Tale que­stio­ne, che ha la forma del ri­tor­no, è pen­sa­bi­le come libertà. L’av­ven­tu­ra dello spi­ri­to che è sem­pre un ap­pro­priar­si, un far pro­prio, qui, e se­con­do la radicalità della sua strut­tu­ra, fun­zio­na come ap­pro­priar­si del sa­pe­re e coin­ci­de con l’av­ven­tu­ra della libertà.  Il cam­mi­no dello spi­ri­to con­si­ste per­tan­to nel­l’es­se­re spi­ri­to teo­re­ti­co, cioè nel­l’a­ve­re a che fare con il ra­zio­na­le nella sua de­ter­mi­na­tez­za im­me­dia­ta, e di porlo ades­so come il suo. Il cam­mi­no con­si­ste in­nan­zi tutto nel li­be­ra­re il sa­pe­re dal pre­sup­po­sto e, con ciò, dalla sua astra­zio­ne, e ren­de­re sog­get­ti­va la de­ter­mi­na­tez­za. Poiché in tal modo il sa­pe­re è in sé e per sé de­ter­mi­na­to come sa­pe­re entro sé, e poiché la de­ter­mi­na­tez­za è posta come la sua, quin­di come in­tel­li­gen­za li­be­ra, il sa­pe­re è  volontà, spi­ri­to pra­ti­co, il quale in­nan­zi tutto è an­ch’es­so for­ma­le. Il sapere a un con­te­nu­to che è sol­tan­to il suo. Esso vuole im­me­dia­ta­men­te, e ades­so li­be­ra la sua de­ter­mi­na­zio­ne di volontà dalla soggettività e l’intersoggetivita che la con­di­zio­na­ come forma uni­la­te­ra­le del pro­prio con­te­nu­to. In tal modo gli spi­ri­ti  di­vie­neno come spi­ri­ti li­be­ri, nel quale è ri­mos­sa quel­la dop­pia unilateralità. Lo scor­cio teo­ri­co for­ni­to in que­sto pa­ra­gra­fo me­ri­ta una pun­tua­liz­za­zio­ne. Ab­bia­mo in pre­ce­den­za ac­cen­na­to alla cor­ni­ce della psi­co­lo­gia filosofica o razionale come pro­get­to scien­ti­fi­co: scien­za delle anime che si pone come scien­za dei fat­to­ri ge­ne­ra­ti­vi delle anime.  Il per­cor­so dei spi­ri­ti che si sfor­zano di co­no­sce­re se stes­si, che tentano di com­pren­de­re l’e­spe­rien­za della lor libertà, che nella Fe­no­me­no­lo­gia dello spi­ri­to pren­de la via della mo­ra­le come sto­ria, in que­ste pa­gi­ne pren­de la via della psi­co­lo­gia come scien­za della libertà. Che il sa­pe­re possa af­fer­ra­re se stes­so, possa ap­pro­priar­si di sé. La stra­te­gia he­ge­lia­na im­pli­ca che l’o­ri­gi­na­rio, per i sog­get­ti (l’intersoggetivo) e per il sa­pe­re, fun­zio­ni e sia co­no­sci­bi­le come ef­fet­to di que­sto ap­pro­priar­si che è etico, pra­ti­co.  Se non si pensa il si­gni­fi­ca­to del sa­pe­re e di suoi sog­get­ti come etico, pra­ti­co, i sog­get­ti del sa­pe­re si di­bat­teno «in una bi-lateralità»: la rap­pre­sen­ta­zio­ne che i sog­get­ti fano di sé come suoi e l’im­me­dia­tez­za di tale rap­pre­sen­ta­zio­ne. Le libertà dell’anime è pen­sa­bi­le come lo spiaz­za­men­to in cui i sog­get­ti del sa­pe­re co­no­sceno il loro es­se­re fatto, no­no­stan­te e at­tra­ver­so il loro co-fare (co-operare) im­pos­si­bi­li­ta­to a co­glie­re l’identità fra sé e le loro im­ma­gi­ni. Que­sta di­vi­sio­ne e di­sli­vel­lo in­ter­no che è l’impossibilità di co­glie­re l’o­ri­gi­ne del pro­prio co­sti­tuir­si è per Hegel l’In­tel­li­gen­za (cf. H. L. A. Hart, su Holloway, “Language and Intelligence” – Signs). Nel mon­tag­gio lin­gui­sti­co di que­sto testo tale di­vi­sio­ne e tale di­sli­vel­lo vanno ad oc­cu­pa­re il posto della clas­si­ca op­po­si­zio­ne fra il den­tro e il fuori.  L’in­tel­li­gen­za, in quan­to è que­sta unità con­cre­ta dei due mo­men­ti — vale a dire, im­me­dia­ta­men­te, di es­se­re ri­cor­da­ta entro sé in que­sto ma­te­ria­le este­rior­men­te es­sen­te, e di es­se­re im­mer­sa nel­l’es­se­re fuori-​di-​sé men­tre entro sé si in­te­rio­riz­za col pro­prio ri­cor­do —, è in­tui­zio­ne. Il cam­mi­no del­l’In­tel­li­gen­za sta pro­prio nel bat­te­re in brec­cia l’op­po­si­zio­ne fra il den­tro e il fuori.  Le in­tel­li­gen­za, quan­do ri­cor­dano ini­zial­men­te l’in­tui­zio­ne, poneno il con­te­nu­to del sen­ti­men­to nella pro­pria interiorità, nel loro pro­prio spa­zio e nel loro pro­prio tempo. In tal modo il con­te­nu­to è im­ma­gi­ne, li­be­ra­ta dalla sua prima im­me­dia­tez­za e dalla dualità astrat­ta ri­spet­to all’altro soggetto, in quan­to essa è ac­col­ta nella dualità del­ noi. Que­sto bat­te­re in brec­cia, visto dal punto di vista del­l’in­tel­li­gen­za, è l’im­ma­gi­ne. L’in­tel­li­gen­za pos­sie­de dun­que le im­ma­gi­ni. L’in­tel­li­gen­za è il Quan­do e il Dove del­l’im­ma­gi­ne.  L’im­ma­gi­ne è per sé “tran­s-eun­te”,  nomade, da una anima ad altra anima, e l’in­tel­li­gen­za stes­sa, in quan­to at­ten­zio­ne, è il tempo e anche lo spa­zio, il Quan­do e il Dove, del­l’im­ma­gi­ne.  L’in­tel­li­gen­za però non è sol­tan­to la co-­scien­za e l’es­ser­ci delle pro­prie de­ter­mi­na­zio­ni, bensì, in quan­to tale, ne è anche i sog­get­ti e l’In-​sé. Ri­cor­da­ta nel­l’in­tel­li­gen­za, perciò, l’im­ma­gi­ne non è più esi­sten­te, ma è con­ser­va­ta in­con­scia­men­te. Nell’An­mer­kung dello stes­so pa­ra­gra­fo Hegel inau­gu­ra la me­ta­fo­ra del pozzo not­tur­no per de­fi­ni­re il fun­zio­na­men­to del­l’in­tel­li­gen­za come un luogo in cui sono con­ser­va­te im­ma­gi­ni e rap­pre­sen­ta­zio­ni che l’in­tel­li­gen­za stes­sa non co­no­sce. Hegel pro­se­gue la sua in­da­gi­ne at­tra­ver­so una sorta di tiro in­cro­cia­to fra in­tui­zio­ne ed im­ma­gi­ne, met­ten­do in azio­ne uno stile ago­sti­nia­no alla “De ma­gi­stro” d’AGOSTINO. Anche la no­zio­ne, clas­si­ca, di “re-­praesentatum,” il rappresentato, entra, ri­com­pre­sa e ri­pen­sa­ta, come dal­l’in­ter­no, nel mo­vi­men­to pro­dut­ti­vo del­l’in­tel­li­gen­za.  La no­zio­ne di “me­mo­ria,” come stato temporario totale, è an­ch’es­sa ri­per­cor­sa, nella sua strut­tu­ra clas­si­ca, come mo­vi­men­to at­ti­vo e im­pren­di­bi­le, fun­zio­nan­te nel­l’in­tel­li­gen­za e pro­dut­ti­va di essa, in una svol­ta de­ci­si­va del pa­ra­gra­fo. L’in­tel­li­gen­za è la po­ten­za che do­mi­na sulla ri­ser­va di im­ma­gi­ni e IL RAPPRESENTATO che le ap­par­ten­go­no. Essa è quin­di con­giun­zio­ne e sus­sun­zio­ne li­be­ra di que­sta ri­ser­va sotto il con­te­nu­to pe­cu­lia­re. L’in­tel­li­gen­za si ri­cor­da ed in­te­rio­riz­za in modo de­ter­mi­na­to entro quel­la ri­ser­va, e la pla­sma im­ma­gi­na­ti­va­men­te se­con­do que­sto suo con­te­nu­to. Essa è quin­di fan­ta­sia, im­ma­gi­na­zio­ne SIMBOLIZZANTE, al­le­go­riz­zan­te o poe­tan­te.  Que­sta for­ma­zio­ne im­ma­gi­na­ti­va più o meno con­cre­te, più o meno in­di­vi­dua­liz­za­te, e an­co­ra delle sin­te­si nella mi­su­ra in cui il ma­te­ria­le, in cui il con­te­nu­to inter-sog­get­ti­vo con­fe­ri­sce un es­ser­ci a IL RAPPRESENTATO , pro­vie­ne dal tro­va­to, “dem Ge­fun­de­nen,” del­l’in­tui­zio­ne. Passività, evi­den­za, sor­pre­sa di fonte al darsi ori­gi­na­rio delle cose ri­guar­da perciò per Hegel un mo­vi­men­to che ha come suo ele­men­to lo sce­na­rio dell’inte-rsoggetività. Il tro­va­to del­l’in­tui­zio­ne, in­con­tro, evi­den­za, ac­co­glien­za della realtà è pen­sa­bi­le in un re­gi­stro che è già una tra­du­zio­ne, un ‘trans-latum.” È nel re­gi­stro di una tra­du­zio­ne (“trans-latum”) che nel per­cor­so di que­sto testo di Hegel, di una tra­du­zio­ne (trans-latum) del fuori nel den­tro e vi­ce­ver­sa, che si può av­vi­sta­re ciò in fi­lo­so­fia si chia­ma realtà.  Quan­do l’in­tel­li­gen­za, in quan­to ra­gio­ne, parte dal­l’ap­pro­pria­zio­ne del­l’im­me­dia­tez­za tro­va­ta entro sé, cioè la de­ter­mi­na come un “universale”, ecco al­lo­ra che la sua attività ra­zio­na­le pro­ce­de dal punto at­tua­le, “dem nun­meh­ri­gen Punk­te,” a de­ter­mi­na­re come es­sen­te ciò che in essa si è svi­lup­pa­to in au­to-in­tui­zio­ne con­cre­ta, pro­ce­de cioè a ren­de­re se stes­sa es­se­re, cosa, il reale. L’in­tel­li­gen­za stes­sa così si fa es­sen­te, si fa cosa, si fa il reale. Quan­do è at­ti­va in que­sta de­ter­mi­na­zio­ne, l’in­tel­li­gen­za si estrin­se­ca, “aus­sernd,” pro­du­ce, “pro­du­zie­rend,” in­tui­zio­ne. E fan­ta­sia che si espri­me in un “SEGNO” -- “ZIECHEN ma­chen­de Phan­ta­sie,” token-making fantasy – fantasia che fa SEGNO, fantasia che SEGNA.—L’intelligenza e fantasia che SIGNI-fica. L’in­tel­li­gen­za esi­ste in quan­to fan­ta­si. Tesi non im­me­dia­ta­men­te pre­ve­di­bi­le nel di­spo­si­ti­vo, in­tri­ca­to, di que­sto per­cor­so he­ge­lia­no. Tesi cui pure spin­ge, con ri­go­ro­sa necessità, que­sta ana­li­si scien­ti­fi­ca delle anime. Una anima, A, SEGNA, l’altra, B, passivamente CAPISCE.  Que­sto testo di Hegel in­ne­sca con­sa­pe­vol­men­te una po­le­mi­ca ed anche una ri-­for­mu­la­zio­ne me­to­do­lo­gi­ca ra­di­ca­le nei con­fron­ti della tra­di­zio­ne em­pi­ri­sta, dei sen­si­sti, di Con­dil­lac e degli ideo­lo­gues. At­tra­ver­so le scor­ri­ban­de del­l’in­tel­li­gen­za fra sa­pe­re e “SEGNO” (ZEICHEN – inglese ‘TOKEN’ -- , la fantasia che fa SEGNO, la fantasia che SEGNA –SIGNI-FICA), scien­za e realtà, at­tra­ver­so e al di là della dia­let­ti­ca fra il po­si­ti­vo e il ne­ga­ti­vo, fra i sog­get­ti e la verità ecc, Hegel af­fer­ma che l’in­tel­li­gen­za è il suo atto. Esi­ste­re non è l’im­me­dia­tez­za di un che ri­spet­to a se stes­si, ma è l’at­to in cui, in un con­te­nu­to de­ter­mi­na­to, l’in­tel­li­gen­za si rap­por­ta a se stes­sa.  La fan­ta­sia è il punto cen­tra­le in cui l’u­ni­ver­sa­le e l’es­se­re, il pro­prio e il tro­va­to, l’in­ter­no e l’ester­no – cf. Bradley, relazione interna, relazione esterna -- sono per­fet­ta­men­te uni­fi­ca­ti. Le sin­te­si pre­ce­den­ti del­l’in­tui­zio­ne, del ri­cor­do ecc., sono uni­fi­ca­zio­ni del me­de­si­mo mo­men­to, tut­ta­via si trat­ta pur sem­pre di sin­te­si. Solo nella fan­ta­sia l’in­tel­li­gen­za non è più come il POZZO in­de­ter­mi­na­to e come l’u­ni­ver­sa­le, bensì è come sin­go­la­re, cioè come inter-soggettività CONCRETA nella quale l’­re­la­zio­ne è de­ter­mi­na­ta sia come es­se­re sia come universale.L’in­tel­li­gen­za è inte-rsoggettività con­cre­ta solo nella fan­ta­sia con-divisa. Tale que­stio­ne è chia­ri­ta dal se­gui­to della stes­sa An­mer­kung. Tutti ri­co­no­sco­no che le im­ma­gi­ni della fan­ta­sia co­sti­tui­sco­no tali uni­fi­ca­zio­ni del pro­prio e del­l’in­ter­no dello spi­ri­to con l’e­le­men­to in­tui­ti­vo. Il loro con­te­nu­to ul­te­rior­men­te de­ter­mi­na­to ap­par­tie­ne ad altri am­bi­ti, men­tre qui que­sta fu­ci­na in­ter­na va in­te­sa sol­tan­to se­con­do quel mo­men­to astrat­to. In quan­to attività di que­sta unio­ne, la fan­ta­sia è ra­gio­ne, ma è ra­gio­ne for­ma­le, solo nella mi­su­ra in cui il con­te­nu­to in quan­to tale della fan­ta­sia è in­dif­fe­ren­te. La ra­gio­ne in quan­to tale, in­ve­ce, de­ter­mina a verità anche il con­te­nu­to. Nell’ “An­mer­kung” suc­ces­si­va nello stes­so pa­ra­gra­fo Hegel opera la svol­ta de­ci­si­va nel per­cor­so che qui ci in­te­res­sa:  In par­ti­co­la­re bi­so­gna an­co­ra ri­le­va­re que­sto fatto. Poiché la fan­ta­sia porta il con­te­nu­to in­ter­no a im­ma­gi­ne e a in­tui­zio­ne, e ciò viene espres­so di­cen­do che essa lo de­ter­mi­na come es­sen­te, non deve sem­bra­re sor­pren­den­te l’e­spres­sio­ne se­con­do cui l’in­tel­li­gen­za si fa­ es­sen­te, si fa­ cosa, si fa il reale. Il con­te­nu­to del­l’in­tel­li­gen­za, in­fat­ti, è l’in­tel­li­gen­za stes­sa, e lo è al­tret­tan­to la de­ter­mi­na­zio­ne che essa gli con­fe­ri­sce. L’im­ma­gi­ne pro­dot­ta dalla fan­ta­sia è inter-sog­get­ti­va­men­te in­tui­ti­va, men­tre è NEL SEGNO (ZEICHEN, inglese‘token’) che la fan­ta­sia ag­giun­ge a ciò l’au­ten­ti­ca intuibilità – “ei­gen­tli­che An­schau­li­ch­keit.” Nella me­mo­ria mec­ca­ni­ca, poi essa com­ple­ta in sé que­sta forma del­l’es­se­re.  L’im­ma­gi­ne solo nel “SEGNO” (Zeichen, token) è au­ten­ti­ca intuibilità di ciò che è. L’es­sen­te è co­gli­bi­le come “SEGNO” (Zeichen, token), non come dato, come dono. Dato e dono non sono pen­sa­bi­li. Ma nep­pu­re spe­ri­men­ta­bi­li nella forma della pre­sen­za, cioè in un darsi -- che, in ter­mi­ni he­ge­lia­ni, è la ma­te­ria del­l’in­tui­zio­ne. Essi sono già tra­scrit­ti nel con­te­nu­to in­ter­no del­l’in­tel­li­gen­za, cioè come un SEGNO (Zeichen, token). L’e­le­men­to im­pren­di­bi­le, enig­ma­ti­co della co­no­scen­za è IL SEGNO (Zeichen, token) e non il dato, il dono. Nella strut­tu­ra di que­sto testo Hegel af­fer­ma che il non pro­prio, il non nostro so­vra­sta e spiaz­za nella forma di IL SEGNO (Zeichen, token), non nella forma del dono.  In que­sta unità, pro­ce­den­te dal­l’in­tel­li­gen­za, di una RA-PRESENTAZIONE -- rap­pre­sen­ta­zio­ne au­to­no­ma -- “selb-ständiger Vor­stel­lung,” e di una in­tui­zio­ne, la ma­te­ria del­l’in­tui­zio­ne è certo in­nan­zi­tut­to un qual­co­sa di ac­col­to, di im­me­dia­to e di dato – “ein auf­ge­nom­me­nes, etwas un­mit­tel­ba­res oder ge­ge­be­nes” -- per esem­pio il co­lo­re della coc­car­da e af­fi­ni. In que­sta identità però l’in­tui­zio­ne non ha il va­lo­re di RA-PRESENTARE -- rap­pre­sen­ta­re po­si­ti­va­men­te e di rap­pre­sen­ta­re se stes­sa, bensì di rap­pre­sen­ta­re qual­co­s’al­tro. Essa è un’IMMAGINE che ha ri­ce­vu­to entro sé una RA-PRESENTAZIONE -- rap­pre­sen­ta­zio­ne au­to­no­ma del­l’in­tel­li­gen­za come anima, che ha ri­ce­vu­to, cioè, IL SUO SEGNATO. Que­sta in­tui­zio­ne è il SEGNO (Zeichen, token). L’in­tui­zio­ne, rap­por­ta­ta scien­ti­fi­ca­men­te alla sua ori­gi­ne, ha la forma del SEGNO (Zeichen, token). Tale forma ha una strut­tu­ra che coin­vol­ge i ter­mi­ne stes­si del­l’in­tel­li­gen­za. L’in­tel­li­gen­za sem­bra fun­zio­na­re in una de­ri­va di cui IL SEGNO (Zeichen, token) co­sti­tui­sce una sorta di cer­nie­ra, snodo in cui l’in­tel­li­gen­za stes­sa è tolta-​con­ser­va­ta.  L’in­tui­zio­ne che im­me­dia­ta­men­te e ini­zial­men­te è qual­co­sa di dato e di spa­zia­le -- “ge­ge­be­nes und raum­li­ches” -- una volta IMPIEGATA COME SEGNO (Zeichen, token) ri­ce­ve la de­ter­mi­na­zio­ne es­sen­zia­le di es­se­re sol­tan­to come in­tui­zio­ne ri­mos­sa. Que­sta sua negatività è l’in­tel­li­gen­za. Perciò la fi­gu­ra più au­ten­ti­ca del­l’in­tui­zio­ne, che è un SEGNO (Zeichen, token), è di es­se­re un es­ser­ci nel tempo: un di­le­gua­re -- “Ver­sch­win­den” -- del­l’es­ser­ci men­tre l’es­ser­ ci è.  Inol­tre, se­con­do la sua ul­te­rio­re de­ter­mi­na­tez­za este­rio­re, psi­chi­ca, la fi­gu­ra più vera del­l’in­tui­zio­ne è un es­se­re-​posta dal­l’in­tel­li­gen­za, esser-​posta che viene fuori dalla naturalità pro­pria, an­tro­po­lo­gi­ca, del­l’in­tel­li­gen­za stes­sa: è il tono, “Ton,” cioè l’e­strin­se­ca­zio­ne riem­pi­ta dell’interiorità an­nun­cian­te­si. Il “tono” che si ar­ti­co­la ul­te­rior­men­te in vista del rap­pre­sen­tato de­ter­mi­na­te è il di­s-cor­so –dis-cursus – general principles of rational discourse -- e un si­ste­ma del di­scor­so è la communicazione – CO-MUNIO. In que­sto am­bi­to il “tono” con­fe­ri­sce a una sen­sa­zio­ne, una in­tui­zio­ne e un rap­pre­sen­ta­to  un *se­con­do* (duale) es­ser­ci, più ele­va­to del­l’es­ser­ci im­me­dia­to. In ge­ne­ra­le con­fe­ri­sce loro un’e­si­sten­za che ha va­lo­re nel regno dell’attività rap­pre­sen­ta­ti­va – che RA-PRESENTA. Que­sto pro­get­to he­ge­lia­no di una scien­za della psi­che tenta qui un ul­te­rio­re ra­di­ca­le ap­proc­cio alla ge­ne­si del­l’in­tel­li­gen­za. L’in­tui­zio­ne, in quan­to fun­zio­nan­te come SEGNO (Zeichen, token), ri­ce­ve la de­ter­mi­na­zio­ne es­sen­zia­le di es­se­re sol­tan­to come in­tui­zio­ne ri­mos­sa – “ZU EINEM ZEICHEN GEBRAUCHT WIRD, DIE WESENTLICHE BESTIMMUNG NUR ALS AUF-GEHOBENE ZU ZEIN. In que­sto esser ri­mos­so, tolto-​con­ser­va­to del­l’in­tui­zio­ne sta l’o­ri­gi­ne del­l’in­tel­li­gen­za. La negatività di cui essa è fatta si in­trec­cia strut­tu­ral­men­te alla no­zio­ne di tempo. L’in­tui­zio­ne non è do­mi­na­bi­le da due sog­get­ti se non nella forma del dopo, un di­le­gua­re del­l’es­ser­ci men­tre es­ser­ci è. Quel­l’al­tro in­trec­cio che co­sti­tui­sce l’in­tui­zio­ne, l’in­trec­cio fra il den­tro e il fuori si espri­me nel “tono,” suono ar­ti­co­la­to. Il tono, visto in rap­por­to ad una rap­pre­sen­ta­zio­ne de­ter­mi­na­ta, è il di­scor­so --“Rede”, inglese ‘Read’ -- e il si­ste­ma del di­scor­so è la lin­gua -- Spra­che, inglese ‘Speak’ -- e la communicazione – COM-MUNIO. A que­sto punto del suo per­cor­so la stra­te­gia di Hegel si in­con­tra con il pri­vi­le­gio greco e pla­to­ni­co ac­cor­da­to all’espressione, IL VERBUM – LA LOQUENZA -- la pa­ro­la, al logos in quan­to vi­ven­te pro­nun­cia­to, DETTO -- dictum – cf. indice, segnalato, segnato. Come nel “Cratilo” di Pla­to­ne, anche in Hegel l’espressione come SEGNO è cen­tra­le nella vita del­l’in­tel­li­gen­za, ma di una centralità che oc­cu­pa il luogo di un mo­vi­men­to ori­gi­na­rio ed im­pren­di­bi­le. Per un com­men­to cri­ti­co ed espli­ca­ti­vo dei pa­ra­gra­fi della «Psi­co­lo­gia» nella se­zio­ne sullo «Spi­ri­to sog­get­ti­vo», anche per ciò che con­cer­ne le fonti di Hegel e la sag­gi­sti­ca re­la­ti­va, cfr. La «magia dello spi­ri­to» e il «gioco del con­cet­to». Con­si­de­ra­zio­ni sulla fi­lo­so­fia dello spi­ri­to sog­get­ti­vo nel­l’En­ci­clo­pe­dia di Hegel, Mi­la­no, Gue­ri­ni e As­so­cia­ti. Uso la re­cen­te tra­du­zio­ne di Ci­ce­ro (En­ci­clo­pe­dia delle scien­ze fi­lo­so­fi­che in com­pen­dio, Mi­la­no, Ru­sco­ni) che ri­ten­go pun­tua­le ed av­ver­ti­ta delle que­stio­ni poste dal testo, no­no­stan­te la discutibilità di al­cu­ne so­lu­zio­ni su cui per altro pesa in certa mi­su­ra la re­si­sten­za ad ab­ban­do­na­re tra­du­zio­ni fa­mi­lia­ri e con­so­li­da­te. “Hegel e l’Aufhebung del segno.” L’in­trec­cio fra sa­pe­re e ra­gio­ne Il tema di que­sto col­lo­quio ri­guar­da la do­man­da ori­gi­na­ria. Do­man­da e ori­gi­ne sono pro­ble­mi del pen­sie­ro che, fin dal­l’i­ni­zio della fi­lo­so­fia, non co­sti­tui­sco­no un ap­proc­cio di con­trol­lo e di do­mi­nio del­l’e­si­sten­za, quan­to piut­to­sto un ri­pie­ga­men­to su sé stes­si che si in­ter­ro­ga sulla pro­pria ge­ne­si. In ter­mi­ni meno esi­sten­zia­li e più an­ti­chi tale que­stio­ne oc­cu­pa il posto del­l’a­ni­ma. Dalla con­sa­pe­vo­lez­za del­l’in­com­be­re della morte nel primo sta­si­mo del­l’An­ti­go­ne al co­sti­tuir­si, per così dire, di un’«interiorità» nella So­fi­sti­ca e in Pla­to­ne, l’a­ni­ma ha fun­zio­na­to come prin­ci­pio ori­gi­na­rio in una forma di­ver­sa che il do­mi­nio. Prin­ci­pio che an­no­da e che ma­ni­fe­sta, se­con­do vie non solo im­me­dia­te e spe­cu­la­ri, il logos, il noein come co­no­scen­za e mi­su­ra di un or­di­ne. Quan­do il nous, at­tra­ver­so Ari­sto­te­le, ac­qui­sta tutto il suo svi­lup­po con­cet­tua­le e stra­te­gi­co, nel pen­sie­ro tardo-​an­ti­co, a par­ti­re da Plo­ti­no, l’ anima ri­ma­ne ed è ri­ba­di­ta come il luogo e il ve­ni­re a co­scien­za del rap­por­to con lo stes­so nous, cioè con il for­mu­lar­si del­l’o­ri­gi­na­rio (Uno, Bene o Atto che sia). Scel­go di leg­ge­re Hegel. Scel­ta mo­ti­va­ta da miei in­te­res­si at­tua­li di ri­cer­ca, ma anche, più am­pia­men­te, dall’attualità di un lin­guag­gio che è in grado di ri­for­mu­la­re que­stio­ni sul­l’as­set­to mo­der­no del sa­pe­re e sul sog­get­to di tale sa­pe­re. Su un io, che, nella espli­ci­ta stra­te­gia he­ge­lia­na, ar­ti­co­la e rad­dop­pia il ruolo del­l’a­ni­ma. Sa­pe­re su di un io è co­mun­que per Hegel un sa­pe­re sulle strut­tu­re di un chi, che è in grado di for­mu­la­re una do­man­da ori­gi­na­ria. Il testo, di cui in­ten­do pro­por­re al­cu­ne note es­sen­zia­li di com­men­to, ri­guar­da i pa­ra­gra­fi della “Psi­co­lo­gia”, se­zio­ne della “Fi­lo­so­fia dello Spi­ri­to” con­te­nu­ta nella edi­zio­ne dell’ “En­ci­clo­pe­dia.” A dif­fe­ren­za dell’ “An­tro­po­lo­gia”, in cui l’a­ni­ma è con­si­de­ra­ta come l’a­spet­to im­me­dia­to della vita dello spi­ri­to (anima con­si­de­ra­ta come il sonno dello spi­ri­to, pro­ble­mi del rap­por­to del­l’a­ni­ma con il corpo, que­stio­ni del sonno, della ve­glia, delle sen­sa­zio­ni ecc.), la Psi­co­lo­gia non è scien­za del­l’a­ni­ma, ma scien­za del sa­pe­re in­tor­no al­l’a­ni­ma, cioè scien­za ve­ra­men­te tale, nella sua por­ta­ta con­cet­tua­le. Per Hegel scien­za – “Wis­sen­schaft” -- ogni scien­za, e so­prat­tut­to quel­la scien­za mas­si­ma­men­te ri­go­ro­sa che è la fi­lo­so­fia, è scien­za sem­pre di se­con­do grado: scien­za che con­trol­la e che ha come og­get­to la sua stes­sa ge­ne­si. Scien­za che mi­su­ra il ne­ga­ti­vo ri­spet­to al suo as­sun­to e al suo stes­so me­to­do, scien­za che è in grado di smar­car­si dal piano del suo stes­so sa­pe­re e di com­pren­de­re il rap­por­to di­na­mi­co, ge­ne­ra­ti­vo e mai astrat­ta­men­te spe­cu­la­re, in cui la co­no­scen­za si co­sti­tui­sce. Così, nel caso del testo che stia­mo per com­men­ta­re, i con­te­nu­ti della psi­co­lo­gia he­ge­lia­na sono cu­rio­sa­men­te tutti di­ver­si da quel­li che nel­l’as­set­to della fine del­l’Ot­to­cen­to e del primo No­ve­cen­to ci si aspet­te­reb­be da una psi­co­lo­gia in senso mo­der­no e scien­ti­fi­co. La psi­co­lo­gia non è scien­za delle leggi della psi­che, ma del mo­vi­men­to ge­ne­ra­ti­vo delle leggi della psi­che.  I testi che sono og­get­to del mio com­men­to sono, come è noto, estre­ma­men­te dif­fi­ci­li. Prima di co­min­cia­re vor­rei fare qual­che ri­lie­vo sul pro­ble­ma della difficoltà in ge­ne­ra­le nella let­tu­ra del testo di Hegel. La que­stio­ne si pone se­con­do tre punti di vista. In­nan­zi tutto come que­stio­ne della na­tu­ra e della de­sti­na­zio­ne del testo. Ad esem­pio l’ “En­ci­clo­pe­dia delle scien­ze fi­lo­so­fi­che”, nel no­stro caso, è pen­sa­ta come un rias­sun­to delle le­zio­ni per gli stu­den­ti. In se­con­do luogo il pro­ble­ma del si­gni­fi­ca­to espres­so, del voler dire del di­scor­so he­ge­lia­no. In terzo luogo, che è quel­lo de­ci­si­vo, la que­stio­ne del me­to­do di com­po­si­zio­ne del testo di Hegel, me­to­do che ri­guar­da, d’un colpo solo, au­to­re e let­to­re. Que­stio­ni, dette al­tri­men­ti, di sin­to­niz­zar­si con il testo che, per quan­to ri­guar­da il me­to­do di la­vo­ro di Hegel, non può es­se­re altro che ri­per­cor­re­re l’e­le­men­to ge­ne­ra­ti­vo del si­gni­fi­ca­to di ciò che Hegel dice. Senza di que­sto in­ces­san­te ri­per­cor­ri­men­to a li­vel­lo della ge­ne­si del testo, il suo si­gni­fi­ca­to ri­sul­ta ine­vi­ta­bil­men­te in­com­pren­si­bi­le o ap­piat­ti­to. Ap­piat­ti­to come su di una su­per­fi­cie, in modo che il gioco delle in­ter­pre­ta­zio­ni del let­to­re, anche nel caso si trat­ti di stu­dio­so molto qua­li­fi­ca­to, tende spes­so a sbiz­zar­rir­si in gro­vi­gli di ipo­te­si fi­lo­lo­gi­che o di ca­rat­te­re ideo­lo­gi­co-​me­ta­fi­si­co. Il mi­ni­mo comun de­no­mi­na­to­re è la per­di­ta del nesso fra il si­gni­fi­ca­to di ciò che è detto nel testo con li mo­vi­men­to ge­ne­ra­ti­vo di tale si­gni­fi­ca­to.. Così si può se­pa­ra­re per­fi­no il con­cet­to di ne­ga­ti­vo dal con­cet­to di ge­ne­ra­zio­ne so­vrap­po­nen­do l’uno sul­l’al­tro e ren­den­do in­com­pren­si­bi­li en­tram­bi. Que­stio­ne che si pone in modo non in­fre­quen­te, anzi ma­les­se­re spes­so dif­fu­so anche nei com­men­ti «pro­fes­sio­na­li».  Ini­zia­mo la let­tu­ra par­ten­do dalle prime righe del par. 440.  Lo spi­ri­to si è de­ter­mi­na­to di­ve­nen­do la verità del­l’a­ni­ma e della co­scien­za, cioè la verità di quel­la totalità sem­pli­ce e im­me­dia­ta e di que­sto sa­pe­re.  Ades­so il sa­pe­re, in quan­to forma in­fi­ni­ta, non è più li­mi­ta­to da quel con­te­nu­to, non sta in rap­por­to con esso come con un og­get­to, ma è sa­pe­re della totalità so­stan­zia­le, né sog­get­ti­va né og­get­ti­va. ll pro­ble­ma del rap­por­to fra il sa­pe­re e la ra­gio­ne inau­gu­ra qui il di­bat­ti­to sulla scien­za della psi­che. L’in­trec­cio fra sa­pe­re e ra­gio­ne ini­zia a di­pa­nar­si nel pa­ra­gra­fo se­guen­te:  L’a­ni­ma è fi­ni­ta nella mi­su­ra in cui è de­ter­mi­na­ta im­me­dia­ta­men­te, cioè de­ter­mi­na­ta per na­tu­ra.  La co­scien­za è fi­ni­ta nella mi­su­ra in cui ha un og­get­to.  Lo spi­ri­to è in­ve­ce fi­ni­to (in­so­fern ist end­lich) nella mi­su­ra in cui esso, nel suo sa­pe­re (in sei­nem Wis­sen) non ha più un og­get­to, ma una de­ter­mi­na­tez­za, nel senso che è fi­ni­to per via della sua im­me­dia­tez­za e — che è la stes­sa cosa — perché è sog­get­ti­vo, è cioè come il Con­cet­to. Lo spi­ri­to è fi­ni­to nella mi­su­ra in cui esso, nel suo sa­pe­re, non ha più un og­get­to, ma una de­ter­mi­na­tez­za. Lo spi­ri­to sem­bra es­se­re quell’attività in grado di con­te­ne­re e con­trol­la­re l’in­trec­cio fra la ra­gio­ne e il sa­pe­re, anche se ora solo nella forma del­l’im­me­dia­tez­za. L’in­trec­cio si or­ga­niz­za su due poli: la ra­gio­ne e il sa­pe­re. Essi si im­pli­ca­no re­ci­pro­ca­men­te . A se­con­da che si con­si­de­ri come con­cet­to la ra­gio­ne o il sa­pe­re.  Qui è in­dif­fe­ren­te ciò che viene de­ter­mi­na­to come con­cet­to dello spi­ri­to e ciò che viene in­ve­ce de­ter­mi­na­to come realità – “Realität” -- di que­sto con­cet­to. Se in­fat­ti la ra­gio­ne as­so­lu­ta­men­te in­fi­ni­ta, og­get­ti­va, viene posta come con­cet­to dello spi­ri­to, al­lo­ra la realità è il sa­pe­re, cioè l’in­tel­li­gen­za; se in­ve­ce è il sa­pe­re a es­se­re con­si­de­ra­to come il con­cet­to, al­lo­ra la realità del con­cet­to è que­sta ra­gio­ne e la rea­liz­za­zio­ne (Rea­li­sie­rung) del sa­pe­re con­si­ste nel­l’ap­pro­priar­si della ra­gio­ne.  La fi­ni­tez­za dello spi­ri­to per­tan­to con­si­ste in ciò: il sa­pe­re non com­pren­de l’Es­se­re in-​sé-​e-​per-​sé della sua ra­gio­ne. In altri ter­mi­ni: la ra­gio­ne non si è ma­ni­fe­sta­ta pie­na­men­te nel sa­pe­re. C’è un di­sli­vel­lo dun­que strut­tu­ra­le con la ra­gio­ne che fun­zio­na nel sa­pe­re. Di­sli­vel­lo strut­tu­ra­le che per i greci era in­ve­ce co­sti­tui­to dal rap­por­to fra il sa­pe­re e la verità. Co­mun­que la realtà, con­si­de­ra­ta come realtà del sa­pe­re o come realtà della ra­gio­ne, si co­sti­tui­sce e fun­zio­na per Hegel come un farsi che è un in­trec­cio ine­stri­ca­bi­le. Una purità e verginità del­l’o­ri­gi­ne è in­tro­va­bi­le.  La que­stio­ne di un sa­pe­re dello/sullo spi­ri­to si ar­ti­co­la ul­te­rior­men­te nel pa­ra­gra­fo. Il pro­ce­de­re dello spi­ri­to è svi­lup­po – “Ent­wic­klung” -- nella mi­su­ra in cui la sua esi­sten­za, il sa­pe­re, ha entro se stes­sa l’es­se­re — de­ter­mi­na­to in sé e per sé, cioè ha per con­te­nu­to – “Ge­hal­te” -- e per fine – “Zweck
 -- il ra­zio­na­le – “Ver­nunf­ti­ge.” L’attività di tra­spo­si­zio­ne è dun­que pu­ra­men­te e sol­tan­to il pas­sag­gio for­ma­le nella ma­ni­fe­sta­zio­ne e, in que­sta, è ri­tor­no entro sé – “Rückkehr in sich.”  Nella mi­su­ra in cui il sa­pe­re, af­fet­to dalla sua prima de­ter­mi­na­tez­za, è sol­tan­to astrat­to, cioè for­ma­le, la meta dello spi­ri­to è quel­la di pro­dur­re il riem­pi­men­to og­get­ti­vo – “die ob­jec­ti­ve Erfüllung her­vor­zu­brin­gen” -- e quin­di, a un tempo, la libertà del suo sa­pe­re. La via della psi­co­lo­gia come scien­za della libertà In que­sto testo il mo­vi­men­to del sa­pe­re e il suo sa­per­ne si ar­ti­co­la come que­stio­ne della co­no­scen­za del­l’o­ri­gi­na­rio. Tale que­stio­ne, che ha la forma del ri­tor­no, è pen­sa­bi­le come libertà. L’av­ven­tu­ra dello spi­ri­to che, he­ge­lia­na­men­te, è sem­pre un ap­pro­priar­si, un far pro­prio, qui, e se­con­do la radicalità della sua strut­tu­ra, fun­zio­na come ap­pro­priar­si del sa­pe­re e coin­ci­de con l’av­ven­tu­ra della libertà.  Il cam­mi­no dello spi­ri­to con­si­ste per­tan­to:  nel­l’es­se­re spi­ri­to teo­re­ti­co, cioè nel­l’a­ve­re a che fare con il Ra­zio­na­le nella sua de­ter­mi­na­tez­za im­me­dia­ta, e di porlo ades­so come il Suo; in altre pa­ro­le: il cam­mi­no con­si­ste in­nan­zi tutto nel li­be­ra­re il sa­pe­re dal pre­sup­po­sto e, con ciò, dalla sua astra­zio­ne, e ren­de­re sog­get­ti­va la de­ter­mi­na­tez­za. Poiché in tal modo il sa­pe­re è in sé e per sé de­ter­mi­na­to come sa­pe­re entro sé, e poiché la de­ter­mi­na­tez­za è posta come la sua, quin­di come in­tel­li­gen­za li­be­ra, il sa­pe­re è  volontà, spi­ri­to pra­ti­co, il quale in­nan­zi tutto è an­ch’es­so for­ma­le: ha un con­te­nu­to che è sol­tan­to il suo: esso vuole im­me­dia­ta­men­te, e ades­so li­be­ra la sua de­ter­mi­na­zio­ne di volontà dalla soggettività che la con­di­zio­na­va come forma uni­la­te­ra­le del pro­prio con­te­nu­to. In tal modo lo spi­ri­to  di­vie­ne come spi­ri­to li­be­ro, nel quale è ri­mos­sa quel­la dop­pia unilateralità.6  Lo scor­cio teo­ri­co for­ni­to in que­sto pa­ra­gra­fo me­ri­ta una pun­tua­liz­za­zio­ne. Ab­bia­mo in pre­ce­den­za ac­cen­na­to alla cor­ni­ce della Psi­co­lo­gia he­ge­lia­na come pro­get­to scien­ti­fi­co: scien­za della psi­che che si pone come scien­za dei fat­to­ri ge­ne­ra­ti­vi della psi­che.  Il per­cor­so dello spi­ri­to che si sfor­za di co­no­sce­re se stes­so, che tenta di com­pren­de­re l’e­spe­rien­za della sua libertà, che nella Fe­no­me­no­lo­gia dello spi­ri­to pren­de la via della mo­ra­le come sto­ria, in que­ste pa­gi­ne pren­de la via della psi­co­lo­gia come scien­za della libertà Che il sa­pe­re possa af­fer­ra­re se stes­so, possa ap­pro­priar­si di sé: la stra­te­gia he­ge­lia­na im­pli­ca che l’o­ri­gi­na­rio, per il sog­get­to e per il sa­pe­re, fun­zio­ni e sia co­no­sci­bi­le come ef­fet­to di que­sto ap­pro­priar­si che è etico, pra­ti­co.  Se non si pensa il si­gni­fi­ca­to del sa­pe­re e del suo sog­get­to come etico, pra­ti­co, il sog­get­to del sa­pe­re si di­bat­te «in una dop­pia unilateralità»: la rap­pre­sen­ta­zio­ne che il sog­get­to fa di sé come suo e l’im­me­dia­tez­za di tale rap­pre­sen­ta­zio­ne.  An­ti­ci­pia­mo. La libertà è pen­sa­bi­le come lo spiaz­za­men­to in cui il sog­get­to del sa­pe­re co­no­sce il suo es­se­re fatto, no­no­stan­te e at­tra­ver­so il suo fare, im­pos­si­bi­li­ta­to a co­glie­re l’identità fra sé e la sua im­ma­gi­ne. Que­sta di­vi­sio­ne e di­sli­vel­lo in­ter­no che è l’impossibilità di co­glie­re l’o­ri­gi­ne del pro­prio co­sti­tuir­si è per Hegel l’In­tel­li­gen­za.  Nel mon­tag­gio lin­gui­sti­co di que­sto testo tale di­vi­sio­ne e tale di­sli­vel­lo vanno ad oc­cu­pa­re il posto della clas­si­ca op­po­si­zio­ne fra il den­tro e il fuori.  L’in­tel­li­gen­za, in quan­to è que­sta unità con­cre­ta dei due mo­men­ti — vale a dire, im­me­dia­ta­men­te, di es­se­re ri­cor­da­ta entro sé in que­sto ma­te­ria­le este­rior­men­te es­sen­te, e di es­se­re im­mer­sa nel­l’es­se­re fuori-​di-​sé men­tre entro sé si in­te­rio­riz­za col pro­prio ri­cor­do —, è in­tui­zio­ne. La centralità della pa­ro­la nella vita del­l’in­tel­li­gen­za Il cam­mi­no del­l’In­tel­li­gen­za sta pro­prio nel bat­te­re in brec­cia l’op­po­si­zio­ne fra il den­tro e il fuori.  L’in­tel­li­gen­za, quan­do ri­cor­da ini­zial­men­te l’in­tui­zio­ne, pone il con­te­nu­to del sen­ti­men­to nella pro­pria interiorità, nel suo pro­prio spa­zio e nel suo pro­prio tempo In tal modo il con­te­nu­to è im­ma­gi­ne, li­be­ra­ta dalla sua prima im­me­dia­tez­za e dalla singolarità astrat­ta ri­spet­to ad altro, in quan­to essa è ac­col­ta nella singolarità del­l’Io in ge­ne­ra­le. Que­sto bat­te­re in brec­cia, visto dal punto di vista del­l’in­tel­li­gen­za, è ll’im­ma­gi­ne. L’in­tel­li­gen­za pos­sie­de dun­que le im­ma­gi­ni. L’in­tel­li­gen­za — dice Hegel — è il Quan­do e il Dove del­l’im­ma­gi­ne.  L’im­ma­gi­ne è per sé tran­seun­te, e l’in­tel­li­gen­za stes­sa, in quan­to at­ten­zio­ne, è il tempo e anche lo spa­zio — il Quan­do e il Dove — del­l’im­ma­gi­ne.  L’in­tel­li­gen­za però non è sol­tan­to la co­scien­za e l’Es­ser­ci delle pro­prie de­ter­mi­na­zio­ni, bensì, in quan­to tale, ne è anche il sog­get­to e l’In-​sé. Ri­cor­da­ta nel­l’in­tel­li­gen­za, perciò, l’im­ma­gi­ne non è più esi­sten­te, ma è con­ser­va­ta in­con­scia­men­te. Nell’An­mer­kung dello stes­so pa­ra­gra­fo Hegel inau­gu­ra la me­ta­fo­ra del POZZO not­tur­no per de­fi­ni­re il fun­zio­na­men­to del­l’in­tel­li­gen­za come un luogo in cui sono con­ser­va­te im­ma­gi­ni e rap­pre­sen­ta­zio­ni che l’in­tel­li­gen­za stes­sa non co­no­sce. Hegel pro­se­gue la sua in­da­gi­ne at­tra­ver­so una sorta di tiro in­cro­cia­to fra in­tui­zio­ne ed im­ma­gi­ne, met­ten­do in azio­ne uno stile ago­sti­nia­no alla “De ma­gi­stro”. Anche la no­zio­ne, clas­si­ca, di rap­pre­sen­ta­zio­ne entra, ri­com­pre­sa e ri­pen­sa­ta, come dal­l’in­ter­no, nel mo­vi­men­to pro­dut­ti­vo del­l’in­tel­li­gen­za.  La no­zio­ne di me­mo­ria è an­ch’es­sa ri­per­cor­sa, nella sua strut­tu­ra clas­si­ca, come mo­vi­men­to at­ti­vo e im­pren­di­bi­le, fun­zio­nan­te nel­l’in­tel­li­gen­za e pro­dut­ti­va di essa, in una svol­ta de­ci­si­va del pa­ra­gra­fo 456.  L’in­tel­li­gen­za è la po­ten­za che do­mi­na sulla ri­ser­va di im­ma­gi­ni e rap­pre­sen­ta­zio­ni che le ap­par­ten­go­no; essa è quin­di con­giun­zio­ne e sus­sun­zio­ne li­be­ra di que­sta ri­ser­va sotto il con­te­nu­to pe­cu­lia­re. L’in­tel­li­gen­za si ri­cor­da ed in­te­rio­riz­za in modo de­ter­mi­na­to entro quel­la ri­ser­va, e la pla­sma im­ma­gi­na­ti­va­men­te se­con­do que­sto suo con­te­nu­to: essa è quin­di fan­ta­sia, im­ma­gi­na­zio­ne sim­bo­liz­zan­te, al­le­go­riz­zan­te o poe­tan­te.  Que­sta for­ma­zio­ni im­ma­gi­na­ti­ve più o meno con­cre­te, più o meno in­di­vi­dua­liz­za­te, sono an­co­ra delle sin­te­si nella mi­su­ra in cui il ma­te­ria­le, in cui il con­te­nu­to sog­get­ti­vo con­fe­ri­sce un Es­ser­ci alla rap­pre­sen­ta­zio­ne, pro­vie­ne dal Tro­va­to (dem Ge­fun­de­nen) del­l’in­tui­zio­ne.Passività, evi­den­za, sor­pre­sa di fonte al darsi ori­gi­na­rio delle cose ri­guar­da perciò per Hegel un mo­vi­men­to che ha come suo ele­men­to lo sce­na­rio dell’interiorità. Il tro­va­to del­l’in­tui­zio­ne, in­con­tro, evi­den­za, ac­co­glien­za della realtà è pen­sa­bi­le in un re­gi­stro che è già una tra­du­zio­ne. È nel re­gi­stro di una tra­du­zio­ne che nel per­cor­so di que­sto testo di Hegel, di una tra­du­zio­ne del fuorinel den­tro e vi­ce­ver­sa, che si può av­vi­sta­re ciò in fi­lo­so­fia si chia­ma realtà.  Quan­do l’in­tel­li­gen­za, in quan­to ra­gio­ne, parte dal­l’ap­pro­pria­zio­ne del­l’im­me­dia­tez­za tro­va­ta entro sé, cioè la de­ter­mi­na come Uni­ver­sa­le, ecco al­lo­ra che la sua attività ra­zio­na­le pro­ce­de dal punto at­tua­le (dem nun­meh­ri­gen Punk­te) a de­ter­mi­na­re come es­sen­te ciò che in essa si è svi­lup­pa­to in au­toin­tui­zio­ne con­cre­ta, pro­ce­de cioè a ren­de­re se stes­sa Es­se­re, Cosa. L’in­tel­li­gen­za stes­sa così si fa es­sen­te, si fa Cosa.  Quan­do è at­ti­va in que­sta de­ter­mi­na­zio­ne, l’in­tel­li­gen­za si estrin­se­ca (aus­sernd), pro­du­ce (pro­du­zie­rend) in­tui­zio­ne: è fan­ta­sia che si espri­me in segni (Zei­chen ma­chen­de Phan­ta­sie). L’in­tel­li­gen­za esi­ste in quan­to fan­ta­sia… Tesi non im­me­dia­ta­men­te pre­ve­di­bi­le nel di­spo­si­ti­vo, in­tri­ca­to, di que­sto per­cor­so he­ge­lia­no. Tesi cui pure spin­ge, con ri­go­ro­sa necessità, que­sta ana­li­si «scien­ti­fi­ca» della psi­che. Que­sto testo di Hegel in­ne­sca con­sa­pe­vol­men­te una po­le­mi­ca ed anche una ri­for­mu­la­zio­ne me­to­do­lo­gi­ca ra­di­ca­le nei con­fron­ti della tra­di­zio­ne em­pi­ri­sta, dei sen­si­sti, di Con­dil­lac e degli ideo­lo­gues.  At­tra­ver­so le scor­ri­ban­de del­l’in­tel­li­gen­za fra sa­pe­re e segno, scien­za e realtà, at­tra­ver­so e al di là della dia­let­ti­ca fra il po­si­ti­vo e il ne­ga­ti­vo, fra il sog­get­to e la verità ecc, Hegel af­fer­ma che l’in­tel­li­gen­za è il suo atto. Esi­ste­re non è l’im­me­dia­tez­za di un che ri­spet­to a se stes­si, ma è l’at­to in cui, in un con­te­nu­to de­ter­mi­na­to, l’in­tel­li­gen­za si rap­por­ta a se stes­sa.  La fan­ta­sia è il punto cen­tra­le in cui l’U­ni­ver­sa­le e l’Es­se­re, il Pro­prio e il Tro­va­to, l’In­ter­no e l’E­ster­no, sono per­fet­ta­men­te uni­fi­ca­ti. Le sin­te­si pre­ce­den­ti del­l’in­tui­zio­ne, del ri­cor­do ecc., sono uni­fi­ca­zio­ni del me­de­si­mo mo­men­to, tut­ta­via si trat­ta pur sem­pre di sin­te­si. Solo nella fan­ta­sia l’in­tel­li­gen­za non è più come il pozzo in­de­ter­mi­na­to e come l’U­ni­ver­sa­le, bensì è come Sin­go­la­re, cioè come soggettività con­cre­ta nella quale l’au­to­re­la­zio­ne è de­ter­mi­na­ta sia come Es­se­re sia come Universalità. L’in­tel­li­gen­za è in­tel­li­gen­za di un in­di­vi­duo, di un sin­go­lo, è soggettività con­cre­ta solo nella fan­ta­sia. Tale que­stio­ne è chia­ri­ta dal se­gui­to della stes­sa An­mer­kung:  Tutti ri­co­no­sco­no che le im­ma­gi­ni della fan­ta­sia co­sti­tui­sco­no tali uni­fi­ca­zio­ni del Pro­prio e del­l’In­ter­no dello spi­ri­to con l’e­le­men­to in­tui­ti­vo. Il loro con­te­nu­to ul­te­rior­men­te de­ter­mi­na­to ap­par­tie­ne ad altri am­bi­ti, men­tre qui que­sta fu­ci­na in­ter­na va in­te­sa sol­tan­to se­con­do quel mo­men­to astrat­to.  In quan­to attività di que­sta unio­ne, la fan­ta­sia è ra­gio­ne, ma è ra­gio­ne for­ma­le, solo nella mi­su­ra in cui il con­te­nu­to in quan­to tale della fan­ta­sia è in­dif­fe­ren­te. La ra­gio­ne in quan­to tale, in­ve­ce, de­ter­mia a verità anche il con­te­nu­to. Nell’An­mer­kung suc­ces­si­va nello stes­so pa­ra­gra­fo Hegel opera la svol­ta de­ci­si­va nel breve per­cor­so che qui ci in­te­res­sa:  In par­ti­co­la­re bi­so­gna an­co­ra ri­le­va­re que­sto fatto. Poiché la fan­ta­sia porta il con­te­nu­to in­ter­no a im­ma­gi­ne e a in­tui­zio­ne — e ciò viene espres­so di­cen­do che essa lo de­ter­mi­na come es­sen­te, non deve sem­bra­re sor­pren­den­te l’e­spres­sio­ne se­con­do cui l’in­tel­li­gen­za si fa­reb­be es­sen­te, si fa­reb­be Cosa. Il con­te­nu­to del­l’in­tel­li­gen­za, in­fat­ti, è l’in­tel­li­gen­za stes­sa, e lo è al­tret­tan­to la de­ter­mi­na­zio­ne che essa gli con­fe­ri­sce.  L’im­ma­gi­ne pro­dot­ta dalla fan­ta­sia è solo sog­get­ti­va­men­te in­tui­ti­va, men­tre è nel segno che la fan­ta­sia ag­giun­ge a ciò l’au­ten­ti­ca intuibilità (ei­gen­tli­che An­schau­li­ch­keit); nella me­mo­ria mec­ca­ni­ca, poi essa com­ple­ta in sé que­sta forma del­l’Es­se­re.  L’im­ma­gi­ne solo nel segno è au­ten­ti­ca intuibilità di ciò che è. L’es­sen­te è co­gli­bi­le come segno, non come dato, come dono. Dato e dono non sono pen­sa­bi­li, ma nep­pu­re spe­ri­men­ta­bi­li nella forma della pre­sen­za, cioè in un darsi (che, in ter­mi­ni he­ge­lia­ni, è la ma­te­ria del­l’in­tui­zio­ne). Essi sono già tra­scrit­ti nel con­te­nu­to in­ter­no del­l’in­tel­li­gen­za, cioè come segni.  L’e­le­men­to im­pren­di­bi­le, enig­ma­ti­co della co­no­scen­za è il segno e non il dato, il dono. Nella strut­tu­ra di que­sto testo Hegel af­fer­ma che il non pro­prio, il non mio so­vra­sta e spiaz­za nella forma del segno, non nella forma del dono.  In que­sta unità, pro­ce­den­te dal­l’in­tel­li­gen­za, di una rap­pre­sen­ta­zio­ne au­to­no­ma (selbständiger Vor­stel­lung) e di una in­tui­zio­ne, la ma­te­ria del­l’in­tui­zio­ne è certo in­nan­zi­tut­to un qual­co­sa di ac­col­to, di im­me­dia­to e di dato (ein auf­ge­nom­me­nes, etwas un­mit­tel­ba­res oder ge­ge­be­nes) (per esem­pio il co­lo­re della coc­car­da e af­fi­ni).  In que­sta identità però l’in­tui­zio­ne non ha il va­lo­re di rap­pre­sen­ta­re po­si­ti­va­men­te e di rap­pre­sen­ta­re se stes­sa, bensì di rap­pre­sen­ta­re qual­co­s’al­tro. Essa è un’im­ma­gi­ne che ha ri­ce­vu­to entro sé una rap­pre­sen­ta­zio­ne au­to­no­ma del­l’in­tel­li­gen­za come anima, che ha ri­ce­vu­to, cioè, il suo si­gni­fi­ca­to. Que­sta in­tui­zio­ne è il segno. L’in­tui­zio­ne, rap­por­ta­ta scien­ti­fi­ca­men­te alla sua ori­gi­ne, ha la forma del SEGNO. Tale forma ha una strut­tu­ra che coin­vol­ge i ter­mi­ne stes­si del­l’in­tel­li­gen­za. L’in­tel­li­gen­za sem­bra fun­zio­na­re in una de­ri­va di cui il segno co­sti­tui­sce una sorta di cer­nie­ra, snodo in cui l’in­tel­li­gen­za stes­sa è tolta-​con­ser­va­ta. L’in­tui­zio­ne che im­me­dia­ta­men­te e ini­zial­men­te è qual­co­sa di dato e di spa­zia­le (ge­ge­be­nes und raum­li­ches) una volta im­pie­ga­ta come segno ri­ce­ve la de­ter­mi­na­zio­ne es­sen­zia­le di es­se­re sol­tan­to come in­tui­zio­ne ri­mos­sa. Que­sta sua negatività è l’in­tel­li­gen­za. Perciò la fi­gu­ra più au­ten­ti­ca del­l’in­tui­zio­ne, che è un SEGNO, è di es­se­re un Es­ser­ci nel tempo: un di­le­gua­re (Ver­sch­win­den) del­l’Es­ser­ci men­tre l’es­ser­ci è.  Inol­tre, se­con­do la sua ul­te­rio­re de­ter­mi­na­tez­za este­rio­re, psi­chi­ca, la fi­gu­ra più vera del­l’in­tui­zio­ne è un es­se­re-​posta dal­l’in­tel­li­gen­za, esser-​posta che viene fuori dalla naturalità pro­pria (an­tro­po­lo­gi­ca) del­l’in­tel­li­gen­za stes­sa: è il tono (Ton), cioè l’e­strin­se­ca­zio­ne riem­pi­ta dell’interiorità an­nun­cian­te­si.  Il tono che si ar­ti­co­la ul­te­rior­men­te in vista della RAPPRESENTAZIONE de­ter­mi­na­ta è il di­scor­so, e il si­ste­ma del di­scor­so è la lin­gua. In que­sto am­bi­to il tono con­fe­ri­sce a sen­sa­zio­ni, in­tui­zio­ni e rap­pre­sen­ta­zio­ni un se­con­do Es­ser­ci, più ele­va­to del­l’Es­ser­ci im­me­dia­to: in ge­ne­ra­le con­fe­ri­sce loro un’e­si­sten­za che ha va­lo­re nel regno dell’attività rap­pre­sen­ta­ti­va. Que­sto pro­get­to he­ge­lia­no di una scien­za della psi­che tenta qui un ul­te­rio­re ra­di­ca­le ap­proc­cio alla ge­ne­si del­l’in­tel­li­gen­za. L’in­tui­zio­ne, in quan­to fun­zio­nan­te come segno, «ri­ce­ve la de­ter­mi­na­zio­ne es­sen­zia­le di es­se­re sol­tan­to come in­tui­zio­ne ri­mos­sa (zu einem Zei­chen ge­brau­cht wird, die we­sen­tli­che Be­stim­mung nur als auf­ge­ho­be­ne zu sein). In que­sto esser ri­mos­so, tolto-​con­ser­va­to del­l’in­tui­zio­ne sta l’o­ri­gi­ne del­l’in­tel­li­gen­za. La negatività di cui essa è fatta si in­trec­cia strut­tu­ral­men­te alla no­zio­ne di tempo. L’in­tui­zio­ne non è do­mi­na­bi­le da un sog­get­to se non nella forma del dopo: «un di­le­gua­re del­l’Es­ser­ci men­tre Es­ser­ci è».  Quel­l’al­tro in­trec­cio che co­sti­tui­sce l’in­tui­zio­ne, l’in­trec­cio fra il den­tro e il fuori si espri­me nel tono, suono ar­ti­co­la­to, “Ton”. Il tono, visto in rap­por­to ad una rap­pre­sen­ta­zio­ne de­ter­mi­na­ta, è il di­scor­so (Rede) e il si­ste­ma del di­scor­so è la lin­gua (Spra­che).  A que­sto punto del suo per­cor­so la stra­te­gia di Hegel si in­con­tra con il pri­vi­le­gio greco e pla­to­ni­co ac­cor­da­to alla pa­ro­la, al logosin quan­to vi­ven­te pro­nun­cia­to, detto. Come in Pla­to­ne, anche in Hegel la pa­ro­la è cen­tra­le nella vita del­l’in­tel­li­gen­za, ma di una centralità che oc­cu­pa il luogo di un mo­vi­men­to ori­gi­na­rio ed im­pren­di­bi­le.  Per un com­men­to cri­ti­co ed espli­ca­ti­vo dei pa­ra­gra­fi della psi­co­lo­gia nella se­zio­ne sullo spi­ri­to sog­get­ti­vo, anche per ciò che con­cer­ne le fonti di Hegel e la sag­gi­sti­ca re­la­ti­va, cfr. Ros­sel­la Bo­ni­to Oliva, La «magia dello spi­ri­to» e il «gioco del con­cet­to». Con­si­de­ra­zio­ni sulla fi­lo­so­fia dello spi­ri­to sog­get­ti­vo nel­l’En­ci­clo­pe­dia di Hegel, Mi­la­no, Gue­ri­ni e As­so­cia­ti. Uso la re­cen­te tra­du­zio­ne di Vin­cen­zo Ci­ce­ro (En­ci­clo­pe­dia delle scien­ze fi­lo­so­fi­che in com­pen­dio, ed. 1830, Mi­la­no, Ru­sco­ni, 1996) che ri­ten­go pun­tua­le ed av­ver­ti­ta delle que­stio­ni poste dal testo, no­no­stan­te la discutibilità di al­cu­ne so­lu­zio­ni su cui per altro pesa in certa mi­su­ra la re­si­sten­za ad ab­ban­do­na­re tra­du­zio­ni fa­mi­lia­ri e con­so­li­da­te. An­mer­kung. An­mer­kung. Grice: “There’s something otiose about the ‘faciendi signum’ of the Romans, why not just ‘signare’?” – Who or what ‘makes’ the sign of a dark cloud (=> rain)?” “While it seems natural enough to say that a dark cloud is a sign of rain,it  or better, that a dark cloud signs *that* it may rain, I wouldn’t say that the cloud “MAKES” anything --. Grice: “It’s sad that Hegel’s Latin wasn’t that good – the Romans used ‘signare’ (Italian ‘segnare’) much more than they did use ‘significare’. “With all my love and kisses” “You used to sign your letters ‘with all my love and kisses” – Sam Browne --. Horatio Nicholls – aka as something else.
Gianfranco Dalmasso. Keywords: la giustizia nel discorso, sign-make, fare segno, fare segno a se – zeichen Machen, to sign versus to signify -- Bradley, Hegel, io, noi, intersoggetivo, Hegel on Zeichen, zeichen-machende fantasie” – zeichen-interpretand fantasie” -- “l’implicatura del noi duale” “il tra noi” – la prossimita del tra noi -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dalmasso”, per il gruppo di gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Dalmasso.

 

Grice e Dandolo: l’implicatura conversazionale della Roma pagana, filosofia romana – Carneade e compagnia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Varese). Filosofo italiano. Grice: “I love Dandolo; you know why? Because he was an amateur, not a professional; I mean, he was a country gentleman and an earl, so if he philosophised it wasn’t for the colour of the money! Plus, he owned a lovely ‘palazzo,’ which I would call ‘villa’! Neoguelfo. Figlio dal conte Vincenzo e Mariana Grossi. Il padre era esponente della Municipalità di Venezia, ma dopo il trattato di Campoformio, con il quale si sancì la fine della Repubblica, dovette esulare in Francia. Venne in seguito nominato da Napoleone senatore del Regno italico e conte. Fu anche governatore civile della Dalmazia. Passa quindi un'infanzia assai agitata; fu cresciuto da una "cameriera disattenta" e poi sballottato per vari collegi. Si laurea a Pavia. Passa alcuni anni girando per l'Europa e conducendo una vita mondana. In questo periodo venne a contatto con illustri personalità culturali politiche dell'epoca. Venne sospettato dal governo austriaco di aver partecipato alle congiure degli anni precedenti, e per questo fatto rientrare in modo coatto in Italia (senza tuttavia essere perseguitato). In Italia, si dedica ampiamente alla filosofia, e sposa la sorella di Bargnani; uno dei cospiratori mazziniani. Morta la sposa affida ad un amico i figli. Sposa la contessa Ermellina Maselli, da cui ebbe altri due figli. I primi due figli presero parte alle Cinque giornate e ad altre operazioni belliche e lo stesso Tullio fu uno dei principali autori della rivoluzione e capo della rivolta varesina (scoppiata in concomitanza con quella di Milano), ma a Roma, durante la difesa della repubblica di Mazzini, Su figlio muore e l’altro rimase gravemente ferito. Questo evento tocca molto Tullio che tuttavia, pur dovendosi prendere cure molto onerose del superstite, continua comunque i suoi studi di filosofia. Sui due figli raccolse un gran numero di documenti, memorie e storie pubblicati in “Lo spirito della imitazione di Gesù Cristo esposto e raccomandato da un padre ai suoi figli adolescent: corrispondenze di lettere famigliari: riicordi biografici dell'adolescenza d'Enrico e d'Emilio D., Milano). Un filosofo che fece delle critiche alla sua attività fu Tommaseo, ma risultò essere piuttosto duro ed aspro, tanto da scrivere. “Fin da giovane scarabocchiò librettucci compilati o piuttosto arruffati. Né di quelli che scrisse dal venticinque al cinquantacinque sapresti quale sia il più decrepito e il più puerile. Ma fece due opere buone, un figliolo che morì valentemente in Roma assediata da Galli vendicatori delle oche; e un altro figliolo che scrisse la storia, e direi quasi la vita della Legione Lombarda capitanata da Manara, libro di senno virile e d'affetto pio.” I suoi saggi trattano gli argomenti più vari: dalla pedagogia all'autobiografia, da quelli di carattere storico a quelli religiosi. Molti di essi sono schizzi letterari e filosofici o riguardano descrizioni di viaggi, città e munomenti. Inoltre, scrisse molto intorno alla storia romana antica, alla nascita del Cristianesimo, al Medioevo e al Rinascimento, pubblicando anche molti discorsi e documenti inediti. Più che ad un contributo critico, mira a dare un'informazione non faziosa per una migliore conoscenza del passato. Questi suoi scritti storici sono molto diversi fra di loro. In alcuni predilige uno stile aulico, mentre in altri un tono popolare e facile; trattando ora gli argomenti con approssimazione ed ora dando al racconto la coinvolgenza di un romanzo. Altre opere: “Roma”; “Napoli” (Milano); “Firenze”; “Torino”; “La Svizzera”; “Il Cantone de' Grigioni” (Milano); “Prospetto della Svizzera, ossia ragionamenti da servire d'introduzione alle lettere sulla Svizzera); “La Svizzera considerata nelle sue vaghezze pittoresche, nella storia, nelle leggi e ne' costume”; “Venezia”; “Il secolo di Pericle”; “Schizzi di costume”, “Il secolo d'Augusto”; “Semplicità” (o rapidi cenni sulla letteratura e sulle arti”; “Album storico poetico morale, compilato per cura di V. de Castro” (Padova); “Reminiscenze e fantasie. Schizzi letterari, Peregrinazioni. Schizzi artistici e filosofici (Torino); Roma e l'Impero sino a Marco Aurelio” (Milano); “Firenze sino alla caduta della Repubblica”; “Il Medio Evo elvetico”; “Racconti e leggende”; “La Svizzera pittoresca, o corse per le Alpi e pel Jura a commentario del Medio Evo elvetico; “I secoli dei due sommi italiani Dante e Colombo; “Il Settentrione dell'Europa e dell'America nel secolo passato; “L'Italia nel secolo passato; Il Cristianesimo nascente; La Signora di Monza. Le streghe del Tirolo. Processi famosi del secolo decimosettimo per la prima volta cavati dalle filze originali, ibid. 1855 (rist. anast., Milano); Il pensiero pagano ai giorni dell'Impero. Studii, Il pensiero cristiano ai giorni dell'Impero. Studii; Il pensiero pagano e cristiano ai giorni dell'Impero. Studii; “Monachesimo e leggende. Saggi storici; “Roma e i papi. Studi storici, filosofici, letterari ed artistici, Il secolo di Leone Decimo. Studii, Lo spirito della imitazione di Gesù Cristo esposto e raccomandato da un padre ai suoi figli adolescenti (corrispondenza di lettere famigliari). Ricordi biografici dell'adolescenza d'Enrico e d'Emilio Dandolo, Milano); “La Francia nel secolo passato, “Corse estive nel Golfo della Spezia; Il secolo decimosettimo, Ragionamenti preliminari ed indici ragionati degli studi del conte Tullio Dandolo su Roma pagana e Roma cristiana pubblicati ad annunzio e prospetto dell'opera, Assisi  (estr. da Stella dell'Umbria); “Ricordi di D.”; “Lettera a D. Sensi. Indice della materia, Assisi); “Ricordi”; “Ricordi inediti di G. Morone gran cancelliere dell'ultimo duca di Milano, a cura di D., Milano; Alcuni brani delle storie patrie di Giuseppe Ripamonti per la prima volta tradotti dall'originale latino dal conte T. Dandolo, Il potere politico cristiano. Discorsi pronunciati dal Ventura di RaulicaR. P., a cura di Dandolo, Milano); “Vicende memorabili narrate da Alessandro Verri precedute da una vita del medesimo di Maggi, a cura di D., A. F. Roselly de Lorgues. Ricordi, primo e secondo periodo, Assisi. di Guerri, direttore delle Civiche raccolte storiche di Milano.  Colloqui col Manzoni, T. Lodi (Firenze). Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiano. LA FILOSOFIA ROMANA. Nei primi secoli della repubblica i romani non diedersi pensiero di filosofia. Appena ne conobbero il nome. Intenti da principio a difendersi, poi a consolidare la loro dominazione sui popoli vicini, la loro saviezza fu figlia della sperienza e d'un ammirabile buon senso affinato dalle difficoltà esteriori in mezzo a cui si trovarono collocati, e dal godimento di un'interiore libertà, le cui procelle incessanti valevano ad elevare ed afforzare gli animi. Volle taluno che le instituzioni del re Numa non andassero digiune di pitagorismo. Gli è da credere piuttosto, avuto riguardo all'ordine cronologico, che Pitagora attignesse nelle dottrine sacerdotali del secondo re di Roma qualcuna delle sue teoriche intorno la religione. Allorchè i romani strinsero i primi legami co' greci delle colonie italiche e siciliane, non credettero di ravvisare che leggerezza mollezza e corruzione in que' popoli i quali a ricambio qualificarono i romani di barbari. Sul finire della prima guerra punica fu resa nota ai vincitori la letteratura drammatica de greci; e vedemmo Livio Andronico ha per primo tradotto tragedie, le quali cacciarono di scanno i versi fescennini, i giuochi scenici etruschi e le informi atellane. Ennio, oltre ai componimenti poetici di cui facemmo menzione, voltò in latino la storia sacra di Evemero, scritto ardito, inteso a dimostrare che gli dei della Grecia altro non erano che antichi uomini dalla superstizione divinizzati. I romani non videro nelle ipotesi del filosofo che un oggetto di mera curiosità. Non erano ombrosi come gl’ateniesi, non avevano peranco sperimentato qualc’azione efficace la filosofia esercitar potesse sulla religione. Accolsero del pari con indifferenza la sposizione poetica che del sistema dell’ORTO loro presenta LUCREZIO. Germi sono questi gettati in terreno non preparato ancora à riceverli. La conquista non tardò a dischiudere colla Grecia più facili mezzi di comunicazione. I conquistatori trasportarono in patria schiavi tra’ quali vi avevano non filosofi, ma retori e grammatici; e loro fidarono l'educazione de' proprii figli. L'introduzione degli studii filosofici in Roma risale alla celebre ambasceria di Carneade accademico, Critolao peripatetico, Diogene stoico. Avidi di brillare e lusingati dall'ammirazione che destavano in un popolo non avvezzo a sottili investigazioni, quei tre fecero pompa di tutta la profondità e desterità della loro dialettica ad abbagliare la romana gioventù che loro s'affoltava intorno, incantata di scovrire usi dianzi ignorati della parola. I magistrati s'adombrarono di cotesto subitano commovimento. I vecchi Se. natori armaronsi di tutta l'autorità delle prische costumanze per respingere studi speculativi, che teme vano come pericolosi e disprezzavano come futili. CATONE il censore ottenne che si allontanassero tosto dalla romana gioventù i retori che davano opera a distruggere le più venerate tradizioni e a smovere le fondamenta della morale. I sofismi di Carneade, il quale faceva pompa della spregevole arte di sostenere a piacimento le opinioni più contraddittorie, forne a Catone plausibili argomenti di vituperarlo. Sicchè i primordi della filosofia furono contrassegnati in Roma da sfavorevoli apparenze. Il rigido censore non prevede che, un secolo dopo, quella filosofia che aveva voluto proscrivere, meglio approfondita e meglio conosciuta, sarebbe il solo rifugio del suo pronipote contro le ingiurie della fortuna e la clemenza di GIULIO CESARE. Non possiamo trattenerci dal simpatizzare con que’ vecchioni, i quali opponevano al torrente da che avvisavano minacciata la patria lor capegli canuti e la loro antica esperienza, evocando a respignere pericolose novatrici dottrine la religione del passato e le  tradizioni di seicent anni di vittorie di libertà divirtù. Ma se a codesto spontaneo sentimento tien  dietro la riflessione, saremo costretti di riconoscere  che a rintuzzare il progresso della filosofia ed anco de sofismi di Grecia, il senato mal si appose con quel suo violento procedere. Tutto ciò che è pericoloso racchiude in sè un principio falso che è sempre facil cosa scovrire. Affermare il contrario sarebbe muovere accusa al divino, quasi ch'ella con innestare il male nella conoscenza del vero avesse teso un laccio all’umana intelligenza. Convien dunque adoperarsi  a dimostrare la falsità delle opinioni perniziose, non  proscriverle alla cieca, quasi rifuggendo esaminarle  conscii dell'impossibilità di confurtarle. Sì ardua impresa rispondere agli ateniesi sofisti? o sì difficile dimostrare che quelle loro argomentazioni pro e contra lo stesso principio di morale erano assurde? O sì temerario lo appellarsene, ne' cuori romani, a’sentimenti innati del vero e del giusto, il risvegliare in  quelle anime ancor nuove sdegno e disprezzo per teoriche, le quali, consistendo tutte in equivoci, dovevano vituperosamente cadere dinanzi la più semplice analisi? Catone anda altero dell'ottenuta vittoria. Gli ambasciadori ateniesi furono tosto rimandati. Per un secolo ancora severi editti, frequentemente rinnovati, lottarono contro ogni nuova dottrina. Ma l'impulso è dato, nè poteva fermarsi. I romani conservarono impresse nella memoria le dottrine dei sofisti. Era poi e riguardarono la dialettica di Carneade non tanto come un sistema che conveniva esaminare, quanto come una proprietà che stava bene difendere. Giunti ad età provetta nel bivio d'abbandonare ogni speculazione filosofica o di disobbedire alle leggi, sono tratti a disobbedire dalla loro inclinazione per le lettere, passione la quale, dacchè è nata, va crescendo ogni dì, siccome quella che ha riposte in sè medesima le proprie soddisfazioni. Gl’uni tennero dietro alla filosofia nel suo esiglio ad Atene. Altri mandarono colà i loro figli. I capitani degl’eserciti sono i primi a lasciarsi vincere apertamente da questa tendenza generale degli spiriti. L'accademico Antioco è compagno di Lucullo. Catone il censore cede egli stesso, a malgrado delle sue declamazioni, alla seduzione dell'esempio, ed assistè alle lezioni del peripatetico Nearco. SILLA fa trasportare in Roma la biblioteca d'Apellico di Teo. CATONE d'Utica allorch'è tribuno militare in Macedonia peregrino in Asia a solo oggetto d'ottenere che  Atenodoro, filosofo del Portico, abbandonasse il suo ritiro di Pergamo e si conducesse a dimorare con lui. Pure gl’spiriti che con siffatto entusiasmo s'abbandonarono alle filosofiche investigazioni non trovavansi da studii anteriori preparati ad astratte speculazioni. Ne avvenne che la filosofia penetra in coteste menti dico come in massa e nel suo insieme. Ma non s'indentifica col rimanente delle loro opinione. La sua efficacia è nel tempo stesso più gagliarda e mento continua che in Grecia. Più gagliarda nelle circostanze importanti nelle quali l'uomo trascinato fuori del circolo delle sue abitudini cerca appoggi, motivi d'agire, conforti straordinarii. Meno continua perchè, se niun evento tnrbava l'ordine abituale, ella ridiventava pe’ romani una scienza, piuttostochè una regola di condotta applicata a tutti i casi della vita sociale. Che se non iscorgiamo in Roma individui che a somiglianza dei sapienti della Grecia consacrassero alla filosofia esclusivamente il loro tempo. Non ci appare nè anche, ad eccezione di Socrate, che i greci abbiano saputo trarre dalla filosofia quegli efficaci soccorsi che invigorivano gli illustri cittadini di Roma in mezzo ai campi, nelle guerre civili, tra le proscrizioni, allora suprema.  I romani si divisero in sette. Effetto della maniera d'insegnamento di cui i retori greci usavano con essi. Per la maggior parte schiavi od affrancati, dovevano costoro, qualunque fosse il loro convincimento o la loro preferenza per queste o quelle dottrine, studiarsi di piacere a' padroni; ond'è che chiaritisi come una tale ipotesi respignesse colla sua severità o stancasse colla sua sottigliezza, affrettavansi di sostituirne altra più accetta. Tali sono i risultamenti della dipendenza. L’amore stesso del vero non basta ad affrancare l'uomo dal giogo. S’egli non abjura le sue opinioni, ne cangia le forme; se non rinnega i suoi principii, li sfigura. Allorchè a questi retori schiavi succedettero i retori stipendiati, le dottrine diventarono derrata di cui itanto per greci trafficarono, e della quale per conseguenza lasciarono la scelta a' compratori. Le varie sette non trovarono in Roma uguale favore. L'epicureismo benchè in bei versi esposto ed insegnato da Lucrezio, vi fu dapprima respinto, non la sua morale di cui bene non si conoscevano ancora i corollarii, quanto per la raccomandazione che faceva d'attenersi ad una vita speculativa e ritirata, aliena non meno da fatiche che da pericoli. Gli è questo difatti il principale rimprovero che fa Cicerone alla filosofia epicurea. I cittadini d'uno stato libero non sanno concepire la possibilità di porre in dimenticanza la patria, perciocchè ne posseggono una; e considerano come colpevole debolezza quell'allontanamento da ogni carriera attiva, che sotto il dispotismo diventa bisogno è virtù di tulli gli uomini integri e generosi. L'epicureismo ebbesi per altro un illustre seguace; nè qui vo' accennare d'Atlico, che senza principii senza opinioni fu bensì amico caldo e fedele, ma cittadino indifferente e di funesto esempio, avvegnachè sotto forme eleganti insegnò alla moltitudine ancora indecisa e vacillante come chicchessia può accortamente isolarsi e tradire con decenza i proprii doveri verso la patria. Il romano di cui intendo parlare è Cassio che fino dall'infanzia si consacrò alla causa della libertà, e rinunziando ai piaceri alle dolcezze della vita, non ebbe che un pensiero un interesse una passione, la patria. Fu centro della cospirazione contro Cesare; e dolendosi di non potere sperare in un'altra vita, muore dopo avere corso un arringo continuamente in contraddizione colle sue dottrine. Le sette di Pitagora, di Aristotile, e di Pirrone incontrarono a Roma ostacoli d'altra maniera. La prima, per una naturale conseguenza del segreto in cui si avvolse fino dal suo nascere, contrasse affinità con estranie superstizioni; perciocchè uno degli inconvenienti del mistero, anche quando n'è pura l'intenzione primitiva, è di fornire all' impostura facile mezzo d'impadronirsene. Nigido Figulo è il solo pitagorico di qualche grido che abbia fiorito in Roma. L'oscurità aristotelica ebbe poche attrattive per menti più curiose che meditative. L'esagerazione pirronista per ultimo ripugna alla retta ragione de’ romani. Il platonismo che ancor non era ciò che di. venne due secoli dopo per opera de' novelli platonici. Lo scetticismo moderato della seconda accademia, e lo stoicismo furono i sistemi adottati in Roma. Lucullo, Bruto, Varrone sono platonici. Cicerone, a cui piacque porre a riscontro tutte le varie dottrine, inclina per l'indecisione accademica. Lo stoicismo solo fu caro alla grand'anima di Catone Uticense. “Non  possum legere librum Ciceronis de Se. nectute, de Amicitia, de Officiis, de Tusculanis Quæstionibus, quin aliquoties exosculer codicem, ac venerer sanctum illud pectus aflatum celesti Qumine.  ERASM. in Conviv --. M. Tullio adotta egli per convinzione i sistemi filosofici della nuova accademia, o diè loro la preferenza perchè più propizii all’oratore in fornirgli arme con cui combattere i proprii avversarii! Corse grand' intervallo tra un Cicerone ambizioso, e un Cicerone disingannato. Ciò che pel primo era oggetto subordinato a speranze a divisamenti avvenire, diventa pel secondo un bisogno del cuore, un'intensa occupazione della mente. Ei pose affetto alle dottrine del platonismo riformato; e a quelle parti della morale in esse contenuta di cui si tenne men soddisfatto, altre ne sostituì fornitegli dallo stoicism. E propriamente ecclettico, od amatore del vero e del buono ovunque lo riscontrava. Ad imitazione di Platone pose in dialoghi i suoi scritti filosofici. Per eleganza di stile ed elevatezza di concetti non cede al modello. Per chiarezza e per ordine lo vince. Ne cinque libri, De finibus, intorno la natura del bene e del male si propose una meta sublime; la ricerca cioè del bene supremo; in che cosa consista; come si consegna; ove dimori. Tu cerchi però inutil mente in quelle pagine da cui traluce tanta sapienza plausibile soluzione del quesito. Gli antichi ingolfandosi in cotali disamine faceano ricerca di ciò che trovare non potevano; chè gli è impossibile che il bene supremo rinvengasi in ordine di cose che necessariamente è imperfetto.Verità che il Vangelo ci rese ovvia insegnandoci come la felicità sognata dai gentili pel loro saggio non sia fatta per uomo mortale, essondechè stanza le è riserbata imperibile sublime. In che cosa consiste il sommo bene? Ecco di che venivano continuamente richiesti i filosofi. Epicuro ed Aristippo rispondevano, nel piacere; Jeronimo, nell'assenza del dolore; Platone, nella comprensione del vero, e nella virtù che ne è conseguenza; Aristotile, nel vivere conformemente alla natura. Cicerone associa le sentenze di Platone e d'Aristotile, e si appose meglio di quanti nell'arduo arringo l'avevano preceduto. Dalle più elevate astrazioni sceso ad argomenti che si collegano co' bisogni e co' vantaggi dell'uomo, M. Tullio si propose nelle Tusculane di cercare i mezzi adducenti alla felicità. Cinque ne noverò; il dispregio della morte; la pazienza ne' dolori; la fermezza nelle varie prove; l'abitudine di combaltere le passioni, e finalmente la persuasione che la virtù dee unicamente cercare premio in sè stessa: e la dimostrazione di cotesti assiomi si fa vaga, sotto la penna del filosofo, di tutte le grazie dell'eloquenza.  All' Anima, egli scrive, tu cercheresti inutilmente un'origine terrestre, perocchè nulla in sè accoglie di misto e concreto; non un atomo d'aria d'acqua di fuoco. In cotesti elementi sapresti tu scorgere forza di memoria d'intelligenza di pensiero, valevole a ricordare il passato a provvedere al futuro ad abbracciare il presente? Prerogative divine sono queste, nè troveresti mai da chi sieno state agli uomini largite, se non 'da Dio. È l'anima pertanto informata di certa quale sua singolar forza e natura ben diverse da quelle che reggono i corpi tutti a noi noti. Checchè dunque in noi sia che sente intende vuole vive; divina cosa certo è cotesta; eterna quindi necessariamente esser deve. Nè la divinità stessa, quale ce la figuriamo, comprenderla in altra guisa possiamo, che come libera intelligenza scevra d'ogni mortale contatto, che tutto sente e muove, d’eterno moto ella stessa fornita. L’anima umana per genere e per natura somiglia a Dio. “Dubiterai tu, a veder le meraviglie dell'universo, che tal opera stupenda non abbiasi (se dal nulla fu tratta, come afferma Platone) un creatore; o se creata non fu, come pensa Aristotile, che ad alcun possente moderatore non sia data in custodia? Tu Dio non vedi; pur le opere sue tel rivelano: così ti si fa palese dell'anima, comechè non vista, la divina vigoria, nelle operazioni della memoria nel raziocinio nel santo amore della virtù.” I discepoli d'Epicuro, commentando, esagerando ciò che vi avea d'incerto d'oscuro nei principii del loro maestro. l'universo nato dal caso affermarono, negarono la provvidenza, piegarono all'ateismo. Tullio si fa a combatterli nel suo libro Della natura degli Dei. Le lettere antiche non inspiraronsi mai di più sublime eloquenza. Vedi primamente la terra, collocata nel centro del mondo, solida, rotonda, in sè stessa da ogni parte per interior forza ristrella; di fiori d'erbe d'arbori di messi ammantarsi. Mira la perenne freschezza delle fonti, le trasparenti acque de' fiumi, il verdeggiare vivacissimo delle rive, la profondità delle cave spelonche, delle rupi l'asperità, delle strapiombanti vette l’elevazione, delle pianure l'immensità, e quelle recon. dite vene d'oro e d'argento, e quell' infinita possa di marmi. Quante svariate maniere d'animali! quale aleggiare e gorgheggiar d'uccelli e pascere d'armenti, ed inselvarsi di belve! E che cosa degli uomini dirò, che della terra costituiti cultori non consentono alla ferina immanità di toruarla selvaggia, all’animalesca stupidità di devastarla, sicchè per opera loro campi isole lidi mostransi vaghi di case, popolati di città! Le quali cose se a quella guisa colla mente comprendere potessimo, come le veggiamo cogli occhi; niune in gettare uno sguardo sulla terra potrebbe dubitar più oltre che esista ia provvidenza divina. “Ed infatti, come vago è il mare! come gioconda dell'universo la faccia! Qual moltitudine e varietà d'isole é amenità di piani, e disparità d'animali, sommersi gli uni nei gorghi, gnizzanti gli altri alla superficie, nati questi a rapido moto, quelli all’imobi, lità delle loro conchiglie! E l'acre che col mare con: fina qua diffuso e lieve s'innalza, là si condensa e accoglie in nugoli, e la terra colle piove feconda; e ad ora ad ora pegli spazii trascorrendo ingencra i vento ti, e fa che le stagioni subiscano dal freddo al caldo loro consuete mutazioni, e le penne de' volatori sostiene, e gli animali mantien vivi.” 5 Giace ultimo l'etere dalle nostre dimore disco. stissimo, che il cielo e tutte cose ricigne, remoto confine del mondo; per entro al quale ignei corpi con maravigliosa regolarità compiono il loro corso. Il sole, uno d'essi, che per mole vince di gran volte la terra, intorno a questa s'aggira, col sorgere e il tramontare segnando i confini del giorno e della notte; coll'avvicinarsi e il discostarsi quelli delle stagioni; sicchè la terra, allorehè il benefico astro s'allontana, da certa qual tristezza è conquisa; pare che invece insieme col ciclo ši allegri allorchè torna. La luna, che a dire de matemateci, è più che una mezza terra, trascorre pe' medesimi spazii del sole, ed ora facendoglisi incontro; ora dipartendosi, que' raggi che da lui riceve a noi trasmette; ed avvengonle mutazioni di luce; perciocchè talora postasi innanzi al sole lo splendore ne oscura; talora nell'ombra della terra s'immerge e d'improvviso scompare. Per quegli spazii medesimi le stelle che denominiamo vaganti girano intorno a noi e sorgono e tramontano ad uno stessso modo; il moto delle quali ora è affrettato ora s'allenta ora  cessa; spettacolo di cui altro avere non vi può più ammirando e più bello. Tiene dietro la moltitudine delle non vaganti stelle, delle quali sì precisa è la reciproca giacitura, che si poterono ad esse applicar nomi di determinate figure. “E tanta magnificenza d'astri, tanta pompa di cielo, qual sano intelletto mai potrà figurarsele surte dal raccozzarsi di corpi qua e là fortuitamente? Chi potrà credere che forze d' intelligenza e di- ragione sprovvedute fossero state capaci di dar compimento a tali opere delle quali, senza somma intelligenza e robusta ragione, ci sforzeremmo inutilmente di comprendere, non dirò come si sieno fatte, ma solo quali veramente sieno?” Dopo d'avere additato virtù e religione siccome scaturigini del bene, maestre di felicità, dopo d'avere spaziato pegli immensi campi d'un'alta e confortevole metafisica, dopo di avere falto tesoro negli insegnamenti della greca filosofia di ciò ch'essa mise in luce di più puro e sublime intorno l'anima e Dio; argomento degno della gran mente di Cicerone era la felicità, non più studiata e ricercata pegli individui, ma per le nazioni; ed a sì nobile soggetto consacrò i suoi trattati, in gran parte perduti, Della repubblica e Delle leggi. Nei frammenti che ce ne restano scorgiamo essersi il filosofo serbato fedele al suo assioma favorito: - nella giustizia divina contenersi l'unica sanzione dell'umana giustizia.  u Fondamento primo d'ogni legislazione, egli scrive,  sia un generale convincimento che gli Dei sono di tutto arbitri, di tutto moderatori; che benefattori del. l'uman genere scrutano che cosa è in sè stesso ogni uomo, che cosa fa, che cosa pensa, con quale spirito pratica il culto; sicchè i buoni sanno discernere dagli empii. Ecco di che gli animi voglionsi compene. trati, onde abbiano la coscienza dell' utile e del vero.” Ma se M. Tullio della virtù della felicità delle leggi ravvisava nella religione le scaturiggini, la religione voleva che santa e pura fosse, onninamente sgombra dalle supestizioni dalle credulità, da che vituperata miravala. A tal uopo dettò l'aureo trattato De divinatione, nel quale usò d'un argomentare nel tempo stesso seyero e faceto, con abbandonarsi in isferzare la credulità e la sciocchezza a'voli più opposti della sua proteiforme eloquenza.  Capolavoro di Cicerone è il libro Degli Officii, ossia de' doveri morali degli uomini in qualunque condizione si trovino essi collocati. I Greci ebbero costume di spaziare troppo ne' campi delle filosofiche astrazioni; le loro dottrine trovarono meno facile applicazione a' casi pratici della vita, perchè sovraccaricate di vane disputazioni, oppurtune più spesso a trastullare l'imaginazione, che ad illuminare l'intelletto. Tullio grande e saggio anche in questo volle spoglia la sua filosofia di quell' ingombro, e ricondussela alla più semplice e precisa espressione degli inculcati doveri. 6 Cicerone (scrive- a proposito del libro degli Officii un critico tedesco) fu dotato  di luminosa intelligenza di rello giudizio di gran. de altività, doti opportunissime a coltivare la ragione, a fornirle argomento d' incessanti meditazioni. Ma Cicerone non possedeva lo spirito speculativo che si richiede a poter ben addentrarsi ne' primi principii delle scienze: il tempo venivagli meno a minute indagini, la sua indole stessa fare non gliele poteva famigliari. Uomo di stato più che filosofo, le scienze morali lo interessavano per quel tanto che gli servivano a rischiarare le proprie idee intorno ad argomenti politici. Vissulo in mezzo a rivoluzioni, quali traversie non ebbe egli a sopportare ! Niun politico si trovò mai in situazione più propizia per fare tesoro d'osservazioni intorno l'indole della civile società, la diversità de' caratteri, l'influenza delle passioni. Pure cotesta situazione sua stessa era poco alla a fornirgli opportunità d’approfondire idec astralte o meditare sulla natura delle forze invisibili, i cui visibili risultamenti s'appalesano nell' umano consorzio.  La situazione politica in cui M. Tullio si trovò collocato improntò la sua morale d'un carattere speciale. Gli uomini dei quali ed a’ quali ragiona sono quasi sempre della classe a cui spetla d'amministrare la repubblica: talora, ma più di rado, rivolgesi agli studiosi delle lettere e delle scienze. Per la moltitudine de cittadini hannovi bensì qua e là precetti generali comuni applicabili agli uomini tutti; ma cercheresti inutilmente l'applicazione di que' precelli alle circostanze d'una vita oscura e modestà. Caso invero singolare! Mentre le forme del reggimento repubblicano raumiliavano l'orgoglio politico con dargli a base il favore popolare, i pregiudizii dell'antica società alimentavano l'orgoglio filosofico, con accordare il privilegio dell'istruzione unicamente a coloro che per nascita o per fortune erano destinati a governare i loro simili. In conseguenza di questo modo di vedere i precetti morali di Cicerone degenerarono sovente in politici insegnamenti.  Coi trattati “Dell' amicizia” e “Della vecchiezza” M. Tullio a confortevoli meditazioni ebbe ricorso onde ricreare la propria mente dalla tensione di più ardui studii e dagli insulti della fortuna. E veramente che cosa avere vi può sulla terra di più dolce e santo d'una fedele amicizia? Che cosa vi ha di più dignitoso e simpatico d'una vecchiezza onorata e felice? Cice, rone in descrivere quelle pure e nobili dilettazioni consulto il proprio cuore: beato chi trova in sè stesso l' inspirazione e la coscienza della virtù!” --  Wikipedia Ricerca Mitologia romana narrazioni mitologiche dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento mitologia romana non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La mitologia romana riguarda le narrazioni mitologiche della civiltà legata all'antica Roma, e può essere suddivisa in tre parti:  Periodo repubblicano: nata nei primi anni della storia di Roma, si distingueva nettamente dalla tradizione greca ed etrusca, soprattutto per quanto riguarda le modalità dei riti. Periodo imperiale classico: spesso molto letteraria, consiste in estese adozioni della mitologia greca ed etrusca. Periodo tardo-imperiale: consiste nell'assunzione di molte divinità di origine orientale, tra le quali il Mitra persiano, sincretizzato nel culto del Sol Invictus.  Il mito di Romolo e Remo Natura dei primi miti romaniModifica È possibile affermare che i primi romani avessero miti. Detta in altro modo: finché i loro poeti non entrarono in contatto con gli antichi greci verso la fine della Repubblica, i romani non ebbero storie sulle loro divinità paragonabili al mito dei Titani o alla seduzione di Zeus da parte di Era, ma ebbero miti propri come quelli di Marte e di Fauno.  A quell'epoca i romani già avevano:  un sistema di rituali ed una gerarchia sacerdotale ben definiti; un insieme molto ricco di leggende storiche sulla fondazione e sviluppo della loro città che avevano per protagonisti degli umani ma vedevano anche interventi divini. Prima mitologia sulle divinitàModifica Il modello romano comportò un modo molto diverso di definire il concetto di divinità rispetto a quello greco che ci è noto. Per esempio se avessimo chiesto ad un antico greco chi fosse Demetra, avrebbe probabilmente risposto raccontando la famosa leggenda del suo folle dolore per il rapimento della figlia Persefone da parte di Ade. Al contrario un romano antico avrebbe risposto che Cerere aveva un sacerdote ufficiale chiamato flamine, che era più giovane dei flamini di Giove, Marte e Quirino (la Triade arcaica), ma più anziano dei flamini di Flora e Pomona. Avrebbe anche potuto dire che era inserita in una triade con altre due divinità agresti, Libero e Libera e avrebbe anche potuto elencare tutte le divinità minori con funzioni specifiche che la assistevano: Sarritor (il sarchiatore), Messor (il mietitore), Convector (il carrista), Conditor (il magazziniere), Insitor (il seminatore) e altri ancora. Così la mitologia romana arcaica, almeno per quello che riguardava gli dei, era costituita non da storie, ma piuttosto da complesse interrelazioni reciproche tra dei e uomini e all'interno della sfera umana, dall'una parte, e della sfera divina dall'altra.  La religione originaria dei primi romani venne modificata in periodi successivi dall'aggiunta di numerose e conflittuali credenze e dall'assimilazione di gran parte della mitologia greca. Quel poco che sappiamo della religione romana arcaica lo conosciamo non attraverso fonti contemporanee, ma grazie a scrittori tardi che cercarono di salvare le antiche tradizioni dall'abbandono in cui erano cadute, come lo studioso del I secolo a.C. Marco Terenzio Varrone. Altri scrittori classici, come il poeta Ovidio nei suoi Fasti, furono fortemente influenzati dai modelli ellenistici e nei loro lavori impiegarono spesso miti greci per riempire i vuoti della tradizione romana.  Prima mitologia sulla "storia" romanaModifica In contrasto con la scarsità di materiale narrativo arrivatoci sugli dei, i Romani avevano una ricca fornitura di leggende quasi storiche sulla fondazione e sulle prime fasi dello sviluppo della loro città. I primi re di Roma come Romolo e Numa avevano una natura quasi interamente mitica ed il materiale leggendario può estendersi fino ai racconti della prima repubblica. In aggiunta a queste tradizioni in gran parte indigene, fin dai tempi antichi materiale tratto da leggende eroiche greche venne inserito in questo blocco originario, facendo diventare, ad esempio, Enea un antenato di Romolo e Remo. L'Eneide e i primi libri di Livio sono le migliori fonti esistenti per questa mitologia umana.  Divinità romaneModifica Ulteriori informazioni Si propone di dividere questa pagina in due, creandone un'altra intitolata Divinità romane. Dèi greci e romaniModifica La pratica rituale romana dei sacerdoti ufficiali distingueva nettamente due classi di dèi, gli dèi indigeni (di indigetes) e i nuovi dèi (di novensiles).  Gli dei indigeni erano gli dèi originari dello stato romano e i loro nomi e la loro natura erano rivelati dai titoli degli antichi sacerdoti e dalle feste fissate sul calendario; trenta dèi di questo tipo erano onorati con feste speciali.  I nuovi dèi erano divinità più tardi i cui culti vennero introdotti nella città in periodi storici, di solito in una data conosciuta e in risposta a una specifica crisi o a una determinata necessità.  Le divinità romane arcaiche includevano, oltre agli dèi indigeni, un insieme di dèi cosiddetti specialisti i cui nomi venivano invocati nel corso di diverse attività, come la mietitura. Frammenti di antichi rituali che accompagnano tali azioni come l'aratura o la semina rivelano che in ogni fase delle operazioni veniva invocata una divinità specifica, il cui nome derivava sempre dal verbo che identificava l'operazione stessa. Tali divinità possono essere raggruppate sotto la definizione generale di dei assistenti o ausiliari, che venivano invocati a fianco delle divinità più grandi. Il culto romano arcaico, più che essere politeista, credeva a molte essenze di tipo divino: degli esseri invocati i fedeli non conoscevano molto più che il nome e le funzioni e il numen di questi esseri, ossia il loro potere, si manifestava in modi altamente specializzati.  Il carattere degli dèi indigeni e le loro feste mostrano che i Romani arcaici non solo erano membri di una comunità agreste, ma amavano anche combattere ed erano spesso impegnati in guerre. Gli dei rappresentavano chiaramente le necessità pratiche della vita quotidiana, secondo le esigenze della comunità romana a cui appartenevano. I loro riti venivano celebrati scrupolosamente con offerte ritenute adatte. Così Giano e Vesta custodivano la porta e il focolare, i Lari proteggevano i campi e la casa, Pale il pascolo, Saturno la semina, Cerere la crescita del grano, Pomona i frutti, Consus e Opi la mietitura.   Tavola illustrata degli Acta Eruditorum del 1739 raffigurante divinità romane Anche Giove supremo, il signore degli dèi, era onorato perché recasse assistenza alle fattorie e ai vigneti. In una accezione più vasta egli era considerato, grazie all'arma del fulmine, il direttore delle attività umane e, per mezzo del suo dominio incontrastato, il protettore dei Romani durante le campagne militari oltre i confini della loro comunità. Rilevanti nei tempi arcaici furono gli dei Marte e Quirino, che venivano spesso identificati. Marte era il dio dei giovani e specialmente dei soldati; veniva onorato a marzo e a ottobre. Gli studiosi moderni ritengono che Quirino fosse il protettore della comunità in armi.  A capo del pantheon originario vi era la triade composta da Giove, Marte e Quirino (i cui tre sacerdoti, o flamini, appartenevano all'ordine più elevato), insieme a Giano e Vesta. Questi dèi nei tempi arcaici avevano una individualità molto ridotta e le loro storie personali non conoscevano matrimoni e genealogie. Diversamente dagli dei Greci, si riteneva che non agissero come i mortali e così non esistono molti racconti sulle loro imprese. Questo culto arcaico era associato a Numa Pompilio, il secondo re di Roma, che si credeva avesse avuto come consorte e consigliera la dea romana delle fontane e del parto, Egeria, spesso considerata una ninfa nelle fonti letterarie successive.  Tuttavia, nuovi elementi vengono aggiunti in un periodo relativamente tardo. Alla casa reale dei Tarquini la leggenda ascrive l'introduzione della grande triade capitolina di Giove, Giunone e Minerva, che occupò il primo posto nella religione romana. Altre aggiunte furono il culto di Diana sull'Aventino e l'introduzione dei libri sibillini, profezie di storia mondiale, che, secondo la leggenda, vennero acquistate da Tarquinio alla fine del VI secolo a.C. dalla Sibilla cumana.  Divinità straniereModifica L'assorbimento degli dèi dei popoli vicini avvenne quando lo stato romano conquistò il territorio circostante. I Romani generalmente garantivano agli dèi locali dei territori conquistati gli stessi onori degli dèi caratteristici dello stato romano. In molti casi le divinità di recente acquisizione venivano formalmente invitate a trasferire la propria dimora nei nuovi santuari di Roma. Nel 203 a.C. l'oggetto di culto rappresentante Cibele venne trasferito da Pessinos in Frigia e accolto con le dovute cerimonie a Roma. Inoltre, lo sviluppo della città attraeva stranieri, a cui era consentito mantenere il culto dei propri dèi. In questo modo Mitra giunse a Roma e la sua popolarità tra le legioni ne fece diffondere il culto fino in Britannia. Oltre a Castore e Polluce, gli insediamenti greci in Italia, una volta conquistati, sembra che abbiano introdotto nel pantheon romano Diana, Minerva, Ercole, Venere e altre divinità di rango inferiore, alcune delle quali erano divinità italiche, altre derivavano originariamente dalla cultura della Magna Grecia. Le divinità romane importanti venivano alla fine identificate con gli dei e le dee greche che erano più antropomorfiche e assumevano molti dei loro attributi e miti.  Principali divinità romaneModifica AnimaliModifica Lupo Picchio Sirena Strige Dèi e deeModifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento mitologia è ritenuta da controllare. Abbondanza: personificazione dell'abbondanza e della prosperità nonché la custode della cornucopia Abeona: protettrice delle partenze, dei figli che lasciano per la prima volta la casa dei genitori o che muovono i loro primi passi. Adeona: protettrice del ritorno, in particolare di quello dei figli verso casa dei genitori. Aequitas: l'origine, il principio ispiratore di matrice divina, del diritto. Aeracura: dea ctonia e della fertilità Aesculanus: divinità romana protettrice dei mercanti e preposta alla coniazione delle monete Aio Locuzio: dio dell'avvertimento misterioso, avvisò Roma dell'invasione dei Galli nel 390 a.C Alemonia: dea della fertilità per cui le si dedicavano dei sacrifici per avere figli, ma era anche responsabile della salute del bimbo nel ventre materno. Era infatti lei che si occupava del suo nutrimento mentre viveva nel corpo della madre, garantendo quindi altresì la salute del corpo della madre Alma: colei che portava la vita Angerona: dea del silenzio o dei piaceri, protettrice degli amori segreti, guaritrice dalle malattie cardiache, dal dolore e dalla tristezza Angizia: divinità ctonia adorata dai Marsi, dai Peligni e da altri popoli osco-umbri, associata al culto dei serpenti Anguana: una creatura legata all'acqua, dalle caratteristiche in parte simili a quelle di una ninfa Anna Perenna: dea che presiedeva il perpetuo rinnovarsi dell'anno Annona: un'antica dea italica, dea dell'abbondanza e degli approvvigionamenti Antevorta: dea del futuro, presiede alla nascita dei bambini quando sono in posizione cefalica Attis: paredro di Cibele, il servitore autoeviratosi, che guida il carro della dea. Aquilone: dio del vento del nord Aurora: dea dell'aurora Auster: dio del vento del sud Averna: una dea della morte Bacco: dio della follia, delle feste, del vino, dell'uva, dell'ebrezza e della vendemmia Barbatus: dio a cui si rivolgevano i ragazzi non solo perchè facesse crescere copiosa la barba, ma anche per non tagliarsi quando ci si liberava di essa con una lama piuttosto affilata Bellona: dea che incarna la guerra Bona Dea: antica divinità laziale, il cui nome non poteva essere pronunciato, dea della fertilità, della guarigione, della verginità e delle donne Bonus Eventus: una delle dodici divinità che presiedevano all'agricoltura e concetto di successo Bubona: dea protettrice dei buoi Candelifera: dea romana della nascita Caligine: dea della nebbiosa oscurità primordiale, generò dapprima Caos, poi, Notte, Giorno (Emera), Erebo ed Etere Caos: dio del caos primordiale Cardea: dea della salute, delle soglie e cardini della porta e delle maniglie, associata anche al vento Carmenta (Carmentis): dea protettrice della gravidanza e della nascita e patrona delle levatrici Carna: dea con il compito di proteggere gli organi interni, in particolare dei bambini, e più in generale di assicurare il benessere fisico all'uomo Cerere: divinità materna della terra, dell'agricoltura, del grano, della fertilità, dei raccolti e della carestia Cibele (Cibelis): dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici. Clementia: dea della clemenza e della giustizia Cloacina: dea protettrice della Cloaca Maxima, la parte più antica ed importante del sistema fognario di Roma Concordia: spirito dell'armonia della comunità Conso: divinità del seme del grano, dei depositi per la sua conservazione, dei granai e degli approvvigionamenti Cupido: dio dell'amore divino, del desiderio sessuale, dell'erotismo e della bellezza Cunina: dea della tenerezza, protettrice dei lattanti, che veniva supplicata a lungo quando il pargolo era insonne e non faceva dormire, o quando aveva la febbre, o male al pancino Cura: dea della vita e dell'umanità Dea Tacita: dea degli inferi che personifica il silenzio Devera: una delle tre divinità che insieme a Pilumnuse Intercidona proteggevano le ostetriche e le donne in travaglio Diana: dea della Luna, delle selve, degli animali selvatici, delle giovani fanciulle vergini e della caccia, custode delle fonti e dei torrenti Disciplina: personificazione della disciplina Discordia: dea della discordia, del caos e del male Dis Pater: dio del sottosuolo Domidicus: dio che guida la casa sposa Domizio: dio che installa la sposa Dria: dea che assicurava un buon flusso esente da dolori nelle mestruazioni Edulica: dea spesso invocata perché alla madre non mancasse il latte Edusa: dea che provvedeva a far provare al bambino il desiderio della semplice acqua Egeria: dea romana delle fontane e del parto Epona: dea dei cavalli e dei muli Ercole: dio del salvataggio Erebo: dio ancestrale dell'oscurità, le cui nebbie circondavano il centro della Terra Esculapio: dio della medicina Etere: dio dell'aria superiore che solo gli dei respirano Fabulinus: dio che insegna ai bambini a parlare Falacer: dio del Cermalus (un'altura del Palatino) Fama: personificazione della voce pubblica Fascinus: incarnazione del divino fallo Fauno: dio dei pascoli, delle selve, delle foreste, della natura, dei campi, dell'agricoltura, della campagna e della pastorizia Favonio: dio del vento dell'ovest Febo o Apollo: dio del Sole, delle arti, della musica, della profezia, della poesia, delle arti mediche, delle pestilenze e della scienza Fecunditas: dea della fertilità Felicitas: divinità dell'abbondanza, della ricchezza e del successo, presiedeva alla buona sorte Ferentina: dea dell'acqua e della fertilità Feronia: una dea romana della fertilità di origine italica, protettrice dei boschi e delle messi, celebrata dai malati e dagli schiavi riusciti a liberarsi Febris: dea della Febbre, associata alla guarigione dalla malaria Fides: personificazione della lealtà Flora: dea della primavera e dei fiori Fontus o Fons: dio delle fonti Fornace: dea del forno in cui si cuoce il pane Fortuna: dea del caso e del destino Furie: personificazioni femminili della vendetta Furrina: dea delle acque Giano: dio dei bivi, delle scelte, dell'inizio e della fine Giorno: dea del giorno Giove: re degli dei, dio del fulmine e del tuono Giunone: regina degli dei, dea della donne e del matrimonio Giustizia: personificazione della giustizia Giuturna: dea dei corsi d'acqua dolce del Lazio Insitor: dio della protezione della semina e degli innesti Inuus: dio del rapporto sessuale Iride: dea dell'arcobaleno e messaggera degli dei Iuventas: dea della giovinezza Jugatinus: dio che unisce la coppia in matrimonio Lari: spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale Laverna: protettrice dei ladri e degli impostori Levana: dea protettrice dei neonati riconosciuti dal padre Libero (Liber): dio italico della fecondità, del vino e dei vizi Libertas: divinità romana della libertà Libitina: divinità arcaica romana, incaricata di badare ai doveri ed ai riti che si tributavano ai morti e che perciò presiedeva ai funerali Lua: dea a cui erano consacrate le armi dei nemici sconfitti Lucina: dea del parto, salvaguardava inoltre le donne nel lavoro Luna: personificazione della Luna Luperco: dio protettore della fertilità Lympha: dea che influenzava l'approvvigionamento idrico Maia: dea della fecondità e del risveglio della natura in primavera Mani: anime dei defunti. Esse talvolta venivano identificate con le divinità dell'oltretomba Manturna: dea che teneva la sposa a casa Marìca: divinità italica. Ninfa dell'acqua e delle paludi, era signora degli animali e protettrice dei neonati e della fecondità Marte: dio della guerra violenta Matres: divinità femminili dell'abbondanza e della fertilità Mefite: dea delle acque, invocata per la fertilità dei campi e per la fecondità femminile Mena (21°figlia di Giove): dea della fertilità e delle mestruazioni Mors: personificazione della morte Mercurio: messaggero degli dei, dio della velocità, dell'astuzia, delle strade, del commercio, dei messaggi, dei viaggiatori, dei ladri, dell'eloquenza, dell'atletica, delle trasformazioni di ogni tipo, della destrezza e della farmacia, protettore dei messaggeri, dei ladri e dei viaggiatori Minerva: dea dell'intelligenza, delle tattiche militari, della tessitura e delle arti casalinghe Mitra (Mithra): dio delle legioni e dei guerrieri Muse: 9 divinità delle arti Mutuno Tutuno: divinità matrimoniale fallica Nemesi: dea della vendetta, dell'equilibrio e del castigo Nettuno: dio del mare, dei terremoti, dei maremoti, delle piogge, del vento marino, delle tempeste e della siccità Notte: dea della notte Numeria: dea italica della matematica, preposta al conto dei mesi del parto Nundina: dea che si occupava della purificazione dei nuovi nati Opi: dea della terra e dispensatrice dell'abbondanza agraria Orco: dio degli Inferi Ore: dee delle ore Ossilao: dio che si doveva occupare che le ossa dei bambini crescessero sane e robuste Palatua: dea del Palatino Pale: dio degli allevatori e del bestiame Partula: dea del parto, che determina la durata di ogni gravidanza Pax: dea della pace Pavenzia: dea che si occupava di proteggere i bambini dagli spaventi improvvisi Pellonia: divinità che faceva scappare i nemici Penati: spiriti protettori di una famiglia e della sua casa ed anche dello Stato Pertuda: dea che consente la penetrazione sessuale Picumnus: dio della fertilità, dell'agricoltura, del matrimonio, dei neonati e dei bambini Pietas: dea del compimento del proprio dovere nei confronti dello Stato, delle divinità e della famiglia Pilunno: dio protettore dei neonati nelle case contro le malefatte di Silvano Plutone: dio della morte e degli inferi Pomona: dea dei frutti Potina: dea che si occupava di accompagnare il bimbo nello svezzamento Portuno: dio dei porti e delle porte Postvorta: dea del passato, presiede la nascita dei bambini quando essi sono in posizione podalica Prema: dea che tiene la sposa sul letto Priapo: dio della fertilità maschile Proserpina: dea dei fiori e della primavera Providentia: personificazione divina dell'abilità di prevedere il futuro Psiche: dea delle anime, personificazione dell'Anima gemella, ossia l'amore umano e protettrice delle fanciulle Pudicizia: dea romana della castità coniugale Quirino: dio delle curie e protettore delle pacifiche attività degli uomini liberi Robigus: dio romano della ruggine del grano Roma: dea della patria e della città di Roma Rumina: dea delle donne allattanti Salacia: dea dell'acqua salata e custode delle profondità dell'oceano Salus: personificazione dello stare bene, della salute e della prosperità Sanco: dio protettore dei giuramenti Saturno: titano del tempo e della fertilità Securitas: personificazione della sicurezza Silvano: dio dei boschi Senectus: dio della vecchiaia Sogno: dio dei sogni Sole: personificazione del Sole Sol Indiges: antica divinità solare Sol Invictus: antica divinità solare Somnus: dio del sonno e padre dei sogni Soranus: dio solare infero Speranza: dea della speranza Statano: divinità che aiutava i bimbi ad avere forza sulle gambe e quindi a camminare speditamente Statulino: dio che era accanto ai bambini nel muovere i primi passi perché non cadessero donandogli la stabilità Sterculo: dio inventore della concimazione dei campi e degli escrementi Stimula e Sentia: dee che, negli adolescenti, affinavano i sensi ed i ragionamenti, curandone l’intelligenza ed il raziocinio, li rendevano consapevoli e gli insegnavano da un lato l’indipendenza e dall'altro l'onere dei loro doveri Strenia: simbolo del nuovo anno, di prosperità e buona fortuna Subigus: dio che sottomette la sposa alla volontà del marito Summano: dio dei tuoni e dei fenomeni atmosferici notturni Terminus: dio dei confini dei poderi e delle pietre terminali Tellus: dea romana della Terra e protettrice della fecondità, dei morti e contro i terremoti Tiberino: dio delle sorgenti e del fiume Tevere Trivia: dea della magia, degli incroci, degli incantesimi, degli spettri e protettrice degli incroci di tre strade ed era la potente signora dell'oscurità, regnava sui demoni malvagi, sulla notte, sulla Luna, sui fantasmi e sui morti, associata anche ai cicli lunari rappresentava la Luna calante. Era invocata da chi praticava la magia nera e la necromanzia Uterina: assistente alla puerpera nel momento delle doglie che aiutava a superare il dolore delle doglie Vacuna: patrona del riposo dopo i lavori della campagna. Divinità di ampio utilizzo, ma soprattutto riconosciuta e invocata per la fertilità, legata alle fonti, alla caccia, e al riposo Vaticano: dio la cui funzione era assistere i neonati nel loro primo vagito Veiove: protettore dell'Asylum, il bosco sacro di rifugio che si trovava nella sella del Campidoglio Venere: dea della bellezza, dell'amore e del desiderio Verità: dea e personificazione della verità Vertumno: dio della nozione del mutamento di stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti Vesta: dea del focolare, della casa e del cibo Vica Pota: dea della vittoria e della conquista Victoria: dea della vittoria e dei giochi Viduus: dio minore, deputato a separare l'anima dal corpo dopo la morte Virginiensis: dea che scioglie la cintura della sposa Viriplaca: dea romana che "placa la rabbia dell'uomo" Virtus: divinità del coraggio e della forza militare, la personificazione della virtus (virtù, valore) romana Volturno: dio del fiume Volturno e patrono del vento caldo di sud-est Volupta: personificazione del piacere sensuale Vulcano: dio del fuoco, della metallurgia e dei vulcani, protettore dei fabbri Festività                           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Festività romane. Consualia Fontinalia Fornacalia Lupercalia Nettunalia Parentalia Saturnali Primavera sacra Floralia Località -- Averno (lat.Avernus) Campidoglio Cariddi Lete Palatino Stige (lat.Styx) Personaggi, eroi e demoniModifica Almone - eroe Anteo - eroe Ascanio - eroe Caca - demone Caco - demone Camene - demoni Camerte - eroe Caronte - demone Cidone e Clizio - eroi Clauso - eroe Clelia - eroe Curiazi - eroe Didone - personaggio Egeria - demone Enea - eroe Ercole - eroe Eurialo e Niso - eroi Evandro - eroe Fauna - demone Fauno - demone Feziali - eroe Flamini - personaggi Galatea - demone Lamiro e Lamo - eroi Laride e Timbro - eroi Lavinia - personaggio Lica - eroe Luca - eroe Marica - demone Messapo - eroe Murrano - eroe Numa Pompilio - eroe Orazi - eroi Pallante - eroe Pico - demone Pontefice massimo - personaggio Publio Cornelio Scipione Psiche - personaggio Ramnete - eroe Rea Silvia - personaggio Remo - eroe Reto - soldato Romolo e Remo - eroi Salii - personaggi Salio - eroe Serrano - eroe Sibilla - personaggio Tagete - demone Tarquito - eroe Terone - eroe Tirro - personaggio Turno - eroe Ufente - eroe Umbrone - eroe Venulo - eroe Vestali - personaggi Volcente - eroe PopoliModifica Aborigeni Equi Latini Marsi Messapi Rutuli Sabini Troiani Volsci. Ferro e Monteleone, Miti romani. Il racconto, Torino, Einaudi, 2010. Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Torino, Utet, 1999. Voci correlateModifica Religione romana Sacerdozio (religione romana) Numen Mitologia Mitologia etrusca Mitologia greca Dodici dei (religione romana) Quirino (divinità). Portale Antica Roma   Portale Letteratura   Portale Mitologia Ultima modifica 5 ore fa di Pulciazzo PAGINE CORRELATE Lista di divinità lista di un progetto Wikimedia  Dèi Consenti dodici dèi principali della mitologia romana  Triade arcaica Wikipedia Il Conte Tullio Dandolo. Tullio Dandolo. Dandolo. Keywords: storia della filosofia romana – ambasceria di Carneade – e tutto il resto! -- “Il secolo di Augusto”; “Roma e l’impero fino a Marc’Aurelio” “Corse estive nel Golfo della Spezia”; roma pagana “indici ragionati degli studi del conte Tullio Dandolo su Roma pagana” -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dandolo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Daniele: l’implicatura conversazionale numismatica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Clemente). Filosofo italiano. Grice: “Daniele is an interesting philosopher, if you are into numismatics, his pet topic!” Figlio di Domenico e Vittoria De Angelis, studia a Napoli, dove frequenta gli intellettuali della città. Entra in amicizia con vari studiosi tra cui Genovesi, Cirillo, ed Egizio. Cura un'edizione delle opere di A. Telesio, illustre filosofo cosentino, lavoro che gli procurò l'interesse di intellettuali di giornali letterari dell'epoca, specialmente per l’epistola dedicatoria e la vita del Telesio filosofo in purgato latino. Cura la pubblicazione le “Opuscoli” di Mondo, che era stato il suo primo maestro, premettendovi una dotta prefazione di tutte le veneri e la grazie pellegrine dell’idioma toscano, che merita gli elogi di Zanotti. Pubblica le nuove “Orazioni” latine di Vico, ch’erano state lette da quest’altissimo ingengno mentre filosofava sull’eloquenze e la colloquenza alla Regia Univerista. Publicca la l’aureo romanzo de Longo – que sembra dettato dall’amore, reso in volgare da Caro, con deliziosa e spontanea gracia, faciendo un dono preziossimimo agli ananti della toscana favella – corredandolo di una dotta prefazione escritta con ammirabile purita di lingua. A San Clemente cura le proprietà della famiglia. Si dedica al studio dell’antico e agli studi della classicità acquisendo documentazioni – collezione epigrafica -- e creando una collezione di oggetti antichi legati al territorio di San Clemente. Pubblica una critica ad alcuni studi sulle storia di Caserta (“Crescenzo Espersi Sacerdote Casertano al Signor Gennaro Ignazio Simeoni, un ufficiale di artiglieria napoletano”). Il marchese Domenico Caracciolo lo fa richiamare a Napoli dove entra nella segreteria di Stato. Riordina la raccolta delle leggi e dei diplomi dell'imperatore Federico II. E nominato "regio istoriografo", carica che era stata di Vico e di Assemani. Alla carica era associato un sussidio economico. Pubblicò Le Forche Caudine illustrate (Napoli), lavoro che gli permise di entrare all'Accademia della Crusca. Ricoprì nella Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere, creata da Ferdinando IV, la carica di censore per le memorie delle classi terza e quarta. Riceve l'incarico di sistemare la biblioteca della Collezione Farnese, in seguito confluita nella Biblioteca di Napoli. Divenne uno dei 15 soci dell'Accademia Ercolanese, dove cura la pubblicazione degli studi su Ercolano e Pompei. Suo malgrado anzi fu coinvolto, a causa della sua vicinanza con gli intellettuali vicini alla repubblica, nei fatti che successero dopo la caduta della Repubblica partenopea. Perse tutti gli incarichi e di conseguenza torna agli amati studi. Pubblicò un saggio di numismatica, Monete antiche di Capua, con la descrizione delle monete capuane di cui sei inedite. Sotto Bonaparte, riottenne le sue cariche e l'anno dopo divenne segretario perpetuo dell’Accademia di storia e di antichità e fu nominato direttore della Stamperia Reale. Fu anche socio dell'accademia Cosentina, della Plautina di Napoli, e dell'Accademia Etrusca di Cortona. Altre opere: “Antonii Thylesii Consentini Opera” (Napoli); “Crescenzo Esperti Sacerdote Casertano al Signor Gennaro Ignazio Simeoni” (Napoli) – una lettera sotto un falso nome in cui dimonstra la vera origine di Caserta --;  “Le Forche Caudine illustrate” (Caserta) – dove stabilisce il vero luogo ove furono piantati que’ gioghi sotto cui passarono le vite legion romane, provando con compoisoa e ben adattata erudizioone, chef u la Valle d’Arpaia, contro l’opinione di Cluvero, Olstenio, e di altri eruditi di chiaro nome --; “I Regali Sepolcri del duomo di Palermo riconosciuti et illustrate” (Napoli) – imprese anche ad illustrare le tombe de’ re di Sicilia. Rispende in questa la purita della lingua, e la ‘erudizione piu estesa, che possa desiderarse tanto nella patria storia degli antichi tempi,, quanto in quella del medio evo --  “Monete antiche di Capua” (Napoli)  dove interpreta le antiche monete di Capua gia pubblicate fino al numero di dodici, ne pubblica altre sei del tutto ignote agli eruditi; e nel fine dell’opera tratta in un erudite discourse del culto di Giove, di Diana, e di Ercole presso i Campani. Opera inedita: Ricerca storica, diplomatica, e legalle sulla condizione feudale di Caserta; Vita e Legislazione dell’Imperatore Federico II, “Codice Fridericiano” contenente tutta la legislazione di Federico. Propurca l’onoro di iiverine region storiografico, segretario perpetuo dell’accademia ercolanese e l’accademia della Crusca.– che le merita membro della Crusca – Vita ed opuscoli di Camilo Pellegrino il giovane; Topografia dell’antica Capua illustrate con antichi monumenti; Il Museo Casertano. “Cronologia della famiglia Caracciolo di Francesco de Pietri” (Napoli). Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Danilele epigrafista e l’epigrafe probabilmente sua per la Reggia di Caserta,La collezione epigrafica del Daniele a Caserta; Una pagina di storia dell’Anfiteatro Campano, Francesco Daniele: un itinerario emblematico, in classica a Napoli, La famiglia Daniele e i suoi due palazzi in San Clemente di Caserta: note genealogiche ed araldiche, descrizione degli edifici superstiti e ipotesi e proposte per la loro corretta attribuzione”; Daniele e lo studio del mondo antico” -- Lettere di Francesco Daniele al principe di Torremuzza”; “Lettera di Francesco Daniele a Giovanni Paolo Schultesius”, Lettere di Francesco Daniele al dottor Giovanni Bianchi di Rimini” Pseudonym: ‘Crescenzo Esperti’.  Francesco Daniele. Keywords: filosofia antica, roma antica, filosofia romana, l’antico in Roma antica, l’antico, idea dell’antico, ercolano, pompei, collezione farnese, palazzo Daniele, San Clemente, Caserta. Opera di Mondo, A. Telesio. “Regio Istoriografo,” carica cheera state di Divo e di Assemani, Giove, Diana, Ercole, Campania, le vinte legion legion romane, l’origine di Caserta, A. Telesio, filosofo. Mondo, filosofo, opuscoli. Romanzo di Longo reso in volgare da Caro, vita di Talesio, orazioni sull’eloquenza di Vico, valle d’Arpaia, gioghi, re di Sicilia.  Numismatica romana studio della monetazione romana Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni A questa voce o sezione va aggiunto il template sinottico {{Coin image box 1 double}} La numismatica romana studia la monetazione romana, cioè l'insieme delle monete emesse da Romae dal suo Impero dalla prime emissioni di monete fuse, delle monete romano-campane sino alla fine dell'Impero Romano.  Articolazione della materiaModifica monetazione romana repubblicana monetazione imperatoriale monetazione imperiale monetazione provinciale La monetazione repubblicana comprende monete dalle prime emesse da Roma a partire dal III secolo a.C. sino alla guerra civile che scoppia intorno al 49 a.C.  La monetazione imperatoriale comprende monete emesse nel periodo delle guerre civili, dai vari generali in lotta in virtù dell'imperium posseduto. Alcuni studiosi non accettano questa categoria ed includono queste monete in quelle repubblicane.  La monetazione imperiale romana comprende monete emesse dalla nascita del principato fino alla fine dell'Impero romano.  La monetazione provinciale invece tratta di quelle monete che sono state emesse da colonie ed alleati di Roma. Si tratta principalmente di monete sussidiarie o di monete emesse dagli imperatori romani utilizzando tipi che fossero meglio compresi da popolazioni di lingua greca. Spesso queste monete sono indicate col termine di coloniali. Una volta erano anche chiamate Greche imperiali.  I punti più rilevanti nella monetazione romana sono l'emissione del denario nel III secolo a.C., l'emissione dell'antoniniano verso il 215 d.C. da parte di Caracallanonché lo studio del sesterzio vero e proprio veicolo di propaganda dell'antichità.  Sono anche fondamentali le riforme monetarie di Augusto, Caracalla, Aureliano e Diocleziano.  Classificazione delle monete romane repubblicaneModifica  Antonia 1; Syd. 742; Craw. 364/1b  Pompeia 1; Syd. 461; Craw. 235/1a Per le monete repubblicane uno dei riferimenti più usati è il testo di Ernest Babelon (Description historique et chronologique des monnaies de la république romaine vulgairement appelées monnaies consulaires) pubblicato in due volumi nel 1885-1886. Nel testo viene utilizzata la suddivisione proposta da Eckhel:   monete fuse monete romano-campane monete anonime, senza cioè l'indicazione del magistrato responsabile dell'emissione monete divise per gens. All'interno della gens le monete sono catalogate in ordine cronologico. Le monete vengono quindi indicate con l'indicazione delle gens ed un numero progressivo: ad es. Claudia 6, Pomponia 1. La Description di Babelon è stata ristampata.  Altri lavori più moderni sono quello di Sydenham e quello di Michael H. Crawford, che elencano le monete in ordine cronologico.  Il lavoro di Crawford è il più recente sulla monetazione repubblicana. Nell'elenco delle monete il primo numero indica il monetario mentre il secondo numero indica la singola moneta.  Sydenham, E.A.: Coinage of the Roman Republic Crawford, M. H.: Roman Republican Coinage. Quest'ultimo lavoro è considerato il migliore attualmente esistente  Bisogna anche citare due studi particolari:  Campana, Alberto: La monetazione degli insorti durante la guerra sociale (91-87 a.C., l'unico studio approfondito su questo tema, che riporta anche il corpus completo e lo studio dei coni. Thurlow, B. - Vecchi I.: Italian Aes Grave and Italian Aes Rude, Signatum, and the Aes Grave of Sicily, sulla monetazione fusa in Italia e Sicilia. Classificazione delle monete romane imperiatorialiModifica Non esistono pubblicazioni specifiche che classifichino le monete di questo periodo. Si usano sia testi sulle monete repubblicane che testi sulle monete imperiali.  Alcuni dei testi sono già stati analizzati per le monete repubblicane e sono:  Babelon, E.: Monnaies de la République Romaine, che usa la divisione per gens. Sydenham, E.A.: The Coinage of the Roman Republic, che usa una suddivisione cronologica e si ferma grosso modo al 36 a.C. Crawford, M. H.: Roman Republican Coinage, che arriva fino al ca. 30 a.C. Altri testi, che riguardano anche la monetazione imperiale sono:  Cohen H. Déscription Historique..., un testo in otto volumi del 1880 che riguarda le monete dell'Impero Romano e che il più usato per classificare le monete imperiali R.I.C. Roman Imperial Coinage, vol. 1. (a cura di Harold Mattingly e Edward A. Sydenham). Il primo volume di 9. A partire dal 29 a.C. Classificazione delle monete romane imperialiModifica I testi di riferimento per la monetazione imperiale sono i "Cohen" ed il RIC.  Henry Cohen: Déscription Historique des Monnaie frappées sous L'Empire Romain, comunemént appelées Médailles Imperiales, un testo in otto volumi, tra il 1880 ed il 1982. Riguarda le monete dell'Impero Romano e che il più usato per classificare le monete imperiali. Ovviamente ormai molte delle informazioni contenute sono diventate obsolete. Copre le monete emesse dal 49 a.C. fino al 476 d.C.Le monete sono ordinate prima cronologicamente per Imperatore, poi per l'ordine alfabetico della scritta al rovescio. Questo ordine, certamente poco scientifico, comunque permette di identificare abbastanza rapidamente la moneta. È oggi disponibile in rete. R.I.C. Roman Imperial Coinage, Nove volumi a cura di Mattingly e Sydenham. Copre il periodo dal 29 a.C. al 395 ed è lo standard di riferimento per le centinaia di libri e cataloghi di collezioni su questo periodo. BibliografiaModifica GeneraliModifica Theodor Mommsen: Die Geschichte des römische Münzwesen - Berlin 1860. Tr. fr.: Histoire de la monnaie romain. Paris 1865. (Ristampa Graz 1956. Ristampa Forni 1990) Andrew Burnett: Coinage in the Roman World,London: Seaby, Sutherland,  Roman Coins Harl: Coinage in the Roman Economy Thomsen, Early Roman Coinage: a Study of the Chronology, 3 voll., Copenaghen, 1957-61. RepubblicaModifica Ernest Babelon, Description historique et chronologique des monnaies de la République Romaine vulgairement appelées monnaies consulaires, 2 voll., Paris, Rollin et Feuardent, 1885-86 (ristampato da Forni). Alberto Banti, Corpus Nummorum Romanorum. Monetazione repubblicana, 9 voll., Firenze, Banti editore, 1980-82. Gian Guido Belloni, La moneta romana. Società, politica, cultura, Firenze, NIS, 1993. Gian Guido Belloni (a cura di), Le monete romane dell'età repubblicana. Catalogo delle raccolte numismatiche, Milano, Comune di Milano, 1960. Michael H. Crawford, Roman Republican Coinage, 2 voll., London, Cambridge University press, 1974. Michael H. Crawford, Roman Republican Coin Hoards, London, Royal Numismatic Society, 1969. E. A. Sydenham, The Coinage of the Roman Republic, New York 1952 (ristampato da Durst, 1995). ImperoModifica Alberto Banti, I grandi bronzi imperiali, 9 voll., Firenze, Banti editore, 1983-87. Henry Cohen, Description des Monnaies frappées sous l'Empire Romain, II ed. Paris, 1880-92 ed. digitale H. Mattingly - E.A. Sydenham (et al.), Roman Imperial Coinage, Londra, 1936-84 Eupremio Montenegro, Monete imperiali romane, Con valutazione e grado di rarità, Torino, Montenegro edizioni numismatiche, 1988. Herbert Allen Seaby, Roman Silver Coins, Second edition, 4 voll., London, B.A. Seaby, 1967-71. David R. Sear, Roman Coins and their Values, Millennium edition, 3 voll., London, Spinx, Monetazione romana Monetazione romana Monetazione fusa Monetazione romano-campana Monetazione romana repubblicana Monetazione imperatoriale Monetazione imperiale Monetazione provinciale Monetazione bizantina Monetazione italiana antica Collegamenti esterniModifica Sito con le immagini delle monete repubblicane ed imperiali, su wildwinds.com. Introduction to Roman Coins by The Museum of Antiquities on the University of Saskatchewan, su usask.ca. Risorse numismatiche on line. Università di Bologna, su numismatica.unibo.it. URL consultato il 14 aprile 2006 (archiviato dall' url originale  il 7 maggio 2006). Rassegna degli Strumenti Informatici per lo Studio dell'Antichità Classica: Fonti numismatiche, su rassegna.unibo.it.   Portale Antica Roma   Portale Numismatica Ultima modifica 2 anni fa di Messbot PAGINE CORRELATE Numismatica studio della moneta e della sua storia  Monetazione romana repubblicana monetazione di Roma repubblicana  Roman Imperial Coinage catalogo britannico delle monete romane di età imperiale  Wikipedia Il Daniele. Keywords: implicatura numismatica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Daniele” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Dati: l’implicatura conversazionale dell’ELEGANTIOLÆ – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo italiano. Grice: “Dati is a good one if you are into Ciceronian rhetoric as given a running commentary by an unknown philosopher from Siena! – But mind, he also wrote, like Shropshire, on the immortality of the soul!” Noto per il suo manuale di grammatica Elegantiolae. Erasmo lo loda come uno dei maestri italiani di eloquenza. Nato da una agiata famiglia senese, passò la maggior parte della sua vita a Siena. Studia con Filelfo. Dopo aver insegnato per qualche tempo a Urbino, torna in patria e insegna retorica. E nominato segretario di Siena. Altre opere: Elegantiolae. L'Isagogicus libellus pro conficiendis epistolis et orationibus fu stampato per la prima volta a Ferrara da Andrea Belfortis. Elegantiae minores; “Opusculum in elegantiarum precepta cum Jodoci Clicthovei Neoportunensis et Jodoci Badii Ascensii commentariis; “Ascensii in epistolarum compositionem compendium”; “Sulpitii de epistolis componendis opusculum”; “Tabule in Augustino Datto contentorum index”; “Francisci Nigri elegantie regularum elucidatio”; “Magistratum Romanorum nominum declaratio”; “Ortographie regularum Ascensiana traditio. De grecis dictionibus apex ex Tortellio depromptus.” “Augustini Datii Senensis opera (Siena) – include diciassetteopusculi: I piu importanti sono: “Oratium libri septem”, “Fragmenta senensium historiarium libris tribus; “Isagogicus libellus pro conficiendis epistolis et orationibus” ristampato “Elegantiarum libellus”. Le Elegantiolae, ristampato ocon cari titoli, era considerato "il manuale par excellence". Sirve da base per i “Rudimenta grammatices” di Perotti. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, “Plumbinensis Historia”, Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo. Vedi Bandiera, “De laudibus eloquentiae”. BOpSTr . JULLgi  I & o=w zxt ri (yauM^ -zn j  r  J *  cm    (jflV<3 VSTINI DttTI Senensis Ifagogi?  cus libellus in ELOQUENTIAE PRECEPTA ab JPvnbrea b«=  mini ctyriftof eri filium f eliciter incipit/ 8  Rebimu giam bufeumaplcnfcKviiris i *  etiam bifertiflimis perfuafiitum be- v ' ,. .,.. t v tvr,  mum artem quepiam in bicebo non . ^*«,'<$•/ J nuliam abipifcu y fi veteru fectatu vef 6  tigia/optia fibi quifcp feper ab imita  bum propofueriFTNecj^ eni qui biutius I.M» CICERONE lectione veriatus fit,n5 m bicebo/et ornatus et copiosus esse poterit. Na et fjorribiora cre= i ,•.»>>-  brius cofectati l ipfi qucqp anbi ieiuni et inculti fi  ant neceffe eft. 4j Lectitati igitur micfyi CICERONE volumina Cque ELOQUENTE parentem appellaueri) - j pauca anotatioe bigna vifa fut. iquibus fi vtemur 41   vulctanufermoneaipernati/ab eloquetiamrroxi i s i mius.accebemus/ v  PRECEPTVM I varietati/comutati onio vt ftubeamus/ t   d Seb cu ib i primis quirc| abmouebus fiti quob  rfyetor ille biligetittimus et inlignis abmobu orator sabius Quitilianus be oronis partibus bicere cofueuit.J Meq; eni leges fut oratoru / quaba velu- .   tiiniu.atihj Kceflitdtecoltitute; ncc roaaiignibus < L -v* GI-NEVIEVM; vt i&cm bicebat)plebifl ve fcitis.Tancta [vt ifta PRECEPTA. feb vti in ftatuis picturis pozmatibus ccte=  rif^ita quocgin exornaba viri eloquentis oratione  plurimum feper roboris ac vcnuftatis r;abuit varietas . &tc$Cquob bici ibfet) tenenbu cauenbucj illub est antc omni ainears vlla bicebi u fieri poteft fTe vibeatur. Hec igitur lex prima fit comutafionis varietatiTaj/qua erubitoru aures nobiffi  cile iubicet. ilHoc iajtar iacto fubaireto /per  pauca beitfps fcritan C 7>vnorea amicc fuauilhme  qae et fi ron femper^ vt plurimi m tamen l; is rationitus titi feruar.ba erunt t fcb iam nofiri ialti'  tuti ita nafcetur exorbium.  (JBecunbum preceptum be fitu fuppofiti/ verbi  etappctti i oratione;   ^Jplcrua; enim qui oratorie artis fforibussc  faleratis. Vtaiu Ove ibis ftufccntkotratnu  vulgataci gramaticorum confuetubinem bamna=  tcsi quob in calce abiolute orationis locari cofue uitiib illi potms coaptantinicioi quob oir.ne tibi  exemplo erit manifeftms. £cis plena orationer a  conltaretribus partitus. qucb SUPPOSITVMCvteorum ipforum vocabulis vtar)quob verbu/ quob APPOSITVM vocant. Diciit igitur nramatici {SCIPIONE afiicanus telcu A l.aitf; £gin«ri, ciwticrie vcro L  r   h   1 r *  l eloquii bemines couerfo potius vtuntur orbine. Al-*— a  liarttjacune lcipio africanus &eleuft.illi.'M/r.Ci &*—cero vtitur famuiariter. p4cntulo.no8 vero.'p«le^ ^ **f'**T  tulo. CICERONE farmliarir vtitur. Quib? tf^'J*t-r  me exeplis patere arbitror appofitum prirnu 1 owr^V^ * >  tione/fuppofitu mebiul nouiflmuiverolocu ver^^  bu tenere.([Seb et u quib Cpro graraaticor5 «•*. A;  re)poft appofitu fitum eriti ib iitio oratioms poi^J^     L-Scncr^^.      ras. Ligurgus conbibit fancttflimas legcs lacebc* *~i awu^yfc.  monis. Lacebemonis fanctillimasIecreB ligursr..^*- <*, e ~3  aus conbibit.mulfag; cofimili ratione* ~pao„tfi^c ,  i !*.l.*-«*«_i k  igitur pieruncj principioappomturi hppoiitutnf^/ mebiojline vei bum.vtanopagu folon. fclammuBf™  primu coftituit vbi granwtici bicut j fol5 primus,  coltituitanopasum. {[Ceterum biueriis orttmcv  feus i et iocis tollocabe fut partes pro aunum iu*r7 " a ^ fW  do j quob quibem folo vfu coparatur ^ a*A  PERCEPTUM III be abuerbioru fitu |*r^ lam vero be abuerbiisC que funt veluti abiecjjftc verb?rum)5id poteft pauW vbi uia lpci A effeivfei bemu aptius congruere vifa tuerint«mos  bo in principioJmobo in finelmobo intenecta m<  ter vti ucg.qua in re biligeti vtenbuin est conhho  Seb prope verfcum frequetius per venuftam rebbunt oratione. vt fabius maximus ante alios fortiter atcj animofe pugnauit.C.lehus fcipioe fami  hanfume vtebatur. Qementiflimus ceiar l?umiti=  teHcjngfcebat. Nunc vero ab rehqua .  {jQuartu preceptum be prepofitionu/et  integrarum pferumaj orationuiteriectioet  inter NOMEN SUBSTANTIVVM et abiectiuum; PROPOSITIONES pcrpulcf;rc intcr fobftafiua at  q abiectiua nomina interiiciutur.vt feraci in agro  ornatiflimo in loco.maximas ab res.fyanc ob cau*  fam. iuftis be caufis . aliacji l;uiufmobi complura*   Ncc prcpofitionea folum (kb alia pretcrea eiufc»  mobi nuncfumemus eyempla. Maxima i rep. bi*  ligentia. magna in parentes pietas increbibilis m  omnes ciues obferuantw.fummain l;oftes hbera   PRECEPTVM V be fmedecticne genis   fiuora iter buos nominatiuos/et ecotra.  7Ktq etiarn pulcf;crriinu i iter buos cafus / puta nominatiuo e buos/ahquib cotmue pomtur. Vt om  »ia reip.iura coftates miljtum ammi.macma fces  <  i»   f  m leratorum fyominum flagitiaf Bcouerfo etia cofti   tuta ac trafpolita oratio piurimu exornah Vtl?u   ius daritubo viri.fyuius qmrites auctoritate locif   Ci VI PRECEPTU beabiectiuorufituf Venufte etiam pieruqj precebit abiectiuum nome   fubft4tiuum. Vt tua bigmtas«optimavirtus»biui   »u igemuin.exquifitaboctrina*Magni ehirefert/   quo ioco quecg bictio iita fit. quob teftatur Boeti -   us in iis comontariis l quos in ariftotelis librum   cofcripfit.vbi et CICERONE et VIRGILIO ponit exepla  BOEZIO autem ipfius fyec verba fut ♦ Sfenim c£tum   ab copositionem orationis fpectaf/ maximum bif-   f ert l quo VERBA ET NOMINA predicationis sue ordine proferantur. Multum enim itereft in eo quob f* A *   ait CICERONE^bb9ncteamctiamnaturapeperit-'volutas exercuit/fortuna fcruauit ♦' ita bixiffe vt biz J ;   ctum eft/an lta ab Ijanc te amentjam peperit naf u +4 £ j ^   raiexercuitvoluntasiieruauitfortuna* jSicei'im>>' 4 * »   minor elt fetentie magnitubo. minuf^ in ealucet _^.^ v   ib quob fi fic coponatur emmet i et fefe vel nolentib«s i^ominum aunbus/aifqj patefacit « Rurius   quoqi bicit Virgduis pactqj iponere moremipo^   iuilfet feruaffe metrum li ita bixifiet l moreq? imponere paciifeb elt bebilior fonus* nec eo lctu ver   fus ta preclare vt uhc compojitue oiceretur* quod ibera non eft apub byalcticos . ljcc BOEZIO . Nuc   aorciiqua;   <J Septimu preceptu bc fitu ncgatiue bictionisf   Negatiua bictioapte i calceoratioms ponitur» Vt   preitanticrem te vibi nemi :em. Scipicne clario=   re m bellicis laubibus iuenies nemincm.Tua er=   ga me BENEVOLENTIA tuo in me aimo gratius e ni=   cbil.gui tearoenti js amet.' fyabes nemine*   (jfpctauu preceptu be pouellcns ante pof=   fefnonem fitu/   S8D et polleffor ate poifeffione. Vt opti viri bi*   uitie. preftantis viri virtus.prubetifumi fyominis   confilium;   dHonu prcceptu bc vlu gerunbiuorum   nominu pro gerunbus;  CXVIQ vero pull?i-ms.'§ £i pro gerunbiis que   appellant vtamur gerubiuis nominibus. 7Kc trjs  tu e prifciani exempiu . Veni ca amabi virtutem/  vcni amabe virtutis caufa.gra gerebi bella t geren=  borum bellorum gratia.ab amplexaba virtute ma  gis.qi ab amplexabum virtute. Que vna preceps  tio optima eft.crebraq? cius apub.M.T.aLolqj c*  loquetes viros tuit cbleruatio;  {fPecimu preceptu be congruentia nominis relatiui $kruq, cum confequete/ . Nunc aatem mu!ta confkiam. quc li biligeter ab   uertensmb pavu ornatus ktino cobucent elo=   quio.Seb ib micfci imprjmis aniabuertenbu vibe   tur,'vtquom tna luerint^antccebesJ cofeques/ et   eorum mebiu relatiuu nomeifr fitib confequens/   vel l?ominis / vel rci cuiulpiam propriu nome.' re  LATINV cofequeti femper cogruat.ftlioquin no la*   tina oratio f it ( fcb a boctiUimorum fyominu consuetubine longe ahena , frhas poteft cum aiterutro   conuenire fi ncn con cquatur propi ium ncmen. Qua rem facile exempla beclaratiet prifcoru auctoritafes coplures. CICERONE primo TVSCVLANARV quefhonum.btubio fapietie que pl ia bicitur. Et   fexto be rep. contilia - cetuigj fycmmu mre fcciati;   que dujtates appellantur. Mq lteru i cx illis lem=   piternis ignibus/ que vcsfytera etfteliasnucus   ett.s.Saluftii quoq; llluo tritum cft, Eftiocus in   carcere quob tullianu appellatur/inuncrabilia h   netufiis cobicibus ib genus iucnias.Hcc ib e ara=   maticeartis vitiumiquobquibam Ljnari littcraru   arbitrantur.Seb et nos ahquio exemplorum af fe   ramus predarum est CICERONE opus(qui cato ma   ior bicitur.nam quob CATONE MAGGIORE bicitur /non ia=   tinc profertur.Confiiniliter vrbis vifcenbus con   ilcr.bu eft i qui iut ciucs. pcrbiti vin cx vrbibus  pellenbi funt /que eft ciuitatum pernities fentina  Sebecoris. Plerunq* igitur relatiuum nomen cura  eo concors eft quob fequitur/  CjVnbccimu preceptum be cogruentia in cafu   ex trib^/eoru buoru que proximius iugutur^  Illub quoqj fpectabum efttNam cum tria exiftant  qaorum vnum relatiuum lit nome;frequetihime  coram buo in eiufbem cafus exitu conuemut/ na  vt exempli caula bicam aliquib Si quis l?unc fer  monem protulerit l liber in quo be virtutc agitur  preclarus eft .'rectius atqj ornatiusbicitur;in quo  hbro be virtute agitur/predarus eft. Concorfcant  nantj eobem cafu ex tnbus buo llla que maion vi  cinitatc iuncta funti ahub lterum exemplum ^u^  iulcemobi fit* Qaias mifif*i htteras ab mc locubc  f jerunt. Sermoce queaubifas no eftmeust Qua  exiftirras bemoftI;eIs orationem /cfcJ^ms elt. atq  Ijuius fermonis crebru muenii e potens apub ve-  tercs vfum.M.T.officioru pricnoi quorum au*  tcm offinorum precepta trabutur / ea quancy p«  tincant ab finem bonoriu Virgihus Maro m ene  ibc/ vrbcm quam ftatuo veftra eluTerentius in i  bna/poltl^ac quas faciet be integro comebi.s fpec  tanbc an exigenbe funt vobis prius.Ibem.popu*  lo vt placcrcnt quag f ecilfet fabulas* Ibem, quaa  t  r  * * creois cffc \)islno funt vere nuptie. $tcj eiufrao   bi fermo plurimum exornat;  (JDuobcc.mu preieplum t e auxefi potxti*   ucrum cum per;  3D c.ucxj oigmlfimu cft annotatu. vt quom pofi=  tiud€<auger^ velimus normnaivtnsper prepofi  f um aecebdt.Gcero m cpjftola ab cunonemkui z  cai us eque fisiet teriocunbus . Ibcm be oratore  p r;m o.perboati quite frater ilhviben folet.Tere.  in eunucr;o. perpulc^ra irebo bona fyaub nof tns fi  miha.nam pergratum vaibegratum fignifrcatM  in cratione Jepibe p crfonat;   (jTrebecimu PRECEPTVM XIII be fuperJatmis   cum multo/longe/et §;  PST fupcrlatiuis /inulto/ioge/et qj abuerbia pre  ponimus ibqj fepenumero pei pulcl;ru viberi fo^  let. Vt longe amatilfnnus veftri.mulfo ommu  foituanllmus-St acjo tibi q-maxias gratias  (JJDerimumquai tum preceptum be com*   parati uis cum multo / aut longc . GOMPAratmis vero vel multo vel fonge p  poni Jblet. Vt mfticia multo predarior eft ceteris  vir tutibus.8t  Socrates loge aliis pfyis fapientioi }  (jDecimuquitu preceptu be quibufba noibus  quc agrecis prpfecta/bccfinatiorie mutant,  ({ILLVD nequacp omifc;'imus,'q> quom nomina  quepiam funt profccta a grecis tertie fiex.onis d  obiiquos cafus fjabentia qui rectum bperanttf»  tini oratores rrequentifume calibus ac.uf tiuis il=  lorum quibufbam immutatis fmgunt ahamm be  dinationum nomina et genus feruant . qualiafut poematum EMTYMEMANTVM o ELIPSIIM elegantus ctlampaba^aue a plerifg?tertia flettione pro  ferutur poema ENTYMEMA /beipbin/ ELIPSIS as la-  pas . fyanc tu obleruationem biligenter manba memorie/ (TDecimu fextu preceptu vteleganferoftebemus   quippam nobis eife/iocubu/ vtilc/ vell) Onestus et   ettevaibgenus;  JXuo aut volumus oftebere nobis aliquiD jocti  bu/^oneftum/vtile eftei batiuis cil verbo vtimur  fum/es/elt fubltatiuoru/ quoru illa abiectiua fut  Mi(ne ab exeplis bilceba^quib aiiub iignif icat l?«e  res raicfy locunbitati eft JcJ bec res eft micfy iocu-  bVlbemc$ l lpfe micfyitue littete fuerut gaubio*  quob elt ab gaubium vel gau&iu micfyi attulerut.  Predara vrbis ebificiaciuibusbecorifunt. Vitia  bsbecon ful viris Jibeft bebecus pariut viris beq   ceteris colimriiratione; ([Decimufeptun preceptu be af ricio et af Fiaor»  <l   k.   m  «#"»  Vevbum aftido Jet pulcfyru eft/et late patet.nam  afficio te voluptate ibciit tibi voluptate affero. M  i icio te fyonore lbeft facio tibi Ijonoi em et te fycno  ro.aff <cio te laubibus l&efi tc laubo. affkio te pro  bro lbelt vitupero te . afficio te comobis lbeit tibi  ccnioba facio.afficio cabauera fepuftura lbcft caba  uera icpelio.T^if icio inimicos miuria tbeft facio i  iunam mimicis, 7\tq fimihter affiaor bolore lbe  boleo.af ficior gaubio ibeft gaubeo. aificior vere?  cubia ibelt verecunbor. Latiilimacj eftlmius ver=  bi vlurpatio.Nec tum lateat tc/af f icerc bifponere  ficjmficare.Hinc eft plauti iflub/ viua vos magis  arficit.Neq} cnim fme optimis caufis ta l&ta / tao;  bilfula fit eius verbi SIGNIFICATIO feb be i?oc latis;  Cj PRECEPTVM be tum vel   et «jeminatis . (jxviii > Non eit aute ignoranbu cp i\ ouo/ aut plura buo*  tus Cquob perraro vfu velt)paritcr fe l;abuennt.'  vtri<$ tum bictiomm prepcnemus.Qoicb Iiqueat  exemplo.Par eftin.C. lelioboctrina/ ac virtus.  qitacj dt eius viri pvobitasitata quoc| ett eius fci=  entia, tunc lf lenbibe / ac rccte bixcrim . C. lcfius  vir tum boitus e/t/ tum probus •Itibemcji magna  ineit.M.C.ieiiotum virtus/ tum etiam boctrina   C« ivltus p..uMnu tu iaute/tu reru icietia valet OTub iterum exemplum» tfyemiftocks tum con-  filio polletin vrbams rebus/tui beliicss negociis  viribus atcg animi magnitubine f ioret . Stc eni ta*  tum oftebit in rebus vrbatiis effe cofiiium cjtj in  beilicis magoif ubinem animi <$ tum geminatum  pofitu eft*Seb eanbem quoqj vim fyabet .jeminata  et coiuctiua Virgiliusi eneibe.MuItum xlle et ter  tis iactatus et alto. ibe profecto fignat.'eneas t tum  pelagi /tum terrarum labores perpeffus eft.7?vfri  canus fuit figularis et vir et imper.ator l lbem Qy>  vult« africanus magnus extitit tum vir tuntfmpe  i-ator ; (J Preceptu be cu et tu ♦ (Jxix*  Qi fi buo contra nequaty paria futi (eb aheru mi=  bus complechtur /alteru vero magisiita etficiens  bum eft* vt quob leuius exiftit locemue pnus/at=  cj ei cum bictione preponamus.quob aute graui-  us valibmf$.'ib pofterius politum/ tu bictio pre=  cebat.Qoiob patefaciemus exemplis Gielius a-  mat SCIPIONE propterea <$ eu boctum cognouit  fyominem/et fempzr virum optimum/ quob poItremu vefyemSter ab amorem impellit. quare ita  oratio eft inftituenba« G. lelius amat lcipionem tu  ob boctrina eius tu propter virtute. ita virtus in  fyac bemuoletia pius mometi fyabet. JPvtqj ibem lta  ubixerim.Gu oes. fortunati funj qui bene. viuwt» -I     tum perbeati qui omnia befetfit / et virtute iblaui  coplectuntur, Ijos na<$ pofteriores multo beatio=  res elfe conltat.Si quis fuperius mo aliatam pre*  ccptiorem intellexerit.l;ec. M. Ciccro lmpnmis  i requeter vfurpat.£x quo iiiub.'cum cmnibus co  fulenbum eft/tum lllis qui armis politis ab lmpe  ratoris fibem conf ugiunt. SIGNIFICAT enim fumc-  tibus ab lmperatores/et lefe bebetibus multo ma=  gis confulenbum elle.$ttc| m catone maiorc nura  ti fele aicbat Iceuola. CATONE MAGGIORE cum ceteraru re=  rum perfectam fapientiam/tum q> nug> fuerit jlli  feneaus gra uis . kb be f,flc re faiia/  (JVtquapia laubari aut vituperari oporteat, xx  lam vcro explicanbum clt qua ratione quapiam  perfonam/ autlaubari/ aut vituperan oporteati  quob ab bccorem iermoms pertineat .riam it trj=  f anam polfe f icri coperimus ex monumehs litte-'-  rarum.li cnim velim oftenbere.M.catonem fjabe remagnamvirtutemicum verbofum/es/elti ita  comobiflime f iet,Marcus cato vir eft magna virtu  te, M.cato vir eft magne virtutis.M.cato vir cft  magnua virtute»popuio pfyilofoptus fuit preftas  igemo/vel preftatis igemi.'vel preftanti ingenio.  mulier eclara morib^/claroru moru. 1 claris mori   b^wregregiojaiibc egregie, iaufys egrcgia laube  Se* iliub prius magig poetaru eft. poftremu ve~  ro fplenbibiffimum et perpolitum,ffiriltoteUs clt  fcietie copia pbiio Coplug^exquifita boctrinai vir a  ctrimo isenio ! Quob qu.beCvt bifertfcus pri  fcianus inquit )hcjmficatariftotele fcbentem fa-  cntie copiam* ac qui l?abeat esqaifitam ooctrmam  cetcra cj confimiii ratione. Cluob quibcm ttulus  qelius confcntirc vibetur in noc, ac, bft erura vjf  fut befectio quebam ifeb ca ttifa / vforpat** ab elo  quentiffimis viris/ac darilhmis oratonbui. qut  et vobis quocg vtenbum fit ;  fTDc accufatiuis etablatmis participioru locum tenentibus infimtim verbi. <[xxi.  flT& VI participioru cum accufatim calus ie«  pe tum ablatiuilocum tenet mfmitiui verbi. J?wt  feluftianum illub , nam et priufc* iopias colulfo*  tt vbi coolulueris mature facto opus elt.bt tere»  tianu Mius gliceriumalioqueflamicam pamptjui  lam iam inquit muentum tibi curabo 1 ec abOujs* tumtoumpamlpilum.Omnian5c|iUay colulto/;  facto inventuiabbuctu cofulcreyfactre/ luemre/   aooucere befignat. veru frequeter l?is ratiombus  abltluoru cafibus vtutur l accuktiorum perraro?  4jDe ijoc nomie opus cu variis cafibus. .xxiiv   %quomam*eMa»ne quo>eft©ou8 •«»»«**,     i •   v     metione iiteHigen&um elt / opus eft micfyi ^ac re i  fignif icare me egere Ijac re.feb ib variis caubus m  cu folet Nam etiam opus cft micfy tua opera/no-  minabi cafu«'et tue opere/et tuam operam/ et tua  operaJeb ljoc poftrcmu ornatius eft 'z totum ora  torium.Cetens rationbus poete pctius / fyyftcris  •grap^icj vtuntur ,tloa autem queca precip imus  vt cocrncfcamus a veteribus vfurpata eifoecg vta*  mur.quecam veroM cognofcamus lolum.i^am  rpus eft miclpi l;anc rcm/ nun§ oraior oicit i feb   fcacre?   (Jpe comutafione abitctiui tt fubftantiuj'   in vqcc geuere et calu. ijxxiiii*   O uib illub.^ncne puldjerrirr.u cTt .' vt quom fcuo  ncrowa alterum abiectiuum /alterii lubftatiuu co  bem cafus cxitu proferri cebenf)vtfrpe crcberri*  mccfCquocarno tertia abiecfiui nominis voce que  cli neutra i vim iubitaf j'ui trafferamus/et fubftan  tiuu iliub prius cafu collccemus geitiuo.quob vt  Irequts e ciubitis atqs bifertis vir;s. ita quog erit  excmplo manileitiuB. Mam quom muitam vir lu  tem bicturus fum i li «nultcm virtufis loco eius 9  taiionis pofuero / multo protukrim vcouftius»  «Multu pecunie eni fignificatmulta pccunia.pl u*  mmi &nm t f limmas vra»quife anmi tltt  qiiis aimus.quib rei.'que res*quib caufe.' que cau  fa.ftlia quocp lta permulta. Seb amabuertenbum  efl/q, fi genitiuus ille cafus fingularis fuerit.'toti  itera orationem fiogulariter exponere bebemus,  Bi pluralisipmraliter. Naqi (exempli caufa)mul  tu pecunie ibcft multa pecunia / fingulari numero  atconfcramultum pecuniarum figmfieat multas  pecuuias. Similis <* eft ct aliorum ratio. vt muls  tum roboris/fingularem^plurimum virium/plu  rale quocj fabet fignif ication€. Et abverbia quoc$  nonnulla eanbem vim retinenfc ♦ prefertim vero  buo l?ec/parum et fatis.Nam paru fepientie lbeft  parua fapiifia.fatis virium ibett fufficietes vires,  8t nifyil quog fiue nomen/ fiue abuerbium ht . m  canbem fepe obferuantiam eabit, Hec igitur ^ac^   Vt gemioanbum eft epitl?eton fequentibus.  substtantivis aut econtra» <£ Quonia aute figula fyc fere iueftigamusiib quo*  a oignum cognitione ctti vt cum buo meminen=  nius nomina fubftantiua/ quorum vtrio; ibem e*  pitfyeton abicienbum efU vt abiectiuum ipfum pri  cipiocollocemus<et fequentibue fubftantiuis / vel  tumgeminatum/velbuplicatum^tpreponamus   Bxempli vero caufa ef i erantur» CICERONE verba.    $fricanus figularis *t vir ct imperatori quob eft  afrixanus ficujlaris vir z figularis iperafor ♦.ppter  magoa el boctoris auctoritatem/et vrbis/ eft pro  pter magnam auctorif ate ooctoris et propf er ma=  gna auctontafena vrbis^predarus/etrailesyet ci=  uis iliuftns/tu vir/tu pfyus optimus/tum pafrie  foefefor/tum gubernatcr/iuftus/etrex/ etiubex»  Coniumliacj eobcnmobo fe fyabeot. Seb et fepe=  numcro contra co&em orbine vni fubftatiuo pre ;  pcfito buo aoiectiua/aut plura beferuiunt.8xcm=  pia funt que nunc conftituam. Vir tum bonus fu  temperatus.imperator et callibus etfortis, iubex  etiteger et foflers. owamefa ciuifafis tum mulfa  tum predara. alia fu ipfe coniecta. Non nungj» ef  buo lubftitiua ita fe r^bent vt alterum vim fuam  vbi$feruef actueaf ur/ alferum quafi qugbam ofc  tineat abiectiui nommis iocu/ ef eiusfugafur of=  ficio.&uale eft illub VIRGILIANOprimo eney, mo  lemqi et montes infuper altos impofuit. ac fi bicat  molem montuoiam impofuit. Cauenbum eftne  ab fyoneftate naturacj oilcebamus.' ac ii bixerit ca   uenbum ne a naturali Ijoneftate bifcebamus. Scb  tibi f)ec fatig finf/   (jpe extremis fupinis/pro gerubiis  accyfafjui eafus, xxv.  -.^-  iSzb m qotfi i;iftonam texens biceborum fenem  nectami lta quecg patefecerim vtlefemicfy forte  quabam obtulennt. Ceterum no ignoranbum effe  vibetur ,vt ipfc arbitror>xtrema fupina pleruncj  ornate/ac peruenuite fignif icare gerunbia accufa*  tiui cafus ao bictione prepofita, Vt res biii icilis  crebitu ibeft ab crebenbum. miferabilis vifuibeft  ab vibenbum . iocunba aubitu ibeft ab aubienbum  fuauis guftu ibeft ab guftanbum .permulta fimili/  ac pari ratione fe fyabent/ {£ De exafperatione orationis permutationem  fuperlatiui cum abiectione abuerbii fuperiafcjui ab  mobum / vel in primis» (fNec ib te amice lateatM quomfuerit fuperlas  tiuum quobpiamburius/afperiufcj et fuperiatiue  fignificanbum fit l vt pro fuperlatiuo poutiuum   afferamus.' et ei aptum abuerbiuro fuperlatiuum  apponamus.Nam maxime memorabiie hciausi  eft memorabiliffimufacinus» Maxime rarum ge-  nus fyoimieft ranflimu genus fyominum» Seb ab  mobum/et in primis / poiitiuis abiucta vi fermc  eabem retinet. Vt abmobu memorabile facinusi  vel inprimis rarum genus ^ominum i  ^Txxvii . vt quepiam mebiocritet «ut   vetyementcr ia ubabimus/ I  Jb aute nequaqj filetio preterierim. Vt fi que qui  virtutcro fyabeat v lim mebiocriter faubare i bica  (exempli caufe) perides virtute preftas princeps  erat atfyenisfvelmulta predara gelferat. Trjcmisftocles rebus geftisfloruit. Sin velim vefycmenttr  ac plurimu iaubare abiiuam gloria fiue faubem^z  caufam laubatiois calu genitiuo coftituta Perides  (Vtibem exemplu aga)virtutis gloria preftans a=  tfyenis daruit.'tl)emiftodes geftarum rerum laube  emicuit. £ict{. M .antoniuS preffabat ELOQUENTIA mebiocriter huoatur ac fere exditer. L . Craflus  efoquetijgforia excelluit ve^emetiffime laubatur  Seb tu pro tui ingenii bcnitate oebucitof  (C Luotiens SINGULARIS ET PLURALIS numes  rus connedutur* viciniori relpobebu i ibecj Ht   jn oiueriis generibus;   QuotiesCquob ipfe quot| teftatur gramaticus fer  uius")Ggularis etpfuralis numerus ccnnectutur/  refponbemus viciniori. Virgi.primo cnei,'r;ic il  lius arma V>ic currus fuit.no aute fuerut.Teren.  in anbria J amatiu ire amoris reintegratio e.xeno=  pfyotis belitie mee fut.fyoftes eorucj exercitus pro  perabit.atcg ita frequlius obferuat*.ibe f it I biuer  fis gencribj.na fiue niafculinu"/ fiuc f eininu e. vici  no refpoDgmus. vt vir atcy mlier optia ab me venit   Intelligitur naq? optimu effe viru et optima mut  here que vemnt. Verum fi plurali numero ve.'i=  mus vtiteb mafculinu trifire nece fe eft. vt vit et  mulier leti properant.T^vlexaber et olipias clari es   Ittterunt?   ^TxxixToperepretium eft.   Opereptetiu eftCquob peruenuftum eJft)ficmif icat   mo vtile efteimobo neceflanuimo locubu i mobo   laubabile.i^tq* is SIGNIFICATIONIBVS NOMINIS veteres vlurpant/   {J»xx.v.frui.  Frui quapiam reieft fructu/ fme vtilitate veJ vc^  luptatem percipere ex ea. vt cum bixerit quis ocio  fruor,  pre fe f erre.  JPre f e f erre ahquib eft verbis *ut ibiciif quibufba  ib oftenbere/et quobamobo confiteri/vt. M. cato  pre fe f art gramatica.lelius pre le f ert hberalitate  fyz vuit oftenbere <$ i f fe fit iiberalis;  Rat.one fyabere.  tiaticncm babere eft refpectu fyabere. feb(vt planius xpona)fyabere rationem alicuius rei eft rem  conliberare. vt fyabeo ratione temporum loci per  fonaru eftea ratione oia coplecti / et conhberve/  {JjTxxiii .Complector anuno»     t Hanc r em animo mcnteej complectcr l ibeft tflat  rem conhbero et voluof   n animo eff .  In animo eft / SIGNIFICAT IN ANIMO IjabeQ.a aimus  mictyeft/ibeftvolojj   . CeKtum micfyi efti  Certum eltmicf)i libelt beliberat»m ct oecrefum/  v«I bejjberaui et becreui. Profequor?  Profequor te fyonore ioeft te fconero» Profequbr  te laube ibeft te laubo • profequor te probro ibeff  vifupero f e.profequor te amore ifceff amo te/  Benemereri;  Eenemerltus [um be rep, ibeft beneficium i illam  confuli.benemereribearoicifl/eft cpnferrein arai  cos beneficia* «^sxxviu.eque»  Eque pro ita.'ac pro vel/afc| pro vf vel quafi orni  tilfime ponutur.exemplum cft eque te laubo ac ci  ceronemj   ^xxxix .Haub lecus   Haub pro non/ fecu9 pro aliter venufte in eabem  oratione continue fe Ijabet vt feaub fecus fetio atcj  f u ibeft fentio ita ficut tu/   (l*h9* coparatioo Igcp pofitiui  MdnficJ et pulcljre coparatiui prb pofitiuis ponu  tur. Vtalexanber macebo corpus babebat imbes  cilliusiquob imbeciliufismficat. Satiriinlcele»  vefyemetius inuefyuntuWquob eft vefyemeter.  , Dar e rem vitio / vel laubi .  Do tibi fyanc rem vitio lbeft vitupero te be bac re.  bo laubi ibcft laubo. bo crimini ibelt crimmor;  De fubiuctiuo loco inbicatiui.'et  illiua pro l)uius temporibus;  Seb nec illub quibem negligenbu elUfubiuctiuus  mobus pro inbicauuoiz ujius tempora pro i?uius  temponbus interbu l?aub illepibe ponutur. vt ve  Jim fepe pro volo.et gercrem pro gerebam bilexe  rim pro bilexi.feciuem pro feceram. fuerit gratu  pro gratum erit.feccris pro facies.Ib oim multo  ornatiffimui li cportunis locisagatur . quob vbi  factitanbum fit. 7 peritorum aures facile ceiebunt.  Quaobrem exercitatio abfybeba e non mebiocris  que omniu magiftroru precepta fuperat.Quob fi quis nouerit grecas litterasiei quob mobo explis  cauimus non bif f icile perfuabetur ;  (fxliii . Partim l>ominu et eius  abuerbii geminatione/  partim ^oruinu venerant perfepe bicitur.Et.^v.  gelio tefte eft ibem quob pars Ijominu ibeft quib» Ijomincs^nampartiminfyocloco abuerbiunj elt  neqj indinatur cafus fine.St cum partim fyominu  bici poteft lbeft cunVquifcuiba fyomimbus et quafi  cum quabam parte fyominu.Seb l?oc tame cft fple  bibiuskum in oratione iterum fuerit abbitum vt  eft illub.M, T.in epiftolis.nam qui iftinc veniut  pirtim te fuperbum effe bicunt/quob nicfyl refpo  teas/partim cotumehcfuyqj malerefponbeas. 8t  qui ciuitatibus perfunt partim nobiles funt/par^  tim populares.quob elt aliqui nobilesfunt aliqui   populares]>   ^TxJiiii. Decimus quifc|;  (f Xb ett optimum eognitu/ g» becimufquifcj} eft  vnus ex numero benario . ficut millefimufquifqs  elt vnus ex numero millenario.fyinc cft illub cefa  ris in commentariis eognofcit no becimuquec| ee  reliquu militem fine vulncre.quo exeplo vti per=  pulcljru eft vt vix becimufquifc$ remafit fme vul  neremtaliconfjictuf  ifxl v. Quotu fquifqj ;  Q.uorufcquifqf I;omo eft ibelt quot fyomines.  Quotufquifcg rrnleB ibeft quot milites;   /Txlvi.PercJ cu positivo  Per§ vna bictio bumtaxat puleljerrime pottiuis  abiucutur nominib^ vt percj> boctus pr/ilofopfyus     \t   p  per $ bonus amicuS/   ^Jxlvii^lias geminatu locom tcnet  mobo abuerbii» Cuibillub.^nunquiblepibiffime vfurpamus/vt i  oratione eabem iterum alias vfurpatum /locu ops  tmeat mobo abuerbii.Quale pffet fi quis Dicat oes  l^omines eobem ferme nati fut ingenio.alias qui*  bem ribet/alias vero lacrimatur. omes item riues  alias boni alias mali.nuq» eifbe fut monbuaf   {fxlviiulnire caftra.  M. Tfaitrjonius iuit i caftra multifariam bicitur.'  M.Tfatfyonius caftra petiuit ♦' in caftra profecrus  thik ab caftra cotulit . fe in caftra recepitife ao ca«  ftra perbuxit»   4jxftx7Vim'nti annos natus|  Hic fyabet viginti annos. quob veteru cofuetubine  bicitur cotra pebagogam opinionem/aliiftg ratio*  nibus bicitur.J;ic vixefimu anu attigit.agit /bec^it  vicefimu anu etatis. vigiti anos natus eft.3? ^oc  poftremu magis oratori couemtf   {Q  £loquetia laborare CICERONE laborat eloqugtia. Cicero in eloquetia tera  pus cofumit . tempus in eloquetia coterit.in elo-  quetia operam pomt.ba^eloquentie operam.etate  in eloquetia cdiumit. In ftubiu incubit eloquetie.  £t> alia oe&uc pro tuo iuUciof   {TIi«Habeo/teneo I?anc rem memoria.  Habeo ^anc rem memoria non minus vfit ate bici  tur ' q> fyabeofiue teneo Ijancrem memorie.teneo  ^ac re memoria /f;uius rei memoria fyabeo;   fljii . Voluptatis me capit obliuio.  Obliuiff or voluptatis vel cuiufcun^ alterius rei»  vcluptatis me capit oMiuio.St ibem verbu cu ce-  teris iunctu nommibus fignificat biuerfa/cofimis  h orbine ♦' vt capit me facietas ciuitatis ibeft capit  tne Jjoim obiu vel tebium;   dJui. Contineo me ruri/vel in vybe^  Virgilius incolit ciuitate l)cc perpulct)re bicitut*  cum teneo/ vel etiam cum cotineo verbo«vt virgj*  tuxtfc continet. Virgi.tenet fefe in vrbe;  41 liiii.Prefer et pre venufte oftentaf  aliquam rcm aliam anfeceifere.  Si quis velit offefare aliqua rem alia antecellere/  «t vltra illa valerc i venufte ib bicitur / vei per ac*  tufatim prepofita preter / vel cu pre ablatiuo prc=  polita. Vt cefar preter ceteros rebus bellicis polje  bat» vel pre cetcns pollebat;   IjIvXelius efacili igenig vcl facilff  mis moribus natus. Lejios ftabs faciles mmsj ; vd f acilcm naf uram/   I  ornatius bicitur Jelius eftleui ingenio natus ( vel  faciiimusnatusmoribus . Scipio natus eftt rifti  ingenio. Stbereliquiscofimiiitcr;   iTIvi. Valeo/polleo cu ablatiuis. Valeo et polleo verba et fplenbiba fut.' et latiffime  patcnti x ablatiuo iuguntur.fyoc pacto, ; 7>vureliu&  auguftinus plurimuingenio valuit. ijypocrateai  ingenii bonitate poUebat.Mitnbates memoria cb  ruit vel poUuit.M.cato in ciuitate plurimu aucto   ntate pollebat;   (jlvii.Clareofpolfum. Clareo et poffum verba eabe ferme r atione fe ga*  bent. cHgo apub bominum cefarem multum (iue  poffum fiue clareotomate et IplenbiOe bicitur^ a*  pub bominum ceferem plurimum mea ciaret au*  ctoritas.fyortenfius rhultum poteftin senatu ornatius multum fyortenfii in fenatu poteit aurtori  tas .que potj{fimu jGgmficat eam opimonem que  eftapub ijomines be alicuius viri preftantia . que  vulgo et trita cofuetubine reputatio nuncupatur* Sum batiuo iunctfi tyabere SIGNIFICAT et quobamo poffibere;  Geterum ib perbelium eft.Sft rnidji apub te fibea  ibeft tu abfyibes micfyi fibem. quob eft accuratius  abuertenbum.nam plerumtj foiet fum es e verbil batiuo iuctu/u SIGNIFICARErjabere.' et quobammobo  pollibere. Vt e micfyi pecun/aiett cefari rnagna po  teltas liue pietas^ilJub befignatme pecuniam i^a=  bere.fyoc rjabere cefare magna poteftate. Cuius cq.  Ititutiois crebra apub prifcos et bilertos viros ct«   leruatio cit. Recorbor fyanc rera.fyec  res micbi in mentem venit.  Ejo recorbor r;ac rem potius § l)uius rei bicitur.  Jst ibem bicitur ljuius rei me fubit recorbatio.fyec  res micr;i ln mentem venit lbeft micr;i occurrit i  vel mict)i fuccurrit/quobpoltteinum minus vfi=  tatebicitur? {T Ix.Prefto antecelio aliquabo cu accu?  fatiuo aliquanbo cum ablatiuo.'  Prefto et anf ecelloCque venuftefonant verba>li=  quabo batiuo aliquabo acculatiuo perpulcfyre iun  guntur cum acceflione ablatiuoru eius rei cuius e  preftatia. Vt ego prefto tibi ingenii acumine.flo.  preceilit petru acumine ingenii.equus preltat afi=  no velocitate curfus? flhi. De frequetatiuis verbis  loco primitiuorum/  £>cpe numero f requetatiua verba que appellaf ur  pnijuuuorw verboru a quibus traxerunt origine" SIGNIFICATIONE retinet.prefertim fi prima illa afpe*riora f uerit. vt coiecto pro conutio.mafo pro ma*  aeo.imperito proimpero . amplexor proample*  ctor. ct alia itcm pcnc inumcrabilia fi quabo etia  verbi arpcritas vlla cotingat ,'quob erubitorum iu  bicio nunc berelinquimus?  De et bis mutant»  Dc jttepofitio verbis abiccta pcrfepe cofraria mu<=  tat fignificationem vt prccor ct beprecor cotrana  lut^ortor ct befyortor , Nonuno) lbcm bie eff icit  vt fuabeo biffuabeo Quauis in iifoem vtfbto no*  nu^ auget perpotius cj vim coinutetj   flixiii . Gx ct be aplificat*  Sx ct 6e vejjementer ampiiticat, Vt exoro .' quob  ab ex ct oro bebuctu fignif uat ipetro ? Tere.in a%  gnatavtbetoro/vixc|ibexaro* .   iQxiiii.Suaoco perfuabeotfacio perficio,  Sic et fuabco fignificat oratoris off icium quob I  benebico ,atc* perfuabco bencbixiffc fignif icat quii  cft oratoris f inis,ibeft impeteo atc$ obtineo , vnbe  et crebro non folum fuabeo/ feb etiam perfuabeo£  beb i acio etperficio explorata funt;   {fixv.De abuerfatiua bictione*  Pfurimuetiam fermonem ac oratione exornat ab  uerfatiua bictio quag? ibicatiuo iucta, duob vbicj  CICERONE feruauit aliiqs fcocfiffimi* feb I; uwe cx  cmplum fit.Qua§ tc ante I;ac tiJigeba.' nuc tame  cbfmgnkrem vir^ufem veI;emiterabmiror. J\)a  tha funt que quobam fibi orbine luicem iugutur.  quoru prius ac leuius e biligere i pcftremum ab^  mkotlqixob ve!?en.es^ac precipuuiet eoru mebiu  ofcleruo quoi> cft vencror /et colo . cx quo obfer *  uanfiam et reuerentiam fignificat.Seb itcrum ali  u5 exemplu quancp miclji fint omniu amicoru io*  cunbe iittreitue tame iocubiflime fuerut.Seb ct  pro Umen polt §uis raro collocamus. Vt qu*n§  micfji anfe ^ac carus eras,'feb ct nuc pi ofecto a -  riffimus^es;   {jJxvuHonfolum y febetia* verurnetia/  verumquoq?»  7Kb fjec jll* buo orationem pcruenufta rebbut fibi  inuiccm correfponfcentia.quoi n alteru eft non fo  lum/Cucnon mobo /fiue nontantu l alteru efeb-  etiam/ vel veruetia/vel loco etia pofito quoqj/ et  aliquibusintenectis.quoru ommu exempla fub=  necta* fyec miciji res n^n folum grafa eft kb etiam  iocubatMtAntonjus non rrtobo ciceronis crat ini  micus/vcruetiam Ijoftis patne*M*Catoncn folu  ingenio pollebatifeb etiam vurtute florcbat pluri*  mu ♦ftlexanber no foium reliqua vrbem iubegiti     is veruquo? ipf u romanii iperiu cogitabat attigere. Tametcji.  £t fic etiam tam et $ fibi correfponbe-f . vt tam ca*  ra micfy patria efMcj tibi iocuba vita ( ieb facile ttt   te boc mteUijes r   (Jlxviii.cgoipfe pro erjomet? Pro eoautem <$ ceteri exprimere cofueuere pros  nominibu» abbentes vclteveimet fyllabicasao*  icctiones. CICERONE potius lbem eiiicitljoc piono*  mine ipfe/ipfa/ipfum; quob illarum fcre abiecti*  onu locu optinet. Vt egoipfe magis q> egomet.tf  Ieipfe 1 nosipfiivt nucp lecus fenSbo U,  {Jlxix.De mccum et mc cumf  K\i* <ft abiectio puldjra. Vt m?cum ipfe cogitafc  fem.etfyoc vt mecum fit vna bictio. Item me cum  ipfeviccre.quombuefuntbictunes. Vt familiarinte couerlatione et (imiiw   ornateexprimemns;  Seb fi tibibicebu «rt tu micfy familians es.'orna  tius oicit* ego te vtor f aiiianter ,Tu rnify amicus  es .ego te amico vtor. Tu micty es magifter iorna  tius ego te vtor magiltro, 830 tecu f requeter ver  for.frequeT mify tecu e cofuetubo.que fepe couer=  fatione SIGNIFICAT Tecu magna amicitia ljabeo . magnamicfy tecu est amicitia, 8t ita aiia per murta.Vtfit inicfyi cu oib malis viris iimicitie.na recti=  us bixcrimus iimicitic pluraii numero/cp ficjfari.   (Jjxxi .£3id)iJ cii cdparatiuis.  Seb neutra vox nid;il ac potiffimii in comparati =  uis nominibus tu femim rebbit oratione.tu ma=  lcuiina. Vt nici;il cft J>oc fyomie melius/f ere ibi |  vt nulius jtjomo eit l;oc fyomine melior. Kityii l;ac virgine eft formofius .' quaft nulla virgo fyec virgi  ne e formoficr,£t i ceteris aliquabo confimiliter;  iflxxii, Munus pro officio/et coumiliter partes;  Munus pro officio ornatiffime bicitur , V t l?oc e  nmici munua ibdtamici officiu,Funa;or boni viri  munere^ferme ibi cft facio boni vin offjciu.Seb  et partes plurali numero confimilem l;abet SIGNIFICATIONEM, vt mee partes lut lbeft officiu me  vel perf inet ib rae;   (flxxiii»Caueo cum ablatiuo fignificaf pro   uibeo»cu accusativo vito ac f ugio.  Caueo verbff etfi fepe fignifccat prouibeo. vt  tu eft lege perornate accuiatiuo iuctu pro vitol  fugio vfurpant eloquentes viri, vt turpis viri/ m  genui cauent mores/  "% Memini cu accufatiuo/  fttqui et memini rectius ac vfitatius iugitur accu  fatiuo § gcuitiuo vt inenani plaiocis fapiectiant» Virffi.inbuc. Stnumerosmemi fimeteverbai*  ner«m . nec miru f. in iis que funt potius folute  orationis. Vir.ma.ois aff eram teftimonium que"  non folum poetam egregie erubitum* ieb et rfceto  hce artis vbic| obferuat.ffimu f mffe conftat.  Penitet ibeft parum vioetur.  Penitet me qmcquib f igmf icet notif umu" «f t l feb  et paru vibetur vfarpat auctores et t reftates boc=   trina vin» t ^ , , .. Vaco cum batiuo/attenbo cu ablatiuo  vacuumeffe.( Scb ibem perfepe verbum vanis coftructiombus  cofitum/baub eabem retinet SIGNIFICATIONIS vrau  Vaco buic rei.'eft attenbo l?uic tei.vaco r,ac re.'eft  W re fum vacuus I et ornatilfimu eft, vt bom vin  4nt opera vt perturbatiombus vaceut ibeft Iiberi   et vacui fintr. Deaiabuerto etaiabuerfio.   flmiabuerto ibeft fore vibeo/et quobamobo mtel*  Iicto Ht aiabuerto coftructu cu acculatiuo m presofita/ibemfibi vult <$ punio.Vt pleutippus ai=  abuertit in feruum platonis lbeft pumt platoms  (cruum.cix quo aiabuerfio pumtione quabam no   nuq> llii: p c x<i fa Q c ^ oa tiuo et accufatie  n  cm   mebiante ab.   7Ktc$ iterfi ref ero tibi l)ac rem ibfft narro tibi fyac  rem.feb refero ab fenatum/ refero ab popula Jtjac  rem ibeft pono f?anc rcm confultationem populi  vel fenatus.Qui vfus verbi eius apub fyyftoriaru  fcriptores frequctiffime eft. Dare litteras tibi/vel ab te.  Quib varii quoq? cafus /eibem verbo fepe coniun=  tii/nom magnam aclonge biuerfam vim f>abeV  Quale eft bo bibaculo ab cefarem litteras . Nam  bantur bibaculo beferenti / vt cefari rebbatab que  mittuntur littere.Sas igitur leQtt CeIar.Bibaca=  fus quibem velut tat Ilarius befert. Na qui fert  Iras/confueuit tabellarius appellari.Verum ne  quib buius nunc ignores bare lras fignifkat fcri=  feerefeu mittere Jitteras/   <X Jx*x. Vuas/binas/trinas/Iras/pro vna   buabus t tribus ve epiftolis bicim us/  Nec tef ugiat q> pro epiftola bicimus litteras plus  rali numero.Necobftatpoetarum cofuetubo ♦ £t  pro vna epiftola bidmus vnas litteras.Na ib no=  me vnus.a.u -cu iis que pluralit' folu Iflectuntnr  plurale" quo<# retiet natura* Vt vne nuptie vne bi  geivaa menia .8tCvtabpropofitu rebea)pro bua  bf epiltolis bicitnus ite binas littcras ino aut buas  pro tribus cpiftolis ternas i non autem trcs. pro  quatuor quaternas. £t que beinceps funt rehqua  cofimili ratione proferentur;   (JJxkk i . inf mitiua oratio pro conc   iunctiua peruenufte ponitur.   Inf initiua oratio pro coiunctiua pergjpulcfyra eft,   V t volo te ab me Icribere.cupio te atfyeuas proh   cilci . £t ib teretianu quib facere te in fyac re velim   ficmif icat eni quib velim quob tu in f;ac re facias.   velim ciues omes vnanimes efle ibclt q> vnanimes   fint et cocorbes.Seb fjoc tibi fit cocinnius vt nullum fit ambigui iermonis bifcrimen, neq? eni om   ninorcctum iit/fi quis oicatvoio te me amare « g>   uis pleruqi lb fuppofitionis lccum r;abcat l quob 1   i lmtiuum veibu mimebiatius precellent. vt puto   pyrrfyu romanos vmcere poffe ibilt crebo cp roma   ni poffot vincere pyrrfjum, kb ib pro viribus ca=   ueat orator.St quob mobo prcceptum eratbe coniuctiua atcg mf initiua oratione precipue in abfola   tis verbis<vel vbi alteri calui i uerit abiecta propo   {itio feruanbum fit. vt vofo te amari a ine;   {£ l.\xxn.£x vel £ pro a vel ab.  Ex vel e propofitiones pro a vei ab/et fepe et pers  ©rnate ponutur. vt aubiui ex maionbj nris pro i  maiqnb$ nris.accepi ex patre tuo vel e patre tuo  Cluero ex te et a te.'quob eft te confulo/et te intsr   rogo.Quob abuerteiet vlui trabe. De pro/Ioco in et fecunbujm   Pro ornate ponitur loco in et fecunbii . Vt pro ro   ftris .ibeft in roftris.pro tribunali ibelt in tribuna   h. et alia . pro viribus tuis ib eft fecunbum tuas   vires.pro tui ingenii bonitate.pro virili tua. et similia/ Sub ia compofitione aut  dam/aut biminute fignificat/  Sub copofita aut clam aut biminute fignif icat vt  fubrnouit me permeno ibeftdam et occulte.fubi^  rafcor tibi quob eft pauiulum irafcor. Mor emgererc complacere obfequi SIGNIFICAT.  Moremgerere perornatum verbum complacere  fignificat/atqj obfequi vnbe moriger a.um. quob  a morofo quob bif Lcilem fignificat i et a mojrato  quob inftitutu fignificat plurimu biff ert?  Confequor pro exprimoj  Confequor pro exprimo pulcfyemmum eft.Non  poflu ego verbia cofequi ibeft exprimere . Iitferis  cofequi ibeft per lras explicare. Metuo timeo multis cafi-  bu3 coniunguntur/  •*>     "V* Metuoettimeo verba aliquanbo tnultis cafibus  ab.unguntur ,Metuit CICERONE a.p.dobio fibi extre  mu periculum,Tim«omicl?iabfternortem Ncn  nun$ abfolute ponutur folo batiuo liicta . vt me=  tui papl?iIo- papfyili vite timeo , kb fyc eft poUus   poeticus^fus/   {]Txxxviii.8uabo pro fio/et efficior.  Suabo pro fio et ef i icior ornatum vfitatumcp eft,  Vt dcero euafit eloqu€tiffimus.ftriftoteles eua*  fit fumus pf;ilofopr;uB , cefar vero euafit inciitua  imperator.St bz ahis quogj fimiliterf. Fore futurum cffe.  Fore f utura femper l?abet fignificationem . et eft  ibem <$ futurum ee.M.G. be eratore tertiolibro  loquensbe fyortenfio, Que quibem eortfioo omis  bus iftia laubibusi quas tuaorationecomplexup  es excelletiore fore. 8tcraffusforebicisinquit/  ego vero effe iam mbico;   {£xc Quib Iter bimibiu z bimibiatu itereft  Quib inter bimibium et inter bimibiatum inter  fit nofce perutile e.Cum enim bimibiatu fit quafi  in partes buas biuifumi nifiaiiquibbiuiuim fit/  bimibiatum non poteftbici.&imibiu veroappella  tur no q> ipfu biuifu fit/feb q ex bimibiato pars al  tera eft .Hd jgitur recte bixerit quis pco fetentta/ VARRONE Cvtait.ft.gelius I noc.ae)bimibiulJ  fcrum Iegi.bioiibiam fabulam aubiui. feb bimibia  tu libru i bimibiata fabula recte quis bixerit. quia  &imi:<iatumCex caufa)bigitum appellamus. feb al  terufram parte bimibiu.Quob eft accurate bilige^  tercg afpicietibum. Interfum et prefum quib bifferut;  Plurimii aute cobucit vcbis itelligcre que fut no=  minu bif feretie/ac verborum bilcrimma 8a quo-  q res miru imobu oratione exornabat. Vt fi quis  nouent quib bifferut prefum/et ir terfum interfe  verba.'puJcfjerrime bicet.M.C.publicis negociis  «on interf uit folum .'fcb pref uit . quoru illub figni  ficat comitem effe alicuius rei.fjoc vero buce>   ^[xcii.Confiteor profiteor gratulor gaubio Egonon folum cofiteor/quob eft per vimifeb tti  am profiteor quob qmbe eft fpote.St apub Mar.  Tulliu peifepe tibi gratulor micfyi gaubeo. gau  bemus nobis* gratulamur aliis cj> abepti funtali  qua bona/;   -4jxcui*#vgo ref ero fyabeo bebeo;  Bt tibi ago gratia quob quibem eft verbis.Refero  gratias quob eft re et factis. Habeo gratiam quob  efti animo. Debeo gratia'vbialiqua obligationis  vis ceroitur.Etite alias opiniones Jjis fimries?  -rf  {Jxciiii«Hec res mi\)i cobucit.bono tc i;ac re.  Optimu cft non ignorare nominu bii i erentias vt  ct vberior et ornatiot nra rebbatur oratio. l?cc res  micfji conbucit* elt lbcrn q> mic^i rcs fyec vtiiis eft  St quob ceten pleruqj bicunt/ bono tibi f>ac temi  pulcfyrius bicitur ac Iplebibius bono tc I>ac re* Vt  miles nauali corona bonatus e!t«Sabinos romani  ciuitatebomuerut/quobeftciuesfecerunt quob  ite bicut labinos romani I ciuitate acceperuntf  {£xcv* Prepofitio que iolet abiungi  nomini pulcfyrius vcrboabiungitur*  Jnterbu vcro prepofitio/que nominj ac cafui pre==  ponitur l pulc^rius venuftiuicg vcrbu preceltent  in quibufba verbis. Ooiale cTt Ii quis bicat co ab  Ul vt bicat potius abeo te. etloquor ab te/ potius  afioquqr te.Cebit bc vita.'becebit vita. ccbit ex Iju   manisrebus' excebit rebus fyumanis£t in aliis  quibulbi cofimihter. Minus abuerbium.  Minus abuerbium quaq» fepc iiapii icat nonnu^  tame cu pofitiuo iunctu cotrane SIGNIFICATIONIS co  paratiuu bemoftrat* Vt Teretianu lllub p^ebria^  nemo fuitirinus incptus'pto prubentior. etne^  aio elt tc minus formoius lbeft beformior 4 et fic  be alus coitmilibus;  2 o  ^JxcviuQoiib inter becem annos et becem annis intereft  Quotiens multos aut bies autannos bicimus per accufatiuuiitelligimusiuge teporis curriculu efife  £ere cotinuu^Seb per ablatiuu SIGNIFICATVR annoru fiuebieruiteriectio intermifiioi. Quare( vt  ait marcellus^optates rectms acculatio vtibebent  fiquibem ab fecuba fortuna attineat, In fereft jgi-  tur ita li quis bixmtJbece anos i re militari verfa  tus (uia ltaibece annis bebi opera rebus bdlicis ;   4jxcviii»Corbi eft,  Corbi l?cmo etia flexibiliteir corbi l;ominu(vt pri  fcianus Iquit, Dgificat iocubus fci.bo ficut et fru=  gi.Seb iatiusUnca fetetia; Marcellus dpinatus e.  Dicit eni corbi eft ibeft animo febet* Nam fyec res  mid^i corbi eft ibeft placet* Teren.in abria ^n ti  bi l?e nuptie fut corbi CICERONE be perfecto oratore flumealiis verboru voiubihtas corbi eft . £t LUCILIO  probe beclarat cu iquit.St quob tibi ma  gnopere corbi eft* y micl?i vefyemeter bifplicet^  {[xcix.De Tatifpei:.  Tantifper qucb quafi eft tambiu Qrnaf e poft  febepofcitbum» quobfermeeftfconec Vtillub  Terentianum in ^eauto.Tantiiper meum bici te  yolo.'bum qucbtebignumefaqias.  i 8gotantiIper magna voluptate afficior/ bu apub   te viuo? {jC.quib Iter Delecto et oblecto itercft.  Tu micl?i earus es.ego te amo.tu mil?i iocunbus  es.ego te bclecto.feb belecto ct oblecto non fimilis  ter ffruuntur» Nam bicimus belect.it me rjec res.  feb oblecto me ac re. belectabat Socrate vite intes  gritas. Pitfyicus fefe virtute et loctnna obiecta=   baUego me oblecio ruri/ JGuFero banc re facuVmo*  befte moberate/equo animo  Fero fyacre pacietor feu patienti animo/fplebibiusr  bicitur .'ego f>ac ref acilepafior .et mobefte fero/z moberate/ct equo almo.Ecotra SIGNIFICANTIA abuer  bia grauiter/acerbe/egre/molefte/et iiquoaimo.  Ijec micfyi iocuba rcs e.fyec res placet micl;i,et que  molefta eft/bifplicet;   <£C.ii.be Affero.et bolef micfji*  ffero comunilTimu verbu ilet quo mulfis locig  vti poffumus.Secuba fortuna affert micf» vofup  tate ibcft mc bclectat. Tsbuerfa f ortuna af f ert mi=  cf;i bolore ibeft bolet mitfyu Nabicimus z fyec res  milji bolet ibeft boleo fyac re.feb rebeo vnbe bigref  fus fu. liftere tue afferut micip abmiraeione lbeff  eftitiut vt abmirer. affcrsteftioniu ibeft teftifica=  ris z ita bifperfa e z vaga fjuius verbi fignif icatio/Ciiibe perinbe cu afcg vel ac poftpofita*  Pennbe omatiffime poftuiat poit fe ac / vel atqj  ct totu fimul perinbeae vei atqp fyabet eabem vnn  quam vt tanquam, vt CamiJlus perinbeatcp oim  fapietiffimus.et cfjerea perinbeac foret eunuci^us  et be l?ac re fatis r;ec bicta fint fyactenusf   {7Ciiii.be Coco»  Coeo nonlolum abfofutum cft/ feb nonnuqj per=  uenufte cafu fyabet accufatiuu . Coeo focietate tecu  Et ijinc cft lilub» 7K* gelii in noc aube pitagora/  beqf cius conforte ♦ quobouifcg familie pecunieq?  Ijabebat / in mebium babant i et coibatur focietas  infepatabilts, Sebeobem cicero pacto aiiquanbo  eft eo verbo vfust. De Mille fyoim in finguiari numero  NiHe fyominum fingulari numcro SIGNIFICAT mifc  le fyomines.mille militu interiit fyoc eft mille mi-  lites interierunt» mille militu vulneratum eft ib  cft millc vuinerati funt milites.ibcg ornatu/vfita=   tumqj eft}L_-Primis»  Primas SIGNIFICAT etia ordinem quob nome sequitur secundus et tertius .et beinceps alia eiufbem or  binis nomma.tame multociens fignificat pricipa  le . vt fyic eft noftre ciuitatis vnus omniu primus     li  t  per fe fignif icat optimu.,feb ib poftrenjij in caro e  vfuora torum. De interbico*  Interbico fibi I?ac re; et non fjanc rem»vt int«-bi=  co tibi aqua et igni*plinius fecunbus in epiftolis  caret rcge iure'quibus aqua et igni iterbictu eft/   {1 GviihCXue noia ornate fincopantur*  Hunc vero ab reliqua neq; eni iuitus omiferim q  que nomina ab numeru fpectat in eoru plurahbs  genitiuis lincopa efficiunt«ibqj cum vfitatum eft/  tum ab exornabam pertinet oronem»vt mille numum potius <$ mille numoru*mille benariu mil-  le aureum*et totmilia argentu . et ita be reliquia  et in ijenitruis omnium nom mu fecunbe beclmatj  on>s frequenter eff iciunt*   IjGixyCitra cgtenariu ef poft vigemriugi  minor numerus maiorem eleganter  precebit/mebiante coniunctionef  Ssb prokm fcribentes /et foluta orone in nomini  fcus lolu numeru et mefura [ignificanhbus l atqj  in numeroru nominibus eam plerunq; feruarnus  cofuetubinem et citra cetenarrum numeru * ii qua  bo poft vigenariu buo numeri comemoranbi fut/  vt eoru minor precebat et maior fequatur vt i)ic  e vnu et virjinti annos natus»buos et tricjit^ anos  iz  viximus. tres et quabraginta anos nauigaui . qua  tuor et quiquagmta annoru confurrfi etatem, ieb  vltra ccntenariu/et citra vigenarium tritu ac vul  garem Jeruamus morem et SERMONEM. 4jGuob  aute ficut buo be viginti nonnuqj» bicimus/ et buo  be triginta.'ita et buobeuigefimo > et buobetrigefi=  n;o nunif citu eit, feb no quibem eft in frequenti  oratorum vlu/  Inbies et inoiem .  Quib inbiss i none pulcfyerrimus fermo eV ac fig  nificat per lingulos bies/et quotibie i feb cu quo=  bam incremento, vt tua inbies accrefcit virtus.in=  bies fyomines fapiunt.ftultorum fjominum mbies  accrelcit mfamiatfeb Qum bicitur inbiem eft termi  nus beputatus/   {Mpxi . Vt in ve* bis actione aut PASSIONE SIGNIFICAT ib^ vanetati ftubenbum.  In vet bis tam actior.em q> PASSIONE figmficatibus  confiberare bcbemus varias vocum lnflectioncs /  atcjj exitus . et mcbo fyns mo illis vti pro auriu iu  bicio.vt fuere pro fuerut.amaruntproamauerut  vibere pro viberiit.norim pro nouenm.triupfya=  rantpro triupfyauerant.et be aliis quocj! eobemo,  3eb ne quib fiat cotra gramatice artis preceptioes  fyac via prpwbcnbum eit; .oe Cluin. auin particula quomo increpet/ vel exortetur i  quom5 item confirmet et quomobo interroget iib  fatis exploratum eft . feb nos ea pulcfarrirne vti*  mur.'cum bi cimus.'nonpoffu quin gcftia.no pof  fum quin boleam.no poffum quin abmirer. figni  f icat enim f ere me non pofle continere* g> non &>  leam ,et ita be cetens confimiliter.   rftxiii.be Locus eft vel Multum  aut nicljil loci eft ljuic rei .  Quib inWnone preelarum eft vfu.locus eft l?uic  rei.multum loci eft gaubio. plurimu loci eft trifc  quillitati.et terencianus bauus.nicfyl loci e fegni  cie.'fignificant eni fyec omniai vel oportere nos le  tari/vel tranfqutflos effe* vel voluptatibus afficii  vel oo negligetes ac fegnes ee« et fic in i aliis fyu*  iulmobi<JOdiu.be Magnopere et fimmbus.  NonnucJ verobuo nominaCfiue prepofitione ab=  bita/fiue non>nius abuerbii vim retinet.vt mag  nopere pro valbe. maximopere pro plurimu.m*  iorem lmobupromaximcmiruinmobu promi  rabiliter.etjtem mirabu inmobum.   ^Jpxv .be In primis et fimilibus.  Seb ablatiui cafus / fme cum comercio prepofitio  nis fiue (tne eo vim Ijabent abuerbii ♦ vt in primis fignificat zm precipue ac prefertim.et ib^vi gr cci  bicut)ibuerbiu ipfum(fi lta appellabu eft) peror-  nate nomimbufiugitur.vf in primis fapiens.ipri  «ijs erubitus.Seb nc a propolito bifgrebiar^pau*  <is mterbu pro paucu/multis pro multumt Veru  J^ccaliojoco pportunius illo*  ijCxvLbe ©ent cu noie magiffratus fiuc iperii  Ilic etiam rnobus optimus eft+vt li quis bicturus  dt qucmpia homine aliqucm ^abcrc magiftratunj  vcJ i?qnore/feu ipcriu vt ex noie l;onoris eiufmoi  et gero geris verbo pulcljerrima coftituat ordne.  ^oc pactoi^ic eft rome cSfuLrome cofulem gerit.  ita cofimiliter imperatorem gerif . principem ge*  wt.pKetorem gerit et alia cofimiliter ab ijofcc eni  viros remm cura et abminiftratio pertinet.  ([ Cxviitbz intcrlcg«nbumyet fimilibus.  Vfitata et perpulcijra eft fermois oratio/vt geru^  bioruaccufatiuis prcpofita lterfignificct tempus  imperfectuinbicatiui vcl fubiunctiui mobi vel al  terius ct bu particulam vt interabuianbu ^oftes  offenbi.'J?oc eltbum ambulaKcm interlcgcnbum  vibebas t ibeft bu legeres . £t fic pro varictate per *  [onarum ita cxponenbum cft vti mobo explicaui mus.fcSicferuius in buc.vir.Interagenbum ib rft  bum agis.l;onefta locutip fi bicamus intercenabu     \)oc fum locutus ib eft bum cenare Ijoc locutus fu.   4jCxviii.De in pro erga vef cotra.  In pro erga ct c5tra pulcfyerrima e accufatio pree  pofita. Vt meusinte animus.mea mte beniuol.n  tia.vbicj enim fignificat erga . luucnalis muefyt  in bomicianum. CICERONE ljabuit orationcm in CATILINA ibi eni contra SIGNIFICAT. Deappnme.  ?7ypprime pro valbe recte apponitur noibus.que?  abmobum be imprimis fupenus bictum eft.vt  VIRGILIO .apprime nobiha res.appnme vtilis.St ita   beaiusfimilibus.   4j_QiKf Vt res apte coi ungitur  abiectiuis polielliuis.  Rec nomen latum / bif i ufumc| eft. feb eo pulcijer  rimcvtimur cum abiectiuis poffefliuis nomini'  biis/ et prefertim J?uiufmobi. vt cu bicitur res bel  Iica, res bomeftica.refpublica. res familiaris. re«  nwlitaris.Et be fimilibus paritct. De preftolor. Vt aliq veluti fignanba mftituam preftolor vei"  bum plerumcj poete accufatiuo iungunt . CICERONE connectit batiuo. Vt quem preftolariB.'* preftoior   iol?anni^. J^vffentior ,tio . Impartior .tio . 2V Multa funt verba quibus per eaoem SIGNIFICANTIA et pafliua vtimur voce et actiua,et(vt omittam p e  nc innumerabilia; ciceio frequeter m r;is buobus  mobo actiua mobo paffiua voccm vFurpat. s£,enti  or et affentioi vbicg eabem coftructicnis forma. et  impartior /et Ipartio.in ceteria autem ifc fii mult©  unus.  Vfu venif. Vfu venit ornatiff ime pro contingit ponitur. VSVRPATIO ET VSVRPARE. VSVRPATIO ET VSVRPARE VSVRPATIO ET VSVRPARE non lta intelligi bebentifis  cut mrifcofuJti vtunfur. fe6  VSVRPATIONEM orato?  rcs frequetem usum nominat/ et VSVRPARE in frequenti usu fyabere. Deficit cum accufatiuo.  Hec res me befirit ib eft beeft micr;i Ijec res» vi bc=  f icit me bies. vita cpprimum mortales beficit f ep  beficio bac re magis poetarum eft.  Omnis pro omnes.  Nunc aute ne ea que perutilia funty i ornatiffima  omittamus. intellicjenbu eft quoque nominatertie  bcclinationiB ta nominatiuu q> genitiuu fingulare"  fyabet fimiies i prefertim Ji gewtiuus pluralis in  ium esiuerit ecru frequtter accufatiuus pluralis  in is terminari folet raro in es . vt grnnis pro oes mortalis promortaks.manispromancs, fimifc  terCvt ipe quog? teftatur priftianus Ji es et is ternu  nantiareperiuntur. vt f ortis et i ortes partiset  partes pontis et pontes. io rebquis rarius ib fit   que eft poetaru veniaf. De pofrnbie.  CXucbam abucrbia funt que epiftolis maxime con  ctruut.ficut propebiem/ cjprimu/cito/cofeftim/  et poftribie. quob multi ignari htttram / et grammatice artis expartes exponut poft tres bies . ieb  tuCnc eobcm bucaris errore)crebe poftribie fignis  fkare poftero bie/eteopacto. M.C.accepitto alii   crubitiffimi virij. Primu /beinbe / prctcr a£   ab /1)oc /poftrcmum   fttfi quis multa referre velit.'pro prima rt ponai  erimu vcl primowtiuuj eni in vfu eft, profecute  oeinbe velfecunbo loco.protcrtia/ preterea. vel  pro tcrtio loco.pro quarto Cquob perraro accibit)  ab hoc vr prcterea vcl quarto loco.in calceipoltre  mo/ vd poftrcmu/ vel bemum.at igitur l?uiurce=   mobi exemplu. tria fut que magna micin af i erut  voluctate.primuenicf optimuamicu nartuslu  beibe aute cj> finguiare tua crga mefepe tefohcans  beiuoletia poftremu vero /q> tc icolume mteliexir. be orbine fyaru coniu n=  ctionumeni autem/vero»  &ua in re ib quocg abuertenou eft/g> fres inueni=  nras coiuctiones recto atcp vfiiato orbine.que funt  eni/aute/et vero. feb tuipfe tyec oia ac multo plu=  ra raule cogncueris.^fi CICERONE Lriptai et in primis eius epiftolas lect»tabis. Mcmorie pro s ifum eft.  Memone prohtu ficmat fcnptu eft. multa enita=  lia ornatiffime vfurpantur vanis cu fignificatus,  vt memorie trabere.mabare fcriptis.mabare litte*  raru monumetis.quoru fermc omniueabe vis eft  feb manbare memorie aliub fibi vibetur velle. Falht me bcc rcs.  Fallo verbu tritu eft apub CICERONE f aliit mc r;ec  rcs bicimus.fallit te fpes.quob e fruftratur et beci  p it. Miflu f acerc .  Miffu facere ib e bimitterc venuftu et ornatu eft,  nam miffam Ijanc rem f acio fignif icat bimitto xl=  lam rem. Hc quibem»  $bf;uc et in eabem oratione buc f;ee particule/ne  et quibem/pulcfyerrjme futifi quis f uerit ilhs rec  te vfus. nam cum ponuntur femper aut aliquib  bictum cit( aut mentc ib concipitur  vt ne aubmi cT  quibem.fignificat euiraQ exempli caufa) non folu  non vibi feb neqj ctiam aubiui . Item aliub exemplum pfylofopijie  ftubia bemocritus n5 mobo n5  intermittit ;Ieb ne remittit quibem.reaiittere na<|  pfyiam cft remiffius pfyilofopfyari? .be orbine pluriu fine coiunctioc Scb ea quoq? abljibeba biligetia elt q> li quabo plura ponimus preferti finecopulatioeCqui articuius   eft et fi ibi vibeatur fignificare quob vefyemetius   fonat magis coilocetur i calce.vttua virtus lauba   ba probaba e.na probaba eft rnagis q> fit ai mbicio   Magitratus biligere/amare/colere oebemus. pro   bau3mios virosomnesf; omines verentur./ obseruat abmiratur quc turpia / obfcena i tetra ; f cba   fut.'ea fugere et afpernari bebemua. virtutis offi=   cju fuma laus efr.na l?abet officiu accelfione actio   nis. (JSeb i l?iis quoq? orbo quibe fpectanbus eft   q> fi tria quoru buo parte aliqua ugnificenti tercis   um lit communius^ib prof ecto plcrumoj bebet in   f ine collocariinili fe fyabuerit qucbam generis mo   bo.tunc enim ecotra fit quob nunc liquibo ac pers   fpicuo patcf accre exemp{is«ac prioris quibe excm   plu cft.oms in abipifcenba virtute cura/opera/bi-   iigentiaiponenba e. eft eni cura confilium animi, opera corporis i bihgentia vtrumqjcomplectitur. Item inrepublica plurimum i&uftrie/laboris/ te  poris ponen&u eft,#smicos confilio I viribus opera abiuuare bebemue. Cylterius nof a exemplafut l ion lunt per fc rcs comobe ex eten&e bjuicie/tjo  norcs/voluptates comobum eni generislocum  beiinct cuius fpecies funt multe.puta quas mobo  nuirerauimus. Atg item animalia queqjV fyoines  Ieones;equi/bcnu vibetur appetere . feb vUamc|  resfele fyabeat. Ii multa fint,' quobpluriseft/ bc=  bet poni m finc.iam ab alia prccebamus. Qanfquis ,' vtvt i vbiubi,  Multocicns gcminatio in quibulbam tam verbis  infinitis q> abucrbiis tanti valet quati i& nome fel'  ct cuncg. vt quilquis pro quicuncg , quotquot prQ  quotcug. quatufquatus pro quantulcucj» qualif=  qualis pro quaiifcuqj. vtut pro vtcuqj, vbiubi pro  vbicunq?. ct ib abucrte biligenter/  vi . ^vcccbit.  ^ccebit proabbitur/§ vfitatum cfttam pulcfyer=  rimum vibcri bcbet. vnbe et acceffio abbitioncm  fignat. vf ab meas miferias mictji acccbit bolor ib  eft abbitur. Conf ibo, Cofibo non ficut quiba arbitraf ur( nefcio quo pac  to)ftruit J ,13 iugitur aiias catio ahas ablatio cafui  n et in fyiis potiffimu verfatur que ab animum fpertant. vt confibotua virtute/ tuafyumanuatef tuo  confilio. et lbem be aliis fyuiufmobi. Crebo pro cornitto. Crebo quocg pro comirto ornatiffimum eft. vt crc  bo tibi confiLa mea. crebo tibi granbem pecumam et fic be aliisr/  C^rahbismaior vel minornaftu   0ranbe abiectiuu nomen pvoh vel etati conuemt vel pecunie. pecunie exepla fupra pofuimus. leb   l?ic grabior neftorc vibetur ib § vibetur qi ncltore vincat etate et atecebat. r;ic tit graoisnatu/ajrabife   fimus natu SIGNIFICATIO geuu fjonine / atcj atmo--bu fene.St quia be natu facta meeioi maior natu   otnatifiie ficmif lcat feniore ficut mior natu ib eft, be Parentfyefi. {J. iuniore/ Infuper^aubi Hepiba fit interpofita nonnuncp in  oratione/atcpinteriecta parentljefis . vtbebifti ab  meCque mea eft fumma voluptas fuam fimas lits  teras. omnes amicos (nifi ialloOpJurimum abmi  ror.fcire velim exte (ea nacg eftamicorum cofue-  tubo) quib nuperin caufa.M. Tfaitoniiegeris et iti bemum (repostulante) noftraram Jjuiufmobi  oratione interpositionibus alpergatrtus. be Incrcbuit,   Hecres apub me lerebuit/et fere %nif icat ab au  res perueit^et REI NOTITIA SIGNAT. Vt nos nefcire quib feicemus»  Nefcio t)ac re.ignoro/ preferif me  f ugif me. la=  tet me.fyuius rei nefcius fum.ignarus fu.jpec res  fcietiam meam f ugitf. Reliquu eft^pro reff at.  Hoc refiquu e i& eft reftaf /perpulcfyre / et magno  euornatu lbem fignificaf /exemplu eft.omnia tibi  ctnatura et fortuna tribuitreliquii eff t vt bene et  iaubabmter viu?S/. Vulgo ib e vbiql   Rumor e vulgo/ibeft vbiql et comunifer&icifur  et ornatus fermo eftf   {J^Cxlv.^vccipere pro au&ire et cognofcere  ccipere pro au&ire et cognofcere peruenufte bititur. Vtacccpirumoribus quor uel certus auctor  acccpi ljolm fama/ que certoauctore cotietur.acce  pi nuciis it enuciatioibus.quos nutios z qui mit  ti affert.accepi litterisquas plerucj abaicis accipi  mus.et I aliis cofimilibus lodsf   (ffjxlvuHike Ijofce })*ke*  Prono% articularib| bemoftratis cofucuerut ora  tores abbere ce a&jectione i iis cafib^ qui i f.bcfiuut  tupljonie ca\vtl?iice fyofce tafce pro jjis fycs feas/ mn V-' CfCxlviibe tranftatione fyuius pi-epofitiomscum cp* PREPOSITIO que preponi fofet / poftponitur  ecum fi fi jnif icantia eabem manet . et in quibufc  bam juibem femper. que funt mecum tecu fecum  nobifcum vobilcum . in quibufbam qupqj non fe-  per, vt qui cum/quo cumV quibus cu/ te proptet  ac etiam propter te lbem fignificant. et fic quibus  cum « t cun quibus • et in iis potiffimum ea pre*  pofmonum tnnflatio fit que wb enumeramus. Clam prepolitio  potius cp abuerbium»  Clam plerumq? prepofitio eft.et nonnuncj abuer-  bium* (eboratores PREPOSITIONEM potius accipi*  unt ;fiue iugatur ablatiuo vt prifcianusfetiti i;ue  accufatiuo/ quobopinatur bonatus* vtclamme  prcfectus eft ib dt me nelciente/   iJjCxlix.Cora et prepofitio et abuerbium»  Coram cum accetu in prima lillaba prepofttio eft  et quib fignif lcet nemo eft qui nclciat.cum accetu  vero in vltima fillaba abuerbium pulcfyerrimum  eft SIGNIFICAT vt ita bicam)prefentialiter. quo fre-  quentiflime viriboctivtuntur – vt apud CICERONE .cupio tecum coram iocari ib eit prefentiali  ter.etiam coram tecum loquor. De abuerbusin. I. et. V.befinetib. Multa abuerbia in.I.exiftetia etiam I ipfis epifto   lis pulefyerrima funt.feb i;ec imprimis ruri vefpe   ri/bomiybelli. Multaitem ino fero/ Icrio/ conlulto poftremo/falfo/merito.precario. Cetera vero  in eobem exitu beunentia ljaub in frequenti funt   vfu oratoru» i n v vero non multa funt biuicuius  SIGNIFICATIO MANIFESTA EST. Ioterbiu/quob eft quafi   infra mebii bid temcus.£t noctu pto nocte.quob   magis nome e. Vnbe biu noctucg bicimus;   (jXluNullus pro nom   Hullus «li.um.n6nu§ pro non.prefertim fum /es   cft verbo abiuncto.vt nullus fum.ibefi interii. ref   pu.nulla eft (quau non eft lbeft extmcta eft. Ibc|   ornatiffimu f uerit.  Preftofum.ib e affum vel appareo. Preftomm SIGNIFICAT affum. et f ere appareo . et   Dc ibem abuerbiuj eiufbem verbi moois omnibus   ac temponbus peruenufte conuectitur i m eabem   qua mobo pofuimus SIGNIFICANTIA vt prefto micfyi   fuit feruus tuus vrbe ingrebienti / lb eft affuit.   ([Cliii.Licet micfyi bono vito   efleivel bonum viriun.   Licet micfyi bonu virum effe et licet micfy bono vi   ro elfe vtrumcj latine atcj vf ltate bicitur. Seb   goftering magis oratoriu est. Pcirpetuu et Iperpetuu aouerbia?  Perpetuu et imperpetuum abuerbia pro eobe po s  niitur ' et eis f requeter vtimur. Deuindo proobligo»  Deuincio verbum cum pulcfyerrimum e.tum pre  cipue eplis congruit SIGNIFICAT et beuincio oblis  go / et bevinctus obligatus / ficut et fepe obnos   xius quobnonloiumtritomore SIGNIFICAT tquoo  notu eft. febetiam beuincturm. Collocare apub aliqui beneficiu.  Collocare apub alique benef irium eft alicui benefi  cium facere, vt apub gratos viros beneficium col  iocafti*   (IClvii.Gratificor»  <5ratif icor libi fyanc rem predare vfurpaf ur / prp  gratumfacjo»   ([Clviii.De "inbulgeo et ignofco.  Jnbulgeo fane verbum eft aptiffimum et fplenbis  bi ornatus. quob et batiuo iungitur t et f erme \i-  gnificat bo operam, at(j ita reponitur ♦ vt fyie nis  mio fomno inbulget. ib eft nimis bormit mmio d  bo inbulget / lb eft nimis comeoit . be aliis con fimili pacto. H Inbulgere quafi concebere eff  verbum luxurielam quanbam Mignans clemetia   tt in&uicjentem paretem appelfamus/ leniore er=  ga Iiberos mgenio.quare z ab ignofco piurimum  biffert.eft enim ignofco parco.ibeit bo venia.fme  excufatum fcbeo.ignofco tibiifiquibCexepu cauz  faJabmifens lceleris . inbulgeo vero i vt multa a=  cpre impune queas. quorum verbgrum bifcrime  i>il ^entifFime conliberabum eft/  TANTVS QVANTVS Tantus.ta.tum.etquantuseobemobo fefyas  bent in 01 atione vt raro alterum abfgaltero pona  tur. vt cor.cio l?ec tanta eftiquata ante^ac vn§ fu  it.tnbuis micl?i tantu quantum necagnofco / nec  poftulo.tdntum in te eft bocfrine quantum 1 boc=  tilfimo fo 7 et effe viro;   iI_Clx T a»a qualis?  Taliff et qualis alterutru creberrime ponitur* ra  ro vtrucj. vt teie iolemus fentire bonu viru/et fub  Bitelligimuf quale biximus.z ecotra.orator eilfu  ftris qualis alter nuilus reperitur. veru l?ec be f)is  htiBt ^LClxi. Vel pro eciam,  tVel pro etiam particula I multis locis rectiffime  congruit.vtfyambal fuit imperator velomnium   primus.tua eximia virtua vt tearoem velmaxie   impeliit. ([CytVfrforj  » Verfor verbfi ifl f requetiffio e vTtt veteru ac oifer   toiu foofni . perbif f nlaqj e eius verbi fignif icatia ac   beno variis poteftrationib? expoi.vt ego verfori   Iraru ftubio ib l bo opera lraru ftubio. virt us circa   bifficile verfatur ib e virtus i bifficiii cofiftit. ver famur in tenebris ib eft f ere fumus ac viuimus et   quafi ftamus in tcnebris.etCquob eft exemplis fuperioribus beciaratum) buos fibi plerumq? ac fre*   qnetius cafus poltulat. nam aut acculatiuo uingi*   tur/precoata circai aut ablatiuo in precebete . na   cu acanatiuo* vt ante f unbu verlari.ab porta ver=   fabatur pcrraro bicta funt. fcb queabmobu cetens   rebus oibus { ita buie f uma abfybenba e biiigetia,*   ^QQUiii . 8niuer o Sinaute ♦  HonnuS oue particule ornatiOime coiunguntur,  quarum eabem fit vtriul* f ignificatio. vt enmero  nam pro explenba SENTENTIA altera bumtaxat Juffi  cere poterat ♦ etfimiliter finautem cauia conplen*  be fentencie. eo in loco aute patticula nullam om*  nino vim l?abet. 1m eni per le iignif icat feb h/   trClxiiii.&ttoab. •   auoabypro quoufq;/et pro quabo/no minus ornate ponnur^ latine.vt volo in vrbe effe/ quoab  tu rebeasa . ita in plenfc* locis conlimihter accipi  poteft. Sufci pere.   Sufcipere no folum(quob tritug vulgatufcg vfus  fyabeOfignificat quob eft fuper fe accipere et quo=  bamobo abbucere aliquibi feb etiam perornate po=  fitum in epiftolis cemmenbatum Ipabere. vt fu£ci=  pit cicercnem cefar in fuis rebus abuerfis . que  vticj poftremaugnificatio /r/aub^quaqKfi quisin=  fpiciat accuratius)a priore illa afiena eft. Positivo abiucta negatio  cotrarii politiui pleruqj vim tenet.  Optima quocj ratio eft vt pofitio cuipiam abiun =  cta negatio cotrarii poifiui virn ac  SIGNIFICATIONEM twneat. feb non ita plene / tamen et accurate lilam  expleat.cuius rei exempla fubiciamus . r;ic vir eft  J;aut improbus. SIGNIFICAT enim i ere fyuc lpomine  prolum potius q> imprcbum effe jfyabenbum . et  pr;us ^aub igncbilis.r;iftrio non illepibus.miles  co inftrenuus.ciuis fjaub malus.Nam in iis/eo=  rumc| fimilibus rectius atcjj vlitatius bicitur qua  bo vis laubis cuiufbam eit. feb quafi biminute/ et  quafi btf raubate laubis. Peto r;anc rem a te CLuob gramatici bicunt peto te r; ac rem /ornatius  nec minus latir. e bici queat * peto banc rem a te et  ibplutimum ciceip m epiftoJis cofueuit.  ConHdoY pro pereo.  Conficior paffiua voce crebro vfitatu e pro eo f e=  re quoo e pereo.vt confectus fu ibeft columtus vt  vir lops ac mifer .'fame/fricjore/bolore coficitor.  fic anis etate et ftubio conficitur, ac merore Jbbo?  re/fenio cofectus.et be aliis fic per mulf is?  ^JOxix ftblatmi tu participioru tfl  alioru peruenuftam rebbut orationS  ftblatiui cafus no participioru folu/veruecia om  niu alioru in orone percodne ponutur.prcfet tjm  fi qua f uerit fignificatio teporis » et be participiis  quibe mariif eftu eft, vtregnante octauiano cefaref  parta eft vniuerfo orbi pax * quafi qua tempeftate  regnabat octauianus cefar ♦ et aliub bioniiio firas  cufis tyranum gerente/grauifuma inficilia bella  fut gefta.ibeft jn quotepore fyracufanoru bionifc?  us tyranus erat* ([Beb eobe quocj rao alia que  bam fe babet nomitaa .maxime fi bignitatu ct 1)0*  noru extiterit. vtcornelio et galba cbilibus curili*  bp acte fut in tfyeatro f abule. Quiba abbut partid  pium exiftenubus.IeO nos profybemus l quob ab  vcnuftate oratiois n5 pertiet abbi oportere . et iU  fcipionc conlule peni beuicti funt. Icipione imperatore euerfa eft numantia . jpt reliqua eiufmobi   panter.   (JCIxx.be geitiuis cu pofieffiuis pronoibus  Licetetia ta Ljramatice q> oratorie genitiuos quo  rumcuqt cafualm cu pcffeffiuis quocuq; cafu proJa  tis coiugere. qucb ct priftianus trabit . vf mea ca  venit/rt celeroru amicorum.meuagrum et mar  ci anfonii populati funt.tuo amico ac fratris gra=  •iificare.tuu.r; imperatorem fectare et coriolanum  p ncfter ac frains amice. fua ille confibit et ciuiu  pruoentia./C tqj lta figuratur conftrucfio in omnibus pdifeff:ui3.pinc terentianum illub meo prefi  bjoatq^ofp.ti. ^e nominatiuo poffeffiuo •cu gemtiuo poffefibris.Ibq? penitus mfpidenbu fit/quaboqj etiam bifcre=.  tioms leu abubancie cuiufbam caufa folet abbicu  genitiao poffefforis et nominatiuus pofieffiuus  vt fuus eft.C.cefaris mcs ib tlt eius et no alterius  fuus ticiifilius fjeres teftamento conftitutus eft.  fuus( vt ipfe quocj pnftianus exponit>b bifcrctio  ne eius pertinet qui fecubum leges fuus non ciU  ib eft fub poteftate patris legittimi non eft . fuus  autem pro vnius cuiufq? proprie accipitur, quob  ipfum apub viros eloquentiffimos freques eft. Quibbiftatbie   quartoetbie.quatfa.  Qit quartaC vt nonius marcellus eciam teftis eft)  et bie quarto non ibem fignificant . feb mafculino  genere preter itu tempus befignatur f eminino f u*  tutum . quob vef uftiffimi tamen aliter protuleriit  vt fic bit quarto pro eo e quob aliter nubiufqrtus  bicifur .'nubiuftertius.^et ltibe be aliis. Qm ib infere inter tua ca et tui ca feci»  Tua caufa fcci/et tui caufa feci ( ne pretei veteru  et boctorem cofuetubinem aliquib ef f iciamus ine  ter fefe fyaub mebiociiter bifcernutur . nam tui ca  bicimus/fiquib eiabquem fermonem vertimus  preftiterimus. vt tui caufa a& antonii caftra prof e  ctus quob eft tuenbi tui gratia. kb tua caufai cum  tuaQ vt ita bixerim) contemplatione aliquib alteri  preftiterimus vt tua ca»fratris tui caufa egi/  ^JXHxxiiii ,be bif f erentia intcr gcnis  tiuos primitiui et pofieffiui .  £t quia aliquib be lis que ab poffeffionem fpectant  locuti lumus i fyaub ab re f uer it bif f erentia illam  ptof erre in mebium .' que intcr genmuos priuKi=  ui eft ct poffelliui. vt mei tui fui noltri et veftri.  qua tibem pulcfyerrime pnfcianus exponit . vox  na<$ eft eabem .at vis ipfa longe biuerfa.cu genitP  uus pnmitiui fimplicem fignificat poffeifionem.  potfeffiui vero bupliccm» vt mci amicus ibe meu3 amicus . feb mei filii amicus bupjicem poifefiione  continet alteram meam in f ilio • alteram filii i ami  co. quo cc fubiecimus/ne cum ornafum requiri=  mus4 verboru vim icjncremus ipfam/atq? in erro  rem quepiam iguorater incibamus.feb nunc infti  tutumprofequamur. C|xi.v.inmentem venit.  Hcc res mic*?i in mttem venitbicitur. et cum ge=  nitiuo l;uius rei mid?i m mttem venit. nec micfyi  curc eft an j:ro nommatiuo geriitiuus pofitus eft,  vt uq; veto ncn iolum poete feb etiam.M. ricero  vfurpauit;   fJClxxvi.be teporu c6mufatione t  Oratcr;s(f:cut et poete^perfepe prefentibus tepo  ribus vtuntur pro pretetitis . nonnucj et pro f u=  turis. veru lb quioe muitorarius . feD cotra fyaub  crebro fit.nifi forte incp verbum/ quob fufuri te-  poris eft / preteriti foco vel prefentis accipiamus.  Seb muita que fuper fyiis bici polfut/in aliub quo  9 tempus ieruamus;   4j0xxvii.>3imilis genitiuo et  plenus batiuo.  Similis et plenus nomina Cquorum prius batiuo  iugitur4poftrerius etia ablatiuo)oratores vt pluri  mu/ac fere femper genitiuo iugunt. vtfimilis'es  !"uoru maioru.bignitatis et of ficii es plenus» no»  nuq» vero(feb perraro)pr«feruntur cu fuperiori=   bus cafibusj. Vt fubiuctiuis impe=   rdtiua verba iunguntur.  Sepenumero ctia maioris fignif icantie caufa vel  ornatiffime imperatiuis fubiuctiua verba iugutur  quob CICERONE fepe ef ficere folebat. quale e iliuO cu =  va vt vir fis. et aliojoco fcrxbens ab f ilium eff ict  etiaboravtexcellas. Curri WcenatuWprabetur.   Decurritur fpaciu/cenatur rijombus l pranbetu*  tultu Wcoftmilj aq? pulcf;errime bicuntur/   <£ixxx. Vt trafitiua verba  abfokte prof cruntur»  fltqf vt abfoluta iterbu vcrba obliquis cafibus iun  gutuWita trafitiua quocp iicet nonunqua non folu  pro gramaticoru more/feb etia pro oratoru cofue  tubie abfolute prof eratur .preferti vcro ili qua fu*  palfio cu ACTIONE IPSA SIGNIFICATVR qualia illa fat.  Lugeoinbeo metuo.que cum trafitiua funtinunc  abfoluteproferutur. Dc terminatis m bunbus.  due I bubus excut noia ; no ta fimilitubine figni*  ficatCquob pleng arbitratur) § abubatia quabam  potius ac vefyemetius.vt gliabubus no ta cjioriati  fimilisiq» abunbe feie vefjementerqi ef feres.Qua  opinione eloquetiu ateji qSerubitifumoru fcominu  vbicg teftimoniis coprobata/tu quoqj firmiter ara  pfectere.na(vtalios omitta)7?vulus gelius auctor  probatiffimuf ex fnla quotj boctiffimi appoftinaris  letabu5us bicitur^qui logo atcg sbubati errore efu  et tu quocj eiftem vtere nominibus. De Fretus»  Fretus.ta.ui.icerte originis ablatlo iuctu pultfyer  nmu eft.'et ugmficat fere confilu atej munitu. vt  vra fyuanitate f rcius . vra fapieuU J i:on mea vir tute  fretus. Certicrefacere*  Certiore facere vfitate atcj frequenter in epiftolis  vfurpatur.na facio te be i$ac re certioremUb e tibi  figmfico l;ac re.et fepilfime velim me be tua vali*  tubine facias certiorem;   “Habeo”. Habeo varia coftructione figuratu plurimu orna  tus Ipet.vt bene fyec res fc l)et.'qucb e fere vt ita bi  ca\'ftat bene fyec res.et ita bene fyeo me . et cu par=  ticipiis bene me fyabes rebeo rure . et cotrariu ab*  uerbiu fjmiliter ei verbo iugitur quob eft maie;   /plxxxv.be participiis f uturi teporis. Participia fepenumetQ i uturi temppris ornatiffime vfurpantur . vt fcripturus fum ab fcipione lit=  teraa. quoo eft fere bebeo fcribere . etaliub.' tu ab  ebes cras iturus eslquafi ire bebes.cicero e atfyeas  profecturus ib e bebet atfyenas proficifci. plautua  in ciprum traiecturus eft ( fere eftnauigarebcbet  in cipru.quob ibcirco ita expofuimus quoniam is  pi-opne nauigare / is tranfmittere t is folucre ei»  locum fignificat vnbe prof icifcimur is bemu tra=  iicere biciturl g> eubem befignat qui rate vebitur.  vt cicero foluit atfjemsiet in afiam traiccitt(f/e=  ru ab propofitu rebeubum eft . illa igitur particis  pia quc a verbis manant palliuis et naffiue quoqj  cxponi bebent. vt cuius infons animus e/mulctaa  bus non cft ib e mulctari et puniri non bebct . fon  tes accufanbi funt ib e accufari bebent.vir flagicio  fusefttrubebus incarccremibe coiicienbus jn vi  cula . 8t alia reliqua exponatur / vt fupra biximus*  {JjMec tame negauerim qui eorunbem participi  oru alia quoqj ratio fit feb ea nos mobo profequi  mur iprefetiaru/que venuftius eloquiu rebbant/   Repeto Qoiib repeto ^none perpulcfyre ponitur.fi quib ei  accefferikneq; batiuus foluscafus/feb etiam abla=  tinus.vt jepeto fjanc rem memoria/ quobnon te  neo memoria figaifieat. vt permulti extimat feb  *<  H  •podus meoria voluto^t rcmifcor /et quafi oblmi  oni trabitu rurlu lueftigo meoria»l;oc nos vii vei  bo ornatiffie poterimusiquonia ecbe z veteres eic  quetiffimi f requeter vfi iut* l;k illub be oratore ci-  ceronis libro. cogitanti mkl)i /ac memoria repete  ti* et africanus a neuio accufatus / tnbuno plebis  <% ab antfyioctjo pccunia accepilfet / comcbiffimc  to verbo vfus* rnemoria (mquit) quintes repeto  ^unc bie fyobiernu effe*'quo Ijanibale penu iimitif  tmu fyuic imperio vici in africa l et perpetua pace  vobis/ac victoriam peperi infeparabile» veiu cap=  tus ingenti voluptate longius in af rica verbis re f erebis progrelfus furcuquaobrem «b veltru initi-  tutura ref erat k oratiof. Promori; bieobireymorte oppe  tereet fimilia,' pro viaere aute vita agere/ be  gere ctatetn / etfimilia ornatebicimus/  Optimu factii fuerit l ne eifbe aut mobis oratiosis/aut verbis vtamur* eKquob inicio bicimus)  varia plurimu probat oratio* et ti veluti quibufba  fiofculis afpergitur vt pro morivbie obire /mor-  t«m oppcterc anima expirare / vitabecebere]* ani  ma efflare/ vita befugi^ rebus fyumaqis excebere  ex vita migrare/res beferere fyuanas i exii e be vi-  talnwtc? pbireiextremum claubere bie; interire     i  i   occibere cdfimiliacg* et iteru pro viuere vitam age   re begereetatem/  Vtlu&oluou.Ticet   viuo vita &icimus et coniimilia»   St(ne figillatim cucta coplectar)illu& fcoc loco ani   mabuertenbum iitiq ficut fepe bicimus lubo lubu   pugno pugnaiferuio feraitutemiboleoy &olore^et   fimilia.' ita et inter&u viuo vitamVviuo miferam   feu felixe vitam, vt fi quis bixerit qui expe&ita fu«=   erint virtuteconfecuti, / ii viuentbeatam/ etimor=   talem vitam.et qui predaru certamen certaucrit/   a mphffimis bonabitur muueribus . £t quob &e va   riis bicimus orationis mobis l i& ipfu be fingulis   partibus intelligebu lit , vt pro oro rogo/ precor   obfecro/ pro quafi pene ferme.reliqua tuipe coiec   U} <JClxxxix,Ib genus,   Ib genus pro eius generis C quo& fere fimile no-  men expnmiOpulcfyre et vfitate bicitur vt multa  funt ib genus monftra. be multis ib genus rebus  locutus eft.'quob e fimilibus.et ita in alns^   {JClxc , Sx fcntencia ,  8x fentencia quafi fecunbum votuntaf em et prof=  perc • vt gefta rcs eft cx fcntentia . quob eft prout  optabamus.et tibi i& vecit « sententiat et muftis  iuiocisconfirniliter. “Inferre”. Inferre iiurii quali iniuria facere . manus iferre  alicui eft alique pulfare, impetu j quepia facere iit  quepia cu ipctu et quafi vi aboriniet jrruere. “Dare veniam. “Dare veniam” pulcfyerrimu efticrnofcerectlicetia  coneebere; 3°vt> 'nicio ctatis Ijabui te amicu.amicicia micr;i tc  cum eft a teneris annis/a paruulote primis ctatis  temporibue* a tenerisCvt greci bicut) vnguiculis  abincunabilisipfis.etijuiutmobi. {jQtuuei  etaspuicfyerrime abolefccnciam SIGNIFICAT. F«.rire f ebus.  Fcrire f ebus opfame atcp optimis caufis ex feriali  um cofuetubine fignificat f ebus coponere vt per=   fepe ictum fcu pcrcuffufcbus/eft conftitutum/ ct  compo fitum. Hft micbi nomc fcipioni £ft miclji nomefcipioni.fcipioni cognome africa=  no f uit.cui paojo troiano nome c ct lic be reliquig  batio cafu perulitate ac puldjerrime bicitur .que  eabe z aliis quoij mois bicutur.£ frequetius m6s  fueeriores apub eloquetiffimos et boctiffimos vi=  rosioucnies. ^iunt t f ertur bicitur. i»  Cum tritum vcrbu volumus ©ftenbere Aet quob  in ore populo e.' vtimur vel iperfonali fertur / vel  perfonali verbo aiunt Jet nonuncj biritur . et eis fi  gulis/ vt preponimus.' etraro ita.' feb interoii. q>  exempla fcuiufmobi lut . nam firenesCvt aiui)fur  bi bwbemus aure tranf ire. et item na ita f ertur vt  nulcfc tuta ut fibes. item fyaub turpe e( vt biutur)  tum ultuanbi be grabu beiici. Mebiam fuper noctem, onuq> ita bicimus nocte luper mebiam vigilaui*  rous quob e vltra mebia nocte vigilauinius.ibcj z  f taias ipfeteftatuWetquorubam vetcrumpro=  fcut auctoritis. Tenbo.  Contra sermone tuu tebo lb e reiponbeo tibi. y licut  et tenbo cotra iter iib e tibi occurro feb fyc fyaub i  frequenti vfu oratorum inuenies. Aacte.  Macte /magis aucte.et eft glorie et laubis fermo,'  et plerucj ablatio iiigitur.vt macte virtute elto.ib  9 et poete vfurpat/et fcriptores fyiftoriara* etbe=  mu oratores ipfi. qui lermo C vt multi erubitilu=  rai trabunt)a facris bebuctus elt. 7Kb expiicanbu locum tue genus  gentile ac patnum effingimus.  duoties alicuius explicaturi fuaius/iiue genus/  I fiue locu/getuWc patriu nome effingimue. qucb  quifecuBeffccerit/fortaffelatine locutus fit;febil  lepibe penitus/atc| Ibecore. vt qui fuent a firacu=  fis oriubus/no be ciracufis bicebul J? firacufanus  no be atl;els<f? atfjemefis.et fic be aliis. atcj i gc=  nerifc^ /ac familiis nos no be cu abltio vtimur(vt  muiti l feb ibc nome effidmus vt no bc ftauris f$  luurus . r 6 ite be grecis fcb grccus non bc catufis  feb catulus.non be batis feb batus . Qua qmbe a  reib mento afferebu fitl quob pliniusipfeaiebat/  q> beriuationes no fyabet firmas regulas . fcb exeunt/tcrminaturc| vti ipfis autonbus placet fic a  tfyaurotfyauru/tfyaureu^ttfyaurinu bjcimus» et  quoe nos romanos bicimus^ bicut greci romeos»  guos nos cartfyaginefes ^iUi cartfyiboneos vocantt  &qb in enfis valatq as fi ab loca pertinent frequetiores terminationes sunt. vt albanenfis vero  nenfis dufiuua .' taretinus /lacebcmonus .'eiracutas  nus^arpinas.iftlii quoc| funt eorube nominu exitus.feb 11 frequetiori vfu celebratur.quob ibe ct in quibufba aliis fit«que mq a generis noibj fluxcre neqj loci vllius. vt tcrecianus cremes/ platoicuB  gigesifocraticus gorgias.queoia a propriis profecta lunt/atcj origine traxerc. feb que alia fyac bc  re^ici pQiTuUtuipe coQitatione coplectere. Conoi\  Conorrjanc rcm optimc ac peruenufte oirimuB,  prefertim fi bifficilior fit.'et arbua. quo pacto cice  ro fepe vtebatur. vt oe pcrfecto oratorci maguum  opus ct arbuum brute ccnamurf   {[ CCi«{3tubco»  Et ftubeo fi quib ftubiofius effecturi fumus coiam  accufatiuopulc^crrimc iuncjitur. “Defibero”. Dcfibero vcrbu pulcfyerrime pofitfi e . na cu befis  beriu fit abfetiu reru perfepc bicimuf befibcro amo  re tuu quafi tu no mc amas.bcfibcro tua prubetis  anWquafifis iiipies.et ltem bc alns;   ijCCiii . complector C5plcctor perbiff ufu e/atcj ornatu verbu.prefer=  ti vcro aiiquibus abiecus/ Jjac roe.vt te amore/at  q beiuof ecia coplector /pro te amo» cogitatione co  plecfcr .'qucb e cogito.z lb e aiificut facultatecofe  quor/eft rei ipfius;   Degerubjuiflf  Illub ignoranbu non tltiq gcrubiuuar mobus ab  omni verbo fimili procratur / fi quanbo nobis fo  ret eo opus . vt cantanbo rumpitur anguia ib eft  bum cantatur l vt ait feruius * et alio in loco acti^  uc bictum eft* cantanbo tu illum it> cit bum canis.  ib efficere atqj vfurpare oratores queunt/   (] CCv^be quarto p retoriet quartu pretor  Putat nonulli nicfjil itereifeiu quis bixent quar -  to pretor / ct quartum prefor / et (ic be aliis. feb  magna e certe bra/vt.M.varro teltis e.na quarto  pretor locu figmficat/et tres anteactos. quartum  vero befignat tpus .Caue igitur biligenter ne per=  pera fjifce vtaris ronibj.ne ofuib eotra veteru/ at  cp eloquetiu roore/cofuetubinecj faciamus. quare   terciu coful/ac tertio cdlulno ibefignificatt  {JCCvi.Kuri effe»   £eb ne plura iH f equar(na infinita pene «iu fmob   precipi poflut)ib tene memoria q? no irure effe/feb   ruri ee bicimus.quob cu f eftus popeius affirmat   tum terecius cdprobat.aif ei ruri fe cotinebat/   Quaobrem u qua reliqua fut.'paucis ex^ e^.amus   Nam cu pro coficiebis epiJfoIis I)ee potissimu atligerimus si salutatioms formuia/ ac regula ibu   um nonaruqj obferuatione patef eceri .' iure l;uic   p aruo inftituto fine ac mobum ftatuerini/   4/C Cvii.Vale Salue»   Vale igitur ac falue verba pro VARRONE /et   omnium boctiifimorum virorum (entencia ibem   fignif icare vibentur, Quibus nos alias in faluta0 aiias in execranbo vtimur * ex quo terenciann      iliuc» 2. valeant qui inter nos bifdbiu volut /ac cu=  piunt mortuis quoqj et qui mortaliu vita beccffes  runt^ quibus nullam fyuiufce Iucis optare lalu.e  polfumus ,'nonuncj vale bicimus. CE?t veterea  quobam eifoe ibem verbu pro mori bicebat^quafi  nicfyil araplius viuentibus fibi cu mortuis futuru  elfet t et imperpetuu iam ab eoru afpectu bifcebes  rent.Nam neg? valet llli nec| falui effe polfunt ob  eabem rem abbut nonulii bene f eliciteng abuerbta  aut fi qua alia funt euumobi fiemihcatie. Veruta=  meninepiftolisipfisvaiein finebicere cofueuis  mus ab^ vlla abuerbii acceflione^ perinbe ac ami*  cis vite falute ac f eligitate exoptemuf .Quib igitur  vale fibi querat.' quo ve illo pacto vtebu fit nofcef  Ct G Gviii.bico tibi lalute iubeo te faluere,  Pro falute aute piemc| nos bicimus falutem bico  et fi quefalutare cupimus 4 batiuo cafu aptifume  appofucnmus» vt vaie et cefari bic falutem . T^lia  quo(j erit faiutanbi ratio.vt iube fcipioncm falue*  re quob eft fcipionem faiuta . iSiam ille mobus vi quabam befiberii cotinet . ct pro antiquoru more  et confaetubine inf initiuus mobus in alium tranf  mutatur  vt iubeo te faluerc ib eft lalue . iubeo te  gaubere_pro gaube;   ^JCCw.Meo noie vel meis vcrbis,   t  {Tp ro mea ex paif e.  Quob vero alii ex mea parte bicuntl mulfo quibe  ornatius bicitur vel meo noie vel meis verbis/ calebis/nonis/et ibibus»  Quota aute cuiuicuqj mefis biem velimus mtellr  gereicalebis/ nonis/ibibus ve notamus.necj quib  illi fibi velitinuc expiicare cofiliii eft.feb quo pac-  to bicamus figulorum mefium bies.' et quomofco  ab eis nominatione fufcipiat . cpobrem intelligebu  elti primis/ primu cuiufqi mt fis biem/ calenbaru  appellatione vocari . fecunbu quas nonarum bies  coftituitur . ef in aliis quibe mefibus feptima luce  Marcio/Maio lulio/Octobri.in aliis autem qui»  ta/Ianuario/ Februario/yvpnli lunio / 7\ugus  fto/ Septembri/ nouebri /Decembri. J^tc| omne«  ii bies qui cdlenbas et nonas intercefferint*' nona-  rum cognominatione cefentur. vbi et numerum  meminenmus ac nonas ipfas.et ille ablatiuo con  ftruuntur.' fjee accufatiuo . Seb internumeranbu  etprepoftero vtemur orbine^et nonarum biem conumerabimus .' atnonisexactis/ proximosocio  bies . ib quocjt in quolibet menfe ibuum umiitter  cognominatione fignincabimus* fcb pari rone tu  orbis/tu anumerationis.reliquos veroeius mefi»  (quotquot fuperf ueriObies calebaru appeliatione notabimus. que hxturiJacpYcximi fut mefisi neeg  orbinis/necp numeratiois roeimutate. 7>vt ib om  nc exeplo iiluftrabu iSitqf martius nobis exeplo.  cuius curriculu vno ac trigefimo bit coficitur .pri  tna ltaqj bies halenbe erut mahi.fecunba fexto no  nas marcii.tercia quito nonas. quarta qnartono*  nas . quita ttrcio nonas . fe.\ta no bicitur fecunba  nonasifeb pribie nonas.et lta be lbibus at^ fcalcn  lsfeptima bieg none erunt marcii . octaua octavo ibus marcii .nona feptio ibus mattii becima fex  to ibus marcii.vnbecima quito lbus . ouobeum*  quarto ibus. tribecima terno ibus . quartabeciina  pribie ibus quitabecima ibus erunt marcii.febecia  bccimo leptimo halenbas aprihs. quoniam is me  fis proximum fequitar.beamafepnma beamofrx  to halenbas april.g. becima octava bccimcquinto  halerbas/becima nona becimo quarto halebas. vi  ccfuna becimotertio kalcbas. vicefimapt ia buobe*  cimo calenbas. vicefimaiecunba vnbecimo calebas  viceiimatertia becimo calenbas, vicefima quarta  nono calenbas vicefima quinta / octauo calenbas. Viceuma fexta feptimo caienbas . Vicefima fepn=  ma lexto cahnbas. Viceiima octaua quinto ca«  lenbas. Vicelima nona quarto calenbas . Trice  frnia tertio calebas. Tricefima prima et nouifiim/i   i  J  pribie fcalebas aprilis.In ceteris omibus eabefer 3  uaoa eit ratio bieru, Dieru autem numerus f;aub  fe lateatgui in propmtu eft cmnibus/  4jCCsi ♦ P^ibie kaienbas ,'pribie,  nonas,'pribie ibus.  Pribie aute fcalenbas/pnbie nonas/pribie ibus et  «t fignificat quob vetuftiffimi bicebant biepriftini  pro abuei bio quob fignif icat bk priftino. et iic per  vetuitomore biecraf tini / et biequitiet biequinto  umiliter pto abuerbio , Veru nos prifcam nimis  et Ipombiore vetuftate vbicf f ugere ac vifere bebt  mus, #vc bene et preclare cefar preciperc Folebat/  ta§ fcopulu fic f ugienbu ee iaubitu /atq ifoles ver  fcum; <L Pro genitis aate ihenfiu rectius pof=  felfiua nomina finxerimus. vt pto ijalebis marcii  fic uenuftxus bixerimus halebas martiaf z ita apri  les/maias / lunias /iulias /ac quitiles auguffas feu  fextiks/ieptembrias, et itaianuarias/ fcbruarias  g> autem m haknbis/nonis ibibuiq abiatiuo cafu  iugimus.' jbcm poifimus in accufatiuu tranfferre  et ab preponer e feb ib iignificst tempus fere biu=  turnu, vt ab bccimu kalenbas februarii bebiiti ab  me litteras . ego vero ab ocfauu ibus lanuarias ao  te fcripferam^abet enim vim tejs»f»e*4^vel:;emen  twem fyocpofterjus; fc>  J  4 1 Operis peroratio.  Me «Sor pl«» fcribamdpc micfy Etic imprefen*  tiarum obtulerut ! quc anotatu bigniora vila funt{  nuc« tibi multo plus ferfafe conbucent ; cj eoru  preceptioncs i quieafbemetepiftohsetoratiQm;  bus tribuunt partes.quorum penitus enpient.ua  eb error .afa* ita fentienbui vti littens ipbs ab te  concinnc bilucibc^ perfcribamus .'ac noitram len»  tcntia afc» mente ^comobiffime apenamus . cj? cu  bec bili S cnter tenueiis < ck in£inito pene fcrum r«  La numcro;alia qucbam no mmus taaife vtt<  ha,'feb multa grauiora (ubnectam.auaobremCvt  facis ) cupibiwme ftubia htteraru complectere at  L ea queinbiesaffequerisabcxeraUttommawo   moba? IVale?   f/fluguftini bati fenenfis oratoris primaru liajjocjicus libellua octttioniB precepta finitf  oc Kt e^a     rAficm ^•S. "atriftcr mM^urinxx^j^iit^Scnom^m  ttyAnne* ie fUmati* ^d{'   Llmulas kriwor frpi » Grice: “Dati is into ‘elegance’ but he is also into ‘regulae’, which are a bit like my maxims – my maxims can be exploited for ‘effect’ – and those are the types of rules that Dati is interested. Sadly, his philosophy has been interpreted as that of a mere linguist or grammarian prescribing on how to write letters! But he surely was a pre-Griceian who is looking for ‘rational’ pragmatic reasons to the effect of a most effective, yet ‘elegant,’ communication. Many examples can be philosophical: ‘women are women’, ‘war is war’. ‘Women are women’ is not meant as a substitutation for Parmenides’s law, x = x. Such an utterance would be, “Every thing is identical with itself.” “War is war” is different in that ‘war’ is uncountable, and we can keep the singular ‘is’ of Parmenides’s law, x = x. But why do we consider ‘War is war’ a tautology? Because it is the exemplification of ‘x = x” – Now, some philosophers claim that ‘war is war’ – or Parmenides law, for that matter, isn’t not a ‘patent tautology’, since it needs to be formalized in the predicate calculus, and the predicate calculus is not decidable, i.e. there is no algorithm for its interpretations which render its formulae tautologous. Augustinus Datus. Augustinus Dathus. Agostino Dati. Keywords: ELEGANTIOLÆ, retorica, grammatica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dati” – The Swimming Pool Library. Dati.

 

Grice e Deciano: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher of the Porch, and friend of the poet Marziale.

 

Grice e Deinarco: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. A follower of Pythagoras. He is one of those who fled Crotona when the local people became hostile towards the sect. Giamblico talks about his followers being killed in a battle years later, which suggests that he may have established some kind of sectd of his own. Deinarco.

 

Grice e Deinocrate: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to Giamblico. Deinocrate.

 

Grice e Delfino: l’implicatura conversazionale della musica delle sfere -- l’ottava sfera – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Grice: “Delfino is what we at Oxford would call a ‘philosophical mathematician,’ and in Italy, an astrologer – his specialty was the ‘motum’ of the ‘ocatva sphaera’!” “But he also wrote on algorithms!” Ensegna a Padova. Erudito dalle multiformi attività, fu attivo a Padova nel filone dell'aristotelismo padovano rinascimentale: sicuramente studioso di logica e matematica, ebbe chiara fama di matematico e di astronomo. Altre opere: “De fluxu et refluxu aquae maris” (Venezia); “De holometri fabrica et usu in instrumento geometrico, olim ab Abele Fullonio invento: Acc.); “Disputatio de aestu maris et motu octava sphaera, Stupanus, Foullon, Padova, In Accademia Veneta Paulus Manutius.  Dizionario biografico degli italiani. Musica delle sfere Lingua Segui Modifica La musica o armonia delle sfere, detta anche musica universale, è un antico concetto filosoficoche considerava l'universo come un enorme sistema di proporzioni numeriche. I movimenti dei corpi celesti(Sole, Luna e pianeti), ritenuti collocati su sfere ruotanti, avrebbero prodotto una sorta di musica, udibile solo dall'orecchio dei veggenti, e consistente in formule armonico-matematiche.   Incisione di Franchino Gaffurio (Practica musice, 1496) che raffigura Apollo, le Muse, le sfere planetarie e i rapporti musicali. La teoria della musica delle sfere ebbe origine nell'antichità e continuò a essere seguita almeno fino al XVII secolo, suscitando l'interesse di filosofi, musicologi e musicisti.  StoriaModifica La musica delle sfere incorpora il principio metafisicosecondo il quale le relazioni matematiche esprimono non solo rapporti quantitativi, ma anche qualità che si manifestano in numeri, forme e suoni, tutto connesso in un enorme modello di proporzioni.  AntichitàModifica Pitagora, per primo, capì che l'altezza di una nota è proporzionale alla lunghezza della corda che la produce, e che gli intervalli fra le frequenze sonore sono semplici rapporti numerici.[2]  Secondo Pitagora, il Sole, la Luna e i pianeti del sistema solare, per effetto dei loro movimenti di rotazione e rivoluzione,[3] produrrebbero un suono continuo, impercettibile dall'orecchio umano, formando tutti insieme un'armonia. Di conseguenza, la qualità della vita sulla Terra sarebbe influenzata da questi suoni celesti.[4]  Nel mondo greco il cosmo era paragonato a una scala musicale, nella quale i suoni più acuti erano assegnati a Saturno e alle stelle fisse. Il Sole era indispensabile per la realizzazione dell'armonia in quanto, secondo i greci, corrispondeva alla nota centrale che congiunge due tetracordi.[5] Per FILOLAO, matematico e astronomo pitagorico, il mondo è armonia e numero, e tutto è ordinato secondo proporzioni che corrispondono ai tre intervalli fondamentali della musica: 2:1 (ottava), 3:2 (quinta) e 4:3 (quarta). In seguito, Platone descrisse l'astronomia e la musicacome studi gemellati per le percezioni sensoriali: astronomia per gli occhi, musica per le orecchie, ma entrambe riguardanti proporzioni numeriche. Egli, inoltre, appoggiò l'idea di una musica delle sfere nel dialogo La Repubblica, nel quale descriveva un sistema di otto cerchi, ovvero orbite, per i corpi celesti: stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna, che si distinguono in base alle loro distanze, al colore, e alle velocità di rivoluzione. La visione di un universo strutturato in cerchi concentrici, aventi come centro la Terra, era del resto comune a tutta l'antichità: si trattava di sfere intese come ambiti di pertinenza, ognuna delle quali contenente un pianeta che esse trascinavano con sé, muovendosi in maniera circolare. Era questo loro movimento a generare il suono, come affermava anche Cicerone:  «Movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio, e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l'una, acuti l'altra. Ecco perché l'orbita stellare suprema, la cui rotazione è la più rapida, si muove con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, emette un suono estremamente grave; la Terra infatti, nona, poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un'unica sede, racchiudendo in sé il centro dell'universo. Le otto orbite, poi, all'interno delle quali due hanno la stessa velocità, producono sette suoni distinti da intervalli, il cui numero è, possiamo dire, il nodo di tutte le cose; imitandolo, gli uomini esperti di strumenti a corde e di canto si sono aperti la via per ritornare qui, come gli altri che grazie all'eccellenza dei loro ingegni, durante la loro esistenza terrena, hanno coltivato gli studi divini. Le orecchie degli uomini, riempite di questo suono, diventarono sorde, né infatti vi è in voi un altro senso più debole.»  (Cicerone, Somnium Scipionis, libro VI del De re publica, cap. 18) Più tardi i filosofi, fra i quali Tolomeo, mantennero la stretta correlazione fra astronomia, ottica, musica e astrologia. L’'astronomo arabo al-Kindisviluppò le idee di Tolomeo nel suo De Aspectibus, che associa anch'esso astronomia e musica.  MedioevoModifica  Angelo musicante, affresco di Melozzo da Forlì (1480), Musei Vaticani. L'antica concezione cosmologica della musica delle sfere passò nel Cristianesimo, dal quale venne ulteriormente meditata e approfondita, costituendo la base di numerose raffigurazioni di angeli musicanti, suddivisi in cori angelici gerarchicamente ordinati, identificati con le orbite celesti di astri e pianeti:[10]nella musica delle sfere si udiva cantare cioè il corodegli angeli, che accompagnava gli eventi principali che avvenivano in Cielo, quali la Trinità, l'Ascensione, l'Incoronazione di Maria.[10]  Già Agostino d'Ippona, nel De Musica e nelle Confessioni, vedeva nei suoni il riflesso di un'armonia primordiale dell'anima.Furono poi soprattutto Macrobio e Boezio a fare da tramite fra il pensiero pitagorico, basato sul simbolismo dei numeri, e la nuova teologia cristiana. La Via Lattea, intersecando lo Zodiaco, forniva per MACROBIO il «latte», ossia il nutrimento alle anime dimoranti nei cieli, in attesa di incarnarsi. Tutto l'universo è per lui fondato su rapporti numerici, nei quali si riflette il progetto creativo di Dio, esprimibili secondo accordi musicali basati sulla tetraktys pitagorica.[12]  Boezio, ponendo le basi del quadrivium scolastico, ossia il complesso delle materie scientifiche che verranno insegnate nelle scholae medievali (aritmetica, musica, geometria e astrologia), spiegava l'ordine del cosmo secondo la rinuncia da parte dei quattro elementi agli aspetti discordanti. Egli introdusse inoltre nel De Institutione musicae una distinzione fondamentale, destinata ad avere grande fortuna nel Medioevo, tra musica mundana, propria delle sfere celesti, musica humana, quale si riflette nell'interiorità umana, e musica instrumentalis, fatta dagli uomini a imitazione di quelle.[11]  Dante allude in più occasioni all'armonia delle sfere, in particolare nel primo canto del Paradiso della Divina Commedia,[13] quando si rivolge all'Amore che governa le Sfere dei Cieli, il cui movimento rotatorio, reso eterno dal desiderio che esso accende in loro, desta la sua attenzione («mi fece atteso»):  «Quando la rota, che Tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso, con l'armonia che temperi e discerni, parvemi tanto, allor, del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece mai tanto disteso.»  (Dante, Paradiso, I, 76-81) Dal Rinascimento all'età modernaModifica  L'armonica nascita del mondo rappresentata da un organocosmico, in Musurgia Universalis di Athanasius Kircher (1650). Nel Rinascimento, a fianco della teoria pitagorica si sviluppò la visione magico-ermetica dell'armonia, espressa dalla concezione del monocordo di Robert Fludd, nel quale le sfere dei quattro elementi, dei pianeti e degli angeli sono disposte verticalmente sul monocordo, accordato dalla mano divina. Dio, dunque, è architetto e musicista supremo del creato.[5] Un modello analogo era stato delineato da Franchino Gaffurio, il quale aveva collocato i pianeti attorno a un'ideale corda musicale, secondo una scala eseguita dalle nove Muse, accompagnata dalle tre Grazie e diretta da Apollo.[5]  Giovanni Keplero, nel XVII secolo, influenzato dagli argomenti di Tolomeo, scrisse il libro Harmonices Mundi, nel quale vengono descritte le consonanze fra percezioni ottiche, forme geometriche, musica e armonie planetarie. Secondo Keplero, il punto d'incontro fra geometria, cosmologia, astrologia e musica è rappresentato dalla musica delle sfere.[14]Keplero, però, superò il modello statico delle sfere di concezione copernicana in favore di un modello dinamico, trasformando le orbite da circolari a ellittiche, che i pianeti percorrono a velocità variabili (seconda legge di Keplero). Inoltre, Keplero attribuì a ogni pianeta non un singolo suono, ma un intervallo di suoni, in cui la nota più grave corrispondeva alla velocità minima che il pianeta teneva durante la rivoluzione (in corrispondenza dell'afelio), e quella più acuta alla velocità massima, raggiunta nel perielio.[5]  Baruch Spinoza, nella sua Etica dimostrata secondo il metodo geometrico, criticò con fermezza tale concetto filosofico, indicandolo come idea priva di fondamento scientifico, frutto dell'immaginazione umana: «[...] la follia degli umani è arrivata al punto di credere che dell'armonia si diletti anche Dio; e nemmeno mancano filosofi profondamente convinti che i movimenti dei corpi celesti producano un'armonia».[15]   Il Sole e i corpi celesti. L'immagine ritorna in Goethe, che nel Faust apre il Prologo in Cielo con le parole dell'arcangelo Raffaele, intento a contemplare la «melodica» armonia vigente tra il Sole e i corpi celesti:  (Tedesco)  «Die Sonne tönt nach alter Weise in Brudersphären Wettgesang, und ihre vorgeschriebne Reise vollendet sie mit Donnergang.»  (IT)  «Intonando l'antica melodia, a gara con gli astri fratelli, percorre il corso prescritto il Sole con passo di tuono.»  (Goethe, Faust, primi quattro versi del Prologo in Cielo[16]) Nel primo Novecento, nell'ambito delle concezioni esoteriche elaborate dalla scuola antroposofica, l'esoterista Rudolf Steiner sosteneva l'esigenza di recuperare la capacità sovrasensibile, propria dei pitagorici e di epoche ancora più remote dell'umanità, di percepire la musica delle sfere. Solo inconsciamente, durante il sonno, l'uomo riuscirebbe ad attingere dal mondo astrale e spirituale quell'armonia che gli consente di fornire un sostegno alla sua anima razionale, e ricomporne gli aspetti dissonanti.[17] Tale armonia celeste secondo Steiner, diffusa attraverso gli spazi cosmici per mezzo del cosiddetto «etere-chimico», ha effetto principalmente sul ritmo della respirazione.[18]  «Il musicista compositore trasforma incoscientemente in suoni fisici, il ritmo, le armonie e le melodie che, durante la notte, egli ha percepito nel devachan, le quali sono rimaste impresse nel suo corpo eterico. Questo è il misterioso rapporto tra la musica che risuona nel fisico e l'ascolto della musica spirituale durante la notte. La musica fisica non è che la copia della realtà spirituale. Come l'ombra sbiadita sta in confronto all'uomo vivo, così la musica-ombra fisica sta alla vera musica-luce spirituale.»  (Rudolf Steiner, L'essenza della musica, conferenza di Colonia del 3 dicembre 1906) Steiner si propose di ricreare nel microcosmo umano l'armonia stellare attraverso l'arte da lui stesso fondata, denominata euritmia, dell'equilibrio tra parole, gesti e movimenti. Hazrat Inayat Khan, Il misticismo del suono( PDF ), traduzione di Hasan Signora, 1931, p. 93. ^ Weiss, p. 3. ^ Plinio il Vecchio, pp. 277-278. ^ Houlding, p. 28. ^ a b c d a cura di Natacha Fabbri, L'armonia delle sfere, su brunelleschi.imss.fi.it, Museo Galileo. URL consultato il 29 febbraio 2012. ^ Kahn, p. 26. ^ Davis, p. 252. ^ Smith, p. 2. ^ Affresco appartenente a un gruppo di altri angeli musicanti dipinti a Roma da Melozzo nel 1480 nell'abside della chiesa dei Santi Apostoli, successivamente trasferiti in forma di frammenti nella Pinacoteca Vaticana nel 1711. ^ a b Atti. Classe di scienze morali, lettere ed arti, volumi 147-148, pp. 316-318, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1989. ^ a b Mario Pasi, Storia della musica, volume 1, pag. 380, Jaca Book, 1995. ^ a b Christiane L. Joost-Gaugier, Pitagora e il suo influsso sul pensiero e sull'arte, pag. 140, Arkeios, 2008. ^ Dante e la musica delle sfere. ^ Kepler & the Music of the Spheres, su skyscript.co.uk. URL consultato il 29 febbraio 2012 (archiviato dall' url originale  il 12 maggio 2012). ^ Baruch Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, 1677. ^ Trad. it. a cura di Patrizio Sanasi. ^ Tiziano Bellucci, L'armonia delle sfere planetarie, lo zodiaco musicale e i colori, su coscienzeinrete.net. ^ Stefano Centonze, Manuale di Arti Terapie, pag. 234, ed. C. Virtuoso. Articolo su Rudolf Steiner e l'euritmia, su italiadonna.it. BibliografiaModifica Piero Weiss e Richard Taruskin, Music in the Western World: a history in documents, Cengage Learning, Plinio il Vecchio, Storia Naturale, 77 a.C. (tradotto da Harris Rackham, Harvard University Press,  Deborah Houlding, The Traditional Astrologer, Ascella, 2000, Henry Davis, The Republic, The Statesman of Plato, Nabu Press, Smith, Ptolemy's theory of visual perception: an English translation of the Optics, American Philosophical Society. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett Publishing Company, 2Armonia Harmonices Mundi De Institutione musica Gerarchia degli angeli Sfere celesti Temperamento (musica)  Filmato audio  L'Armonia delle Sfere - i Portale Astrologia   Portale Filosofia   Portale Matematica   Portale Musica Harmonices Mundi Sfere celesti Hans Kayser musicologo tedesco  Federicus Dolphinus. Federicus Delphinus. Federico Dolfin. Federico Delfino. Delfino. Keywords: l’ottava sfera, first sphere, second sphere, third sphere, fourth sphere, fifth sphere, sixth sphere, seventh sphere, eighth sphere – prima sphaera, seconda sphaera, tertia sphaera, quarta sphaera, quinta sphaera, sexta sphaera, septima sphaera, octava sphaera, holometria, fabrica holometri, aristotelismo padovano vs. platonismo fiorentino – aristotele – platone – padova naturalism – Firenze idealism – filosofia della percezione – prospettiva -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Delfino” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Delia (Roma). Filosofo italiano.

 

Grice e Deliminio (Roma). FIlosofo italiano.

 

Grice e Delogu: all’isola -- l’implicatura conversazionale -- semiotica romana – implicatura sarda – filosofia sarda -- filosofia italiana --- Luigi Speranza (Nuoro). Filosofo italiano. Grice: “We can call Delogu a Griceian; at least he has written a little tract that he entitled ‘questioni di senso’ – which is all that my philosophy is about!”  Si laurea a Sassari  e, come vincitore di una borsa di studio regionale di perfezionamento in Dottrina dello Stato, ha collaborato all’attività didattica e di ricerca con Pigliaru.  È stato redattore del periodico del seminario di Dottrina dello Stato Il Trasimaco, fondato e diretto da Pigliaru.  Come vincitore di concorso ha insegnato Filosofia e Storia nei licei. Ha preso servizio a Sassari in qualità di ricercatore.  Come vincitore di concorso ordinario, è prof. associato e  prof. ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Sassari. Cofonda i Quaderni sardi di filosofia e scienze umane. Fonda e diretto i Quaderni sardi di filosofia letteratura e scienze umane.  Fa parte del comitato scientifico della rivista “Segni e comprensione” -- dell’Lecce.  È stato direttore del Centro studi fenomenologici a Sassari, fonda e diretto la sezione sassarese della Società Filosofica Italiana.  È stato direttore della Scuola di specializzazione per la formazione degli insegnanti a Sassari. Gli è stato conferito il Premio Sardegna-Cultura e il Premio Giuseppe Capograssi, dalla giuria presieduta da Giovanni Conso, presidente dell’Accademia dei Lincei. Organizza numerosi convegni, tenutisi in Sardegna, generalmente a Sassari. Tra questi: Realtà impegno progetto in Pigliaru, Libertà e liberazione; Etica e politica in Capograssi; Tuveri filosofo, Dettori filosofo, Esperienza religiosa e cultura contemporanea, Le nuove frontiere della medicina tra etica e scienza, Vasa filosofo, Nella scrittura di Satta,; Filosofia e letteratura in Karol Wojtyla; Attualità di Noce; Scrittura e memoria della Grande Guerra. Ha partecipato in qualità di relatore ai convegni su Merleau-Ponty (Lecce), Mounier (centro E. Mounier Reggio Emilia), Sartre (Bari, Università Roma TRE, La Sorbona di Parigi), Gramsci (Cagliari), Intellettuali e società in Sardegna nell’Ottocento (Cagliari), Capograssi (Roma),  Noce (Roma); Tuveri (Cagliari), Satta, (Trieste); su Corpo e psiche: l’invecchiamento (Chiavari), su I vissuti: tempo e spazio (Chiavari); è stato relatore al Corso di formazione su Fenomenologia e psico-patologia promosso dal Dipartimento di salute mentale di Massa Carrara.  Ha tenuto lezioni seminariali sul pensiero fenomenologico di Wojtyla a Lublino; Capograssi, sul Diritto penale internazionale a Ginevra, sul pensiero filosofico politico nella Sardegna dell’Ottocento a Zurigo.  È stato responsabile del gruppo di ricerca dell’Ateneo sassarese su L’etica nella filosofia italiana e francese contemporanea, PRIN. Collabora alle riviste Annuario filosofico, Rivista internazionale di Filosofia del diritto, Nouvelle Revue théologique; al Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, alla Enciclopedia Filosofica edita da Bompiani. Ha diretto il Master Mundis per la Dirigenza Scolastica promosso da Sassari in collaborazione con la conferenza nazionale dei Rettori.  Premio "Sardegna-Cultura" Premio Capograssi Altre saggi: “Insegnamento e implicamento empiegamento della filosofia nella scuola secondaria, Tipografia editoriale moderna, Sassari); “La critica di Merleau-Ponty alla concezione tomista dell’uomo e della libertà in S. Tommaso nella storia del pensiero,  Teoria e prassi in A. Pigliaru, Quaderni sardi di filosofia e scienze umane, La Filosofia Cattolica in Italia, Quaderni Sardi di filosofia e scienze Umane); “Pluralismo culturale ed educazione in Colloquio interideologico,“ Orientamenti Pedagogici", La Filosofia dell’educazione in A. Pigliaru; in Quaderni Sardi di filosofia e scienze umane, Se la corrente calda… Un itinerario filosofico: Péguy, Sorel, Mounier, Sartre, Quaderni Sardi di filosofia e scienze umane, M. Ponty, Esistenzialismo, Marxismo, Cristianesimo,, Editrice La Scuola, Brescia); Né rivolta né rassegnazione: saggio Su Merleau-Ponty, Ets, Pisa); “Le corpori nell’esperienza morale” Quaderni Sardi di filosofia e scienze umane, Non vi è terza (né altra via) nell’ “Esprit” di Mounier, Quaderno Filosofico, “Temporalità e prassi” in S. Weil, Progetto, Temporalità e prassi in  Sartre in Sartre, teoria scrittura impegno, V. Carofiglio e G. Semerari, Ed. Dedalo, Bari, Una filosofia disarmata Merleau- Ponty in Esistenza impegno progetto in Merleau-Ponty, G. Invitto, Guida, Napoli); “Storia e prassi” in La ragione della democrazia, Ed. Dell'oleandro, Roma, Giuseppe Capograssi e la cultura filosofico-giuridica in Sardegna, Quaderni sardi di filosofia e scienze umane, Note per una fenomenologia della esperienza religiosa; in Chi è Dio. Università Lateranense, Herder, Roma, Storia della cultura filosofico-giuridica, Enciclopedia della Sardegna, La Filosofia etico-politica di Dettori e la cultura sardo-piemontese tra Settecento e Ottocento, Quaderni Sardi di Filosofia e Scienze Umane, Il nucleo di vita e di luce del Rousseau capograssiano in Due convegni su Capograssi, F. Mercadante, Giuffè, Milano, Filosofia e società in Sardegna tra Settecento e Ottocento in “La Sardegna e la rivoluzione francese” M. Pinna, Editore, La Filosofia giuridica e etico-politica negli intellettuali sardi della prima metà dell’Ottocento: Azuni, D. FoisTola, G. Manno in Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, Editore, Le Radici fenomenologico-capograssiane di S. Satta giurista-scrittore; in Salvatore Satta giurista-scrittore, U. Collu, Edizioni, Nuoro); “Soggetto debole, etica forte: da S. Weil a E. Levinas; in Le Rivoluzioni di S. Weil, G. Invitto, Capone Editore, Lecce, Pigliaru e Gramsci in Socialismo e democrazia, Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, Tracce del postmoderno in Weil, in Moderno e postmoderno nella filosofia italiana oggi, U. Collu, Consorzio per la pubblica lettura S. Satta, Nuoro, Società e filosofia in Sardegna Tuveri, FrancoAngeli, Milano, Cultura barbaricina e banditismo in Pigliaru e M.Pira in L’Europa delle diversità, FrancoAngeli, Milano, Prospettive fenomenologiche nella cultura contemporanea; in Quaderni sardi di filosofia letteratura e scienze umane, Asproni e i filosofi sardi contemporanei in Giorgio Asproni e il suo ‘Diario Politico’, Cuec, Cagliari, Domenico  Azuni, Elogio della pace, a cura di, Assessorato Regionale alla Pubblica Istruzione, Cagliari, Multi-dimensionalità della esistenza, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, D.A. Azuni filosofo della pace, in Francia e Italia negli anni della rivoluzione, Laterza, Bari); “La Preghiera in J.Sartre in Esperienza religiosa e cultura contemporanea, a cura di, Diabasis, Reggio Emilia); Note su “Etica comunitaria” e etica planetaria, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, Temporalità esistenza sofferenza, in Esistenza e i vissuti Tempo» e Spazio, A. Dentone, Bastogi, Foggia); Le Relazioni Intermediterranee e il pensiero di D.A. Azuni, in Il regionalismo internazionale mediterraneo nell’Anniversario delle Nazioni Unite, Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari, La Festa e la via: una lettura fenomenologica, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, Corpo e psiche: l’invecchiamento in Minkoswski, in Corpo e psiche, A. Dentone, L’invecchiamento, Bastogi, Foggia, Cosmopolitismo e federalismo nel pensiero politico sardo dell’Ottocento, in Il federalismo tra filosofia e politica. Edizioni, Questioni Morali); La prospettiva fenomenologica, Istituto Italiano Di Bio-etica, Macroedizioni, Cesena, L’etica della mediazione, in Il problema della pena minorile, FrancoAngeli, Milano, La filosofia in Sardegna, Etica Diritto Politica, Condaghes, Cagliari, Antonio Pigliaru, La lezione di Capograssi, a cura di, Edizioni Spes, Roma); Note su Del Noce e il nichilismo; in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane, Repubblica e civiche virtù, in Lezioni per la repubblica. La festa è tornata in città, Diabasis, Reggio Emilia, K. Wojtyla, L’uomo nel campo della responsabilità, a cura di, Bompiani, Milano, Federalismo e progettualità politico-sociale in Cattaneo e Tuveri, in Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane); Cattaneo e Tuveri in Cattaneo temi e interpretazioni, Corona, Centro Editoriale Toscano, Firenze, Al confine ed oltre. La sofferenza tra normalità e patologia, Edizioni Universitarie, Roma);  J. Sartre, Barionà o il figlio del tuono, a cura di, Marinotti, Milano, Due Filosofi militanti: Carlo Cattaneo e Giovanni Battista Tuveri in Cattaneo e Garibaldi. Federalismo e Mezzogiorno, A. Trova, G. Zichi, Carocci, Roma, Esperienza e pena in Satta in Nella scrittura di Salvatore Satta, Magnum, Sassari, Note Introduttive alla filosofia di Wojtyla, Orientamenti Sociali Sardi); Note sul cristianesimo di Pigliaru, Orientamenti Sociali Sardi, Nov-Dic., Etica e santità in Simone Weil; in Etica contemporanea e santità, Edizioni Rosminiane, Stresa); Legge morale e legge civile in Natura umana, evoluzione ed etica. Annuario di Filosofia, Guerini e Associati, Milano, V. Jankélévitch, Corso di filosofia morale, a cura di, Raffaello Cortina, Milano); Filosofia e letteratura in Karol Wojtyla, Urbaniana University Press, Roma, La phénoménologie de l’agir moral selon Wojtyla, in Nouvelle Revue Theologique,  Prefazione all’analisi dell’esperienza comune in Capograssi, in La vita etica, F. Mercadante, Bompiani Milano, La noia in Jankélévich, in In Dialogo con Vladimir Jankélévich., Petrini, Mimesis, Milano); La filosofia di Capograssi in Esperienza e verità-  Capograssi filosofo oltre il nostro tempo, Il Mulino, Bologna, L’eredità di Capograssi nel pensiero di Pigliaru, in Antonio Pigliaru. Saggi Capograssiani, a cura di, Edizioni Spes, Roma,  Ragione e mistero, in Orientamenti Sociali Sardi, XV,. Il pensiero di Noce sul Magistero della Chiesa, in Attualità del pensiero di Augusto Del Noce,, Cantagalli, Siena, Contro lo scientismo. Una esperienza di vita, in Gesù Di Nazareth all’UniversitàAzzaro, Libreria Editrice Vaticana, Roma,. Libertà di coscienza e religione, in Martha C. Nussbaum, in Nel mondo della coscienza: verità, libertà, santità, Centro Internazionale di Studi Rosminiani, Stresa, Individuo Stato e comunità in Pigliaru, in Le radici del pensiero sociologico-giuridico, A. Febbrajo, Giuffré, Milano,. La pace e la guerra nel pensiero di Cimbali e Vecchio docenti nell’Sassari in Scrittura e memoria della Grande Guerra, A. Delogu e A.M. Morace, Pisa, ETS,  Questioni di senso- Breviario filosofico, Donzelli, Roma,. La vita e il diritto nell’opera di Satta, Nuoro, Lezione di commiato di Antonio Delogu, La Nuova Sardegna, 02 marzo, su lanuovasardegna.gelocal. Remo BodeiAntonio Delogu, su youtube.com. Festival di filosofia.  Wikipedia Ricerca Sardegna e Corsica provincia romana Lingua Segui Modifica Sardegna e Corsica Sardegna e Corsica  Un pavimento a mosaico proveniente da Nora (in alto a destra), le rovine romane di Aleria (in basso a destra), le terme romane di Fordongianus (in basso a sinistra), e le rovine dell'anfiteatro romano di Cagliari (in alto a sinistra). Informazioni generali Nome ufficialeSardinia et Corsica CapoluogoCaralis Dipendente daRepubblica romana, Impero romano Amministrazione Forma amministrativa Provincia romana GovernatoriGovernatori romani di Sardegna e Corsica Evoluzione storica Inizio237 a.C. CausaPrima guerra punica Fine456 CausaInvasione dei Vandali Preceduto daSucceduto da Domini cartaginesiRegno dei Vandali Cartografia Corsica et Sardinia SPQR.png La provincia nell'anno 120 La Sardegna e Corsica (in latino: Sardinia et Corsica) fu una provincia romana di età repubblicana e imperiale. La Sardegna entrò nella sfera d'influenza romana dal 238 a.C. La Corsica due anni più tardi ed entrambe vi rimasero fino all'invasione dei Vandali del 456. Roma occupò la Sardegna nell'intervallo fra la prima e la seconda guerra punica. Già nei primi anni del grande conflitto, precisamente nel 259 a.C., il suo esercito aveva tentato la conquista dell'isola, giungendovi dalla Corsica, ma il console Lucio Cornelio Scipione, dopo essersi impadronito di Olbia, aveva dovuto ritirarsi.  Statuto Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Province romane e Lista dei pretori di Sardegna e Corsica. La Sardegna (in greco Σαρδώ, Sardò) e la Corsica (Κύρνος, Kýrnos),[1] furono annesse, sottraendole alla dominazione punica. I buoni rapporti che intercorrevano tra le popolazioni locali e i Cartaginesi, contrapposti ad un regime di conquista introdotto dai Romani, determinarono una serie di rivolte (in Sardegna. in Corsica) e un'incompleta pacificazione in particolare delle tribù dell'interno, con continue azioni, considerate brigantaggio dai Romani.  L'intera provincia era governata da un pretore(attestato a partire dal 227 a.C.), con capoluogo a Carales (Cagliari), in Sardegna.  Probabilmente l'intero territorio della Sardegna fu considerato ager publicus populi Romani e sottoposto all'esazione di una decima, a cui potevano aggiungersi altre requisizioni e si ritiene che ad un regime simile sia stata sottoposta anche la Corsica. Di una certa importanza era la produzione di grano della Sardegna mentre altre esportazioni erano costituite dal sugheroe da prodotti della pastorizia e dalle saline. La proprietà terriera mantenne in Sardegna il carattere di latifondo, già impostato sotto la dominazione punica.  La situazione della provincia rimase marginale con una scarsa romanizzazione, soprattutto dovuta alla presenza dei reparti militari, e con una forte permanenza della cultura locale. Una prima consistente immigrazione si ebbe nel I secolo a.C. in seguito alle proscrizioni delle guerre civili. Durante il periodo della guerra civile tra Mario e Silla vi vennero dedotte in Corsica le colonie di Mariana (presso Biguglia) e di Aleria. Dopo la morte di Silla, vi riparò Marco Emilio Lepido, che in seguito, sconfitto dal governatore Gaio Valerio Triario, si spostò in Spagna con alcuni seguaci. Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo la provincia fu abbandonata dai pompeiani, ma le diverse città accolsero diversamente le truppe cesariane e furono di conseguenza punite o ricompensate. Cesare fondò la colonia di Turris Libisonis (Porto Torres, sulla costa settentrionale) e attribuì a Carales lo stato di municipio. Parallelamente, in funzione del loro appoggio, a diversi influenti personaggi locali era stata concessa la cittadinanza romana. La romanizzazione non si estese tuttavia mai del tutto nell'interno delle due isole.  Con la riforma augustea nel 27 a.C. la provincia divenne senatoria, ma nel 6 d.C., la necessità di mantenervi un presidio armato contro il persistere del brigantaggio indusse lo stesso Augusto a passarla a provincia imperiale. Fu amministrata sempre da un praefectus Sardiniae a partire da Tiberio, e da Claudio al titolo principale di praefectus Sardiniae fu aggiunto l'attributo procurator Augusti. Passò a varie riprese da senatoria, governata da un propretore, a imperiale, a seconda delle necessità contingenti. La provincia fu occupata da alcuni latifondi di proprietà imperiale e interessata dallo sfruttamento delle minieree fu spesso utilizzata come luogo di confino (per esempio per Seneca).  Storia delle due isole romaneModifica  Il Mediterraneo occidentale nel 348 a.C. al tempo del secondo trattato tra Roma e Cartagine. Frattanto gli Etruschi subiscono l'attacco dei Galli e di Roma Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia della Sardegna, Storia della Corsica e Trattati Roma-Cartagine. Sembra che il primo serio interessamento di Roma alla Corsica si ricavi da un testo di argomento insospettabile: è infatti in Teofrasto, il botanico greco, che si legge di una spedizione romana in Corsica finalizzata alla fondazione di una città. Le 25 navi della spedizione incorsero però in un inatteso inconveniente, rovinandosi le vele con la selvaggia e gigantesca vegetazione, i cui rami crescevano e si sporgevano dai golfi e dalle insenature dell'isola sino a lacerarle irrimediabilmente; e, per completare il disastro, la zattera che caricava 50 vele di ricambio affondò con tutto il carico[5]. La spedizione sarebbe avvenuta intorno al IV secolo a.C., a questo periodo infatti diversi studiosi, fra i quali il Pais[6], riferiscono il brano del botanico.  Fallita la prima spedizione, non era cessata l'attenzione dell'Urbe per il mare e le due isole. Per questo interesse giunse anche, all'incirca nel 348 a.C.[7], a stipulare due trattati con Cartagine, entrambi riguardanti Sardegna e Corsica; ma se rispetto alla prima isola i passaggi dei trattati sono ben chiari[8], i patti sulla seconda sono tutt'altro che nitidi, al punto che Servio osserva che in foederibus cautum est ut Corsica esset medio inter Romanos et Carthaginienses[9]. Anche Polibio, narrando dei trattati[10], non menziona la Corsica e da questo silenzio, insieme al fatto che l'isola non figurava nemmeno nelle descrizioni dei territori a controllo cartaginese, il Pais ed altri dedussero che la facoltà di controllarla che tempo prima Cartagine aveva pattuito con gli Etruschi, si fosse da questi trasmessa a Roma[6]. Tuttavia lo stesso Pais ricorda, per converso, che Cartagine non aveva mai rinunziato a mire sull'intero Mediterraneo, e che riponeva nella Corsica un interesse specifico, giacché a partire dal 480 a.C.ne assoldava periodicamente fidati mercenari; questa circostanza, unita ad una facile riflessione sull'importanza strategica di un'isola a vista, anzi dirimpettaia delle rive liguri, toscane e laziali, punto quindi di osservazione e di attacco, parrebbe smentire l'ipotesi di un disinteressamento di Cartagine come causa del silenzio dei trattati[6].  L'occupazioneModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Prima guerra punica. Dopo lo scoppio della prima guerra punica nel 264 a.C., il console romano Lucio Cornelio Scipione nel 259 sbarcò in Corsica presso lo stagno di Diana[11], a circa 3 km da Aleria, e assediò la città; sebbene l'invasore contasse sull'effetto sorpresa, Aleriaresistette a lungo e dopo la capitolazione Scipione la fece saccheggiare con ferocia, ciò che secondo Floroavrebbe diffuso lo sgomento fra le popolazioni corse[12]. Prima di aver consolidato l'occupazione della Corsica, Scipione passò in Sardegna dove secondo Giovanni Zonara i locali erano in rivolta contro Roma in quanto sobillati dal generale cartaginese Annone[13]. Sulla rivolta non vi sono dubbi, ma sono state espresse perplessità a proposito dell'asserita fomentazione cartaginese, ad esempio il Dyson definì l'asserzione di Zonara a cryptic passage.[14]. A ogni buon conto, Scipione uccise Annone[15] e ne organizzò il funerale. Al suo rientro a Roma, il console celebrò il trionfo[17] per la vittoria su Cartaginesi, Sardi e Corsi.   Le Bocche di Bonifacio che separano le due isole L'anno successivo, nel 258 a.C., Gaio Sulpicio Patercolo sbarcò nella zona di Sulci in Sardegna, ma nei venti anni che seguirono non sono riportate attività dell'esercito Romano in Sardegna. La pace lasciò così l'isola sotto l'egemonia di Cartagine, anche perché la suddivisione del Mediterraneo in sfere d'influenza aveva portato i Cartaginesi, una volta persa la Sicilia, a spostare la propria attenzione verso altre zone al di fuori della sfera d'influenza Romana. Ma in quello stesso anno, seguendo l'esempio dei commilitoni d'Africa, i mercenari stanziati da Cartagine in Sardegna si ribellarono e s'impadronirono del potere nell'isola, compiendovi ogni sorta di efferatezze finché i Sardi, esasperati, insorsero e li cacciarono dalla loro terra. L'orda dei sanguinari invasori si rifugiò allora in Italia dove invitò i Romani a prendere possesso della Sardegna, momentaneamente indifesa. L'invito fu accolto: Roma, cogliendo l'occasione dei preparativi punici per la rioccupazione dell'isola, accusò Cartagine di preparare l'invasione del Lazio e, nel 238 a.C., inviò le sue legioni in Sardegna. Cartagine, che non era allora in condizioni di intraprendere una nuova guerra contro Roma, subì il sopruso.  Il senato romano dichiarò guerra ai Corsi[18] ed inviò una spedizione di conquista guidata da Licinio Varo, non coerente con l'avvenuta occupazione dell'isola attestata in alcuni storici romani[19]. Il comandante Varo, comunque, conscio dell'esiguità della flotta assegnatagli, fece precedere l'attacco principale da un'operazione decentrata meno impegnativa, onde fiaccare le difese corse, facendo sbarcare sull'isola un corpo separato di spedizione al comando dell'ex console Marco Claudio Clinea. Prima di questa operazione, Clinea aveva già compromesso la sua reputazione presso i Romani, avendo osato andare in battaglia contro l'avviso degli àuguri[20] e avendo pure commesso un sacrilegio consistente nell'avere (o aver fatto) strangolare dei galli sacri; ansioso di riguadagnare prestigio, egli mosse da solo contro il nemico e ne fu sconfitto.I Focei lo obbligarono a siglare un umiliante trattato presto sconfessato da Varo, che lo ignorò o lo infranse, a seconda dei punti di osservazione, e attaccò quando gli avversari, i quali dopo la firma del trattato non si attendevano un attacco e avevano quindi smobilitato.[21]. Varo li vinse facilmente e conquistò territori nella parte meridionale dell'isola; poi tornò a Roma dove chiese la celebrazione del trionfo, che gli fu però negato. Quanto allo strangolatore di galli, Clinea, Roma decise di lasciarlo in mano ai Corsi presumendo che lo avrebbero ucciso per esser in qualche modo venuto meno (con l'attacco guidato da Varo) al trattato sottoscritto, ma questi lo liberarono ed anzi lo rinviarono a Roma indenne; il Senato tuttavia non cambiò idea e, dopo averlo riportato in città, lo condannò a morte, inducendo Valerio Massimo a chiosare che hic quidem Senatus animadversionem meruerat[21].   Le tribù Nuragiche (XVII-II secolo a.C.). Le prime rivolteModifica Così come i Corsi, anche le popolazioni sarde che se in precedenza avevano finito con l'accettare la presenza dei Cartaginesi collaborando parzialmente con loro, ora non erano affatto disposte a subire il dominio di questa nuova gente, anch'essa venuta d'oltremare con le armi in pugno, ed intrapresero subito un'accanita resistenza all'invasore nei modi di una ostinata e persistente guerriglia. Essi infatti erano armati alla leggera: utilizzavano le pelli di muflonecome corazze naturali, oltre ad un piccolo scudo ed una piccola spada.[1]  Già nel 236 infatti, due anni dopo la conquista da parte romana del centro sardo-punico della Sardegna, i Romani condussero varie operazioni militari contro i Sardi che rifiutavano di sottomettersi. Nel 235, sobillati dai Cartaginesi che "agivano segretamente", i Sardi si ribellarono, ma la rivolta fu soffocata nel sangue da Manlio Torquato, che avrebbe celebrato il trionfo sui Sardi il 10 marzo del 234.  Nel 233 altre rivolte furono sanguinosamente represse dal Console Carvilio Massimo, il cui trionfo sarebbe stato celebrato il 1º aprile dello stesso anno. Nel 232fu il console Manio Pomponio a sconfiggere i Sardi ed a ricevere gli onori del trionfo il 15 marzo. La resistenza, però, era ben lungi dall'essere stata sedata ed anzi il clima si fece rovente. Sempre nel 233 a.C. i consoli Marco Emilio Lepido e Publicio Malleolo, di ritorno da una spedizione in Sardegna in cui avevano razziato dei villaggi, furono costretti da una tempesta a prendere terra in Corsica; gli abitanti li assalirono, massacrarono i soldati e li depredarono del bottino sardo[13]. Il Senato di Roma inviò allora nell'isola il console Caio Papirio Maso, il quale dopo una serie di buoni successi nelle zone costiere, si diede ad inseguire i corsi (per Roma "i ribelli") sulle montagne. Qui i padroni di casa ebbero facilmente la meglio, dovendo il romano fare i conti anche con la scarsità di rifornimenti e perdendo uomini, oltre che per le azioni militari, anche per la denutrizione delle sue truppe[22]. Papirio fu costretto ad una resa e sottoscrisse un altro trattato i cui dettagli non sono noti, ma che assicurò un buon periodo di pace.[13][23] In seguito Roma completò l'occupazione della Corsica durante la prima guerra punica, dando l'avvio ad una fase di dominazione che durò ininterrotta per circa sette secoli.  Nel 231, data la grave situazione di pericolo, furono inviati addirittura due eserciti consolari: uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone, e uno, guidato da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non ottennero il trionfo, dati i risultati fallimentari conseguiti. E a poco valse a Papirio Masone celebrare di sua iniziativa il trionfo, negatogli dal senato, sul monte Albano anziché sul Campidoglio e con una corona di mirto anziché di alloro.  La provincia di Sardegna e CorsicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lista dei pretori di Sardegna e Corsica. Nel 226 e 225 si verificò una recrudescenza dei moti, ma ormai Roma era fortemente intenzionata ad assicurarsi il dominio del Mar Mediterraneo, e dunque il possesso della Sardegna e della Corsica, che continuavano ad essere di decisiva importanza; così, già dal 227, le due isole (perlomeno le parti controllate da Roma) ottennero la forma giuridica ed il rango di Provincia - la seconda dopo la Sicilia - e vi fu inviato il pretore Marco Valerio Levino (?) per governarla[24]. Per domare gli ultimi focolai, stavolta fu inviato l'esperto Console Gaio Atilio Regolo, con 2 legioni, ai primi di maggio del 225 a.C.  La rivolta sarda di Ampsicora e gli anni della guerra AnnibalicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Seconda guerra punica.  Mappa della rivolta di Ampsicora in Sardegna (215 a.C.) Verso la fine del 216 a.C. giunse a Roma una lettera del propretore Aulo Cornelio Mammula, il quale si lamentava del fatto che non erano stati corrisposti gli stipendia ai suoi soldati di stanza nell'isola, e che vi erano gravi carenze di approvvigionamenti di grano. Allo stesso fu risposto di dover provvedere con i propri mezzi, poiché al momento non vi era alcuna possibilità di soddisfare tali richieste.[25]  In assoluto, la più importante rivolta dei Sardi fu quella del 215 a.C., scoppiata all'indomani delle grandi vittorie di Annibale in Italia. Livio sostiene che:  «[...] l'animo dei Sardi era stanco della lunga durata del dominio romano, spietato ed avido [...]; erano stati oppressi da pesanti tributi e con ingiuste imposizioni di rifornimenti di frumento.»  (Livio) Il nuovo pretore inviato nell'isola, Quinto Mucio Scevola, si ammalò probabilmente di malaria dalla descrizione che ne fece Tito Livio.[26] E quando si venne a sapere della sua malattia a Roma, gli vennero inviati dei rinforzi (pari a 5.000 fanti e 400 cavalieri), posti sotto il comando di Tito Manlio Torquato.[27]  Un autorevole esponente dell'aristocrazia terriera sardo-punica, quell'Amsicora (o Ampsicora) che Tito Livio definì: «qui tum auctoritate atque opibus longe primis erat» (colui il quale in quel tempo era largamente primo per autorità e per ricchezze), era infatti riuscito non solo a mettere in campo un esercito sardo abbastanza consistente, ma anche ad ottenere rinforzi militari da Cartagine, inviandovi ambasciatori in segreto. Secondo alcune fonti insieme ad Amsicora a condurre la rivolta si trovava pure Annone, un ricco cittadino punico di Tharros[28]. Cartagine sostenne la rivolta inviando una flotta forte di 15.000 armati, sotto il comando di Asdrubale il Calvo.[28][29] Il piano di Amsicora era quello di dare battaglia solo quando tutte le forze disponibili si fossero riunite. Per continuare il reclutamento tra i sardi dell'interno, lasciò il comando al figlio Iosto a Cornus con una parte dell'esercito. I rinforzi di Cartagine però non arrivarono in tempo per colpa di una tempesta che dirottò le navi sulle isole Baleari dove rimase per molto tempo per essere riparata;[30] e i Sardi dell'interno indugiarono troppo prima di unirsi al suo gruppo. Iosto accettò imprudentemente la battaglia offerta dal comandante Manlio Torquato. L'esercito sardo fu sconfitto subendo la perdita di 3.000 soldati, 800 furono fatti prigionieri[28].  Asdrubale il Calvo intanto raggiunse la Sardegna, sbarcò a Tharros e respinse i Romani verso Caralis[31]. A loro si unì Amsicora con il resto dell'esercito sardo. Lo scontro con i Romani avvenne nella piana del Campidano meridionale, tra Decimomannu e Sestu[28]. Dopo una cruenta battaglia la coalizione sardo-punica fu duramente sconfitta, morirono 12.000 tra Sardi e Cartaginesi e 3.700 furono fatti prigionieri fra i quali Asdrubale il Calvo ed Annone[28]. Iosto morì in battaglia. Amsicora affranto dal dolore per la morte del figlio, non volendo finire nelle mani dei Romani si uccise[28].  Alla fine dell'estate del 210 a.C., una flotta cartaginesedi 40 navi, comandata da Amilcare apparve davanti alla città di Olbia, situata nella costa nordest della Sardegna e la devastò;[32] poi quando apparve il pretore Manlio Vulsone con l'esercito, il comandante cartaginese si affrettò ad allontanarsi fino a raggiungere Caralis (Cagliari), che saccheggiò e da lì fece ritorno in Africa con un ingente bottino.[33]  Le rivolte del II secoloModifica  Romania e Barbaria Il II secolo a.C. fu, specialmente nella sua prima parte, un periodo di importanti fermenti insurrezionali. Nel 181 a.C. ci fu una rivolta dei Corsi, sedata nel sangue dal pretore Marco Pinario Posca, che ne uccise circa 2.000 e fece un certo numero di schiavi[34]. Nel 173 a.C. una nuova rivolta fece intervenire Attilio Servato, pretore in Sardegna, che fu battuto e costretto a ripararsi sull'altra isola[35]; Attilio chiese rinforzi a Roma, questa inviò Caio Cicerio che, dopo aver fatto voto a Giunone Moneta di erigerle un tempio in caso di successo, ottenne un nuovo sanguinoso successo, con 7.000 corsi uccisi e 1.700 fatti schiavi[36]. Nel 163 a.C. a domare una nuova rivolta fu invece Marcus Juventhius Thalna, delle cui gesta non è stato tramandato. Oltre al silenzio letterario sulla spedizione, colpiscono due aspetti anche più singolari del poco che ne è stato tramandato: il primo è che dopo aver avuto notizia del successo il senato romano indisse delle preghiere pubbliche, il secondo è che saputo a sua volta di quanto importante fosse stato considerato il suo successo, Thalna ne trasse tanta emozione da addirittura morirne[37]. Morto Thalna, la ribellione dovette riprendere immediatamente, sostiene il Colonna[21], poiché Valerio Massimo, pur senza parlare di altre rivolte, segnala che dalla Sardegna dovette allungarsi sull'isola corsa anche Scipione Nasica a completare la pacificazione; circa la complessiva azione romana di repressione delle insurrezioni, lo stesso Colonna suggerisce inoltre che in nessun caso debba essersi trattato di successi pieni poiché, oltre che al primo, a nessun altro condottiero fu poi più concesso il trionfo[21].  La resistenza dei Sardi si protrasse ancora nel II secolo a.C. Per sedare la ribellione dei Balari e degli Iliesi del 177/176 a.C., il Senato inviò il console Tiberio Sempronio Gracco al comando di due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più 300 cavalieri, cui si associarono altri 1.200 fanti e 600 cavalieri fra alleati e Latini. In questa rivolta persero la vita 27.000 sardi (12.000 nel 177 e 15.000 nel 176); in seguito alla sconfitta, a queste comunità fu raddoppiato il gravame delle tasse, mentre Gracco ottenne il trionfo. Tito Livio documenta l'iscrizione nel tempio della dea Mater Matuta, a Roma, dove i vincitori esposero una lapide celebrativa che diceva:« Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco, la legione e l'esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l'esercito sano e salvo e ricco di bottino; per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove.» La Sardegna in epoca romana aveva appena 1/5 dei suoi abitanti attuali (300.000 contro 1.600.000 attuali) e la Barbagia (più o meno la provincia di Nuoro) poteva avere allora appena 55 000 abitanti (1/5 dei suoi attuali 280.000). Se l'epigrafe raccontava il vero, i Romani avevano ucciso la metà degli abitanti, per di più tutti maschi e adulti[31].  Le rivolte dei Sardi non si erano concluse, ma bisognò attendere gli anni 163 e 162 a.C. per vederne di nuove (13-14 anni dopo lo sterminio compiuto da Sempronio Gracco)[28]. Non si sa molto su queste rivolte poiché andarono perduti i testi di Tito Livio successivi al 167. Si sa però da altre fonti che le sollevazioni causate dall'eccessiva pressione fiscale dei pretori romani continuarono e gli eserciti e i generali romani che si susseguirono nel compito di domare questa terra utilizzarono sempre la stessa strategia: eliminare il maggior numero di Sardi possibile.  Tra le ultime rivolte di una qualche importanza vanno citate quelle del 126 e del 122: quest'ultima permise a Lucio Aurelio di celebrare l'8 dicembre il penultimo trionfo romano sui Sardi. L'onore però dell'ultimo fu dato dal Senato al console Marco Cecilio Metello che nel 111 a.C., dopo 127 anni di lotta, sconfisse l'ultima resistenza dei Sardi uniti (quelli delle coste e dell'interno)[38]. Da questo momento, i Sardi delle zone costiere e delle pianure dell'Isola smisero di ribellarsi e col passare del tempo si romanizzarono. Continuarono invece le ribellioni delle seguenti tribù dell'interno che costrinsero le guarnigioni romane a estenuanti campagne militari.  Ilienses (siti tra il Marghine ed il Goceano) Balari (abitanti il Monteacuto e parte della Gallurameridionale) Corsi (ubicati nella estremità settentrionale della Sardegna) Olea - "Sardi Pelliti" o Aichilensens (così definiti dall'erudito geografo Tolomeo, dal greco aix, aigòsovvero vestiti di pelli di capra), abitanti la regione del Montiferru: arroccati nelle fortezze di sa Pattada Cunzada (959 m) - Scano di Montiferro -, Badde Urbara (900 m) - Santu Lussurgiu -, nei nuraghi di Leari (850 m), su Crastu de sa Chessa (745 m), Funtana de Giannas (690 m) - Scano di Montiferro - , Silbanis e Monte Urtigu (1050 m) - Santu Lussurgiu Celsitani, Nurritani, Cunusitani, Galillensi (odierna Barbagia), Parati, Sossinati e Acconiti (nel Monte Albo e nei Monti Remule) costituenti la cosiddette Civitates Barbariae, dimoranti nell'area chiamata Barbària e probabilmente facenti parte dell'etnia degli Ilienses[39]. In queste epoche, un gran numero di Sardi che erano stati fatti prigionieri furono venduti come schiavi nei mercati di Roma, al punto che divenne proverbiale la frase di Livio: "sardi venales" (sardi a basso costo).  Mario fondò in Corsica la città di Mariana (Colonia Mariana a Caio Mario deducta), sita presso l'attuale comune di Lucciana verso la foce del Golo, nel 105 a.C. Da questo momento iniziò la colonizzazione vera e propria e sull'isola fiorirono ville rustiche e suburbane, villaggi e insediamenti di ogni tipo, incluse le terme di Orezza e Guagno.  Le Guerre SocialiModifica Durante le guerre civili romane la Sardegna fu dapprima spinta verso la fazione mariana dal suo governatore Quinto Antonio e poco dopo indotta a schierarsi nel campo opposto dal sopraggiungere del rappresentante di Silla. Nell'81 a.C. furono i legionari di Silla a trovare in Corsica il luogo di pensionamento, stavolta presso Aleria.  Morto Silla, il pretore Caio Valerio Triario mantenne la Sardegna fedele al partito senatorio capeggiato da Pompeo (l'isola pagò a quest'ultimo un enorme tributo in acciaio per le armi del suo esercito nel 47 a.C.), finché Carales (Cagliari) non si schierò con Cesare, imitata poco dopo da tutto il resto dell'isola. Fu scacciato il luogotenente di Pompeo, Marco Cotta, e fu accolto favorevolmente quello di Cesare, Quinto Valerio Orca. I pompeiani non si diedero per vinti e iniziarono una serie di azioni guerresche intese alla riconquista delle città costiere. Sulci si arrese mentre Carales resistette: per questo motivo, Cesare punì la prima e premiò la seconda[40]. La situazione si capovolse di nuovo nel 44 a.C., quando la Sardegna, assegnata ad Ottaviano, e invece occupata da SESTO POMPEO MAGNO che la tenne come preziosa base per la sua lotta contro i cesariani fino al 38 a.C., quando, tradito dal suo luogotenente, fu definitivamente soppiantato da Ottaviano nel possesso dell'isola.  Con quella data finalmente ebbe termine per la Sardegna il periodo delle lotte violente e dei bruschi sovvertimenti politici, con le loro funeste conseguenze economiche, durato esattamente duecento anni.  Nel 44 a.C. Diodoro Siculo visitò la Corsica e notò che i còrsi osservavano tra loro regole di giustizia e di umanità che valutò più evolute di quelle di altri popoli barbari; ne stimò il numero in circa 30.000 e riferì che essi erano dediti alla pastorizia e che marchiavano le greggi lasciate libere al pascolo. La tradizione della proprietà comune delle terre comunali non fu eradicata del tutto se non nella seconda metà del XIX secolo.  I primi due secoli dell'ImperoModifica  Busto di Augusto, museo archeologico nazionale di Cagliari Il 13 gennaio del 27 a.C. le province dell'Impero romano furono ripartite tra le province affidate all'Imperatore Augusto, governate da legati di rango senatorio, e province affidate al senato, tra cui la Sardegna e Corsica[41], governate da proconsoli (proconsules) di rango senatorio . Anche nelle province senatorie l'Imperatore aveva suoi rappresentanti di rango equestre detti procuratori (procuratores)  Presso Aleria e Mariana si approntarono basi secondarie della flotta imperiale di Miseno. I marinai còrsi arruolati presso i porti dell'isola furono tra i primi a ottenere la cittadinanza romana (sotto Vespasiano, nel 75). Analogamente a quanto avveniva in altre province, i Romani si guadagnarono il rispetto e la collaborazione dei capi locali (a cominciare dai Venacini, tribù del Capo Corso), riconoscendo loro funzioni di governo locale ed apportando ricchezza con la messa a profitto delle terre sfruttabili in collina e lungo le coste.  Nel 6 d.C. i Sardi si ribellarono, non solo all'interno ma anche nelle pianure, e manifestarono il loro malcontento unendosi ai pirati del Tirreno[41]. La violenza di questa rivolta costrinse Augusto a rimuovere i senatori dal comando della Sardegna ed a prenderne lui stesso il controllo diretto[41]. Fu inviato un distaccamento di legionari, comandati da un prolegato (al posto del legato) di rango equestre[41] o da un prefetto, a rinforzare la presenza militare sull'isola che prima era affidata solo ad alcune coorti ausiliarie. La rivolta fu così violenta che alcuni storici hanno ipotizzato che la Sardegna e la Corsica fossero state divise e affidate a 2 governatori di pari grado indipendenti l'uno dall'altro; è infatti attestata l'esistenza di un praefectus corsicae. Più accreditata è però l'ipotesi che vuole che questo prefetto di Corsica fosse un subordinato del governatore della Sardegna.  Svetonio ci dice che Augusto visitò tutte le province tranne la Sardegna e l'Africa poiché le condizioni del mare non glielo permisero, mentre quando il mare non glielo impediva non c'era bisogno che partisse: questo fa capire che la rivolta pur essendo violenta non durò molto. Infatti nel 19 Tiberio sostituì il distaccamento di legionari con 4000 liberti (o figli di liberti) ebrei. La situazione ritornò tranquilla e Claudio ridette il comando al senato.  Nerone mandò in esilio in Sardegna Aniceto, ex precettore dell'imperatore ed ex prefetto della flotta di Miseno. Aniceto, su istigazione di Nerone ne aveva ucciso la madre, Agrippina e qualche anno dopo, per spianare la strada a Poppea "confessò" una relazione con Claudia Ottavia moglie legittima di Nerone e fanciulla di specchiata virtù[41].    La Tavola di Esterzili risalente al 69, durante regno di Otone, e riportante un decreto del Proconsole della Sardegna Lucio Elvio Agrippa atto a dirimere una controversia tra i Gallilensi e i coloni Patulcenses Campani Probabilmente per evitare fughe di notizie o ricatti Aniceto fu spedito in Sardegna dove visse fra gli agi al sicuro anche da eventuali sicari dell'imperatore.[42]Seneca, il tutore di Nerone, passò dieci anni in esilio in Corsica a partire dal 41[41].  Nel 73 Vespasiano, tolse al senato il controllo della Sardegna - forse di nuovo in fermento - e la affidò a un procuratore[43]. L'imperatore Traiano tra il 115 e il 117ristrutturò e potenziò il centro di Aquae Hypsitanaeche assunse in suo onore il nome di Forum Traiani[43].  Il II secolo fu un momento di sviluppo e di prosperità anche per la Sardegna: tutti gli abitanti, anche i barbaricini, si mostravano contenti della politica romana (almeno secondo la storiografia ufficiale) e ben presto tutta l'isola avrebbe parlato latino (la lingua dei Cartaginesi è attestata fino al principato di Marco Aurelio). In questo periodo non ci furono rivolte ed i Romani ebbero la possibilità di ricostruire e migliorare la rete stradale punica spingendola anche all'interno, costruirono terme, anfiteatri, ponti, acquedotti, colonie e monumenti.  La ricchezza della Sardegna era dovuta ad uno sfruttamento agricolo e minerario senza precedenti: l'isola infatti esportava piombo, ferro, acciaio e argento grazie alle sue miniere, e grano per 250.000 persone. Ma nonostante tutto la Sardegna venne sempre considerata, e non solo sotto i Romani, come una terra lontana e utile solo per isolare prigionieri e nemici dell'impero. Tra le varie persone che giunsero in Sardegna dal mare vi erano numerosi criminali, rivoluzionari ma anche tantissimi cristiani tra cui anche i papi Callisto (174) e papa Ponziano (235) e il famoso prete Ippolito[44].  I governatori, in questa fase, sembravano di fatto dei coordinatori manageriali, con esperienza nel rifornimento e nel trasporto del grano, più che uomini d'arme. Sappiamo ora con certezza che, nel 170, la Sardegna era sotto il controllo senatoriale. Se Ippolito è preciso nella sua terminologia, il governatore della provincia era chiamato procurator. Questi governatori (procuratori) gestirono il territorio in modo pacifico fino al 211, ma dopo, come del resto in tutto l'impero, riprese il malcontento della popolazione, che costrinse i governatori a reprimere le rivolte con l'uso della forza, nei casi più gravi.  Gli ultimi tre secoli dell'ImperoModifica Nel 226 la situazione era cambiata rispetto a quella del secolo precedente; i governatori erano quasi tutti militari ed alcuni, come Tizio Licinio Hierocle e Publio Sallustio Sempronio, erano anche uomini con esperienze di guerra. Il malcontento andò aumentando poiché le tasse erano alte, il latifondo si diffondeva e gli agricoltori erano sempre più legati alla terra. Il fatto che nel 212 grazie a Caracalla i Sardi e i Corsi, come tutti gli abitanti dell'Impero, avessero ottenuto la cittadinanza romana[44], passò in secondo piano poiché questo onore era in concreto legato a tasse aggiuntive.  Tra il 245 e il 248, durante il regno di Filippo l'Arabo, fu intrapresa la ristrutturazione e risistemazione dell'impianto viario della provincia che cominciò con Publio Elio Valente e continuò anche durante il breve regno di Emiliano[45].  Ricordiamo, inoltre, di numerosi martiri del periodo. San Simplicio, San Gavino, San Saturnino, San Lussorio e Sant'Efisio in Sardegna[46] mentre Santa Devota (martire attorno al 202, persecuzione di Settimio Severo, o al 304, persecuzione di Diocleziano) è, assieme a santa Giulia, una delle prime sante còrse di cui si sia avuta notizia. Secondo la leggenda, la nave che ne trasportava il feretro verso l'Africa fu gettata da una tempesta sul litorale monegasco. Per questo sarebbe divenuta la patrona del Principato di Monaco e della famiglia Grimaldi. Santa Giulia (martire durante la persecuzione di Deciodel 250, o quella di Diocleziano), è la patrona di Corsica e di Brescia, città dove riposano le sue reliquie dopo che vi fu fatta trasportare da Ansa, moglie del re longobardo Desiderio nel 762. Santa Giulia è patrona anche di Livorno, dove le spoglie della santa avrebbero fatto tappa provenendo dalla Corsica. A queste martiri se ne aggiunge un'intera schiera, tra i quali san Parteo, che fu forse il primo vescovo di Corsica. Il primo vescovo còrso di cui si abbia notizia certa è Catonus Corsicanus, che partecipò, così come il vescovo di Caralis Quintinasio[45], al Concilio di Arlesindetto da Costantino I nel 314.   I domini dei Vandali attorno al 456, dopo la conquista di Sardegna e Corsica. Nel 286 Diocleziano unì la provincia alla Dioecesis Italiciana[47]. Dopo la divisione della diocesi attuata da Costantino, venne compresa nell'Italia Suburbicaria.  Sardegna e Corsica rimasero sotto Roma per tutto il convulso IV secolo e i primi decenni del V (nell'impero romano d'Occidente), fino a quando nel 456 i Vandali, di ritorno dalla penisola, dove avevano saccheggiato Roma, en passant le conquistarono e le annessero al loro regno. Ma vinsero solo sulle coste, poiché i Sardi dell'interno, ormai pratici, immediatamente si ribellarono ai Vandali impedendo loro di entrare nella loro zona. Aleria, in Corsica, fu saccheggiata e, abbandonata, finì in rovina, lo stesso destino toccò ad Olbia.  La parte romanizzata della Sardegna, grazie ad un certo Goda, che era un governatore vandalo dell'isola di origine gotica, dopo essersi ribellato al potere centrale nel 533 resistette per un certo periodo ai Vandali assumendo il titolo di "Rex"[48].  Difesa ed esercitoModifica I Sardi entrarono anche a far parte dell'esercito romano dando il loro modesto contributo ovunque vi fossero truppe; infatti, per quanto riguarda i legionari, non essendo un'isola molto popolata, e dato che i cittadini non avevano avuto la cittadinanza (ottenuta dopo la riforma di Caracalla), il numero fu sempre bassissimo ed entra nelle statistiche solo nell'epoca successiva ad Adriano.  Per quanto riguarda gli ausiliari, i Sardi fornirono (come isola Sardegna) 3 coorti, mentre come provincia (Sardegna e Corsica) 6 coorti, 3 per ciascuna isola con un numero maggiore dei Sardi sui Corsi.  La "Cohors I Sardorum" era probabilmente stanziata a Cagliari nei primi tre secoli d.C., mentre la "Cohors II Sardorum" fondata al tempo di Adriano, era stanziata a Sur Djuab, a circa 100 km a sud di Algeri.  Il riscatto della Sardegna avvenne con la flotta; infatti i Sardi erano la prima fonte di reclutamento occidentale della flotta di Miseno. Considerando invece tutto l'impero, l'isola diventa la quarta fonte di reclutamento della stessa flotta, battuta soltanto dalle province d'Egitto, d'Asia e della Tracia che avevano una popolazione molto più grande.  Geografia politica ed economicaModifica Corsica Strabone, che scrisse durante il principato di Augustoe Tiberio, descriveva la Corsica come un'isola scarsamente abitata, con un territorio sassoso e per lo più impraticabile.[1] I suoi abitanti risultavano ancora dei selvaggi che vivevano di rapine.[1]  «Quando i generali romani vi fanno incursioni e [...] prendono una gran parte della popolazione, rendendola schiava, che poi la si trova a Roma, fa meraviglia per quanto in loro vi sia di bestiale e selvaggio. E questi o non riescono a sopravvivere, o se rimangono in vita, logorano talmente i loro proprietari per la loro apatia, che questi si pentono [di averli acquistati], anche se li hanno pagati poco.»  (Strabone, Geografia, V, 2, 7.) Sardegna Strabone descrive la Sardegna come un territorio roccioso e non ancora del tutto pacificato. Essa possiede un territorio interno molto fertile di ogni prodotto, in particolare di grano.[1] Purtuttavia, così come nei confronti delle popolazioni corse, anche di quelle sarde le fonti romane (a differenza dei miti greci[49]) non riportano generalmente una buona opinione.  (LA)  «A Poenis admixto Afrorum genere Sardi non deducti in Sardiniam atque ibi constituti, sed amandati et repudiati coloni.»  (IT)  «Dai Punici, mescolati con la stirpe africana, sorsero i Sardi che non furono dei coloni liberamente recatisi e stabilitisi in Sardegna, ma solo il rifiuto di cui ci si sbarazza[50][51].»  (Cicerone, Pro M. Scauro, 42) Il passaggio dei Romani lasciò numerose tracce nella geografia della Sardegna per l'importante opera di mappatura del territorio, del quale si ebbero le prime serie catalogazioni, ed ovviamente nella toponomastica, di cui parte non è stata ancora soppiantata nonostante il tempo trascorso. Le Bocche di Bonifacio, che separano la Sardegna dalla Corsica, erano un tratto di mare molto temuto dai romani per via delle correnti che potevano far affondare le loro navi ed erano dette Fretum Gallicum. L'isola dell'Asinara, famosa per il carcere chiuso solo pochi anni fa, era detta Herculis mentre le isole di San Pietroe di Sant'Antioco erano dette rispettivamente Accipitrum la prima e Plumbaria la seconda; Capo Teulada, la punta meridionale dell'isola era chiamata Chersonesum Promontorium mentre Punta Falcone, l'opposto settentrionale di Capo Teulada, era detta Gorditanum Promontorium; l'attuale fiume Tirso era chiamato Thyrsus.   Le antiche tribù còrse e le principali città e strade in epoca Romana. Maggiori centri provinciali e tribù autoctoneModifica Corsica Prima Strabone[1] e poi, intorno al 150, il geografoClaudio Tolomeo, nella sua opera cartografica, offrì una descrizione piuttosto accurata della Corsica preromana, elencando:  8 fiumi principali, tra i quali il Govola-Golo e il Rhotamus-Tavignano; 32 centri abitati e porti, tra i quali Blesino,[1]Centurinon (Centuri), Charax,[1] Canelate (Punta di Cannelle), Clunion (Meria), Enicomiae,[1] Marianon(Bonifacio), Portus Syracusanus (Porto Vecchio), Alista (Santa Lucia di Porto Vecchio), Philonios(Favone), Mariana, Vapanes[1] e Aleria; 12 tribù autoctone (in greco, latino e loro localizzazione): Kerouinoi (Cervini, Balagna); Tarabenoi (Tarabeni, Cinarca); Titianoi (Titiani, Valinco); Belatonoi (Belatoni, Sartenese); Ouanakinoi (Venacini, Capo Corso); Kilebensioi (Cilebensi, Nebbio); Likninoi (Licinini, Niolo); Opinoi (Opini, Castagniccia, Bozio); Simbroi (Sumbri, Venaco); Koumanesoi (Cumanesi, Fiumorbo); Soubasanoi (Subasani, Carbini e Levie); Makrinoi (Macrini, Casinca). Sardegna Plinio ci informa che "In essa (la Sardegna), i più celebri (sono): tra i popoli, gli Iliei, i Balari e i Corsi"[52]; vengono inoltre menzionati più volte altri popoli minori come i Parati, i Sossinati e gli Aconiti, che secondo gli storici romani abitavano nelle caverne e depredavano i prodotti degli altri Sardi che lavoravano la terra e che con le loro navi si spingevano fino alle coste dell'Etruria per depredarla.[1]  Tuttavia bisogna tener presente che i luoghi abitati da questi popoli minori videro molti secoli prima dell'arrivo dei Romani il fiorire della civiltà Nuragica, come in tutto il resto della Sardegna, l'apparente arretratezza di tali popoli fu probabilmente dovuta alle grosse perdite subite contro Cartaginesi e soprattutto contro i Romani, che portarono alla relegazione di alcune popolazioni ribelli nei monti interni, creando una divisione tra i Sardi abitatori di città e di villaggi nelle pianure e nelle coste e i Sardi montanari che in gran parte si "imbarbarirono" e si diedero al banditismo.  Sempre i Romani, nei secoli in cui dominarono la Sardegna, fondarono alcune nuove città come Turris Libisonis (oggi Porto Torres) e fecero sviluppare molti centri abitati soprattutto nelle coste, come Carales,[1]Olbia, Fanum Carisii (oggi Orosei), Nora e Tharros, ma anche nell'interno, come Forum Traiani (oggi Fordongianus), Forum Augusti (oggi Austis), Valentia (oggi Nuragus),Colonia Julia Uselis (oggi Usellus), ed infine elevarono diverse città al rango di municipio.  BithiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Bithia (sito archeologico). BonorvaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Bonorva. Il generale sabaudo Alberto La Marmora, in esplorazione presso San Simeone di Bonorva, aveva identificato un forte romano che era stato dimenticato per tutto questo tempo. Il Tetti indica in realtà che si trattava di una fortificazione punica, che era stata occupata dai romani. Nulla però dimostra una presenza militare in questo luogo per i primi secoli dell'Impero romano.  BosaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Bosa.  L'anfiteatro romano di Cagliari.  Colonna nella Villa di Tigellio. CagliariModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia di Cagliari. Cagliari (Carales o Karalis[1]) era la città più importante della Sardegna. Il fatto che da qui partissero ben quattro strade che attraversavano l'intera isola dal sud al nord, la circostanza che il suo porto fosse un centro strategico importante per le rotte commerciali del Mediterraneo occidentale (che oltretutto ospitava un distaccamento della flotta di Miseno ed era il porto dal quale partiva il grano per l'approvvigionamento di Roma) e che la sua popolazione fosse all'incirca di 20.000 abitanti, rendeva Carales una tra le più importanti città marittime della zona occidentale dell'Impero romano.  La zona abitata si sviluppava sulla costa per circa 300 ettari, il centro di questa città era il foro, dove sorgevano numerosi edifici come la curia municipale, l'archivio provinciale, la sede del governatore, la basilica, il tempio di Giove Capitolino. La città fu interessata da una serie di interventi edilizi di pubblica utilità come la realizzazione di una complessa rete fognaria e la pavimentazione di strade e piazze, la costruzione di un acquedotto (nel 140 d.C.) che molto probabilmente prendeva l'acqua dalla sorgente di Villamassargia e, attraverso Siliqua, Decimo, Assemini, Elmas, arrivava in città passando per il quartiere di Stampace.  Nel I secolo d.C. la città fu dotata di eleganti passeggiate coperte da portici mentre nel II secolod.C. fu costruito l'anfiteatro, ancora utilizzato per gli spettacoli al giorno d'oggi, semi-scavato nella roccia, che poteva ospitare fino a 10.000 persone. Il titolo di municipium fu ottenuto solo sul finire del I secolo a.C.; era un titolo importante perché le consentiva di essere una città autonoma con cittadinanza romana.  Per quanto riguarda le differenze tra i vari quartieri, quelli signorili sorgevano nel territorio a nord di Sant'Avendrace e nell'area di San Lucifero; al loro interno sorgevano le terme, i templi, alcuni teatri e numerose ricche abitazioni; i quartieri mercantili si trovavano nella zona della Marina e i quartieri popolari vicino al porto, fra l'odierna via Roma e il Corso Vittorio Emanuele.  Claudio Claudiano, nel IV secolo, descrisse così la città di Caralis:  «Caralis, si distende in lunghezza ed insinua fra le onde un piccolo colle che frange i venti opposti. Nel mezzo del mare si forma un porto ed in un ampio riparo , protetto da tutti i venti , si placano le acque lagunari»  (Claudio Claudiano, I,520) CalangianusModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Calangiani. Nell'attuale Calangianus è identificato l'oppidum di Calangiani o Calonianus, citato nella Geographia del Fara. Oltre alle diverse tracce di strada romana per Olbia e Tibula, sono state ritrovate rovine dell'oppidum nei pressi di Monti Biancu e della località Santa Margherita, un busto di Demetra a Monti di Deu ed un'anfora all'interno del nuraghe Agnu. Inoltre, il toponimo deriverebbe dalla divinità Giano, il cui culto era molto diffuso in Sardegna.  CornusModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Cornus (Sardegna). FordongianusModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fordongianus. Fordongianus, Forum Traiani, si trova oggi in provincia di Oristano ed è particolarmente importante per la sua posizione geografica che lo vede incuneato tra i monti della Valle del Tirso, naturale via di penetrazione dalla pianura all'entroterra e punto di contatto tra i due diversi mondi. Fin dalla sua fondazione fu un centro rinomato per le sue terme, che sfruttavano una fonte naturale di acqua calda e curativa.  Qui si trova un'iscrizione che testimonia come l'attività delle genti della Barbaria fosse ancora viva nel I secolod.C. poiché furono queste a dedicare un'iscrizione ad un imperatore, probabilmente Tiberio, rinvenuta nel Forum Traiani.   Terme del Forum Traiani Come già accennato in precedenza, tra le motivazioni originarie dell'insediamento, si pone la presenza di una fonte d'acqua naturalmente calda e curativa. Sfruttando la fonte sorse, proprio presso il fiume, un vasto edificio termale (che costituisce oggi il nucleo dell'attuale area archeologica) caratterizzato da una grande piscina, in origine coperta, in cui giungono le acque calde temperate con un'aggiunta di acqua fredda. L'aspetto curativo delle terme è sottolineato dal rinvenimento di due statue del dio Bes, divinità legata ai culti salutiferi, e la loro importanza è messa in evidenza dalla recente scoperta di un piccolo spazio sacro dedicato alle ninfe, divinità delle acque.  In un'area vicina all'attuale centro abitato è stato rinvenuto l'anfiteatro, vicino alla necropoli tardo-antica sulla quale fu edificata nell'XI secolo la chiesa di San Lussorio.  MamoiadaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Mamoiada. Mamoiada (o Mamujada) era probabilmente uno stanziamento militare romano nell'isola, infatti diversi studiosi moderni sono propensi a far derivare il suo nome da mansio manubiata (stazione vigilata, sorvegliata). Altra prova a favore di questa ipotesi è il nome del quartiere più antico della città "su Qastru" (dal lat. castrum, campo fortificato, accampamento militare).  Mamoiada in effetti si trova in una zona centrale e quindi strategica della Barbagia, e precisamente al centro della cerchia dei seguenti villaggi: Orgosolo, Fonni, Gavoi, Lodine, Ollolai, Olzai, Sarule ed Orani, e dunque questa sua posizione strategica non poteva non essere sfruttata dalle truppe romane nelle loro azioni di sorveglianza e di repressione.  MacomerModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Macomer. Fondata tra il VI e il V secolo a.C. dai Punici Macopsissa costituiva un importante centro per il controllo del territorio. La sua importanza aumentò durante il periodo romano, divenendo un importante snodo fra Calares e Turris Libisonis. Macomer era un importante nodo della rete viaria creata dai Romani sull'Isola.  Meana SardoModifica Anche Meana Sardo, villaggio della Barbagia, era probabilmente un presidio romano poiché il suo nome potrebbe derivare da mansio mediana (stazione mediana o intermedia) di una tra le più importanti arterie stradali romani nell'isola quella che da Carales porta a Olbia.  Meana si trova esattamente a metà strada di quel lungo tracciato ed anche a metà strada tra la costa orientale e quella occidentale della Sardegna.  MetallaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Metalla. NeapolisModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Neapolis (Sardegna). NoraModifica  Rovine di Nora Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Nora (Italia). Il preesistente abitato punico non ha condizionato in maniera particolare l'assetto urbano di epoca romana. I Romani hanno effettuato infatti pesanti interventi per la costruzione di strade, edifici e aree pubbliche come il teatro e il foro, demolendo i precedenti edifici, in un piano di forte rinnovamento urbanistico. I Romani modificarono a tal punto la città probabilmente perché Nora fu la prima sede del governatore della provincia.  Numerose erano le ville e le case dei nobili e della plebe; degli edifici non rimane molto poiché erano costruiti con zoccolo in pietra e l'elevato in mattoni crudi. A differenza delle case e delle ville le strutture pubbliche erano costruite col cemento e rivestite di laterizi o grossi blocchi di pietra. Le più importanti opere della città erano: il teatro, costruito in età augustea, e le terme a mare, edificate tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C.  NuoroModifica Sono scarne le notizie sulla città di Nuoro in epoca romana. Secondo alcuni proprio all'inizio della dominazione romana la città fu fondata con l'unione di vari gruppi nuragici, inizialmente legati contro il nemico comunque, successivamente spinti all'unione dalla possibilità di arricchirsi col commercio dei prodotti locali.  Furono due i primi nuclei cittadini, infatti i primi due gruppi si insediarono in parti diverse: un gruppo si stanziò nel monte Ortobene, l'altro nel quartiere di Seuna, l'altro nel quartiere di San Pietro. In seguito i due gruppi si riunirono dando origine alla vera e propria città. Importante è anche il fatto che a Nuoro nella zona più ricca dal punto di vista agricolo, oltre Badu e'Carros, ci fosse un presidio militare. Questa zona infatti si chiama "Corte", e ricorda molto la Coorte, che nel periodo romano era un gruppo di soldati.  La città ha avuto una grande importanza strategica poiché è situata proprio al centro della Barbagia, i cui abitanti per secoli si ribellarono ai Romani prima di essere romanizzati parzialmente. Nuoro sorge infatti lungo l'antico percorso principale (asse nord-sud) della a Olbia-Karales per Mediterranea, nello snodo con la via Transversae (la trasversale mediana) che attraversava la Sardegna lungo un asse est-ovest (con quattro stazioni nodali negli incroci con le 4 principales: Cornus - Macopsissa - Nuoro - Dorgali/Orosei). La Trasversale mediana era utilizzata anche per il trasporto del grano della valle del Tirso verso la costa di Dorgali e Orosei, per l'imbarco del prodotto destinato al porto di Ostia. Sempre a Nuoro terminava anche una strada vicinale per l'odierna Benetutti.  NureModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Nure (città). OlbiaModifica  Busto di Nerone del 54/55-59 d.C. da Olbia, (museo archeologico nazionale di Cagliari). Olbia occupò in età romana gli stessi spazi della città punica fino alle soglie dell'età imperiale. Infatti non pare che durante la repubblica si siano verificati sostanziali mutamenti nell'assetto urbanistico che continuò a mantenere, intatto, il primitivo impianto ortogonale dei fondatori cartaginesi. Successivamente la città si arricchì di opere pubbliche: vennero lastricate le strade, si edificarono due impianti termali e un acquedotto, i cui resti sono tuttora visibili a nord della città, e si rinnovarono alcune strutture templari.  Una concubina di Nerone di nome Atte fece erigere ad Olbia un tempio a Cerere, e grazie all'imperatore ebbe latifondi nell'agro e fu anche proprietaria di un'officina che fabbricava laterizi.   Busto di Traiano da Olbia, (museo archeologico nazionale di Cagliari) Il porto, in contatto con i principali scali del Mediterraneo, fu di primaria importanza nell'ambito della Sardegna settentrionale poiché da qui partivano per Roma buona parte dei prodotti, soprattutto cerealicoli, del nord dell'isola che confluivano nella città grazie a tre grandi strade. Per questo motivo nel 56 a.C., soggiornò nella città Quinto, fratello di Marco Tullio Cicerone, che controllava i commerci per ordine di Pompeo.  La necropoli, che si estese uniformemente oltre la cinta urbana a occidente della città, restituì ricchi corredi funerari. In particolare, nell'area della collina oggi occupata dalla chiesa di San Simplicio (santo qui martirizzato, secondo la tradizione locale, durante le persecuzioni di Diocleziano), l'utilizzo per le sepolture avvenne fino a età medioevale e vi si rinvennero preziose oreficerie, sarcofagi istoriati e iscrizioni.  Intorno alla metà del V secolo Olbia fu saccheggiata dai Vandali come dimostrano gli straordinari ritrovamenti avvenuti nel 1999 nell'area del porto vecchio. Furono infatti ritrovati 24 relitti di navi romane e medievali e da questo scavo è stato possibile accertare l'attacco dei Vandali e il crollo della città anche se l'abitato non fu abbandonato e rifiorì in età medievale.  OschiriModifica Una mattonella o un mattone trovata a Oschiri porta l'iscrizione COHR P S per "coh(o)r(tis) p(rimae)" o "p(raetoriae) S(ardorum)", ma non è impossibile che provenga da Nostra Signora di Castro poiché non è conosciuto bene il modo in cui è stato scoperto questo mattone. Per il resto il luogo non ha nulla che faccia pensare ad una presenza militare romana.  OthocaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Santa Giusta (Italia). Porto TorresModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Colonia Iulia Turris Libisonis.  Mosaico dell'Orfeo Presumibilmente il sostantivo con cui veniva identificata la città, in epoca romana, era Turris Libysonis. Questo lo si deduce grazie a Plinio il Vecchio, il quale, nella sua Naturalis Historia(nel I secolo d.C.) cita "Colonia autem una que vocatur ad turrem libisonis", letteralmente; "mentre v'è (in Sardegna) una sola colonia romana, presso la torre di libiso". Tale scrittura fa pensare ad un riferimento artificiale, probabilmente una torre nuragica (Nuraghe). È invece grazie all'anonimo Ravennate che si evince lo status dell'insediamento, il quale sostiene; "Turris Librisonis colonia Iulia", da che si nota l'aggettivo Iulia, dovuto verosimilmente a Giulio Cesare, probabile fondatore della colonia, durante il viaggio di ritorno dall'Africa o ad Ottaviano delegatore di un tale, Marco Lurio, che potrebbe aver fondato la colonia intorno al 42\40 a.C.   Statua romana da Porto Torres Oltre a ciò l'importanza del centro, nell'isola, era notevole, paragonabile solo a quella di Carales. L'importanza politica è deducibile dalla "Passio Sanctorum Martyrum Gavini Proti et Jianuarii", nel quale si esterna la presenza di una residenza del governatore della provincia romana, tale Barbaro.  L'importanza economica invece è palese dalle rovine restanti, terme imponenti è una impressionante maglia urbana, il centro per altro era in comunicazione diretta con Roma, tant'è vero che nella Ostia antica, si trova un mosaico che riporta "Naviculari Turritani", riconducibile ai commercianti di Turris. Infatti le esportazioni di cereali erano notevoli, grazie alla grande pianura della Nurra, in diretta comunicazione con la colonia mediante il "ponte romano" (costruzione più imponente del suo genere nell'intera provincia), sovrastante il fiume Riu Mannu, che tra le altre cose era utilizzato come via alternativa per i traffici con l'interno dell'isola, si ipotizza la presenza di un porto fluviale, oltre a quello marittimo. Ma oltre alle esportazioni cerealicole, erano massicce anche quelle minerali, e salini, provenienti dai vicini siti. cosa particolare era la presenza del culto di Iside.  Altre prove storiche sono dovute a Cicerone in una sua lettera la chiama "Collina" ma, visti i ritrovamenti archeologici trovati, possiamo affermare con sicurezza che Turris Libisonis non fu per Roma solo una collina. Non è un caso che la città continuò ad esistere nei secoli successivi tenendo inalterata la sua importanza strategica al centro del mediterraneo. Di importante interesse non architettonico non fu solo il ponte romano e le terme fortemente mosaicate ma anche le strade: in alcuni tratti l'attuale Strada statale 131 Carlo Felice risulta affiancata dalla vecchia strada romana, che seguiva il medesimo percorso fra i due poli dell'isola.  Quartu Sant'ElenaModifica Il termine Quarto, ai tempi dei romani, stava a indicare la distanza in miglia che separava l'antico insediamento quartese da Cagliari. Infatti distava 4 miglia romane da Carales. È stata da sempre una meta ambita, viste le possibilità che offriva, grazie ad un'economia agricola stabile e fruttuosa integrata alla pesca e alla caccia.  SarcaposModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sarcapos. SassariModifica Nonostante la città di Sassari sia stata fondata in periodo Medioevale, il suo territorio conserva ricche testimonianze d'epoca romana, a partire da opere infrastrutturali di rilievo come i resti della strada che collegava Cagliari a Porto Torres e le rovine dell'acquedotto romano che serviva la colonia romana di Turris.  L'area ricca di vegetazione e sorgenti, era un luogo amato dalle famiglie patrizie della vicina colonia di Porto Torres, per cui oggi sono presenti nel territorio le rovine di alcune residenze d'epoca romana, la più famosa delle quali situata nei sotterranei della cattedrale di San Nicola, molti edifici medioevali sono stati costruiti riutilizzando materiali provenienti da abitazioni romane, le colonne presenti nel piazzale del santuario di San Pietro di Silki, provengono da un tempio romano smantellato che sorgeva nella zona.  Sulci (Sant'Antioco)Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sulki.  Statua di Druso minore da Sulci del I secolo d.C.  Tharros In epoca romana Sulci continuò a fiorire sino a diventare, a detta del geografo greco Strabone, la città più florida della Sardegna romana insieme a Caralis[1]. Lo sfruttamento dei bacini minerari dell'Iglesiente, dove pare sorgesse l'insediamento di Metalla[53], non era infatti cessato, e con esso l'intenso traffico nel porto sulcitano: di qui l'appellativo dell'antica Sulci "Insula plumbea". La città dovette disporre di ingenti risorse finanziarie se all'epoca della guerra civile tra Cesare e Pompeo (I sec. a.C.) poté pagare una multa di circa 10 milioni di sesterzi inflittale da parte di Cesare, giunto nel frattempo nell'antipompeiana Caralis.  Sulci si riprese ben presto dallo smacco subito, forte anche della floridezza del suo porto e dunque della sua economia, sino quando, intorno al I sec. d.C., sotto Claudio, fu riabilitata sul piano politico e elevata al rango di Municipium[54].  Secondo il Bellieni, la città tra tarda Repubblica e prima fase imperiale doveva essere popolata da circa 10.000 persone, cifra effettivamente plausibile se si tiene conto della popolazione media nei centri italiani di età augustea calcolata dal Beloch[55].  L'antico centro romano sorgeva, come si può desumere facilmente ancora oggi prestando attenzione alla disposizione degli assi viari maggiori e minori, nell'area comprendente le attuali vie Garibaldi, XX Settembre, Mazzini, Eleonora d'Arborea, Cavour, in località detta "Su Narboni". Qui, e precisamente all'incrocio tra le attuali via XX Settembre e Eleonora d'Arborea (presumibilmente nell'area dove sorgeva il foro, non ancora localizzato), si trova un mausoleo noto come Sa Presonedda o Sa Tribuna databile al I sec. a.C., grosso modo coevo al ponte romano, situato in corrispondenza dell'istmo, e al tempio d'Iside e Serapide le cui rovine non sono oggi più apprezzabili.  TharrosModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tharros. TibulaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tibula. UsellusModifica Usellus godette di grande splendore soprattutto nel periodo romano. Fu nel II secolo a.C. che venne fondata l'antica "Colonia Julia Uselis" il cui centro si trovava molto probabilmente sopra al colle di Donigala (Santa Reparata) non lontano da quello attuale.  Venne fondata soprattutto come baluardo militare per contrastare le continue incursioni dei mai domi barbaricini dell'interno dell'isola. Poté usufruire dello splendore di Roma che la innalzò dapprima a municipium e poi la elesse Colonia Julia Augusta sotto l'Imperatore Cesare Augusto, in onore della propria figlia Giulia ed eleggendo nel contempo i propri abitanti a "cives".  Quinto Cicerone, fratello di Marco Tullio, vi fu Pretore. Quest'ultimo stato giuridico è accertato nella Geografia di Tolomeo ed in una preziosissima tavola di bronzo dell'anno 158 d.C., come si desume dal nome dei consoli, contenente un decreto d'ospitalità e clientela, riguardante l'antica Usellus.  La città doveva estendersi per circa sette ettari ed i suoi fertili terreni vennero assegnati ai veterani delle guerre. In questo periodo Uselis sfruttando la sua favorevole posizione geografica subì un'importante evoluzione economica e militare divenendo centro nevralgico di un'intensa attività economica e crocevia dell'importante rete viaria che la metteva in comunicazione a sud con Aquae Neapolitanae (terme di Sardara), a nord con Forum Traiani e una terza via la univa a Neapolis, vicino alla costa occidentale.  Nel suo territorio sono ancora presenti due ponti romani, ci cui uno in ottimo stato di conservazione, lunghi tratti dell'importante via di comunicazione e resti delle imponenti mura che la cingevano.  Risorse economiche provincialiModifica   Mosaici concernenti i "Navicularii et negotiantes Karalitani" e i "Navicularii Turritani" dal piazzale delle corporazioni di Ostia antica. Il commercioModifica La Sardegna si integrò nel sistema economico e commerciale dell'Impero soprattutto per quanto riguarda il commercio del grano, del sale, del legname e dei metalli grazie ad ottimi porti quali Olbia, Tibula, Turris Libisonis (Porto Torres), Cornus, Tharros, Sulci (Sant'Antioco) e Carales.  L'importanza di questi porti è testimoniata da due mosaici trovati ad Ostia con la menzione dei "navicularii Turritani e Calaritani", mercanti marittimi di Porto Torres e Cagliari. Soprattutto in età imperiale la Sardegna divenne una tappa obbligatoria per i viaggi dalla penisola all'Africa e alle Mauretanie.  L'agricolturaModifica L'agricoltura era diffusa nell'isola soprattutto nelle aree pianeggianti e in particolar modo nella pianura del Campidano nella parte meridionale della Sardegna. Il grano era prodotto in quantità tali che solo quello che si esportava bastava a sfamare 250.000 persone. Per questo motivo la Sardegna, durante la repubblica, assunse il titolo di "granaio di Roma".  Si dice che la quantità di grano preso dai Romani dalla Sardegna non solo bastò per riempire tutti i granai dell'Urbe, ma per contenerlo tutto se ne dovettero costruire di nuovi. La coltivazione di cereali era sviluppata in particolar modo nella parte settentrionale, mentre quella dell'ulivo e della vite era diffusa in tutta l'isola.  L'allevamentoModifica L'allevamento per esportazioni era un'attività economica diffusa in tutta la Sardegna. Tra suini, bovini e ovini (in particolare i mufloni[1]) solo i primi erano venduti in buone quantità al resto dell'impero. Gli ovini erano importanti per la lana e i latticini che i sardi pelliti dell'interno vendevano a Roma; infatti la pastorizia era una pratica molto diffusa nella parte centrale della Sardegna. Sappiamo con certezza che i popoli dell'interno, grazie a questa pratica, furono in grado di arricchirsi trasformando la pastorizia da attività di sussistenza ad attività d'esportazione.  L'estrazione minerariaModifica (LA)  «India ebore, argento Sardinia, Attica melle»  (IT)  «L'India è famosa per l'avorio, la Sardegna per l'argento, l'Attica per il miele.»  (Archita) Importante era anche l'estrazione mineraria, diffusa in tutta la Sardegna. Argento e piombo erano estratti nelle miniere dell'Iglesiente in quantità tali da far scendere il costo di questi metalli in tutto l'impero; veniva cavato anche il ferro e il rame, quest'ultimo dai giacimenti nei pressi di Gadoni[53]. Per l'estrazione non erano usati solo schiavi di guerra ma anche personaggi scomodi nel campo della politica o per la religione da essi professata.  La pietra e il granito erano invece estratti nell'interno e lungo le coste. La pietra che gli isolani avevano sempre utilizzato per la costruzione dei nuraghi e dei loro templi megalitici era ora destinata ad arricchire gli edifici dei ricchi Romani. Ancora oggi, sulle isole della Marmorata e lungo le spiagge di Santa Teresa di Gallura, nella parte nord-orientale dell'isola, non è difficile imbattersi in blocchi "tagliati" con regolarità oppure in frammenti di colonne, sfuggiti ai numerosi carichi fatti dai Romani durante tutto il periodo della loro dominazione, durato quasi settecento anni. Non era facile infatti imbarcare sulle navi da carico i blocchi di pietra nei tratti di mare antistanti i promontori rocciosi. Le correnti e le condizioni atmosferiche provocavano spesso dei naufragi o costringevano i marinai a liberarsi dei pesanti carichi per evitare che le imbarcazioni affondassero.  Principali vie di comunicazioneModifica Le principali città e strade della Sardegna in epoca Romana. Quando i Romani iniziarono la conquista della Sardegna vi trovarono già una rete stradale punica; questa però collegava tra loro solo alcuni centri costieri, tralasciando completamente la parte interna; d'inverno era impraticabile a causa delle piogge e i Romani furono quindi costretti a costruirne una nuova che si sovrapponeva a quella precedente solo parzialmente.   Antica strada romana Nora-Bithiae I Romani costruirono 4 grandi arterie stradali: 2 lungo le coste e 2 interne. Le viae principales erano le cosiddette strade antoniniane, tutte con direzione nord-sud. Ricordandole in ordine da est a ovest: la litoranea occidentale (a Tibulas-Karales), da Carales(Cagliari) a Turris Libisonis (Porto Torres); la interna occidentale (a Turre-Karales); la interna orientale (a Olbia-Karales per Mediterranea); la litoranea orientale (a Tibulas-Karales), da Carales a Olbia.[56]  A questa ossatura longitudinale si congiungevano sia le "Viae Transversae" come la Cornus-Macopsissa-Nuoro-Orosei e molte altre strade più modeste (vicinali) che collegavano i piccoli centri dell'interno tra loro e con le più grandi città costiere. Questo sistema di comunicazione era molto efficiente e creò le condizioni favorevoli alla penetrazione culturale romana presso le popolazioni locali.  La rete stradale, inizialmente costruita per motivi militari, fu poi mantenuta e continuamente restaurata per motivi economici; grazie a questa, infatti, i Sardi dell'interno vendevano i loro prodotti ai commercianti romani che provvedevano poi a spedirli nei più grandi porti del mediterraneo occidentale. La rete stradale romana è stata talmente efficace e costruita in zone strategiche che alcune strade sono utilizzate ancora oggi; ne è un esempio la statale Carlo Felice.  In epoca Antonina si perfezionarono le vie di comunicazione interne della Corsica (strada Aleria-Aiacium e, sulla costa Est, Aleria-Mantinum - poi Bastia - a Nord e Aleria-Marianum - poi Bonifacio - a Sud): l'isola era pressoché completamente latinizzata, salvo qualche enclave montana.  Arte e architettura provincialeModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Arte provinciale romana. La religioneModifica  Il tempio di Antas, nei pressi di Fluminimaggiore I Romani, come è noto, permettevano una certa libertà di culto[57]; questo consentì alle popolazioni interne di continuare a praticare le loro religioni preistoriche di ispirazione naturalistica, ed a quelle delle coste la religione punica con tutti i suoi dei (Tanit, Demetra e Sid, ribattezzato Sardus Pater dai Romani, venerato nel Tempio di Antas); ma col passare del tempo trovarono spazio anche i culti di Giove e Giunone poi soppiantati dal Cristianesimo.  Sappiamo che alcune divinità, come un demone brutto ma benefico rappresentato come il Dio Bes (divinità egiziana assimilata nel pantheon cartaginese), vennero associate ad alcuni Dei Romani (in questo caso ad Esculapio, divinità salutare romana).  In età romana era diffuso a Carales, Sulci e Turris Libisonis il Culto di Iside, costantemente associato ad una cospicua presenza mercantile.  Lingua e romanizzazioneModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua paleosarda, Lingua sarda, Lingua paleocorsa, Lingua corsa e Romanizzazione (storia). La Sardegna, fortemente punicizzata, fu interessata da un processo di latinizzazione, ma le zone interne restarono a lungo ostili ai nuovi dominatori, come d'altronde lo furono in passato nei confronti dei cartaginesi. L'opera di romanizzazione, affidata al latino, fu completata con l'introduzione delle divinità, dei sacerdozi, e dei culti tipicamente romani. Le aree più intensamente romanizzate furono quelle costiere dedite alla coltura dei cereali (Romània), mentre nell'interno montuoso rimase fortemente radicata la cultura indigena (Barbària). La lingua delle genti sarde, così, subì profonde trasformazioni con l'introduzione del latino che, soprattutto nelle zone interne, penetrò lentamente ma, alla fine, si radicò a tal punto che il sardo è quella cui più aderisce; in particolare, si ritiene che nella zona centro-settentrionale la variante parlatasia quella maggiormente affine per la pronuncia. Nonostante questo, c'è da dire che il latino non si diffuse subito: è ancora presente un'iscrizione risalente al regno di Marco Aurelio (fine II secolo) in punico e, se questa era la situazione quando si scriveva, è possibile che nell'ambito familiare la lingua dei Cartaginesi fosse ancora abbastanza diffusa. Interessante è il fatto che, a volte, si trovino delle ceramiche riportanti il nome del proprietario in latino scritto con caratteri punici.  Sembra accertato che la Corsica fu anch'essa romanizzata e colonizzata dai Romani soprattutto per mezzo delle distribuzioni di terre a veterani provenienti dall'Italia meridionale - o dai soldati provenienti dagli stessi strati sociali ed etnici cui furono similmente assegnate terre soprattutto in Sicilia - il che aiuterebbe a spiegare alcune affinità linguistiche riscontrabili ancor oggi tra còrso meridionale e dialetti siculo-calabri. Secondo altre ipotesi, più recenti, gli influssi linguistici potrebbero essere dovuti a migrazioni più tarde, risalenti all'arrivo di profughi dall'Africa tra il VII e l'VIII secolo. La stessa ondata migratoria sarebbe approdata anche in Sicilia e in Calabria.  NoteModifica Strabone, Geografia, V, 2,7. ^ AE 1971, 123; AE 1973, 276 dell'epoca di Massimino Trace. ^ AE 1992, 891 di epoca Traianea o Adrianea; AE 1991, 908 forse di epoca Antonina; AE 2001, 1112 sotto gli Imperatori Caracalla e Geta; AE2002, 637 al tempo di Filippo l'Arabo. ^ AE 1971, 122. ^ Teofrasto, Hist. plant., V 8, 2. ^ a b c Ettore Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano, Nardecchia editore, 1923 ^ Datazione approssimata secondo le cronologie di Tito Livio e Diodoro Siculo ^ Ad esempio sull'espresso divieto imposto ai Romani di fondare città in Sardegna ed in Africa ^ Servio, Ad Aen., IV 628 ^ Polibio, I 24, 7 ^ questo era l'antico porto della cittadina, citato da Tolomeo ^ Florus, Epist. Liv., 89 ^ a b c Giovanni Zonara, Epitome, libro VIII ^ S.L. Dyson, Comparative Studies in the Archaeology of Colonialism, 1985; anche, dello stesso autore, The Creation of the Roman Frontier, 1985 ^ Oros. IV 1: hostibus se immiscuit ibique interfectus est. ^ Valerio Massimo, V 1, 2 - Sil. Ital., VI 669 ^ 11 marzo 259 - Scipione eresse inoltre un tempio di ringraziamento alla dea Tempestas, che Ovidio (Fasti, VI 193) celebra così: Te quoque, Tempestas merita delubra fatemur / Cum paene est Corsis obruta classis aquis ^ Fra le numerose fonti, Valerio Massimo, Tito Livio, Ammiano Marcellino e poi Zonara. ^ Nei Fasti trionfali si registra il trionfo di Scipione come L. CORNELIVS L.F. CN.N. SCIPIO COS. DE POENEIS ET SARDIN[IA], CORSICA V ID. MART. AN. CDXCIV ^ Il risultato della battaglia non è noto ^ a b c d e Pierre Paul Raoul Colonna de Cesari-Rocca, Histoire de la Corse, Boyle, 1890 ^ Valerio Massimo, III, 65 ^ Anche in Plinio, Nat.Hist., libro XIV ^ Ettore Pais, p.70. ^ Livio, XXIII, 21.4-5. ^ Livio, XXIII, 34.11. ^ Livio, XXIII, 34.12-15. ^ a b c d e f g Francesco Cesare Casùla, p.104. ^ Livio, XXIII, 32.7-12. ^ Livio, XXIII, 34.17. ^ a b Francesco Cesare Casùla, p.107. ^ Livio, XXVII, 6.13. ^ Livio, XXVII, 6.14. ^ Tito Livio, XL 43 ^ Tito Livio, XLI 21 ^ Tito Livio, XLII 7 ^ Vaerio Massimo, IX 12 - Plinio, Nat.Hist., libro VII ^ Ettore Pais, p.73. ^ Raimondo Zucca, Le Civitates Barbariae e l'occupazione militare della Sardegna: aspetti e confronti con l'Africa ^ Francesco Cesare Casùla, p.108. ^ a b c d e f Ettore Pais, pp. 76-77. ^ cfr.Tacito, Annali, XIII, BUR, Milano, 1994. trad.: B. Ceva. ^ a b Francesco Cesare Casula, p.116. ^ a b Ettore Pais, p.81. ^ a b Attilio Mastino, Cronologia della Sardegna Romana ^ Francesco Cesare Casula, p.119. ^ Ettore Pais, p.82. ^ Ettore Pais, p.86. ^ Mastino, Attilio (2005). Storia della Sardegna antica, Il Maestrale, pp.15-16. ^ Mastino, Attilio (2005). Storia della Sardegna antica, Il Maestrale, pp.82. ^ Attilio Mastino, Natione Sardus: una mens, unus color, una vox, una natio ( PDF ), su eprints.uniss.it, Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizioni Romane. ^ Plinio, Naturalis Historia, III, 7, 85. ^ a b Francesco Cesare Casùla, p.111. ^ cfr. per es. F.Cenerini, Sulci romana, in: Sant'Antioco, annali 2008. ^ M.Zaccagnini, L'isola di Sant'Antioco: ricerche di geografia umana, Fossataro, Cagliari 1972 (integraz. M.T.) ^ Iscrizione M Sardegna 8; MELONI P., La Sardegna romana, Chiarella, Sassari, 1987, pp. 339-374. ^ Francesco Cesare Casùla, p.114. BibliografiaModifica Fonti primarie ( GRC ) Appiano di Alessandria, Historia Romana (Ῥωμαϊκά). (traduzione inglese). ( LA ) Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, vol. III.(testo latino Wikisource-logo.svg e traduzione inglese Wikisource-logo.svg). Livio, Ab Urbe condita libri. (testo latino Wikisource-logo.svg e versione inglese Wikisource-logo.svg). Polibio, Storie (Ἰστορίαι). (traduzione in inglese qui e qui). Strabone, Geografia. (traduzione inglese). Fonti storiografiche moderne Francesco Cesare Casula La storia di SardegnaDelfino Editore, Sassari, Storia dei Sardi e della Sardegna, Milano, La Sardegna romana e altomedievale. Storia e materiali. Sassari, Carlo Delfino, Il tempo dei Romani. La Sardegna dal III secolo a.C. al V secolo d.C., Nuoro, Ilisso, Lilliu, La civiltà dei Sardi, Torino, Edizioni ERI, Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano Edizioni Ilisso, Nuoro. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna,  Milano. Attilio Mastino, Storia della Sardegna antica, Il Maestrale, Piero Meloni, La Sardegna romana, Ed Chiarella,Taramelli, La Sardegna romana, Istituto di studi romani, Portale Antica Roma   Portale Corsica   Portale Sardegna Battaglia di Sulci battaglia della prima guerra punica  Espansione cartaginese in Italia tentativi espansionistici di Cartagine nelle isole mediterranee di Sicilia e Sardegna  Battaglia di Decimomannu Antonio Delogu. Delogu. Grice: “I wouldn’t consider Sardegna part of Italy, as Sicily isn’t – they are part of the Italian republic – the ‘stato’ – but geographically, they are not part of the peninsula – the Greeks are especially precise about that: “Graecia magna” EXCLUDED Sicily!” The logo of his review, “Segni e comprensione” is a rebus, in that a few letters are missing. The idea is that the thing STILL SEGNA the proposition that this is about signs and comprehension. Keywords: semiotica romana, “segno e comprensione” s_gn_ e c_mp-rension-“ “segni e comprensioni” le corpori nella perizia morale, etica comunitaria, etica universale, universalita, universabilisabile  -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Delogu” – The Swimming-Pool Library. Delogu

 

Grice e DemariaL l’implicatura conversazionale degl’organismi – implicatura dinantorganica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vezza d’Alba). Filosofo. Grice: “Demaria is what we at Oxford would call a philosophical theologian! And a dynamically realist at that!” Famoso per numerosi studi sulla tomistica.  Frequenta il seminario di Alba, entrò come aspirante presso i salesiani di Penango Monferrato (Asti). Continua gli studi nel liceo di Valsalice (Torino). Studia a Roma. Insegna a Torino e a Roma. Nel corso della sua carriera fu docente di: Storia delle religioni, Missionologia, Filosofia dell’educazione, Teologia Fondamentale, Teologia Dogmatica, Dottrina sociale della Chiesa, Sociologia dell’Educazione.  Negli anni cinquanta avviò una feconda condivisione spirituale, teologica e filosofica con don Paolo Arnaboldi, fondatore del Fraterno Aiuto Cristiano FAC con l'attivo incoraggiamento di San Giovanni Calabria. Frequentò assiduamente le sedi del FAC sia a Vezza D'Alba sia a Roma. Strutturò la sua metafisica realistico organico dinamica.  Negli anni sessanta fonda con Costa il Movimento Ideoprassico Dinontorganico M.I.D., oggi divenuto l'associazione Nuova Costruttività. Insieme con Arnaboldi fecero opera di formazione e divulgazione del realismo organico dinamico presso ambienti imprenditoriali collegati all'U.C.I.D.. Costa strutturò volutamente la grande e innovativa impresa dell'Interporto di Scrivia (il così detto "porto secco" di Genova) come applicazione dell'"organico dinamico" differenziandola dalle imprese tipicamente liberiste.  Negli anni settanta fu il referente culturale delle "Libere Acli" movimento dei lavoratori cattolici fuoriusciti dalle Acli a seguito della "ipotesi socialista" che portò alla "sconfessione di Paolo VI" e alla frattura del movimento. Continuò nell'ambiente dei lavoratori cattolici con la formazione e la diffusione della "ideoprassi" (modello di sviluppo) "organico dinamica", una vera ideologia cristiana alternativa a quella liberal capitalista e a quella marxista comunista.   Tommaso Demaria tiene un seminario sul realismo Dinamico a Verona presso il Centro Toniolo. Intensamente attivo nella formazione alla nuova cultura cristiana organico dinamica a Torino, Verona, Vicenza, Roma con corsi, seminari e numerose pubblicazioni. Tra tutti i corsi tenuti merita una specifica menzione per la testimonianza documentale completa tramite registrazione video, presso il Centro Toniolo di Verona su invito di don Gino Oliosi. Proseguì il lavoro di AQUINO (si veda) e affermava l'incompletezza del tomismo, incapace di cogliere l'organismo come categoria ontologica a sé stante. L'integrazione della metafisica realista con l'organismo alla metafisica realistica integrale, strumento di straordinaria importanza per la vita quotidiana. Lo studio dell'organismo in quanto tale, in particolare nella sua dimensione di "struttura organica funzionale", si rivelerà infatti importantissimo per lo studio e lo sviluppo della società in generale ma in particolare per quella prassi economica nota col nome di "Sistemi di Qualità" che fa appunto dell'organicità il proprio fondamento. La possibilità di percepire l'organismo in quanto tale entità diversa dall'organismo fisico, specifica D., passa attraverso la percezione dell'ente dinamico. Grande importanza assume l'organicità nella gestione del sociale perché esso consente di definire con precisione il bisogno di razionalità dell'umanità che supera le possibilità dell'essenza della persona. Questa necessaria unità dell'agire della persona nell'umanità che ne perpetua la presenza, in campo politico/ideoprassico egli stesso la definisce come comunitarismo all'interno del suo testo "La società alternativa".  L'indagine sui dinamismi profondi della società industriale e l'osservazione con metodo realistico oggettivo della realtà storica globale nella sua consistenza ontologica portano Demaria a sviluppare una metafisica per molti aspetti nuova ed originale.  Aderisce al tomismo e conferma la validità del realismo di Aquino per tutto ciò che è in “rerum naturae” quindi per gli enti che esistono già in natura. Coglie la necessità di innestare sul realismo tomista nuovi strumenti metafisici per comprendere la realtà degli enti che non esistono in natura perché costruiti o generati dall'uomo, le trasformazioni dell’essenza della persona operata dalla liberà delle sue scelte, la natura profonda degli enti interumani (famiglia, azienda, stato, …), l'interpretazione della realtà storica e il suo indirizzamento.  Il cambio d’epoca Individua un cambiamento d’epoca con valore ontologico (che cambia l’essere, la forma della società) nella rivoluzione industriale che con l’apporto della energia meccanica a integrazione e sostituzione del lavoro umano dinamizza la società oltre una soglia mai varcata prima nella storia. La società dinamizzata dalla rivoluzione industriale giunge a una radicale trasformazione da “statico sacrale” a “dinamico secolare”. Si tratta di una trasformazione qualitativa e non solo quantitativa dei cambiamenti sociali che coinvolge l’”essere” della società. La differenza fondamentale sta in questo: la società preindustriale (statico sacrale) era dominata dalla natura e in questo modo ripeteva sempre sé stessa nonostante i cambiamenti fenomenici (la vita di un romano non era così diversa da quella di un medievale), la società industriale invece si è in larga parte sganciata dal condizionamento della natura ed è obbligata a progettare e costruire continuamente il proprio futuro…. Ma con quali criteri? È a questo livello che interviene l’indagine metafisica della realtà storica il cui scopo è proprio scoprire l’essenza profonda della realtà storica appunto.  Il realismo dinamico ontologico Riconosce nel tomismo e nella metafisica di San Tommaso la validità nel contesto “statico sacrale” ma limiti nella interpretazione della nuova realtà storica “dinamico secolare”. Osserva che l’interpretazione data alla storia da Hegel prima e da Marx dopo, sono entrambe errate e ne critica il fondamento soggettivista e la natura ateo materialista.  Integra quindi il tomismo tradizionale inaugurando la nuova metafisica dinamica ontologica organica fondata sulla scoperta dell’ente dinamico o anche ente di secondo grado.  Dalla osservazione di ciò che nasce di una relazione umana (entre uomo 1 e uomo 2) scopre che oltre agli “enti di primo grado”,  gli enti la cui essenza già è (tutti quelli che già sono in natura – uomo 1 e uomo 2), esistono altri “enti di secondo grado”, gli enti la cui essenza non è, ma si fa attivisticamente nello spazio e nel tempo, e la cui nascita, vita e morte sono costituite dalla esistenza di una relazione tra le persone (ad esempio il concetto colletivo di ‘diada’ conversazionale, la famiglia, l’azienda sono enti inter-umani. Una diada e un “ente dinamico” il cui comportamento è simile a quello della monada – l’uomo, il soggeto,  un organism – ma la diada non e un ente fisico, ma costituito dall’insieme di cose e di persone. Una diada e ugualmente animato da un principio vitale, in cui le due parti (soggeto S1 e soggeto S2) e il tutto (la diada) sono in reciproco equilibrio che ne genera e ne conserva la vitalità. Quando viene meno questo reciproco equilibrio tra l’organismo di secondo grado (la diada) tutto e le sue parti (le membra, gli organi, le cellule – uomo 1 e uomo 2 – le monade) l’organismo perde la sua vitalità, si ammala e può arrivare alla morte (e così avviene per la diada, la famiglia, l’azienda, la comunità).  Indaga osservando la realtà con metodo metafisico, realistico, oggettivo sulle “regole”, sulla “razionalità”, o il razzionale, che sottende la vita e la vitalità di un “ente dinamico” individuando cinque “trascendentali dinamici” che sono le caratteristiche necessarie e sufficienti in un “ente dinamico” per restare vivo e vitalmente operante.  Sul fronte della interpretazione della “storia” osserva che la sua complessità non può essere indagata con un metodi analitico partendo dalla suddivisione del tutto della diada nelle sue monade. Serve il metodo della “sintesi” e quindi dalla sommatoria, aggregazione, integrazione dei singoli “enti dinamici” in realtà e altri organismi via via più complessi e ampi, giunge al tutto che definisce come “un ente universale dinamico concreto” senza il quale il singolo ente dinamico non avrebbe né senso né valore metafisico. Del resto è abbastanza intuitivo comprendere che nessun ente storico può esistere fuori dal contesto che l’ha generato. Per esempio una semplice azienda di scarpe non può esistere nel deserto separata da tutte le vie di comunicazione, dagli operai, dai clienti, dalle fonti di energia eccetera. Raccoglie e coordina le sue scoperte nella nuova metafisica realistico-dinamica che aggregata alla metafisica eealistico-statica di Aquinocostituisce nell’insieme delle due componenti, la statica e la dinamica, la metafisica realistico-integrale.  Con il nuovo strumento della metafisica realistico-integrale individua la giusta forma della società che definisce organico dinamica – o “dinontorganica” -- come vera alternativa alle due forme di società “false”, la capitalista e la marxista di cui stende una dettagliata critica. Comprende che la nuova società dinamica secolare avviatasi per l’effetto della rivoluzione industriale, è costruita in vero dalla ideo-prassi, ossia dalla ideologia come prassi razionalizzata. Una definizione corrente che sia avvicina al concetto di ideo-prassi è modello di sviluppo, intendendo con questo la necessità di un cambio di paradigma strutturale nella costruzione della società. Precisa meglio questa terminologia chiarendo che il tipo di sviluppo riguarda il cambiamento di essenza profonda di una società mentre invece il modello riguarda le innumerevoli e forse infinite varianti all’interno del medesimo tipo che si devono calare nei concreti ambiti temporali e geografici.  Le “ideoprassi”, cioè i tipi di società, riconosciute da Tommaso Demaria sono tre (3): capitalista, marxista, “dinontorganica” e queste sono costruite secondo i rispettivi modelli. Perciò all’interno della società di tipo capitalista avremo molteplici modelli anche molto diversi tra loro dal punto di vista fenomenico ma identici dal punto di vista dell’assoluto di riferimento (cioè del tipo), in questo caso il denaro con la relativa competitività necessaria per conquistarlo. Analogamente avviene per le altre due ideoprassi: la ideoprassi o società di tipo marxista, con l’assoluto della dialettica oppresso/oppressore (la vecchia lotta di classe) e la ideoprassi o società di tipo dinontorganico con il proprio assoluto costruttivo radicato nella dialettica della sintesi in funzione della vita.  Nella società dinamica secolare, che è laica e profana, la religione non è più accettata come fondamento. Così anche la persona libera e sovrana che ha il suo posto nella società statico sacrale non può esistere in quanto nella società dinamica secolare fin dalla nascita la persona umana viene continuamente ri-manipolata dalla ideo-prassi corrente (capitalista o marxista). La persona umana trova la sua giusta collocazione nella società se riconosce la sua nuova natura di persona cellula, componente libera in un organismo sociale più grande. Come persona cellula rimane sempre persona umana libera ma al contempo svincolata dalle logiche servo/padrone, oppresso/oppressore del marxismo.  L’Economia e un tema ampiamente trattato dal Demaria che individua tre tipi di economia: la capitalista, la marxista/comunista, la economia dinontorganica. Dopo aver profondamente analizzato e criticato le prime descrive in dettaglio i fondamenti della economia dinontorganica. Per brevità riportiamo qui la differenza del concetto di impresa capitalista ed impresa dinontorganica. L’impresa capitalista è un'attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. Si avvale di un complesso di beni strumentali, il mezzo concreto (l’azienda): immobili, sedi, attrezzature, impianti, personale, metodi, procedure, risorse. Si tratta di “cose” e tra queste anche il personale/forza lavoro. Anima suprema dell’impresa capitalista è il profitto e secondariamente la creatività imprenditoriale a servizio del profitto. La socialità dell’impresa diviene un fatto ambientale ed incidentale innegabile ma secondario. Quindi l’impresa (con la relativa azienda) capitalista sè una “cosa” ridotta a capitale e lavoro.  L’impresa dinontorganica, la vera natura profonda dell’impresa, è organismo dinamico economico di base dell’attuale società industriale o postindustriale. E’un vero organismo dinamico, una realtà complessa, non fisica ma prodotta dall'uomo, costituita dalla sintesi di cose e di persone autonome e cellule dell’organismo impresa, animata da un proprio principio vitale e perciò capace di vivere ed agire a titolo proprio. E’quindi impresa umanissima, affrancata dal materialismo capitalista. Anima dell’impresa è la costruttività nel suo triplice aspetto economico, sociale e “ideo-prassico”, che eleva la creatività al di sopra del solo profitto e che soddisfa ad un tempo la le esigenze della società globale e della impresa, quali il profitto, comunque necessario ma non sufficiente. In ambito ecclesiologico le scoperte come da sua frequente dichiarazione, si collocano nel solco del Magistero della Chiesa Romana Cattolica. Cinque delle sue saggi, che contengono nell’insieme il corpo della sua opera, portano impresso l’imprimatur che attesta l’assenza di errori in ambito di fede e morale cattolica.  La scoperta dell’“ente di secondo grado” (ente generati dalle relazioni tra le persone) e della persona “cellula” (individuo libero che riconosce di essere parte di un organismo più grande) sono in analogia scaturite dalla riflessione sull’essere della Chiesa (l’insieme dei cristiani) in comunione con il corpo mistico di Cristo. Il cristiano con il battesimo cambia il suo essere e diviene uomo nuovo. Quindi la persona umana (in questo caso il cristiano) è contemporaneamente “ente di primo grado (“in rerum naturae”) che ente di secondo grado (ente dinamico) come membro della Chiesa che costituisce il corpo mistico di Cristo. La Chiesa così concepita è il primo ente dinamico sacro della storia. Mentre il primo ente dinamico laico e profano dell’epoca dinamico secolare post rivoluzione industriale è l’azienda industriale.  Pur accogliendo nella sua “metafisica realistica integrale” (la metafisica realistica “statica” più la “dinamica”) il tomismo in toto, il suo pensiero genera dispute con i tomisti classici del tempo che non riconoscono alla Chiesa (e nemmeno alla azienda industriale ) la natura di “ente di secondo grado” ma unicamente la caratteristica di “ente di relazione” che per Demaria è insufficiente per interpretare la complessità della realtà storica industriale e la relativa mobilitazione.  La Dottrina Sociale della Chiesa e L’Ideoprassi Dinontorganica Alla Dottrina Sociale Della Chiesa riconosce ogni validità. Ne segnala tuttavia la incompletezza in quanto costituita da norme etiche e morali rivolte principalmente alla persona libera e sovrana ed atte ad incidere sul suo comportamento come singolo per migliorare in senso cristiano la società. Rileva che la società non è più solo costruita dalle norme morali di persone libere e sovrane ma anche e soprattutto dalla “ideoprassi” (ideologia come prassi razionalizzata sintesi di persone e strutture) corrente, dal suo dinamismo e dalle sue razionalità interne autocostruttive proprie della società “dinamica secolare”. Pertanto per incidere sulla società contemporanea che è “dinamica secolare”, laica e profana, serve una vera e propria nuova e completa “ideoprassi”, certamente laica e profana ma compatibile con i valori cristiani cardinali. All'interno di questa nuova “ideoprassi” Demaria vede inseriti tutti gli insegnamenti della Dottrina Sociale Cristiana. Da soli e senza una propria “ideoprassi” tali insegnamenti tendono a generare delle “para-ideologie” che hanno effetti locali e temporanei. Per ottenere effetti di trasformazione duraturi ed è necessario avviare azioni che contengano la giusta razionalità e caratteristiche (i 5 trascendentali dinamici) capaci di innescare cicli autocostruttivi.  Altre opere: “Catechismo missionario” (Torino, SEI, La Religione, Colle Don Bosco, Elledici); “Il fiume senza ritorno. Dramma missionario, Colle Don Bosco, Elledici, La pedagogia come scienza dell'azione, Salesianum, Sintesi sociale cristiana. Metafisica della realtà sociale (presentazione di Aldo Ellena), Torino, Pontificio Ateneo Salesiano, Senso cristiano della rivoluzione industriale, Torino, CESPCentro Studi don Minzoni, ca. Strumento ideologico e rapporto fede-politica nella civiltà industriale, Torino, CESP Centro Studi don Minzoni, ca. Presupposti dottrinali per la pastorale e l'apostolato, Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Cristianesimo e realtà sociale, Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Realismo dinamico, Torino, Istituto Internazionale Superiore di Pedagogia e Scienze Religiose, Il Decreto sull'apostolato dei laici: genesi storico-dottrinale, testo latino e traduzione italiana, esposizione e commento, Torino, Leumann Elle Di Ci, Catechismo del cristiano apostolo: la Salvezza cristiana, Torino, Istituto Internazionale Superiore di Pedagogia e Scienze Religiose, Punti orientativi ideologico-sociali (a cura del Movimento Ideologico Cristiano Lavoratori), Bologna, Parma, Pensare e agire organico-dinamico, Milano, Centro Studi Sociali); “Ontologia realistico-dinamica” (Bologna, Costruire); “Metafisica della realtà storica. La realtà storica come ente dinamico” Bologna, Costruire, La realtà storica come superorganismo dinamico: dinontorganismo e dinontorganicismo, Bologna, Costruire, L'edizione Realismo dinamico, Bologna, Costruire,  L'ideologia cristiana, Bologna, Costruire, Sintesi sociale cristiana. Riflessioni sulla realtà sociale, Bologna, Costruire); “La questione democristiana, Bologna, Costruire, Il Marxismo, Verona, Nuova Presenza cristiana, Ideologia come prassi razionalizzata, Arbizzano, Il Segno, Per una nuova cultura, Verona, Nuova Presenza cristiana, La società alternativa, Verona, Nuova Presenza cristiana, Verso il duemila: per una mobilitazione giovanile religiosa e ideologica, Verona, Nuova Presenza cristiana, Un tema complesso sullo sfondo dell'ideologia come strumento ideologico, Verona, Nuova Presenza cristiana, Confronto sinottico delle tre ideologie. Quarta serie, Roma, Centro Nazareth, Scritti teologici inediti. Roma, Editrice LAS. Letteratura su Tommaso Demaria Ugo Sciascia, Per una società nuova:inizio di una ricerca partecipata., Bologna, L. Parma, Sciascia, Crescere insieme oltre capitalismi e socialismi: rifondazione culturale dall'Italia, per l'Europa, al mondo. Napoli, Edizioni Dehoniane, Mario Occhiena, Riscoperta della realtà: un itinerario filosofico esistenziale, Torino, Gribaudi, Pizzetti Luigi, Culture a confronto. Sussidio per l’educazione religiosa e civica nelle scuole medie superiori, La voce del popolo edizioni, Brescia, Fontana, Apertura a “tutto” l’essere, in Nuove Prospettive, Palmisano, Nicola, Quanto resta della notte?: analisi e sintesi del medioevo novecentesco all'alba del Duemila, Roma, LAS, Tacconi, La persona e oltre: soggettività personale e soggettività ecclesiale nel contesto del pensiero di Tommaso Demaria, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, Gruppo studio scienza cristiano-dinontorganica di Vicenza, Realismo dinamico: il problema metafisico della realtà storica come superorganismo dinamico cristiano riduzione dell'opera di D., Altavilla (Vicenza), Publigrafica, Gruppo studio scienza cristiano-dinontorganica di Vicenza,L'ideo-prassi dinontorganica: la costruzione dinamica realistico-oggettiva della nuova realtà storica: revisione del saggio L'ideologia Cristiana, Altavilla (Vicenza), Publigrafica, Mauro Mantovani, Sulle vie del tempo. Un confronto filosofico sulla storia e sulla libertà, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, Cretti, La quarta navigazione: realtà storica e metafisica organico-dinamica, Associazione Nuova Costruttività -Tipografia Novastampa, Verona, Bagnardi, Costruttori di una Umanità Nuova. Globalizzazione e metafisica, Bari, Edizioni Levante, Riggi, L'ideoprassi cristiana per una società alternativa; implicanze filosofiche, Roma, Università Pontificia Salesiana, Pirovano, Roggero, Uniti nella diversità, UK, Lulu Enterprise, Mantovani, Pessa e Riggi, Oltre la crisi; prospettive per un nuovo modello di sviluppo. Il contributo del pensiero realistico dinamico (atti dell'omonimo convegno tenuto a Roma), Roma, Libreria Ateneo Salesiano, Stefano Fontana, Filosofia per tutti: una breve storia del pensiero da Socrate a Ratzingher, Verona, Fede & Cultura. Nuova Costruttività, La Vita, su dinontorganico.  Scritti teologici inediti, Roma, Editrice LAS, Mario Gadili, San Giovanni Calabria: biografia ufficiale, Cinisello Balsamo, San Paolo, Per la ri-educazione all'amore cristiano nel campo economico-sociale: per una valida teoria della pratica e una adeguata pratica della teoria; Genova: Crovetto, Atti del convegno: Per la ri-educaziaone all'amore cristiano tra le aziende, tenustosi a Rapallo e atti del convegno: Programmazione economico-sociale e amore cristiano, tenutosi a Rapallo, Massaro, I problemi dell'economia ligure: un'unica iniziativa ma buona. A Rivalta Scrivia la succursale del pletorico porto di Genova., in LA STAMPA, C.G.N., Il ministro Andreotti inaugura il nuovo complesso della Rivalta, in Sette Giorni a Tortona, LIBERE A. C.L.I., Sette domande sulle A.C.L.I. e la svolta di Vallombrosa e sette risposte delle Libere A.C.L.I., Milano, Centro Studi, Acli "federacliste", Per un impegno ideologico Cristiano, Torino, ALC-FEDERACL, Tacconi, La persona e oltre: soggettività personale e soggettività ecclesiale, LAS, Realismo dinamico, Bologna, Costruire, Il Marxismo, Verona, Nuova Presenza cristiana, Confronto sinottico delle tre ideologie. Roma, Centro Nazareth, La società alternativa, Verona, Nuova Presenza Cristiana, Sintesi sociale cristiana. Metafisica della realtà sociale (presentazione di Ellena), Torino, Pontificio Ateneo Salesiano, Presupposti dottrinali per la pastorale e l'apostolato., Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Cristianesimo e realtà sociale., Velate di Varese, Edizioni Villa Sorriso di Maria, Paolo Arnaboldi, Demaria e Morini, I consigli pastorali, diocesani e parrocchiali alla luce di una pastorale organico-dinamica, Velate di Varese, FAC-Villa Sorriso di Maria, Luigi Bogliolo e Stefano Fontana, Prospettive del Realismo Integrale. Pensare il trascentente. La questione metafisica dell'ente dinamico. Dialogo con Bogliolo. Apertura a tutto l’essere in Nuove Prospettive,  Realismo dinamico Giacomino Costa Realismo Tomismo Neotomismo Comunitarismo, Vita, opere e  ragionata a cura dell'Associazione Nuova Costruttività., su dinont-organico.  Opere di Tommaso Demaria L’opera fondamentale di T. Demaria è la Trilogia del Realismo Dinamico  , si tratta di tre volumi in cui l’autore spiega in modo completo e preciso la metafisica realistico dinamica.  Se vuoi farti un’idea di quello che ha scritto T. Demaria, di seguito trovi  tutta la sua bibliografia, per scaricare invece alcuni dei suoi testi devi andare sul nostro blog   Trilogia del Realismo Dinamico:  Volume 1: Ontologia realistico-dinamica = Collana Spid – Realismo dinamico  Ed. “Costruire”, Bologna (di questo testo è stata redatta anche la traduzione in lingua spagnola, vedi sezione 2.1 di questa bibliografia.) Metafisica della realtà storica. La realtà storica come ente dinamico = Collana Spid – Realismo dinamico, Ed. “Costruire”, Bologna: La realtà storica come Superorganismo Dinamico. Dinontorganismo e Dinontorganicismo = Collana Spid – Realismo dinamico Ed. “Costruire”, Bologna, Altri due volumi integrano la Collana Spid.  L’ideologia cristiana, Collana Spid – Ed. “Costruire”, Bologna, Sintesi sociale cristiana. Riflessioni sulla realtà sociale, Collana Spid – Ed. “Costruire”, Bologna, Gli altri scritti di T. Demaria non aggiungono nulla di fondamentale rispetto ai volumi principali ma sono importanti perchè ne esplicitano alcuni aspetti. La sequenza dei testi è in ordine temporale.  Sintesi sociale cristiana. Metafisica della realtà sociale, «Quaderni di Cultura e Formazione Sociale», a cura dell’Istituto di Scienze Sociali del Pontificio Ateneo Salesiano, Torino Cristianesimo e realtà sociale, Edizioni FAC – Villa Sorriso di Maria, Velate di Varese. I Consigli Pastorali Diocesani e Parrocchiali alla luce di una Pastorale organico-dinamica Arnaboldi, Paolo Maria – Demaria, Tommaso – Morini, Bruno, edizioni FAC – Villa Sorriso di Maria, Velate di Varese. “L’impegno morale del cristiano” documento pastorale dell’episcopato italiano. Premessa illustrativa dedicata agli operatori cristiani in campo sociale = Centro Fanin – Collana La fonte, Vicenza Pensare e agire “organico-dinamico”, Varese s.d, Punti orientativi ideologico-sociali = a cura del MICL, Ed. Luigi Parma, Bologna. La “questione democristiana”, Ed. “Costruire”, Bologna Ideologia come prassi razionalizzata, Il Segno Ed. = NPC, Verona Per una nuova cultura, NPC Ed.,Verona  (di questo testo è stata redatta anche la traduzione in lingua inglese, vedi sezione 2.1 di questa bibliografia.) La società alternativa, NPC Ed., Verona Verso il Duemila. Per una mobilitazione giovanile religiosa e ideologica, NPC Ed., Verona, Un tema complesso sullo sfondo dell’ideologia come strumento ideologico, NPC Ed., Verona Strumento ideologico e rapporto fede-politica nella civiltà industriale = Minidossier culturali per una nuova presenza cristiana I, Vicenza s.d., Rivoluzione Industriale e Cristianesimo = Minidossier culturali per una nuova presenza cristiana II, Vicenza s.d., Riflessioni spirituali. Tipografia Unione, Vicenza (pubblicazione postume che raccoglie alcune riflessioni spirituali di don Tommaso Demaria, ricavate da lettere inviate a suor G.A. di cui era direttore spirituale.) Scritti Teologici Inediti a cura di M. Mantovani e  R. Roggero. Las – Roma. Atti Convegni di Rapallo Per la rieducazione all’amore cristiano tra le aziende. Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese Atti Convegni di Rapallo. Visioni chiave di questo nostro mondo dinamico. Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese. Atti Convegni di Rapallo. Il mondo di oggi come questione sociale.  Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese Atti Convegni di Rapallo 1970/71, Democrazia nuova per una nuova società.Ed. FAC Villa Sorriso, Velate di Varese 1972. Riportiamo anche i titoli di una serie di articoli sulla rivista quadrimestrale veronese «Nuove Prospettive» (in ordine cronologico: 1988-1991)  La metafisica aristotelico-tomista come sistema metafisico realistico oggettivo; sua crisi e suo rifiuto, in NP I (1988) 1, 2-10. Metafisica e metodo, in NP Metafisica realistica integrale, in NP Valore della dottrina sociale cristiana nell’attuale contesto storico dinamico secolare, in NP II (1989) 1, 2-3. Integrazione della dottrina sociale cristiana con l’ideoprassi organico-dinamica. Dottrina sociale cristiana e progetto organico-dinamico di società, in NP Sapienzialità, in NP La “nuova creatura”: un problema teologico-ecclesiologico risolto solo a metà, in NP I trascendentali, in NP Metafisica dell’azienda industriale, in NP Dinontorganicità, in NP La famiglia oggi in una visione organico-dinamica, in NP Articoli su altre riviste o su miscellanee (in ordine cronologico)  La pedagogia come scienza dell’azione. Appunti per una epistemologia pedagogica, in Salesianum Sociologia positiva o positivo-razionale? A proposito di una introduzione alla sociologia, in SalesianumPer una Ecclesiologia organica, in AA.VV., De Ecclesia, PAS, Torino Concezione religiosa dell’educazione, in Rivista di Pedagogia e Scienze Religiose, Dio e la Religione, in AA.VV. De Deo, PAS, Torino Il posto e il compito dei laici nella Chiesa, in AA.VV. Per la rieducazione all’amore cristiano nel campo economico-sociale. Per una valida teoria della pratica e una adeguata pratica della teoria = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Industriali e Dirigenti Velate di Varese 1965, Prima parte 29-40. Dalla Sociologia cristiana normativa alla Sociologia cristiana costruttiva, ibid., Parte seconda 23-38. Aspetti sociologici, religiosi e morali della programmazione economico-sociale,  La formazione all’apostolato, in AA.VV., Il Decreto sull’Apostolato dei Laici (Apostolicam actuositatem). Genesi storico-dottrinale. Testo latino e traduzione italiana. Esposizione e commento = Collana Magistero Conciliare LDC 4, Torino Le leve segrete che dominano il mondo. I – Leve dinamiche per un mondo dinamico, in AA.VV., Visioni chiave di questo nostro mondo dinamico. Per una valida teoria della pratica e una adeguata pratica della teoria = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Imprenditori e Dirigenti Velate di Varese Le leve – non più segrete – che dominano il mondo.  Leve cristiane per un mondo cristiano, Vengono trattati, nelle relazioni 10 e 11, i trascendentali dinamici della religiosità, socialità, moralità, educatività e missionarietà.  Società e persona umana in un mondo dinamico. Mondo dinamico e società, Società e persona umana in un mondo dinamico. Mondo dinamico e persona umana, Fede e vita spirituale, in Giornate di studio per predicatori di Esercizi Spirituali. Approfondimenti teologico-pastorali, Roma – S.Cuore, Società in trasformazione e trasformazione dell’uomo I. Società nuova in un mondo nuovo, in AAVV, Il mondo di oggi come questione sociale. Per una valida teoria della pratica e una adeguata pratica della teoria = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Imprenditori e Dirigenti del 7-10 Marzo Velate di Varese 1970, Parte prima, 27-41. Società in trasformazione e trasformazione dell’uomo II. Uomo nuovo in una società nuova, Mondo dinamico e questione sociale I. La questione sociale e le sue vicende, ibid., Parte seconda, 33-50. Mondo dinamico e questione sociale II. La questione sociale e la sua soluzione, Democrazia e mondo dinamico, in Democrazia nuova per una nuova società = Raccolta degli Atti dei Convegni di Rapallo per Imprenditori e Dirigenti,Velate di Varese,  Impresa e società, Studio sul piano teologico essenziale, in Arnaboldi Paolo Maria – Demaria Tommaso – Morini Bruno, I Consigli Pastorali Diocesani e Parrocchiali alla luce di una Pastorale organico-dinamica, Edizioni FAC – Villa Sorriso di Maria, Velate di Varese Testi ciclostilati  a)   Relazioni ai Corsi Mid di sviluppo  Per una autentica società giusta: una concreta nuova presenza cristiana = Atti del corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma  (testi dattiloscritti). La famiglia oggi in una visione organico-dinamica. La scuola oggi in una visione organico-dinamica della società. L’impresa organico-dinamica. Sindacato organico-dinamico. Stato e società. Ideologia organico-dinamica ed Unione Europea  Le tre ideologie. Confronto sinottico = Atti del corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma L’Assoluto ideologico primario. L’Assoluto ideologico derivato. La religione. Uomo e società. L’economia. La politica. Etica a matrice ideologica  Le tre ideologie. Confronto sinottico. Seconda serie = Atti del corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma Stato e società. La democrazia. La libertà. La socialità. La cultura. I valori. Scienza e tecnica  Confronto sinottico delle tre ideologie. Terza serie = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma 1984 (Quaderno poligrafato). Richiamo orientativo. La sapienza umano storica ideoprassica. La scelta energetica. Lo sviluppo. Il futuro del pianeta  Confronto sinottico delle tre ideologie. Quarta serie = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma Quaderno poligrafato), Guerra e pace. Cultura come civiltà. La civiltà dell’amore  Confronto sinottico delle tre ideologie. I trascendentali dinamici = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma (Quaderno poligrafato) 42 pp. AA.VV., EDUCazione e formazione oggi = Atti del Corso di studio Mid di Roma – Centro Nazareth, Roma Relazioni a Corsi di esercizi o di studio promossi dal FAC  La parrocchia). “Su questa pietra…” – Il nostro sacerdozio: donde veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (Corso Fac – esercizi spirituali per sacerdoti). Chiesa e mondo Fede – Speranza – Carità Rimessa a punto teorico-pratica dei Consigli pastorali La Chiesa localeI Consigli pastorali in se stessi e nella loro articolazione e rapporti (Corso Fac 1972). La fede cristiana; Il problema ecclesiologico e le anime; La Chiesa e la persona-cellula; Costruire la Chiesa; La parrocchia nella Chiesa universale; La Chiesa come anima del mondo; Parrocchia in trasformazione I. Dalla parrocchia statico-sacrale alla parrocchia dinontorganica religiosa; Parrocchia in trasformazione II. La parrocchia dinontorganica religiosa; Conoscere la Chiesa = Corso Fac di Esercizi-Studio di tipo C, Roma – Centro Nazareth, Come programmare la costruzione di una parrocchia “Famiglia di Dio” oggi, in una visione ecclesiale profonda = Corso Fac di Esercizi-Studio di tipo C, Roma – Centro Nazareth, Altri testi ciclostilati  Realismo dinamico, Istituto Superiore di Scienze Religiose, Torino (Dispense), La Chiesa cattolica in stato di missione, Le tesi delle Libere ACLI = a cura delle L.A.C.L.I. Italia Settentrionale, Milano, Per una nuova cultura religiosa e sociale = a cura di Nuova Presenza Cristiana – Centro culturale “G. Toniolo”, Verona, Il Marxismo = Quaderni di Nuova Presenza Cristiana – Centro culturale “G. Toniolo”, Verona. Tommaso Demaria. Demaria. Keywords: organismo, organismi, super-organismo, Tuomela, we-thinking, cooperation and authority -- Luigi Cipriani, communicazione e cultura, dynontorganico – o dinontorganico -- dinamico ontico organico -- l’implicanza di Speranza, implicanza, implicatura, implicazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Demaria” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Demetrio: il Lizio a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A lizio, a friend of Catone Minore and was with him in his final days. Demetrio.

 

Grice e Demetrio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Friend of Seneca, Trasea and Apollonio. Banished from Rome at least once. He defends the Porch philosopher Publio Egnazio Celer against another one, Musonio Rufo. Demetrio.

 

Grice e Demetrio: l’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Member of the Accademia, cited by Antonino.

 

Grice e Demetrio: l’orto a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A notable Gardener. Writes a number of essays on various aspects of the school’s teachings. Fragments of his writings at Herculaneum reveal a concern that some teachers were oversimplifying the philosophy in order to make it easier for their pupils to understand. Demetrio Lacone. Demetrio.

 

Grice e Demetrio: l’implicatura conversazionale del culto di marte, la mascolinità, ed il sentimento taciuto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Demetrio and the semiotic tacit’ – “Grice: “Demetrio philosophises, in a Grecian, way, on the ‘tacit’ – literally, the unuttered --.” Grice: “While ‘tacit’ may implicate that the vehicle is phonic, it need not be – any non-expression is a tacit act --.” “And like me, Demetrio holds that there is a whole communication involving the un-expressed, or tacit – or ‘suprressed’ as the scholastics preferred. Grice: “I like Demetrio. You see, Demetrio is sa good one. – and he enriches the Griceian vocabulary. I use ‘imply’ for implicatum and implicitum; but Demetrio, due to the richness of the Italian language, can play with the ‘tac’ root. I often refer to the implicit as the tacit – and the tacit is nothing but the ‘silent’ –Demetrio has this brilliant essay on the ‘sentiments’ wich are ‘taciuti’. A ‘sentimento’ is taciuto’ when it is tacit, implicit, not explicit – his favourite scenario is a loving couple – the silence of love – he has also played with the ‘senses’ of ‘silent,’ but it is the ‘tacit’ root that he explores most and relates to my explicit/implicit, tacit/non-tacit distinction!” – Le sue ricerche promuovono la scrittura di se stessi, sia per lo sviluppo del pensiero interiore e auto-analitico, sia come pratica filosofica. Insegna a Milano, è ora direttore scientifico del Centro Nazionale Ricerche e studi autobiografici della Libera università dell'Autobiografia di Anghiari e dei “Silenziosi”. Altre opere: “Educatori di professione. Pedagogia e didattiche del cambiamento nei servizi extra-scolastici” (Scandicci, La Nuova Italia, Tornare a crescere); “L'età adulta tra persistenze e cambiamenti” (Milano, Guerini, La ricerca qualitativa in educazione” (Scandicci, La Nuova Italia); Apprendere nelle organizzazioni. Proposte per la crescita cognitiva in età adulta, Roma, NIS); “Immigrazione e pedagogia interculturale. Bambini, adulti, comunità nel percorso di integrazione, Firenze, La Nuova Italia); “L'educazione nella vita adulta. Per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, Roma, NIS, Raccontarsi); “L'autobiografia come cura di sé, Milano, Cortina, Educazione degli adulti: gli eventi e i simboli, Milano, C.U.E.M., Viaggio e racconti di viaggio. Nell'esperienza di giovani e adulti, Milano, C.U.E.M.); “Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell'infanzia e nella scuola elementare, Scandicci, La Nuova Italia, Agenda interculturale. Quotidianità e immigrazione a scuola. Idee per chi inizia, Roma, Meltemi,  Il gioco della vita. Kit autobiografico. Trenta proposte per il piacere di raccontarsi, Milano, Guerini); Pedagogia della memoria. Per se stessi, con gli altri, Roma, Meltemi); “Elogio dell'immaturità. Poetica dell'età irraggiungibile, Milano, Cortina, Una nuova identità docente. Come eravamo, come siamo, Milano, Mursia); “L'educazione interiore. Introduzione alla pedagogia introspettiva, Scandicci, La Nuova Italia, Di che giardino sei? Conoscersi attraverso un simbolo” (Roma, Meltemi); “Preparare e scrivere la tesi in Scienze dell'Educazione, Milano, Sansoni); “Istituzioni di educazione degli adulti. Il metodo autobiografico” (Milano, Guerini); “Istituzioni di educazione degli adulti” (Milano, Guerini); Album di famiglia. Scrivere i ricordi di casa, Roma, Meltemi, Scritture erranti. L'autobiografia come viaggio del se nel mondo, Roma, EDUP, Ricordare a scuola. Fare memoria e didattica autobiografica, Roma, Laterza, Manuale di educazione degli adulti, Roma, Laterza, Filosofia dell'educazione ed età adulta. Simbologie, miti e immagini di sé, Torino, POMBA Liberia, L'età adulta. Teorie dell'identità e pedagogie dello sviluppo, Roma, Carocci, Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé, Milano, Cortina); “Istituzioni di educazione degli adulti.  Saperi, competenze e apprendimento permanente, Milano, Guerini, Didattica interculturale. Nuovi sguardi, competenze, percorsi, Milano, Angeli, In età adulta. Le mutevoli fisionomie, Milano, Guerini, Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea, Milano, Cortina, La vita schiva. Il sentimento e le virtù della timidezza” (Milano, Cortina, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Milano, Cortina, L'educazione non è finita. Idee per difenderla, Milano, Cortina); “Ascetismo metropolitano. L'inquieta religiosità dei non credenti, Milano, Ponte alle Grazie); “L'interiorità maschile. Le solitudini degli uomini” (Milano, Cortina, La religiosità degli increduli. Per incontrare i «gentili», Padova, Messaggero,  Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, Milano, Cortina, Senza figli. Una condizione umana, Milano, Cortina,,Educare è narrare. Le teorie, le pratiche, la cura, Milano, Mimesis); “Beati i misericordiosi. Perché troveranno misericordia, Torino, Lindau); “I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora, Milano, Mimesis, La religiosità della terra. Una fede civile per la cura del mondo, Milano, Cortina, Silenzio, Padova, Messaggero, Green autobiography. La natura è un racconto interiore, Anghiari, Booksalad, Ingratitudine. La memoria breve della riconoscenza, Milano, Cortina, Scrivi, frate Francesco. Una guida per narrare di sè, Padova, Messaggero, La vita si cerca dentro di sé. Lessico autobiografico, Milano, Mimesis, Terra, Milano, Dialogos, Foliage. Vagabondare in autunno, Milano, Cortina.  Wikipedia Ricerca Marte (divinità) dio romano della guerra e dei duelli Lingua Segui Modifica Marte (in latino: Mars[1]) è, nella religione romana e italica[2], il dio della guerra e dei duelli e, secondo la mitologia più arcaica, anche del tuono, della pioggia e della fertilità. Simile alla divinità greca Ares, col tempo ne ha assorbito tutti gli attributi, fino a venire completamente identificato con esso.   Statua colossale di Marte: "Pirro" nei Musei capitolini a Roma. Fine del I secolo d.C. CultoModifica  Venere e Marte, affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. È una divinità sia etrusca[4] che italica (Mamers nei dialetti sabellici[5]); nella religione romana (dove era considerato padre del primo re Romolo) era il dio guerriero per eccellenza, in parte associato a fenomeni atmosferici come la tempesta e il fulmine. Assieme a Quirino e Giove, faceva parte della cosiddetta "Triade arcaica", che in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove, Giunone e Minerva. Più tardi, identificandolo con il greco Ares, venne detto figlio di Giunone e Giove e inserito in un contesto mitologico ellenizzato.  Alcuni studiosi del passato (Wilhelm Roscher, Hermann Usner, e soprattutto Alfred von Domaszewski) hanno parlato di Marte anche nei termini di divinità "agraria", legata all'agricoltura, soprattutto sulla scorta del testo di una preghiera rimastaci nel De agri cultura di Catone, che lo invoca per proteggere i campi da ogni tipo di sciagura e malattia. Secondo Georges Dumézil tuttavia il collegamento fra Marte e l'ambito campestre non farebbe di lui una divinità legata alla terra, in quanto il suo ruolo sarebbe esclusivamente di difensore armato dei campi da mali umani e soprannaturali, senza diversificazione dalla sua natura intrinsecamente guerresca.  Il dio, inoltre, rappresentava la virtù e la forza della natura e della gioventù, che nei tempi antichi era dedita alla pratica militare. In questo senso era posto in relazione con l'antica pratica italica del uer sacrum, la Primavera Sacra: in una situazione difficile, i cittadini prendevano la decisione sacra di allontanare dal territorio la nuova generazione, non appena fosse divenuta adulta. Giunto il momento, Marte prendeva sotto la sua tutela i giovani espulsi, che formavano solo una banda, e li proteggeva finché non avessero fondato una nuova comunità sedentaria espellendo o sottomettendo altri occupanti; accadeva talvolta che gli animali consacrati a Marte guidassero i sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo (hirpus) aveva guidato gli Irpini, un picchio (picus) i Piceni, mentre i Mamertini derivavano il loro nome direttamente da quello del dio. Sempre a Marte era dedicata la legio sacrata, cioè la legione Sannita, detta anche linteata, poiché era bianca.[senza fonte]  Marte, nella società romana, assunse un ruolo molto più importante della sua controparte greca (Ares), probabilmente perché considerato il padre del popolo romano e di tutti gli Italici in generale: Marte, accoppiatosi con la vestale Rea Silvia generò Romolo e Remo, che fondarono Roma.[6] Di conseguenza Marte era considerato il padre del popolo romano e i romani si chiamavano tra loro Figli di Marte. I suoi più importanti discendenti, oltre a Romolo e Remo, furono Pico e Fauno.  Marte comparve spesso sulla monetazione romana, sia repubblicana che imperiale, con vari titoli: Marti conservatori (protettore), Marti patri (padre), Mars ultor (vendicatore), Marti pacifero (portatore di pace), Marti propugnatori (difensore), Mars victor (vincitore).  Il mese di marzo, il giorno di martedì, i nomi Marco, Marcello, Martino, il pianeta Marte, il popolo dei Marsie il loro territorio Martia Antica (la contemporanea Marsica) devono a lui il loro nome.  Leggenda sulla nascita di MarteModifica Secondo il mito, Giunone era invidiosa del fatto che Giove avesse concepito da solo Minerva senza la sua partecipazione. Chiese quindi aiuto a Flora che le indicò un fiore che cresceva nelle campagne in Etoliache permetteva di concepire al solo contatto. Così diventò madre di Marte, che fece allevare da Priapo, il quale gli insegnò l'arte della guerra. La leggenda è di tradizione tarda come dimostra la discendenza di Minerva da Giove, che ricalca il mito greco. Flora, al contrario, testimonia una tradizione più antica: l'equivalente norreno Thor nasce dalla terra, Jǫrð e così le molte divinità elleniche.  NomiModifica  Statua di Marte nudo in un affrescodi Pompei. Marte era venerato con numerosi nomi dagli stessi latini, dagli Etruschi e da altri popoli italici:  Maris, nome Etrusco da cui deriva il nome del Dio Romano;[4] Mars, nome Romano; Marmar; Marmor; Mamers, nome con cui era venerato dai popoli italicidi stirpe osca[7]; Marpiter; Marspiter; Mavors. EpitetiModifica Diuum deus: 'dio degli dei', nome con cui viene designato nel Carmen Saliare. Gradivus: 'colui che va', con valore spesso di 'colui che va in battaglia', ma può essere collegato anche al ver sacrum, quindi 'colui che guida, che va'. Leucesios: epiteto del Carmen Saliare che significa 'lucente', 'dio della luce', questo epiteto può essere anche legato alla sua caratteristica di dio del tuono e del lampo. Silvanus: in Catone, nel libro De agricultura, 83 Marte viene soprannominato Silvanus in riferimento ai suoi aspetti legati alla natura e collegandolo con Fauno. Ultor: epiteto tardo, dato da Augusto in onore della vendetta per i cesaricidi (da ultor, -oris: vendicatore). RappresentazioniModifica Gli antichi monumenti rappresentano il dio Marte in maniera piuttosto uniforme; quasi sempre Marte è raffigurato con indosso l'elmo, la lancia o la spada e lo scudo, raramente con uno scettro talvolta è ritratto nudo, altre volte con l'armatura e spesso ha un mantello sulle spalle. A volte è rappresentato con la barba ma, nella maggior parte dei casi, è sbarbato. È raffigurato a piedi o su un carro trainato da due cavalli imbizzarriti, ma ha sempre un aspetto combattivo.  Gli antichi Sabini lo adoravano sotto l'effigie di una lancia chiamata "Quiris" da cui si racconta derivi il nome del dio Quirino, spesso identificato con Romolo. Bisogna dire che il nome Quirinus, come il nome Quirites, deriva da *co-uiria, cioè assemblea del popolo e indicava il popolo in quanto corpus di cittadini, da distinguere con Populus (dal verbo populari = devastare), che indica il popolo in armi.  Il ruolo di Marte a RomaModifica  Venere e Marte, affresco romano da Pompei, 1 secolo d. C. A Roma Marte era onorato in modo particolare. A partire dal regno di Numa Pompilio, venne istituito un consiglio di sacerdoti, scelti tra i patrizi, chiamati Salii, chiamati a vigilare su dodici scudi sacri, gli Ancilia, di cui si dice che uno sia caduto dal cielo. Questi sacerdoti erano riconoscibili dal resto del popolo per la loro tunica purpurea. I sacerdoti Salii, in realtà erano un'istituzione ben più antica di Numa Pompilio, risalivano addirittura al re-dio Fauno, che li creò in onore di Marte, costituendo così i primi culti iniziatici latini.  Nella capitale dell'impero, vi era anche una fontana consacrata al dio Marte e venerata dai cittadini. L'imperatore Nerone, una volta, si bagnò in quella fontana, gesto che fu interpretato dal popolo come un sacrilegio e che gli alienò la simpatia popolare. A partire da quel giorno, l'imperatore iniziò ad avere problemi di salute, secondo la gente dovuta alla vendetta del dio.  FestivitàModifica Era venerato fastosamente in marzo, il primo mese dell'anno nel calendario romano, che segnava la ripresa delle attività militari dopo l'inverno e che portava il suo nome, con le feriae Martis, Equirria, agonium martiale, Quinquatrus e tubilustrum. Altre cerimonie importanti avvenivano in febbraio e in ottobre.  Gli Equirria si tenevano. Erano giorni sacri con significato religioso e militare; i romani vi mettevano molta enfasi per sostenere l'esercito e rafforzare la morale pubblica. I sacerdoti tenevano riti di purificazione dell'esercito. Si tenevano corse di cavalli nel Campo Marzio.  Le feriae Martis si tenevano dal 1º marzo al 24 marzo. Durante le feriae Martis i dodici Salii Palatinipercorrevano la città in processione, portando ciascuno un Ancile, uno dei dodici scudi sacri, e fermandosi ogni notte ad una stazione diversa (mansio). Nel percorso i Salii eseguivano una danza con un ritmo di tre tempi (tripudium) e cantavano l'antico e misterioso Carmen Saliare. Il 19 marzo si teneva il Quinquatrus, durante il quale gli scudi venivano ripuliti. Il 23 marzo si teneva il Tubilustrium, dedicato alla purificazione delle trombe usate dai Saliie alla preparazione delle armi dopo la pausa invernale. Il 24 marzo gli ancilia venivano riposti nel sacrario della Regia.  L'October Equus si teneva alle idi di ottobre (15 ottobre). Si svolgeva una corsa di bighe e veniva sacrificato a Marte il cavallo di destra del trio vincente tramite un colpo di lancia del Flamine marziale. La coda veniva tagliata e il suo sangue sparso nel cortile della Regia. C'era una battaglia tradizionale tra gli abitanti della Suburra che volevano la coda per portarla alla Turris Mamilia e quelli della Via Sacra che la volevano per la Regia.  Il 19 ottobre si teneva l'Armilustrium, dedicato alla purificazione delle armi e alla loro conservazione per l'inverno.  Ogni cinque anni si tenevano in Campo Marzio le Suovetaurilia, dove davanti all'altare di Marte (Ara Martis) il censo veniva accompagnato da un rito di purificazione tramite il sacrificio di un bue, un maiale e una pecora.  Luoghi di cultoModifica  Marte e Venere, copia settecentesca da I Modi di Marcantonio Raimondi Tra le popolazioni italiche, si sa di un antico tempio dedicato al dio Marte a Suna,[8] antica città degli Aborigeni, e di un oracolo del dio, nella città aborigena di Tiora.[9]  Animali e oggetti sacriModifica Lupo: si ricorda il nipote Fauno, il lupo per eccellenza è la lupa che ha allattato Romolo e Remo[6] Picchio: il picchio è l'uccello del tuono e della pioggia oracolare, ha nutrito Romolo e Remo insieme alla lupa Cavallo: simbolo della guerra (si ricorda Nettuno e gli Equirria) Toro: altro animale molto importante per il ver sacrum e per tutti i popoli italici Hastae Martiae: sono le lance di Marte che si scuotevano in caso di gravi pericoli, tenute nel sacrario della Regia Lapis manalis: la pietra della pioggia, in quanto dio della pioggia OfferteModifica A Marte si offrivano come vittime sacrificali vari tipi di animali: dei tori, dei maiali, delle pecore e, più raramente, cavalli, galli, lupi e picchi verdi, molti dei quali gli erano consacrati. Le matrone romane gli sacrificavano un gallo il primo giorno del mese a lui dedicato che, fino al tempo di Gaio Giulio Cesare, era anche il primo dell'anno.  Identificazioni con dei celticiModifica Mars Alator: Fusione con il dio celtico Alator Mars Albiorix, Mars Caturix o Mars Teutates: Fusione con il dio celtico Toutatis Mars Barrex: Fusione con il dio celtico Barrex, di cui si ha notizia solo da un'iscrizione a Carlisle Mars Belatucadrus: Fusione con il dio celtico Belatu-Cadros. Questo epiteto è stato trovato in cinque iscrizioni nell'area del Vallo di Adriano Mars Braciaca: Fusione con il dio celtico Braciaca, trovato in un'iscrizione a Bakewell Mars Camulos: Fusione con il dio della guerra celtico Camulo Mars Capriociegus: Fusione con il dio celtico gallaico Capriociegus, trovato in due iscrizioni a Pontevedra Mars Cocidius: Fusione con il dio celtico Cocidio Mars Condatis: Fusione con il dio celtico Condatis Mars Lenus: Fusione con il dio celtico Leno Mars Loucetius: Fusione con il dio celtico Leucezio Mars Mullo: Fusione con il dio celtico Mullo Mars Nodens: Fusione con il dio celtico Nodens Mars Ocelus: Fusione con il dio celtico Ocelus Mars Olloudius: Fusione con il dio celtico Olloudio Mars Segomo: Fusione con il dio celtico Segomo Mars Visucius: Fusione con il dio celtico Visucio Marte nell'arteModifica PitturaModifica Marte, di Diego Velázquez (1640) Marte che spoglia Venere con amorino e cane, di Paolo Veronese Marte e Venere sorpresi da Vulcano, di François Boucher (1754) Minerva protegge la Pace da Marte, di Pieter Paul Rubens (1629-1630) Venere e Marte, di Sandro Botticelli NoteModifica ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Pallotino, pp. 29, 30; Hendrik Wagenvoort, "The Origin of the Ludi Saeculares," in Studies in Roman Literature, Culture and Religion (Brill, 1956), p. 219 et passim; John F. Hall III, "The Saeculum Novum of Augustus and its Etruscan Antecedents," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.3 (1986), p. 2574. ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Strabone, Geografia, V 3.2. ^ Nota sul dio Mamerte (o Mamers), in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.3. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.5. BibliografiaModifica Andrea Carandini, La nascita di Roma, Torino, Einaudi, 1997, ISBN 88-06-14494-4. (L'archeologo Andrea Carandini dà la definitiva rivalutazione del dio Marte). Renato Del Ponte, Dei e miti italici, Genova, ECIG, Dumézil, La religione romana arcaica, Milano, Rizzoli, Libro del grande storico delle religioni, che per primo rivalutò Marte da feroce dio emulo di Ares a divinità più originale e importante). James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi, Un libro che dimostra come questo dio sia presente nelle guerre contemporanee). Jacqueline Champeux, La religione dei romani, Bologna, Il Mulino, Ares Divinità della guerra Flamine marziale Fauno Marte (astronomia) Mamerte Pico (mitologia) Hachiman, Fano di Marmar [collegamento interrotto], su latinae.altervista.org. Portale Antica Roma   Portale Mitologia Ultima modifica 2 mesi fa di 79.30.61.157 PAGINE CORRELATE Salii collegio sacerdotale romano per il culto di Marte  Mamuralia festività  Triade arcaica,  Duccio Demetrio. Demetrio. Keywords:il sentimento taciuto, maschile, omossesuale, perseo, medusa, solitudine, filosofia del maschile, il maschile, homo-socialite, lo sguardo maschile, virilita, virus, virtu, il concetto del maschile nella roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Demetrio” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Democede: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Captured by the Persians, helps to cure an ankle injury that is plaguing Dario. He eventually escapes and returns to Crotone. Giamblico says he has a Pythagorean, one of those who fled Crotone during an uprising against the sect. If this is true, if presumably happens after his return from Persia. Democede.

 

Grice e Demostene – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. A pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Desideri: l’implicatura conversazionale dei consenzienti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Desideri; he would be what we at Oxford call a ‘philosopher of perception,’ and therefore his keywords have been aisthetsis, sensation, and the rest – he has also played with some Latinate, like ‘imaggine dell’imagine’ and with ‘empathy.’ He endorses a Griceian sort of empathetic theory, as evidenced in the idea of ‘comprehension,’ a latinate term for English ‘understanding.’ “He has beautiful handwriting,’ while there is a hygienic interval between I and thou, thou getest what I mean! That he is HOPELESS at philosophy.” Insegna a Firenze. Cura Nietzsche, Kant, Benjamin, Kafka. Altre opere: “Il tempo e la forma” (Roma, Editori riuniti); “Il fine del tempo” (Genova, Marietti); “La scala della giustizia” (Bologna, Pendragon); “Il velo di Iside: coscienza, messianismo e natura nel pensiero romantico” (Bologna, Pendragon); “L'ascolto della coscienza” (Milano, Feltrinelli); “Aporia del sensibile” (Genova, Il melangolo); “Il passaggio estetico” (Genova, Il melangolo); “Forme dell'estetica: dall'esperienza del bello al problema dell'arte” – “L’esperienza del  bello” (Roma-Bari, Laterza); “L’ esperienza e la percezione riflessa: estetica e filosofia psicologia (Milano, Raffaello Cortina); “La misura del sentire: per una ri-configurazione dell'estetica” (Milano-Udine, Mimesis); “Origine dell'estetico: dall’emozione al giudizio” (Roma, Carocci);  “Percezione ed estetica” (Brescia, Morcelliana).  A Francesco e Nicola  Il fascismo e il consenso degl’intellettuali  Il Mulino, Bologna. Quando ho iniziato le ricerche condensate in questo saggio, testimonianze e giudizi storiografici erano unanimi nel riflettere la nota negazione crociana  dell’esistenza di una cultura o filosofia fascista: un giudizio che trova ancora oggi il suo principale e più autorevole sostenitore in Bobbio, ma che ritorna anche in protagonisti della lotta anti-fascista e in  studiosi di altre aree politiche e culturali, come Amendola e Rosa. I motivi del persistere di questa negazione, in chi pur si è dedicato da tempo a indagare con severo impegno civile sulla funzione politica  della cultura, richiederebbero una ricerca apposita, che  metterebbe probabilmente in luce, accanto alla fortuna del crocianesimo e alla diffidenza verso l’intellettuale-funzionario di supposta matrice fascista, o all’originaria riduttiva lettura di Gramsci, una decisa sottovalutazione, su un  piano pit generale, del peso del fenomeno della filosofia fascista nella storia italiana. È forse quest’ultimo l’elemento che continua  a opporre maggiore resistenza alla corretta impostazione di  un’indagine su una stagione culturale che non si esauri nel ventennio, ma proietta le sue ombre anche sul periodo postfascista: con un bilancio, si badi bene, che non può ridursi a distinguere vera e falsa filosofia o cultura, o a chiedersi quali prodotti di vera filosofia o cultura promosse il fascismo. Per affermare che il fascismo non ha legami colla filosofia è necessario adoperare il termine in modo puramente valutativo, escludendo dal suo ambito tutto ciò  che viene giudicato dannoso, oppure minimizzare sistema. Su alcuni di questi temi un primo spunto di ricerca è stato fornito da E. Galli della Loggia, Ideologie, classi e costume, Castronovo, Torino, Einaudi. ) ticamente il numero di punti di contatto esistenti tra il regime e la filosofia, opportunamente osserva Lyttelton, e la notazione potrebbe essere estesa ad altre  discipline, come quelle giuridiche ed economiche, per considerare, accanto a ciò che di non caduco fu prodotto nel  campo dell’alta cultura, oltre che nel terreno inesplorato  della mentalità dei diversi strati sociali —, anche i « pensieri che non furono pit pensati. Ma a una valutazione  complessiva di questa tematica è di ostacolo un giudizio  simmetrico a quello crociano, teso a mettere in dubbio  l’esistenza di ur fascismo italiano: in questo senso Felice ha fatto veramente scuola presso quanti hanno  avallato la tesi propria del fascismo, di possedere una ideologia non reazionaria, o hanno tratto spunto dalle doti intellettuali di Bottai per presentarlo come filosofo fascista critico. Solo pochi studiosi hanno cominciato, in questi ultimi  anni, a presentare un diverso approccio al problema, tenendo presenti i nessi tra la cultura, l’ideologia e gli obiettivi politici del fascismo, e sfuggendo quindi al rischio di  esaminare le idee dei singoli intellettuali in modo separato  dal contesto in cui operarono: rischio di un genere bio-  Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo, Bari, Laterza, A. Momigliano, Gli studi italiani di storia greca e romana, in La vita intellettuale italiana, scritti in onore di Croce, a cura di Antoni e Mattioli, Napoli, Edizioni scientifiche  italiane. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, Bari,  Laterza, e Guerri, Giuseppe Bottai, un fascista critico, prefazione di U. Alfassio Grimaldi, Milano, Feltrinelli, Cosî L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e  riviste del fascismo, Bari, Laterza, Montenegro, Politica estera  e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto per gli studi di politica  internazionale, in «Studi storici»;  M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti  sulla cultura fascista, Torino, Einaudi. Né più produttiva appare una lettura solo apparentemente rovesciata, come quella di un Cantimori tutto politico che niente ci dice  sul suo « mestiere » di storico: cfr. M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo.  Saggio su Delio Cantimori, Bari, De Donato,  e le puntuali osser-   grafico che — pur sempre utile e auspicabile — anche nei  suoi esempi migliori tende a « eroicizzare » alcune perso-  nalità anticipando spesso nel tempo gli esiti della loro ri-  cerca culturale e politica. Abbiamo quindi ritenuto neces-  sario — ai fini di una lettura « politica », per quanto pos-  sibile, della cultura e degli orientamenti dei suoi produttori  nel ventennio — porre al centro dell’indagine le istituzioni  culturali del regime, di cui l’Enciclopedia italiana è, per  l’alta cultura, l’espressione pit significativa, in quanto  momenti di aggregazione degli intellettuali di cui il fasci-  smo voleva acquisire il consenso. Istituzioni culturali che  non si limitano a una « gestione » puramente esterna della  cultura preesistente ”, ma producono anche contenuti nuovi,  mettendo in circolazione modi di pensare o temi di studio  funzionali all’ideologia dominante. Con ciò non vogliamo  negare che il fascismo recuperi motivi già presenti nell’Ita-  lia liberale — come il nazionalismo o le tendenze corpo-  rative —, secondo l’« ideologia eclettica » del Pnf, prima  « organizzazione politica unificata » della borghesia ita-  liana, pronta a raccogliere ogni « prestito » capace di raf-  forzarla *: motivi che tuttavia la borghesia prefascista —  a meno di non darle credito di una coerenza e di una  « preveggenza » che non ci pare abbia av uto nel suo com-  plesso ® — non era riuscita a connettere saldamente insieme  in quella sorta di koiné che nel periodo fascista, se pur  si avvale di apporti diversi, non è meno omogenea per gli  obiettivi che si pone e per la continua interscambiabilità tra  cultura e ideologia. Un «linguaggio » alla cui formula-    vazioni di G. Santomassimo in « Italia contemporanea »,In questo senso si esprime, oltre ad Asor Rosa (citato nel testo),  A.L. de Castris, Gramsci e il problema dell’egemonia negli anni trenta,  in « Lavoro critico »  (il numero è  dedicato a « Le culture del fascismo »).   8 P. Togliatti, Lezioni sul fascismo, prefazione di E. Ragionieri, Roma,  Editori Riuniti Su questo collegamento tra Italia liberale e fascismo insiste Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia,  Padova, Marsilio (su cui cfr. gli interventi di R. Romanelli, M.L.  o Toniolo in «Quaderni storici zione contribuiscono, in misura e con capacità di manovra  insusitate, i cattolici. È appunto considerandone la parte-  cipazione massiccia alle istituzioni del regime — dove i collaboratori si confondono con i  critici dell’idealismo e, qualche volta, del fascismo stes-  80 —, che è possibile cogliere un aspetto non secondario  della « trasformazione della presenza cattolica in Italia, non  più caratterizzata, come nel prefascismo, da un rapporto  preminente col mondo contadino, ma profondamente inse-  rita a tutti i livelli nella moderna società industriale » !°  con un insieme di « scambi » culturali che, anche in una  prospettiva di lungo periodo, ha un peso ben maggiore della  riflessione più propriamente religiosa di quei gruppi élitari  nei quali si è voluto cogliere il nucleo della classe dirigente  democristiana "   Un'indagine approfondita sulla politica culturale del  regime ci pare preliminare anche per valutare quelli che  .abbiamo chiamato i « limiti del consenso ». Solo partendo  dalla considerazione dell’esistenza di una vasta rete di isti-  tuzioni fasciste che producono e trasmettono cultura —  contro la quale si infrangono i sogni di una cultura « al di  sopra della mischia » propri di un Formiggini — è possi-  bile impostare un discorso sulla cultura « sommersa » du-  rante il ventennio e sui suoi sbocchi nel 1945 — e anche  in questo caso, più che affidarci ai « lunghi viaggi » dei  «singoli, che rischiano di ridursi a personali esami di co-  scienza senza grande risonanza, abbiamo rivolto l’atten-  zione ad altri centri di aggregazione degli intellettuali e di  diffusione della cultura, le case editrici, pur senza essere  stati in grado di fornite quei preziosi dati « materiali »  Rossi, La Chiesa e le organizzazioni religiose, in La Toscana nel regime fascista, Firenze, Olschki, Come ha fatto, analizzando la Fuci e il Movimento laureati cattolici, Moro, La formazione della classe dirigente Cattolica, Bologna, il Mulino; contro una prima formulazione di  questa tesi ha polemizzato Pietro Scoppola che però, per esaltare l’impronta di rinnovamento impressa da De Gasperi alla DC, ha ribaltato la  sua tesi originaria sostenendo il « sostanziale consenso al regime », senza  incrinature, dei cattolici (Le proposta politica di De Gasperi, Bologna,  il Mulino, dell’azienda editoriale che sono stati pionieristicamente fatti  oggetto di studio, per un altro periodo, da Marino Beren-  go !. Il mancato riferimento alla forza condizionante delle  istituzioni del regime è infatti all'origine sia di facili asso-  luzioni di una cultura che sarebbe passata indenne « attra»  verso  il fascismo, sia di altrettanto gratuite reprimende  contro l’incapacità di rinnovamento delle forze di sinistra. Fra l’accusa al PCI di essersi fatto carico del-  l’« ideologia della ricostruzione » — per cui si sopravva-'  luta il significato dell’« inquietudine politica » de « Il Politecnico » —, e la riproposizione crociana di una cultura  che, sotto il fascismo, si era chiusa su se stessa, rivendicando la propria autonomia: e da una tacita contrattazione col potere aveva ottenuto il permesso di vivere e di  svilupparsi nella sua (pseudo) separatezza», vi è infattiuno iato profondo che non permette di spiegare storicamente gli indubitabili ritardi registrabili  nel  rinnovamento culturale. Il processo di affrancamento degli intellettuali dalla  cultura del regime fu in realtà assai complesso, anche quando passò attraverso la difesa dell'autonomia della cultura.  Vi può essere stata, da un lato, l’indifferenza di fronte  alla politica di molti intellettuali che è all’origine sia di  un loro acritico allineamento al fascismo, sia di un arroccamento attorno alla tradizione accademica, che nelle Università trovò alcuni spazi per mantenersi separata dalla  militanza politica richiesta dal fascismo, anche se col rischio  di un progressivo inaridimento. D'altro canto, in un Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione,  Torino, Einaudi Cosi Luperini, Gl’intellettuali di sinistra e l'ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, Roma, edizioni di « Ideologie. Ne ha parlato Tranfaglia, Intellettuali e fascismo. Appunti per  una storia da scrivere, ora in Id., Dallo stato liberale al regime  fascista. Problemi e ricerche, Milano, Feltrinelli;  G. Turi, Le istituzioni culturali del regime fascista durante la  seconda guerra mondiale, in Italia contemporanea, e, con ottica diversa, Bongiovanni - Levi, L’università di Torino durante il fascismo. Le Facoltà umanistiche e il Politecnico, Torino, Giappichelli.  periodo in cui, e la soppressione  completa della dialettica politica, il terreno culturale divenne nel paese un importante termine di confronto per  verificare anche l’esistenza di schieramenti tendenzialmente  politici, la rivendicazione dell’autonomia della cultura co-  stituî negli intellettuali più consapevoli uno strumento per  segnare una rottura nei confronti del regime, in vista della  ricostituzione di un rapporto nuovo fra politica e cultura:  fu questo il senso della battaglia di Croce, di alcuni dei  principali collaboratori di Einaudi in un primo  luogo Ginzburg, e di alcuni settori di ascendenza  democratica, socialista e positivista per altro ancora da  indagare in tutte le loro ramificazioni, che abbiamo esemplificato nel gruppo raccolto attorno alla casa editrice Formiggini. Non bisogna tuttavia dimenticare che la cultura elabo-  rata dagli intellettuali del fascismo impose un arretramento  del punto di partenza di una battaglia culturale e politica che nel campo degl’avversari fu necessariamente sfumata, ma anche non priva di oscillazioni, contraddizioni e riflussi tanto che poté apparire anticon-  formista la ripresa di motivi sostanzialmente non antitetici al fascismo, come nel caso del liberismo di Einaudi, e che perciò non può essere immediatamente classificata nella categoria dell’antifascismo. Se è quindi possibile constatare come tanta parte della “intelligenza” italiana sboccasse nell’Italia postfascista senza che le trasformazioni di superficie corrispondessero a reali rinnovamenti di fondo, ciò è addebitabile, più che a uno zdanovismo che in realtà non conculcò alcuna esistente  cultura  rivoluzionaria!, al ben più drastico condizionamento  Garin, Intellettuali italiani, Roma, Riuniti. Elementi contraddittori si mescolano a interessanti suggerimenti  di ricerca nella testimonianza di Franco Fortini: « Quando si farà la storia  dello stalinismo italiano e si documenterà la repressione avvenuta ai danni di una cultura rivoluzionaria non conformista che,  incerta e confusa, pur si veniva formando; e quando si chiarirà fino a  qual punto la debolezza intellettuale degli usciti dal fascismo, cioè di noi  stessi, abbia cospirato obiettivamente con talune debolezze morali e con operato da tempo dal fascismo: con il risultato che il pro-  cesso di rinnovamento degli intellettuali italiani si presen-  terà assai più lento delle trasformazioni politiche del paese.  Non ci sentiamo tuttavia in grado di dare giudizi definitivi  sulla controversa questione, anche in questo campo, relativa alle continuità o alle rotture nella storia d’Italia. Ci  preme aver indicato un approccio di ricerca che ci sembra  fruttuoso, e auspicare che i risultati raggiunti stimolino  ulteriori indagini e riflessioni.    Primo a seguire e incoraggiare questa ricerca è stato  Ragionieri, il cui ricordo è difficilmente cancella-  bile in chi ne ha conosciute e apprezzate le doti umane,  intellettuali, politiche: a lui va il mio principale debito di  riconoscenza, nella speranza di essere rimasto fedele, almeno in parte, alla sua eccezionale lezione di rigore scientifico.   Fra quanti hanno letto interamente o in parte il datti-  loscritto, ‘aiutandomi con correzioni e suggerimenti, ringrazio in particolare Garin, Mori, Palla, Ranchetti,  Soldani e Torrini; e, con loro, i numerosi studenti e amici che hanno  discusso la tematica di questa ricerca nei seminari tenuti  presso l’Istituto di storia della Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze. Né posso dimenticare chi, regalandomi una  stagione felice, ha reso più leggera la mia fatica.   Il lavoro non sarebbe stato possibile senza la preziosa  collaborazione del personale della Biblioteca nazionale di  Firenze e di quanti mi hanno facilitato la consultazione di  fondi archivistici: Cappelletti per l’Archivio dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana; Milano e Selmi per l'Archivio Formiggini presso la Biblioteca estense di Modena;    la politica culturale stalinista, polemizzando contro quest’ultima da destra  e cioè da posizioni radical-liberali invece che da posizioni marziste, allora  sarà possibile farsi un’idea meno mitica di certi tentativi, come quelli  del neorealismo cinematografico, del “Politecnico”, ecc.» (Verifica dei  poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Garzanti. il personale della Fondazione Einaudi; Einaudi, Vivanti e l’archivista Gava per. i  documenti della casa editrice Einaudi; Balbo che mi ha concesso la visione delle carte di Balbo da lei tanto amorevolmente custodite, e Bobbio che ha messo a mia disposizione il suo archivio personale.   Non è stata invece possibile la consultazione dell’Archivio Gentile, ancora in attesa di una sistema-  zione che permetta l’accesso agli studiosi. In questo volume si riproducono, con alcune modifiche, i seguenti saggi: Il progetto dell’Enciclopedia italiana: l’organizzazione del consenso fra gli intellettuali,  in « Studi storici » (si limita a  riprodurre la tematica di questo articolo, senza nulla aggiun-  gere, la maggior parte del volumetto  di Lazzari, L’Enciclopedia Treccani. Intellettuali e potere durante il fascismo, Napoli, Liguori, tributario  del mio saggio anche per le fonti); Ideologia e cultura del  fascismo nello specchio dell’Enciclopedia italiana, in « Stu-di storici; l'introduzione alla  ristampa non integrale di Formiggini, “Storia della mia casa editrice”, Modena, Levi. Il saggio I limiti del  consenso: le origini della casa editrice Einaudi è inedito: per questo ho potuto utilizzare il contributo CNR Ideologia e cultura del fascismo:  l’« Enciclopedia italiana. Opere come l’Ernciclopedia, cui Gentile da cosi valido impulso, hanno nella vita di un tempo un peso  singolare. E innanzi ad esse, e alla loro penetrazione profonda, conviene chiedersi se, per avventura, taluni giudizi  correnti non debbano essere rivisti e corretti. L’osservazione di Garin, fatta per inciso in una ricostruzione generale di LA FILOSOFIA ITALIANA, comport una verifica dell'equazione crociana fascismo-anticultura e  cultura-antifascismo, e quindi quel più attento riesame delle  vicende culturali fra le due guerre, in stretto rapporto con l’obiettivo del regime di organizzare il consenso dei FILOSOFI, che attende ancora di essere compiuto sistematicamente. Cosi non solo l’Enciclopedia italiana, utilizzata da  studiosi stranieri come fonte sulla dottrina filosofica del  fascismo o come espressione dell’orientamento prevalente nella cultura italiana -- ma anche  l’opera di Gentile teorico del periodo di consolidamento del fascismo, come lo ha definito Lukàcs, con espressione ben piu corretta della generica formula di filosofo del  fascismo, sono rimaste avvolte in un silenzio che è già per se stesso elemento di riflessione sui profondi condizionamenti subiti a lungo dalla cultura italiana del secondo (Garin, CRONACHE DI FILOSOFIA ITALIANA. Bari, Laterza, Efirov, La filosofia borghese italiana, Firenze,  Sansoni, Hobsbawm, Il contributo di Marx alla storiografia, in Marx vivo. La presenza di Marx nel pensiero contemporaneo, Milano, Mondadori, Lukàcs, La distruzione della ragione, Tortino, Einaudi] dopoguerra, che negli anni venti e nel fascismo, e nel giudizio che ne da Croce, hanno la loro origine. Il discorso sulla FILOSOFIA di Gentile, condotto in prevalenza da suoi allievi nel “Giornale critico della filosofia italiana”con particolare lucidità da SPIRITO, che ha ricostruito le tappe del suo distacco dal maestro come sviluppo degli stessi principi attualisti, è rimasto limitato a un recupero agiografico o a  un anacronistico rilancio, privo di prospettive storiografiche perché astratto dall’analisi del fascismo, in cui SPIRITO ha voluto individuare, con un giudizio che richiede di essere specificato, pensiamo in particolare al peso che ha anche sul piano culturale il connubio regime/culto — “la  ragione effettiva della crisi dell’idealismo italiano” tale, quindi, da non consentire quell’esame della personalità di GENTILE come promotore e organizzatore di alta cultura sul piano nazionale cui pur richiama il  gentiliano Bellezza. Le stesse CRONACHE DI FILOSOFIA ITALIANA, di Garin, mosse dall’intento di considerare uomini e dottrine come  espressioni di un tempo e, insieme, come forze che in un tempo agirono, e attente a non cadere nella troppo sche- [Il primo studio moderno con intenti di completezza è quello di Harris, “La filosofia di Gentile” (Roma,  Armando), condotto però nella costante preoccupazione, come afferma Harris nella prefazione all’edizione originale — di vedere “how far his “actual idealism” may be disentangled  from its fascist connections”, or implicatures [entanglement, Lewis/Short, ‘in-plicatura’]-- , da cui discende il giudizio sull’oggettività dell’Enciclopedia italiana. Per una confutazione della critica a Gentile sulla linea liberale condotta da Harris cfr. Cerroni,  “La filosofia politica di Gentile”, “Società”. Per una ricostruzione storica della figura di GENTILE  sono di grande utilità gli accenni, non tanto incidentali, di Colapietra, “Croce e la politica italiana” (Bari, Santo Spirito, Edizioni del centro librario, le osservazioni di Schiavo, “La filosofia politica di Gentile” (Roma,  Armando), e, pur con alcuni accenti apologetici, Lalla,  “Gentile” (Firenze, Sansoni). Spirito, “Gentile” (Firenze, Sansoni), in particolare  l'articolo qui raccolto su Gentile nella prospettiva storica di oggi.  Di Spirito cfr. anche “Memorie di un incosciente” (Milano, Rusconi). Bellezza, Rassegna degli studi gentiliani più recenti, “Giornale di metafisica.” L’Enciclopedia italiana] matida antitesi Gentile-fascismo e Croce-antifascismo, non colgono compiutamente la funzione mediatrice dei filosofi— lasciando spesso indeterminato il tempo nel quale operarono, come nota Cantimori auspicandoneluna specificazione. La società, le classi, le università, le istituzioni in generale, i partiti, le tradizioni culturali locali oltre che quelle nazionali, ecc. Ccsi che, anche  nel periodo da noi considerato, in cui quella funzione e particolarmente valorizzata dal fascismo, lasciano imprecisati i condizionamenti del potere politico e gli stessi debiti dei filosofi. Per chiarire non solo l’utilizzazione ideologica di diverse correnti culturali da parte del regime in vista della creazione de l consenso, ma anche in che misura e perché mutarono nel ventennio i contenuti culturali della filosofia, accolti o tenuti ai margini o respinti dal fascismo anche in questo campo l’Italia non si trova nelle  stesse condizioni del periodo liberale, lo studio dell’ “Enciclopedia italiana” può essere particolarmente fruttuoso. Per il momento in cui e ideate, preparate, e realizzata quello dello stato totalitario,  l’autorità dei suoi promotori, basti pensare a GENTILE o a VOLPE, l’ampio ventaglio di collaboratori qualificati e il carattere ufficiale che le e impresso fin dall’inizio, rappresenta lo strumento forse più importante, accanto alla scuola, della politica culturale del fascismo, e quindi un test assai significativo per valutarne gl’effetti di lungo periodo, non riducibili all’ideologia o alla propaganda del regime, anche se con queste connessi. Ma solo tenendo presenti gli obiettivi politici del governo di MUSSOLINI  e la decisa  sconfitta, anche sul piano culturale, degli avversari liberali e socialisti, è possibile spiegare come a GENTILE e possibile dare avvio alla colossale impresa enciclopedica, e l'ampiezza  dell’adesioni da lui raccolte anche da parte di FILOSOFI non fascisti. Se ancora nell’articolo Forza e consenso, Mussolini puo porre l'accento unicamente sul primo termine poiché il consenso è mutevole core le  formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere  sempre. Né mai può essere totale, si fa strada una linea politica più articolata e di più lunga  durata che, se affida a FARINACCI l’esecuzione del momento  della forza e della co-ercizione — mantenendolo come necessario presupposto del consenso, punta, dopo la sconfitta delle forze politiche avversarie, ad acquisire l'adesione,  non solo passiva, di quegli FILOSOFI ormai senza partito, o incerti, la FILOSOFIA dei quali avrebbe potuto costituire, in  assenza di alternative politiche, un fronte di resistenza al regime. Non è un caso che uno degli  esponenti del fascismo che più si impegneranno nel tentativo di formare una nuova classe dirigente, BOTTAI, dichiara su “Critica fascista” che il Pnf dove rivedere la sua azione per conquistare il consenso, e,  se pure la crisi conseguente al delitto Matteotti vede le prime incrinature fra quegli FILOSOFI che non hanno ancora preso le distanze dal fascismo in quanto vedeno  nella collaborazione di GENTILE una garanzia non solo per le  sorti della riforma della scuola, ma anche per quelle del  paese — basti pensare al pessimismo che si fa strada in OMODEO, o a quello che è stato chiamato l’aventino  di Radice, la situazione si presenta favorevole al fascismo per il disorientamento FILOSOFICO che permea le file dei FILOSOFI liberali e socialisti. Quando si apri fra questi FILOSOFI un vasto dibattito sulla sconfitta dello stato liberale e  del movimento operaio, mentre GRAMSCI accusa il socialismo di non avere avuto una ideologia, non averla diffusa [Mussolini, Scritti e discorsi (Milano, Hoepli). Bottai, “Arzo nuovo: il partito e la sua funzione” “Critica  fascista”- [Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi]. Cfr. ad esempio la lettera di OMODEO a Gentile in  Gentile-Omodeo, Carteggio, a cura di Giannantoni (Firenze,  Sansoni). Margiotta, “Radice: tra attualità ed irrisoluzione storica” (Reggio Calabria, Edizioni parallelo). L'Enciclopedia italiana    tra le masse » , quasi con le stesse parole  GOBETTI afferma che i partiti d’opposizione non hanno alimentato alcuna grande ideologia. Il socialismo non ha trapiantato Marx in Italia, per cui il trionfo fascista si connette a queste condizioni di impreparazione. Mondolfo sostene che da una ripresa di idealismo il nostro movimento non può che trarre nuova forza e nuovo impulso, o cerca di dimostrare che poteva essere morale e vantaggiosa quella che si chiama la collaborazione di  classe. Più in generale, la discussione sul marxismo che si svolse su “Critica sociale”, “Rivoluzione  liberale” e “Quarto stato”, rimane condizionata più che mai dall’IDEALISMO HEGELIANO dominante, e non poco ancora, da  quello più accentratamente soggettivistico, l’attualismo gentiliano. Cosi, se ancora “Il Mondo,” dopo  aver negato l’esistenza di un nesso tra le riforme gentiliane e le ideologie fasciste, puo registrare il fallimento del fascismo nel tentativo d’attrarre nella sua orbita FILOSOFI di studio e di dottrina, di circondarsi della sua classe, dopo il Manifesto degli FILOSOFI fascisti, Croce, pur osservando che il fascismo non solo  è indifferente alla filosofia, ma intimamente  ostile, sentendo che dalla filosofia sono venuti  i pericoli all'ordine sociale, era costretto a notare  gl’afaccendamenti inutili e mal graditi di un certo numero di filosofi e fra questi parecchi nostri ex-compagni di studi ed ex-amici che si sono messi al  servizio del fascismo in una situazione d’assoggettamento [Gramsci, Che fare? Per la verità, Scritti, Martinelli (Roma, Editori Riuniti). Gobetti, La mostra cultura politica, in Scritti politici, Spriano (Torino, Einaudi). Mondolfo, Una battaglia per il socialismo, Bassi (Bologna, Tamari). Luporini, Il marxismo e la cultura italiana, in  Storia d’Italia, Torino, Einaudi. Il fascismo e la cultura, in « Il Mondo »] a ferrea disciplina. A Croce sfugge tuttavia l'ampiezza  e la qualità del fenomeno, in quanto rimane convinto che tra fascismo e FILOSOFIA ci fosse un’opposizione in termini. Come partito medio, come idealità che richiede esperienze  e meditazione, senso storico e senso delle cose complesse e complicate, e insomma finezza mentale e morale, il liberalismo, è il  partito della cultura; e liberale e il nostro Risorgimento, nel quale cultura e amor di patria confluirono. Socialismo e autoritarismo, invece, in quanto partiti estremi, ritengono non poco di  astratto e di semplicistico, e perciò, come sono facilmente ricevuti  dagl’animi e dalle menti dei pupilli, cosi presentano i segni caratteristici della scarsa o unilaterale cultura, osserva Croce in un articolo che gli era valso da parte di GENTILE, teso a presentare il  fascismo come vero liberalismo, l’appellativo di schietto fascista senza camicia nera. Si era alla vigilia della  rottura politica tra Croce e Gentile, e il partito della cultura del primo e destinato a rimanere un programma per il future. Le sue preoccupazioni sono tutte volte al future, osserva Gobetti esaltandone l’antifascismo identificato con la ribellione dell’europeo e dell’uomo di cultura, e sottolineando la differenza tra GENTILE DOMMATICO, autoritario, dittatore di provinciale infallibilità e Croce politico, capace di riflessione e di dubbio, detentore di una chiara idea dello stato, che è forza soltanto in quanto  è consenso. Ma, se giustamente venne colta in Croce la separazione impossibile tra filosofia e politica, due elementi sfuggeno agl’osservatori contemporanei: la capacità  dimostrata dal fascismo, e in particolare da Gentile, proprio [Di Croce, Pagine sparse, Bari, Laterza,  Croce, Liberalismo, in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza. Gentile, “Il liberalismo di Croce” in Che cosa  è il fascismo, Discorsi e polemiche, Firenze, Vallecchi. Gobetti, Croce oppositore in Scritti politici,  cli RUN  (Garin, Croce o della separazione impossibile fra filosofia e politica in Filosofi italiani (Roma, Editori uniti)] di combinare forza e CONSENSO nel dar vita a istituzioni tendenti a centralizzare e organizzare le più diverse energie FILOSOFICHE, e la tendenza di molti FILOSOFI che facilita l’opera di Gentile a separare (a differenza di Croce) filosofia e politica, nell’illusione di poter continuare a coltivare la prima, anche all’interno delle istituzioni del regime, senza contaminarla politicamente. Esemplare in questo senso appare la vicenda dell’Enciclopedia italiana: opera di FILOSOFI non alla opposizione, come gl’enciclopedisti francesi, ma ceto dirigente  al governo, nata subito sulla base di uno stretto rapporto di compenetrazione fra FILOSOFI e potere politico, pur  senza rompere immediatamente, secondo l’impostazione  gentiliana, con alcuni esponenti dello stato liberale, la SUMMA PHILOSOPHIAE del fascismo riusci a convogliare verso un unico  fine — con la parziale eccezione dei cattolici, al tempo stesso collaboratori e critici anche FILOSOFI che non  si riconoscevano nel fascismo. Per questo è possibile individuare nell’ “Enciclopedia italiana”, oltre che nella riforma della  scuola, un eccezionale strumento di diffusione della ricostruzione gentiliana della tradizione filosofica italiana,  di una storia della filosofia italiana che è capace di  penetrare dovunque, che è presente nei luoghi più impensati, presso gli avversari più acerbi, raggiungendo sottilmente una egemonia non esaurita, capace di sopravvivere al fascismo. La prima idea concreta di una grande enciclopedia [Cosi Garin nell’introduzione a Gentile, STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA, Firenze, Sansoni. L'idea era in tantissimi e si agitava da un trentennio negli ambienti editoriali italiani, ricorda Formiggini rispondendo all’ex ministro della P.I. Anile che gli aveva attribuito la paternità del progetto (« L’Italia che scrive »).  Un accenno a un non lontano tentativo di Treves, Demarsico e Barbèra, in Formiggini, “La FICOZZA FILOSOFICA del  fascismo e la marcia sulla Leonardo. Libro edificante e sollazzevole, Roma,  Formiggini] nazionale italiana e concepita nell'immediato dopoguerra,  in ambienti di interventisti culturalmente estranei all’idealismo imperante. Comincia a prospettarla Martini, coadiuvato da  Menghini, l’appassionato curatore dell’edizione nazionale degli Scritti  mazziniani. Ad essi si associerà in un estremo tentativo di attuare il progetto, l’editore Formiggini, attivissimo nell’organizzazione e nella propaganda della cultura italiana.  l progetto, riconosciuto pi tardi punto di partenza per l’enciclopedia gentiliana, non e cosa modesta come  tutto ciò che si poteva concepire in quel tempo di smarrimento politico, come cerca di far credere TRECCANI alludendo alla crisi della democrazia liberale precedente la marcia su Roma e all’incertezza dei primi tempi  del fascismo. Il momento in cui nacque e la personalità  del promotore ne testimoniano l’ampiezza delle prospettive,  anche se falli per essere rimasto su un piano puramente  editoriale, privo di un generale criterio informatore dal  punto di vista culturale ed esposto a quelle difficoltà  finanziarie e politiche che TRECCANI e il fascismo faranno superare a Gentile. Si tratta di dare all’Italia, che non l’ha, una Enciclopedia nazionale come l’hanno la Francia, l'Inghilterra, e la Germania, scrive Martini al fedele Donati, appena insediato il  ministero di Giolitti, suo principale obiettivo polemico  assieme a Nitti e ai socialisti. Facciamo, per consolarci,  qualcosa che vada al di là dei giorni che viviamo — tristissimi giorni. Dalla constatazione della inferiorità italiana . Cfr. Biblioteca nazionale centrale di Firenze (d’ora in avanti BNF),  Fondo Martini, lettere di Menghini, e G. Treccani, Enciclopedia italiana. Treccani. Idea esecuzione compimento, Milano, Bestetti. Discorso in occasione della presentazione al duce dell’Enciclopedia italiana -- d’ora in avanti E.I., Treccani, Enciclopedia italiana Treccani. Idea esecuzione compimento, Martini, Lettere, Milano, Mondadori. Su Martini cfr., per un parziale tentativo d’interpretazione, la prefazione  di Rosa a Martini, Digrio, Milano, Mondadori. L’Enciclopedia italiana] nel campo dell’organizzazione della cultura rispetto ai maggiori paesi europei, scaturisce la necessità, e la possibilità,  di ovviarvi dopo la guerra vittoriosa. Necessità che non è solo espressione dell’orgoglio per la forza politica recentemente acquistata dal paese, da tradursi nell’affermazione della filosofia italiana davanti al resto d’Europa. Essa indica anche un’opera preliminare ancora da compiere, indispensabile  alla conservazione di quella forza. Combattere i contrasti interni costruendo, come strumento unificante di egemonia,  una cultura razionale. La fierezza per l’unità, indipendenza e sicurezza finalmente conseguite, e la coscienza che l’Italia e arrivata, dopo secoli di asservimento, ad eguagliare le grandi potenze europee, si une nel dopoguerra al tentativo della disgregata classe dirigente liberale — timorosa di perdere le sue conquiste con l'avanzata delle masse popolari organizzate e d’ispirazione neutralista, socialiste e cattoliche di rafforzarsi egemonicamente; di qui l’importanza che la battaglia culturale, prescelta anche dalle nuove forze antagoniste, rappresentò per la borghesia: l’insistenza  sul significato nazionale o italiano della cultura « tradizionale, esaltato dalla guerra, mira a unificare e  controllare, a difesa dell’ordine costituito, i filosofi  in gran parte già individualmente politicizzati, spesso in  senso conservatore, dal clima bellico. Il programma di  rivolgimento spirituale sotto il segno dell’ordine e della disciplina gerarchica, su cui insiste Gentile di  Guerra e fede, di Dopo la vittoria e dei Discorsi di religione,  e sostenuto da pi voci nelle pagine di « Politica », programma critico del giobittismo come malattia italiana, e in questo senso solo la espressione piu articolata e coerente della borghesia reazionaria che si riconosce nel fascismo, definito sforzo rivoluzionario da VOLPE che lo contrapporta polemicamente a  un'immagine di comodo del socialismo. Muove dalla    % Ci limitiamo a segnalare Garin, Cronache, e, per un quadro europeo, Hughes, “Coscienza e società: storia della filosofia in Italia” (Torino, Einaudi). Per  un settore particolare cfr. Simonetti, Storici italiani e rivoluzionari in  Russia, in « Il movimento di liberazione in Italia »] accettazione della guerra, anzi dall’esaltazione di quella guerra, e si alimenta di quelle energie morali, di quel senso di disciplina, di quella capacità di iniziativa, di quel coraggio e spirito combattivo che la guerra ha educato negl’italiani, nella borghesia italiana. Accetta ben presto i valori tradizionali della nazione  italiana, cioè si nutre di sostanza italiana: condizione necessaria per poter far presa su di essa, per poter avere la collaborazione o anche solo la benevola neutralità delle forze  migliori del paese. L’idea di una grande Enciclopedia nazionale, non semplice opera compilativa e divulgativa come le enciclopedie popolari » prebelliche, rientra in questo programma di  rafforzamento della borghesia italiana, in linea con la ten:  denza degli Stati moderni a darsi, dopo crisi di crescita e  di ricostruzione, una rinnovata organizzazione culturale (si pensi, per fare un esempio contemporaneo anche se riferito ad un’esperienza opposta a quella italiana, alla Grande  enciclopedia sovietica iniziata a Mosca nell’anno  stesso in cui il dibattito sui caratteri della cultura socialista  vide prevalere i sostenitori della tesi della « cultura proletaria). La disponibilità di Martini a questo programma VOLPE, Storia del movimento fascista, Milano, Ispi, Come l’Enciclopedia popolare illustrate e la  Grande enciclopedia popolare, entrambe di Sonzogno.  Se la Britannica fu l’enciclopedia da emulare, modello du seguire per  un’opera nazionale e piuttosto il Touring Club Italiano, giudicato dall’E. I. nettamente nazionale per la sua vasta penetrazione in tutte le classi sociali  (44 vocerm): il suo Atlante Internazionale e utilizzato dall’E. I. in seguito ad apposito ac-  cordo editoriale (cfr. anche R. Almagià, Una grande opera italiana di  cultura, in « Educazione fascista ». AIUT.C.I, si  richiamarono Formiggini e Martini come modello per la Fondazione Leonardo (cfr. « L’Italia che scrive » e A.I°. Formiggini). Al carattere essenzialmente nazionale, del ‘T.C.I.  accenna Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell'Istituto  Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, Sui caratteri generali del dibattito sulla cultura svoltosi in U.R.S.S. cfr. l’introduzione di V. Strada a Rivoluzione e lettera  tura. Il dibattito al Congresso degli scrittori sovietici, Bari, Iuterza. « La storia dimostra che ogni classe ha creato  la sua enciclopedia, aveva affermato Bogdanov  proclamando  la necessità: di preparare una Enciclopedia operaia (cfr. Fitzpatrick,  Rivoluzione e cultura in Russia. Lunabarskij e il Commissariato del popolo L’Enciclopedia italiana  sarà testimoniata dalla sua presenza nel consiglio  direttivo dell’Istituto Treccani che ne riprenderà l’idea, ma è rintracciabile anche in tutta la sua attività di uomo politico e di cultura: auspice della impresa libica cui attribuiva questo inapprezzabile rinnovamento nostro, questa  concordia di popolo di cui l’Italia non ha esempio nella  sua storia, la sua azione per l’intervento  era stata determinante tanto da guadagnargli l'appellativo  di grande apostolo di italianità », come lo chiamò Treccani in occasione della fondazione del suo Istituto. Nel  corso della guerra aveva però saputo cogliere la profonda  spaccatura tra la classe dirigente liberale e le masse popolati  affette dalla « tabe del materialismo, il popolo minuto  non ha capito il perché della guerra: della patria sente più  poco, tormentato com’è dalle aspirazioni a migliori condizioni sociali, annotava nel Diario,  che, a suo giudizio. Nitti e Giolitti non erano  riusciti a colmare per debolezza verso gl’elementi torbidi socialisti. Nel dopoguerra si ripresentava il pericolo che di fronte ai primi passi del movimento  operaio organizzato, aveva spinto l’ex ministro della Pub-  blica Istruzione a manifestare a Carducci i suoi dubbi sugli  effetti del laicismo liberale: per l’istruzione, Roma, Riuniti).  L’E. I. giudica la Grande enciclopedia sovietica condotta secondo un criterio  rigorosamente bolscevico, e particolarmente curata nella. parte  scientifica e tecnologica (alla voce Enciclopedia). Nella prefa-  zione al vol. I dell’E. I., Gentile sottolineerà il « pregio delle vaste opere  collettive, che danno disciplina agl'ingegni e forma concreta e definita  al pensiero di un popolo.   fr. il brano del discorso citato in Croce,  dhe d’Italia, Bari, Laterza. Martini, Diario cit., e Gifuni, Lettere inedite di Martini a Salandra, in L'osservatore politico letterario.Treccani. Kirk del Diario, cit. Giustamente Isnenghi  giudica Martini, fra i protagonisti politici, «uno dei più franchi o meno  reticenti nel collezionare gli indizi di insubordinazione nel paese e di  messa in crisi del rapporto tradizionale d’autorità » (Il mito della grande  guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza).   Cfr. Martini, Lettere, cit., di ciò che il Quinet dice con grande efficacia di parole e dimostra  con grande autorità di esempi, che cioè le rivoluzioni politiche, le  quali non accompagnino un rinnovamento religioso, perdono di  vista l’origine loro e i primi intenti e finiscono a scatenare ogni  cattivo istinto delle plebi; di ciò io sono convinto da un pezzo.  Ma dopo il male che woî, tutti noi, caro Giosuè, abbiamo fatto,  siamo in grado di provvedere a’ rimedi? A chi predichiamo? Noi,  borghesia volteriana, siam noi che abbiam fatto i miscredenti,  intanto che il Papa custodiva i male credenti; ora alle plebi che  chiedono la poule au pot, perché non credono più al di lè, ritorneremo fuori a parlare di Dio, che ieri abbiamo negato? Non ci  prestano fede... abbiam voluto distruggere e non abbiamo saputo  nulla edificare. La scuola doveva, nelle chiacchiere de’ pedagoghi,  sostituire la chiesa. Una bella sostituzione! La sua estromissione dal parlamento dopo quaranta-cinque anni — in seguito alle elezioni, e le agitazioni sociali culminate nell’occupazione  delle fabbriche, convinsero Martini dell’impotenza del me- (Chabod, Storia della politica estera italiana, Bari, Laterza, da integrare però col discorso  di Martini alla Camera, contro l’introduzione dell'insegnamento religioso nelle scuole elementari (« opporre una religione  di classe alla lotta di classe», come vorrebbe «una borghesia sgomen-  tata dalle minacce del proletariato, sarebbe come trattenere coi fuscelli la corsa delle locomotive »: citato da S. Cilibrizzi, Storia parla  mentare politica e diplomatica d’Italia da Novara a Vittorio Veneto, Milano-Genova-Roma-Napoli, Società editrice Dante Alighieri). Ma sarebbe da studiare tutta la sua posizione sulla scuola, da  prima quando fu ministro della P.I. nel primo gabinetto  Giolitti (su cui cfr. Bertoni Jovine, La scuola italiana, Roma, Editori Riuniti), a quando dichiarò a Crispolti di essere favorevole all'esame di stato  per le scuole medie (Lettere). Né è da trascurare, nello scrittore, l’aristocratica toscanità della prosa, guidata da un provinciale  buon senso, che si attirò i giudizi negativi di Croce (ora in La letteratura  della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza)  e di Gobetti (ora in Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. Spriano,  Torino, Einaudi), da approfondire nel senso indicato  da Asor Rosa (Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura contemporanea, Roma, Samonà e Savelli) che ha incluso Martini  fra i rappresentanti di una fase «regionale », ma non per questo meno  nazionale, del populismo; tenendo tuttavia presente la vicinanza di Mar-  tini ad Ojetti, il cui libro Mio figlio ferroviere (Milano, Treves) fu  giudicato dall’amico la vera storia d’Italia, dalle ultime fucilate dei  combattenti alle prime bastonate dei fascisti » (Lettere), e da  Prezzolini « uno dei segni precursori della reazione al disordine e alla  debolezza dei governi italiani parlamentari del dopoguerra » (La cultura  italiana, Milano, Corbaccio).  L’Enciclopedia italiana    todo liberale a risolvere i problemi che il paese aveva ere-  ditato dalla guerra, e lo spinsero a seguire Salandra nel  cammino che lo porta ad aderire al fascismo. Lo spirito di riscossa nazionale da cui si senti animata  la borghesia liberale interventista nell’immediato dopo-  guerra e, insieme, i pericoli oggettivi per i suoi propositi e  la sua stessa posizione, condizionarono anche l’Ewciclopedia  nazionale, nelle aspirazioni come nel fallimento. Per il suo  progetto quello di Treccani ne prevederà  all’inizio 32, diventati poi 36 — Martini ottenne il patrocinio della Società italiana per il progresso delle scienze  (S.I.P.S.), la maggiore organizzazione scientifica del paese  che univa alla diffidenza per il neoidealismo  una decisa impronta « nazionale » ‘; ma per quattro anni  cercò invano di assicurargli un’adeguata copertura finanziaria. Menghini — interventista e antigiolittiano, non  nuovo ad imprese enciclopediche, che a Roma tenne i  contatti con Volterra, Bonfante e Almagià — membri del  consiglio direttivo della S.I.P.S., inizia trattative con Bonaldo Stringher, direttore della Banca d’Italia  e amministratore della S.I.P.S. fin dalla fondazione. Nel    Martini, Lettere, (per le elezioni). Per la sua concordanza con Salandra nel giudizio sul fascismo  cfr. anche R. De Felice, Mussolini il fascista, I. La conquista del potere  La, Torino, Einaudi e Gifuni ._ % Cfr. F. Martini, Leztere, cSulla S.I.P.S. cfr. R. Almagià,  La società italiana per il progetto delle scienze, in « L’Italia che scrive, e il breve cenno di L. Bulferetti, Gli studi di  storia della scienza e della tecnica in Italia, in Nuove questioni di storia  contemporanea, Milano, Matzorati. Scriveva a Martini: «Il popolo, pur troppo,  agisce male: ma come agir bene con l’esempio che ha di tanti malgo-  verni? Cosa debbono pensare le madri dei cinquecentomila figli morti,  quando sentono che la guerra si doveva evitare? »; cfr. anche, contro  Giolitti, la lettera. Sulle stesse posizioni era Ales-  sandro Donati, ad es. nelle lettere a Martini (BNF, Fondo Martini). Aveva diretto l’Enciclopedia contemporanea illustrata edita da Val-  lardi, Milano (fra i collaboratori, Emilio Bodrero e Ro-  «berto Paribeni).   % Per l’elenco delle cariche sociali della S.I.P.S. dal 1907 cfr. ad es.  Atti della Società italiana per il progresso delle scienze. Undicesima riunione, Trieste, Roma, Società italiana per il progresso, attenuatesi le difficoltà economiche dell’anno precedente, Stringher — che aveva cointeressato anche Pogliani  della Banca Italiana di Sconto, Fenoglio della Commer-  ciale e il finanziere Della Torre che controllava un’imponente catena editoriale — promise il suo appoggio; fu  incaricato della realizzazione l’editore Bemporad, mentre  Menghini cominciò ad interpellare gli eventuali direttori  dell'impresa fra cui, sembra, Gentile. Ma le incertezze delle banche non erano ancora vinte —  anche dopo la presentazione da parte di Bemporad di un  progetto molto ridotto rispetto a quello originario —, per  cui Martini accettò il consiglio di Stringher di affidare la  realizzazione dell’enciclopedia a un gruppo editoriale da  promuoversi attorno a un editore « di prima grandezza ».  La scelta cadde su Angelo Fortunato Formiggini e sulla Fondazione Leonardo da lui creata: fu questa la via per la quale  l’idea passerà a Gentile.   I propositi culturali nazionali della Leonardo, analoghi  a quelli di Martini che ne fu il primo presidente, si  affiancavano a quelli dei numerosi istituti di propaganda  culturale nati o nuovamente sviluppati nel dopoguerra, ma  con un'impronta originaria — prima dei condizionamenti  governativi e dell’intervento di Gentile — nettamente  diversa dal deciso accento politico e nazionalistico che fin  dall’inizio aveva avuto, ad esempio, la Alighieri ‘    delle scienze. Si profilò il pericolo di una concorrenza  al progetto di Martini, da parte di un editore di Bergamo, che sembra  si fosse assicurata la collaborazione di Gentile, Chiovenda, Paribeni  (BNF, Fondo Martini, lettere di Menghini, e  di Donati). Per tutto l'andamento delle trattative cfr. le lettere di Menghini a  Martini. Sulle compartecipazioni editoriali di Pogliani, Fenoglio  e Della Torre, utili notizie in V. Castronovo, La stampa italiana dall'Unità  al fascismo, Bari, Laterza. Menghini a Martini. Passando per Firenze non  potrebbe interrogare il Cadorna? Io potrei incaricarmi del Gentile: Martini, Stringher, Volterra son già de’ nostri. Come fare per Marconi, Luzzatti, Ciamician e Murri? » (BNF, Fondo Martini). Su Bemporad editore  negli anni venti di « Critica sociale », cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, e l'intervento di Piero Treves in La Toscana nel  regime fascista, Firenze, Olschki, Sulla funzione di « grande milizia civile » svolta dalla Dante Ali-  ghieri, fondata da Ruggero Bonghi, cfr. P. Barbèra, La Dante. L’Enciclopedia italiana l'opera di Formiggini si rivolgeva soprattutto all’interno,  in un tentativo di unificazione culturale che con la rivista bibliografica « L’Italia che scrive »,  trovava in tutta la sua attività prebellica i motivi della sua  estraneità all’idealismo e dell’avversione per la setta filosofica gentiliana giudicata tirannide dottrinale contraria alla manifestazione delle diverse correnti  culturali *   L’intento di sviluppare all’estero la conoscenza della  cultura italiana aveva portato. Formiggini ad un incontro  con le prospettive nazionalistiche degli organi statali pre-  posti alla stampa e alla propaganda * e, su queste basi, alla  creazione dell’Istituto per la propaganda della cultura ita-  liana che, dopo aver ottenuto un sostegno anche da parte  degli industriali, fu inaugurato ufficialmente a Roma ed eretto in ente morale, col nome di Fon-  dazione Leonardo, nel novembre dello stesso anno, con Alighieri, relazione storica al Congresso (Trieste-Trento),  Roma, Società nazionale Alighieri, e Id., Quaderni di memorie stampati ad usum delphini, Firenze, Barbèra, dove è anche una professione di fede di Barbèra, segretario del Consiglio centrale della Dante (« non son socialista, perché credo  la essenza di tal dottrina contraria a natura e giustizia, e poiché essendo  essa necessariamente internazionale è contraria al principio di nazionalità  che è anch'esso legge di natura), conforme ai fini della Dante,  nata a rinnovare il « pensiero della Patria » negli emigrati e nel proleta-  riato che, « ansioso di migliorare le sue penose condizioni, sentî il bisogno  di organizzarsi per le rivendicazioni dei suoi diritti e di allearsi al proletariato degli altri paesi con vincoli internazionali » (Barbèra, L’Alighieri). E consigliere della Società anche  Martini. Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo. Sulla  figura e l’opera di Formiggini. Formiggini ottenne per le Guide bibliografiche il patrocinio della Commissione per la propaganda del libro italiano all’estero,  presieduta dal nazionalista Gallenga Stuart (L'Italia che scrive), suscitando i dubbi di Gobetti sull’efficacia e l’imparzialità culturale dell’iniziativa (ora in Scritti politici); cfr.  anche L. Tosi, Romeo A. Gallenga Stuart e la propaganda di guerra  all’estero, in « Storia contemporanea ». E annunciata la costituzione dell’Istituto per la  propaganda della cultura italiana sotto la  presidenza di Martini e Comandini (commissario per la propaganda all’In-  terno) e, fra i consiglieri, il direttore del Giornale d’Italia Bergamini, Buonaiuti, Formiggini, Croce, Einaudi, Prezzolini (L’Italia che scrive; cfr. anche il frontespizio).  Martini presidente, Orso M. Corbino vice-presidente, Gentile e Amedeo Giannini delegati rispettivamente del ministro della Pubblica istruzione e di quello degli Esteri, Almagià e Chiovenda consiglieri, Formiggini consigliere delegato alle pubblicazioni. I nuovi accordi  e le nuove compagnie si dimostrarono subito pericolosi e  condizionanti, tali da non permettere che l’ente svolgesse  quel compito di equilibrata armonizzazione di correnti  opposte che Formiggini sperava ereditasse dalla sua rivista. Il suo ideale di imparzialità si rivelò un’arma a doppio  taglio, permettendo in questa fase che altri utilizzasse l’iniziativa per i propri fini. Il consiglio  direttivo della Leonardo, dicendosi convinto che la forza  di espansione necessaria alla cultura italiana non possa  derivare da artificiali argomenti di propaganda, ma  soltanto dal valore stesso della nostra cultura, affermava  con linguaggio trasparentemente gentiliano che creare  la cultura è la prima condizione della sua propaganda; ma  la cultura non esiste se non nello spirito che l’alimenta  accogliendola e sentendola »; considerava quindi necessario organizzare un lavoro di propaganda interna diretto  a ravvivare negli animi il concetto di quanto nella cultura  italiana fu veramente originale e arrecò un contributo  incontestabile al patrimonio spirituale dell'umanità, e  affidava questo compito a una serie di conferenze tenute  da Gentile, Croce, Scialoia, Farinelli, Rossi, Ricci. Era un chiaro rifiuto del programma culturale di Formiggini e della sua casa editrice. L’iniziativa di quest’ultimo divenne « impersonale », cioè  « nazionale », come egli stesso dichiarò, e la Fondazione  si propose, secondo le dichiarazioni di Martini, di « propagare il pensiero nazionale fra i popoli civili e ciò non con  intenti imperialistici, ma unicamente col proposito di far  sapere chi siamo e che cosa facciamo ». Ma in breve tempo  Gentile, forte dell’appoggio governativo, riusci ad assu-  mere il controllo della Fondazione presieduta da Bonomi —, separandola progressiva-  mente da « L'Italia che scrive », sull’esempio della quale —  e utilizzando molti dei suoi collaboratori modellerà  L’Enciclopedia italiana    più tardi il « Leonardo » affidato a Prezzolini e poi  a Russo. L'assemblea sociale della Fondazione, manipolata da Gentile promotore della « marcia  sulla Leonardo, stando alle accuse di Formiggini® —,  rovesciò il consiglio direttivo, che fu ristrutturato sotto la  presidenza del nuovo ministro della Pubblica istruzione  del primo gabinetto Mussolini  L’ente e il suo patrimonio  saranno assorbiti nel ’25 dall’Istituto nazionale fascista  di cultura”, mentre Formiggini continuerà ne L'Italia  che scrive a inseguire ingenuamente il suo sogno di rispec-  chiare, in una Italia in cui molte voci andavano ormai spen-  gendosi, tutte le correnti della cultura nazionale, senza  comprendere come fosse ben diversa dall’opera di armonizzazione da lui auspicata la volontà esplicita del Governo  di assumere la diretta gestione di tutti gli organismi di  propaganda nazionale. La parabola della Leonardo segna il destino dell’Enciclopedia nazionale progettata da Martini: proprio nella  seduta che sanzionò — ad opera di  Gentile — il definitivo distacco dell’Istituto da « L’Italia  che scrive », Formiggini comunicò al consiglio direttivo  della Leonardo di essere stato incaricato da « un gruppo  di amici che facevano capo a Martini », rima-  sto presidente onorario della Fondazione, di realizzare una  Grande Enciclopedia Italica per sodisfare la lunga attesa  della Nazione e dar vita ad un’opera che, mercé una larga  diffusione in Italia e nei centri culturali stranieri, giovi  gagliardamente al progresso intellettuale del nostro Paese  Cfr. «L'Italia che scrive. Formiggini. Con Gentile presidente e A. Giannini vice-presidente, erano con-  siglieri R. Bottacchiari, G. Calabi, Codignola, Giglioli, F.  I Massuero, Radice, V. Rossi (Leonardo). Cosî afferma Formiggini, ancora in epoca fascista (Venticinque  anni dopo, Roma, Formiggini; cfr. anche Trent'anni dopo.  Storia di una casa editrice, Amatrice, Formiggini).  Ancora come attesta Salvemini, Scritti sul fascismo,  Milano, Feltrinelli.   Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo.  e al buon nome dell’Italia nel mondo ». Ritenendo impos-  sibile ricalcare le orme della Britannica, Formiggini ridusse,  come già aveva fatto Bemporad, il progetto originario di  Martini — 18 invece di 24 volumi, e ne affidò la realizzazione a un costituendo consorzio editoriale librario  (con la partecipazione anche dei maggiori periodici italiani),  sempre sotto il patrocinio della Società italiana per il pro-  gresso delle scienze. I redattori sarebbero stati scelti fra i  membri di quest’ultima, dell’Accademia dei Lincei e della  Leonardo, che avrebbero lavorato sotto la direzione non di  un filosofo o di uno scienziato, ma di un tecnico, un bibliografo e bibliotecario, per rendere la Grande Enciclo-  pedia Italica, come voleva Formiggini, specchio completo  e obiettivo dello stato presente della nostra cultura,  opera espositiva e di coordinamento delle varie dottrine »: era respinto il consiglio di Croce di non fare  opera eclettica, perché « una Enciclopedia deve avere un’a-  nima sua, una sua coerenza, condiviso anche da  Gentile Ma la marcia sulla Leonardo travolse Formiggini,  che fu abbandonato da Martini”; questi continuerà a coltivare la speranza di attuare l’enciclopedia, finché non confluî nell’iniziativa gentiliana, mentre Formiggini, abban-  donato il vecchio progetto ”, riuscirà a dare inizio a una  nuova Enciclopedia delle Enciclopedie divisa per sog- [All'annuncio dell’E.I., Formiggini scriverà che il Gentile di oggi (l’ho detto) non è più quello di ieri. Egli allora era in piena  armonia con Croce, il quale avrebbe voluto una enciclopedia, tutte le  ‘pagine della quale concorressero ad uno stesso fine concettuale » (« L'Italia  che scrive »).   Menghini scriveva a Martini che il trionfo  «della tesi del Formiggini fu quello di Bemporad, e che non si tratta pit  di una enciclopedia scientifica, ma di una a base Larousse », e concludeva: « appena potrò, vedrò il Gentile, a cui narrerò tutto: e spero interessare il Governo alla impresa (BNF, Fondo Martini).   Martini, Lettere (a Formiggini).  Formiggini, Programma editoriale della collezione e  L'Enciclopedia Italica, in «L'Italia che scrive». L’Enciclopedia italiana    getti ®: ma quando ormai l’idea della Enciclopedia italiana,  ereditata da Gentile assieme alla Leonardo, era stata rilanciata dall’Istituto Treccani.  L'intervento di Treccani e Gentile  Il progetto di Martini fu realizzato fuori del ristretto  ambito editoriale in cui era stato confinato da Formiggini  e con la forte impronta culturale di Gentile; ma il rapido  successo dell’iniziativa privata di Treccani e Gentile fu  reso possibile soprattutto dalla nuova realtà creata dal fa-  scismo, che favori una stretta compenetrazione tra interessi  politici industriali culturali, e fece sentire l’opera utile,  anzi necessaria © alla cultura e alla forza dello Stato nel  quadro di una più generale riorganizzazione del potere: il  carattere « nazionale » dell’enciclopedia non si presentò  più solo come aspirazione da raggiungere — espressione  di italianità frutto di tutte le forze intellettuali del paese  —, ma anche come conseguenza del « nuovo ordine » che  si autodefiniva « nazionale. Gentile, presidente della Leonardo e, fino al giugno di  quell’anno, ministro della Pubblica istruzione, riprese e  sviluppò il progetto di Martini, trovando un pronto aiuto  economico nel senatore Giovanni Treccani , la cui figura   Cosî annunciata ne «L'Italia che scrive». È noto che avevo studiato il piano di una Grande Enciclopedia  Italica e che altri sta realizzando con grande abbondanza di mezzi quello  che era stato il mio proposito. Mi si rimproverava allora di voler dare uno  specchio fedele di tutte le correnti del pensiero degne di considerazione  senza asservire l’opera ad una particolare tendenza: oggi ho la giusta  soddisfazione di vedere che quel mio concetto è stato pienamente accolto.   Le mutate condizioni della vita culturale italiana mi fanno però rime-  ditare su quanto Croce ebbe a dirmi in proposito: egli affer-  mava che una Enciclopedia deve assolutamente avere un’anima sua propria, ed io allora non vedevo quale delle tendenze spirituali avrebbe  potuto imporsi come perno di tutto lo scibile: oggi mi apparisce ben  chiaro e non dubbio quale debba essere il nucleo ideale di una simile  impresa. L’E.I. è qualificata «necessaria » in tutti i discorsi di Treccani  (Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento).   Entrato io in Senato, il sen. Gentile (al quale mi legavano rapporti di cordialità per la parte da lui avuta come Ministro della di industriale-mecenate rappresenta il più ampio e politicamente nuovo intervento dei grandi gruppi economici nell’attività editoriale.  Alla morte di Rossi, il protezionista considerato precursore dell’ideologia corporativa,  cui Treccani dedicherà un significativo ritratto nell’Enciclopedia, era entrato nel Rossi di cui divenne  presidente, e opera come amministratore delegato  il salvataggio del Cotonificio Valle Ticino, « intorno al quale  sorsero altre aziende tessili, tutte basate sui principi, cari  al Treccani, della divisione del lavoro e dell’indipendenza  della funzione industriale, a tutti gli effetti giuridici ed  economici, da quella commerciale, anche allo scopo di  mettere le maestranze al riparo dai disastri eventuali della  speculazione, ma soprattutto, come Treccani dichiarò  di fronte allo spettro della rivoluzione  leninista apparso con l'occupazione delle fabbriche —  allo scopo di raggiungere la « conciliazione sociale spoliticizzando gli operai, cooptati nella direzione di aziende  « puramente industriali di tipo corporativistico,  private dei più vasti poteri decisionali delle aziende « pura-  mente commerciali » ©. Presidente di numerose società tes-    Pubblica Istruzione, — allora si diceva cost — al recupero della Bibbia  di Borso d’Este) mi segnalò quel naufragato progetto, affinché io vedessi  se avevo la possibilità di attuarlo », ricorda Treccani. Il progetto prevedeva 32 volumi, diventati poi 36, e un “Dizionario biografico degl’italiani”; furono spesi circa 15 milioni per i soli collaboratori, e 100 per tutta l’opera di  25.000 copie. Lanaro, Nazionalismo e ideologia del blocco corporativo-pro-  tezionista in Italia, in «Ideologie». Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia,  Padova, Marsilio. Di Rossi Treccani scriverà nell’E.I.  che « considerava primo elemento di potenza e di ricchezza nazionale il  capitale uomo, preparato con sentimenti cristiani alla collaborazione fra  le classi sociali. Ebbe vivissima la coscienza dei doveri degl’imprenditori  verso i dipendenti e considerò l’interesse dei proprietarî non disgiunto da  quello degli operai e da quello della nazione »: dove, pur  fatte le dovute concessioni alla data di stesura della voce, sono  accennate le origini nazionaliste e cattoliche del corporativismo.   % Cfr. l’anonima voce Treccani in E.I., e P. Rossi, Dall’Olona ai  Ticino. Centocinquant’anni di vita cotoniera, Varese, La tipografica Varese. In modo che «l’operaio industrializzato perderebbe l’abito di far    L’Enciclopedia italiana    sili, chimico-meccaniche, agricole — membro  fondatore della società agricola italo-somala — ed editoriali, Treccani si prodigò in quell’opera di mecenatismo che, soprattutto con l’acquisto e il dono allo Stato della Bibbia di Borso d’Este, gli valse a  nomina a senatore. Il mecenatismo di Treccani, e di altri  industriali o finanzieri quali Gualino, non era,  come osservava Gramsci, disinteressato: le loro iniziative  culturali erano illuminate autoprotezioni che, dichiarando  paternalisticamente di favorire l’interesse generale nazionale, aiutavano di fatto quello delle classi dirigenti e  l'ordine sociale costituito. A Enciclopedia compiuta Treccani affermerà che si può contribuire al progresso delle lettere, delle scienze e delle arti,  anche senza essere letterati, scienziati o artisti, proteggendo quelle  e aiutando questi; e spetta specialmente a coloro che, in un determinato momento, detengono la ricchezza promuovere atti di gene  rosità e di rischio, perché solo facendo compiere al capitale un'alta del lavoro una funzione politica, e questa eserciterebbe soltanto come  cittadino e cioè all'infuori e al di sopra di quella che sarebbe la lotta  economica. Tanto all’infuori e al di sopra, che un qualunque movente  politico, in una eventuale lotta, non sarebbe possibile concepire se non attraverso a un tentativo criminale di sovvertimento sociale, o meglio a  una aberrazione della coscienza operaia, la quale vorrebbe allora precipi-  tare nel baratro di una eclissi storica la nazione e la società. Treccani, Capitale e lavoro, in « Risorgimento ». Il diritto nuovo. La rivista  « Risorgimento », fondata da Treccani e diretta da Arrivabene, e su cui scrisse anche Corradini, è definita dall'E.I. «di spiriti  nettamente nazionali » (alla voce Treccani).   Per tutta la sua attività culturale e benefica cfr. Treccani,  Enciclopedia Italiana Treccani. Come e da chi è stata fatta, Milano, Bestetti,  (tutto il volume è concepito come difesa dalle  accuse di fascismo rivolte all’E.I. dopo la Liberazione). La nomina di Treccani a senatore, avvenuta nella « infornata (cfr. Rossi, Padroni del vapore e fascismo, Bari, Laterza), era stata raccomandata da GENTILE a MUSSOLINI (Archivio centrale dello Stato, Roma (d’ora in avanti ACS),  Segreteria particolare del Duce, CARTEGGIO RISERVATO). Quaderni del carcere. Accenni a Gualino —  il fondatore della Snia-Viscosa e vice-presidente della Fiat che finanziò le ricerche di Egidi e Chabod a Simancas — in AA.VV., ln  memoria di Pietro Egidi, Pinerolo, Unitipografica pinerolese, Volpe, Storici e maestri, Firenze, Sansoni. funzione sociale, esso può essere benedetto anziché odiato. Gli industriali poi devono riconoscere che l’industria è debitrice  di tutto alla scienza: del suo fondamento, del suo progresso, del  suo divenire; e che la scienza, alimentando le applicazioni pratiche  — cioè in definitiva l’industria e l’agricoltura — è largitrice di  beni morali ed economici, che elevano la dignità del popolo e il  suo tenore di vita. Frutto del rafforzamento e della concentrazione dell’in-  dustria accelerati dalla guerra e dal fascismo ”, l’impresa  della Enciclopedia testimonia la stretta compenetrazione  dei gruppi di pressione economici — Treccani vi interessò  anche il segretario dell’Associazione cotoniera Riva, e per la realizzazione dell’opera diverrà socio di  Rizzoli, quindi di Tumminelli e Treves”? — con interessi  politici e culturali, affermatasi su larga scala in Italia per  la prima volta dopo la grande guerra, condizionando in  modo mediato l’editoria — divenuta, come la definî Vallecchi, industria delle industrie —, e immediato la  stampa quotidiana. La libera iniziativa di Treccani poté  cosî realizzare ciò che non era riuscito alla Banca d’Italia  di Stringher. Altrettanto decisiva per la ripresa e l'ampliamento del  vecchio progetto di Martini fu la coerente opera di organizzazione culturale promossa da Gentile, che dopo l’esperienza bellica era venuto accentuando il valore politico della Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento. Mori, Per una storia dell’industria italiana durante il fascismo, ora in Il capitalismo industriale in Italia. Processo d'industrializzazione e storia d’Italia, Roma, Editori Riuniti. L’E.I. fu realizzata « con grande fede nella disciplina e produttività delle  forze intellettuali italiane nonché nella resistenza dell'economia nazionale », affermò anche dopo la grande crisi Gentile (Tribolazioni di un  enciclopedista. Come si distribuisce l'immortalità, in «Il Corriere della  sera).  Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento, e U. Ojetti, I taccuini.  Firenze, Sansoni, che parla anche di trattative tra Fracchia e Treccani su un nuovo giornale letterario, probabilmente « La fiera letteraria ».Vallecchi, Ricordi e idee di un editore vivente, Firenze, Vallecchi. L’Enciclopedia italiana cultura, la critica alla scienza spettatrice della vita e  all’arcadia, in vista della formazione di una nuova classe  dirigente. La direzione gentiliana di Accademie e Istituti,  di riviste e collane editoriali, il controllo di case editrici,  affermatisi nel periodo fascista, ebbero nel campo dell’alta  cultura un’incidenza pari se non superiore, perché stabili  per un quindicennio, alla stessa riforma della scuola nel  settore educativo. Quando questa comincia ad  essere svuotata dei suoi caratteri originari, GENTILE inizia  proprio con l’Exciclopedia — e per mezzo del vasto potere  di controllo su un gran numero di intellettuali da essa conferitogli — ad esercitare una vasta egemonia culturale che  induce a riconsiderare, nel quadro di tutta LA FILOSOFIA ITALIANA del ventennio e del secondo dopoguerra, l’opera svolta da  Croce attraverso « La Critica » e la Casa Laterza, opera su  cui finora si è insistito in modo esclusivo e spesso pregiudiziale, identificando polemicamente la cultura con l’antifascismo. Se la semplice somma numerica delle organizzazioni e degli FILOSOFI controllati materialmente da  GENTILE non è sufficiente, allo stato attuale degli studi, a  Fra gli innumerevoli esempi possibili, basti ricordare La moralità  della scienza, in Scritti pedagogici, La riforma della scuola  in Italia, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli;  Che cosa è il fascismo, cit.; Fascismo e cultura, Milano, Treves;  Origini e dottrina del fascismo, Roma, Istituto nazionale fascista di cultura. Quello del contatto organico tra l’intelligenza e le classi dirigenti era allora il problema sostanziale di LA FILOSOFIA ITALIANA posto fin dall’inizio della rinascita idealistica, ma rimasto insoluto per la  vittoria della vecchia Italia, osservava Togliatti a proposito de coltura italiana di Prezzolini (Opere, a cura di E. Ragionieri, Roma, Editori Riuniti). Ricordiamo solo la Commissione Vinciana, la Leonardo  e l’Istituto nazionale fascista di cultura, la Scuola Normale Superiore di Pisa, l’Istituto italiano di studi germanici,  l'Istituto italiano per il medio ed estremo Oriente, la casa  editrice Sansoni, le collane di Le Monnier, il GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA, Educazione fascista. ACS, Segreteria particolare  del Duce, Carteggio riservato. Bellezza, Bibliografia degli scritti di GENTILE – LA FILOSOFIA DI GENTILE -- Firenze, Sansoni, Lalla, GENTILE, Firenze, Sansoni).   Cosi Garin, “La Casa Editrice Laterza la filosofia italiana,” ora in LA FILOSOFIA ITALIANA, Bari, Laterza, che pur avverte sempre la larga interdipendenza delle filosofie crociana e gentiliana.    spodestare Croce dal suo trono di papalaico — ciò  implicherebbe negare la persistenza dell’influenza crociana —, è da tener presente almeno l’importanza  pratica delle iniziative gentiliane: esse  mirarono a coagulare attorno a un nucleo di tradizione nazionale e fascista — e quindi contribuirono a far sopravvivere nel quadro dell’ideologia eclettica del regime — forze intellettuali operanti in campo  filosofico. È significativo  chequando le revisioni interne e gli attacchi contro il ATTUALISMO si erano in gran parte già consumati,  un rapporto anonimo inviato a MUSSOLINI presentasse GENTILE come pericoloso inquisitore nel campo dell’organizzazione della filosofia. Si va determinando nel campo dell’Editotia Italiana, specialmente attraverso le sovvenzioni dell’I.R.I., un accaparramento  sempre più sensibile di case editrici da parte del Senatore GENTILE.   Egli già dirige direttamente o indirettamente le Case Editrici Lemonnier e Sansoni: le quali, a loro volta, dispongono delle  case dell'Arte della Stampa e di Ariani in Firenze. Dirige l’Enciclopedia Italiana e controlla, perciò, un esercito di FILOSOFI collaboratori che  debbono per forza di cose obbedirgli. Sono note le vicende delle  case Treves e Tumminelli in cui Gentile era grande parte. Sano  noti i rapporti con le altre case attraverso i contatti con allievi o  amici, quali CARLINI  e CODIGNOLA. Può dirsi quindi che oggi è molto difficile fare uscire un saggio di FILOSOFIA in Italia senza il visto di questo  nuovo Sant’Ufficio di nuovo tipo.   Si dice, inoltre, che presto la casa Bemporad e diretta da GENTILE, venendo cosî ad aumentare il numero delle case affiancate  o asservite.   Occorrerebbe vedere, con opportuni e delicati approcci, se non  fosse il caso di studiare il modo di immettere nella vita della filosofia fascista la Casa Laterza di Bari che per la sua reputazione  potrebbe, una volta immessa nella vita del Regime, rappresentate  un certo contrappeso all’attuale disquilibrdio di forze editoriali  Rapporto anonimo pervenuto a MUSSOLINI, in  ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato; per l’accusa a GENTILE di estendere la sua EGEMONIA FILOSOFICA attraverso l’E. I. GENTILE forma, più di CROCE, una SCUOLA FILOSOFICA. Ed ha FILOSOFI discepoli entusiastici e fedeli, forse anche troppo; ed appare un animatore e Documento di parte, certo, ma che — accanto ai limiti  della opposizione crociana e alla spregiudicatezza ideologica  del regime pronto a strumentalizzarla — indica solo per  difetto i canali differenziati di diffusione culturale di GENTILE e di I GENTILIANI. Nei primi anni del fascismo l’opera di GENTILE e funzionale alla necessità politica del regime di unificare e organizzare le disperse forze della FILOSOFIA della borghesia liberale. Soprattutto dopo l’unificazione col nazionalismo — pit attento ai  problemi di politica FILOSOFICA proprio perché da una tradizione filosofica nazionale vuole trarre i motivi della sua  collocazione nella storia della filosofia italiana, il fascismo accompagna l’azione repressiva dello squadrismo con quell’opera di  graduale allargamento del consenso, fatta di concessioni  ai gruppi capitalistici e alle forze culturalmente egemoni che gli permette di schiacciare le opposizioni. Valido strumento e dapprima la gentiliana riforma della scuola —  con FEDELE resa p DIS conforme alle istanze della borghesia —, poi, superata la crisi Matteotti e instaurata la dittatura, l’opera di appropriazione di correnti filosofiche diverse assegnata a GENTILE, parallela a quella svolta  contemporaneamente sul piano politico verso i fiancheggiatori, e dopo sostituita dalla ricerca dell’appoggio dei borghesi.   Non è un caso che Treccani per la  pubblicazione dell’Enciclopedia Italiana e costituito. Salutato  con entusiasmo da GENTILE, segna la fine dei governi di coalizione. FARINACCI divenne segretario del Pnf, carica che terrà fino al marzo    direttore spirituale. Sostiene le sorti della sua scuola e dei suoi scolari con  la fede di un uomo di parte, ricorda ancora PREZZOLINI (La  filosofia italiana). Tomasi, Idealismo e.  fascismo nella scuola italiana, Firenze, È Nuova Italia. Gentile a Mussolini. Eccellente il discorso di  ieri. Il paese tutto si sveglia e torna a Lei. La prego poi di ricordarsi che  in questi giorni bisognerebbe dar forza ai Quindici, emanando il Decreto  Reale -- copia in ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato. Sebbene l’opera si assicurasse l’alto patronato del  re e  le dichiarazioni ufficiali di Treccani e Gentile non facessero quasi parola del fascismo, la sua data di  nascita indica il peso determinante che nella sua realizzazione ebbe l’avvento della dittatura. La segreteria Farinacci  sembrerebbe contrastare con lo spirito informatore dell’impresa; in realtà la linea estremista del fascismo, pur polemizzando con l’iniziativa gentiliana,  non riusci a condizionarla. Anche in campo filosofico le  due anime del fascismo, tradizionale e rivoluzionaria, trovarono ciascuna un proprio spazio e una  propria funzione. Che la nascita dell’Enciclopedia e l’indirizzo da essa rappresentato non fossero casuali, frutto  esclusivo di un’iniziativa individuale, ma rientrassero in  un più vasto programma di politica culturale del regime,  è dimostrato anche dal sorgere accanto ad essa di numerosi altri istituti di alta cultura,  quali l’ISTITUTO DI STUDI ROMANI di Paluzzi,  l’ISTITUTO NAZIONALE FASCISTA DI CULTURA Istituto nazionale fascista erede materialmente della Leonardo di Formiggini o delle varie Università  popolari e affidato a GENTILE, la SCUOLA DI STORIA di VOLPE e L’ACCADEMIA D’ITALIA, tutte istituzioni rivolte, con programma e su piano filosofico, a  promuovere studi e ricerche ispirati sempre ad IL PRIMATO DELLA CIVILTA ROMANA  nel mondo, con una funzione interna analoga a quella svolta, all’estero, da appositi organismi  culturali che, in modo graduale e illuminato, miravano a    orientare favorevolmente verso il fascismo l’opinione pubblica, Come appare dal Manifesto al pubblico (in Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento).   Ministero dell'Educazione Nazionale, Accademie e Istituti di  cultura. Cenni storici, Roma, Palombi, Una prima ricerca è quella  sul CNR di Maiocchi, Scienza, industria e fascismo, in  « Società e storia ». Sulla figura di VOLPE v. Cervelli, VOLPE, Napoli, Guida, e, per qualche cenno  sulla sua vasta opera di organizzazione degli studi storici nel periodo  fascista, ancora da studiare, Turi, Il problema VOLPE, Studi storici. Frezza Bicocchi, Propaganda fascista e comunità italiane in   Lo « specchio fedele e completo della cultura scientifica  italiana. Il governo facilita economicamente la realizzazione  della Enciclopedia, intervenendo — su sollecitazione di GENTILE — per l’accordo editoriale fra l’Istituto  Treccani e il Touring Club Italiano che fornisce il corredo cartografico dell’opera, e costituendo l’ente nazionale ISTITUTO DELL’ENCICLOPEDIA ITALIANA. E sempre il regime condiziona direttamente l’impresa, garantendone il controllo ecclesiastico, e utilizzandola poi come canale di diffusione della  sua ideologia, come nella voce Fascismzo. Ma l’Enciclopedia si presenta come opera nazionale, testimonianza di un primato italiano da rivendicare  di fronte agli altri paesi, nel senso già indicato da MARTINI. Solo con l’uscita e in una diversa situazione politica, il suo carattere nazionale e precisato con l’istituzione del rapporto di continuità risorgimento/grande-guerra-fascismo. La Casa Italiana, Columbia, Studi storici. La prefazione alla E.I. ricorda come il maggior tentativo di una enciclopedia italiana e stato fatto in Italia negli  anni forieri del Quarantotto, nel più vivo fermento della ridesta coscienza  nazionale del popolo italiano, come il disegno e il proposito dell’Enciclopedia siano maturati dopo la grande guerra in cui gl’italiani, per la prima volta dacché raccolti in unità nazionale, fecero esperimento di tutte le loro forze materiali e morali, e superarono la prova  con una grande vittoria, e che il clima che rende possibile un'opera  come questa è il nuovo spirito esploso con l'avvento del Fascismo. E Treccani. Ad ogni movimento nazionale concluso, si è sempre sentito il bisogno di questo esame delle proprie  possibilità filosofica. Anche Filiberto, restaurato lo stato, idea  un’Enciclopedia col nome di “Teatro Universale”, rimasta però allo stato  di Progetto. Ed altrettanto fanno gl’uomini del nostro Risorgimento, che  ci diedero l’Enciclopedia Popolare Pomba, chiamata l’Enciclopedia del Risorgimento, opera lodevole. Il grandioso movimento spirituale prodotto  dalla guerra vittoriosa e dal fascismo, non puo rimanere sterile in  questo campo. Negli stessi termini Bosco, Enciclopedia Italiana, in “Panorami di realizzazioni del fascismo”. Gl’Istituti del Regime, Roma, Panorami di realizzazioni del fascismo. Già il Manifesto ricorda, oltre al  clima della vittoria, il tentativo fatto in Torino negli anni più maturi    L’insistenza sul significato nazionale dell’impresa  — di cui solo pochi colsero gli equivoci, e il pericolo di una  riduzione nazionalistica della filosofia — si dissolve  presso gl’incerti o gl’oppositori del fascismo o di Gentile  il dubbio che l’opera e politicamente e FILOSOFICAMENTE  di parte. Tutte le dichiarazioni di Treccani e Gentile —  rispettivamente PRESIDENTE DELL’ISTITUTO e DIRETTORE dell’Enciclopedia — sono ispirate a questa preoccupazione. L’atto costitutivo dell’Istituto auspicava che l’opera e scritta con la collaborazione di quanti filosofi sono in  Italia competenti in ogni ordine di scuole,  e governata da un alto concetto di quello che è stato ed  è il carattere ed il valore della civiltà italiana nel mondo,  nonché dal desiderio e proposito che tutte le forze filosofiche della nazione siano, per questo lavoro che interessa  tutta la nazione, messe a profitto, in modo che riuscisse  opera, cosî dal rispetto filosofico, come da quello nazionale, degna delle più nobili tradizioni del popolo italiano. L’art. 4 si preoccupa di specificare che l’Istituto s’inspira bensi alla coscienza del glorioso passato del popolo italiano e degl’alti destini a cui esso può e deve aspirare. Ma è “a-politico” nel *senso assoluto* della parola. Anche il    del Risorgimento nazionale, quando tutto lo spirito italiano senti piu urgente il bisogno del suo rinnovamento e di una vita più intense. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento. Sulla Nuova enciclopedia popolare del Pomba cfr. Bottasso,  Le edizioni Pomba, Torino, Biblioteca civica, Cfr l’articolo Nel mondo della coltura borghese. Una Enciclopedia,  in « L'Unità » (lo pseudonimo dell’autore non è completamente leggibile. Gl’uomini della dominante borghesia italiana vorrebbero adesso nazionalizzare la internazionale della filosofia, facendo un grande monumento di dottrina filosofica INDIGENA, mentre una enciclopedia, per servire degnamente alla filosofia, deve essere opera vastissima  di filosofia universale, enorme massa di parole e di voci che vanno  distribuite fra quanti filosofi dotti possono più sicuramente  parlare su ciascuna di esse. Se si farà, sarà, pur troppo, un documento di fragorose chiacchiere e di malfatte compilazioni, conclude  l’articolista esprimendo il dubbio sulla capacità del fascismo di realizzare un’opera di tanta mole e di cosi universale sapete. Treccani, Exciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione  compimento. Treccani dichiara:  « La politica qui non c'entra, né deve entrarci. E il caso anzi di dire che  se la politica può dividere gl’uomini, LA FILOSOFIA li deve tutti unire -- parole che ricordano quelle di GENTILE nell’articolo Contro    Manifesto al pubblico dichiarava l’IMPARZIALITA filosofica e politica dell’Enciclopedia, quasi con gli stessi termini già usati da FORMIGGIN. A questa ENCICLOPEDIA che e specchio fedele e  completo della filosofia italiana, sono chiamati a  collaborare tutti i FILOSOFI d’Italia; e dove sia opportuno non  si tralascerà di invitare a fraterna collaborazione i filosofi d’altri  paesi, come la GERMANIA, più particolarmente versati, com’è naturale, nelle materie – e. g. HEGEL --  riguardanti le rispettive loro nazioni. Ma di quanti sono in Italia che  abbiano in una disciplina e in uno speciale argomento una loro  competenza, l’Istituto confida che nessuno vuole negare il proprio  contributo e il proprio nome a questo lavoro, che vuol essere opera  nazionale superiore a tutti i partiti politici come a tutte le scuole filosofiche,  e puo riuscire, per la sua complessità, la maggior prova filosofica  dell’Italia nuova  Le dichiarazioni di imparzialità convinsero FORMIGGINI — che giudica l’ATTUALISMO ormai privo di aggressività  per aver esaurito la sua funzione, non chi vede, l’agnosticismo della scuola: la politica divide, e  la filosofia unire (Che cosa è il fascismo). Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione  compimento. Cosi VOLPE cerca di sostenere l’obiettività dell’E.I.: Se per Enciclopedia fascista si intende un’opera in cui  ogni articolo, pagina, rigo sia coordinato e SUBORDINATO AD UNA DETERMINATA VEDUTA FILOSOFICA e politica, questa nostra non è l’Enciclopedia del Fascismo. Non è, come la Enciclopedia FRANCESE, la Enciclopedia dell’ILLUMINISMO. La Enciclopedia italiana neppure se lo è proposto. Né e forse possibile proporselo. Ma l’Enciclopedia presenta  un quadro PERFETTO della filosofia. E questo ha il suo valore per il Fascismo. L’Enciclopedia italiana, per quel tanto che può avere una veduta filosofica,  ha una veduta che perfettamente ingrana col Fascismo: la  filosofia come movimento e divenire, come lotta e, insieme, solidarietà di forze. L’Enciclopedia è un monumento all’Italia, in piena rispondenza al pensiero e all'anima del Fascismo. L’Enciclopedia italiana. Nuova Antologia -- articolo  rifuso, accentuando l’apoliticità dell’E.I., col titolo Giovanni Gentile e  l’Enciclopedia Italiana, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero,  Firenze, Sansoni.   Ciò che IL SENATORE TRECCANI E IL SENATORE GENTILE hanno detto  circa gli spiriti filosofici che dovranno animare la grande impresa, pienamente mi  soddisfa. I nomi dei filosofi collaboratori scelti sono gli stessi che io avrei scelto. Gentile d’oggi ha fatta sua la concezione formigginiana che una enciclopedia nazionale deve essere il quadro completo dello spirito filosofico della  nazione – come a Bologna -- e non la espressione di una  particolare tendenza. L'Italia che scrive.  al contrario, aumentare il pericolo di un’egemonia gentiliana. TILGHER sulle pagine de « Il Mondo »  svolge in quei mesi una serrata polemica anti-attualista,  mise in guardia — senza tuttavia tener conto del complesso gioco politico e culturale condotto dal fascismo —  contro l’« IMPERIALISMO filosofico » dell’ATTUALISMO di Gentile: spirito chiuso, violento e SETTARIO, pontificale e teologale,  tabula rasa all’infuori di argomenti rinascimentali e risorgimentali, cui avrebbe preferito, alla direzione dell’opera,  CROCE, o CHIAPPELLI, FARINELLI, OJETTI. L’Enciclopedia che usce dalle mani del senatore Gentile non  e una Enciclopedia, ma un “Index librorum et virorum ad majorem  Actus Puri gloriam.” Il senatore Gentile specula un po’ troppo  sulla vigliaccheria filosofica del nostro bel paese se crede che  gli si lascia compiere tranquillamente una simile impresa di annessione filosofica. Se no, se l'Enciclopedia dovesse rimanere  affidata a Gentile, credo che non trova FILOSOFI collaboratori disposti ad  aiutarlo nella sua opera d’imperialismo intellettuale. E già so che  più d’un FILOSOFO, RICHIESTO, RIFIUTA di collaborare. Le previsioni di TILGHER — di un’energica reazione contro l'impresa gentiliana da parte della corrente filosofica, gli indirizzi, i movimenti, le scuole, i filosofi massacrati dalla ignoranza e dalla faziosità settaria  di Gentile, non si realizzarono. A critiche del genere  — limitate a una polemica culturale scadente spesso sul  piano personale, Treccani puo facilmente opporre la  diversità di indirizzi rappresentata dai direttori di sezione  dell’Enciclopedia. In occasione della loro prima riunione,  il presidente dell’Istituto si preoccupa di  confutare attacchi esterni e diffidenze interne sull’opera  ritenuta dogmatica, settaria, faziosa, asserendo che  Gentile è uomo di partito e di idee sf, ma è uomo leale e di fede. Tra  lui e l’Istituto sono poi stati stabiliti patti ben chiari ed egli ha già  dato prova, nella indicazione dei FILOSOFI, di aver tenuto fede a  tali patti: basta uno sguardo alle persone qui presenti per convincersi dell’infondatezza di ogni accusa. Tilgher, Giovanni Gentile e l'enciclopedia italiana, in Il  Mondo. Del resto, Vi assicuro che io, che ho dato il mio nome a quest’impresa, non permetto mai ad alcuno di venir meno al concetto  fondamentale, che molto chiaramente è espresso nell’atto costitutivo.  Ma io ho fede nel Sen. Gentile. Lo stesso suo carattere energico è  garanzia di successo. La campagna ingiusta, iniziata contro di lui  a proposito dell’Enciclopedia, cade non appena pubblicammo i  nomi dei FILOSOFI collaboratori, i quali, italiani di sicura fede, rappresentano  la idea, la scuola, e la tendenza filosofica. Tutti gl’interpellati finora hanno aderito con parole confortanti e lusinghiere. Se  qualcuno fosse tentennante, bisogna illuminarlo, persuaderlo dell’obiettività del lavoro e convincerlo a dare il suo nome, sia pure  per una sola voce. Nessun nome di insigne FILOSOFO italiano deve mancare nell’Enciclopedia, anche perché, dato il duplice scopo che io miro a raggiungere — Enciclopedia come opera di valorizzazione della filosofia nazionale e Fondazione per l'incremento della filosofia con gli eventuali profitti — non sarebbe simpatica la voluta assenza da parte di  qualcuno A Bologna si era appena chiuso il convegno sulle istituzioni fasciste di cultura in cui Gentile presenta il fascismo come erede di tutta la storia  italiana, rivolgendo un appello all’unità e alla conciliazione  che avrebbe dovuto rafforzare, sul piano del consenso, la  drastica conclusione della crisi Matteotti. Anche l’Enciclopedia viene indicata con insistenza come opera nazionale, in cui ogni filosofo italiano di sicura fede conserva la sua opinione filosofica – e politica. Alcuni  degl’avversari del regime riconosceno il suo  sforzo, ma anche la difficoltà, di acquisire l’appoggio di ogni filosofo. Cosi l’Avanti!, per il quale, anche se il  mondo filosofico italiano si è fascistizzato molto presto,  antifascista è la filosofia, la vera filosofia, quella disinteressata, quella cioè che ha sempre odiato l’accademia, la  chiacchiere, la rettorica, gl’alalà. L'Unità » invece,  ritenendo che anche ideologicamente gl’intendimenti fa-   Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento.  Da Ireneo ad Arpinati..., in « Avanti! »,  a proposito  del discorso bolognese di Gentile; cfr. anche I filosofi e Farinacci, in Avanti! Fra il manifesto dei filosofi del fascismo, leggi Gentile, e i discorsi di Farinacci,  bisogna confessare che c’è piu intelligenza nei discorsi di Farinacci.   scisti di fascistizzare gli altri partiti social-democratici possono col tempo realizzarsi — come afferma esaminando  il Manifesto dei filosofi del fascismo” —, coglie  proprio nell’Enciclopedia la capacità del regime di ottenere  consensi fra i filosofi. Conosciamo bene quel che  sia la spregiudicatezza scientifica dei sapienti del fascismo  e quel che sia l’antifascismo della gente accademica. In tempi calamitosi per le pubbliche libertà uomini di  scienza hanno talora opposto le loro proteste, gravi e sensibili, se anche rare o taciturne. Oggi non abbiamo di questi  esempi in Italia, fra tanti uomini di dottrina che pure fanno  professione di indipendenza o di avversione ai poteri dominanti » ”"; dove però, più che l'individuazione della forza  del fascismo — che stava proprio allora organizzandosi come regime reazionario di massa —, vi è quella polemica  contro gli aventiniani, che porterà ancora a negare ogni  differenza fra le varie componenti della borghesia. L’imparzialità che l’Enciclopedia tendeva ad accreditare  sotto l’etichetta « nazionale » era comunque strettamente  condizionata dalla situazione reale del paese, e si traduceva  in una « passività » di stampo prezzoliniano: nello    % Sintomi di decadenza. Un manifesto degli intellettuali fascisti, in  « L'Unità ».   .Nel mondo della coltura borghese. Una Enciclopedia, in « L'Unità.   Divagazioni sull'ideologia del fascismo, in « L'Unità, a proposito della polemica Gentile-Interlandi sull’E.I., che esami-  neremo. Evidentemente differenze fra i gruppi borghesi non esistono  nelle idee fondamentali, ma nel modo di fare. Il fascismo ha in tutti i  modi l’energia di attrarre l’attuale borghesia: ecco i confini “tecnici” fra  “pensiero” ed “azione” ».  Nell’organo della gentiliana Fondazione Leonardo, Prezzolini an-  nunciò l’E.I. come «l’esame di stato della coltura italiana » e «lo sforzo  dell’Italia nuova, in paragone degli altri paesi. Il programma è ottimo.  Lo sforzo è il più nazionale che si sia tentato dopo l'unità italiana, ma  l’Enciclopedia non sarà nazionalistica »; si sarebbero superate le enciclopedie straniere «se la scelta dei collaboratori, com'è stata quella dei  direttori delle singole sezioni, sarà severa e non dipendente da criteri  politici o di meno che serena volontà scientifica. Sarà un altro dei meriti  di Gentile verso la cultura italiana » (Leonardo, redazionale); e, pubblicando le Avvertenze ai collaboratori dell’E.I.:  « meglio di ogni altro documento, varranno a fare scompatire nel pubblico ogni ombra di dubbio sul valore scientifico che l’Enciclopedia avrà,  e a dissipare le voci malevoli che pretendevano l’Enciclopedia fosse    poteva riflettersi solo, la cultura e l'ideologia del blocco borghese chiamato a  collaborare col regime nel momento in cui questo schiac-  ciava le opposizioni. Era significativa, del resto, la presentazione « ufficiale » che dell’Enciclopedia dava la rivista di Mussolini, Gerarchia. Dopo aver affermato la necessità di « un’affermazione di intellettualità  collettiva che rivelasse al mondo ciò che l’Italia era nel  dominio del sapere universale », e che « in Italia non possediamo ancora la nozione di quel sapere nazionale che in-  vece posseggono e da secoli altre nazioni », l’autore dell’articolo auspicava che l’Enciclopedia, « libro di un popolo »,  fosse « libro politico, ma soprattutto libro di conquista »,  espressione dell’« intelligenza dominante » della collettività;  essendo « giunta l’ora che il mondo la pensi anche all’ita-  liana », compito dell’opera avrebbe dovuto essere quello di  « chiamare a raccolta tutto quanto l’anima italiana ha in  questo momento di lume e di ardimento e farlo collaborare a questa grande azione che se ben mossa può segnare  il primo passo verso quel dominio intellettuale del mondo  che noi da tanti secoli abbiamo perduto e può segnare,  prima ancora, il definitivo sfrancamento italiano dalla coltura straniera”. La politica di conciliazione  di Gentile    La componente tradizionalista del fascismo, rappre-  sentata in primo luogo dai nazionalisti, cercò — come  ricorderà Bottai che della necessità di conferire al regime  una sua dignità culturale fu il principale sostenitore dalle  pagine di « Critica fascista » e poi di « Primato » — di    opera di parte, concepita con angusti criteri di scuola. Nella seconda ediz. de La cultura italiana si limiterà a dire che  V’E.I. dovrà rappresentare la capacità della coltura italiana del dopo-guerra.  Venturini, La nuova e mirabile fatica italiana. L'Enciclopedia  Nazionale, in « Gerarchia », costruirsi una sua Weltanschauung che fosse, da un lato,  frutto della mediazione e del superamento delle diverse  correnti di pensiero dalle quali o contro le quali il movimento fascista era sorto — non rollandianamente 4%  dessus de la mélée, ma con un suo impegno autonomo  d’arbitro tra due mondi in lotta —, dall’altro, valorizza-  zione del primato storico-culturale italiano ®. Per questo  era necessario, inizialmente, fare appello a tutti quanti  erano disposti a collaborare con un regime che cercava di  mostrarsi erede di una tradizione « nazionale »: si pensi  alla presentazione di Croce precursore del fascismo, o  ai tentativi, non ultimo quello dell’Enciclopedia, di acca-  parrarsene l'appoggio. In quest'opera di assorbimento  di intellettuali incerti, fiancheggiatori od oppositori, ana-  loga a quella attuata in campo politico dagli ex nazionalisti  Rocco e Federzoni, artefici della simbiosi organica del Pnf  col vecchio Stato monarchico, il regime « si rivesti piuttosto  dei panni del moderatore che dell’eversore » — per usare  le parole di Bottai riferite a Mussolini, evitando i  vuoti paurosi, e poté quindi trovare uno  strumento adatto in Gentile, la cui concezione dello Stato  e della storia italiani ne sottolineavano — con motivazioni  antitetiche a quelle che egli riteneva il naturalismo deterministico, conservatore e illiberale dei nazionalisti * — alcuni  presunti elementi di continuità e sviluppo che facevano  del fascismo il « vero liberalismo ».  G. BOTTAI, Vent'anni e un giorno, Milano, Garzanti. Di Bottai è da vedere tutta l’antologia di Scritti, Bologna, Cappelli (dove è riportata, ad es., la conferenza nella quale notò come «attraverso il Nazionalismo si avviasse il  Fascismo a compiere il primo passo della sua rivoluzione intellettuale,  inserendosi in una tradizione politica, che potrà essere discussa, ma non  negata »). Di uno «sforzo intellettualistico di tipo e di gusto  crociano » da parte del gruppo di Bottai parla R. Colapietra, Benedetto  Croce e la politica italiana, Bari-Santo Spirito, Edizioni del Centro librario. Sul « revisionismo » di Bottai, ma con una inaccet-  tabile sopravvalutazione del suo ruolo «critico » all’interno del regime,  cfr. G.B. Guerri, Giuseppe Bottai un fascista critico, Milano, Feltrinellie A.J. De Grand, Bottai e la cultura fascista, Bari, Laterza. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, L’Enciclopedia italiana    Nei numerosi interventi compiuti da Gentile sui rapporti tra fascismo e cultura non vi  sono né le contraddizioni che vi ravvisò Formiggini”, né  la difesa dell’autonomia della cultura vista da Harris nella  gentiliana « politica di conciliazione » !: comune a tutti è  la necessità — già sostenuta a proposito del problema  scolastico!— di organizzare e legare al « nuovo ordine,  indirizzandole se possibile verso esiti attualisti, tutte le  forze culturali del paese, con la consapevolezza che ciò  è possibile solo con la forza politica del fascismo. A Firenze,  di fronte a un uditorio politicamente composito, Gentile  sostenne la possibilità che ognuno intendesse  il fascismo a suo modo: « L’unità risulta da questa molte-  plicità, da questa infinità di temperamenti e psicologie e  sistemi di cultura e concezioni della vita. La forza del  fascismo deriva da questa ricchissima inesauribile fonte  d’ispirazioni e connessi bisogni ed energie spirituali. Ed  esso si essiccherebbe e inaridirebbe nella monotonia mec-  canica delle formule vuote se potesse definirsi e restringersi negli articoli di un credo determinato!”. Il giorno  dopo, parlando all’Università fascista di Bologna di pros-  sima inaugurazione, ribadî il suo concetto di libertà che si  attua nello Stato come negazione dell’individualismo egoi-  stico, e di fascismo come « ultima e più matura forma del  nuovo concetto della libertà, figlia. Un  appello ai liberali e uno ai fascisti, per far tutti partecipi di  un unico processo storico sfociante nello Stato etico, ritenuto « la forma suprema e la unità cosciente e possente  di tutte le forze nazionali nel loro maggiore sviluppo successivo », che « deve rampollare dalla stessa realtà e perciò Gentile ha contraddetto a Roma ciò che aveva detto a Bologna,  perché, affrontando qui un grande problema culturale, quello della Enciclopedia, ha dichiarato che intende di affratellare, formigginianamente,  nella grande impresa tutti i competenti senza distinzione di scuole e di  partiti » (« L'Italia che scrive ». Gentile, Scritti pedagogici,  La riforma della  scuola in Italia, cit. Che cosa è il fascismo, in Che cosa è il fascismo, Libertà e liberalismo, aderirvi; e da questa aderenza derivare la sua forza e la sua  potenza » ! sebbene criticato da Treccani per le pubbliche  dichiarazioni di fascismo che avrebbero potuto pregiu-  dicare l’impresa cui si erano accinti, Gentile svolgeva anche se in maniera più scoperta riguardo al fine —  le stesse idee poste a base dell’Enciclopedia. Cosî nel discorso di chiusura del convegno per le istituzioni fasciste di cultura — col quale Croce  motivò il suo rifiuto di collaborare all’Enciclopedia, Gentile obiettò a PANUNZIO che « il Partito fascista ha un  suo vasto contenuto ideale, senza bisogno di definire la sua  dottrina e di fissare il suo sillabo », e sostenne la necessità  di immettere il fascismo (critico degli intellettuali che  stanno alla finestra) nella filosofia, senza bisogno di  promuovere una « filosofia del fascismo, poiché « il nostro partito non è SETTA, né chiesuola. Il nostro partito  vuol essere ... il popolo italiano; nell’attesa, tanta parte  del passato doveva essere rispettata e utilizzata:    oggi nelle università dello Stato insegnano tanti vecchi uomini, a cui  molto la nazione deve: tanti, che formarono la loro mente e l’animo  loro quando nel cuore degl’italiani, degl’italiani giovani e della  guerra, non s'era accesa la scintilla della nuova fede; e non c’intendono, e noi guardiamo ad essi con sospetto, ed essi verso di noi con  un sorriso sulle labbra, con l’anima chiusa. Ebbene, questa è l’università italiana in gran parte: questa è la vecchia Italia, che noi  non possiamo cancellare; che anzi dobbiamo pur rispettare 1°.  Che cosa è il fascismo. Treccani a Tumminelli. Non condivido il Suo  ottimismo. La macchina v4 scossa affinché funzioni rapidamente. Vengo a  sapere che non una delle lettere ai collaboratori è partita. Ma vi è di più:  Ojetti ha scritto più volte a Gentile chiedendo schiarimenti e non ha mai  avuto nemmeno un rigo di risposta. Ma che razza di modo di fare è  questo? ... Le devo dire il vero che a me spiacciono le conferenze che  Gentile va a tenere sul fascismo nelle varie città: l'enciclopedia non è, e  non deve essere, di marca fascista... Mi sbaglierò, ma con Gentile non  incominciamo bene: egli non si rende conto dell’enorme sacrificio e rischio  mio e prende la cosa alla leggera. Dovrebbe aver capito, indipendentemente dal contratto che ho firmato, che io non mi sono cacciato nell’im-  presa per il gusto di buttar via quattrini » (ACS, Segreteria particolare  del Duce, CARTEGGIO RISERVATO). Il fascismo nella cultura, in Che cosa è il fascismo. Nessuna concessione alla « barbarie » dell’estremismo  fascista. Anche il Manifesto degli intellettuali del fasci-  smo, frutto di quel convegno, ebbe  valore di documento politico anche perché fu, da parte di  Gentile, « un ennesimo tentativo di aggancio all’idealismo,  a tutto l’idealismo », compreso quello crociano, come ha  osservato Colapietra !”, e presentò il fascismo come riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. Anche in seguito Gentile riaffermerà la sua concezione  dei rapporti fascismo-cultura. Nel DISCORSO TENUTO IN CAMPIDOGLIO PER L’INAUGURAZIONE DELL’ISTITUTO NAZIONALE FASCISTA DI CULTURA, in cui ricorda ai liberali  la ben più drastica opera riformatrice attuata dal liberale Sanctis a Napoli (documentata da Russo), riprese e sviluppò motivi  già affermati  '”, invitando a non discono-  scere « una certa cultura strumentale, a norma della quale  due più due farà sempre quattro, sia che si sommino carezze sia che si sommino bastonate. E di questa cultura stru-  mentale, che è mero sapere, organizzazione di cognizioni  bene accertate, critica, erudizione, dottrina, non può essere  il fascista a volersi disfare!, Concetti ripetuti. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura  italiana, Milano, Feltrinelli. Possiamo spogliarci di certe passioni della prima ora, e ricono-  scere pertanto il valore nazionale cosi di certe forme di cultura, che a  noi riescono false in quanto insufficienti, come di tanti uomini che non  ebbero occhi né cuore per vedere in alto il segno a cui avrebbero dovuto  guardare e trarre gl’italiani, ma lavorarono pur seriamente, one-  stamente, a recare in campo quelle pietre, con cui la giovane Italia ha  cominciato a costruire il suo grande edifizio. Noi a quelle pietre, i  non dirlo?, non possiamo, non vogliamo rinunziare »; ma il senso di  questa apertura che Gentile raccomandava era chiarito più avanti. Transigenza che diverrà ogni giorno più facile, via via che, adempiuto il  secondo termine, apparirà sempre più opportuno e più giusto il primo  termine del grande monito romano: parcere subiectis et debellare superbos.  Poiché non è lontano, se io non m’inganno, il giorno, in cui tutta l’Italia  sarà fascista (Discorso inaugurale dell'Istituto Nazionale Fascista di  cultura, in Fascismo e cultura.   al Senato a proposito dell’Accademia d’Italia nata a  « promuovere e coordinare il movimento intellettuale ita-  liano » (nessuna dittatura, assicurò!', come fa MUSSOLINI quando l'ACCADEMIA D’ITALIA iniziò i suoi  lavori !); ad essi Gentile rimarrà sempre fedele, indicando  come forza del fascismo fosse la sua capacità di assorbire  e superare la tradizione !5: lo stesso criterio seguito dalla  Commissione dei Diciotto per lo studio delle riforme costituzionali, da lui presieduta !‘. Rispettare, utilizzare e organizzare intellettuali di  vario orientamento politico e culturale era più difficile che  inquadrare nell’apparato amministrativo dello Stato fascista  la burocrazia di estrazione liberale; ma era opera [Per l'Accademia d'Italia Mussolini indicava fra i filosofi « uomini di origini, di temperamenti, di  scuole diverse; uomini rappresentativi di un dato momento sono al lato  di uomini rappresentativi di un momento successivo, o attuale, o futuro. L’Accademia è necessariamente eclettica, perché non può essere mono-  corde... Nell’Accademia è l’Italia con tutte le tradizioni del suo passato,  le certezze del suo presente, le anticipazioni del suo avvenire (in Mussolini, Scritti e discorsi, Milano, Hoepli. Scriveva che il Regime si viene pacificamente  guadagnando gli animi nelle scuole, nelle università, nelle accademie, e in  ogni libero campo di attività letteraria od artistica. Cresce insieme spon-  taneamente l’interesse di esso per ogni forma di cultura nazionale, e si  fa sempre più profonda la sua consapevolezza, che la sua forza, che è la  forza e la potenza del popolo italiano, non si può consolidare senza l’ade-  sione e la libera collaborazione delle più rappresentative intelligenze e di  tutte le forze morali del Paese » (Il fascismo e gli intellettuali, ora in  Origini e dottrina del fascismo). Afferma  che il fascismo «è progresso in quanto è restaurazione: consolidamento  delle basi per edificarvi su un solido edifizio, alto, nella luce. Ogni origi-  nalità senza tradizione, come ogni spontaneità senza disciplina, è velleità  sterile, non VOLONTÀ VIRILE (Risorgimento e fascismo, ora in Memorie  To e problemi della filosofia e della vita, Firenze, Sansoni. Nella relazione presentata da Gentile a Mussolini,  si affermava che la commissione non ha pensato un solo momento che  fosse da sovvertire lo Stato italiano sorto dalla rivoluzione del Risor-  gimento. E cosî ha creduto di rendersi fedele interprete dello spirito del  fascismo, nato a costruire, non a distruggere » (Relazioni e proposte della  Commissione per lo studio delle riforme costituzionali, Firenze, Le Monnier. Sul significato non eversore delle proposte della Commissione dei Diciotto, cfr. Aquarone, L'organizzazione dello  Stato totalitario, Torino, Einaudi. necessaria, non esistendo una « cultura del fascismo ». Né Volpe alla Scuola di storia moderna e contemporanea,  né Gentile all’Enciclopedia, quindi, chiesero tessere di partito. Dopo la costituzione  dell’Istituto Treccani, la prefazione all’  Enciclopedia — in cui è evidente la mano di Gentile —  poteva già vantare i risultati raggiunti, smentendo le previsioni degli oppositori: Il clima che ha reso possibile un’opera come questa, alla quale  non parve in passato possibile in Italia pensare, è il nuovo spirito  esploso con l'avvento del Fascismo, che scosse idee e sentimenti e  accese una passione inestinguibile di rinnovamento e di affermazione della potenza dell’Italia nel mondo... Il primo segno di questa  crisi gagliarda di rinnovamento fu la radicale riforma della scuola  compiuta; alla quale seguirono molte altre riforme orga-  niche, onde si venne trasformando la struttura dello Stato e si gettarono le basi di una nuova vita nazionale demografica, economica,  morale e religiosa. Mai, per nessuna opera, in Italia si unirono  come per l’Enciclopedia Italiana migliaia di scrittori a collaborare  con un disegno prestabilito, sotto una costante disciplina E  il fatto che tanti e si può quasi dire tutti gli studiosi d’ogni scuola  e indirizzo, letterati, scienziati ed artisti, si siano per la prima volta  accordati non in un’idea da vagheggiare, ma in un lavoro da eseguire, e che a tutti chiedeva disinteresse e sacrificio, per lo meno  d’altri lavori di maggior soddisfazione personale, questa grande  morale concordia degli scrittori italiani è il primo e il non meno  importante frutto che in vantaggio dell’alta educazione nazionale l’Enciclopedia potesse produrre. Affinché fosse possibile tale  concordia fin da principio la Direzione dell’Enciclopedia riconobbe l’opportunità di un ragionevole eclettismo e di una scrupolosa imparzialità. Un’opera non di rapida consultazione e volgarizzamento,  come il LAROUSSE, ma a carattere monografico come LA BRITANNICA, non avrebbe potuto avere carattere impersonale,  come vuole Treccani: l’ampiezza di una voce monografica Formiggini osserva che l’E.I. riusce la  più antifascista delle enciclopedie fasciste, e ciò non per mancanza di  buona volontà di render servizio al partito che gli ha dato ricchezze ed  onori, ma perché Gentile si è accorto che se avesse voluto fare una  Enciclopedia fascista avrebbe trovato come unico collaboratore volontario  (e lo ammettiamo per pura e generosa ipotesi) l’on. Farinacci (« L'Italia  che scrive » implica una presa di posizione scientifica da parte di ogni  autore. Ma la molteplicità e diversità di giudizi che ne  derivava avrebbe dovuto essere ridotta a unità: l’unità che è il principio vitale di ogni libro vivo, pare esclusa per  definizione da un'enciclopedia, che, per essere cosa seria, è di  necessità opera a molte mani, e ognuno vi mette il suo pensiero, il  suo stile, la sua anima. Ed è bene che cosî sia; e noi, per parte  nostra, ci siamo studiati di fare che ognuno, entro certi limiti,  restasse, come scrittore dell’Enciclopedia, lo scrittore che egli era.  Il che per altro non abbiamo creduto che fosse per produrre l’effetto  d’un coro selvaggio di voci stonate e discordi. Non c’è solamente  l’anima del singolo. Nello stesso individuo c’è anche l’anima  della sua famiglia, del suo popolo, del suo tempo; c’è il punto  di vista e l'interesse spirituale che è suo come dei connazio-  nali e dei coetanei che vivono la stessa vita e si sono formati  nello stesso mondo spirituale. Da quest’anima più vasta, non meno  reale dell’altra che varia da individuo a individuo, scaturisce l’unità di una scuola ben organizzata e diretta, e scaturisce l’unità di  un’enciclopedia ben disegnata e condotta. Un’enciclopedia è infatti l’espressione del pensiero di un popolo e di un’epoca; e propriamente degli elementi positivi, vitali ed attivi  di questo pensiero. Il quale evidentemente non consta della somma  di tutte le idee di tutti gl’individui, dotti e indotti, consapevoli e  ignari degl’ideali della nazione a cui appartengono e a cui sono  indissolubilmente congiunti; ma si raccoglie in sistema dalle menti  che dirigono e perciò rappresentano tutti. E il loro pensiero, presso  ogni popolo, sbocca e si fonde nella coscienza nazionale, e in ogni  periodo storico ha una forma e certi caratteri, ha un’individualità,  in cui mille e mille voci si adunano in un grande concento. Concordia discors [Concordia non facilmente raggiungibile anche nel nuovo  clima del fascismo, come ricorderà Gentile in termini meno  idillici! Mezzo per attuarla, per ridurre a unità argomenti   E.I. Ricorderà « prime difficoltà e diffidenze, ostilità coperte e palesi »  (Tribolazioni di un enciclopedista, cit.), e battaglie concluse con la  vittoria sempre della Direzione, ossia dell’Enciclopedia, e cioè di tutti.  Ma, evidentemente, vittoria difficile» (Ancora delle tribolazioni di un  enciclopedista. Come si taglia e si cuce il libro per tutti, «Il Corriere  della sera »). Pincherle osserva: differenze di  opinioni e di scuola, che spesso esplodono in battute polemiche, ora più  ora meno abilmente dissimulate » (L’Enciclopedia italiana, in « La Cul-  tura»; e Bosco, redattore capo dell’E.I.,  ricorda. Il primo compito fu quello della raccolta delle voci:  diversi e autori di vario orientamento filosofico, e il criterio storico: affinché tale discorde concordia si stabilisca e conservi, occorre una  regola che tutti gli scrittori capaci di contribuirvi mantenga nei limiti  ciascuno del proprio carattere, non pure per la materia che coltivano,  ma anche per l’indirizzo mentale con cui la coltivano, in guisa che  tutti gli aspetti della cultura vengano a comporsi armonicamente  in un quadro coerente, com'è nelle sue note principali il pensiero  di un popolo e di un’epoca... Nessuna intolleranza, nessuna ombrost  angustia di mente. A ogni avvenimento, a ogni dottrina, a ogni  persona il suo merito e il posto in cui ciascuno per sua virtà s'è  collocato. Perciò non dottrine esclusive, come sono per lo pi tutte  le dottrine nelle menti di singoli; ma l’ordine piuttosto in cui le  varie dottrine sono possibili, malgrado le loro divergenze, ciascuna  con i suoi motivi, La stessa grande imparzialità della storia, in cui  non c'è nulla che non abbia la sua ragion d’essere.   La storia, in verità, suggerisce il metodo della trattazione che si  conviene a una enciclopedia: la storia con la sua sovrana potenza  conciliatrice delle più contrastanti esigenze dello spirito e degli  aspetti più diversi del vero. Ogni concetto o istituto, ogni religione  o dottrina, ogni mito o teoria, ogni popolo o schiatta esiste e vive  nella sua storia, con la sua origine e col suo sviluppo. E nella storia  si spezza ogni dommatismo. II metodo pertanto dell’Enciclopedia Italiana è il più largo metodo storico, cosi in ogni singolo articolo come nel sistema generale.  Grazie a questo metodo, la Direzione ha ambito di raccogliere in-  torno a sé, assegnando a ciascuno la parte sua, gli scrittori della  più varia mentalità.] compito dei più delicati, perché era in questa fase che si potevano concretare le fondamenta dell’edificio, e che si doveva decidere il carattere  dell’Enciclopedia: dizionario di cose, o raccolta di monografie, o qualche  cosa di mezzo? Non sono infatti mancate le divergenze: chi consultasse  oggi i primi elenchi delle voci proposte da ognuno dei direttori di sezione  e, poi stampati in forma di bozze, diffusi tra gli studiosi per raccogliere  suggerimenti, troverebbe che molto è stato cambiato Già nelle Avvertenze ai filosofi collaboratori,  (Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani.  Idea esecuzione compimento), si diceva: «I - Nella compilazione degli articoli, anche se teorici e dottrinali filosofici, si avrà cura di attenersi  a un’esposizione storica di quello che è stato pensato o si pensa dagli  scrittori della materia meritevoli di considerazione; evitando al possibile  ogni forma subbiettiva che dia rilievo alla persona di chi scrive e adoperando uno stile semplice e sobrio. ISono dall’Enciclopedia BANDITE LE POLEMICHE. Ogni discussione vi dev'essere mantenuta nei termini di un  dibattito di valori puramente ideali, con la cura più scrupolosa di mettere  in luce anche le ragioni delle dottrine, che lo scrittore stimi più deboli. Il metodo seguito nella trattazione dell’Enciclopedia è  quello storico, cosî in ogni singolo articolo come nel sistema generale. I filosofi collaboratori, aggiungeva Gentile, operando anch’essi nella cultura dell’epoca, hanno nella loro stessa formazione spirituale la misura del giudizio »; ma avrebbero  dovuto elaborare gli elementi « vivi e vitali » della cultura  propria della « classe elevata e dirigente, la quale s'incontra  e s’intende, in un dato tempo, sullo stesso terreno, in una  comune vita intellettuale e morale » !’. Enciclopedia,  quindi, figlia del proprio tempo !?, che come tale — avverte Gentile  — avrebbe rispecchiato i progressi  della scienza e i cambiamenti storici avvenuti nel corso  della sua realizzazione!!. L’asserita imparzialità dell’opera — corrispondente ad uno stretto legame con « un dato tempo » —  comportava, accanto al clima del fascismo, il ricorso  all’opera di intellettuali di varia estrazione culturale e,  anche, di diverso orientamento politico: una sapiente azione  di assorbimento, testimoniata dall’ampia scelta dei direttori  di sezione e dei collaboratori, che spingerà Salvemini —  incapace di comprendere i motivi se non addirittura le manifestazioni della politica articolata del regime — a giudicare  l’Enciclopedia « quasi esclusivamente opera di uomini ap-  partenenti alla generazione maturata prima che il fascismo  giungesse al potere », di cui Mussolini — aggiungeva  semplicisticamente — si era attribuita la maggior parte  dei meriti » avverte l'opuscolo di propaganda Enciclopedia Italiana pubblicata sotto  l’alto patronato di S. M. il Re d’Italia Imperatore d'Etiopia, Roma. Già nel vol. I CALOGERO osserva il carattere essenzialmente  storicistico delle voci giuridiche, economiche e politiche (Nuovi studi  di diritto, economia e politica). L’Enciclopedia sarà il monumento della cultura dell’Italia di Mussolini, afferma Treccani (Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento; e l'opuscolo di propaganda sopra citato. L’Enciclopedia è al tempo stesso documento fedele del periodo storico in cui è  nata e contributo certo non ultimo alla formazione di quella cultura  intensa, vitale, capace di espandersi e d’imporsi che dovrà essere la cultura italiana di domani. E.I., Appendice, ma già apparsa: cfr. Bellezza, Bibliografia. L’Enciclopedia Italiana, che è senza dubbio superiore a tutte le    [ L’Enciclopedia italiana  I collaboratori e le proteste del fascismo estremista    Il consiglio direttivo dell’Enciclopedia costituiva una specie di fronte nazionale, unendo, sotto  la giunta di direzione composta da Treccani, Gentile e  Tumminelli, il primo ideatore dell’opera, Martini;  glorie (diversamente fortunate) della grande guerra come Cadorna e Thaon di REVEL — quest’ultimo ministro della Marina, e STEFANI, ministro della Finanze; rappresentanti della tradizione  liberale lontani dal fascismo quali Einaudi e Ruffini — che non parteciparono più  all'opera —, o cattolici come Sanctis; e, ancora, Bonfante,  Ojetti e Salata, accanto a Grassi, Longhi, Marchiafava !. Nel comitato tecnico — composto dai direttori  delle 48 sezioni e già formato  — vi erano  i maggiori rappresentanti della cultura italiana, da Sanctis (Antichità classiche) a Pettazzoni (Storia delle enciclopedie pubblicate dall’inizio di questo secolo, è opera di studiosi  italiani la cui formazione aveva avuto luogo già prima dell’avvento di  Mussolini. Poiché essa cominciò ad essere pubblicata, Mussolini se ne è attribuita la maggior parte dei meriti. In realtà, essa fu progettata quando, secondo la leggenda fascista, l’Italia era  “alle prese col bolscevismo”. È il più gran monumento che si sia potuto  erigere durante il regime fascista alle due generazioni di uomini che rico-  struirono la cultura italiana durante il regime prefascista » (G. Salvemini,  Il futuro degli intellettuali in Italia, Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli, Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione  compimento, Einaudi (che era stato consigliere  dell’Istituto di Formiggini) appare nel Manifesto e nel Primo elenco di  collaboratori; Ruffini solo in quest’ultimo, anche come direttore, con  Santi Romano, della sezione « Diritto pubblico ». Sulla partecipazione  puramente decorativa di Martini cfr. le lettere di Gentile a lui,  (BNF, Fondo Martini); per la diffidenza  sua e dei suoi amici verso l’opera — nella cui preparazione non furono  ascoltati —, la lettera di Menghini e tutte quelle  di Donati, che giudicava Gentile spirito « dogmatico » e « profonda-  mente «ztiscientifico », dubitando che «la scienza italiana possa subor-  dinarsi a quel vaniloquio sciagurato ch’egli chiama la sua filosofia, ma riconoscendo che l’idealismo è tanto “attualista”  da trovar milioni che i positivisti non sapevano mettere assieme » religioni), da Federico Enriques (Matematica) a Nicola  Pende (Medicina), da Carlo Nallino (Letterature e civiltà  orientali) a Santi Romano (Diritto pubblico) a Gioacchino  Volpe (Storia medioevale e moderna). Ad essi era deman-  data la scelta dei collaboratori e delle voci ! La consultazione dei collaboratori previsti iniziò subito  dopo la costituzione dell’Istituto; nonostante la sua ampiezza, Treccani poteva già annunciare che  « gli uomini migliori che l’Italia vanta in tutti i campi  del sapere hanno aderito con entusiasmo; i collaboratori  sono già circa 1200 » !. In realtà, i rifiuti che possiamo  documentare — ma significativi per le motivazioni poli-  tiche — sono solo quelli di Croce e Silva. Il primo, interpellato, tramite Alessandro Casati, da Volpe — la cui fun-  zione all’interno dell’Erciclopedia fu all’inizio probabilmente più vasta di quella di direttore di una sezione storica,  in linea con la funzione di primo piano da lui svolta, accanto a Gentile, nell’organizzazione della cultura durante  il fascismo —, nella risposta preannunciò quel distacco da  Gentile e dal regime che un mese dopo sarà reso definitivo  dalla protesta contro il manifesto degli intellettuali fascisti:  «come volete — scrive a Volpe — che io  collabori a una Enciclopedia diretta da chi ha pur testé,  a Bologna, osato proclamare che la cultura deve essere  fascista? » ! Motivi politici furone alla base anche del  [Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione  compimento, e Primo elenco, Tutto il lavoro  di preparazione (scelta dei collaboratori e formazione dello schedario)  terminò. Treccani, Racelonone Italiana Treccani. Come e  da chi è stata fatta). Su una riunione di alcuni direttori di  sezione per impostare il lavoro, cfr. la testimonianza di Ojetti  (I taccuini, Gentile non conclude mai, chiede  che i direttori si accordino, Per i successivi rapporti di Ojetti con la  Società Treves-Treccani-Tumminelli, editrice di « Pègaso » e Dedalo,  cfr. ACS, Segreteria particolare del Duce, CARTEGGIO RISERVATO. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione com-  Dincato. Croce, Epistolario, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici,  E a Casati, Dopo il discorso di  Gentile a Bologna, credo che mi avrai dato ragione nel rifiuto che  opposi a partecipare all’Enciclopedia. Come sarei potuto stare alla dipen-  rifiuto di Silva che, dopo aver inizialmente accettato  di collaborare — cinque giorni dopo l’arresto del maestro SALVEMINI — scrisse a Gentile una lettera  che rappresenta, come per l’autore che solo un anno dopo  accetterà la redazione di voci importanti dell’Enciclopedia,  le illusioni, le incertezze, le conversioni di tanti.    Voglia consentirmi di ritirarmi dal gruppo dei collaboratori dell’  Enciclopedia. Nell’appello che Ella rivolse ai filosofi, quando la  grande impresa fu decisa, suonava alta e nobile la parola della  conciliazione degli spiriti nel campo degli studi e della scienza. E  tale parola, che acquistava anche maggior valore perché pronun-  ciata da Lei, mi persuase.   Ma ora, purtroppo, la mia fiducia nella possibilità di tutte le  forze in una impresa di scienza, è molto scossa per i fatti che stanno  accadendo. Vedo arrestato SALVEMINI, il che significa l’inizio di  persecuzioni ai filosofi non fascisti. Vedo presentata una legge  per la dispensa dei funzionari, che mira, come hanno rilevato l’on.  SALANDRA e l’on. VOLPE, a colpire la libertà di pensiero e l’integrità  delle coscienze, anche in quel campo che Ella, nel Suo memorabile  discorso inaugurale, voleva rimanesse libero a tutte le opi-  nioni: il campo dell’insegnamento superiore.   In tali condizioni, noi che da quella legge verremo colpiti,  come possiamo rimanere a collaborare a un’opera di scienza, come  possiamo continuare a credere che in tale opera le divergenze di  pensiero e di partito verranno superate? Ecco perché le chiedo di  rinunziare alla mia modesta opera. Son certo che Ella apprezzerà al giusto valore questo mio atto...1?  GENTILE dovette apprezzare piuttosto le pronte e numerose adesioni che assicurarono all'impresa l’appoggio  dei principali rappresentanti della cultura italiana. Il Prizzo  elenco di collaboratori dell’Enciclopedia Italiana, pubblicato, ne annoverava 1.410, quasi  la metà dei 3.266 che daranno il loro contributo a tutta  l’opera ! Non appaiono ancora alcuni dei    denza di un direttore, che ha quelle idee sulla cultura? » (Epistolario,  Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, Archivio dell'Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma [d'ora in  avanti AEI], Lettere, Silva. Su Silva storico e sui suoi rapporti col fasci-  smo cfr. il ritratto che ne ha fatto nel 1954 Volpe (Storici e maestri,  Firenze, Sansoni, La data di pubblicazione del Prizzo elenco (non. indicata) si deduce  dalle polemiche giornalistiche che suscitò, futuri pilastri dell’Erciclopedia, come Pincherle, Pagliaro, Enriques. Si leggono  già, invece, i nomi di Aliotta e Carlini,  Calò e Codignola, o di Caggese, Ciasca, Chabod, Banfi,  Calamandrei, Mondolfo, Allmayer, Augusto Guzzo, e ancora tanti, da JEMOLO a Russo, da Cortese a Schipa, oltre a Venturi e Rosa, e Gemelli.   Il Primo elenco registra anche il nome di quanti, dopo  essere stati invitati e aver accettato, non collaboreranno  all'opera. La maggioranza di essi è costituita da persone culturalmente poco rappresentative. Accanto a professori di  scuola media superiore o scarsamente noti professori universitari, troviamo militari, professionisti, o non qualificati cultori della filosofia. La loro cospicua scomparsa ( sui 1.410 annunciati) dall’elenco finale degli effettivi filosofi collaboratori, per essere sostituiti da studiosi pit qualificati,  potrebbe indicare, da un lato, un aumento reale dei settori  accademico e di ricerca, dall’altro, una maggiore progres-  siva adesione da parte degli esponenti dell’alta cultura,  dapprima diffidenti verso l’iniziativa gentiliana. Vi sono tuttavia, fra i collaboratori previsti dal Primzo  elenco che poi non parteciperanno all’opera, anche perso-  naggi la cui iniziale accettazione val la pena di essere sotto-    Caggese scriveva a Volpe, che lo aveva invitato  a collaborare. Niente pregiudiziali politiche, anche perché io sono completamente fuori di ogni attività politica, ben sicuro come sono che è  nostro primo dovere d’italiani non complicare in alcun modo una situa-  zione non lieta. Vivo nella solitudine pivi assoluta, lavoro molto e, in  confidenza, non potrei in alcun modo partecipare alle vicende politiche  perché sono troppo indulgente e, ahimè!, ancor troppo sentimentale e  bonario. Passare con i forti non posso perché non è lecito a noi, uomini  di studio, dare lo spettacolo di voler profittare comunque; esaltare i  cosi detti deboli non posso, perché moralmente sono proprio essi quelli  che nell’immediato dopo-guerra hanno scatenata la guerra civile. Non mi  resta che fare il buon cittadino che rispetta tutte le leggi del suo paese,  e augurare che presto ritornino i saturnia regna!, e che i deputati si somiglino. Dunque, collaborerò volentieri, anche perché non vorrei dire  di no proprio a te. AEI, Lettere, Caggese. L'Enciclopedia italiana    lineata: non tanto le personalità politiche chiamate a dar  lustro all’impresa, la cui adesione è una riprova — assieme  alla presenza di uomini poco rappresentativi nel campo  scientifico — del significato non strettamente culturale che  l’Enciclopedia voleva avere !, quanto liberali come Casati e Malagodi, o uomini come Baratono, Berenson, Caramella, Limentani.   Pochissimi fin d’ora gli stranieri, conforme al criterio  ispiratore dell’opera.   La pubblicazione del Primo elenco di collaboratori  provoca le proteste del fascismo estremista. Su Il Tevere da lui diretto  Interlandi, dopo  aver approvato le dichiarazioni di imparzialità e apoliticità  dell’Enciclopedia, affermava:  Prima che l'Istituto Treccani, superiore a tutti i partiti politici  s'è dichiarato il Fascismo, che è superiore allo stesso partito che  fascista si intitola; appunto perché il partito fascista ha una fun-  zione tattica contingente e mutevole, laddove il Fascismo è quella  tale coscienza nazionale di cui più su si parla. Cosî stando le cose,  l'onorevole Consiglio direttivo dell’Istituto ha fatto bene ad espellere  i partiti politici dall’Enciclopedia, ma benissimo avrebbe fatto ad  accogliervi il Fascismo. È stato accolto il Fascismo, in un’opera che  vuole essere il monumento culturale dell’età nostra e. alla quale  attingeranno per i loro bisogni spirituali molte e molte genera-  zioni di italiani e di stranieri?;  vi erano ugualmente rappresentati, continuava Interlandi,  fascismo e antifascismo, impersonato quest’ultimo da almeno 90 firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti,  come Einaudi, o Caramella in procinto di  essere allontanato dalla scuola « per le sue prodezze al  congresso dei filosofi: era necessario fare a meno di  simili collaboratori, per evitare un’enciclopedia imparziale in cui avrà posto l’esaltazione delle categorie  democratiche e di quelle fasciste! Belluzzo, Boselli, Ciccotti, Giuliano, Giuriati, Loria, Mosca, Salandra, Stringher, ecc.   Considerazioni sopra un elenco di enciclopedici, in «Il Tevere »,   (editoriale). L’articolo di Interlandi, parzialmente ripreso da La  Tribuna — che da poco si era fusa con « L’Idea Nazionale » ed era passata sotto la direzione del nazionalista  Forges Davanzati '* —, dette modo a Gentile di precisare  le sue idee sul rapporto cultura-fascismo: in una lettera  aperta inviata al direttore de « La Tribuna »  affermò che, su questo problema, il Pnf aveva « ormai  direttive precise, come dimostrava l’approvazione, da  parte del duce e de «L’Idea Nazionale, del discorso  gentiliano tenuto per l’inaugurazione  dell’Istituto nazionale fascista di cultura. Il fascismo, obiet-  tava a Interlandi, non è venuto a distruggere, ma a edificare. Intende bensî ani-  mare tutta la vita nazionale di un’ardente passione politica, che  è passione morale e religiosa di creazione di superiori valori; ma  non tollera, non può tollerare che questa passione abbia a disperdersi  e inaridire in vuote formule superstiziose, e in gare ein cacce di  persone od esibizioni di tessere tante volte, ahimé, turpemente abu-  sate e sfruttate! Quasi che l’Italia fascista da noi vagheggiata potesse  essere quella che si avrebbe il giorno in cui i famosi quaranta milioni  d’ogni sesso od età fossero iscritti tutti nel Partito.  Gli uomini da adoperare », quindi, dovevano essere  « quelli che per attitudini e preparazione potranno più  utilmente aiutarci nella realizzazione della nostra idea.  Cosî ha fatto sempre MUSSOLINI con la sua sicura  volontà realizzatrice. E chi fa della politica dove c’è da  risolvere un problema tecnico, non fa politica, ma spropositi;    io — continuava Gentile facendosi forte della sua posizione politica  — mi riterrei indegno della tessera che il Partito Fascista mi offri  [Polemizzando con Forges Davanzati critico del culturalismo (cfr. il suo Fascismo e cultura, Firenze, Bemporad), Vita nova —  la rivista di Arpinati molto vicina a Gentile — affermava le carenze del  nazionalismo in campo culturale, mentre « per fare della cultura bisogna  sul serio mettersi al lavoro, e quindi in vece di parlare di essa da un  punto di vista strettamente politico, cosa più saggia sarebbe indicare i  mezzi valevoli per promuovere efficacemente un vero rinnovamento cul-  turale », perché la cultura « deve essere la più grande forza del nostro  regime » (Rusticus [SAITTA], Politica e cultura, in « Vita nova »). quando ravvisò in me uno dei precursori e un  fascista che faceva sempre sul serio, se scoprissi in me una mentalità  cosi gretta da non distinguere la politica dalla tecnica in un’opera che  riuscirà un grande esame sostenuto dal pensiero e dal carattere degl’  Italiani innanzi a tutte le nazioni civili, la maggior parte delle quali  ci precedette in questo arringo: se per gusto inopportuno di chiudermi nella rocca forte dei miei camerati, trascurassi di adoperare tutti  gli elementi e tutte le forze che l’Italia può fornirmi alla costruzione  di questo gran monumento nazionale Questo, per me, è fasci-  smo. È quel fascismo che può affermare con giusto orgoglio: ic  non sono partito, ma sono l’Italia, È il fascismo che può e deve  chiamare a raccolta per ogni impresa nazionale tutti gl’Italiani:  anche quelli dell’anzizzazifesto. I quali, se risponderanno all’appello,  non verranno (stia pur tranquillo Interlandi) per fare dell’antifascismo: verranno, almeno nell’Enciclopedia, a portare il contributo  della loro competenza: a far della matematica o della chimica o  della fisica, e insomma della scienza [La distinzione gentiliana di scienza e politica non con-  vinse Croce !*, né, per ragioni opposte, Interlandi, il quale  replicando a Gentile affermò che «in nome della com-  petenza [...] oggi si affida a molti, a troppi competenti  antifascisti, la compilazione d’un’opera che a parer nostro  non dovrà essere solamente un monumento di tecnica, ma   L’Enciclopedia italiana e il fascismo, ora in Fascismo e cultura. Croce scrive a Casati. Hai visto come Gentile  tratta i filosofi collaboratori non fascisti? Hai visto che li considera apportatori di  pietre al monumento culturale del fascismo? Io previdi chiaramente  quello che sarebbe avvenuto, quando rifiutai l’adesione, che tu mi chiedevi, all’Enciclopedia. Epistolario. E in  una recensione critica di un articolo di Ruiz su L'individuo e  lo Stato, osservò come, anche chi, in questi tempi, è andato incautamente predicando che scienza e politica sono tutt'uno e che la cultura  dev'essere asservita a un partito o a una frazione, debba in fretta e furia,  per salvare le proprie intraprese, tentar di ristabilire la differenza, come  si è visto nei giorni scorsi, nelle discussioni levatesi a proposito di una  certa enciclopedia. La Critica. In risposta  a Croce, « Vita nova » difese tutta la concezione di Gentile sui rapporti  scienza-politica, concludendo con l’identificazione gentiliana e fascista del  partito con lo stato. Si dice che l’intento dell’enciclopedia italiana è politico perché  la filosofia, lî, vuol riuscire a un monumento nazionale, e il nazionalismo  del Gentile è il fascismo? Ebbene Croce, lui, ch’è cosî fino nelle distinzioni quando gli fanno buon giuoco, sa benissimo che questo fascismo  non è più un partito o una fazione. Egli sa benissimo, dunque, che è del  tutto erroneo affermare che il Gentile sia andato predicando che la filosofia debba essere asservita al fascismo inteso in quel senso » (Urbanus,  Piccolezze di un grand’uomo, in « Vita nova ». un monumento del nostro tempo che, se non erriamo, è  tempo fascista  Se l’“Enciclopedia” i fascisti non la  sanno fare, perché non sono “competenti”, ebbene, non  la facciano; ne faremo a meno. Non perirà per questo  né il Fascismo, né l’Italia Affermazione decisamente  contestata da La fiera letteraria che — pur assicurando sulla scarsa libertà di movimento dei 90 firmatari dell’antimanifesto, sottoposti come tutti i collaboratori al controllo dei direttori di sezione, e quindi dei « loro  capi gerarchici » Treccani e Gentile, che « rispondono del  loro operato dinanzi alla Nazione e al mondo » — difese  la posizione gentiliana e la necessità di una vasta politica  culturale da parte del fascismo:    nessun Governo come l’attuale ha fatto dei problemi della cultura  nazionale oggetto di tanti progetti e di cosî evidenti preoccupazioni.  Una cosa è dunque polemizzare e altra cosa è agire. Cosi una cosa  è criticare l’operato degli Enciclopedisti, e altra cosa è fare una  Enciclopedia. Da questa specie di dilemma non si esce se non  dichiarando, come qualcuno ha fatto, che qualora l’Enciclopediu  Italiana non possa farsi senza il concorso dei novanta reprobi, è  meglio che non si faccia. Ma non può sussistere una politica intel-  lettuale o culturale di un grande partito fondata sopra simili para-  dossi 1%,    La polemica tra Interlandi e Gentile, tra il fascismo  « rivoluzionario » e quello « tradizionalista, si concluse  a favore di quest’ultimo. La lettera — provocata proba-  bilmente dal primo articolo de Il Tevere — inviata il  7 maggio dal segretario particolare del duce, Chiavolini,  al segretario del Pnf Turati, con « un elenco dei collabo-    [} senso del Fascismo e l’Enciclopedia, in « Il Tevere » Gli attacchi contro l'Enciclopedia. Politica e Cultura, in « La fiera  letteraria », Gli attacchi dovettero continuare,  se Codignola avvertiva Gentile che i suoi  avversari, ostili alla sua permanenza nel Consiglio superiore della Pub-  blica istruzione, « potrebbero forse chiedere e ottenere anche il tuo  ‘allontanamento dall’Istituto di Cultura e dall’Enciclopedia. Tutto questo  sarebbe molto grave per te e per le nostre idealità comuni, ma sarebbe  ‘ancora più grave per le ripercussioni che avrebbe nel paese, già troppo  po Vem e perplesso in questo momento » (Archivio Codignola,   Firenze).  L’Enciclopedia italiana    ratori dell’Enciclopedia Treccani già firmatari del noto  manifesto degli intellettuali aventiniani », non ebbe grande  effetto, anche se ad essa — e non a un ripensamento dei  collaboratori previsti — fosse da attribuire l’abbandono  dell’Enciclopedia da parte di 23 (fra cui Einaudi e Ruffini) degli 85 intellettuali nominati '”. I principali filosofi collaboratori non fascisti annunciati — cui altri se ne ag-  giunsero —, firmatari o meno del contromanifesto crociano,  parteciperanno all’opera, e tre firmatari, Carrara, De Sanctis e Levi della Vida, vi rimarranno anche dopo il rifiuto  del giuramento fascista richiesto nel ’31 ai professori uni-  versitari !*,   Le polemiche del fascismo estremista contro l’Enci-  clopedia cessarono nel 1926, quando proteste come quelle  del contromanifesto o del CONGRESSO NAZIONALE DI FILOSOFIA non ebbero più possibilità di sbocchi politici; « non  c'è più un’opposizione antifascista; e tutti son pronti a  servire il Regime, che è lo Stato », affermerà Gentile invitando gli iscritti al Pnf ad « accettare la collabo-  razione degli italiani capaci ed onesti, anche non fascisti »:  Anche l’Italia intellettuale ha fatto molto  cammino, e l’antifascismo va buttato, finalmente, in soffit-  ta » ! Tuttavia, se l’opposizione politica era schiacciata, la  stessa opera gentiliana di conciliazione sta diventando meno necessaria con l’inizio della costruzione dello Stato totalitario. Ma l’Enciclopedia era ormai  avviata, e poté continuare con la collaborazione di quanti  — seppure in alcuni casi critici verso il suo direttore o  verso il regime — avevano aderito all’impostazione « na-  zionale » che Gentile aveva dato all'opera nel ’25!.   ACS, Segreteria particolare del Duce, CARTEGGIO RISERVATO. Per i rapporti di De Sanctis e Levi Della Vida con Gentile e  YE.I. cfr. G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, Firenze, Le Monnier, e G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, Neri Pozza. Gentile, Fascismo e Università, in « Educazione fascista », Volpe nega l’esistenza di contrasti politici fra i collaboratori, che  erano «di ogni colore politico» (Giovanni Gentile, cit., p. 359); cosî  Pintor (che fu direttore della sezione « Biblioteche »), per il  quale Gentile « raccolse intorno a sé e indirizzò ad un concorde e disci-  Discussioni o contrasti si trasferirono per il momento  all’interno dell’Enciclopedia, nell’ambito delle scelte culturali: il punto di maggior frizione — su cui ci soffermiamo  perché essenziale alla comprensione dei condizionamenti  esterni dell’opera — fu il settore religioso, dove Gentile  dove fronteggiare la pressione del mondo  cattolico, che per acquistare un ruolo egemonico nella  cultura italiana fu pronto a sfruttare la politica di riavvicinamento alla Chiesa promossa da Mussolini. Le dichiarazioni di imparzialità di Treccani e Gentile  avevano trovato subito un esplicito correttivo nell’accettazione del controllo ecclesiastico. Nella prima riunione  del consiglio direttivo dell’Istituto, Treccani — dopo aver ricordato le incomprensioni e le critiche  con cui l’iniziativa era stata accolta — aveva precisato:  L’Enciclopedia nostra deve corrispondere ai sentimenti tradizionali degli Italiani e perciò, deve essere non solo patriottica, ma  anche bene accetta alla Chiesa. Per raggiungere questo scopo, un accordo è già intervenuto; Venturi dirige la sezione per le materie ecclesiastiche e sotto  la sua guida collaboreranno altri ecclesiastici, tra i quali Gramatica e Rosa !4%.  plinato lavoro migliaia di studiosi italiani e stranieri, di ogni credenza e  di ogni scuola: accolti con uguale fiducia i dissenzienti dalla sua filosofia,  gli avversari delle sue idee politiche » Gentile negli studi storici  e letterari, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Firenze, Sansoni. Più sfumata la testimonianza di Momigliano: se Giglioli, Fedele, Volpe e Gentile « non chiedevano, e  nemmeno desideravano, che si diventasse fascisti per lo stesso fatto  di entrare nelle Università, nelle Scuole storiche e nella Enciclopedia,  ci si inseriva in organismi fascisti, dove l'imbarazzo era costante e la  cautela diventava abito. Il motto che Croce ci dava il pane spirituale e  Gentile ci dava il pane materiale ricorse allora più di una volta in conversazione. Una solidarietà implicita si stabiliva tra coloro che erano di  sentimenti antifascisti alla Università o alla Enciclopedia » (Appunti su  F. Chabod storico, in «Rivista storica italiana. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento. Le Avvertenze ai collaboratori assegnavano agli argo- [La presenza stessa di ecclesiastici de « La Civiltà cattolica, in posizione privilegiata e non in nome del tanto  invocato criterio della competenza, indica — prima ancora  di poter esprimere un giudizio sulla sua efficacia — una  forte incrinatura nell’impostazione gentiliana dell’opera.  L’accordo di Treccani corrispondeva al processo di avvici-  namento in atto fra Stato e Chiesa — il gesuita Tacchi  Venturi fu in quel periodo trait-d’urzion fra Mussolini e  il Vaticano !' —, ma contrastava con la concezione agonistica  dei rapporti fra i due poteri propria di Gentile,  fedele alla formula cavouriana e contrario alla conciliazione  di diritto . L’ingerenza della Chiesa, che proprio scagliò la sua offensiva in campo culturale contro  l’idealismo come principale obiettivo da colpire, fu con-  trastata ma, soprattutto dopo il ’29, sempre più subîta da  Gentile. L'impostazione iniziale data all’Enciclopedia, per  cui avrebbe dovuto registrare tutti gli indirizzi culturali e  affidarsi ai competenti di ogni materia, fu — unita all’accordo di Treccani — un’arma a doppio taglio di fronte alla  organizzazione vasta e articolata della cultura cattolica  che sotto la protezione politica » dei gesuiti poteva ora  utilizzare la capacità di penetrazione della neoscolastica,  istituzionalmente rafforzata col riconoscimento  statale della Cattolica di Gemelli. Ma è anche    menti religiosi il primo posto nel punto III: « Delle materie religiose  e filosofiche, morali e politiche gli scrittori dell’Enciclopedia avran cura  di parlare con rispetto assoluto dell’altrui pensiero e coscienza, in modo  da consentire che all’Enciclopedia insieme collaborino uomini di ogni  fede e di ogni dottrina che abbia un suo valore. A tutti i collaboratori  dev’esser possibile incontrarsi sopra un medesimo terreno, dove ognuno,  pur mantenendo, com'è necessario, i propri convincimenti, usi tuttavia un  linguaggio che gli altri possano ascoltare. Tutti i collaboratori sentiranno  che soltanto cosî l’Enciclopedia Italiana potrà riuscire, com'è suo propo-  sito, un lavoro a cui partecipano tutte le forze vive della scienza e  dell’ingegno italiano. Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra  alla Conciliazione, Bari, Laterza, e Scaduto]., Venturi. La Civiltà Cattolica. Felice, Mussolini il fascista, II. L'organizzazione dello  Stato fascista, Torino, Einaudi, Vasoli, I neoscolastici e la cultura italiana, ora in Tra cultura e ideologia, Milano, Lerici, e Rossi, La filosofia  vero che, nonostante le polemiche molto accese proprio con  i neoscolastici, il « laicismo » gentiliano conteneva molte  falle: l’importanza crescente assunta nella filosofia di Gentile da una religione ambiguamente intesa, dai Discorsi su fino alla voce enciclopedica e alla conferenza su La mia religione; la coscienza, matu-  rata dopo la guerra, del « problema politico » della religione  necessaria al rinnovamento della cultura da parte di uno  Stato non più agnostico che, « senza combattere in nessun  modo nessuna particolare forma religiosa, riconosca ed  affermi il valore della religione com’essa vive attraverso  tutte le forme » !9; il generico spirito religioso attribuito ai profeti del Risorgimento (non solo Mazzini e  Gioberti), sottolineando però — come per Capponi —  l'impossibilità di astrarre una indeterminata e vaga reli-  giosità mistica dal complesso concreto della vita storica italiana, intimamente cattolica  !f: tutto ciò favoriva la  trattazione di temi religiosi — in un’opera rivolta a valorizzare la civiltà romana e italiana, e costituiva almeno la  premessa per uno scontro duro e incerto nei risultati, fra  l’attualismo che si considerava « vera religione », e le forze  cattoliche chiamate a dare il loro contributo. Ma l’accordo  citato da Treccani era destinato a far pendere la bilancia  a favore di queste ultime, per cui è probabile che l’Enciclopedia abbia assolto, nel campo dell’alta cultura, la stessa  funzione favoreggiatrice del pensiero confessionale svolta  dalla riforma scolastica nel settore dell’educazione elementare (e poi media)”.    neoscolastica e i suoi orientamenti storiografici, ora in Storia e filosofia.  Saggi sulla storiografia filosofica, Torino, Einaudi, Discorsi di religione, ora in La religione, Firenze, Sansoni, Si pensi agli interventi di Gentile a difesa della riforma scolastica  (Scritti pedagogici, La riforma della scuola in Italia, cit.), nei quali  prevale, sull’idea del confronto fra pensiero laico e cattolico, il concetto  dello Stato non agnostico ma educatore, per concludere che «in Italia,  se lo Stato è coscienza attiva nazionale, coscienza dell’avvenire in funzione del passato, coscienza storica, esso è coscienza religiosa cattolica »  Sul laicismo e la concezione gentiliana come elemento essenziale della tradizione nazionale italiana, cfr. L'Enciclopedia italiana    Gentile cercò di contrastare l’offensiva cattolica, come  dimostrano l’organizzazione iniziale delle sezioni di argo-  mento religioso e i loro successivi cambiamenti. La sezione  materie ecclesiastiche affidata a Tacchi Venturi, di cui  aveva parlato Treccani, non compare nel  Primo elenco di collaboratori dell'inizio quando  le trattative col Vaticano segnavano il passo; appaiono  invece quella di « Filosofia, Educazione e Religione » sotto  la direzione di Gentile, conforme alla concezione per cui  « la religione solo idealmente è distinta da LA FILOSOFIA,  laddove in realtà ogni religione è sempre una filosofia, e ogni  filosofia, se degna del suo nome, è una religione » !, la  sezione « Geografia sacra » sotto la guida di Gramatica, e quella di « Storia delle Religioni » con Pettazzoni, che fra i primi aveva introdotto stabil-  mente in Italia la corrispondente disciplina, cui Gentile  riconosceva, sia pur con alcune cautele, validità scientifica. Nel primo volume dell’Enciclopedia invece, uscito subito dopo i Patti Lateranensi, la generica  sezione Materie ecclesiastiche diretta da Venturi (probabilmente non limitata all’agiografia sacra o alla  liturgia) si affianca a quelle già citate di Gramatica e Pettazzoni, alla sezione diretta da Gentile che assunse il titolo  « Storia della Filosofia e Storia del Cristianesimo » dove,  accanto alla significativa scomparsa della « Pedagogia » e  della « Religione » (non sappiamo se come la prima assort-  bita dalla « Filosofia » o dalle « Materie ecclesiastiche »), si  registra il tentativo gentiliano di controllare — tramite  Omodeo, come vedremo — la « Storia del Cristianesimo ».    «Filosofia e pedagogia » e  « Storia del cristianesimo » risultano distinte, entrambe  sempre dirette da Gentile; ma poco dopo, nei primi mesi  del 1931 (vol. XI), « Storia del cristianesimo » è scom-    le osservazioni di A. Lo Schiavo, La religione nel pensiero di Giovanni  Gentile, in « La Cultura. Il carattere religioso dell’idealismo italiano, ora in La religione,  la recensione alla Storia delle  religioni di G. Foot Moore. parsa: assieme al ritiro di Omodeo, ciò può essere inter-  pretato come un indebolimento della posizione gentiliana  in questo settore, e un rafforzamento delle « Materie eccle-  siastiche » di Tacchi Venturi. L'offensiva ecclesiastica è evidente anche nel campo dei  collaboratori: mentre nel Prizzo elenco gli ecclesiastici sono 34 (pari al 2,4% del totale dei collaboratori), di cui  solo 5 gesuiti (di fronte a 13 francescani), nell’Enciclopedia sono già nella percentuale in cui parteciperanno a  tutta l’opera — oltre il 4%, di cui il 27% è formato  di gesuiti che costituiscono il gruppo più numeroso; ap-  paiono fin da ora i più eminenti: oltre a Venturi,  Bricarelli, Rosa e Vaccari — e, se  si eccettuano Omodeo e Pincherle (storia del cristianesimo),  egemonizzano gli argomenti religiosi (agiografia e storia  della chiesa in particolare); accanto agli ecclesiastici, nel  I volume appaiono anche professori di Istituti cattolici  romani e della Cattolica — questi ultimi in numero di 6 —  che, osservava La Civiltà cattolica, per sincerità di fede affidano chi consulti quest’o-  pera » 1°,   L'assalto cattolico all’Enciclopedia era cominciato meno  di un mese dopo la costituzione dell’Istituto Treccani e  prima ancora che fosse annunciato l’accordo intervenuto  con le autorità ecclesiastiche: Gemelli — fondatore della Cattolica e paladino della  neoscolastica, e uno dei maggiori critici dell’attualismo —  aveva offerto il contributo suo (gratuito) e dei suoi « amici »  — proponedo per sé temi di psicologia !, di cui si occu-  perà nell’Exciclopedia assieme all’altro argomento in cui era  « competente », la Neoscolastica,' voce tutta impostata in  senso anti-idealistico —, confutando coi fatti il giudizio  negativo espresso politicamente su di lui e su tutta la cul-  tura cattolica dal gentiliano Giuseppe SAITTA!”.    Busnelli], L’« Enciclopedia Italiana », in «La Civiltà cattolica. AEI, Lettere, Gemelli.   152 Rusticus [Saitta], L’Enciclopedia cattolica, in «Vita  nova ». L’infaticabile Gemelli ha lanciato Gentile accetta la collaborazione di Gemelli e del  gruppo neoscolastico, seguendo il criterio per cui l’opera  doveva essere specchio fedele di tutte le correnti intellet-  tuali del paese. A questo criterio si ispirò anche Omodeo, cui Gentile affidò fin dall’inizio l’organizzazione  del settore religioso da lui diretto. Lo storico del cristianesimo, le cui lettere e la cui nota vicenda personale sono  guida illuminante per seguire il peso crescente assunto all’  interno dell’Enciclopedia da Venturi e dagli ecclesia  stici (soprattutto gesuiti), preparò elenchi di voci sull’esempio della Britannica — cercando di impedire, con una  trattazione storica degli argomenti, gli interventi dogmatici  dei collaboratori cattolici —, e assicurò il contributo  di esponenti dei diversi indirizzi religiosi: gli allievi di  Buoniaiuti con in testa Pincherle !, e il gruppo   l’idea di contrapporre alla enciclopedia “Treccani” diretta dal Gentile una  enciclopedia cattolica. L’idea è buona, anzi ottima, e noi l’approviamo,  perché cosi l’illustre frate che ha il merito di aver fondato un Istituto  Universitario del Sacro Cuore, di cui ancora ignoriamo i risultati, dimostrerà per l'ennesima volta che il pensiero cattolico nulla ha da dire di  veramente nuovo nel dominio scientifico. Si fa presto a trovare i milioni,  ma ciò che è difficile, difficile assai, è trovare le teste, e di teste colte,  sapienti, con tutta la buona volontà, non ne scopriamo molte nel campo  cattolico ». Scrive a Gentile: « Non sono riuscito a  intendere bene il criterio secondo cui è stabilito lo sviluppo da dare alle  singole voci. Noto che anche gli argomenti cattolici sono contenuti entro  limiti molto pi ristretti che nell’Enciclopedia Britannica. Ciò  non può dipendere dal fatto che sono aumentate le voci. Le voci aggiunte  non mi pare che superino i nomi di teologi e pastori protestanti da me  depennati l’anno scorso dagli elenchi dell’Enciclopedia Britannica. Può darsi che questo sia  un criterio già fissato (di restringere gli argomenti di storia cristiana ed  ecclesiastica). Badi però che c’è un pericolo, specialmente con la collabo-  razione dei cattolici: di rendere questa parte dell’Enciclopedia completamente insignificante come i trattati e i manuali correnti nei seminari, che  nessuno consulta. Massima obbiettività e pura esposizione dei problemi:  sta bene. Ma quella gente non si contenta di questo. Vuole che i problemi  siano ignorati, il che significa tradire lo scopo principale dell’Enciclopedia.  È di ieri la condanna d’un manuale ortodossissimo di storia ecclesiastica  corrente nei seminari, pel solo fatto che onestamente informava dei punti  + Ag dei non ortodossi (Gentile-Omodeo, Carteggio).  A Gentile: Ognuno del loro gruppo sceglierà le  voci che meglio rispondono alla loro preparazione e le tratterà. Ciò non  vincola menomamente l’atteggiamento che noi o essi crederemo o crede  ranno di prendere in altre opere, negli apprezzamenti reciproci. L’Enci-  di « Bilychnis per la storia del protestantesimo. Ma le sue lettere a Gentile rivelano le pressioni  e poi il deciso intervento censorio degli ecclesiastici, che  forti degli accordi, costringeranno Omodeo ad abbandonare il lavoro all’Enciclo-  pedia, dove sarà sostituito da Pincherle '*,   Da questo momento i gesuiti predomineranno nel set-  tore, e « La Civiltà cattolica », stendendo un bilancio dei  primi tre volumi dell’opera, poteva profondersi in lodi, pur  lamentando che parecchie voci fossero state affidate «a  laici non solo, ma di sensi non cattolici, quali il Pincherle e  l’Omodeo. Una particolare menzione merita il saggio consiglio preso  dall’Istituto Treccani di affidare in avvenire la direzione della Sezione  Materie ecclesiastiche e la compilazione degli articoli nei quali più  facilmente possono trascorrere abbagli ed errori, ad ecclesiastici  dell’uno e dell’altro clero, italiani e stranieri, uomini tutti di sicura  dottrina nel campo della sacra letteratura.   C'è dunque ragione di stare a buona speranza che per quel che  riguarda direttamente la Chiesa, il dogma, la storia ecclesiastica, la  liturgia e le altre parti della dottrina e della scienza cattolica, non  s'incontreranno quei difetti, talora gravissimi, che scemano il valore  e la stima di altre enciclopedie, compilate con troppa assoluta indi-  pendenza, ignoranza o anche disprezzo del pensiero cristiano e  cattolico. Oltracciò convien notare come i Direttori dell’Enciclopedia,  Gentile e Tumminelli, insieme col Consiglio direttivo  dell’Istituto Treccani, mentre lasciano agli scrittori la piena libertà  d’esprimere il concetto cristiano e cattolico e il giudizio dei fatti  secondo il criterio della soda indagine ecclesiastica, promettono di  invigilare che anche in altri articoli indirettamente attinentisi alla  religione cattolica e alle materie ecclesiastiche non vengano soste-  nute o insinuate sentenze o critiche contrarie o malfondate !9?.  Il giudizio dell’autorevole rivista suonava monito per il  futuro, non solo per le voci di argomento religioso. L’enciclopedia rifletterà obiettivamente la situazione presente della cultura italiana. A Gentile.  Cfr. ibidem, ed Omodeo, Lettere, Torino, Einaudi,  in particolare la lettera a Gentile [G. Busnelli], L’Enciclopedia italiana    cacia del controllo ecclesiastico, su cui esistono testimo-  nianze di contemporanei e che sarà verificata più avanti,  poggiava ormai sulla nuova situazione politica e culturale  creata dalla Conciliazione.   Con il contrasto fra cattolici e idealisti si trasformò in aperta frattura, registrata immediata-  mente dal CONGRESSO DI FILOSOFIA che vide lo scontro  fra Gentile e Gemelli. Il pericolo dell’ingerenza cattolica  fu avvertito subito da Gentile, che cercò di reagire attac-  cando il dogmatismo neotomistico '? e sottolineando il carattere religioso dell’attualismo, La funzione da  lui svolta era tuttavia destinata a indebolirsi  con la nuova alleanza stabilita dal regime, e l’Enciclopedia  diverrà luogo di uno scontro sempre più duro con i cattolici apertamente incoraggiati dalla messa all’indice  delle opere di Croce e Gentile. Il quadro storico generale in cui nacque e fu realizzata  l’idea dell’Enciclopedia — fin qui tracciato — ha contribuito a spiegare le sue origini nel clima di riscossa nazionale  del dopoguerra, e la funzione di assorbimento di intellettuali di diversa formazione da essa svolta, e  in vista della creazione dello Stato totalitario; cercheremo  ora, attraverso la lettura interna dell’opera, di chiarire  le scelte culturali operate, che non possono essere dedotte  Minimizzato da Volpe, il controllo ecclesiastico è invece ritenuto esteso a tutti gli argomenti da Calogero,  Mussolini, la Conciliazione e il congresso filosofico in « La Cul-  tura », e testimoniato da Vida,  Cfr. ad es. le dichiarazioni di Gentile riportate in « Educazione  fascista » Alla lettera con cui Salvadori rifiutò  l’invito gentiliano di collaborare all’E.I., «opera dove la filosofia domi-  nante nega Dio vivo e vero per adorare la divinità dell'uomo » (pubblicata  postuma da A. Frateili, Vita e poesia di Salvadori, in « Pègaso »; ora in Lettere di Salvadori scelte e ordinate da  Trompeo e Vian, Firenze, Le Monnier),  Gentile rispose qualificando « giudizi temerari: 1) che nella detta Enciclcpedia domini una filosofia (che non è vero); 2) che la mia filosofia neghi  il divino vivo e vero (che è falso); 3) che adori il divino dell’uomo (che è  un equivoco molto grosso) (“Giornale critico della filosofia italiana”).  meccanicamente dal rapporto col clima politico in cui ven-  nero attuate, anche se di questo dovremo tenere conto.  Centro di raccolta dei maggiori studiosi italiani, rappre-  sentanti non solo — quando li uni la politica  di « conciliazione » di Gentile — differenti indirizzi di  pensiero !, l’Enciclopedia fu considerata allora come uno  strumento capace di promuovere studi e ricerche in campi  fin allora inesplorati dalla scienza italiana. Nell’impossibilità di controllare questa affermazione, ci limiteremo a  verificare il giudizio di quanti vi hanno visto l’espressione  di una cultura accademica impermeabile al fascismo, « positiva », costituita di fatti e di informazioni, contro la  quale polemizzeranno, in un ambiente sempre più chiuso    alle moderne esperienze contemporanee, i nuovi mistici della fede cattolica o della « dottrina fascista ». Sarebbe tuttavia da verificare l’accenno di Volpe alla diminuzione del numero dei collaboratori per volume, che potrebbe  indicare una maggiore progressiva uniformità di voci. Cfr. ad es. Pincherle, per il quale l’E.I. riproduce in sostanza lo  stato odierno della cultura italiana, con i suoi pregi e anche, è naturale,  con le sue deficienze: a riparare alle quali la preparazione di un'Enciclopedia è appunto stimolo efficace più di tanti discorsi,  e Gentile: è già interessante vedere come quest’alta cultura italiana  abbia avuto dall’Enciclopedia uno sprone e uno stimolo a misurarsi in  campi finora trascurati. L’Enciclopedia ha fatto sî che, p. es., ci  siano ora degli storici italiani (e questo è un fatto nuovo) che si occupano  di proposito di storia delle altre nazioni, dall'Europa all’Estremo Oriente.  Non uno o due specialisti, ma parecchi, e, quel che più importa, giovani »  (L’Enciclopedia Italiana, in « Rassegna italiana politica e letteraria ». Tanto che Volpe potrà dire che l’E.I. «fu, per dieci  anni, un gran porto di mare; fu la vera Universitas studiorum non di  Roma o d'altra città ma di tutta Italia e, un poco, di tutta Europa. E un  uomo di nome europeo, e pit che europeo, Gentile, ne era il Rector  Magnificus, sempre presente, anche se non ingombrantemente presente. Di voci «partigiane ma dignitose » ha parlato G. Devoto (Ur  ricordo, in Il Corriere della sera). Significativi il giudizio di Speranza [Luca, uno dei principali  collaboratori ecclesiastici dell’enciclopedia], Temzpo d'Enciclopedia?, in Il Frontespizio, Chi domanda all’Enciclopedia il corso  dei propri giorni e la regola della vita terrestre ed eterna? L’Enciclopedia è ormai cosa da positivisti »), e il modo in cui venne annunciato  dalla stessa « Critica fascista » il Dizionario  di politica del Pnf che sarà pubblicato : prezioso repertorio  dottrinale, a base del quale non sarà tanto l'informazione quanto la valu-  tazione di idee e fatti “dal punto di vista fascista”: opera, cioè, come ben    A molti dei filosofi che hanno valutato complessivamente i contenuti dell’Enciclopedia, emblematica delle  vicende culturali del periodo fascista, è parso che in essa  permanessero i valori di una cultura impermeabile al fascismo, sia per la presenza di eminenti personalità antifasciste, come SOLARI e MONDOLFO, sia per l’ampiezza di settori  ritenuti difficilmente influenzabili dall’ideologia del fascismo, e dal carattere puramente espositivo, come quelli geografico e artistico. È il caso di BOBBIO, per il quale l’opera è  indiscutibilmente la più grande rassegna che sia mai stata  tentata sino ad oggi della cultura accademica del nostro paese, e non è, se non in qualche frangia marginale, che appare una stonatura, un’opera fascista, in quanto tutto ciò.  che vi fu di fascistico, anzi disquisitamente fascistico, nei  trentasei volumi, fu concentrato nella voce Fascismo:  un’interpretazione che, mentre coglie nell’impresa la presenza di tutto o quasi tutto lo stato maggiore della cultura. accademica post-fascista, tende a negare qualsiasi influenza  dell’ideologia del fascismo sulla cultura, secondo la nota  tesi crociana. Né si discosta molto dalla sostanza di questa interpreta-  zione, pur con giudizio di valore rovesciato, Rosa, che,  attento a sottolineare la continuità del carattere di classe  della cultura borghese prima e durante il fascismo, si limita — con Momigliano — a rimproverare agli intellettuali  che parteciparono all’impresa che,  collaborando, si colla-  borava inequivocabilmente ad un’opera del regime », osser-  vando tuttavia che in questo caso « la fascistizzazione della  cultura non comportò neanche un’“appropriazione” ideo-  logica, come quella verificatasi nel campo della scuola, ma  soltanto la gestione istituzionale di ampi settori d’intellet-    sanno i collaboratori che vi attendono fervidamente, “di impostazione e  di finalità politiche, e non di una pura e semplice enciclopedia cultu»  rale” » (Mattei, Cultura fascista e cultura dei fascisti. Bobbio, La cultura e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e società  italiana, a cura di Quazza, Torino, Einaudi,  tuali di tendenze e opinioni diverse. Solo Badaloni,  cogliendo la novità rappresentata dal fascismo anche in campo culturale, ha avanzato l’ipotesi di un legame fra l’ideologia del regime reazionario di massa e la cultura di cui  l’opera fu espressione, pur affermando che l’Enciclopedia  « si caratterizza certamente per l’aspetto della continuità rispetto alla tradizione precedente, assicurata dal ruolo  svolto da Gentile, Un esame ravvicinato dell’opera permette in realtà di  individuare, accanto ai forti condizionamenti politici del  regime — divenuti espliciti con il riconoscimento  ufficiale dell’iniziativa di Treccani — e alla elaborazione di  una cultura propria del fascismo '”, l'impossibilità dei non  molti intellettuali non allineati al regime di mantenersi  autonomi all’interno di una istituzione fascista; e, infine,  il carattere non univocamente gentiliano dell’opera, non  tanto perché, come ha affermato Momigliano, Gentile si  limitava in alcuni casi a dare ai collaboratori il pane mate-  riale mentre Croce forniva quello spirituale, quanto perché,  più in generale, l'impresa enciclopedica si pose come coro-  namento di quel processo di selezione di una cultura di  destra — su cui ha insistito Amendola — che si era  venuta rafforzando a partire dall’età giolittiana, e, se vi fu  un elemento non completamente omogeneo a questa cul-  tura, esso non fu rappresentato dal liberalismo di Croce,  bensî dalla componente cattolica che, Rosa, La cultura, in Storia d'Italia, Dall'Unità a oggi,  Torino, Einaudi, Badaloni-C. Muscetta, LABRIOLA, Croce, Gentile, Bari, Laterza,  Sulla cultura del fascismo. cfr. l’introduzione di Garin a Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, e la recensione di Amendola al volume di Garin (ora in Fascismzo e movimento  operaio, Roma, Editori Riuniti). Amendola, che ha tuttavia negato l’esistenza  di una cultura fascista. Non c’è stata una cultura fascista. C'è stata una  adesione politica degli intellettuali al fascismo, una accettazione del regime  sulla base di posizioni culturali molto diverse. Al fascismo aderiscono positivisti e idealisti. Uomini di varie e contrastanti correnti artistiche mantengono, nel quadro politico fornito dal regime, le proprie  posizioni culturali, e il regime lasciava correre (Id., Intervista sull’anti-  fascismo, a cura di Melograni, Bari, Laterza, mirò a sostituirsi all’attualismo e al debole « laicismo » di  Gentile. Definire idealistica l’Enciclopedia, come da più  parti è stato fatto !’, è insufficiente a comprenderne la complessità e, probabilmente, la stessa capacità di durata nella  cultura italiana. Per far ciò è necessario ricordare che l’opera di organizzazione del consenso intrapresa da Gentile e integrata, non senza forti contrasti,  dall'intervento cattolico: la constatazione acquista tutto il  suo valore, ove si pensi che all’impresa furono interessati  3.266 collaboratori — quel piccolo e rissoso e indisciplinato mondo dei filosofi — il più riottoso, individualista, disgregato — ha dato e dà da anni un esempio  di adattamento al lavoro collettivo, ricorderà il  revisore-capo Bosco—, e che, ad avvalorare  (in positivo e in negativo) il giudizio di alcuni studiosi sulla  continuità tra fascismo e postfascismo, l’Enciclopedia ha  attraversato impunemente la caduta del regime per presentarsi ancora oggi, immutata nei contenuti dopo cinquanta  anni dalla sua apparizione, come strumento di lavoro di  studiosi e di studenti. Le Appendici che sono cominciate  a uscire non hanno potuto modificare i contenuti  generali dell’opera che, ristampata fotoliticamente mentre PRESIDENTE dell’Istituto era diventato Sanctis, non ha sentito il bisogno, a differenza  dell’Enciclopedia britannica, di rinnovarsi col mutare della  società, degli orientamenti politici e delle prospettive culturali, attuando cosî, molto al di là delle sorti del regime al  quale è legata la sua nascita, l’auspicio, formulato da Gentile, di veder prolungare la nostra vita in un’opera che continuerà ad essere ricercata e apprezzata dagl’Italiani per cui essa è stata specialmente  pensata e compilata e per gli stranieri che noi ci lusinghiamo di   Essa fu qualificata un «enorme e informe cibreo idealistico-fascista » da Togliatti, Gramsci e don Benedetto, ora in I  corsivi di Roderigo, Bari, De Donato. Di enciclopedia dell’idealismo parlano Piovani, Il pensiero idealistico, in Storia d’Italia,  V.I documenti, 2, Torino, Einaudi, Spirito, Memzorie  di un incosciente, Milano, Rusconi (dove l’opera è consi-  derata « una prosecuzione del fascismo), Bosco, Enciclopedia Italiana,  aver legati all'Italia con nuovi vincoli di simpatia e di stima, mentre  l’Italia per l’azione potente d’un grande Uomo e d’una grande Idea  risorgeva per la terza volta a imperiale potenza e riafferma nel  mondo la sua missione. Il regime non si era limitato a condizionare dall’esterno  l’opera, ma ne aveva facilitato la realizzazione facendo propria l’iniziativa di Treccani. Le difficoltà economiche dell’Istituto originario insorte e aggravatesi con la  grande crisi portarono ad una sua fusione nell’ente  editoriale Treves-Treccani-Tumminelli, e infine all’inter-  vento in prima persona del governo che, riconoscendo l’opera di interesse nazionale, con d.l. costituî, con il finanziamento di banche parastatali, l’Istituto  della Enciclopedia Italiana fondata da Treccani,  sotto la presidenza di Marconi. A queste vicende editoriali si accompagnò un pit stretto  controllo da parte del regime e l’abbandono della « poli-  tica di conciliazione » perseguita da Gentile;  cosî, se ancora Gentile poteva riconoscere, nella  prefazione al primo volume dell’opera, l'opportunità di  un ragionevole eclettismo e di una scrupolosa imparzialità », spentesi le « battaglie che si erano svolte  nella fase preparatoria — e di cui la vicenda di Omodeo è  l'esempio più significativo —, il direttore dell’Enciclopedia  notava che, perduta per via qualche forza anche ingente,  non fatta per questa disciplina indispensabile a un lavoro  di questo genere, e formata ormai la famiglia, quale io la  sento intorno a me, dei direttori e redattori, si tratta piuttosto di scaramucce e di semplici avvisaglie !?. Due anni  dopo, intervistato all’indomani del d.l.,  Gentile marcava la differenza fra la situazione attuale e  quella di otto anni prima, ricordando che nel 1925    WI E.I., Appendice, ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della cultura popolare, Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani. Come e da chi è stata fatta,  ciGentile, Ancora delle tribolazioni di un enciclopedista. Come  d Dee e si cuce îl libro per tutti, in « Il Corriere della sera », la collaborazione alla Enciclopedia venne aperta a quanti avevano  una fama sicura ed una competenza accertata nei vari rami delle  lettere, delle arti e delle scienze. Forse fu un errore. Ma allora,  mentre vivevano ancora i vecchi partiti, si pensava che la nostra  Enciclopedia potesse fare opera di concordia, accogliendo uomini  che, benché non fascisti, avevano accettato il programma dell’Istituto che si inspirava alla coscienza del glorioso passato del popolo  italiano e a quegli alti destini cui esso può e deve aspirare;  seguiremo fedelmente le direttive che il Duce ci ha impartito, concludeva rispondendo a una domanda sui propositi per l’avvenire !*. È naturale che « Il Tevere » non  riprendesse le polemiche, ma si limitasse a notare  come l’opera per l'ampiezza del testo e per la profonda  dottrina della compilazione » avesse assunto « il carattere  di grande Enciclopedia nazionale. Tanto pi che, a con-  validarne l’aderenza al regime agli occhi di quanti vi ave-  vano criticato uno spirito quanto meno afascista, meno di  un anno prima della costituzione del nuovo Istituto sull’Enciclopedia era stata pubblicata la voce Fascismo firmata  da Mussolini, subito presentata come la massima espres-  sione della dottrina del fascismo.   Non mancarono tuttavia, anche in questa fase, feroci  attacchi all'opera da parte de « La Vita italiana » di PREZIOSI e de « Il Secolo fascista » di G.  A. Fanelli ‘”, l’anti-gentiliano ben visto negli ambienti cat-  tolici ‘* e autore del pamphlet “Contra Gentiles” nel quale sosteneva che nell’Exciclopedia «i gentiliani  Origini e finalità della monumentale opera, in «La Stampa» Il nuovo atto costitutivo dell'Istituto dell’Enciclopedia italiana  firmato alla presenza del Duce, in « Il Tevere » All’apparizione dell’enciclopedia il giornale aveva commentato: «quanto ai gesuiti, si  può star tranquilli: giacché a curare, dell’Enciclopedia, la parte di cultura  religiosa è stato propriamente Venturi. Nel cantiere dell’En-  ciclopedia, in « Il Tevere. La Vita italiana » IT? Cfr. Il Secolo fascista ad es. la recensione di Bobbio a Contra Gentiles di Fanelli. Studium.. hanno organizzato con una perfidia senza precedenti, la con-  trorivoluzione, demolendo sistematicamente tutti i valori  esaltati dal fascismo, mistificando e stravolgendo il significato delle sue istituzioni. Ma furono voci minoritarie,  espressione di divergenze ideologiche e culturali, non politiche. Dubbi di natura politica, probabilmente collegati a lotte di potere scatenatesi per  il controllo dell’Istituto, furono avanzate solo in un rapporto anonimo a MUSSOLINI, secondo il  quale fra i collaboratori dell’opera vi erano parecchi anti-fascisti, e veniva lasciata troppo mano libera ai compilatori di cui son note le idee antifasciste. Ma Gentile poté  replicare di essere stato autorizzato esplicitamente da  Mussolini a mantenere le collaborazioni di Sanctis e di Vida, che avevano rifiutato il giuramento imposto ai professori universitari, e di esercitare un ferreo controllo sulla redazione e sull’esecuzione  di tutta l’opera. Nella scelta dei collaboratori esterni  posso assicurare che si tiene il massimo conto delle tendenze  politiche degli scrittori scartando tutti gli antifascisti. Come  posso altresi assicurare che nessun collaboratore, in nessuna  materia, ha mano libera; e tutti gli articoli sono soggetti a  rigorosa revisione, Nelle sue memorie, del resto, Sanctis non si mostra cosciente del significato politico dell’Enciclopedia e quindi della sua partecipazione !, mentre  Levi Della Vida ricorderà di essere stato convinto a collaborare — dopo un primo rifiuto — dalla promessa di non  politicità dell’opera fatta da Gentile, pur riconoscendo che senza dubbio non può non avvertirsi in alquante voci del-  Fanelli, “Contra Gentiles”. Mistificazioni dell’idealismo attuale  nella rivoluzione fascista, Roma, Biblioteca del Secolo fascista, Cfr. anche, per l’accusa mossa all’E.I. di aver « massacrato »  la storia di Roma, Bortone, Mito e storia di Roma durante il fascismo,  in « Palatino » Felice, Mussolini il duce, I, Gli anni del consenso  Torino, Einaudi, Sanctis, Ricordi della mia vita. Scrivendo a Ricciotti, in qualità di presidente dell’Istituto,  Sanctis dirà di voler continuare l’Ernciclopedia «evitando peraltro,  grazie al nuovo clima di libertà, quelle sia pur lievi concessioni che la  prima edizione ha dovuto fare ai tempi » (AEI, Lettere, Ricciotti).  l’Enciclopedia il clima peculiare all’Italia di quel tempo, ma  direi che ciò è fatto con una tal discrezione, colla preoccupazione, si direbbe, di non dar troppo nell’occhio: a ogni  modo confesso che mi sentirei forse più in pace colla mia  coscienza se avessi persistito nel rifiuto. Ciò che emerge con chiarezza dalla vicenda dell’Enciclopedia è lo sforzo del regime, che appare in larga parte riuscito, di organizzare il consenso degli intellettuali. Questa  novità del fascismo era colta con difficoltà dagli antifascisti; più attenti ai problemi della  cultura e degli intellettuali furono gli esponenti di Giustizia  e Libertà, fra i quali Venturi, che afferma: Sono abbastanza noti i provvedimenti presi dal fascismo per organizzare i corpi armati contro gli italiani oltre che contro gli stranieri,  e gl’istituti finanziari ed economici a favore di pochi arrivati al potere. Ma non è ancora stato analizzato il successo del fascismo nel  promuovere la cultura in Italia. Mussolini ha compreso l’importanza  di una cultura foggiata a sostegno del regime, e, privo di ogni ideale  da offrire come meta all’intelligenza, convinto che solo il denaro  può interessare gli uomini, ha largheggiato di mezzi verso gl’intellettuali in un modo inconsueto in Italia. Ma anche gli esponenti di Giustizia e Libertà non  coglievano il contenuto di classe di questa nuova cultura, e la capacità del regime — e poi dei cattolici — di  improntarla delle proprie ideologie. Può quindi essere utile  un sondaggio che, pur limitandosi a tre settori di voci dell’Enciclopedia — politiche, storiche, religiose —, cerchi di  valutare i contenuti culturali dell’opera nel più generale  contesto politico in cui fu realizzata: non tanto per rilasciare patenti di fascismo e di antifascismo a singoli colla-  boratori, quanto per vedere se nei loro contributi emerges-  sero o meno elementi funzionali all’ideologia che il fascismo  veniva elaborando. Con ciò non si potrà ritenere esaurito,  del resto, l’esame dell’opera, in cui ampio è l’apparato di  voci illustrative (tecniche, geografiche e artistiche); anche Vida, Fantasmi ritrovati, Travi (Venturi), La cultura italiana sotto il fascismo, in Quaderni di Giustizia e Libertà, se un ulteriore approfondimento dovrà valutare fino a qual  punto queste ultime possano essere considerate esposizioni  asettiche, dal momento che, ad esempio, un geografo come  Almagià, ben inserito nelle istituzioni culturali e  negli organismi politici del regime — e direttore, con Biasutti, della sezione « Geografia » dell’Enciclopedia —, poteva affermare che le trenta pagine dedicate alla geografia dell'Albania costituivano uno « spazio  non certo soverchio, relativamente alla importanza che  questo paese ha oggi per l’Italia. Resteranno fuori dalla  nostra analisi, fra gli altri, due settori molto importanti,  quello filosofico e quello scientifico. Il primo, com'è naturale, fu più direttamente controllato da Gentile, la cui influenza è facilmente avvertibile; ma può essere interessante  notare come in esso non manchino anche riferimenti all’at-  tualità politica: la trattazione dell’Idealismzo offre  ad esempio a Calogero l’occasione per osservare che  dalla sinistra hegeliana muovevano quei pensatori che,  come Marx, Engels e Lassalle, tradussero il dialettismo  genetico dell’idealismo in un evoluzionismo naturalistico,  condannando ogni spiegazione delle cose che non si riferisse nudamente alle ferree leggi della natura e traman-  dando tale fiero odio per ogni ideologia e idealismo fino ai giorni nostri, in quei paesi, come la Russia, che da  essi hanno mutuato la concezione politica. D'altro lato, Spirito considera come filosofia del fascismo, sia pur  allusivamente, l’Attualismo, che « ha condotto alla  definitiva negazione della filosofia come metafisica e alla  sua identificazione con la storia e con la vita. Questo spiega  come l’attualismo non sia rimasto un puro sistema filosofico,  ma sia penetrato in tutti i campi della cultura e della vita  politica, e abbia condotto a un profondo rinnovamento della  coscienza nazionale. Almagià, La geografia nella Enciclopedia Italiana, in Bollettino della R. Società geografica italiana. Biasutti-Almagià, Le geografia nella nuova Enciclopedia italiana,  in Atti del X congresso geografico italiano, Milano, Capriolo e Massimino. Particolari cure sono rivolte all’Italia, alle sue  colonie, ed ai paesi che sono in più stretti rapporti col nostro. Nel settore scientifico, in particolare per quanto riguarda la storia della scienza — dove fu dato largo spazio  al genio italiano —, si assiste invece a una divisione  del lavoro tra studiosi non attualisti e gentiliani. Spirito aveva sostenuto, al CONGRESO DI FILOSOFIA,  l’identificazione di filosofia e scienza, spingendo Gentile a  riconoscere l’importanza della storia della scienza  per la stessa ricerca scientifica; ed è proprio Spirito  l’autore della voce Scienza nella quale, dopo aver  tratteggiato storicamente il problema dell’unità o della distinzione tra scienza e filosofia, oppone a CROCE, teorico del  dualismo, il Gentile negatore di ogni distinzione tra concetti  puri e concetti empirici, e rivendica a se stesso e ad Volpicelli il merito di aver tentato di dimostrare  che la distinzione dialettica dei momenti, essendo implicita in ogni procedimento logico non può caratterizzare in  concreto la differenza di determinate scienze empiriche e  filosofiche, e che la distinzione di diversi gradi filosofici, naturalistico e idealistico, deve essere superata anche nel  campo delle scienze particolari. Il dualismo fu allora su-  perato solo apparentemente, nonostante la volontà degli  attualisti di impadronirsi della tematica scientifica da un  punto di vista filosofico. Enriques, lo  storico della scienza che dirigeva la sezione « Matematica,  concludeva significativamente cosî una lettera a Gentile in  cui illustrava le proprie idee sulla redazione della voce  Scienza: niente impedisce — se l’articolo Le apparirà  manchevole — che sia integrato da un successivo articolo  filosofico, nel senso che la parola ha per Lei, diverso dal  mio. Fu questo il criterio che, se non fu adottato per  questa voce, guidò la redazione di molte altre di carattere  storico-scientifico, che vennero suddivise in due parti: una  Gentile, Introduzione alla filosofia, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, A1 fatto che Gentile dette  «una certa estensione » alle voci di storia della scienza nell’Enciclopedia  accenna Bulferetti, Gli studi di storia della scienza e della tecnica in  Italia, in Nuove questioni di storia contemporanea, Milano, Marzorati, AEI, Lettere, Enriques. più propriamente scientifica, riservata a studiosi di formazione positivistica, e una filosofica, affidata ad attualisti,  come nel caso di GALILEO, scritta da Marcolongo e  Allmayer, o di VINCI, dove accanto ai vari  specialisti della multiforme attività dello scienziato volle  apporre la sua firma lo stesso Gentile. L’esame delle principali voci di carattere politico conferma pienamente l’esistenza non solo di una ideologia,  ma anche di una cultura fascista, attraverso la quale il regime cerca di costruirsi una legittimazione storica. Resta  ancora da compiere una ricognizione degli studi di scienze  politiche che si vennero elaborando in Italia tra le due  guerre mondiali e che, non limitandosi a ricostruire le discussioni metodologiche sulla storia delle dottrine politiche, sia attenta al legame con la tradizione inaugurata da  Mosca, Pareto e Michels, e a quello tra elaborazione teorica e ricostruzione storica, al rapporto con la politica sviluppata dallo Stato fascista e alle istituzioni in cui questi  studi si concretizzarono, in un momento in cui, proprio a  partire dal 1924, furono create le prime Facoltà di scienze  politiche dalle quasi ci si attendeva la formazione di una  nuova classe dirigente. Le voci enciclopediche sono solo  una spia della estrema ideologizzazione cui era soggetta  questa tematica, e della fortuna della concezione gentiliana  dello Stato, che più di quella di Croce cercò di affrontare  il problema dell’emergere delle masse sulla scena politica  nazionale,   Non ci sembra di poter condividere l’opinione di Bob-    ad es. Testoni, La storia delle dottrine politiche in un dibat-  tito ancora attuale, in «Il Pensiero politico » Un interessante tema di ricerca suggerisce in questo senso Montenegro, Politica estera e organizzazione del consenso. Note sull’Istituto  per gli studi di politica internazionale. , in « Studi Storici » Cfr. le osservazioni di Racinaro, Intellettuali e fascismo, in Critica marxista-- Bob bio che la presenza dell’ideologia fascista nell’Enciclopedia  sia avvertibile solo nella voce Fascismo. Anche se gia Treccani aveva potuto affermare, ringraziando Mussolini per la promessa fatta a Gentile di collaborare per  questa voce, che « l’Enciclopedia non poteva ottenere pit  importante e significativo suggello del carattere suo, di  opera italiana del regime » !”, la voce, scritta frettolosamente da Gentile per la prima  parte (« Idee fondamentali ») e da Mussolini per la seconda  (Dottrina politica e sociale) !", non è, all’interno dell’opera, l’unica né, forse, la più articolata espressione dell'ideologia e della cultura politica del regime. Uscita nello  stesso anno in cui Croce pubblicava il manifesto del libera-  lismo, la Storia d’Europa, quella che i contemporanei considerarono la summa dottrinale del fascismo colpisce infatti  per la sua genericità, dovuta probabilmente anche alla vo-  lontà di non dare appigli a quanti, all’interno del regime,  cercavano di appropriarsene la dottrina. Se la « mano » di  Gentile è indubitabile, come rilevarono subito i commenti  degli antifascisti — La Libertà sottolineò nella voce la concezione dello Stato propria del filosofo della Enciclopedia Treccani, mentre Lo Stato operaio colse nella  prima parte dello scritto « la marca di fabbrica della ditta  intitolata a Gentile » !” —, non è meno significativo il fatto che i commentatori di parte fascista non dessero un particolare rilievo alla influenza attualista, e ciò non  solo per piaggeria verso Mussolini, che aveva firmato tutta  la voce. Un accenno, sia pure sfumato, vi è solo in Bottai —  più vicino al filosofo siciliano — il quale osservò che con  la Dottrina del fascismo la cultura moderna era giunta  a  Treccani a Mussolini (ACS, Segreteria particolare  del Duce, Carteggio riservato).  Cfr. Segreteria particolare del Duce, Carteggio  ordinario, e la testimonianza di A. Iraci, Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni. A parte questo  caso, l’attribuzione di alcune voci non firmate si basa sulle lettere e sullo  schedario per autori conservati presso l'Archivio dell’Enciclopedia italiana. IL DUCE-FILOSOFO E LO STATO FASCISTA, in «La Libertà»; Donini, Il fascismo secondo Mussolini, in Lo  Stato operaio quella critica del socialismo e del liberalismo, a quel senso  realistico della storia e a quel pensiero idealistico, che sono  stati, prima oscuramente ora chiaramente, i caposaldi del  pensiero mussoliniano. Gli anti-gentiliani furono invece assai espliciti nel distinguere la dottrina del fascismo  dall’attualismo: non solo, naturalmente, Fanelli, ma  anche Carlo Costamagna, autore di parte della voce Corporazione: dopo aver affermato che il fascismo, pur possedendo una dottrina, non può e non deve possedere una  filosofia, perché « non esistono verità assolute, eterne e  universali, fuori del dogma religioso per il credente, nota che « l’attivismo fascista è lo sforzo ad impadronirsi  della realtà e a dominarla, e nulla ha di comune con quel-  l’attualismo neo-hegeliano che, nell’illusione di assorbire e  superare il razionalismo e il materialismo, coi soliti espedienti dell’astrazione, non ha saputo apprestare se non  una esercitazione di parole, buona a giustificare qualsiasi comportamento pratico, ricadendo negli eccessi dialet-  tici propri ad ogni filosofia delle epoche di decadenza » !*  E particolare significato assume il commento della rivista  ufficiale di Mussolini, Gerarchia, che sembra attaccare, oltre a Gentile, gli esiti di sinistra del  gentiliano Spirito quali si erano manifestati, nel maggio  [ II secolo di Mussolini, in Critica fascista. Bottai insisteva su una presentazione « di sinistra » della dottrina del  fascismo: nega l’ideologia marxista, ma accoglie il movimento operaio,  dandogli un posto giuridico-politico nello Stato; nega l'ideologia democratica, ma non intende restituire gli individui alla condizione di bruti  privi di dignità spirituale, come sarebbe in uno Stato di polizia »; « La  dottrina del fascismo, che non ignora né l’esperienza democratica né quella  socialista, concepisce lo Stato come il sistema dei diritti-doveri degli individui organizzati per raggiungere i più alti fini etici della personalità  umana (nella sua concretezza nazionale), e non può fare a meno di  tendere verso una giustizia sociale che, in regime liberale, non poteva  non essere calpestata. In questo senso se il nostro secolo, come dice  Mussolini, sarà un secolo di destra, esso, proprio perché è il secolo dello  Stato (se lo Stato non è, e non dev'essere, strumento della prepotenza dei  pi forti), sarà un secolo di sinistra. E l’organizzazione corporativa  italiana ne è una prova ». Bottai sarà autore della voce Corporativismo  nell’Appendice. Fanelli, Contra Gentiles. Costamagna, Pensiero ed azione, in Lo Stato, precedente, al II Convegno di studi corporativi di Ferrara:  la parola di Mussolini poneva fine, secondo la rivista, al  tentativo delle varie correnti culturali italiane di monopolizzare la dottrina del fascismo, la quale fu identificata anche con il benedetto, onnipresente liberalismo:  sia con quello vero, che, partendo dal mito delle intangibili libertà  individuali, si ferma allo stato come complesso di servizi utili e  giungeva, al massimo, ad accettare un forte stato di polizia, guardiano notturno dell’ordine pubblico; sia col liberalismo ancora  pié vero, che dalla base della fantastica acrobazia dialettica della  identità assoluta fra stato e individuo, finiva, logicamente, con l’identificare la dottrina fascista con l’utopia comunista. Colpisce infatti, soprattutto nella parte sulla « Dottrina  politica e sociale, che alle istituzioni corporative sia  fatto solo un cenno assai rapido, nonostante che l’elaborazione della dottrina corporativa fosse an-  data molto avanti”, e nella voce si insista sul fatto che  proprio dopo la crisi  chi può risolvere le drammatiche contraddizioni del capitalismo è lo Stato ». Il motivo, suggerito da Gerarchia, è reso esplicito da Vita  nova, la rivista del gentiliano Saitta, per il  quale dopo il mirabile articolo del Duce sulla dottrina  del fascismo, pubblicato nell’Enciclopedia Treccani, discutere sulla struttura filosofica e politica della relazione Spirito al Convegno di studi corporativi, è non solo vano ma  temerario, in quanto la corporazione proprietaria ci  riporterebbe pari pari all'esperienza bolscevica. Nonostante queste prese di distanza — ma è da ricor-  dare che anche Gentile precisò il suo pensiero rispetto a  quello di Spirito —, risulta evidente la marca di fabbrica gentiliana della voce, anche se alcuni passi possono  ricordare formulazioni di Rocco: cosî nella dichiara-  [Caparelli, La dottrina fascista nel decennale, in Gerarchia Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Noi, La corporazione proprietaria, in Vita nova, ad es. il discorso di Rocco, La dottrina    zione del carattere assoluto dello Stato e nell’affermazione della preminenza dello Stato sulla nazione — fatta in  implicita polemica con i nazionalisti” —, che sarà ripetuta da Battaglia in Nazione, e non sarà negata nella  voce Nazionalismo di D'Andrea e Federzoni, preoccupati  solo di dimostrare le origini antidemocratiche del nazionalismo europeo, e contestare la primogenitura francese sul  nazionalismo italiano di Corradini; o nel paragrafo sulla  religione cattolica, in cui si dice che « il fascismo rispetta il  Dio degli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio cosi  com'è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo del  popolo ». Pi accentuata che non in Gentile è invece la  negazione del secolo del liberalismo, che  vide, al contrario, la vittoria di Napoleone III e di Bismarck  il quale non seppe mai dove stesse di casa la religione  della libertà e di quali profeti si servisse, e, nel Risorgimento italiano, l’apporto decisivo di Mazzini e Garibaldi,  che liberali non furono. Ciò che comunque interessa rilevare, al di là della  ricerca delle sue fonti teoriche, è il fatto che la voce, pur  nella sua genericità, condensa quei capisaldi dell’ideologia  del fascismo che circolarono ampiamente negli scritti di studiosi di scienze politiche, di giuristi, storici, economisti; né sarà da dimenticare che, oltre a essere  diffusa e commentata in numerosissime edizioni, essa nella  sua parte propriamente mussoliniana (Dottrina politica  e sociale), fu premessa allo statuto del Pnf. Non  vanno quindi considerate semplici enunciazioni propagandistiche la.negazione del materialismo storico e della lotta  di classe — con espressioni in cui Gramsci coglieva l’in-flusso di Loria —, o quella del pacifismo — ribadita in  Pacifismo di Vecchio —, l’affermazione della  vocazione impetrialistica dell’Italia fascista, e la pretesa del  fascismo di presentarsi come il superatore, e l’inveratore, politica del fascismo, in Scritti e discorsi politici, La formazione  dello Stato fascista, Milano, Giuffrè, Per una polemica esplicita cfr. Gentile, Origini e dottrina del  fascismo, Gramsci, Quaderni del carcere, del liberalismo classico e del socialismo: un punto, que-  st’ultimo, sul quale insisterà anche Volpe nella parte della  voce dedicata alla storia del movimento fascista, in cui  cercherà di dimostrare che, nell’età della politica delle  masse, il fascismo era l’erede genuino del socialismo: come il socialismo di MUSSOLINI — che era specialmente una posizione di lotta — si aprî all’accettazione piena dei valori nazionali,  cosf questi valori non misero troppo nell’ombra quel socialismo: il quale, respinto energicamente come partito, respinto anche come  dottrina e come filosofia a fondo materialistico, rimase come senti-  mento, rimase come simpatia per il mondo del lavoro, come aspirazione a liberare le masse dal giogo del partito e dalla corruzione  della politica, allo scopo di promuoverne l’autoeducazione, farne  l'artefice diretto della propria fortuna, come del resto era nella concezione dei sindacalisti. Con questa mistificazione si completava cosî quella  soprastruttura ideologica della borghesia italiana che,  osservò Lo Stato operaio, usa ora nuovi e pit raffinati mezzi di oppressione e di sfruttamento per consolidare il proprio dominio e prolungare la propria esistenza,   Alle formulazioni di Fascismo si fa un rinvio non solo  formale nelle principali voci politiche e politico-economi-  che affidate a esponenti dell’attualismo come Battaglia e Spirito. Battaglia, che fu uno  degli animatori del dibattito sulla storia delle dottrine poli-  tiche sviluppando la distinzione crociana fra teoria e prassi  politica, tanto da ritenere che la storia delle dottrine  politiche non debba direttamente servire alle nostre  attuali finalità, dimostra in realtà, in voci come Democrazia, Partito, Stato, una stretta dipendenza dall’elaborazione gentiliana e una precisa strumentalizzazione di questi  concetti in funzione dell’ideologia fascista. Occupandosi  della Demzocrazia nel periodo medievale e moderno,  dopo aver sostenuto, sulla traccia degli studi di Ercole sui   Testoni, Battaglia, Oggetto e metodo della storia delle dottrine politiche,  in «Rivista storica italiana, comuni e sulle signorie venete — che, come osserverà  Chabod, anch'egli debitore di Ercole, influirono largamente  sul pensiero storiografico fra le due guerre, con il loro assillo di cercare, ad ogni costo, lo stato moderno già nel  passato italiano —, che la signoria non è « negazione  sic et simpliciter del principato popolare, ché anzi le sue  origini in Italia derivano proprio dal popolo, di cui il  tiranno si atteggia difensore contro le classi privilegiate,  e dopo ‘aver osservato che l'ideale di piena democrazia  vagheggiato dal Rousseau era inattuabile, un regime di dei  più che di uomini », Battaglia nota che anche nelle società  moderne la democrazia ha bisogno di alcuni presupposti  senza i quali non solo non fiorisce, bensî decade e conrrompe  i popoli. Facendo sue le tesi espresse dal liberale Bryce in Democrazie moderne — un’opera tradotta  in italiano da Occhi, e che è nella sostanza una critica da secondo le quali « la democrazia si sviluppa  su un sostrato di diffuso benessere collettivo e fiorisce  solo nei paesi abituati al governo locale », pur essendo in  crisi anche in paesi evoluti come la Francia,  Battaglia conclude che    in Italia la democrazia intesa come pratica di autogoverno non ha  avuto una tradizione e una linea. Lo stesso processo unitario ci  spiega ciò. L’unificazione amministrativa imposta da Torino tolse in fondo la possibilità di quell’autogoverno locale che costituisce il fondamento della vera democrazia e inutile fu anche l’allargamento del suffragio, perché Chabod, Gli studi di storia del Rinascimento, in AA.VV., Cinuant'anni di vita intellettuale italiana, Scritti in onore di  Croce per a cura di Antoni   e Mattioli, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, Per l’influenza di Ercole su Chabod, all’inizio della sua attività, cfr. Pizzetti, Chabod storico delle Signorie, in Nuova rivista storica, Lu Sebbene la democrazia si sia diffusa, e quantunque nessun paese,  che ha provata, dia dei segni di abbandonarla, noi non siamo autorizzati a ritenere, cogli uomini, che essa sia la forma di governo  naturale, e, perciò, a lungo andare inevitabile  (Bryce, Democrazie moderne, Milano. L'opera sarà ristampata  da Mondadori, sempre a cura di Occhi, c’è rappresentanza vera solo dove c’è coscienza, ciò che in Italia  mancava [...; cosi] la democrazia italiana continuò la sua vita  stentata e in fondo illiberale nel trasformismo, che palliava conati  di dittature singole, finché si dimostrò impotente ad arginare  un moto come il fascismo, in parte espresso da quelle stesse forze  sindacalistiche che essa aveva ignorato.    Parallela a questa svalutazione della democrazia con-  dotta sul piano storico, è la negazione dell’esistenza di una  vera e propria tirannia nelle moderne società di massa (Tirannia e tirannicidio; da notare che nell’Exciclopedia manca  la voce Dittatura: c’è solo Dittatore per l’età romana):  infatti, spiega Battaglia, a parte che la pratica possibilità della tirannia è ognora più ridotta,  oggi il sistema dei controlli giuridici e politici e la pressione dell’opinione pubblica sono tali che la figura del despota exercitio appare  affatto letteraria, Le moderne dittature facendo appello al popolo,  non solo per costituirsi attraverso i plebisciti i titoli giuridici del  potere o per sanarli se difettosi, bensi anche per suffnagare del  consenso nazionale ogni loro attività, appaiono poggiare sulle masse  più che le stesse democrazie. Insomma i fenomeni e le teorie ac-  cennate a proposito della tirannia hanno significato con riferimento a  piccole società politiche e non agli enormi aggregati statali moderni. Mentre Ghisalberti svaluta la funzione  svolta dal Parlamento nella storia dell’Italia liberale — col fascismo invece « il parlamento, che si avvia a  un'ulteriore riforma in senso corporativo, superiore alle piccole lotte d’un tempo, restituito alla sua naturale funzione,  ha svolto attiva, proficua opera legislativa » —, e Volpicelli sviluppa una dura critica del concetto di rappresentanza » (Rappresentanza politica)”, che nella  esposizione della storia del principio maggioritario Ruffini non è in grado di controbilanciare, Battaglia Lo Stato in quanto « organizzazione totalitaria del corpo sociale,  non può né deve agire iure repraesentationis, ma iure proprio »; solo lo  Stato corporativo fascista «si afferma e si attua sempre più come uno  stato coincidente con la stessa e intera collettività nazionale corporativamente organizzata », « perciò appunto sarà davvero libero e generale. Anche la prima parte della voce, scritta da Luigi Rossi, critica i vari  sistemi di rappresentanza politica.  Nella voce Maggioranza Ruffini, autore svolge (Partito) la concezione del partito unico, che sembra legarsi in parte alla tendenza oligarchica rilevata dalla scienza  come necessaria nel partito. Non rinnegando l’ampio fondamento  democratico, esalta l’aristocrazia militante dei primi confessori dell’idea e sublima religiosamente il capo (Duce, Fiihrer). Il partito  divien stato; acquista rilievo giuridico, assurge personalità morale; è cosî composto, gentilianamente, il contrasto individuo-  Stato: l’esperienza del fascismo e del nazismo    non elimina la dialettica delle tendenze, sempre operosa nel gruppo  nazionale unitariamente inteso. Appunto perché il partito unico  s'identifica con lo stato, la dialettica non è fuori dallo stato e questo  sopra di essa, indifferente, ma nello stato in quanto formazione etica,  quindi nel partito in quanto, spiritualmente viva, si svolga, si trasformi arricchendo i suoi strumenti, i suoi organi, le sue funzioni.  Elidere ogni varietà di motivi in un’instaurazione dogmatica di prin-  cipi rigidi è vano sogno, ché oltre gli schemi irrompe la vita e il  contrasto. Ciò non esclude che questa debba ricondursi nell’ambito  totalitario dello stato, nell’unicità etica che questo rappresenta,    Dove più esplicito e dispiegato è il debito di Battaglia  verso Gentile, è nella voce Stato, riprodotta negli Scritti di teoria dello Stato, a testimonianza che  l’influenza gentiliana non fu limitata entro i confini del-  l’Enciclopedia”. La storia dell'idea di Stato è ricostruita de Il principio maggioritario, si limita ad affermare che il principio  maggioritario ha avuto contro di sé nel secolo scorso tutti gli avversari  delle istituzioni democratiche, i quali spesso commisero l'errore di colpire il concetto tecnico giuridico di maggioranza quando volevano colpire  quello generico politico di moltitudine, di massa, dal punto di vista  aristocratico ». Questa voce ci sembra sopravvalutata in senso antifascista  da S. Caprioli nella riproposizione di Ruffini, Il principio maggiori-  tario, Milano, Adelphi. Nei termini della concezione dello Stato assoluto è condotta anche  la voce Reazione politica, in cui Battaglia afferma che sia la rivo-  luzione sia la reazione hanno «un motivo di verità. I! loro contrasto è  la vita dello stato, che ha sempre in sé rivoluzione e reazione come libertà  e autorità, diritto ideale e diritto positivo da riaffermare. Sempre di  Battaglia, ma più espositiva e con una nota polemica contro gli assurdi  del superuomo » e il razzismo affermatisi nella Germania nazista, è  Politica, rifusa in F. Battaglia, Lineamenti di storia delle dottrine  politiche, Roma, Foro italiano, dove però la nota polemica ora  accennata viene attenuata In una lettera a Bosco Battaglia dichiarava in funzione della concezione attualista, difesa da Gentile, contro le critiche dei cattolici, come una delle  poche dottrine o miti elaborati dal fascismo. Cosi,  all'affermazione che senza l’inversione di valori, non si sarebbe mai potuto  addivenire all’idea di uno stato interiore ai soggetti, quale  l’età moderna esige e svolge, segue la critica del giusna-  turalismo, che conosce l’individuo, astrazion fatta dai gruppi nei quali pur vive.  La società nelle sue forme molteplici gli è estranea. Si spiega quindi  come esso, liberale e indifferente, ritenendo nella tutela giuridica  esaurito il suo compito, finisca per rivelarsi impotente a disciplinare  la vita delle classi inferiori, allorquando queste nel sec. XIX cominciarono ad acquistare il senso della propria importanza. Donde ciò  che si è detto «crisi dello stato », come l’esigenza di un'ulteriore  integrazione, che, se nell’ordine pratico ha trovato la sua realtà  solo di recente con il fascismo, nell’ordine teorico già era  stata proclamata necessaria da più di un autore come Fichte e Hegel (« avere riconosciuto la spiritualità  dello stato è il suo grande merito. I suoi problemi ripren-  derà al principio del secolo presente il neoidealismo italiano,  rivivendoli in una esperienza affatto nuova »). Assai estesa  è l’esposizione della concezione gentiliana dello Stato etico,  tanto che Carlini accusa Battaglia di aver voluto  accreditare la filosofia di Gentile come filosofia del Pnf,  rivendicando invece l’originalità della dottrina fascista, non  solo « integrazione » pratica di quella gentiliana; di avervi « messo le mani due volte come la Direzione desiderava » (AEI,  Lettere, Battaglia).   Gentile, Ideologie correnti e critiche facili, in « Politica sociale. Ci dicono statolatri. Dacché è venuta la moda del  fascismo cattolico, frazione più o meno peticolosa ed eretica in seno  al fascismo, taluno ci parla con grande compunzione della necessità di  non lasciarsi attrarre dalla diabolica filosofia dello Stato etico. Uno spunto in questo senso era stato fornito da Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze, Sansoni, Cfr. anche F. Battaglia, I/ corporativismo come essenza assoluta dello  Stato, in « Archivio di studi corporativi, che  rinvia al capitolo sulla concezione dello Stato di Solari,  Ts etica e filosofica dello Stato moderno, Torino, L'Erma,   Carlini-Battaglia, Orientamenti, in Critica fascista, mai come ora, specialmente in Italia, lo stato è reale nell’intendimento speculativo. La filosofia non solo ne ha approfondito l’essenza  ideale ma ha contribuito a potenziarlo nella sua funzione storica,  promuovendone il sentimento nel popolo e l’uomo sociale,  che la sua socialità dispiega nello stato, è vicino a Dio, certo di  Dio ha l’animo preso e i divini comandamenti fa suoi per celebrarli  ogni giorno; e Battaglia conclude la voce con l’esposizione della dottrina  fascista — continui sono i rinvii a Fasciszzo —, nell’intento  di dimostrare che lo Stato fascista non è teocratico o assolutista, che, « opponendosi a due posizioni tradizionali del  pensiero politico, il giusnaturalismo liberale e il socialismo,  da questi rileva i motivi non perituri e li trasvaluta, e  che la « corporatività  è la nota dominante dello stato  fascista », nel quale «cittadino lavoratore e soldato si  convertono assolutamente. Nella delineazione di aspetti essenziali dell’ideologia e della cultura del fascismo spiccano, per alcuni accenti per-  sonali, le voci di Ugo Spirito Economia politica e  Liberalismo, scritte nel periodo in cui più intensa  fu la sua partecipazione al dibattito sul corporativismo,  che si collegò strettamente con la direzione,  assieme ad Arnaldo Volpicelli, dei « Nuovi studi di diritto,  economia e politica. L’importanza di queste voci è evidenziata anche dal  ruolo centrale avuto da Spirito nell’Enciclopedia, nella  quale fu redattore per ben otto materie (filosofia, economia,  statistica, finanza, diritto, storia del diritto, materie ecclesiastiche e, storia del culto), finché  divenne segretario generale dell’opera, sempre in un rapporto strettissimo con Gentile, ciò che dovette  costituire un motivo di preoccupazione per quanti temevano che la sua concezione del corporativismo, quale si  era espressa al convegno di Ferrara, influenzasse Sulla collaborazione di Spirito all’Enciclopedia cfr. Santomassimo, Spirito e il corporativismo, in Studi storici. Cfr. U. Spirito, Memorie. gran parte dell’opera. Echi della sua posizione si avvertono in effetti in queste due voci, in cui Spirito, pur senza  riprendere la proposta della « corporazione proprietaria »,  rivendica il « carattere pubblicistico della proprietà privata. Nella parte storica delle voci l’autore svolge, più che  una descrizione delle concezioni precedenti quella fascista,  una serrata discussione con queste, diretta a condannare  l’individualismo delle teorie fisiocratiche, liberali e socialiste. Come quella fisiocratica — si dice in Economia politica —, la scuola classica rimase « tutta informata dal principio individualistico e liberistico proprio dell’illuminismo, e anche quando « l’economia nazionale o il socialismo affermavano la superiorità dell’ente nazione o classe  o società su quello d’individuo, muovevano tuttavia dal  presupposto illuministico e liberale che l’individuo particolare in qualche modo esistesse e avesse una realtà propria diversa da quella dell’organismo di cui faceva parte,  affermavano cioè una superiorità della nazione o della società sull’individuo o una subordinazione di questo a quelle,  ma non giungevano a riconoscerne l’essenziale identità dialettica. Solo in Italia il rinnovamento dell’economia poli-  tica « ha raggiunto politicamente e scientificamente uno  sviluppo d’importanza fondamentale. Proprio in Italia, infatti, la critica del pensiero illuministico era stata più perentoriamente condotta e i suoi risultati erano stati più decisivi. Né le nuove affermazioni idealistiche erano state  al margine della vita politica, ché anzi questa ne ha risen-  tito fortemente l’influsso, giungendo ad affermazioni pra-    [Cosf Preziosi, Spirito, in La Vita italiana, È da ricordare che nel corso dei lavori preparatori del Codice  civile vastissimo fu il dibattito sulla « funzione sociale » della  proprietà: uno dei suoi partecipanti più insigni e Pugliatti,  di cui cfr. ad es. la raccolta di saggi La proprietà nel nuovo diritto,  Milano, Giuffrè. Gl’economisti italiani come Galiani, aveva notato Spirito, « anche quando più si discostano dalle teorie mercantilistiche e più  decisamente concordano con i fisiocrati, non accettano senza riserva il  dogmatismo individualistico e liberistico di questi ultimi e spesso fanno  posto a considerazioni di carattere che potremmo già definire storicistico ».tiche addirittura rivoluzionarie »: con la Carta del lavoro,  ad esempio, « si dava il colpo di grazia al tradizionale libe-  rismo individualistico. Affermato il carattere pubblicistico  della proprietà privata, cadeva il fondamento dell’economia  liberale -- l’homo oeconomicus guidato dall’ofelimità -- , e ragione della vita economica diventava l’identità del fine sta-  tale e del fine individuale. In questa ultima formulazione  si riflette il ripiegamento di Spirito rispetto alla sua primitiva proposta, che era decisamente accantonata, anche se  in Mussolini continuò a manifestarsi « una comprensione  dei vantaggi che il regime poteva trarre dal vigilato dispie-  garsi di tendenze come quella impersonata da Spirito, presentando Capitalismo e corporativismo, Spirito affermava che nessuno  più ardisce di scandalizzarsi se si parla di crisi del capitalismo e di trasformazione in senso pubblicistico della pro-  prietà. Quell’economia programmatica, che allora non si  sapeva scindere dal sistema bolscevico, è ormai accettata  come propria dal corporativismo ». La fondazione dell’Iri  dimostrava che l'iniziativa privata non è più l’idolo intangibile; rimarrebbe la terribile formula della corpo-  razione proprietaria, quella che ha generato tanto putiferio.  Ebbene, lasciamola pure da parte e non ci pensiamo pit.  Io per conto mio ci ho pensato su fino ad oggi e mi son  convinto che, se si accetta tutto il resto, la corporazione  proprietaria può addirittura sembrare sorpassata. Ana-  loga a quella della voce, e tutta interna alla tematica gentiliana di individuo e Stato, è la conclusione di Liberalismo, di cui è posto fin dall’inizio il problema del suo  sbocco nel corporativismo. La concezione che colloca l’individuo al centro dell’uni-  verso è seguita attraverso il Rinascimento e la Riforma, il  razionalismo cartesiano che è già il principio della demo-  [Santomassimo, Spirito, Capitalismo e corporativismo, terza edizione riveduta  ed ampliata, Firenze, Sansoni,  La voce era già stata pubblicata in «Nuovi studi di diritto, eco nomia e politica», Nella nota bibliografica  Spirito giudica libri sbagliati la Storia del liberalismo europeo di Ruggiero e la Storie d’Europa di Croce.] crazia del pensiero, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo  e del cittadino dove  è il nucleo dell’individua-  lismo liberale e insieme il limite che il liberalismo non  riuscirà mai a superare davvero, con l’affermazione del-  l’ANTI-STATALISMO e della proprietà privata. Conseguenza del  liberalismo sono considerati il dualismo tra governanti e  governati, che si manifesta attraverso l’istituto della rappresentanza, trionfo materialistico del numero, e la  democrazia, che in Rousseau mostra i suoi aspetti deteriori, convertendosi nel suo contrario e generando, nella  sete della libertà, la peggiore schiavità ». Le contraddizioni  del liberalismo, sorte col riconoscimento della necessità di  uno Stato e di un suo intervento soprattutto nel campo  economico, impongono secondo Spirito « una revisione  radicale del problema, e questa è individuata nella tradizione italiana di pensiero, ricostruita secondo l’ottica gen-  tiliana, e nel corporativismo:    I precedenti di tale revisione vanno ricercati nel pensiero idealistico, che comincia a contrapporsi all’affermazione del pensiero illuministico, razionalistico ed emiristico. Il pensiero del Rinascimento italiano, di un individualismo  n più profondo e spirituale, per cui l’individuo stesso coincide con  l’universale e l’universale in esso s’incentra, comincia a dare i suoi  frutti migliori, in contrasto con l’astrattismo del pensiero franco-inglese. Nei pubblicisti della nostra tradizione vichiana, nei filosofi  dell’idealismo tedesco, negli spiritualisti italiani della prima metà  dell'Ottocento, comincia a farsi strada un concetto di libertà politica,  in cui il dualismo di libertà e autorità, e quindi di individuo e stato,  è riconosciuto come il fondamento necessario della superiore sintesi  in cui consiste la vera libertà.  In particolare,  da Spaventa a Gentile, la tradizione del pensiero italiano ed europeo  viene determinata nelle sue linee essenziali, e in essa si ritrovano gli  elementi della nuova e più profonda fede nella libertà, che avrà poi  il suo sbocco nella rivoluzione fascista. Con il «corporativismo integrale il fascismo si avvia  infatti a risolvere, afferma Spirito, le antinomie del liberalismo: l’individuo deve realizzare la sua libertà e la sua iniziativa nella collaborazione, e riconoscere il carattere  pubblicistico della proprietà, mentre si svuotano cosî  di contenuto tutti i concetti tradizionali del liberalismo  individualistico e della democrazia, da quello di rappresentanza a quello di maggioranza, da quello di eguaglianza  a quello di elettoralismo; iniziativa privata e intervento  statale, e in conseguenza il problema dei rispettivi limiti,  diventano termini e problema senza significato. Il corporativismo di Spirito sposta cosî l’accento sulla  costruzione gerarchica dello Stato, e negli anni seguenti,  dopo la chiusura dei Nuovi studi, si ridurrà, in  campo economico, alla difesa della economia programmatica, in cui l'affermazione del « carattere pubblicistico  della proprietà  — che come la proposta della corporazione proprietaria  mostra di non collocarsi al di fuori  della logica capitalistica — si precisa nella richiesta dell’in-  tervento statale reso necessario dalla crisi, A  scanso di equivoci, comunque,  Maroi ricordò nella voce Proprietà che « alcuni filosofi (Spirito,  A. Volpicelli) hanno sostenuto che in regime fascista il  lavoro non può produrre una proprietà privata perché l’individuo, come tale, in regime corporativo non esiste, e che  il sistema corporativo sboccherà nella corporazione proprietaria: questa concezione è però autorevolmente com-  battuta », concludeva, rinviando alla nota su Individuo e  Stato nella quale Gentile — allora impegnato a  redigere le Idee fondamentali della voce Fascismo, a commento della posizione assunta da Spirito a Ferrara  precisava che la socializzazione e statizzazione corporativa importa sempre un mar-  gine individualistico, in cui il processo corporativo deve operare. In   Cfr., nell’Appendice, Autarchia, Capitalismo (tutta la voce  è dedicata alla «crisi del capitalismo), Economia programmatica. «I  precedenti delle nuove teorie — scrive Spirito in quest’ultima voce —  vanno ritrovati per una parte nei postulati del socialismo e per l’altra  nelle indagini circa l’organizzazione scientifica del lavoro. Sul fordismo di Spirito cfr. Lanaro, Appunti sul fascismo di sinistra. La  ASA, corporativa di Spirito, in Belfagor questo margine, ineliminabile, il rispetto dell’individuo è lo stesso  rispetto della corporazione: l’autolimitazione conseguente dello Stato  è la sua effettiva autorealizzazione. Lo Stato che inghiottisse davvero  l'individuo, riuscirebbe un pallone destinato subito a sgonfiarsi. Il corporativismo, sente, sia pure confusamente, questo pericolo, anzi  questo destino del comunismo; e se ne vuol distinguere non annullando quella sorgente di vita economica e morale che è nell’individuo. Il timore che la posizione di sinistra di Spirito influenzasse la trattazione delle materie economiche dell’Enciclopedia, non aveva quindi ragion d’essere, come dimostrano del resto le voci di Graziani — fra cui  Bisogni, Capitale, Lavoro, Salario —, il quale aveva sostenuto che il Capitalismo e nel rispetto della produzione e in quello della distribuzione, manifesta superiorità spiccata sugli altri sistemi che lo precedettero, e su  tutti i sistemi imperniantisi sulla collettivizzazione dei mezzi produttivi, nei quali si urterebbe contro la fondamentale difficoltà dell’assegnazione rispettiva dei compiti e si dovrebbe ad ogni modo attuare  una distribuzione che toglierebbe i maggiori impulsi all’operosità e  all’accumulazione; se si aggiunge la forte coercizione, intollerabile in  paesi avanzati di civiltà, si scorge come essi necessariamente addur-  rebbero a decremento enorme di produzione e ad arresto di progresso economico e sociale. Può essere infine interessante notare come, almeno nell’Enciclopedia, vi fosse negli anni 30 un’intensa corrispon-  denza fra le formulazioni di questi studiosi di scienze politiche e storico-economiche, e quelle di alcuni storici. Men-  tre ad esempio Spirito svolgeva una critica a fondo del libe-  ralismo, nella voce Borghesia Chabod avvalorava  la pretesa del fascismo di presentarsi antiborghese, negando  l’esistenza, nell’età contemporanea, di quella classe che del  liberalismo aveva fatto la propria bandiera politica. Come  il primo utilizza Gentile, il secondo riprende, con alcune  correzioni, le osservazioni di Croce intese a distinguere « la  borghesia in significato spirituale, la borghesia che è detta  cosîf per metafora (e per non felice metafora) dalla bor- [Gentile, Individuo e Stato, in « Giornale critico della filosofia  italiana » ghesia in senso economico, con la quale la prima si suole  scambiare, e, peggio ancora, deplorevolmente contaminare,  con danno non solo della storiografia ma del sano giudizio  morale e politico. Mentre Croce respinge i termini  « borghese e borghesia  per indicare « una personalità spirituale intera, e, correlativamente, un’epoca storica,  in cui tale formazione spirituale domini o predomini,  Chabod — che in quegli anni fa sua la negazione ottoka-  riana del criterio di classe nella storiografia, e partecipa  del largo interesse che circondò nell’Italia fra le due guerre,  non solo fra gli studiosi cattolici, l’opera di sociologi come  Weber e Sombart che in opposizione al marxismo avevano  dato la « dimostrazione “scientifica” della priorità dello spirituale sul materiale, della religione sulla economia  — ritiene che storia dello spirito borghese non  è altro se non storia dello spirito moderno, che ha certo  permeato di sé dapprima un certo ceto sociale, gli bomzines  novi, contrapposti alla feudalità e ai chierici, e con ciò alle  concezioni medievali; ma non è più oggi identificabile, sic  et simpliciter, con un solo, determinato gruppo sociale. E  se oggi ancora certi atteggiamenti spirituali e morali fonda-  mentali paiono più strettamente connessi con “la borghesia”, classe sociale; in effetto sfuggono al dominio di  un’etichetta sociologica, e sono atteggiamenti anche di  molti di coloro che combattono la borghesia in quanto ceto  sociale ». A differenza di Croce, e pur distinguendo fra  borghesia e capitalismo —  rimane, mal-  [Croce, Di un equivoco concetto storico. La « borghesia »,  ora in Etica e politica, Bari, Laterza, Garosci, Sul  concetto di «borghesia». Verifica storica di un saggio crociano, in  Miscellanea Walter Maturi, Torino, Giappichelli, Croce. Pizzetti, Federico Chabod storico delle Signorie. ZI È un'osservazione riferita a Weber da D. Cantimori (ora  in Storici e storia, Torino, Einaudi. L'etica protestante e lo  spirito del capitalismo di Weber fu presentata nei « Nuovi  studi » di Spirito e Volpicelli da Sestan, che vi notava una reazione  al marxismo (cfr. l’introduzione di Sestan alla nuova edizione, Firenze,  Sansoni, Chabod recensi Der Bowrgeois di Sombart in  « Rivista storica italiana » grado tutto, l’ideale della vita ordinata e scevra di troppo  gravi turbamenti: onde i borghesi si trovarono fuori del  trionfo pieno di quella stessa mentalità capitalistica, di cui  pure avevano nei secoli precedenti costituito il prodromo —, Chabod ammette quindi per l’età moderna l’esistenza di una « mentalità borghese », proiezione spirituale  della borghesia come classe (idee di tolleranza religiosa e  di libertà civile, ma anche, nel periodo della rivoluzione  francese, idee astratte, antistoriche — talora anche pue-  rili »), ma ribadisce che di essa non è più possibile parlare  nell’età contemporanea, nella quale    siffatta mentalità non è più esclusiva della borghesia, come ceto  sociale. Ché, anzi, proprio per l’influsso della borghesia — cioè del  ceto socialmente, politicamente, culturalmente dominante nell’Europa  — tale mentalità ha permeato largamente di sé parte  della vecchia nobiltà, e specialmente gran parte degli strati inferiori  della popolazione. Il lavoratore si è contrapposto al borghese,  nell’Europa: ma quanti punti di contatto tra la men-  talità dell’uno e quella dell’altro: quale influsso del secondo sul  primo! I miti di progresso e d’umanità, di fratellanza e d’uguaglianza,  che ai borghesi avevano servito di arma contro le  vecchie classi privilegiate, sono ritorti dagli agitatori socialisti contro la borghesia stessa e divengono ancora arma di lotta,  con altro bersaglio. Ma per ciò appunto quanta affinità tra gli uni e  gli altri! La forma mentis del borghese ha permeato di sé assai pit  ampio strato sociale; si è imposta, anche quando pareva combattuta;  e, se prima aveva potuto costituire veramente la forma mentis carat-  teristica d’un determinato ceto sociale, ora si dissolve come tale,  perde le sue peculiarità « classiste ».    Dove si evidenzia l’affinità con la conclusione della voce  Borghesia scritta per il Dizionario di politica del  Pnf da Salvatore Valitutti: « La società fascista che nello  Stato totalitario ha la sua espressione ignora l’esistenza di  ceti o classi a sé stanti e pertanto la parola borghesia è  destituita di ogni significato attuale. La voce di Chabod dimostra quindi come la mistifi-  cazione arrivasse, per forza di cose, fino alle sfere più rare-  fatte di quella cultura che pure, soggettivamente, si ritene del tutto indipendente dai volgari messaggi rivolti  alla massa, secondo quanto ha osservato Badaloni, e  indica come molteplici fossero — in questo caso Weber  e Sombart, e la stessa riflessione crociana — i contributi  utilizzati per definire un’ideologia e una cultura del fascismo. Sempre nell’ambito delle voci politiche incontriamo  due casi particolari, quelli degli antifascisti Solari e  Mondolfo, utilizzati per le loro competenze  specifiche — argomenti di filosofia del diritto, connessi con  la tematica della libertà, il primo; storia del socialismo e  del movimento operaio, il secondo —, e la cui presenza  potrebbe confermare il giudizio di quanti hanno negato la  connessione fra la vera cultura e il fascismo, ricavandone, in particolare, una valutazione « assolutoria » nei  confronti dell’Enciclopedia. Ci sembra tuttavia azzardato  dedurre dalla presenza di antifascisti in un’opera collettiva  il carattere oggettivamente antifascista della loro collaborazione scritta, senza cercare di cogliere lo spazio dei loro  contributi rispetto ad altri, e di approfondire gli eventuali  punti di convergenza — o di non contraddizione — fra la  loro produzione scientifica e quanto probabilmente lo stesso  Gentile, in assenza di una specifica sezione dedicata alla Politica, chiede loro. [La partecipazione di Solari, il quale aveva  accettato con entusiasmo di collaborare all’Enciclopedia,  che vuol essere espressione del pensiero italiano nei suoi  più alti esponenti e nelle sue più alte manifestazioni, pone forse più problemi di quella di MONDOLFO. Solari è  infatti impegnato, in quegli stessi anni, in un’importante ed  equilibrata opera di delucidazione della concezione liberale  dello Stato e dei concetti di liberalismo, costituzionalismo,    Badaloni -Muscetta, Labriola, Croce, Gentile, Solari a Gentile,(AEI, Leztere, Solari.    democrazia nelle dottrine politiche, che  contrasta col metodo inquisitorio con cui questi erano esa-  minati ad esempio da Spirito nell’Enciclopedia — non  è giusto fare il Rousseau responsabile della degenerazione  in senso realistico e materialistico dell'ideale democratico,  sembra rispondergli Solari —; egli oppone nel 1931, alla  valorizzazione de I/ concetto dello Stato in Hegel fatta da  Gentile, la scoperta hegeliana della società civile — «la  scoperta della società civile come concetto autonomo fu il  grande merito di Hegel, maggiore di quello che solitamente  gli si attribuisce di aver rinnovato il sentimento e la dignità  dello Stato » ?! —, e confutando la concezione dello Stato  corporativo espressa da Volpicelli osserva che il  neoidealismo ha    deviato dalla tradizione hegeliana (almeno quale io la intendo) circa  la natura e i fini dello Stato. Il neo-hegelismo tende, a mio credete,  verso un individualismo idealistico quando concepisce lo Stato non  in sé e per sé, ma nelle forme e nei limiti dell’individuo concreto,  singolo o associato che sia. Lo Stato è etico non perché vive in inte-  riore homine, ma perché è esso stesso realtà e sostanza etica che non  si concreta solo negli individui, ma progressivamente nella famiglia,  nelle associazioni, nella nazione, nell’umanità. E tuttavia sarebbe necessario valutare come poté inse-   Solari, La formazione storica e filosofica dello Stato moderno,  Torino, Giappichelli, DI Solari, Il concetto di società civile in Hegel, in «Rivista di  filosofia », ora in La filosofia politica, a cura di Firpo,  Bari, Laterza, Cfr. anche Solari, Lo Stato conse  libertà, in Rivista di filosofia : come organo  di valori universali e non solo di interessi nazionali o corporativi, lo  Stato può dirsi anche storicamente etico, purché sia ben fermo che esso  non è valore supremo e neppure esclusivo, che la sua eticità è misurata dal  grado con cui realizza esteriormente, cioè coi mezzi imperfetti e limitati  dal diritto, la socialità che è la forma concreta nella quale individui e  popoli affermano la loro libertà. Per una riflessione sulla società civile  parallela a quella di Solari cfr. Zaccaria, L'itinerario politico di Capograssi. Il problema del rapporto tra la società e lo Stato, in  da Pensinto politico, Solari, Stato corporativo e Stato etico (Lettera aperta al prof.  A. Volpicelti in Nuovi studi di diritto, economia e politica; cfr. anche la Risposta dl prof. Solari di Volpicelli. rirsi nell'impresa diretta da Gentile la sua ricerca di una filosofia sociale del diritto, « fermissima sempre nel respin-  gere l'egoismo implicito nelle varie dottrine individuali  stiche, germogliate dal giusnaturalismo e dall’utilitarismo,  ma impenetrabile altresi al materialismo dialettico marxiano, e vedere se ciò fu possibile solo per l’esistenza  di comuni negazioni — l’individualismo e il marxismo —,  o anche perché la sua riflessione, dopo aver abbandonato,  all’inizio del secolo, i suoi presupposti positivistici (e ten-  denzialmente filosocialisti), sviluppandosi come idealismo  sociale trova più che un semplice correttivo ** nel neo-  idealismo italiano. In questa sede si può solo propendere  per la prima ipotesi, constatando come nella maggior parte  delle voci di Solari vi siano — con la messa in sordina del  tema della società civile — forti scarti rispetto a quanto  scriveva contemporaneamente fuori dell’Ewciclopedia, per  cui esse non turbano l’immagine generale dello Stato for-  nita dall'opera, anche se esprimono in maniera più equili-  brata e problematica di quanto non facciano gli attualisti  il problema dei rapporti fra diritti individuali, società e  Stato.   Una esplicita distinzione fra il proprio idealismo sociale e quello di Croce e di Gentile si ha solo in una delle  prime voci, Filosofia del diritto, sottovoce di Diritto. L’idealismo del Croce e del Gentile, fondandosi su una dialettica  dello spirito individuale, portava logicamente a risolvere il diritto  nell’attività utilitaria o in quella etica dello spirito. Legittima pertanto deve apparire l’esigenza di cercare al diritto un fondamento suo  proprio, d’intendere l’attività giuridica come attività autonoma dello  spirito. Come espressione di questa esigenza fu in ogni tempo il  diritto inteso come attività dell'uomo storico e sociale, come rela- [Cosî Firpo nella Introduzione a Solari, La filosofia politica, Bobbio non vede nel passaggio di Solari all’idealismo un rivolgimento dei suoi principi (L'insegnamento di Solari, ora  in Italia civile, Manduria-Bari-Perugia, Lacaita). Per una  valutazione complessiva dell’opera di Solari cfr. anche AA.VV., Solari Testimonianze e bibliografia nel centenario della nascita,  Torino, Memorie dell’Accademia delle scienze, in particolare il  saggio di Bobbio su Lo studio di Hegel. L'Enciclopedia italiana] zione, come proporzione personale e reale, come manifestazione della  coscienza collettiva. In Italia la scuola giobertiana, rivissuta dal CARLE nelle sue applicazioni al diritto, sostiene che in tal senso si affermò  la costante tradizione della filosofia italiana. Il dogma della nazionalità e socialità del diritto è incompatibile con l’idealismo economico  e morale, l’uno e l’altro fondati sul presupposto che il diritto è attività dello spirito individuale. Ma a liberare l’idealismo nazionale e  sociale dagli elementi empirici e contingenti con i quali va congiunto,  è necessario elaborare una dialettica dello spirito collettivo e ripren-  dere la tradizione storico-romantica del periodo post-kantiano, la  quale pose le condizioni di una concezione idealistica del diritto  come espressione dell’Io sociale. Ma la posizione di Solari non ebbe poi modo di dispie-  garsi. In alcune voci l’accento cade, come in quelle di Battaglia e di Spirito, sulla condanna delle teorie individualistiche cui viene opposto il valore supremo dello Stato:  mentre il contrattualismo tende logicamente a una teorica individualista dello stato, in modo da « giustificare  cost l’estremo assolutismo, come l’estremo liberalismo, in  Giustizia ci si sofferma sulla concezione di Hegel, per dire  che in lui la giustizia è libertà ma questa non esclude,  anzi postula la necessità e la naturalità; essa si attua astrat-  tamente nell’individuo e nei rapporti interindividuali, ma  solo nello stato si afferma in forma concreta e universale »;  in modo altrettanto conciso si sostiene che eticità per  Hegel è sinonimo di socialità, e questa è il risultato di un  processo dialettico che culmina nello stato (Naturale,  diritto). Ma anche per Diritti di libertà, citata da Bobbio  come esempio di antifascismo, è da notare che è solo  una sottovoce di Libertà — affidata nei suoi termini  generali, ed esclusivamente filosofici (per la bibliografia si  rinvia a Etica), ad Guzzo, un attualista mosso da  una forte esigenza religiosa, per il quale « la libertà è oggi  considerata come la spiritualità stessa  —, e che in essa  Solari non esprime un’opinione personale: pur partendo  dall’affermazione che condizione di sviluppo della personalità è la libertà, vi espone infatti la teorica dei diritti  di libertà elaborata da Locke e da Kant, e quindi la reazione  Bobbio, Le cultura e il fascismo. da essa suscitata, prima con Hobbes, Spinoza e Rousseau,  poi nel periodo postkantiano, fra gli altri da Hegel, che poneva in rilievo il processo dialettico per cui la libertà  astratta dell’individuo diventa reale nello stato. Un discorso per certi versi analogo a quello di Solari  può essere fatto per la collaborazione di Mondolfo,  autore delle voci principali relative alla storia del socialismo  e del movimento operaio. La scelta di quello che era stato  l’animatore del dibattito sul marxismo riapertosi in Italia, dopo la sconfitta del movimento operaio ad  opera del fascismo, corrisponde anche in questo caso al  criterio della « competenza », ma non appare in contraddi-  zione con i motivi ispiratori dell’Enciclopedia: era lo stesso  criterio che aveva suggerito a Bevione e a Salata di affidare  a Bonomi la biografia di Bissolati, poi redatta dall’ex bissolatiano Cabrini, che aveva messo in  risalto l'orientamento nazionale pit che quello socialista del  biografato. Le voci di Mondolfo, che non sembra abbiano subîto  censure, sono lontane dal taglio anonimo, anche se cor-  [Luporini, Il marxismo e la cultura italiana del Novecento,  in Storia d’Italia, V,I documenti, 2, Torino, Einaudi. Bevione scrive a Salata, che dirigeva allora la  sezione « Storia contemporanea »: «penso che qualcuno può scrivere  l’articolo con ben maggiore ricchezza di dati e intima conoscenza del tema:  ed è Bonomi né obbiezioni potranno venire alla Direzione del-  l’E.[nciclopedia] da alcuno per questo incarico, data la purezza e la sere-  nità di Bonomi, da tutti riconosciuta. A Bonomi avevo pensato an-  ch'io, fin da principio — scriveva Salata a Menghini. Ma  allora mi era parso di dover evitare la scelta di un uomo cosî in vista  nelle vicende politiche post-belliche. Ora il giudizio su Bonomi è —  credo anche nelle altissime gerarchie del partito fascista — più calmo »  (AFI, Lettere, Salata). Cabrini era stato cancellato nel 1929 dall’elenco  dei « sovversivi (cfr. la voce di A. Rosada in F. Andreucci - T. Detti,  Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma,  Editori Riuniti). Mondolfo, da me interpellato sulla sua partecipazione all’Enciclopedia, risponde.Per la mia collaborazione ho avuto  solo rapporti diretti con Gentile, che era mio amico personale, come antico  condiscepolo a Firenze, e che sempre rimase tale benché io polemizzassi  con lui a proposito di Feuerbach e Marx e di Bruno e Tocco. Ciò non impedî che  egli m'’invitasse a collaborare alla Enciclopedia proprio su un  tema (Bruno) che e oggetto di una nostra polemica.] retto, di voci come Exgels scritta da Manfredi Gravina, alto  commissario per la Società delle Nazioni a Danzica, o da  quello polemico del Marx di Graziani, che mette  in rilievo le censure gravi cui andrebbe incontro ad  esempio la teoria marxiana del valore; esse invece, mentre  ambiscono ad avere un andamento espositivo ed obiettivo,  riflettono al tempo stesso la concezione dell’autore de I/  materialismo storico in Engels e di Sulle orme di  Marx, per cui evidenziano, al di là della « competenza, la  profonda consonanza di Mondolfo con l’impostazione idealistica e gentiliana. Anche se queste voci rappresentano dopo la biografia di Labriola di Dal Pane e  l'edizione Croce de La concezione materialistica  della storia di Labriola, l’esposizione più ampia della teoria  e della prassi del socialismo e del comunismo, è quindi dif-  ficile convenire con l’opinione di chi ha affermato che esse  erano « le fonti più accessibili, senza suscitare sospetti, alle  quali i giovani, che studiavano sul serio, potevano attingere  per cercare una spiegazione e una giustificazione alle con-  tinue denigrazioni che il fascismo faceva di quelle idee e  dei loro movimenti. Per chi studiava sul serio dovette.  avere maggiore efficacia la diretta riproposizione crociana  di Labriola, che non la valutazione mondolfiana della concezione marxista e socialista, profondamente influenzata  dalla lettura di Gentile, e scissa da una positiva considerazione dei movimenti reali. Parlando dell’influenza di LABRIOLA (si veda)  su Mondolfo, Garin ha osservato che in quest’ultimo.  l’equilibrio della filosofia della prassi è tanto insidiato in  E debbo dire che né per questa né per le altre voci si limitò affatto la  mia assoluta libertà di trattazione (unico limite fu quello dello spazio dispo-  nibile), di giudizio e di espressione; né mai mi chiese o propose il minimo  cambiamento, neppure di una virgola. Credo pertanto di dover rico-  noscere che Gentile si mantenne con me al di sopra dei dissensi politici e  filosofici che ci dividevano, e credo che ispirò a criteri ed esigenze di  carattere scientifico i rappotti con i collaboratori, nella sua direzione  dell’impresa dell’Enciclopedia Bassi, Mondolfo nella vita e nel pensiero socialista,  Bologna, Tamari Suggerimenti per una corretta lettura delle voci di Mondolfo ha fornito Garin, Mondolfo e la cultura italiana, in  Filosofia e marxismo nell'opera di Mondolfo, Firenze,  La Nuova Italia, direzione idealistica, da suscitare in lui una sintomatica in-  terpretazione in senso deterministico della concezione dell’autocritica delle cose, che, a parte l’espressione verbale,  aveva ben altro valore. E non a caso , riproponendo sulle pagine della Rivista di filosofia la lettura  mondolfiana del materialismo storico, Levi osserva che la « gnoseologia del calunniato materialismo  storico coincide in alcuni punti fondamentali con quella  di una delle più celebrate correnti dell’idealismo storico,  cioè con la gnoseologia di VICO (si veda), e, infine,  che il concetto marxistico della umwélzende Praxis sembra convenire con quella, che io chiamerei l’orientazione  storicistica del liberalismo. Come non si conosce e  non s’intende se non facendo (ripete Marx con VICO), cosi  non si mutano le condizioni esteriori se non mutando se  stessi, e reciprocamente non si muta se stessi se non mutan-  do le condizioni del proprio vivere, afferma Mondolfo trattando del Muaterialismo storico — sottovoce di Materialismo di Allmayer, ribattezzato « con-  cezione critico-pratica della storia. Dopo aver opposto  alle interpretazioni economicistiche quella di Man, Mondolfo sottolinea infatti il carattere soggettivistico, e quasi  vitalistico, ma non per questo meno deterministico, del  materialismo storico: « Vita che è lotta, in cui né le forme e  condizioni esistenti possono arrestare le forze vive che si  volgono contro di esse, né le forze innovatrici possono  operare se non tenendo conto delle forme e condizioni esi-  stenti, sia pure per rovesciarle e superarle ». Ne risulta un’  accentuazione gradualistica del processo storico, che si rias-  sume nella definizione di Sorel del materialismo storico  come « consiglio di prudenza ai rivoluzionari ».  Manifestazione della continuità della storia, che non    A, Labriola, La concezione materialistica della storia, a cura e con  un'introduzione di E. Garin, Bari, Laterza, Nella voce  Labriola Mondolfo scriveva: «C'è una dialettica della storia e  autocritica delle cose; ma le cose sono la praxis stessa umana  Levi, Um'interpretazione del materialismo storico, in «Rivista  di filosofia ». Anche Levi aveva considerato sbagliato il termine « materialismo storico.] conosce fratture rivoluzionarie — nel progresso, che è  incremento, non è il caso di andar cercando assoluti cangiamenti qualitativi ossia creazioni di novità assolute e senza  precedenti, aveva affermato Mondolfo sulla base del pensiero di Bruno, in discussione con Barbagallo  , è la stessa storia del comunismo e del socialismo: i due  termini sono dilatati cronologicamente fino a comprendere  l’antichità. Ciò vale in primo luogo per il comunismo, che    non è soltanto programma di rivendicazione e d’azione di una classe  proletaria, ma si presenta nella storia anche come stato di fatto,  dovuto sia alla primordialità indifferenziata della società umana, sia  a necessità belliche (Lipari), sia ad ascetismo religioso che svaluta i  beni terreni e reprime il desiderio del possesso individuale (es.,  comunità monastiche), e può anche essere un ideale etico-politico di  società, che voglia eliminati gli interessi particolari fonte di conflitti,  per la solidale ricerca del bene comune (come in utopie antiche e  moderne) (Socialismo). Il comunismo, mentre è in certe forme storiche estra-  neo alle esigenze socialistiche di elevazione ed emancipazione di classi, nella società contemporanea rappresenta  la forma estrema del socialismo, che alle altre si oppone per  il radicalismo dogmatico del suo programma, per la fede  nell’efficacia risolutiva della violenza, per la decisione rivoluzionaria della sua azione, e trova espressione nella  dottrina — più mista di bakuninismo, blanquismo e sindacalismo, che aderente al marxismo — professata dai socia-  listi maggioritari (Comunismo).Ma anche per  [Mondolfo, Razionalità e irrazionalità della storia. Per una visione  realistica del problema del progresso, in Nuova rivista storica A proposito di BRUNO (si veda) Mondolfo scrivea Gentile. Vedrai dal manoscritto che le mie opinioni sulla  distinzione delle fasi del pensiero bruniano, fatta da TOCCO, si sono modificate per cedere il posto allo sforzo di coglierne l’unità e continuità, pur  fra le contraddizioni ed oscillazioni (AEI, Lettere, Mondolfo). La concezione critico-pratica del marxismo — conclude la  voce —, che per ogni esperimento storico domanda la maturità delle condizioni oggettive e soggettive, non risulta per ora smentita dall’esperienza,  in favore della concezione blanquistica, che tutto riduceva alla conquista  del potere. E le difficoltà, che rendono tempestoso il cammino della rivoluzione bolscevica, non lasciano prevedere ancora a quale porto essa sia  destinata ad approdare ». Per i giudizi di Mondolfo sulla Rivoluzione  d’ottobre cfr. Studi sulla rivoluzione russa, Napoli, Morano, il socialismo è necessario risalire all’antichità classica e al  cristianesimo, « contro l'opinione dei non pochi studiosi  che dichiarano il socialismo sviluppo esclusivamente mo-  derno, prodotto della doppia rivoluzione — politica e industriale — con cui si passa dalla società  feudale alla capitalistica » (Socialismo). Già prima della duplice rivoluzione una tappa decisiva per lo sviluppo del  socialismo e del comunismo moderni è costituita dal pensiero degli illuministi, Montesquieu e Turgot in primo  luogo. E l’elemento costitutivo del socia-  lismo era individuato da Mondolfo nella buzzanitas, cioè  nella « affermazione storica più vasta e universale di quella  coscienza e dignità della persona umana in quanto tale, che  è l’essenziale concetto di Rousseau, inspiratore degli immortali principi della rivoluzione francese 2%, ora la sua  essenza è vista in quella esigenza morale di libertà, di  affermazione e sviluppo della personalità umana nel lavoratore, che costituisce la forza viva e il valore etico del  socialismo moderno, con le sue rivendicazioni di autonomia  dei lavoratori e di eliminazione delle differenze di classe (Socialismo).  Scissa da una precisa identificazione con un movimento  reale, la concezione socialista consiste in ultima analisi in  una generica aspirazione alla giustizia che percorre, in forme  diverse, tutta la storia dell'umanità: era una presentazione  che, indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, poteva  trovare punti di convergenza, o quanto meno di confusione,  con quella fatta dalla voce Fascismo, secondo la quale, colpito il socialismo nei suoi due capisaldi del materialismo  storico e della lotta di classe, « di esso non resta allora che Sul rapporto di continuità-rottura fra illuminismo e storicismo cfr.  quanto Mondolfo scrive nella voce Helvétius. Osserverà Marx contro  Owen, discepolo di Helvétius: “l’educatore stesso deve venire educato. Il coincidere del variare dell'ambiente e dell’attività umana può essere  inteso razionalmente solo come praxis che si rovescia”, ossia come concreto processo dialettico della storia, in cui di continuo l’effetto si converte in causa e l’uomo non è prodotto passivo, ma antitesi operosa alle  condizioni esistenti. La contraddizione in cui Helvétius resta impigliato  si risolve nello storicismo.  Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici, introduzione di Bobbio, Torino, Einaudi l'aspirazione sentimentale — antica come l’umanità — a  una convivenza sociale nella quale siano alleviate le soffe-  renze e i dolori della più umile gente. Il socialismo come umanesimo universalistico, già affermato in polemica con Rosselli, fino ad accettare la trasformazione  della lotta di classe in collaborazione di classe, trova nell’Enciclopedia una delineazione concreta nella trattazione  del movimento operaio italiano. Lo smarrimento e la confusione sorgono più gravi nell'immediato dopoguerra,  per l’irruzione improvvisa di masse caotiche nelle organizzazioni a portarvi l’ondata dei malcontenti incomposti e la  suggestione del mito russo: il rivoluzionarismo delle nuove  reclute sopraffà d’un tratto i vecchi cauti condottieri. Ma  questo sindacalismo rivoluzionario è presto sgominato dal-  l'insorgente sindacalismo fascista; la nuova legislazione si  avvia grado a grado a convertire il sindacalismo in corporativismo, che al principio della lotta di classe sostituisce  quello della solidarietà nazionale. Con la Carta del lavoro il  corporativismo fascista afferma recisamente la dignità e la  nobiltà del lavoro e l’importanza e i diritti della classe operaia. I fini universali del movimento operaio si realizzano  nel potenziamento della nazione: La stessa lotta contro il capitalismo avido di profitti è affermazione di un più alto concetto della ricchezza: non privilegio e dominio, rientrante nella sfera dell’arbitrio individuale, ma bene sociale  che deve essere usato e volto a fini di utilità nazionale. E nell’atto  stesso che le rivendicazioni operaie hanno portato a una limitazione  dei profitti capitalistici, hanno anche impresso all’industria e all’agricoltura un fecondo impulso di rinnovamento, che ha significato un  accrescimento della produzione e, quindi, un elevamento generale    Mondolfo, Ursanismo di Marx, Sulla base  di un ampio esame degli scritti di Mondolfo, Marramao ha affermato  che « saranno proprio le categorie di coscienza di classe e di rovesciamento della prassi i cardini teoretici della difesa ad oltranza della collaborazione, e che è sintomatico come il nostro autore trascorra dal  concetto di totalità della classe a quello di collaborazione, logica  conseguenza politica dell’universalismo che si realizza progressivamente  nella “coscienza di classe  (Marxismo e revisionismo in Italia, dalla  « Critica sociale » al dibattito sul leninismo, Bari, De Donato, delle possibilità e dei tenori di vita nazionali (Operaio movimento, In questo modo le contraddizioni sociali si annullano,  e ai fini della produzione e della distribuzione della ric-  chezza nazionale il movimento operaio viene a svolgere una  funzione analoga a quella delineata da Michels per  Li LI , di equilibrato rafforzamento di tutte  e classi:    È evidente, in realtà, che dall’impetialismo economico possono  nascere, per le classi inferiori, vantaggi effettivi anche dal lato del  consumo, qualora esso abbia per effetto l’incremento dell’importa-  zione di materie di prima necessità il cui buon mercato faccia  calare i prezzi locali aumentando correlativamente la capacità d’acquisto dei salari e dei piccoli redditi. Gentile, Volpe e il nazionalismo storiografico Se operiamo un’altra verifica nel settore storico, con  particolare riguardo alla storia italiana moderna e con-  temporanea, troviamo confermata l’impressione che il rapporto fra gli intellettuali e le scelte politiche o politico-cul-  turali del periodo fascista sia stato assai stretto e passasse  attraverso mediazioni culturali che sono precedenti al fascismo ma che col fascismo si chiariscono, come nel caso di  Volpe; e ciò vale anche per quegli intellettuali che, per  abito scientifico o per temi studiati, sono stati considerati  più lontani da una compromissione con l’ideologia del fascismo. Lo stesso Momigliano, che alle voci sto- [In Sindacalismo Mondolfo afferma: Del sindacalismo  rivoluzionario parve per un momento allo stesso Sorel figlia la rivoluzione  dei Sovieti, coi consigli degli operai e contadini; ma ben presto è apparso  evidente che tutto quanto il sistema sindacale è posto in essa sotto la  ferrea direzione e dominazione dello stato. E nell’affermazione del valore  supremo dello stato è agli antipodi del sindacalismo rivoluzionario anche  il sindacalismo fascista, imitato poi dal socialnazionalismo tedesco. Nel  concetto fascista rivive l’esigenza dei valori eroici, rivive il concetto di  una società di produttori, in cui l’uomo è cittadino in quanto produttore;  ma è respinta la lotta di classe: i sindacati di datori e prestatori di lavoro  sono unificati nella corporazione, tutte le corporazioni nella nazione, la  cui personalità morale si riassume nello stato.] riche dell’Exciclopedia dette un larghissimo contributo e fu  in stretto contatto con gli storici che vi lavoravano, ha  parlato di un bilancio in perdita » per tutto quel gruppo  di storici, fatta eccezione per Cantimori e Chabod?: osservazione probabilmente troppo drastica, ma che invita ad un  approccio alla storiografia del periodo fascista non solo in  termini di pura storia delle idee; anche attenendosi a questo  solo piano, comunque, da un esame di alcune voci vedremo  che molteplici sono le influenze che agiscono su storici come  Chabod e Maturi, per i quali le testimonianze e gli studi  hanno finora valorizzato esclusivamente l’insegnamento di  Croce. Non è infatti possibile non tener conto del quadro complessivo di cui fa parte lo stesso settore storico dell’Erciclopedia, cioè di quella vasta opera di organizzazione della  cultura storica che si ebbe durante il fascismo e che attende  ancora di essere studiata. Protagonista ne fu, per la storia  moderna e contemporanea, Gioacchino Volpe, che riuscî a  coinvolgere pienamente nei suoi programmi di lavoro anche  storici che, come Morandi, avevano già manifestato un diverso e autonomo orienta-  mento culturale, e che sotto la sua guida, o negli istituti,  nelle riviste e nelle collane da lui diretti, si dedicarono a  una intensa attività di ricerca in campi diversi — per poi  concentrarsi attorno alla storia della politica estera italiana,  in un momento in cui l’imperialismo fascista esaltava la  politica di potenza dello stato  —, risentendo in varia  misura dell’« eclettismo » storiografico e di singoli giudizi  di Volpe. Negando contro l’opinione di Maturi  l’esistenza di una svolta nella storiografia italiana, Ottokar lamenta la persistenza dei vecchi preconcetti  della scuola giuridico-economica (È illusione credere  che la formula del materialismo storico sia superata nella  produzione storiografica odierna), e indicava a modello  Volpe, fin dall’inizio del secolo « sostanzialmente immune  Momigliano, Appunti su Chabod storico, Cfr. le osservazioni di E. Ragionieri, Carlo Morandi, in « Belfagor, da questi semplicismi materialistici, perché sembra che  nel marxismo egli abbia soprattutto sentito la parte più  profonda e pit feconda, vale a dire l’idea dell’unità e dell’interdipendenza, e non l’esagerazione delle antitesi e dei contrasti che porta ad una visione isolatrice e materializzatrice. Comunque si voglia giudicare la storiografia di  Volpe, nel segno della continuità o del cambiamento, nel  periodo fascista essa si propose effettivamente come modello di una storiografia politica di impronta nazionalistica ed esaltatrice dello Stato-potenza, pur mantenendo  alcuni « residui » del precedente interesse per la storia  sociale. Essa ebbe modo di imporsi attraverso gli istituti  storici di cui magna pars fu Volpe, impegnato fra l’altro a  dissolvere anche istituzionalmente la storia del Risorgi-  mento nella storia secolare della nazione italiana sorta  col Medioevo, pur se a questo programma fece resistenza  la Società nazionale per la storia del Risorgimento: la  Scuola di storia moderna e contemporanea, collegata fin  dalle origini con il COMITATO NAZIONALE PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO, si propose infatti la pubblicazione  delle fonti di storia italiana, programma che fu fatto proprio dal Comitato sotto  la direzione di Gentile, per poi passare all’Istituto storico italiano per l’età moderna e con-  temporanea che assorbi il Comitato. Oggi infatti — scrive Gentile riecheggiando Volpe —  il quadro della storia del Risorgimento italiano, malgrado la superstite specializzazione di alcuni suoi cultori, si slarga; e comprende  non solo gli immediati antecedenti del secolo delle riforme, ma tutta  la storia moderna d’Italia dal declinare di quella frammentaria vita  comunale, che è il primo erompere della vita nazionale ancora in- [Ottokar, Osservazioni sulle condizioni presenti della storiografia in Italia, in « Civiltà moderna », Inte-  ressanti notazioni sul rapporto Volpe-materialismo storico anche in Volpicelli, Volpe, in La Fiera letteraria. Cfr. Cervelli, Volpe, cit., e le mie osservazioni in  Il problema Volpe, Una prima riflessione su questa complessa rete organizzativa è  stata fornita da S. Soldani, Risorgimento, ne Il mondo contemporaneo,  Storia d’Italia, Firenze, La Nuova Italia, conscia e incurante della propria unità e ignara di ogni esigenza di  organizzazione, fino alla formazione del regno d’Italia e alla prima    grande prova della sua volontà e della sua potenza nella guerra mondiale. Le sezioni enciclopediche su alcune delle cui voci ci soffermeremo, quella di Storia medievale e moderna diretta da Volpe, e quella di Storia del Risorgimento diretta da Menghini — legato a Gentile anche per altre  iniziative editoriali, come la collana « Studi e documenti di  storia del Risorgimento di Le Monnier —, si presentano  come uno dei frutti di questa vasta opera di organizzazione  culturale, e videro impegnati quasi tutti gli storici che  prestavano la loro opera negli istituti di ricerca del regime.  Con ciò non si vuol dire che questi intellettuali si ridussero  a « funzionari » del regime”, ma solo indicare la loro  relativa omogeneità raggiunta negli anni ’30 e la permea-  bilità di molti di loro all’ideologia nazionalistica propagan-  data dal fascismo — e che nell’Enciclopedia si manifestò  nel larghissimo spazio concesso alla storia di Roma e a  quella d’Italia —, pur nella varietà delle influenze sul  piano del metodo e dei giudizi: per cui la presenza della  lezione crociana non è di per sé un segno, in molti casi, di  differenziazione ideologica dall’orientamento nazionalistico.  Sul piano metodologico nell’Enciclopedia, come in quasi  tutta la storiografia italiana del periodo, trionfa quella concezione idealistica, sia etico-politica alla Croce sia « reali-  stica alla Volpe, che aveva trovato un  elemento unificatore nel concetto di «classe politica ».  « Sul concetto di classe politica — osserva Maturi —, inteso eticamente o realisticamente, sono tutti  d’accordo: Croce e Gentile, Salvemini e Ottokar. Ad esso  si riduce in fondo anche il concetto di nazione nel Volpe,   Prefazione di Gentile all’Annuario del Comitato nazionale per la  storia del Risorgimento, Bologna, Zanichelli. Cfr. anche  G. Gentile, Dal Comitato nazionale per la storia del Risorgimento dl R. Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea. Relazione a  S.E. il Ministro della Educazione nazionale, Sancasciano Val di Pesa,  Stianti, Secondo quanto afferma invece M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio Cantimori, Bari, De Donato, ad es. a p. 15. come si vede dal suo libro L'Italia in cammino, ove, al centro della narrazione, è l’analisi dei ceti dirigenti del Risorgi-  mento e della nuova Italia, Non a caso alcuni anni  dopo nella voce Storia Antoni annoverava fra  i rinnovatori della storiografia italiana, accanto a Croce e  Gentile, Mosca e Volpe. È indubitabile dunque che, al di là  di scuole o di parti politiche, agli storici dell’Erciclopedia  fosse ben presente anche la lezione di Croce, come testimonia il fatto che Nicolini, incaricato di  predisporre un piano di voci di storia della storiografia, si  sentisse autorizzato a chiedere consiglio a Croce, che nel-  l’argomento è forse lo studioso più competente di Europa »,  e a proporre per sé una sottosezione di storia della storio-  grafia, in modo che le voci passerebbero sotto gli occhi di  Benedetto. Ma non permette di cogliere la complessità  delle influenze che si esercitarono sui maggiori storici operanti fra le due guerre, ridurre tutto il problema alla questione del metodo e privilegiare quindi l’insegnamento di  Croce, per affermare che l’attualismo gentiliano « nel campo  degli studi storici non esercitava che un’influenza limitata,  e in nessun modo tale da far sf che esso fosse accolto in  prima persona dagli storici migliori della nuova generazione  idealistica » #*. Se spesso, come nel caso di Maturi cui in  particolare si ‘riferisce questa osservazione, il metodo è  quello di Croce, scelte tematiche e singoli giudizi nad  fonti diverse e talvolta contrastanti, e rinviano in molti  casi, come vedremo, a Volpe e a Gentile. Volpe aveva del resto cercato di orientare il lavoro dei  collaboratori della sua sezione suggerendo delle Norme e  criteri per la redazione degli articoli di storia medioevale e  moderna, in cui invitava alla valorizzazione della storia  italiana , ma richiamava anche la necessità — come già    Maturi, La crisi della storiografia politica italiana, in Rivista  storica italiana. AEI, Lettere, Nicolini.   Cosî Salvadori, Maturi, in «Nuova rivista storica. Per alcune considerazioni sugli interventi storiografici  di Gentile cfr. A. Negri, L’interpretazione del Risorgimento di Gentile, in Critica storica. Non apologie, né propaganda, né polemiche. Tuttavia, poiché aveva fatto nel Programma per una storia d’Italia — di combinare storia politica e storia sociale, attenzione per lo Stato e per la vita economica, e avvertiva ditener conto delle implicazioni politiche ed economiche della  storia della Chiesa. Sembra che a queste indicazioni, in cui si intrecciavano le varie componenti della storiografia  volpiana — se pur spicca l’accento posto sulla ricerca dello  Stato anche nell’età comunale —, ci si sia attenuti in molti  casi, ad esempio in alcune voci giudicate esemplari da Cha-  bod nei primi volumi, come Amburgo di Luzzatto,  attento alla vita economica della città, o la Storia dell’America di Doria, dove l’autore si sofferma sulle  caratteristiche della colonizzazione e sulla riduzione in schiaviti degli indios, senza nascondersi gli interessi economici  dei missionari, che in taluni casi furono « piu spietati dei  conquistatori ». Pi in generale, nelle voci dedicate agli  Stati non italiani — che costituirono un banco di prova si tratta di una Enciclopedia Italiana, ai collaboratori incaricati di trattare  la storia degli altri paesi si chiede che si compiacciano di dar rilievo a  quella che può essere stata la ripercussione di avvenimenti e personaggi  italiani su la vita dei paesi stessi ». Le Norme sono riprodotte in Le  predisposizione del lavoro in una grande impresa scientifico-editoriale.  L'Enciclopedia italiana dell'Istituto Treccani, in L'organizza-zione scientifica del lavoro, Gli articoli sugli Stati, piccoli o grandi, medioevali e moderni,  non siano il quadro delle vicende dinastiche (apposite voci sono dedicate  alle dinastie e famiglie regnanti), né il mero racconto degli avvenimenti  politico-militari, ma presentino la storia politica, largamente intesa, di  una nazione o popolo, ne mettano in luce la struttura economica e  sociale e le vicende demografiche. Un posto maggiore che non le  altre opere simili l’Enciclopedia Italiana darà alla storia delle città, e in  particolare di quelle italiane, specialmente nell’epoca in cui le città furono  centri autonomi di energica vita, piccoli Stati di fatto, se anche giuridicamente limitati. Quindi si devono presentare queste città nel loro nascere o  rinascere medioevale e anche moderno, le forze sociali che in esse si  raccolgono, la loro vita economica, le loro istituzioni, i personaggi più  notevoli, Negli articoli di Storia della Chiesa, che è quasi sempre anche  storia civile e politica, sarà da tener conto dell’uno e dell’altro elemento,  salvo i casi speciali in cui sarà espressamente avvertito che dell’elemento  religioso debba trattare a parte un altro scrittore. Discorrendo di missio-  nari, non si trascurino le finalità, i moventi e i riflessi culturali, econo-  mici, spesso politici e nazionali della loro azione. Degli ordini monastici  si metta in luce l’importanza civile ed economica. Archivio storico italiano,  completamente nuovo per gli storici dell’Enciclopedia —  si può osservare un’attenzione per i molteplici aspetti della  loro storia e un notevole equilibrio di giudizio — come in  Stati Uniti di Sestan e in URSS (anonima) —, anche se,  quando ci si avvicina alle vicende contemporanee (e quindi  soprattutto nell’Apperndice), si avverte l'influenza  della propaganda politica del fascismo: ad esempio occupandosi della Francia di Morandi — che faceva  cosî la sua prima esperienza di commentatore politico, nelle  cui vesti sarà particolarmente attivo sulle pagine  de Il Mondo  — minimizzerà il significato dell’esperienza del Fronte popolare. Quando invece si tratta di valu-  tare i momenti rivoluzionari o i punti cruciali del dibattito  storiografico, si tende a tacere — è il caso della Comune di  Parigi, cui è dedicato appena un accenno da Georges Bourgin (« governo municipale di radicali e socialisti ») sotto la  voce Parigi, storia —, o a evidenziare i motivi ideolo-  gici nella ricostruzione storica, come nelle voci dedicate alla  Rivoluzione francese e alla storia italiana.   Appare naturale che il significato della Rivoluzione  francese sia sottoposto a severa critica nell’Enciclopedia,  data la diffusa polemica, da Croce al fascismo, contro i principi. Né stupisce, pur apparendo in un’opera scientifica, la rozzezza con la quale Francesco Ercole tratteggia  la figura di Danton (La sua crescente influenza sugli elementi più torbidi e inquieti del popolo parigino era  dovuta, non meno alle sue qualità fisiche, alla massiccia  vigoria della persona, alla bruttezza suggestiva del volto  butterato dal vaiolo, alla voce stentorea, che alla suggestione morale esercitata dalla sua consueta audacia di parole  e di gesti. Ciò che interessa notare è invece, da un lato,   Chabod giudicò l’Enciclopedia mezzo e incentivo ad arricchire  gli interessi della nostra cultura, ad ampliare lo sguardo dei nostri studiosi a determinare — sia pure in pochi uomini — volontà e proposito  di affrontare, finalmente, problemi che non siano quelli soliti, cari alla  nostra storiografia. Cfr. anche Gentile, L'Enciclopedia  Italiana, Eppure Bourgin era autore di vari studi sulla Comune, dall’Histoire  de la Commune a Les premières journées de la Commune l'ampiezza dei giudizi negativi su di essa che sono fatti  propri anche da Chabod — « Ma le idee, una volta messe in  circolazione, sfuggono al controllo di chi le crea: e cosî fu  che all’illuminismo, alienissimo dalle violente e aperte rivoluzioni politiche e sociali, s’appellassero quelli che, poco  più tardi, dovevano far sorgere il novus ordo: alquanto  diverso, in verità, da quello auspicato dai filosofi, e grondante di sangue  (Illuminismo); e, dall’altro, la stretta  interscambiabilità fra posizioni scientifiche e ideologiche,  per cui tornano alla mente i contenuti di alcune voci poli-  tiche. L'importanza della Rivoluzione francese nella storia  europea non è certo disconosciuta da Ghisalberti che, dopo aver analizzato le differenti posizioni  delle varie classi sociali nell’89, afferma che essa recò a  termine con la sua violenza l’opera condotta nei secoli dalla  monarchia dell’antico regime e abbatté le sopravvivenze  feudali e le disparità sociali, consacrò l’importanza e la forza  della borghesia, accentuò e unificò il governo e l’amministrazione, accelerò il già iniziato trapasso della proprietà,  rese uguali gli uomini davanti alla legge (Francese, rivoluzione). Anche nella voce Rivoluzione Crosa  cita del resto la Rivoluzione francese accanto alla rivoluzione fascista come « rinnovamento essenziale d’idee e di  principi per cui, o direttamente o indirettamente, si produssero trasformazioni politiche di suprema importanza.  Ma, come in Fascismo si era detto che « il fascismo è contro  tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica; ed è contro tutte le utopie e le innova-  zioni giacobine, cosf Ghisalberti precisa subito la sua valutazione della Rivoluzione francese affermando che mezzo  secolo di dogmatismo ideologico prepara il dogmatismo  democratico dei giacobini »; e, mentre alle critiche all’ordi-  namento sociale fondato sulla proprietà mosse da Morelly  o Brissot contrappone, come « più rivoluzionarie, le proposte dei fisiocratici, coglie il difetto della Dichiarazione dei diritti nel fatto che l’umanità è anteposta alla  Francia, l’individuo alla società: un giudizio che ricorda  quello espresso da Spirito in Liberaliszzo, e che Ghisalberti  ribadisce quando afferma che con la costituzione figlia della paura », «la rivoluzione ha trovato la  sua soluzione borghese e alla disuguaglianza del privilegio  ha sostituito quella del censo, gettando cosi i germi di futuri  conflitti sociali  S,   Il giudizio limitativo dei principi coinvolge naturalmente l’illuminismo e i suoi esponenti, affacciandosi  anche in Illuminismo di Chabod, che pur ne riconosce tutta l’importanza per la storia del progresso umano:  quello che non andò perduto — cosî conclude la voce —  fu il nocciolo stesso dell’illuminismo e cioè l’aver fissato  su basi puramente umane e razionali la vita dell’uomo e dell’umanità. In questa concezione d’insieme — che corona e  completa e sistema definitivamente le prime conquiste del  Rinascimento italiano — è il valore ideale dell’illumini-  smo ». Eppure Chabod insiste anche in altri passi sul collegamento col Rinascimento italiano e, mentre sulla trac-  cia di Philosophie der Aufklirung di Cassirer trascura l’opera dei pensatori sensisti, non nasconde la sua  diffidenza per l’elemento che distinguerebbe l’illuminismo  dal Rinascimento, cioè l’interesse dei philosophes per la dif-  fusione universale della cultura, anche presso quella molti-  tudine che doveva sentirsi facilmente e pienamente appagata dalla chiarezza e  linearità delle idee che le venivano poste innanzi, da una filosofia che  s’appellava alle leggi di una ragione molte volte identificabile col  buon senso comune, e quindi di facilissima recezione, e che in nome  di questa ragione-buon senso bandiva le sue crociate contro certa  storia, vicina o remota: proprio come piace alle moltitudini, per le  quali il senso storico rappresenta il più difficile e complicato del  misteri, e proprio com’era necessario allora, dato il clima storico di  quell’età, Ancora più evidente è il carattere ideologico della ricostruzione storiografica — per cui quest’ultima si trasforma  nell’« apologia » che Volpe aveva invitato ad evitare —  Per trovare una valutazione complessiva della politica di Robe  spierre bisogna ricorrere non alla voce dedicatagli da Francesco Lemmi,   e ne fa il responsabile del carnaio, ma a Terrore di Maturi.   Anche l’opera di Federico II di Prussia è opposta da Chabod al  « dottrinarismo astratto di un Giuseppe II ».  nella voce Italia, scritta proprio da Volpe, da Rodolico, e Ghisalberti. La voce non  affronta esplicitamente, come è stato osservato, il problema dell’unità della storia d’Italia, ma riproduce tuttavia  la periodizzazione posta a base del Programma,  che vedeva profilarsi la nazione italiana fin dall’alto  Medioevo. In essa assai più marcato è però il motivo della  continuità con la storia romana — alla quale, con la prei-  storia, è dedicata la prima parte della voce —, in modo da  far risaltare come l’Italia, culla della civiltà latina e sede  della Chiesa cattolica, abbia avuto fin dall’antichità il privilegio di essere il centro del mondo: è lo stesso Momigliano ad affermare che con la dissoluzione di L’IMPERO ROMANO l’Italia si avviò a una nuova sua storia. La quale continua bensi e  non dimentica quella di Roma e del suo impero, anzi, con la Chiesa,  che continua l’universalità dell'impero, mantiene la sua funzione di  primato spirituale; ma solo dalla caduta dell'impero la storia italiana  si svolge autonoma e con propri destini: la faticosa conquista d’una  forma politica per l’unità nazionale del popolo italiano. L’anticipazione dell’esistenza di una coscienza nazionale  e di una tradizione politica unitaria è in Volpe assai netta,  anche rispetto a suoi giudizi precedenti:nella prefazione al Medioevo italiano, egli coglieva nell’età  comunale « uno dei momenti di più energica fecondità della  storia d’Italia, anzi come l’inizio ricco e promettente di  questa storia, segnato appunto dal sorgere dello Stato (Stato  di città nel Nord e nel centro d’Italia, Stato monarchico e  territoriale nel sud) e della borghesia italiana, e dal delineatsi di un popolo italiano che è creatura nuova e pur  sente lo stimolo a crearsi una tradizione e trovarla in  Roma, nella voce enciclopedica, dopo aver affermato  che già con Odoacre, si ha il restringersi alla sola penisola  del senso politico della parola Italia », Volpe insiste — più    Sestan, Per la storia di un'idea storiografica: l'idea di una unità  della storia italiana, in « Rivista storica italiana, Ora in  Volpe, Storici e maestri, di quanto non avesse fatto Solmi —  sull’importanza del dominio longobardo che « fondò in  Italia una tradizione politica di unità ». Tutta la storia  successiva gli appare un progressivo disvelamento della  coscienza nazionale, soprattutto a partire dal secolo XI c  dalla nascita dei Comuni, e quindi con ALIGHERI e Cola di  RIENZO, con la « crescente unificazione dello spirito ita- liano » promossa dall’Umanesimo,  visto  come un momento del Risorgimento, che è cosa del pasato ed è cosa presente e immanente a tutta la storia italiana, dalla caduta di Roma e dalle invasioni in poi —  afferma Volpe che tendeva appunto a una d ilatazione e  dissoluzione del concetto di Risorgimento —, finché a Vittorio Amedeo II appare chiaro « il fine  ultimo della politica sabauda: che era quello di chiudere le  porte d’Italia a francesi e tedeschi e rendersi signori col  tempo di gran parte della penisola ». Accanto alla precoce  affermazione di una coscienza nazionale, Volpe individua  nel Comune e nel podestà « il delinearsi più netto di un  ente, lo stato che nasce », e sottolinea in più punti, come  aveva avvertito nel Programma per una storia d’Italia, la  « funzione italiana e quasi nazionale che assolve il papato: questa comincia ad apparire già al tempo di Carlo  Magno, ritorna all’epoca di Federico II, per poi affermarsi  con la Controriforma quando « il pontificato romano, nella  lotta al protestantesimo, si mosse nella direzione segnata  dallo spirito del popolo italiano, e l’Italia,  politicamente  divisa, ma unita nella cultura, priva ancora come è di più  intimi e propri centri, si appoggia, nel lento maturare della  sua coscienza nazionale, al papato. Come aveva tratto nel  suo cerchio ideale Roma antica, cosi ora Roma papale, nella  quale vedeva, accanto a una funzione cattolica, anche una  funzione nazionale e italiana. Molti altri aspetti potrebbero essere sottolineati nella  ricostruzione volpiana — come l’ampio rilievo dato alla  rivolta antispagnola  —, mentre non mette conto    Solmi, Discorsi sulla storia d’Italia, Firenze, La Nuova  Italia, soffermarsi sulle parti della voce redatte da Rodolico e  Ghisalberti — improntate a una storiografia puramente  événémentielle e aproblematica, in cui le preoccupazioni  ideologiche si fanno via via prevalenti —, se non per rilevare, nel primo, l’esaltazione del sanfedismo (« pagine di  fierezza di popolo) e della missione nazionale assolta da  Carlo Alberto ancor prima del 1848, e, nel secondo, la  caricatura del peggior Volpe de L'Italia in cammino che si  conclude con una apologia del fascismo. Due contributi,  questi, che non reggono il confronto con la narrazione volpiana, capace in alcuni momenti di presentare la complessità del processo storico e di aprirsi alla considerazione di  aspetti economici e sociali: con più forza nella connota-  zione delle origini del Comune — già Ottokar aveva rile-  vato come esso fosse « composto di elementi economica-  mente e socialmente assai eterogenei » (Comune) —,  ma anche nella valutazione delle basi sociali della Signoria,  per cui Volpe accetta nelle linee generali la tesi di Ercole  della sua origine « popolare » anche se poi opera delle differenziazioni fra Venezia e Firenze e tra le vatie fasi della  storia fiorentina; ma sempre con un certo interesse per la  correlazione tra storia politica e storia sociale, che manca  invece in Giorgio Falco, il quale nella Signoria — un tema  su cui si concentrò l’attenzione di gran parte della storio-  grafia italiana tra le due guerre, in cerca dell’origine dello  Stato moderno e di una nuova classe dirigente — sotto-  linea « la tendenza all’affermazione di potenti individualità » e la prefigurazione della futura storia d’Italia: il  Principe di MACHIAVELLI, infatti, « con la sua esaltazione  della sovrana virt4 fondatrice di stato, liberatrice d’Italia,  riassume i due motivi dell’età delle signorie: ciò che essa  aveva prodotto, lo stato creazione dell’uomo; ciò che essa  aveva invocato, la nazione, ed era il compito dell’avve-  nire » Pizzetti, Chabod storico delle Signorie, Se alla radice delle signorie sta, non di rado — afferma Falco —,  un conflitto di natura sociale ed economica e se, com'è ovvio, gl’interessi  economici hanno parte in maniera generica nell’origine e nello svolgi-    Se infine, in questo assai rapido e incompleto esame del  settore di storia moderna e contemporanea, prendiamo in  considerazione alcuni contributi di storia italiana di due  intellettuali, come Chabod e Maturi, per i quali più spesso  si è sottolineata l’ascendenza crociana, possiamo notare che  nei loro giudizi essi sono largamente debitori di Volpe e  di Gentile e quindi, almeno indirettamente, dell’impronta  nazionalistica di questi ultimi; con ciò non si vuole espri-  mere, com’è naturale, un giudizio generale sull’opera di  Chabod e di Maturi nel periodo fascista — che dovrebbe  tener conto ad esempio, per il primo, e per limitarsi all’Ex-  ciclopedia, anche del contributo su Machiavelli, che nel  suo rigore scientifico si contrappone alla presentazione deci-  samente nazionalistica che ne aveva fatto Ercole —, ma solo contribuire a chiarire le caratteristiche  complessive dell’Enciclopedia come manifestazione cultu-  rale del fascismo.   Accenti nazionalistici sono presenti, infatti, in Rimascimento di Chabod, che pur qui (come nella comunicazione su Il Rinascimento nelle recenti interpretazioni) si preoccupa di negare — in un periodo in cui  assai accese, e non immuni da preconcetti ideologici, erano  le controversie sulla periodizzazione — la continuità col  Medioevo, contestando la tesi di quanti, come Thode e  Burdach, hanno messo in luce « gli elementi storico-ideologici che ricollegano il trionfante movimento dei secoli  XIV e XV ad aspirazioni, credenze, idee dell’età precedente, e di quanti, come Volpe, hanno operato un analogo  allargamento del quadro cronologico mettendo in rilievomento della nuova istituzione, caratteristica di essa, quando riesce a  mettere radice, è essenzialmente l’affermazione e il trionfo di una volontà  politica, una dissociazione dell’esercizio del potere dalle attività della  produzione e dello scambio, dalle organizzazioni di arte e di classe, una  soggezione lenta e progressiva di queste e di quelle agli scopi dell’uomo di  governo, infine, dello stato » (Signorie e Principati,Per alcune indicazioni sul dibattito su Machiavelli nel periodo  fascista cfr. M. Ciliberto, Appunti per una storia della fortuna di Macbhiavelli in Italia: Ercole e Russo, in Studi storici, Ora in Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino, Einaudi,  « gli elementi storico-pratici che collegano età dei comuni  e Rinascimento tradizionale, e hanno prospettato il Rinascimento come il moto stesso di ascesa del popolo italiano,  nella sua coscienza di nazione, nella sua attività politica ed  economica oltre che culturale e artistica, e hanno pertanto  fatto tutt'uno fra Rinascimento e storia del popolo italiano  a partire dal sec. XI ». In realtà il distacco da Volpe si  manifesta soprattutto nella sostanziale esclusione degli  aspetti politici ed economici rilevati da Volpe già in Bizantinismo e Rinascenza, e ancora nella voce Italia,  e nella caratterizzazione kulturgeschichtlich del periodo, per  cui se il Rinascimento è divenuto una categoria storica,  lo è — al pari degli altri e simili concetti di Illuminismo e  Romanticismo — nell’unico significato possibile, e cioè di  un momento storico della vita spirituale europea, di un  periodo filosofico, letterario, artistico, che si origina certo  da una determinata realtà politica e sociale nuova, ma che,  ad un certo momento, si dispiega per cosî dire in modo  autonomo e, tratto da quella realtà il succo vivo di cui alimentarsi, lo elabora poi concettualmente e immaginativamente, ne fa un mondo a sé, mondo di idee di dottrine di creazioni artistiche che si dispiega sino ad esaurimento della sua interiore virtà. Ma nella voce enciclopedica, a  differenza della comunicazione, la distinzione  iniziale tra il Rinascimento e il periodo precedente, affermata nell’analisi delle interpretazioni, è contraddetta quando Chabod passa a enucleare gli elementi costitutivi dell’  epoca. Mentre nega la tesi di un « rinnovamento spirituale  europeo » che si sarebbe verificato in Francia e nei Paesi  Bassi, riprende il motivo della continuità e insiste sul carattere esclusivamente italiano e perfino  nazionale del Rinascimento, preparato lentamente, che vide in Italia lo sviluppo dei Comuni e  della borghesia: Nel Rinascimento, afferma Volpe, «è come se la società italiana,  la borghesia italiana nata dalle città, celebri se stessa riuscita a essere,  da nulla che era, tutto o quasi tutto; come se celebri la signoria e il  signore, che era pur egli, a modo suo, creatura di quella borghesia e, a  modo suo, attuava quell’ideale dell’uomo che si fa da sé » (Italia). E la graduale conquista di un proprio mondo spirituale da parte  di chi aveva, già prima, dato nuove basi alla propria attività pratica  e alla propria vita quotidiana. Era infatti una società nuova, quella ch’era venuta affermandosi nell’Italia, e  specialmente nell’Italia settentrionale e centrale. Come ceio  sociale, era già ben robusto e capace quello che, con termine moderno, chiameremmo borghesia, ormai differenziato nettamente dai  chierici e dai feudatari. Questo gagliardo e irrompente fiotto di  vita nuova trovava presso che subito una sua prima, grande espres-  sione morale e spirituale, ma non sul terreno della cultura cosiddetta  laica, bensf su terreno prettamente religioso.] ora, all’inizio del  secolo XIII, era la società italiana tutta quanta che appalesava le sue  rinnovate esigenze di vita morale nel movimento francescano. Che era il grande apporto della nuova nazione italiana alla storia della    religiosità europea. In questo recupero dell’interpretazione volpiana —  anche Cantimori, sul Dizionario di politica, aveva  individuato nel Rinascimento la presenza di un « senti-  mento nazionale unitario italiano » — il  trasferimento  nell’ambito prettamente umano di idee che prima avevano  trovato la loro ragion d’essere nella fede in Dio è seguito  nel suo lento cammino, che dal francescanesimo porta a  Dante, a Cola di Rienzo, a Petrarca e infine a Machiavelli, cioè attraverso l’erompere delle nuove, giovani forze  che danno vita alla nazione italiana, con una genealogia  che richiama quella proposta da Gentile nella sua ricerca  della nazionalità della filosofia. Per converso, il tra-  monto del Rinascimento si ha, afferma Chabod in un passo  finale della voce in cui già Cantimori ha colto il ripiegare  sul piano della storia nazionale dell’interesse precipuo dello  storico valdostano per il fenomeno europeo e cosmopolitico  del Rinascimento, Cola di Rienzo e oggetto di grande attenzione nel periodo fascista  in quanto espressione — come afferma Falco nella voce a lui dedicata —   lella « coscienza italiana. Cfr. le osservazioni di Garin in Gentile, Storia della filosofia  italiana, Firenze, Sansoni, Cantimori, Chabod storico della vita religiosa italiana, ora in Storici e storia, Analizza la voce,  come « caratterizzazione “spirituale” del Rinascimento, E. Sestan, Rinascimento e crisi italiana del Cinquecento nel pensiero di Chabod,  in Rivista storica italiana, in stretta connessione con l’infiacchimento della vita italiana, con la  iniziantesi decadenza politica ed economica, con il venir meno delle  grandi speranze e della volontà d’azione, in una parola con il tramonto delle forze creatrici che avevano dato alimento ed essere alla  muova civiltà e ne avevano fatto l’espressione piena del vigoroso  sorgere della nazione italiana.    Pit precisa ancora è l’influenza di Volpe e di Gentile  che — accanto a una forte sensibilità per il conflitto tra  ethos e kratos su cui aveva attirato l’attenzione Meinecke  —, si può riscontrare in alcune voci risorgimentali di  Maturi, che pur Volpe giudicherà « liberale, liberalissimo,  come in politica, cosi in storiografia, assai aperto alle in-  fluenze di Benedetto Croce », e tra i suoi allievi  forse il  più distaccato, nell’intimo, dal mondo del fascismo, Tornando a valutare la sua celebre voce Risorgimento, Maturi la presentò come una decisa ri-  sposta alla tesi nazionalistica ?; tuttavia, se è vero che in  essa l’autore si opponeva alla dissoluzione del Risorgimento  nella secolare storia italiana, non è sufficiente limitarsi a  definirla una interpretazione « rigorosamente etico-politi-  ca » senza precisarne le fonti ?. Assai netta appare infatti  la sottolineatura delle origini autoctone del Risorgimento,  L’idea della ragion di Stato di Meinecke era stata fatta conoscere  da Chabod in un articolo (ora in Lezioni di metodo storico, a  cura di L. Firpo, Bari, Laterza), mentre Cosmopolitismo  e Stato nazionale era stato tradotto da La Nuova Italia : sono  testi probabilmente presenti a Maturi, che anche nelle voci enciclopediche  avverte il contrasto tra politica e morale, tra Stato e idea di nazionalità,  soprattutto nella Restaurazione, nella quale «si elaborano da un lato i  concetti di stato forte e di potenza, dall'altro quelli di libertà e di civiltà  (Restaurazione). L’opera degli Svizzeri e dei Tedeschi fu immensa  per la formazione delle coscienze nazionali europee, ma fu opera essen-  zialmente culturale: per fare trionfare in pratica il principio ci volevano  diplomatici e rivoluzionari. Alessandro fu il primo ad agitare  l’idea della nazionalità » (Storia del principio di nazionalità, sottovoce di  Nazione di Battaglia).  Volpe, Storici e maestri, Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in  Cinquanta anni di vita intellettuale italiana, La sua interpretazione è stata fatta propria da E. Sestan, Maturi, in « Rivista storica italiana,  (l’articolo esamina anche le altre voci di Maturi), e da Salvadori, Maturi,  cSalvadori, Walter Maturi, cit., sganciato da ogni rapporto con la Rivoluzione francese.  Ma, allora, avrebbero ragione gli storici francesi, che  fanno ancora risalire alla rivoluzione francese il nostro  Risorgimento, si chiede Maturi una volta confutate le  tesi sabaudista e diplomatica delle origini del Risorgimento:  Ciò che distingue la nostra tesi da quella francese, rappresentata  ancora dal Bourgin, è il valore che noi diamo all’epoca del dispotismo  illuminato e al principio della lotta delle nazioni. Senza le riforme del  Settecento, senza l’insoddisfazione dei nostri elementi regionali pit  intelligenti verso lo stato regionale, senza lo stacco che l’opera rifor-  matrice aveva posto in Italia tra minoranze sovvettitrici di vecchi  ordini statali e masse meccanicamente attaccate a quegli istituti, la  rivoluzione francese non si sarebbe potuta inserire tra le lotte poli-  tiche e sociali italiane e non avrebbe trovato il germe fertile, il  terreno fecondo. D'altro canto le grandi lotte settecentesche tra  Francia e Inghilterra avevano insegnato agl’Italiani la fecondità delle  lotte nazionali.    Diversamente da quanto dirà nel saggio su  Partiti politici e correnti di pensiero nel Risorgimento,  Maturi considera quindi il Risorgimento un movimento che  affonda le sue radici nell’età delle riforme. Anche Volpe aveva sottolineato i Principi di Risorgimento italiano; ma il richiamo a Volpe si fa  ancora più preciso quando Maturi coglie l'elemento propul-  sore del Risorgimento in un piemontese non conformista, Alfieri — col quale « si afferma il primo presupposto  d’una nazionalità: la volontà di essere uno stato-nazione. In Problemi storici e orientamenti storiografici, raccolta di studi  ‘a cura di Rota, Como, Cavalleri, Romeo ha invece scritto: Fermissimo, anzitutto, nel Maturi,  il rifiuto delle posizioni nazionalistiche e, dunque, di ogni tesi sul carat-  tere pre-risorgimentale del Settecento o peggio, sulla funzione risorgimentale dei Savoia; e nessuna adesione,  «di conseguenza, al tentativo di negare il nesso Rivoluzione francese-Risorgimento (Maturi storico della storiografia ora in L'Italia  unita e la prima guerra mondiale, Bari, Laterza. Il pensiero riformatore fu giudicato astratto da Rota, fuorché in Italia,  dove avrebbe avuto carattere «autonomo e nazionale (Riforme, età  delle, Rivista storica italiana (il tema del-  l'articolo era stato anticipato da Volpe al Congresso per la storia del  Risorgimento sulla base del celebre passo di Del principe e delle lettere in cui si auspica che l’Italia, inerme, divisa, avvilita,  non libera, impotente, possa risorgere « virtuosa, magnanima, libera e una: lo stesso passo parafrasato da Volpe  per dimostre che con Alfieri « il lento processo storico che  da secoli veniva costruendo l’Italia diventa veramente  coscienza e volontà. È questo un tema, del resto, che  nell’Enciclopedia circola ampiamente, da Rodolico, che  vede in Alfieri « i primi albori del Risorgimento nazionale »  (Italia), a Manfredi Porena, per il quale il letterato piemon-  tese ebbe con maggior chiarezza di ogni altro suo precur-  sore il concetto dell’unità politica d’Italia fondata sull’indi-  pendenza e sulla libertà, e con maggior ardore e fiducia la  profetò (Alfieri). Ma le date e il linguaggio di  queste voci ci suggeriscono che all’origine dell’interpreta-  zione di Maturi non c’è soltanto Volpe; e se pensiamo alle:  altre tappe della creazione del mito risorgimentale, tutte  segnate da letterati, da Foscolo a Cuoco, ci accorgiamo che  la matrice è il Gentile de L'eredità di Alfieri, I  profeti del Risorgimento italiano, Vincenzo Cuoco. Cuoco — scrive Maturi riprendendo la genealogia gentiliana  della « nuova Italia — accolse tutto l'insegnamento che si poteva  cogliere dalla rivolta delle plebi italiane e predicò come dovere morale l’opera di colmare l’abisso tra popolo e minoranze intellettuali.  E un altro grande contributo portò il Cuoco al concetto di Risorgi-  mento: il culto del VICO (si veda). Se Alfieri insegnò agl’Italiani ad agire in  grande, Vico insegnò loro a pensare in grande; se con l’Alfieri l’Italia  s’individuò come volontà di essere stato tra gli stati europei, col  Vico acquistò coscienza di avere una propria personalità nella cultura  europea. Dalla fusione delle dottrine di questi due grandi nacque la  nuova Italia, pensante e operante con una sua particolare fisionomia.  nel seno dell'Europa. Può essere curioso notare che, pur polemizzando  con l’interpretazione autoctona di Gentile, anche Gobetti aveva visto in  Alferi l’iniziatore di «un Risorgimento e un liberalismo che ben si può  dire originale, e in cui si trovano le premesse della nuova cultura politica italiana » (La filosofia politica di Vittorio Alfieri, tesi di laurea in  filosofia del diritto discussa con Solari, ora in P. Gobetti, Scritti  storici, letterari e filosofici, a cura di Spriano, con due note di Venturi e Strada, Torino, Einaudi). Anche per Battaglia Cuoco aveva avuto il merito di mettere in  circolazione Vico, in particolare «quella posizione storicistica, che in  Se quindi Maturi rifiuta la tesi sabaudistica e quella  diplomatica delle origini del Risorgimento, è per costruirne  un’immagine etico-politica che rinvia a Gentile, ma anche  a Volpe. Non è del resto possibile dimenticare che non di  vero e proprio antisabaudismo si tratta nel caso di Maturi,  uno dei « patiti » del Piemonte ?”. Nell’ampia voce Savoia, il giudizio positivo sull’opera di riorga-  nizzazione dello Stato di Filiberto e di Emanuele I diventa entusiastico per il ’700 (« Da molte-  plici punti di vista lo stato sabaudo nel Settecento appa-  riva uno stato perfetto »), mentre Carlo Alberto è definito  « un principe paterno modello » e la sua opera prima del  1848 è qualificata come nazionale; per cui sembra corretta  la critica che di lf a poco Cortese muoverà a  Risorgimento di Maturi (« non crediamo che ci siano ele-  menti che ci autorizzino a fare della classe politica piemon-  tese della fine del Settecento la creatrice del mito del Risorgimento nazionale.   Un altro motivo che torna anche in alcune voci enciclo-  pediche di Maturi, laureatosi in filosofia con Gentile con  una tesi su De Maistre, è quello della religione e dei suoi  rapporti col potere politico. Proprio nell’opera di De Mui-  stre egli coglie « i primi germi di alcune eresie: del moder-  nismo con i suoi accenni all’evoluzione dei dogmi e delle  credenze religiose; del nazionalismo francese di Ch. Maur-  ras con la sua eccessiva Politisierung della Chiesa nel Du  a », e, più in generale, in Restaurazione nota  che    per rendere più docili le nuove generazioni e amalgamarle con le  vecchie non si seppe pensare ad altro mezzo che all’educazione eccle-  siastica e si commise l’errore di abbassare la Chiesa a instrumzentum  regni in un’età di delicatissima sensibilità etico-religiosa, con l’unico    parte si fonde con la filosofia antilluministica », e aggiungeva che « l’opera  sua resta nei limiti della tradizione nazionale, che egli riconquistò alla filo-  sofia ed elaborò con alta coscienza, tanto che al suo insegnamento si ricolle-  garono gli uomini del Risorgimento: Mazzini e Gioberti stesso Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, Cortese, Orientamenti storiografici intorno alle origini del Risor-  gimento, in Problemi storici e orientamenti storiografici,  frutto di provocare per reazione la genesi del cattolicesimo liberale e  d’insinuare con esso il nemico nella cittadella religiosa del passato.    Queste affermazioni non sono tuttavia univoche, come  dimostra — oltre alla valutazione positiva dei Patti lateranensi (Romana questione) — il giudizio sul Neoguelfismo, che    trasformò in sentimento politico nazionale il sentimento politico  locale, facendo confluire nella cultura nazionale le culture regionali,  e quindi compî, sotto certi aspetti, un’opera d’educazione nazionale  maggiore di quella di Mazzini, perché operava dal seno stesso delle  vecchie formazioni statali italiane e ne produceva la crisi morale. Del  neoguelfismo, restò, trasformandosi ed evolvendosi, il liberalismo  nazionale o partito moderato col nuovo ideale d’Italia e casa Savoia,  elaborato dalla storiografia piemontese; restò il cattolicesimo nazic-  nale, che abbandonò le idee di riforma cattolica, si restrinse ad aspi-  rare alla conciliazione tra il papato e la patria italiana e ha visto  realizzato il suo sogno dalla nuova politica ecclesiastica di B. Musso-  lini; restò l’ideale del primato, che è stato ripreso dal fascismo  Dove in quel « si restrinse » traspare comunque una  posizione laica, alla quale fa riscontro per alcuni aspetti il  giudizio su Gioberti di Saitta, il direttore  di Vita nova che ospitò, come vedremo, alcune critiche  alle voci religiose dell’Enciclopedia: un Gioberti a propo-  sito del quale, in linea con l’interpretazione gentiliana ?°,  non si cita mai la funzione da lui assegnata al pontefice, ma  è visto come l’esponente di una « visione laica e democra-  tica » e « il maggior teorico del liberalismo, che è in anti-  tesi col mazzinianesimo antimonarchico e col guelfismo dei  conservatori che consigliavano il re ad una politica di mode-   Di Sanctis Maturi evidenziò gentilianamente il fatto che,  « vichiano, senti il valore della religione per il popolo, ma criticò fino in  fondo il principio della libertà ecclesiastica e molto si adoperò, di con-  serva col Mancini, per far mantenere nel sistema separatista italiano  alcune cautele giurisdizionaliste. Comprese, invece, la funzione dialettica,  altamente educativa per ambo le parti, d'un insegnamento religioso coesi-  stente con quello laico.] Gentile parla di «un incessante svolgimento del programma gio-  bertiano verso quella concezione nettamente laica e democtatica, o in una  parola, liberale dello Stato, innanzi alla quale i neoguelfi ricalcitrano »  (I profeti del Risorgimento italiano, Firenze, Vallecchi.] razione e di prudenza, la quale si risolveva nella diserzione  dalla causa nazionale », ed è esaltato per il suo « tentativo  di conciliare la spiritualità dello stato con la spiritualità  della chiesa ». Busnelli, un critico severo dell’  attualismo che troviamo fra i collaboratori dell’Enciclo-  pedia, recensendo su « La Civiltà cattolica » i primi volumi  dell’opera notava con compiacimento, come abbiamo visto,  che i suoi direttori, « mentre lasciano agli scrittori la piena  libertà d’esprimere il concetto cristiano e cattolico e il giudizio dei fatti secondo il criterio della soda indagine ecclesia-  stica, promettono di invigilare che anche in altri articoli in-  direttamente attinentisi alla religione cattolica e alle materie  ecclesiastiche non vengano sostenute o insinuate sentenze o  critiche contrarie o malfondate. Il giudizio rispecchiava  il posto privilegiato riservato nell’Enciclopedia ai cattolici,  l’unica voce organizzata non completamente omogenea con  la cultura del fascismo quale era auspicata da Gentile, ma  tale, per ampiezza e incisività, da caratterizzare nettamente  l’opera nel suo complesso, che non può perciò essere quali-  ficata solo come idealista o attualista. Questo aspetto non  è stato messo nel dovuto rilievo dai testimoni di allora,  nemmeno da quanti hanno ammesso la presenza della  censura ecclesiastica ??; del resto nelle stesse ricostruzioni  generali della cultura nel periodo fascista solo di recente —  se prescindiamo dalle Cronache di Garin — è stato messo  l'accento sull’intervento dei cattolici come componente es-     Busnelli], L’« Enciclopedia Italiana », in La Civiltà cattolica. Busnelli aveva pubblicato. I  fondamenti dell’idealismo attuale esaminati.   Cosî Vida, Fantasmi ritrovati, e Calogero, Mussolini, la Conciliazione e il congresso filosofico in «La Cultura. Sulla tematica affrontata in  per pagine cfr. M. De Cristofaro, Le voci di argomento religioso nel-  °Enciclopedia italiana, tesi di laurea presso la Facoltà di Lettere e Filo  sofia di Firenze, anno acc. senziale del regime, anche se in concorrenza con l’attualismo. Ma l’esistenza di una loro  vasta organizzazione intellettuale e il loro incontro con  altri settori conservatori della cultura laica sono forse rav-  visabili già prima del Concordato. Proprio le vicende del-  l’Enciclopedia suggeriscono infatti una prospettiva di più lungo periodo, capace di individuare le tappe  decisive della « riconquista » cattolica anche in campo culturale — in un confronto continuo con la cultura laica con-  temporanea — nell’iniziativa neoscolastica all’indomani  della sconfitta del modernismo, nella prima guerra mondiale  che offri ai cattolici numerosi spazi di intervento in tutti i  settori della società, e nella soluzione della crisi Matteotti,  in cui anche Pietro Scoppola ha visto l’origine di un regime  clerico-fascista Le osservazioni sul Concordato e sui neoscolastici svolte  da Gramsci nel breve periodo che intercorre fin allal messa all'indice delle opere di Croce e di Gentile*, possono probabilmente essere anticipate di alcuni  anni, al momento in cui, nell'immediato dopoguerra, il  celebre appello di Gemelli al « medioevalismo » — « Noi  siamo medioevalisti; lo siamo perché riconosciamo che la  cosî detta cultura moderna è il nemico pit fiero del Cristia-  nesimo e perché riconosciamo che è vano parlare di adattamenti, di penetrazione » ?° — diventa prospettiva concreta  di attacco in tanti interventi di cattolici, fra cui spicca per    L. Mangoni, Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo:  la rivista « Il Frontespizio », in Modernismo, fascismo, comu-  nismo, a cura di Rossini, Bologna, Il Mulino. L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari,  Laterza, e Ranfagni, I clerico fascisti. Le riviste dell'Università  Cattolica negli anni del regime, Firenze, Cooperativa editrice universitaria. Su un altro aspetto, non meno importante, cfr. S. Pivato, L’orga-  nizzazione cattolica della cultura di massa durante il fascismo », in « Italia  contemporanea. Scoppola, Sviluppi e differenti modalità della presenza cultu-  rale e politica dei cattolici nelle vicende italiane, in  «Quaderni di azione sociale » Gramsci, Quaderni del carcere. L'articolo è riprodotto in A. Gemelli, Idee e battaglie per  la cultura cattolica, Milano, Vita e pensiero] chiarezza l’invito rivolto da don Giuseppe De Luca allo  stesso Gemelli:    Nelle nostre file s'è troppo indugiato sulla difesa. Che fanno oggi  i cattolici studiosi se non difendere dagli attacchi dei nostri nemici?  Perché non occupare noi primi le scienze, le lettere? Perché non  dar neppure il motivo agli avversari? Pigliamo la cultura, e studia-  mola e facciamola nostra: quali timori? Una università cattolica, non una chiesuola; o meglio ancora dare degli elementi vigorosi  e inserirli negli istituti laici. Si assiste infatti a uno sforzo cospicuo  dei cattolici di organizzare una propria cultura per il clero  e per il laicato: dal rilancio del tomismo prospettato dal-  l’enciclica Studiorum ducem — che troverà una  espressione organizzativa nella costituzione Deus scientiarum dominus —, alle tante iniziative che — come  l’Università cattolica o la fondazione della casa  editrice Morcelliana — si ispirano al suggerimento di Gemelli, secondo il quale « perché i cattolici italiani abbiano  da esercitare una influenza culturale, quale la tradizione  cattolica in Italia rende possibile, è necessario innanzitutto  che i cattolici non siano reclutati solo nelle classi popolari,  ma anche nelle classi elevate. Gentile aveva cominciato ad avvertire il  pericolo della concorrenza cattolica’, che diventerà sua  preoccupazione costante. Eppure proprio nel-  l’Enciclopedia da lui diretta egli aveva dovuto accettare  fin dall’inizio la presenza condizionante dei cattolici, fino a  perdere ogni controllo sulle sezioni « Religione » e Storia  del cristianesimo, e a conferire uno spazio larghissimo a  « Materie ecclesiastiche » di Tacchi Venturi e a « Geografia  sacra » di Luigi Gramatica. La vicenda di Omodeo, cui    Luca et l’abbé dr Bremond,  Roma, Edizioni di storia e letteratura, Gemelli, I/ compito colturale dei SE, in Idee e battaglie, Le università cattoliche dovrebbero, secondo loro, col tempo e  col favore di Dio, sostituirsi interamente alle università laiche dello  Stato » (discorso al Congresso di cultura fascista di Bologna, in Gentile, Che cosa è il fascismo. Gramatica, direttore della Rivi-   L’Enciclopedia italiana inizialmente era stata affidata la Storia del cristianesimo,  è indicativa del tentativo di Gentile — affiancato da altri  direttori di sezione — di contrastare l’offensiva ecclesiastica, ma anche della sua sconfitta.   La scelta di Omodeo da parte di Gentile era coerente  all'impostazione critico-storica che la direzione avrebbe  voluto dare alla trattazione di tutte le voci; ben note erano  del resto le aspre critiche che da parte cattolica avevano  accompagnato gli studi di Omodeo sul cristianesimo antico,  come il Paolo di Tarso, giudicato dalla « Civiltà.  cattolica » opera di un « compilatore di seconda o terza  mano. La sua rivendicazione della storia del cristianesimo e in genere della vita religiosa come storia etico-civile, come storia della società umana, da studiare, ricer-  care e ricostruire prescindendo da preoccupazioni confessionali di ogni genere » *%, non era infatti tale da accatti-  vargli le simpatie degli studiosi cattolici; la sua imposta-  zione idealistica e storicistica era avversata anche da Buo-  naiuti che, pur giudicando la Mistica giovannea un sensibile progresso sulla precedente produzione del-  l’Omodeo », la considerava tuttavia «una mal digesta    sta illustrata della esposizione missionaria vaticana », aveva chiesto a  Gentile di affidargli la Geografia sacra: Per Geografia Santa o  Sacra io non intendo solo la Geografia Biblica o la descrizione dei paesi  che immediatamente o mediatamente prepararono la diffusione del Cristianesimo; ma intendo parlare altresi di tutte le regioni o località del mondo  in rapporto al governo della Chiesa e in quanto sono assegnate alla  cosiddetta geografia sacra » (AEI, Lettere, Gramatica). Sanctis scrivendo ad Antonino Pagliaro, redattore della  sezione Antichità classiche, si dichiarava deluso dell’elenco di voci di  « Geografia sacra »: « mi pare che non si tratti se non di geografia ecclesiastica, cioè l’indicare Stato per Stato le circoscrizioni ecclesiastiche, il  numero dei preti e dei fedeli ecc. Invece sarebbe stato bene che la  geografia sacra registrasse i centri importanti di culto, i luoghi di pelle  grinaggio, i luoghi famosi nella storia evangelica o nella storia della  Chiesa » (AEI, Lettere, De Sanctis. Intorno a un libro su S. Paolo del prof. A. Omodeo, in «La  Civiltà. Cattolica. Di «retorica romanzesca » era tacciato anche il volume di Omodeo su  L’età moderna e contemporanea (Storicismo socialista e fantasie retoriche  e modernistiche, in « La Civiltà cattolica », Cantimori, Commemorazione di Omodeo, ora in  Storici e storia, accozzaglia di elementi eterogenei ed avventizi. Le  preoccupazioni cattoliche erano giustificate anche dall’orientamento che Omodeo avrebbe voluto dare alla sezione enciclopedica, puntando essenzialmente su collaboratori laici in  modo da salvaguardare un approccio critico-storico ai problemi. Egli scriveva a Gentile che  « molte voci, anche quelle di sapore strettamente ecclesia-  stico non si possono neanche affidare a preti, senza il pericolo di perdere l’informazione sugli studi critici e protestanti, e per converso non si possono affidare neppure a  protestanti sia italiani che stranieri », pur aggiungendo che  si sarebbe rivolto al gruppo di « Bilychnis » per la storia  protestante e a Loisy per la storia della critica e la storia  del canone Gentile approvava, ma lo avvertiva che, mentre la trat-  tazione dei papi sarebbe spettata alla sezione diretta da  Volpe, « dei Sanzi, salvo contrario avviso, penserei dare la  cura ad ecclesiastici, con cui sono in trattative. Largo  restava comunque l’intervento dei laci nelle voci di storia  religiosa ®*; le stesse voci riguardanti dottrine teologiche,  riti e culti, aggiungeva Omodeo avrebbero bisogno d’una trattazione “laica” anche quando  pare si riferiscano a concetti teologali o liturgici, pur, ben  inteso, rispettando quelle norme di prudenza ed obiettività  di cui abbiamo parlato. Il piano delle voci e dei collaboratori era completato, Omodeo poteva già presentare un abbozzo della voce  Apostoli, che poi corresse seguendo il consiglio di Gentile  Ricerche religiose. Gentile-A. Omodeo, Carteggio. Gentile  scrive che l’altera pars [gli ecclesiastici] mi consegna in questi giorni  tutte le sue proposte sulle materie ecclesiastiche. Omodeo prevedeva ad es. la partecipazione  di Marchesi per la patristica latina, di Pasquali per quella greca, di Co-  gnasso per la storia religiosa bizantina, L. F. Benedetto per il gianseni-  smo francese, Rota e Rodolico per quello italiano, Macchioro per Lutero  e la Riforma, Spampanato e Capasso per la Controriforma, e inoltre la  partecipazione dei collaboratori di Bilychnis, di Caramella e Minocchi. L’Enciclopedia italiana    di lasciare aperte alcune questioni; quantunque sia già  molta la prudenza da te adoperata: cautele che non impediranno, una volta pubblicata, le critiche de « La Civiltà  cattolica. Ma, in coincidenza con la pubblicazione del Primo elenco di collaboratori, a Omodeo era    giunta voce di un veto del Vaticano alla sua partecipazione,    tanto da suggerirgli il proposito di « tirarsi da parte. Gentile continuò tuttavia a ricercare la collaborazione di  Omodeo solo tre giorni dopo  il Concordato, intervenne per criticare varie voci, fra cui  Apocalisse e Apocalittica, letteratura, perché « alcune frasi  danno come risolte definitivamente in senso che i cat-  tolici non approvano, alcune questioni critiche, a proposito  delle quali occorrerebbero almeno delle delucidazioni. La risposta di Omodeo, del 16 febbraio, è articolata nella  difesa delle sue ragioni scientifiche, ma intransigente:  L’obiettività d’un’enciclopedia, è una forma di buona creanza,  ma non può offendere l’intima sostanza della scienza. Metter d’ac-  cordo indirizzo critico e tesi cattolica è impresa disperata, come con-  ciliare sistema tolemaico e sistema copernicano. La scienza ha il suo  cursus, e un’enciclopedia deve riconoscerlo ed affermarlo. Io per  conto mio nella scienza sono intransigente e non mi sento l’animo  per concordati e compromessi. Mi creda, professore, a dar retta  ai preti si finisce a impazzire. Nella scienza erano sono e saranno  capita mortua Per la «Storia delle religioni »  Gentile aveva fatto preparare da Pincherle «le proposte dei collabora-  tori da incaricare per le voci, che non conviene affidare alla redazione  degli ecclesiastici. Escluso solo Buonaiuti. Busnelli]. Gentile-A. Omodeo, Carteggio, cit., p. 365. Nel giugno 1927  anche Pincherle minacciò di abbandonare l’impresa facendo cosî, osser-  vava Omodeo, «con un’impulsiva rinuncia, il gioco dei gesuiti che lui  mostra di temere. Apocalittica letteratura di Omodeo non fu pub-  blicata, e apparve a firma di padre Giuseppe Ricciotti, redattore di « Ma-  terie ecclesiastiche ». Omodeo pubblicherà due voci su «Civiltà  mo-  derna. Le lettere dell’Apostolo Paolo  alla Chiesa di Corinto e La lettera dell’Apostolo Paolo ai Colossesi). Sulla  « mutilazione » di cui furono oggetto altre voci cfr. A. Omodeo, Lettere Gentile-A. Omodeo, Carzeggio, Gentile cercò di dirottarlo su argomenti di storia civile,  ma Omodeo dichiarava che non avrebbe  continuato la collaborazione: « Son sicuro che anche nella  storia civile non avrei maggior libertà che in quella reli-  giosa, una volta ammesso il principio del controllo di una  parte sul lavoro dell’altra »; se fosse stato possibile accor-  darsi su « un principio di completa libertà », « io avrei  lasciato liberi i preti di gabellare, come han fatto, Abramo  quale personaggio storico, o di far l’apologia, se crede-  ranno, del miracolo di S. Gennaro: a condizione che essi  non avessero inquisito nei miei lavori. L’enciclopedia  avrebbe fotografato la cultura italiana, in cui c'è P. Vac-  cari, e c'è A. Omodeo » ?!.   Cosî le voci di Omodeo restano una delle poche testi-  monianze di trattazione critica dei problemi religiosi nell’Enciclopedia, in genere appiattiti dall’impostazione ‘dog-  matica e apologetica degli autori cattolici. Ammiratore  della scuola storica di Tubinga fondata da Ferdinand Chri-  stian Baur — la cui opera era definita « uno dei maggiori  monumenti dello storicismo hegeliano » —, Omodeo cercò  di attenersi ad una esposizione obiettiva dei fatti e delle  diverse interpretazioni, ma senza riuscire a nascondere la  sua preferenza per i risultati dell’indagine critica rispetto  alle affermazioni aproblematiche degli studiosi cattolici: in  Apocalisse, ad esempio, dopo aver esposto l’opinione di  quanti negavano l’apostolicità dello scritto concludeva che  « in opposizione a questi indirizzi critici, il cattolicesimo si  mantiene saldo nell’affermare l’apostolicità dell’opera —  ormai abbandonata quasi da tutti nell’altro campo  —  e nel ribadirne l’ispirazione divina, e l’esegesi spiritualiz-  zante ». Rispetto a un giudizio del genere, si può notare  un vero e proprio capovolgimento di segno nella voce,  esecrata da Omodeo, in cui padre Eerembeemt aveva soste-  nuto la storicità della figura di Abrarzo affermando  la insussistenza » delle teorie di chi la negava, o in  Abramo è un personaggio storico? Pei credenti, si; e sotto Abra-  mo trovi un paragrafo dove sono oggettivamente esposti gli argomenti  per la storicità di Abramo, osservò Ugo Ojetti, I primzi ser volumi del- L’Enciclopedia italiana    Deuteronomio — voce prima affidata a Omodeo e  poi respinta dalla direzione dell’Enciclopedia —, in cui il.  gesuita Tramontano avvalorava le tesi degli studiosi catto-  lici che attribuivano l’ultimo libro del Pentateuco a Mosè,  confutando recisamente quelle dei critici  acattolici. Omodeo avrebbe dovuto trattare anche la storia della  Chiesa dalle origini al concilio di Nicea, ma il 29 giugno  1929 egli aveva avanzato delle riserve per    i limiti, molto ristretti, di libertà di parola che consente l’enciclo-  pedia, Se per le voci bibliche io arrivo spesso a cavarmi d’impaccio  esponendone il contenuto e narrando la storia della critica, per  [questa] voce non è cosî. Non posso narrar la storia della chiesa,  senza prender posizione, altrimenti la narrazione non procede. Nelle  questioni spinose dell’origine dell’episcopato, del primato romano,  della struttura dogmatico-disciplinare della chiesa, della prassi peni-  tenziale, dei sacramenti ecc. non potrei non dare scandalo ai preti,  divenuti cosî intolleranti,    Subito dopo Gentile lo cavava d’« impaccio » affidan-  done la stesura a don Giuseppe De Luca, che senza troppe  preoccupazioni spiegava la rapida diffusione del cristiane-  simo con i caratteri della dottrina stessa (« per tutti che  sentissero lo stimolo di una vita non solamente animale,  [la dottrina cristiana significava] la formula risolutiva della  propria umanità in ciò che ha di buono e di cattivo, con la  tecnica della propria cultura interiore »), giustificava l’im-  piantarsi della gerarchia e del primato romano, e spiegava  come « da contaminazioni e compromissioni della dottrina  cristiana, consumate per opera di menti ansiose e irrequiete,  nacquero le prime eresie. Alla luce della vicenda di Omodeo è facile presumere  che l’ingerenza degli ecclesiastici si sia estesa ben presto a    l’Enciclopedia italiana, in « Il Corriere della sera. In Pentateuco il gesuita Alberto Vaccari espose i motivi  per cui «la scienza [può] trovare nel Pentateuco un buon nucleo auten-  ticamente mosaico frammezzo ad accrescimenti d’età posteriore. Né pi  sembra domandare la fede cattolica, quando vuol salva la sostanziale  autenticità e integrità del Pentateuco, e lascia passare aggiunte, purché  ispirate, e mutazioni accidentali posteriori a Mosé (v. il decr. della Com-  missione biblica. Gentile-A. Omodeo, Carteggio, c tutti i settori in cui erano presenti voci o riferimenti reli-  giosi, vanificando l’impronta laicista che non solo Gentile  e Volpe, ma anche, con particolare forza, Francesco Salata  avrebbe voluto dare alla sezione « Storia contemporanea »,  di cui perderà la direzione nel corso della preparazione del-  l’opera: « senza invadere il campo riservato alle sezioni  “Filosofia, educazione, religione” e “Storia delle religioni” », scriveva Salata in un promemoria,    ritengo che la parte prevalentemente politica della storia contempo-  ranea delle religioni e specialmente della Chiesa cattolica, e quindi,  ad esempio le voci personali dei papi, dei cardinali segretari di Stato,  dei nunzi, quelle dei concili, di alcune istituzioni amministrative  della Chiesa, di alcune dottrine politico-religiose ecc. trovino posto  più proprio nella mia sezione. Per alcune voci relative alla Chiesa  cattolica ciò non può mettersi in dubbio per il periodo precedente, ma anche per il periodo successivo è troppo chiara l’impor-  tanza politica del papato non solo per l’Italia ma anche in tutta la  politica internazionale, perché tali voci siano sottratte alla sezione  che ha cura e responsabilità della storia politica di questo periodo Ma, quando Salata avanzava queste pretese, la presenza  dei cattolici tendeva già a dilatarsi all’interno dell’Enciclo-  pedia, favorita dalla singolare concezione dell’obiettività  propria di Gentile, consistente nel rivolgersi ai « compe-  tenti », ma in ultima istanza ai diretti interessati *, Cosi  le voci sui gesuiti furono attribuite prevalentemente a esponenti dell’ordine — con un cospicuo intervento di Tacchi  Venturi —, Rosmini al rosminiano Caviglione, con l’inter-  pretazione del quale Gentile aveva polemizzato,  Scolastica e S. Tommaso ai neoscolastici Francesco Pelster  e Martin Grabmann, Neoscolastica a Gemelli, e a Niccoli,  allievo di Buonaiuti, voci come Gioacchino da Fiore e Mo-  dernismo. Il fatto che queste voci di storia religiosa fos-  sero affidate a rappresentanti di vari indirizzi di pensiero  AFI, Lettere, Salata.   Da Barnabiti particolarmente desidererei gli articoli relativi ai  Barnabiti », aveva scritto il 18 aprile 1925 Gentile a padre Semeria (AEI,  Lettere, Semeria).   39 G. Gentile, Storia della filosofia italiana, La voce fu riprodotta, assieme a quella Rosminiani, congregazione dei di  Bozzetti, in « Rivista rosminiana »comportò l’esistenza di inflessioni diverse nel giudizio e nel  taglio metodologico: ad esempio, presentando la figura di  Gioacchino da FIORE (si veda) Niccoli non solo riprese l’in-  terpretazione che ne dava Buonaiuti in quegli stessi anni °°  — « una delle figure più notevoli della spiritualità cristiana  durante il Medioevo », la cui opera ha un « contenuto inti-  mamente sovversivo nei riguardi della Chiesa ufficiale » —,  ma si differenziò anche da altri autori spiegando in termini  economici e politici la genesi della sua profezia sull’avvento  della Chiesa della realtà spirituale sostituita a quella della  gerarchia e dei simboli. Tuttavia, al di là di queste distin-  zioni interne, l'intervento dei cattolici comportò, da un lato,  la dilatazione dello spazio concesso alle voci religiose —  come dimostra anche un rapido confronto tra l’Enciclopedia  britannica e l’opera diretta da Gentile, in cui voci specifiche  sono attribuite, ad esempio, a Concezione immacolata o a  Comunione dei santi —; e, dall’altro, l’apologia del cattolicesimo più tradizionale, che non investe solo la storia della  Chiesa medievale sulla quale la cultura cattolica vantava  anche allora una ricca tradizione di studi — « il fascismo  inquinò anche la storiografia medievalistica con un clerica-  lismo nauseante nell’esaltazione in blocco di tutta la storia  della Chiesa medievale (tutti i papi medievali vengono  esaltati nell’Enciclopedia italiana) », ha osservato Gabriele  Pepe ** —, ma riguarda tutti i periodi storici. Basti pensare  alla voce su S. Gerzaro in cui il gesuita Romano Fausti  sostiene la veridicità del miracolo, secondo quanto aveva  La voce ha molte assonanze, ad es., con E. Buonaiuti, Gioacchino  da Fiore, in « Rivista storica italiana », Gioacchino, con tutta probabilità servo della gleba per nascita,  è giunto al suo riscatto e alla formulazione del suo messaggio attraverso  l'iniziazione in una riforma monastica, quella cisterciense, di origine e  caratteristiche squisitamente latine, la cui importanza sul terreno sociale  come fattore di disgregazione dei superstiti istituti feudali — anche  nell'Italia Meridionale — si palesa oggi sempre più evidente. Sarà infine  necessario tener presente che il ciclo fattivo della vita di Gioacchino  coincide con quello della maggior fortuna del regno normanno in Italia:  tendenze, aspirazioni e crisi del quale, studi recenti hanno mostrato  riflettentisi sulla complessa esperienza di Gioacchino. Pepe, Gli studi di storia medioevale, in Cinquant'anni  di vita intellettuale italiana, cprevisto Omodeo, o allo sconcertante giudizio con cui Palmarocchi minimizza il ruolo di un personaggio  « scomodo » come Savonarola, spiegandone la condanna:    secondo alcuni essa ricade sui fiorentini, secondo altri sulla corte di  Roma. È certo che il Savonarola stesso diede ai suoi nemici l’occasione di abbatterlo, immischiandosi e invischiandosi nelia politica e  avallando con la sua autorità morale i fatti e i misfatti di una fazione.  Ma la causa più profonda della sua caduta fu la sua illusione di arrestare il cammino dei tempi, il suo sforzo d’impotre agl’italiani del  quattrocento una concezione di vita ormai superata.    In questo quadro non mancano tuttavia delle eccezioni,  costituite non solo dagli interventi di Chabod e di Cantimori su figure di protestanti e di eretici, ma anche da alcune  voci di Pincherle e di Jemolo che affrontano tematiche più  ampie di storia della Chiesa, con un’attenzione particolare  ai collegamenti fra storia religiosa e storia politica. Questi  evitano infatti di pronunciarsi sulle questioni propriamente  teologiche seguendo la via proposta da Gentile quando,  inviando a Jemolo delle istruzioni per la compilazione di  voci di storia della Chiesa, osservava che « anche delle sin-  gole controversie teologiche sarà da rilevare il significato intimo, le azioni e reazioni sulla politica anche degli  Stati, sull’organizzazione gerarchica, sulla pietà e le manifestazioni del sentimento religioso, pit che non l’aspetto  tecnicamente teologico e le singole fasi della disputa?.  A un ambito di intervento laico sono infatti riconducibili  le voci di Jemolo che, pur esprimendo un giudizio severo  sul carattere malevolo o petsecutore del liberalismo  ottocentesco che « non tollera i conventi, vuol spogliare la  Chiesa dei suoi beni e sottometterne tutta la vita a un re-  gime di polizia » (Chiesa), forni un’interpretazione del Ga/-licanismo che lo espose a interventi censori, Gentile a Jemolo (AEI, Lettere, Jemolo).   34 Lamentandosi con la direzione per le varianti apportate alla sua  voce, il 22 giugno 1932 Jemolo osservava che « a mio avviso non risponde  al vero nascondere la decadenza del gallicanismo nel settecento, e dargli  parte prevalente in quel complesso fatto europeo che fu la soppressione  della Compagnia di Gesti » (ibidem). E la decadenza del gallicanismo è  riaffermata nella voce.  cercò di distinguere aspetti religiosi e aspetti politico-cultu-  rali nella valutazione della Controriforma:  Chi da un punto di vista strettamente religioso instauri raffronti  tra lo spirito dei primi secoli del cristianesimo, quello della cristia-  nità medievale, e quello della controriforma, potrà pur non preferire quest’ultima età alle due precedenti. Ma è certo che la contro-  riforma ebbe, accanto alle sue pagine sanguinose, pagine bellissime  segnate dal rapido miglioramento del costume cattolico; fu una  ricca sorgente d’iniziative religiose, di opere di carità e d’intraprese  culturali, che a quasi quattro secoli di distanza sono ancora lungi  dall’esaurirsi; soprattutto diede alla Chiesa un’intima struttura che,  da quasi quattrocento anni, si palesa sempre meglio adatta a difen-  derla contro ogni tentativo, esterno e interno, di disgregazione, contro ogni influenza perturbatrice che miri a deviarla dal suo cam-  mino.    Complesso e articolato appare anche il giudizio di Pin-  cherle sulla Riforzz4, che su un piano religioso è « in asso-  luta antitesi » con la teologia umanistica — nulla più  della libera critica è alieno dallo spirito di un Lutero »;  Lutero è « un uomo nettamente di tipo medievale —,  mentre sul piano della storia politica e culturale essa  « preannuncia veramente il mondo moderno » perché raf-  forza l’assolutismo dei principi e costituisce, con il calvi-  nismo, « il mondo ideale entro cui nacque e si sviluppò lo  spirito capitalistico e, pertanto, il capitalismo moderno ».  E assai distante da toni apologetici e dogmatici si dimostra  Pincherle — accomunato da « Civiltà cattolica » a Omodeo  come ugualmente « di sensi non cattolici— nella voce  Cristianesimo, in cui giudica con simpatia l’opera  dello storicismo che aveva considerato il cristianesimo come  fatto storico, osservando che « la mentalità storicistica ha  nello stesso tempo distolto lo scienziato dall’identificare  senz'altro il cosiddetto “cristianesimo di Ges” con quello  praticato nel seno della sua particolare confessione e dal  giudicare e condannare dogmaticamente; in questo stesso   Busnelli], aMussolini si lamentò che alla voce  Cristianesimo fossero dedicate solo 3 pagine, contro le 66 di Cotone  (appunto ms., s.d., in ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio  riservato, senso agiva il nuovo clima culturale, con la larga diffusione  delle idee di tolleranza e di libertà religiosa ».   Accanto a questi interventi, il tentativo di Gentile di  salvaguardare la pretesa di obiettività dell’Enciclopedia è  ravvisabile anche nella suddivisione di alcune delle voci  maggiori tra autori cattolici da un lato, laici o attualisti dal-  l’altro: è il caso ad esempio di Dio, dove la dottrina  cattolica è esposta dal gesuita Giuseppe Filograssi mentre  « Dio nelle varie concezioni filosofiche » è opera di Banfi — per il quale « la pit totalitaria trasposizione in  senso razionale dell’idea di Dio è quella compiuta da Hegel,  per cui Dio è il processo eterno in cui l’idea — come prin-  cipio razionale del mondo — giunge a coscienza della sua  assoluta universalità e autonomia —; e di Religione  (1936) in cui il gesuita Enrico Rosa analizza il « concetto  cattolico » che « raccoglie in sintesi, integra e chiarisce gli  elementi di verità che si possono trovare sparsamente con-  fusi anche nei concetti pagani o eterodossi », e Gentile in  persona ne esamina l’aspetto filosofico per affermare la  « universalità e indefettibilità della religione » — « la ne-  cessità e l'universalità della religione sono la più efficace  convalidazione del suo valore, e cioè della sua verità » —  e per ribadire, contro materialisti e mistici, che « l’uomo  che non si può concepire senza concepire Dio è l’uomo  che attua l’esperienza della sua umanità, realizzando nella  vita spirituale quella coscienza di sé ond’egli in fatti si  distingue dalle cose ». Significativa è, già nel primo volume,  anche la voce Agostino — il santo al quale saranno dedicati vari studi —  riservata all’agostiniano Casamassa per la vita e le  opere (e « La Civiltà cattolica » si esprimeva positivamente  per questa parte), ad Guzzo per lo « sviluppo del  pensiero » e ad Alberto Pincherle per la critica e le edi-  zioni. Su di essa si soffermava la « Rivista di filo-  sofia », che coglieva la « notevole sproporzione tra la parte  che riguarda la vita e le opere (esattissima di certo, ma utile  solo allo specialista) estesissima, e quella che riguarda il  pensiero e le controversie critiche sui testi agostiniani, di  interesse più universale, ma molto più breve, e soprattutto alquanto disordinata e incompleta ». Dopo aver notato che  la voce iniziava con la « strana dizione » « Agostino Aure-  lio, santo », l’autore dell’articolo sosteneva che « manca  del tutto la filosofia di Agostino, come manca la considera-  zione filosofica della teologia agostiniana », e accusava di  illecita lettura attualistica un passo in cui Guzzo affermava  che nel De vera religione « si legge quel celebre appello:  Noli foras ire; in te redi, in interiore bomine habitat veritas  (De vera religione), che non sarà più dimenticato né  dalla mistica medievale e moderna, né da quante filosofie,  nell’età moderna e contemporanea, riterranno di dover ri-  chiamare l’uomo dalla dispersione del mondo esterno al rac-  coglimento dell’analisi interiore ». Accusa non immotivata,  se pensiamo che anche in Pedagogia Codignola,  trattando di Agostino, riprenderà lo stesso concetto, che  Gentile stesso aveva contribuito a diffondere:    L’intuizione religiosa della filiazione divina, approfondendosi e  interiorizzandosi, diventa in Agostino un concetto speculativo, la  prima affermazione filosofico-teologica della soggettività e immanenza  del vero, con cui il cristianesimo tentava di svincolarsi, anche nel-  l'ambito della speculazione, dall’antinomia che aveva alimentato lo  scetticismo del tardo pensiero classico: ineliminabile individualità di  ogni atto di conoscenza, ultra-individuale oggettività del vero. Noli  foras ire, in te ipsum redi, in interiore bomine habitat veritas.    Un’interpretazione alla quale la « Rivista di filosofia »  poteva opporre che « per Agostino la veritas presente all’io  è Dio stesso, oggetto rel soggetto, mentre ciò è alieno essen-  zialmente dalla dottrina idealistica. Tuttavia, nonostante questi accorgimenti, Gentile non  poté impedire che nell’Enciclopedia fosse assai marcata  l'impronta del cattolicesimo ortodosso e che, addirittura, in  alcune voci i cattolici operassero un forte ridimensiona-  mento, o una critica aperta, del neoidealismo italiano. Gemelli, dopo aver definito la Neoscolastica la  restaurazione del pensiero medievale nell’ambito della ci-  viltà moderna, considerando il pensiero medievale non    Firenzi, Note sulla storia della filosofia medioevale, in « Rivista  di filosofia », come espressione transitoria di una civiltà, ma, quanto alla  sostanza, come definitiva conquista della ragione umana nel  campo della metafisica », ne accentuava il carattere antiidea-  listico: « La restaurazione scolastica doveva in Italia affer-  marsi non tanto in relazione al positivismo, quanto in rela-  zione all’idealismo, che in Italia maturava con Croce e  con Gentile. Ne sarà criticata la metafisica (immanenti-  stica) e accettata invece quella valorizzazione della storia,  che è caratteristica dell’idealismo stesso: non però come  filosofia, sibbene come storia. Niccoli  difendeva il Modernismo contro i suoi critici, in primo  luogo i rappresentanti di quella « filosofia che, negando  possa conoscersi un reale fuori dell’uomo e del pensiero,  non solo si è iscritta in falso contro quelli che erano stati  in passato i cardini di ogni metafisica, ma ha scrollato le  basi stesse della fede religiosa; e l’allievo di Buonaiuti  cercava di rafforzare la sua difesa opponendo il movimento  modernista al socialismo e all’idealismo:    Chi avesse accettato come dati di fatto incontrovertibili i risul-  tati negativi ai quali la critica storica, filosofica e sociale affermava di  essere giunta, non poteva avere che due alternative: o ripudiare net-  tamente tutto il patrimonio religioso cattolico e cristiano, sia affermando di contro ai valori cristiani i nuovi valori sociali, sia conside  rando il cristianesimo e il fatto religioso in genere come un momento  ormai superato della vita dello spirito (fu questo in sostanza il punto  di vista difeso dall’idealismo italiano); o affermare che il cattolicesimo si raccomanda a valori più alti, non toccati dai colpi portati  dalla critica moderna all’interpretazione scolastica del cattolicesimo e  quindi costruire su di essi una nuova apologetica, che mantenesse al  cattolicesimo la sua efficacia fra gli uomini. E fu questo l’atteggiamento assunto dal movimento modernista.    Nel complesso, e tenuto conto di alcune assenze signi-  ficative — come Clericalismo, che Carlo Morandi non accettò, o Laicismo, voce che è invece presente, a firma di  Maturi, nel Dizionario di politica —, si comprende  quindi la soddisfazione dimostrata per il settore religioso   Cfr. la lettera di Morandi (AEI, Lettere,  Morandi). da « Civiltà cattolica » quando pit forte  era l’influenza di Gentile e di Omodeo, e, per converso, la  preoccupazione di « Vita nova » del gentiliano Giuseppe  Saitta che, prendendo spunto dalla critica della voce Adazzo  di Ricciotti, allargava il discorso per lamentare  « la intrusione nell’Enciclopedia di questa pseudo-scienza  teologica. I gesuiti sanno troppo bene a che cosa mirano, e qual forma ed  estensione assumerà, nel loro campo, la sezione di materie ecclesia-  stiche. La Bibbia intera e specialmente il Nuovo Testamento, le ori-  gini del cristianesimo, la storia dei dogmi e della Chiesa, anzi dell:  Chiese, tutto vi dovrà essere mostrato e rappresentato dal punto di  vista cosiddetto cattolico, cioè teologico, in contrasto e negazione  con la vera scienza storica del cristianesimo, quale si insegna nelle  nostre scuole universitarie. È la teologia esclusa dalle università  definitivamente con la legge del Concordato, che rientra, come unica  scienza della religione, nella nostra coltura nazionale. L’Enciclo-  pedia avrebbe tutelato meglio i diritti della scienza e quelli della  nazione, rimanendo italiana, come è il titolo semplicemente, senza   resumer di voler anch’essere cattolica nel senso della Civiltà cattolica. Le voci di carattere propriamente religioso, oggi svolte con dif-  fusione anche eccessiva, potevano ridursi al puro necessario; ed entra  quei limiti, avrebbero dovuto essere redatte da un punto di vista.  EE scientifico, evitando di accettare i presupposti della teologia. Non solo i timori di « Vita nova » non erano infondati,.  come abbiamo visto, ma possiamo supporre che molte  altre sezioni, oltre quelle direttamente interessate alle que-  stioni religiose, furono oggetto del controllo ecclesiastico.  « Per la Questione Romana informati — scriveva Maturi  a Morghen —, perché la mia polizia segreta mi ha avvertito:  che essa con tutto il gruppo di voci romane è stata sottratta.  alla giurisdizione della sezione storica. E  Nicolini scriveva a Gentile, a proposito della  voce Giannone, che si sarebbe posto da    Anche Gemelli notava nel 1930 che Gentile « ha chiamato a colla-  borare all’Enciclopedia studiosi cattolici ed ha affidato loro la trattazione  di delicati problemi religiosi » (L'Università cattolica e l’idealismo, in  Idee e battaglie, cit., p. 391).   . Rensis, Ancora dell’Enciclopedia Italiana, in «Vita nova. AEI, Lettere, Maturi.  un punto di vista che non potrà piacere al certo a chi, nell’Enciclo-  pedia, soprintende alle materie ecclesiastiche. Se dunque mi si promette formalmente piena libertà di parola, e sopra tutto che la mia  prosa, quale che essa sia, non sarà riveduta, corretta o attenuata in  senso clericale, sono prontissimo a fare l’articolo. Ma se codesta  promessa formale non mi può essere fatta e mantenuta, anziché sotto-  pormi all’alea di trovare (come accadde a Omodeo) stravolto e muti-  lato il mio pensiero, preferisco rinunziare a scrivere l’articolo. Tu,  che mi conosci, sai bene che non sono uomo da porti nell’imbarazzo facendo dell’anticlericalismo intempestivo. Ma, alla fin dei  conti, debbo pur dire pane al pane e vino al vino, e presentare il  Giannone quale egli fu, cioè quale un martire dell’anticurialismo.  Non posso elogiare l'agguato di Vesnà come un’azione pulita o l’imposta abiura e la dodicenne prigionia come atti di carità cristiana  Questi propositi non sembrano tuttavia essersi tradotti  in pratica nella stesura della voce, dove le ultime vicissitu-  dini di Giannone sono presentate in maniera anodina e, pur  riconoscendo che l’Istoria civile del Regno di Napoli è stata  per decenni la « bibbia dell’anticurialismo » — « un anti-curialismo lontano, nella lettera, dall’eterodossia, ma già  volterriano nello spirito » —, si coglie in essa una « astratta  e fantastica configurazione dello stato come bene assoluto,  progresso, civiltà, forza generosa, e della chiesa come male,  regresso, oscurantismo, malizia frodolenta ». Analogamente  nella voce Romana questione Maturi, pur valutando  assai positivamente la Legge delle guarentigie, concludeva  l’esame dei rapporti tra Stato italiano e Chiesa elogiando i  patti:    Mussolini coronava con un concordato la sua nuova politica ecclesiastica, con l’ininzio della quale aveva scompigliato le file del partito  popolare e assorbito nel fascismo il cattolicesimo nazionale; d’altra  parte, nella politica estera egli tolse all’Italia una passività diplo-  matica. Da parte della Chiesa il riconoscimento dello stato nazionale  italiano s’inquadra nel riconoscimento di molti stati nazionali europei  avvenuto coi concordati postbellici.    Dove sono ripresi alcuni dei giudizi più favorevoli di    parte fascista — anche per Volpe i patti erano tesi, per il  fascismo, a « togliere una non piccola causa di nostra debo-   AEI, Lettere, Nicolini.  lezza internazionale —, senza tuttavia i timori, pur  assai diffusi, che lo Stato potesse abdicare al suo spirito  laico.   I patti lateranensi dovettero del resto riflettersi pesan-  temente sull’Enciclopedia, rafforzando il controllo ecclesia-  stico e arrivando fino a minacciare l’esistenza di singole  voci: Angelo Sraffa, che curava con Mariano D’Amelio la  sottosezione « Diritto privato », giunse infatti a proporre  la soppressione della voce Divorzio, già in bozze,  perché era «cosa estremamente delicata trattarla oggi a  parte, date le interferenze con l'annullamento del matrimo-  nio, che è diventato di fondamentale importanza di fronte  al trattato del Laterano, ed alla estensione che dinanzi ai  Tribunali ecclesiastici l'annullamento sta prendendo. La sua proposta non fu accolta e la voce rimase, a soste-  nere però la particolarità dell’ordinamento italiano e a rico-  noscere che « gli stessi contrattualisti a oltranza », cioè  quanti erano favorevoli al divorzio, « compresi della serietà  delle contrarie obiezioni, sono d’accordo nel ridurre a un  piccolo numero di casi la facoltà di ricorrere al divorzio. Dove non arrivò il diretto intervento ecclesiastico —  padre Gemelli non scrisse la voce Psicanalisi, che si era offerto di fare e che a sua firma apparirà invece nel  Dizionario di politica (« Distruttiva della religione, della  quale nega ogni valore, nel dominio politico la psicoanalisi  orienta le sue speranze verso il comunismo ») —, giunsero  puntuali le critiche dell’organo dei gesuiti. Carlo Brica-  relli, collaboratore della sezione artistica dell’Enciclopedia,  intervenne sull’esposizione dell’arte medievale e moderna  fatta in Arte da Schlosser, al quale Gentile aveva suggerito di « parlare dell’arte come conseguenza  di bisogni materiali e spirituali delle varie fasi di civiltà, e  quindi dei compiti e delle forme dell’arte in relazione alle  mutate condizioni sociali, similmente, in un certo senso,  a quanto ha fatto il Dvorak nel suo saggio sull’idealismo e    Volpe, Il patto di S. Giovanni în Laterano, in « Gerarchia), ora in Pagine risorgimentali, Roma, Volpe, SRAFFA (si veda) a Spirito (AEFI, Lettere, Sraffa).   naturalismo nell’arte gotica » **. « La tendenza di tutto  ridurre all’umano, e nell’opera della Chiesa interpretare  ogni cosa a uso d’intenti terreni propri, oppure a lei impo-  sti per forza, è un altro preconcetto che turba anzi scon-  volge addirittura il giudizio storico », osservava Bricarelli  appuntando la sua critica, fra l’altro, su di un passo in cui  Schlosser affermava che    la crisi di questo cristianesimo primitivo cominciò nel secolo IV col  suo riconoscimento ufficiale come religione di stato, sotto la forma  universale del « cattolicismo ». L’al di qua reclamava oramai i suoi  diritti. Il vecchio Impero, divenuto cristiano, rivestito di tutta la  pompa della sua missione divina e di tutto il suo fasto, nella sua  qualità di potenza protettrice della Chiesa, determinò anche il con-  tenuto iconografico dell’arte che si rivela nei fastosi musaici parietali  delle grandi basiliche post-costantiniane Cosî Busnelli criticava il giudizio su Leonardo dello storico della medicina Giuseppe Favaro —  secondo il quale « di fronte alla rigida concezione teologica  dell’origine del mondo, Leonardo non si peritava di confutare il racconto biblico della genesi, la storia della terra  creata da seimila anni e la leggenda del diluvio universale —, sostenendo invece che « la fede e dottrina cattolica  di Leonardo è fuori d’ogni dubbio e accusa, chi voglia scandagliarne senza preconcetti le espressioni »; e, passando a  esaminare la parte della voce su Leonardo ‘filosofo — che  Gentile considerava figlio dell’umanesimo e negava fosse  un antesignano della filosofia sperimentale, perché in lui  « il pensiero comincia dall’esperienza, ma per affrancarsene  e tornare alla ragione » —, Busnelli affermava che in Leo-  nardo l’appello all’esperienza sensibile era il frutto dell’in-  segnamento dei peripatetici e degli scolastici, e che «la  ragione che infusamente vive nella natura, come attuante  la sua efficacia, non è, conforme alla dottrina dell’Aquinate,   Gentile a Schlosser, (AEI, Lettere, Schlosser). La  voce era introdotta da una parte redatta da Gentile (su cui cfr. le osser-  vazioni di Croce in «La Critica », Bricarelli, L'arte nell’Enciclopedia Treccani, in «La Civiltà  cattolica »,  la ragione umana, ma la divina. Infine « La  Civiltà cattolica », affermando recisamente che « ogni altra  pedagogia, fuori della cattolica, è ampiamente divergente e  dispersiva nei sistemi fino alla confusione babelica, e nei  metodi è angusta, ristretta ed unilaterale », criticava che  nella voce Pedagogia Codignola avesse interpretato ideali-  sticamente, come evolutiva, la pedagogia cristiana, e all’uni-  tarietà di questa opponeva la « babilonia di antitesi e con-  trasti, di ideali e sistemi », imperante nel campo idealistico  esaltato da Codignola, per il quale le opere di Gentile sul-  l'educazione, « accanto a quelle del Croce sui problemi del-  l'estetica e della storiografia, segnano il culmine cui si è sol-  levata la speculazione contemporanea » *”. La durezza del-  l’attacco, e l’ampiezza della difesa di Codignola compren-  dente Croce, non necessaria per l'argomento trattato, pos-  sono forse spiegarsi con la condanna da parte del S. Uf-  ficio, avvenuta l’anno precedente, delle opere di Croce e di  Gentile. Un documento anonimo osserva come, secondo gli ambienti ecclesiastici, obiettivo princi-  pale da colpire fosse Gentile: Si nota che la condanna in ordine cronologico è stata fatta prima  per la opera del noto antifascista Croce, per poter poi giustificare  anche la condanna delle opere del Gentile. Si aggiunge che oramai  era inutile la condanna del Croce [...], cui la gioventii italiana è ben  lungi dal ricorrere come un tempo, come ad un oracolo indiscutibile.  Oggi la gioventù italiana ha altro da fare e, c’è da scommettere, che  moltissimi giovani, delle classi più acerbe ignorano l’uomo, o, se  non l’uomo, almeno la quasi totalità delle sue opere. Anche questa  volta la Chiesa, volendo colpire uno — cioè il Gentile — è andata  alla ricerca di un cadavere per poter avere un alibi, nel quale nessuno  crede. Pi grave è la condanna di Giovanni Gentile, che in qualche  centro è giudicata come una mossa contro le teoriche accettate dallo  Stato fascista. Si indica come il principale postilatore di questa con-  danna padre Gemelli Busnelli, Leonardo da Vinci nel vol. XX dell’« Enciclopedia  italiana », in « La Civiltà cattolica  Barbera], Intorso dl concetto della pedagogia cattolica, in  « La Civiltà cattolica », ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato. Anche «Giustizia e Libertà », dopo aver individuato in  padre Gemelli l’ispiratore della condanna di Gentile, aggiungeva: « biso-  Molte osservazioni potrebbero farsi a questi giudizi,  riprendendo le notazioni di Gramsci sulla diversa « popo-  larità » delle filosofie di Croce e di Gentile. Appare proba-  bile comunque che la condanna del 1934 colpisse più dura-  mente Gentile, che in qualche caso aveva cercato un ac-  cordo con i cattolici, coronando l’indebolimento della sua  posizione interna al fascismo iniziato nel 1929. Consape-  vole di questo fatto — di cui gli scontri avvenuti nell’Enci-  clopedia erano stati una riprova —, nel 1936 Gentile con-  cludeva un articolo su L’ideale della cultura e l’Italia pre-  sente mettendo in guardia contro il « pericolo [...] che può  derivare dalla restaurazione religiosa desiderata e promossa  dal fascismo come corroboratrice della coscienza civile e  delle morali istituzioni. Restaurazione, che in massima parte  non poteva essere che un ritorno alle tradizioni cattoliche  del popolo italiano, col rischio di riassoggettare la cultura  nazionale a forme praticistiche e meccaniche d’una religio-  sità esteriore, e a conseguenti limitazioni dell’interna libertà  spirituale, dalle quali gl’italiani avevan durato secoli a ri-  scattarsi.   gna vendicarsi e fingere l’equità: sono messi all’Indice i libri non di  Gentile soltanto ma anche di Croce. Croce sorride e Gentile si spaventa »  (Preti e fascisti. Gentile, Mezzorie italiane e problemi della filosofia e della  vita. Formiggini:  un editore tra socialismo e fascismo   La parola, veicolo di « fraternità universale »    « Né ferro, né piombo, né fuoco / posson salvare la Li-  bertà, / ma la parola soltanto. / Questa il tiranno spegne  per prima, / ma il silenzio dei morti / rimbomba nel cuore  dei vivi »!. Cosî scrive , fra tante  altre « epigrafi » messe a suggello della propria vita e a  testimonianza degli ideali che l’avevano ispirata, Angelo  Fortunato Formiggini, lucidamente deciso a chiudere con  un sacrificio personale che servisse a « dimostrare l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti » — come scriveva  alla moglie? — un’esistenza dedicata a perseguire, primo  fra tutti, l’ideale della fratellanza universale attraverso la  forza di convinzione della parola. Se la stampa del regime  mantenne il più rigoroso silenzio sul suicidio dell’editore  modenese, gettatosi dall’alto della Ghirlandina il 29 no-  vembre 1938, impedendo cosî che Formiggini potesse rag-  giungere lo scopo di richiamare l’attenzione dell’opinione  pubblica sulle leggi razziali, il suo gesto fu sottolineato  dagli ambienti dell’antifascismo, non solo ebraico, che ne  dettero l’annuncio: « Molti italiani d’Italia, costretti pur-  troppo a mantenere l’incognito, amici e ammiratori di A. F.  Formiggini Maestro Editore annunciano, straziati ma fieri,  il Suo sublime sacrificio. Questo annuncio non ha potuto  comparire sui giornali italiani, ove le leggi razziste impediscono persino di dar notizia dei decessi degli ebrei ». E Giustizia e Libertà » annunciava in una  corrispondenza dall’Italia l’atto di protesta di Formiggini,   Formiggini, Parole în libertà, Roma, Edizioni Roma, ricordando che egli « non era mai stato un conformista » e  che « ogni suo piano, tendente alla difesa e alla elevazione  della cultura italiana, aveva trovato nel fascismo una oppo-  sizione aperta o una resistenza insidiosa. E ai « posteri », « perché gli orrori e le iniquità di oggi non abbiano a  rinnovarsi mai più nel più lontano avvenire », Formiggini  volle lasciare in eredità alcune sue Parole in libertà, testa-  menti spirituali indirizzati ai familiari, ai concittadini modenesi, agli « ebrei d’Italia » e al tiranno in persona, tutti  ispirati, più che da una chiara presa di coscienza politica,  da una fede quasi religiosa nell’amore fra tutti gli uomini,  secondo quella visione del mondo che egli aveva condensato nel motto arzor et labor vitast.   Fra i « testamenti possiamo annoverare an-  che il bilancio del suo lavoro editoriale, Trenta anni dopo,  che, seppur scritto pensando alla pubblicazione, è signifi-  cativamente considerato dall’autore il suo « canto del ci-  gno », steso « a giuoco finito », quando un motivo di spe-  ranza può essere visto solo « al di là della tormenta ». Ac-  canto alla testimonianza delle proprie idee non poteva man-  care quella della propria fatica, in un uomo in cui la scelta  dell’attività editoriale si era saldata fin dall’inizio con il perseguimento di obiettivi che non esiteremmo a definire etici  prima ancora che culturali o politici, ma tali da divenire  punto di riferimento di indirizzi di pensiero determinati ‘.   A scrivere il bilancio dei trenta anni della casa editri-  ce — e di sessanta anni della sua vita Formiggini aveva pensato da tempo, fornendo  via via parziali anticipazioni. Convinto che anche « lo scrit-    3 L'editore Formiggini si uccide a Modena per protestare contro il  razzismo, in « Giustizia e Libertà (e, per l’annuncio di morte); cfr. anche Felice, Storia degli ebrei  italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi]  censura fascista colpirà con particolare accanimento la produzione dell’editore modenese ed anche i libri della Biblioteca circolante  da lui fondata a Roma, di cui qualche volume è escluso dalla  lettura per motivi politici — come il Capitale —; ma si atrivò perfino a  impedire la diffusione di molti testi dei « Classici del ridere », come il  Decamerone, o L'arte di amare di Ovidio (come si ricava dall’esemplare,  conservato in BNF, della terza edizione del Catalogo della biblioteca  circolante Formiggini, Roma, Formiggini,  Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    tore più mediocre e più oscuro farà sempre cosa interes-  sante scrivendo la propria autobiografia, specie se questa,  anziché circoscriversi a fatti puramente personali (che  avrebbero pur sempre un interesse umano e psicologico) si  innesterà nella storia viva del suo tempo » era stato spinto dal contrasto con Gentile a scrivere « una  parte dell’opera » in un curioso volume che, oltre a pre-  sentarci alcune fra le più interessanti iniziative dell’editore  e il suo carattere caustico seppur non intransigente, costi-  tuisce un efficace documento della « marcia » del fascismo  alla conquista delle istituzioni culturali: « da quando ini-  ziai la mia attività editoriale — scriveva proprio allora  Formiggini — non ho mancato di raccogliere materiale per  una autobiografia che avrebbe dovuto riuscire qualche cosa  di mezzo fra le Memorie di un editore di Gaspero Barbèra  e il Catalogo ragionato delle edizioni Barbèra, fusi insie-  me » i.   Nel modello indicato — e al quale Formiggini cercherà  di mantenersi fedele in Trenta anni dopo come già in un pre-  cedente, più conciso bilancio della sua attività editoriale —  non vi era certo la presunzione di avere svolto un’opera di  promozione della cultura nazionale paragonabile a quella  dei maggiori editori ottocenteschi, da Vieusseux a Pomba,  da Barbèra a Le Monnier, ma pur sempre la consapevolezza  di aver reso un « servizio » alla cultura del proprio paese,  e di essere fra i pochi editori del suo tempo che, come i  « grandi » dell’ottocento, riunissero nella propria persona le  qualità dell’imprenditore e del principale animatore delle  iniziative culturali della casa editrice. Quello che fu carat-  terizzato, poco dopo aver tratteggiato i primi venticinque  anni della sua attività, come « un editore che scrive » 7,  non avrebbe condiviso l’opinione di un Luigi Russo, che    Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla  Leonardo. Libro edificante e sollazzevole, Roma, Formiggini, Formiggini, Venticinque anni dopo., seconda edizione con prefazione di Giulio Bertoni, Roma, Formig-  gini, .  Costantino, Smorfe e sorrisi. Scritti critici, Catania, Casa del  libro, di una casa editrice non si fa storia. Da uomo « positivo »  che vuole documentare il duro e contrastato lavoro da lui  compiuto, Formiggini ci ha lasciato con i Trenta anni dopo  una testimonianza d’eccezione, la cui lettura può risultare  utile non solo per precisare il giudizio sulla cultura italiana  del primo novecento — alla luce anche di vicende indivi-  duali minori —, ma anche per riproporre il problema della  storia delle case editrici, spesso disattesa perché considerata  una classificazione forzata di prodotti culturali il cui  marchio di fabbrica » sarebbe dato solo dalla collocazione intel-  lettuale dei singoli autori, uniti o in maniera casuale o da  vincoli ideologici tanto stretti da vanificarne le differenze.  Ma, come è stato giustamente osservato, proprio per-  ché luogo organizzato d’incontro di più generi di colla-  boratori, e di più fattori e interessi, una casa editrice  di tipo ancora tradizionale rispecchia orientamenti e  programmi di gruppi di intellettuali che verificano sul piano  dell’azione pubblica la loro consistenza, e dichiarano tutti  i loro sottintesi nel punto in cui, mettendo in circolazione  strumenti concreti come libri e riviste, si scontrano con  poteri reali, economici e politici, in situazioni di fatto, per  modificarle (o per accettarle e conservarle). Per questo la  responsabilità di una casa editrice di cultura, a qualsiasi  livello essa operi, è grandissima. Inserita in un tessuto sociale ed economico definito, è legata ad ambienti e istituti  di istruzione, e di ricerca, per attingervi, ma anche per reagire su di essi, in una trama di rapporti la cui dialettica è  necessario mettere in luce quando si voglia ricostruire il  corso degli eventi di un determinato periodo storico » 5. È  un campo, questo, per il quale assai scarse sono le nostre  conoscenze, e non solo per la difficoltà a scendere concreta-  mente su un terreno per tanti versi accidentato. In realtà,  se in linea di massima può essere accettato il giudizio di  Russo, che significato e valore di una casa editrice sono con-  segnati nei suoi cataloghi, e che in alcuni casi, come in    Garin, Un capitolo di rilievo singolare, in 50 anni di attività  editoriale (Venezia Firenze): La Nuova Italia, Firenze, La  Nuova Italia, Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    quello della Laterza, se ne può seguire la storia ripercor-  rendo l’opera di organizzazione della cultura sviluppata da  una personalità come Croce, è da respingere quel pregiu-  dizio idealistico che, considerando il processo storico come  germinazione di idee da idee o proclamando in astratto la  separazione tra cultura e politica — fino a vedere la « pro-  pria » produzione culturale come un sistema chiuso e per-  fetto, per cui la storia reale può confondersi con una « cri-  tica di se stessi — esclude dall’oggetto privilegiato del  suo interesse le istituzioni culturali.   Non è un caso che proprio un’analisi che — come oggi  si comincia a fare — abbia al suo centro il tema dell’orga-  nizzazione della cultura e della sua diffusione, permette di  articolare meglio nei tempi e nei modi, per quanto riguarda  il novecento, il giudizio che il neoidealismo italiano dette  di sé, e che ritroviamo facilmente ripetuto come un canone  interpretativo indiscusso ’, sulla rottura netta da esso ope-  rata all’inizio del secolo nei confronti delle « vecchie correnti di pensiero, e sul suo deciso trionfo che non avrebbe  lasciato spazio ad alcuna « sacca di resistenza » che non si  ponesse in termini di superamento dell’idealismo stesso.  In realtà ci sembra estremamente valida, tanto più ove la  si riferisca non solo alla cultura di élite, ma anche al più  vasto e intricato substrato ideale che percorre nei primi  decenni di questo secolo tutti i settori della cultura ita-  liana — riflettendo la « disgregazione sociale » del paese  e, insieme, le contraddizioni o le resistenze che accompa-  gnano la « rifondazione » dell’egemonia borghese —, l’os-  servazione di Garin, per il quale    una delle deformazioni prospettiche più diffuse, e più dannose per  un’esatta comprensione delle vicende culturali italiane di questo  secolo, è quella che proietta alle origini il risultato di una battaglia — non solo « ideale » — che si concluse, almeno in una sua  fase, intorno agli anni venti, dopo la prima guerra mondiale, con  l’ascesa del fascismo. L’egemonia idealistica, piuttosto gentiliana che  crociana, non era affatto affermata, e tanto meno scontata, prima  della guerra libica.  Solo se ci si liberi fino in fondo dell’eredità    9 Cosî ancora A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, Torino,  Einaudi, 1 del provvidenzialismo idealistico, col suo trionfalismo storiografico,  sarà possibile evitare l’appiattimento uniforme di posizioni contra-  stanti, e insieme una polemica sterile, forse interessata soltanto a  simmetrici rovesciamenti !°,    Per il periodo che dalla « svolta » del nuovo secolo  arriva al fascismo le vicende delle case editrici, anche di  quelle minori o comunque non in grado di « rappresentare  un intero movimento d’idee » — come appariva a Gobetti  la Treves, « simbolo [...] di tutta la vuotezza italiana per il suo « eclettismo positivistico di cosî lunga e infausta  durata e memoria » !" —, possono costituire una guida assai  utile per disaggregare e ricomporre una trama culturale  complessa, per stabilire accostamenti o distinzioni ideali o  politiche altrimenti non sempre evidenti o per valutare la  capacità di penetrazione e di orientamento di correnti di  pensiero — non necessariamente lineari — in un pubblico  colto che proprio nell’età giolittiana cresce enormemente e in parte si rinnova diversificandosi dal punto di  vista sociale, con l’apparizione sulla scena di una « opinione  pubblica » alla quale si richiede sempre più un consenso  agli obiettivi politici perseguiti dalla classe dirigente.  Aumentano per numero e tiratura i quotidiani, ci si rivolge  a un più vasto pubblico popolare  attraverso la scuola,  i corsi organizzati dalle università popolari o le biblioteche  circolanti, ma si assiste anche all’espandersi di una « classe  media colta » che desidera legittimare sul piano culturale il  peso politico cui aspira, o al tentativo della borghesia di  affinare gli strumenti del suo dominio. Fra questi piani  diversi esistono connessioni e influenze, nel quadro di una  lotta per l’egemonia che vede un’ampia mobilitazione di  forze; ed è ora, dopo la « crisi » di fine secolo e la « svolta »  giolittiana, che alle case editrici accademiche e a quelle di  orientamento « popolare » o dichiaratamente socialista —  come Sonzogno e Nerbini !! — se ne affiancano nuove e pi   Garin, Intellettuali italiani, Roma, Editori Riuniti. Gobetti, La cultura e gli editori, in Scritti storici, letterari  e filosofici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi. Cfr.Tortorelli, Una casa editrice socialista nell'età giolittiana: agguerrite, il cui interlocutore privilegiato è un pubblico  colto e medio-colto in grado di acquistare libri e riviste: da  Laterza a Ricciardi a Rizzoli a Mondadori a Vallecchi editore di « Lacerba ».   In assenza di ricerche specifiche si comprende quindi  l’importanza di testimonianze come quella di Formiggini  che illustra, anche se solo parzialmente, le vicende di una  casa editrice fondata negli stessi anni in cui videro  la luce altre destinate ad acquistare un peso ben maggiore,  ma allora di dimensioni ancora ridotte. L’unico testo a cui  si possa in qualche modo avvicinare sono i Ricordi e idee  di un editore vivente scritti da Vallecchi,  che tuttavia, pur trovando concordanze significative nella  difesa di una cultura italiana intesa come strumento di  « rinnovamento nazionale », ripercorre lo stesso arco cronologico con l’ottica del protagonista precursore vittorioso  dell’ideologia fascista in cui l’editore fiorentino si vanta di  aver contribuito a convogliare nazionalisti, sindacalisti rivo-  luzionari, futuristi, vociani, cattolici.   Secondo il proposito dell’autore, i Trenta anni dopo si  presentano invece come una sorta di catalogo ragionato, in  cui la personalità dell’editore è ridotta al minimo, e, a differenza del pamphlet, restano sullo sfondo anche  i « tempi » in cui ha operato: spentasi la carica polemica di  quindici anni prima suscitata dalle vicende della Leonardo  e che si era manifestata in feroci attacchi antiattualisti (con  alcuni spunti antifascisti), escluse espressamente le testimo-  nianze morali che Formiggini veniva consegnando  ai suoi scritti privati, nel volume non appaiono nemmeno  —- se non incidentalmente — i nomi dei « numi tutelari »  della cultura italiana del primo novecento. Accanto alla  difficoltà, ma anche al rifiuto di prendere nettamente posi-  zione !, in questo silenzio si riflettono, più che i risultati di  una parabola politica, alcuni limiti di fondo di un editore    la Nerbini, in « Movimento operaio e socialista », Una testimonianza in questo senso in Trevisani, Le fucine dei  libri. Gli editori italiani, Bologna, Barulli. che i contemporanei — Prezzolini in testa! — giudica-  rono non tanto un uomo di cultura quanto un grande arti  giano e propagandista del libro, e che per primo amava  presentarsi come il sostenitore dei valori universali di una  « cultura » senza ulteriori determinazioni, quasi al di sopra  della mischia, ideale morale e religioso, più che politico.  « Riconosco di avere avuto certe qualità che sono essen-  ziali per rappresentare efficacemente un indirizzo, un pen-  siero, per portare nella fucina intellettuale del paese un  non inutile soffio di ossigeno », scrive Formiggini, ma sa-  rebbe vano cercare di identificare questo indirizzo nell’am-  bito della classificazione usuale delle correnti culturali ita-  liane all’inizio del secolo. Per comprendere cosa questo  fosse concretamente, o come fosse possibile che determi-  nati indirizzi di pensiero, spesso confusi e intersecantisi tra  loro, confluissero e si riconoscessero nella sua casa editrice,  bisogna risalire ancora una volta ai motivi ispiratori della  sua vita. « Il libro mi apparve allora, e mi è apparso poi  sempre — scrive ricordando gli inizi della sua attività —,  il vincolo delle intese, il vincolo del parallelo cammino  verso mete elevate e concordi. Questa mia fede di fraternità  universale, alla quale s’ispirò fin dagli inizi la mia attività  editoriale, era già trionfante nel mio animo fin dalla prima  giovinezza » 5, ed era una fede religiosamente sentita, se teneva a riaffermare — ponendo a coronamento  della sua fatica la collana delle « Apologie delle religioni »  — che suo intento era stato « non di insidiare le fedi senti-  tamente professate, ma soltanto di divulgare l’intima essenza  delle varie religioni, per affrettare quel mutuo rispetto e  quella mutua comprensione fra gli uomini che condurranno  l’umanità a quell’affratellamento universale che fu il car-  dine massimo della dottrina del Cristo e che mi ostino a  credere che sia la più alta e la più benefica di tutte le aspi-   Prezzolini, La cultura italiana, Milano, Corbaccio. Formiggini « ha particolarmente sviluppato, oltre le sue collezioni, il lato  direi tecnico della propaganda libraria. Formiggini, Trenta anni dopo. Storia di una casa editrice,  Amatrice, Formiggini, razioni umane » !. Ma questo ideale di fratellanza non  dovette essere poi tanto anonimo o neutrale, se nel periodo  che dall’affermarsi del neoidealismo e dalla nascita de « La  Voce » arriva fino al fascismo e alla « dittatura » gentiliana  la casa editrice Formiggini poté rappresentare — riunendo  soprattutto quanti nell’idealismo non si riconoscevano —  un capitolo significativo e abbastanza determinato, anche se  minore, della cultura italiana.   Nato a Modena, dove contrasse  affetti e amicizie che — come quella con il futuro ministro  della giustizia di Mussolini, Solmi — lo accompagneranno nei successivi spostamenti della casa editrice, da  Bologna a Modena, quindi a Genova e infine a Roma, Formiggini apparteneva a una  famiglia ebraica di cui molti rami erano cattolici da genera-  zioni remote; e in questa origine è forse da ricercarsi uno  dei motivi della sua insistenza sulla necessaria unità tra  ariani e semiti e sul tema della fratellanza universale. In  gioventi aveva compiuto indagini di storia delle religioni,  le quali — ricorderà con parole certo immodeste, ma che  testimoniano di un clima culturale intensamente vissuto —  mi portarono ad affermare, su dati puramente giuridici  ed etici, quella identità di origine degli ariani e dei semiti  che l'Ascoli aveva già riconosciuto nello stretto campo della  filologia e che gli scritti del Delitzsch, in Germania, sei anni  dopo di me, con grande autorità confermarono. Il suo  interesse per questo campo di studi è infatti attestato dalla  tesi di laurea in legge discussa a Modena, dal  titolo programmatico (La donna nella Thorà in raffronto col  Mandva-Dbarma-Séstra. Contributo storico-giuridico ad un  riavvicinamento tra la razza ariana e la semita), e da un  intervento del 1902 nel quale Formiggini lamentava l’as-  senza nel nostro paese di un « insegnamento critico » delle  religioni nonostante gli sforzi di Gaetano Negri, David Ca-  stelli, Raffaele Mariano, Alessandro Chiappelli e, soprat-  tutto, di Baldassarre Labanca, pur avvertendo che il desi-  Formiggini, Parole in libertà, Formiggini, Parole in libertà, derio di una ripresa degli studi storico-religiosi non deve  essere interpretato come l’efflorescenza di un sentimento  nostalgico verso un passato mistico per me e per altri molti  ‘ormai superato. Richiamandosi cosî alla concretezza  degli ideali terreni — aliena, più che in uomini a lui vicini,  come Buonaiuti o Quadrotta, da asce-  tismi medievali e da ogni forma di spiritualismo —, Formig-  gini seguîf con interesse quel parziale sviluppo di una  scienza delle religioni che si ebbe in Italia fra la fine  dell’ottocento e l’inizio del nuovo secolo, ad opera inizial-  mente di studiosi non cattolici e sulla base di quella identificazione fra idee teologiche e religiose e pensieroche  divenne « tradizionale negli studi storici italiani dai tempi  del Tocco e del Labanca in poi. Frequentando i corsi di lettere e filosofia dell’università  di Roma (conseguirà poi la seconda laurea  in filosofia morale a Bologna), Formiggini e infatti attento  soprattutto alle lezioni di storia del cristianesimo di Labanca, critico di ogni dogmatismo e — almeno nelle intenzioni — del misticismo, in nome di un Dio concepito come  ragione e coscienza. Meno avvertibile risulta la traccia dell’insegnamento  romano di Labriola, anche se proprio alla trascri-  zione di Formiggini dobbiamo la conoscenza del suo corso  di filosofia della storia Sul materialismo sto-  rico, e se fu proprio il futuro editore a portare il saluto degli  universitari italiani alla salma del « buon Maestro La coltura religiosa in Italia, Modena, Forghieri e Pellequi, Cantimori, Storici e storia, Torino, Einaudi; un  ‘accenno ai legami di Formiggini con Labanca e Quadrotta in P. Scoppola,  Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna, il Mulino,  Cfr. le notazioni di G. Gentile, Storia della filosofia italiana, a cura  di E. Garin, Firenze, Sansoni, «Tu, buon Maestro, ti servivi della mia voce per trasmettere il  tuo pensiero alla scuola » (« Corda Fratres Allieva di Labriola fu anche la moglie di Formiggini, Emilia Santa-  maria, la cui tesi di laurea su Le idee pedagogiche di Leone Tolstoi fu  pubblicata nel 1904 da Laterza con una breve prefazione di Labriola (ora  in Labriola, Scritti politici, a cura di V. Gerratana, Bari,  Laterza, A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    suoi « maestri » dell’università di Roma dovettero comun-  que contribuire a rinsaldare quello spirito democratico —  di matrice, ripetiamo, pit etico-religiosa che politica — al  quale è improntata l’attività svolta da Formiggini, come console e poi presidente della sezione ita-  liana dell’associazione internazionale studentesca Corda  Fratres, di stampo radical-massonico, che si proponeva di  raggiungere amore e fratellanza fra tutti i popoli e le classi  prescindendo dalla politica ”. All’interno dell’associazione  Formiggini si batté infatti contro le tendenze che ne inter-  pretavano le finalità in chiave nazionalistica, sviluppando  le sue convinzioni soprattutto a proposito del movimento  sionista: « secondo me, e vorrei che cosî fosse — scrive a commento del sesto congresso sionista di Basilea —, molti di quelli che in Italia hanno aderito al sionismo, non furono spinti dal sentimento di solidarietà di  razza, ma da quello molto più ampio e liberale di solidarietà  umana. Per costoro non dovrebbero aderire al sionismo gli  ebrei soltanto, ma anche tutti quelli che hanno il pensiero  sufficientemente evoluto per riconoscere che ad ogni uomo,  indipendentemente dalla razza cui appartenga e dalla fede  che professi, deve esser riconosciuto il diritto alla vita ed  alla dignità umana » ?. Concetti che saranno letteralmente  ripresi per negare ogni fondamento all’antisemiti-  smo, che avrebbe potuto essere meglio combattuto e vinto  ove il sionismo fosse rimasto una corrente umanitaria, senza  trasformarsi in un movimento nazionalista inteso a « ricostruire la potenza politica d’Israele. Questo ideale etico-umanitario veniva ribadito da Formiggini, assieme a preoccupazioni per l’insorgere delle cor-  renti irrazionalistiche e idealiste, in una recensione  a L’anarchia del modenese Ettore Zoccoli nella quale, dopo  aver condiviso il giudizio dell’autore sulle « teorie immo-  rali e antigiuridiche » degli anarchici, lo rimproverava di    Non era ancora un'associazione puramente « corpotativa », come  apparirà negli anni venti a Giorgio Amendola (Una scelta di vita, Milano,  Rizzoli).   Corda Fratres Formiggini, Parole in libertà, non aver mostrato « la efficacia, per quanto indiretta e non  voluta, che ha avuto l’anarchia per sospingere l’umanità  verso un’era di giustizia sociale, di libertà politica e religiosa e di universale affratellamento », e aggiungeva:    Dobbiamo ad ogni modo auguratci che la crisi che sta attraver-  sando il pensiero filosofico contemporaneo, il quale, mosso appunto  dalla preoccupazione etica, si è già annunciato come una vivace rea-  zione contro la filosofia della seconda metà del secolo XIX, si possa  risolvere, non in un ritorno a forme mistiche, la cui inconsistenza è  già stata provata dall’esperienza storica, ma in una confortante e  serena consacrazione di una morale intesa come necessità imprescin-  dibile della vita: necessità non d’ordine logico né d’ordine fisico,  ma però tale da avere rispetto alla vita delle coscienze: quello stesso  imperio assoluto che hanno le necessità logiche per il pensiero e le  necessità fisiche per tutto l’ordine meraviglioso della natura Dove sono espressi sinteticamente non solo la conce-  zione ottimistica del progresso e l’ideale di conciliazione di  quei « positivisti in crisi » che graviteranno attorno alla  casa editrice di Formiggini, ma anche il senso di un assedio  che si andava stringendo da parte degli idealisti. Ben diverso, quasi contrapposto, era il giudizio sull'opera di Zoccoli  formulato da Croce, che la considerava  moralistica (mentre una teoria filosofica sarà esatta o sbagliata, ma non mai morale o immorale ») e, da osservatore  apparentemente distaccato, ne traeva spunto per notare  nell’affermarsi di tendenze sindacaliste rivoluzionarie contro  il riformismo socialista l’influenza dell’anarchismo, che forse, considerato nel suo insieme, giova a mante-  nere quel sentimento di scissione tra il proletariato e la  borghesia, che i teorici del sindacalismo stimano indispen-  sabile al progresso sociale » ; lo stesso Croce che in un momento decisivo dello scontro col positivismo, bandiva dal vocabolario di « coloro i quali anelano  a un risveglio della filosofia e della cultura, salutare alla  patria italiana », i termini di « tolleranza » e « temperan-  za », sinonimo, quest’ultimo, di « debolezza, incapacità di    3 « Rivista italiana di sociologia, La Critica », Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    sintesi, tendenza alla combinazione e conciliazione estrin-  seca, che porta ad affermare cose tra loro ripugnanti, ha  paura delle opinioni della gente volgare, cerca di non sve-  gliare opposizioni, e rifugge dai partiti che richiedono riso-  lutezza e responsabilità Positivisti, modernisti, socialisti    La fisionomia alla quale la casa editrice rimarrà sem-  pre fedele venne definendosi nel giro di pochi anni, tanto che Serra, tracciando i caratteri distin-  tivi dei due editori-tipo italiani, Laterza e Treves, espres-  sione il primo del « libro di cultura » e, il secondo, di quello di bella letteratura, ma con la tendenza sempre più  marcata « a entrar nel campo della cultura », poteva anno-  verare in quest’ultima categoria le edizioni Formiggini, di  cui metteva in evidenza le « intenzioni brillanti » e « un  certo decoro » ”.   Notevole rilievo ebbero infatti anche le collane lette-  rarie, significative di una scelta e di un gusto: i « Poeti ita-  liani » si apre nel 1910 con le Odi di Massimo Bontempelli  — uno degli autori pi cari a Formiggini, fino alla rottura  —, proprio in quell’anno schieratosi  nella « polemica carducciana » con Ettore Romagnoli con-  tro Croce e Prezzolini in difesa della critica di tipo lettera-  rio contro quella di impianto filosofico, e annovera altri  poeti che inseguono il modello del « grande artiere » di  Carducci con accenti tenui ed eleganti, come Francesco  Chiesa, Francesco Pastonchi e Severino Ferrari (ma c’è  anche Pirandello, che ritornerà con Liolà); e grandissima  fortuna ebbero i « Classici del ridere » — cui Formiggini af-  fiancò la raccolta « Casa del ridere » — ”, che raccogliendo   Croce, Il risveglio filosofico e la cultura italiana, in Cultura e  vita morale, Bari, Laterza, Serra, Le lettere, in Scritti letterari, morali e politici, a cura di  M. Isnenghi, Torino, Einaudi, Cfr. Bontempelleide, con interventi di Formiggini e Fernando Pa.  lazzi, in «L’Italia che scrive, Cfr. gli interventi di E. Manzini ed E. Milano in Formiggini   testi italiani e stranieri, riflettono l’utopistica speranza del-  l’editore che l’« universale fusione di spiriti che deve essere  la meta costante di ogni più alta manifestazione di civiltà,  sarà affrettata di altrettanto di quanto l’affrettarono la mac-  china a vapore e il telegrafo » ®. L’impronta culturale e ci-  vile della casa editrice è data tuttavia dal largo spazio accor-  dato ad argomenti filosofici, pedagogici e religiosi, con un  orientamento che, se difficilmente può essere definito in  positivo, può essere considerato schematicamente come  espressione di gruppi non-idealisti.   Positivisti e modernisti di varie venature, e spesso di  orientamento politico socialista e socialisteggiante, contrad-  distinsero le origini della casa editrice, che continuerà ad  annoverarli tra i suoi collaboratori anche quando le convin-  zioni di alcuni si vennero modificando sensibilmente (ma  altri si aggiunsero, come Giuseppe Rensi e Adriano Tilgher,  nel momento del loro distacco dall’idealismo). I nomi di  Achille Loria e Alessandro Levi, di Emilia Formiggini San-  tamaria e Giuseppe Tarozzi, di Ernesto Buonaiuti e Felice  Momigliano, ricorrono con frequenza, anche per l’intero  trentennio di vita delle edizioni Formiggini, a conferma di  una scelta e di una adesione non casuali.   Sui gruppi positivisti di questi anni, di filosofi e peda-  gogisti in particolare, come sui vari filoni modernisti e sui  loro esiti, sono state scritte pagine illuminanti che hanno  colto gli itinerari di ciascuno sotto l'impatto del neoidealismo. Restano tuttavia da verificare le convergenze e le  alleanze che, contro lo stesso nemico, si stabilirono tra cor-  renti e uomini per vari aspetti spesso culturalmente e politi-  camente diversi e distanti, e che videro seguaci di Ardigò,  neokantiani e fautori di un rinnovamento della chiesa —  laici e religiosi, mistici e razionalisti — confluire insieme a  combattere per la loro sopravvivenza, uniti solo, nel co-  mune disorientamento, da condanne idealiste o pontificie.    Editore. Mostra documentaria, Modena, S.T.EM. Mucchi,  Formiggini, Trenta anni dopo, cit.,  Garin, Cronache di filosofia Sialiona Bari, Laterza,  Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    Di questi e altri accostamenti, come quello tra socialismo  e religione in cui si impegnarono ad esempio Alfredo Poggi  e Felice Momigliano, sono documento evidente proprio le  edizioni Formiggini. E forse a molti collaboratori della casa  editrice può essere esteso il giudizio che è stato espresso  per Momigliano: « Profetismo, Mazzini, socialismo rima-  sero per Felice tre nozioni difficilmente separabili. La purificazione dell’ebraismo, il rinnovamento spirituale d’Italia  e lo stabilimento della giustizia sociale in Europa erano  nella sua mente tre aspetti di un problema solo. Un  vivo senso della nazionalità e un vago socialismo sconfinante nel populismo borghese e inteso come prosecuzione  della democrazia risorgimentale sono infatti le caratteristi-.  che di uno dei più assidui collaboratori di Formiggini, Ales-  sandro Levi *, e si ritrovano in molte delle iniziative del-  l’editore modenese.   Nelle collane di saggistica si possono comunque individuare tre filoni principali di interesse: quello religioso, pre-  sente ovunque ma che per un certo periodo ebbe il suo  posto privilegiato nella « Biblioteca di varia coltura » dove  usci il Mosé e i libri mosaici dell’ex prete moderni-  sta Salvatori Minocchi — in questo momento convinto che  « il futuro cristianesimo ha da cercarsi nelle vie del socialismo  —; quello pedagogico, che vide l’intervento assi-  duo di Emilia Formiggini Santamaria con studi storici è  didattici ispirati alle teorie di Fròbel ed ebbe un punto di  riferimento costante — non quando.  fu pubblicata dall’editore modenese — nella « Rivista pe-  dagogica », l’organo dell’Associazione nazionale per gli  studi pedagogici fondato nel 1908 da Luigi Credaro e che,   Momigliano, Momigliano, ora in Terzo contri-  buto alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma, Edizioni di  storia e letteratura, Poggi cfr. Socialismo e religione.  Modena, Formiggini, 1911, e, sull’autore, la voce di M. Torrini in F.  Andreucci - T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori Riuniti,Cfr. le osservazioni di Piero Treves nel numero speciale di « Cri-  tica sociale » dedicato a Levi Cit. da A. Agnoletto, Minocchi, vita e opera;  Brescia, Morcelliana, seppur influenzato dall’herbartismo del futuro ministro  della pubblica istruzione, fu aperto ai collaboratori delle più  varie tendenze (da Colozza a Calò, da Varisco alla Formig-  gini Santamaria) *. Il terzo filone, e forse il più significativo  perché comune denominatore anche degli altri, fu rappre-  sentato da un generico interesse per i temi filosofici, mu-  tuato dalla Società filosofica italiana e dalla « Rivista di  filosofia » attenta, del resto, anche alle problematiche reli-  giose e pedagogiche.   L’inizio dell’attività di Formiggini è infatti stretta-  mente connesso con la fase di riorganizzazione della Società  filosofica italiana, di orientamento prevalentemente (anche  se vagamente) positivista, apertasi — in  concomitanza con l’intensificarsi del programma culturale  di Croce e di Gentile attorno alla casa editrice Laterza —  con il congresso di Parma della società. In questa sede fu  deliberata — in vista di « una degna affermazione dell’atti-  vità filosofica italiana » al terzo congresso internazionale di  filosofia di Heidelberg — la preparazione di quel Saggio di  una bibliografia filosofica italiana che, compilato da Ales-  sandro Levi con la collaborazione di Bernardino Varisco  e, per la parte pedagogica, di Emilia Formiggini Santamaria,  apparve nel 1908 per i tipi di Formiggini e fu giudicato da  Gentile la prima manifestazione di « qualche cosa di con-  creto e di utile agli studi di filosofia » da parte della Società  filosofica ’. Il Saggio inaugurò la « Biblioteca di filosofia e di  pedagogia » che accolse, oltre agli atti dei congressi della  società, scritti della Formiggini Santamaria, I/ materialismo  storico in Federico Engels di Rodolfo Mondolfo — di cui è  possibile cogliere l'origine tormentata nelle lettere dell’au-  tore all’editore * —, e altri testi in cui l'impronta antiidea-   Cfr. D. Bertoni Jovine, La scuola italiana,  Roma, Editori Riuniti, « La Critica » Attendo presentemente a un lavoro su La filosofia del comunismo  critico. Una parte di questo, I/ materialismo dialettico e il materialismo  storico di F. Engels spero averla pronta entro brevissimo tempo », scrive Mondolfo proponendone la pubblicazione. Ma  ancora confessava: « La parte che ancora rimane per  il termine del lavoro io l’avevo molto tempo addietro abbozzata e in    Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    lista è, almeno prima della guerra, ben documentabile. Se  meno precisamente definibile è la posizione di Ludovico  Limentani, assertore del metodo positivo ma aperto alle  istanze idealistiche, che pubblica due volumi (I presupposti  formali dell'indagine etica del 1913, e La morale della simpatia) in cui, come in tutta la sua opera, è filosofi-  camente argomentato e approfondito l’ideale stesso di Formiggini, in quanto l’autore fa l’« esaltazione, sul piano poli-  tico-sociale, del diritto ad esistere di ogni spinta ideale, che  scenda a collaborare sul piano della concreta discussione  con le altre idealità » *; assai netta è, nel 1913, la posizione  di Erminio Troilo, seguace del pensiero ardigoiano e uno  dei più continui collaboratori della casa editrice, che pre-  sentando le Pagine scelte di Ardigò lancia un violento atto  d’accusa contro idealisti e pragmatisti, in una difesa patetica  di quella cultura positivista che stava scomparendo: « Sin-  ceramente, — scriveva — chi scorra senza spirito di parte  o di setta e senza quel vanissimo orgoglio di superfiloso-  fismo che è oggi venuto di moda, e che infuria, talora con  veri accessi di epilessia metafisica e pit spesso con inqua-  lificabile volgarità, specialmente, si capisce, contro il posi-  tivismo, le pagine che il Gentile e l’Orano, il Papini e,  ultimo venuto, il De Ruggiero hanno, bontà loro, dedicato  a Roberto Ardigò, dovrà convenire che non mai parzialità  e superficialità, trivialità e accanimento hanno intessuto una  trama di più fatue leggerezze e di più dolorose malizie,  intorno ad un uomo e ad un pensatore che ha pur il diritto  di vivere e di pensare; mentre quei critici stessi si svociano    parte stesa in una forma però che, essendo stato poi da me modificato  tutto il piano del lavoro, non può più affatto andare. È dunque da rifar  da capo bisogna che torni a rivivere il mio tema ». Finalmente 1°11  ottobre dello stesso anno poteva annunciare: «Ho scritto l’ultima car-  tella »; ma i dubbi non erano finiti, se, approfittando  della necessità di cambiare il frontespizio del volume per il trasferimento  dell'editore da Modena a Genova, Mondolfo suggeriva di togliere dal  titolo « Il materialismo dialettico lasciando le parole « Il materialismo  storico, che costituiscono la parte più importante e interessante del  titolo. Archivio editoriale Formiggini presso la Biblioteca Estense di  Modena [d”ora in avanti AF], Mondolfo Garin, I/ pensiero di Ludovico Limentani, in « Rivista di filosofia. In/        e si sbracciano ad osannare i pretenziosi ma altrettanto  inconcludenti fra professori e conferenzieri di marca tedesca  e anglo-americana, e francese, i cui nomi sono ormai sulle  bocche di tutti; o i più ciarlatani, tipo Sorel; o pit insulsi  tra gli affiliati nostrani della congrega hegelianoide Fuori collana apparvero altri testi filosofici, di particolare  rilievo i primi due volumi degli Scritti di Michaelstidter; non andò in porto, invece, la pro-  posta di Levi di pubblicare gli scritti di Vailati, avanzata  subito dopo la morte di questi.   Questi contributi erano il frutto di un rapporto diretto  con la « Rivista di filosofia, l’organo della Società filosofica italiana, per i tipi di Formiggini, dalla fusione della « Rivista di filosofia e scienze  affini » di Giovanni Marchesini con la « Rivista filosofica »  fondata da Carlo Cantoni; e che non si trattasse di un rap-  porto puramente tecnico o commerciale, è dimostrato dalla  notevole consonanza di accenti tra la rivista e tutta l’atti-  vità della casa editrice.  Non costituiamo una scuola; siamo una collezione d’uomini, unit:  dal comune amore della verità, ma che non abbiamo tutti lo stesso  concetto di quello che la verità sia Ma tutti siamo persuasi che,  per arrivare a conoscere la verità  e a farla trionfare, la discussione seria de’ problemi, sotto ciascuno de’ loro aspetti, sia l’unico  mezzo possibile: un mezzo che, prima o poi, ci farà conseguire il fine  desiderato £:    cosi dichiaravano nel 1909 i redattori della rivista criti-  cando il programma della « Rivista di filosofia neo-scola-  stica » che si diceva « espressione dei pensamenti di una  scuola determinata ». Questo vago « amore della verità »  era il segno, più che della « temperanza » combattuta da  Croce e dai neoscolastici, di uno sbandamento e di una de-  bolezza di fondo, appena mascherati da un ottimismo inge-  nuo e perdente, data l’indeterminatezza del fine  da rag-    Ardigò, Pagine scelte, a cura di E. Troilo, Genova, Formiggini,  PED   4 AF, « n di filosofia, Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    giungere: un « amore della verità » tale non solo da provo-  care il rapido manifestarsi di contrasti interni alla redazione  tra i due gruppi di Pavia e di Padova, ma anche da permet-  tere che già nel 1910 padre Gemelli venisse accolto fra i  membri della società. E tuttavia il programma dei fondatori, inteso a dare all’Italia « una rivista autorevole aperta  ugualmente a tutte le opinioni e perciò adatta a chiarire le  profonde ragioni ideali, da cui le scuole filosofiche trag-  gono origine », introduceva subito sintomatiche puntualiz-  zazioni:    la patria nostra, risorta da cinquanta anni ad unità di nazione, vuole  rivendicare le alte tradizioni del suo pensiero che informa tutta la  cultura e la vita moderna.   Infatti, dobbiamo costantemente ricordare che naturalismo ed  umanismo, i due atteggiamenti fondamentali della speculazione euro-  pea, sorgono ugualmente col rinascere degli studii per opera del genio  italiano, universale e concreto; sicché tutta la filosofia posteriore  può rannodarsi ai nomi di Galileo e di Vico, che ne simboleggiano gli  spiriti.   Da questi eroi tragga incitamento ed auspicio la nuova filosofia  che deve ravvivare l’opera e la coscienza ideale degli italiani!    In realtà, nonostante l’auspicio che sulle sue pagine  « tutti gli indirizzi del pensiero filosofico trovassero libera  espressione » ‘, e i passi compiuti in questo senso verso i  circoli di filosofia di Roma e di Firenze di tendenze preva-  lentemente idealistiche *, la rivista diretta da Faggi, Juval-  ta, Levi, Marchesini, Vailati (sostituito dopo la morte da    Calderoni e Troilo), Valli e Varisco — ai quali si aggiun-  geranno in seguito Pastore e Buonaiuti— risultò voce di « positivisti » il cui eclettismo  trovò un limite di fronte all’idealismo. Ci sembra assai  valido — ed estensibile alla casa editrice — il giudizio    di Santino Caramella, per il quale la rivista accoglieva   I due circoli aderirono alla Società filosofica nel corso,  ma quello di Firenze ritirò la propria adesione tramite  il suo segretario Giovanni Amendola: fra il Circolo e la Società, dichia-  rava, « non esiste affinità alcuna, né di scopo, né di tendenze, né di me-  todi d’azione » (« Rivista di filosofia », I tutti, « dal neopositivismo del Troilo all’hegelismo del  Losacco, dal misticismo del Rensi al fichtismo del Til  gher e del Ravà, dall’ardigioianesimo al neokantismo — e  chi più ne ha più ne metta, ogni indirizzo poté salire in tri-  buna. Ma non per questo cessava la intolleranza verso gli  intolleranti di questa amorfa tolleranza: il Croce, Gentile restarono sempre i maligni avversari che avevano gua-  stato l’Eden filosofico: e specialmente i positivisti ebbero  cura di non lasciar mai spegnere il fuoco della battaglia » *.  Possiamo aggiungere, a integrazione del quadro solo in  negativo fornito da Caramella, l’esplicita connessione di in-  teressi filosofici e religiosi — ne è testimonianza anche l’in-  gresso nella redazione di Buonaiuti, subito impegnato a  confutare sulle pagine della rivista la pretesa gentiliana di  individuare in Vico un precursore dell’attualismo 4 — e  l'insistenza sul « genio italiano » che, pur senza assumere  fin dall’inizio precisi connotati nazionalistici — come cer-  cherà invece di far intendere Troilo —, era  indice di una chiusura nei confronti del pensiero contem-  poraneo non italiano.   È un aspetto, questo, che risalta con forza ove si con-  frontino i « Classici della filosofia moderna » che Croce iniziò  per Laterza con l’Enciclopedia di Hegel, e  l’iniziativa formigginiana dei « Filosofi italiani », la collezione promossa dalla Società filosofica italiana e diretta da  Felice Tocco. Le differenze, naturalmente, non sono segnate  solo da confini geografici, pur importanti. Il fatto è che,  come riconosceva e paventava la stessa « Rivista di filosofia » *, il programma crociano si proponeva la valorizza-    Caramella, Le riviste filosofiche italiane nell'ultimo quarto di  secolo, « La Cultura Buonaiuti, Il carattere storico della filosofia italiana, in « Rivista  di filosofia In « L'Italia che scrive »Recensendo positivamente — per l’accesso diretto alle fonti che  offrivano — i « Classici della filosofia moderna », Michele Losacco osser-  vava: « È ben difficile «creare un movimento speculativo che lasci tracce  profonde, se l’ambiente in cui si lavora non è sufficientemente preparato ad  intenderlo; ne fu prova non dubbia l'indirizzo idealistico, promosso a  Napoli da Bertrando Spaventa, e che non trovò il meritato seguito, perché  si concentrò in alcuni pochi spiriti, solitari e incompresi. Ora ogni nuovo Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    zione di una linea di pensiero che assegnava all’Italia un  ruolo centrale con Spaventa, De Sanctis, Labriola e Croce,  ma era tanto pi forte in quanto riproposta attraverso una  determinata lettura di Vico, di Kant e di Hegel, mentre  Tocco si preoccupava di riportare alla luce soprattutto    la filosofia della Rinascita che è nella maggior parte italiana, come  italiano è quel movimento umanistico che la promosse. E questo  periodo cosi arruffato della speculazione, che in mezzo al rifiorire  della scienza e della medicina antica, in mezzo al ripullulare dell’an-  tica magia alchimia ed astrologia prepara l’avvento della nuova  scienza e della coscienza nuova, merita di essere studiato .    Ben diversa da quella di Croce e Gentile fu anche la  capacità di promozione della Società filosofica italiana:  bastò la morte di Tocco a impedire che avesse  seguito, dopo i primi due volumi del De rerum natura di  Telesio curati da Vincenzo Spampanato la proposta avan-  zata in prima persona dall’editore modenese al terzo con-  gresso della società (Roma, ottobre 1909), e da questa  assunta in proprio con l’impegno del suo presidente di  « dare ogni aiuto possibile », di « raccogliere in una accu-  ratissima edizione i testi critici dei maggiori filosofi italiani,  per rendere accessibili a tutti le opere meno agevolmente  ostili e più importanti per la storia del pensiero nazio-  nale » ”,    e serio conato speculativo, come fu, per esempio, quello della Rinascenza,  presuppone sempre lo studio e il riconoscimento delle migliori tradizioni  filosofiche, e nazionali e straniere, da cui deve trarre la ragion d’essere e  l’ispirazione » (« Rivista di filosofia », Prefazione di Tocco al vol. I del De rerum natura di Telesio (Mo-  dena, Formiggini, Cfr. anche E. Garin, Per un'edizione dei filosofi italiani, in « Bol-  lettino della Società filosofica italiana Perché la direzione dei « Filosofi italiani » fosse affidata a Tocco  intervenne Croce, come si ricava dalle sue lettere a Formiggini e dal suo  commento al congresso di Roma, in cui dichiarò « in piena liquidazione »  il positivismo (ora in Pagine sparse, Bari, Laterza, Contro le « fauci ingorde » di Formiggini, che per l’edizione di Telesio  avrebbe cumulato i contributi finanziari del Comitato telesiano di Cosenza  e dello Stato, cfr. lo sfogo di Gentile nella lettera a Croce (G. Gentile, Lettere 4 Croce, a cura di S. Giannantoni,  Firenze, Sansoni Gentile scriveva  a Croce degli « spropositi vergognosi » presenti nella prefazione di Spam-  panato Accanto a una cultura in varia misura positivista che  si organizza sul piano accademico che è proprio della  « Rivista di filosofia » — e anche su questo terreno sarebbe  da valutare la « resistenza » opposta dai positivisti al neo-  idealismo, testimoniata dalle lagnanze ricorrenti nelle let-  tere di Croce, Gentile, Omodeo —, è da segnalare la  « vocazione » illuministica di questi gruppi a farsi educa-  tori di masse le più larghe possibili. Se l’idealismo incontrò  forti limiti ad una sua penetrazione o « traduzione » popo-  lare, ciò non si dovette solo a sue carenze originarie o éli-  tari rifiuti, ma anche all’esistenza di una cultura media  o « popolare » resa impermeabile alla sua influenza da prece-  denti incrostazioni di segno diverso o contrario, depositate  lentamente — attraverso periodici, università popolari o  certe collane, non solo di istruzione tecnica o di lettera-  tura d’appendice — ad opera dei positivisti che avverti-  vano « il dovere di divulgare tra il “popolo” quella scienza  che consideravano parte integrante della realtà », fiduciosi  « che individui appartenenti a ogni strato sociale potessero  rispondere al richiamo illuminante e liberatore della verità,  la stessa verità in cui essi credevano » "   Alla divulgazione erano appunto rivolti, come altre  iniziative contemporanee e sulle orme della « Biblioteca del  popolo » di Sonzogno, i « Profili » di Formiggini, nati nel  1909 con l’intento di soddisfare il più nobilmente possi-  bile alla esigenza caratteristica del nostro tempo, di voler  molto apprendere col minimo sforzo » *. E non a caso « Cri-  tica sociale » la giudica una « utilissima colle-  zione » ®. Alla tendenza allora predominante di dare una  immagine del passato o del presente attraverso singole  figure di protagonisti — gli « eroi » di cui parlava la « Rivi-  sta di filosofia » nella sua pagina d’apertura, gli uomini sim-  boli di un’epoca su cui era costruita la prima storia del   Rosada, Le università popolari in Italia, Roma,  Editori Riuniti, A.F.F , Trenta anni dopo, cit.,   53 V. Osimo, ‘arlo Porta, in « Critica Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    socialismo tentata da Angiolini e Ciacchi — si ispirarono  numerose collezioni, la più nota ed aulica di tutte, ma di  breve durata, quella dei « Contemporanei d’Italia » intrapresa da Ricciardi sotto la direzione di Prezzolini;  ma fu soprattutto Formiggini a preoccuparsi di divulgare i  suoi « Profili » attraverso le biblioteche popolari, « queste  istituzioni — scriveva presentando la collana — che stanno  ora sorgendo e moltiplicandosi e che saranno i focolai donde  uscirà la dignità nuova e la nuova fortuna della patria »,  rivolgendosi in particolare al mondo della scuola*. E i  « Profili » raggiunsero un pubblico per quei tempi molto va-  sto: uno dei primi titoli, il Ges di Labanca, di cui nel 1918  fu stampata la terza edizione, solo nella prima ebbe una tiratura di 2.500 copie Nel capitolo  de Le lettere dedicato alla « critica letteraria », Serra faceva  un bilancio delle collane comprendenti « l’essaî dedicato  a una questione o a una figura », e annotava:    Ne abbiamo parecchie: i Profili, i Contemporanei, gli Uomini  d’Italia, i moderni, gli antichi e che so io. Ma o si sono arrestate, 0  han dato la solita roba; conferenze da una parte, e dall’altra tesi e  avanzi di corsi scolastici, che non riescono a fare il libro. L’unica  serie che va avanti bene è quella dei Profili; appunto perché il suo  modulo, anche materialmente, modesto e facile da riempire, si im-  pone alla personalità degli autori con una certa economia necessaria  di notizie e di disegno, che non lascia posto a digressioni o erudi-  zioni o analisi, come dicono, originali. Potrebbe parere un difetto;  ed è, tra noi, una fortuna. Senza dire che anche in quei limiti si pos-  sono ottenere cosette buone; per un esempio, l’Esiodo del Setti o il  Bodoni del Barbera *.    La mancanza di originalità di questa produzione non  impediva tuttavia che essa avesse un taglio preciso per gli  autori o i biografati prescelti. Anche se il criterio della    % Illustrando sulla « Rivista di filosofia » un suo progetto sull’istitu-  zione di biblioteche per gli studenti delle scuole medie, già accennato al  congresso per le biblioteche popolati di Roma nel dicembre 1908, Gio-  vanni Crocioni affermava: «Non vi mancheranno le opere d’arte, le vite  di uomini insigni, le edizioni popolari; vi troveranno, ad esempio, luogo  opportuno i Profili che il nostro coraggioso e geniale editore vien pub-  blicando con fine gusto di arteAF, Labanca.   5% Serra, competenza suggeri in un primo tempo a Formiggini di  rivolgersi a Croce e poi a Gentile per il ritratto di Hegel, a  Papini per quello di Sarpi o a Prezzolini per Baretti —  contatti che non ebbero poi esito positivo —, gli autori dei Profili furono e rimarranno in maggioranza esponenti di  ambienti positivisti o modernisti, e spesso « toccati  dal  materialismo storico. Per i personaggi-chiave, dove le « di-  gressioni » erano pit facili e significative, troviamo Achille  Loria autore del Malthus — « uno dei più ricer-  cati della mia fortunata collezione », gli scriveva Formiggini — che raggiunse la quarta edizione, dei ritratti di Marx e Ricardo; Tarozzi con Rousseau, Ardigò e Socrate ed Troilo con TELESIO (si veda), Bruzo e Kaxt; Labanca con Ges# di  Nazareth, Momigliano con Tolstoi e  Buonaiuti con una lunga serie di ritratti:  Sant'Agostino, San Girolamo, Sant'Ambrogio, AQUINO (si veda), San Paolo, Gest il Cristo (che sostituî il profilo di  Labanca) e San Francesco; Barbagallo tracciò i  profili di Giuliano l’Apostata e Tiberio,  mentre Concetto Marchesi delineò quelli di Marziale, Giovenale e Petronio.   Alcune, poche « concessioni » del periodo fascista non  alterarono le caratteristiche originarie della collezione, che  accanto alle figure principali della letteratura italiana e stra-  niera dava largo spazio — più di quanto ne concedessero la  « Collana biografica universale » delle edizioni Quattrini di  Firenze o i « Pensatori celebri » e i « Pensatori d’oggi » del-  la milanese Athena — ad esponenti del pensiero filosofico-  scientifico (Telesio, Bruno, Galileo, Newton, Lavoisier,  Morgagni) e ai pensatori dell’ottocento cari alla genealogia  positivistica e socialista (Malthus, Darwin, Marx, Lombro-  so, Ardigò).   Mentre per meglio esaltare la dottrina di Darwin l’au-  tore del suo ritratto, il naturalista Alberto Alberti, rite-  neva necessario fissare fin dall’inizio le fattezze del biogra-  AF, Loria. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    fato (« cupola immensa il cranio. Dentro, un cervello che  come quello di Volta e forse come quello di Leonardo, non  pesava meno di due mila grammi), convinto, in base a  un ingenuo positivismo, che i tratti fisici giovano a far  intendere come per la larga, possente grandiosità del lavoro  intellettuale compiuto da Darwin ben occorresse anche una  struttura fisica non diversa ma più vigorosa di quella onde  è congegnata la moltitudine degli uomini » *; l’autorevo-  lezza delle biografie di Malthus e di Marx è affidata al loro  autore, quell’Achille Loria tanto disprezzato da Labriola e  da Gramsci, ma che rimane pur sempre, come è stato sotto-  lineato di recente, « una figura rappresentativa dell’età del  positivismo evoluzionistico e del nascente movimento socia-  lista » alla quale si deve « la diffusione in Italia della no-  zione di un’economia non immutabile, non governata da leg-  gi esterne, ma mossa dalla lotta delle classi sociali e perciò  suscettibile di evoluzione al di là dello stadio proprietario  e capitalistico » ”. I giudizi e gli accostamenti di Loria non  sono per questo meno disinvolti: la teoria della popola-  zione di Malthus, « sorta quale teoria di regresso », se « de-  bitamente svolta ed ampliata, si torce invece nella più radi-  cale fra le teorie sociali. Dacché essa insegna che il flutto  incessante della popolazione è il fermento irresistibile di  distruzione delle forme sociali successive » 9; invece Marx,  nonostante la « grandiosità michelangiolesca » del suo pen-  siero, sta « di molto al disotto dei grandi maestri della  scienza positiva »: « Se invero è mirabile e enorme que-  sttuomo — notava Loria —, il quale riesce a contenere  tutto un mondo fra le pieghe di un semplicissimo principio  iniziale, e la cui vita non è pi che lo sviluppo di una equa-  zione, che egli ha posta agli esordi — quanto più onesto,  più leale, più scientifico il procedere di Darwin, il quale  non pone principj aprioristici, ma accoglie senza preconcetti    5 A. Alberti, Darwin, Modena, Formiggini, Faucci, Revisione del marxismo e teoria economica della pro-  prietà in Italia, Loria (e gli altri), in « Quaderni fio-  rentini, Loria, Malthus, Roma, Formiggini,  i fenomeni nell’ordine di complessità progressiva che la  vita stessa gli affaccia! La storia italiana recente era illustrata con un forte  senso della nazionalità, accentuato dalla grande guerra, ma  con tonalità democratiche: al ritratto dei fratelli Bandiera  seguivano -16 quello di Abba, e un Cavour di Murri che — presentato da una Lettera ai com-  battenti del « capitano Formiggini » come « una potentis-  sima sintesi » non solo delle concezioni dello statista pie-  montese, « ma di tutte le correnti del pensiero collettivo  che portarono al trionfo della idea nazionale » — si preoc-  cupava di definire valore e limiti del realismo politico del  biografato per dare sbalzo alla fede mazziniana (« solleci-  tando, con il suo titanico ardimento, la storia ed i fatti,  [Cavour] disperse, in parte, quel tesoro di energie spiri-  tuali che Mazzini aveva preparato per pi lunga e pro-  fonda e dolorosa opera Cavour ha avuto ragione per  il suo tempo, Mazzini torna ad aver ragione oggi.   Elemento caratteristico della collezione formigginiana  resta comunque l’ampio interesse per la storia religiosa,  toccata sia attraverso le figure di Ges, di Savonarola £ e  dei santi, sia per inciso nei profili degli imperatori romani  che videro l’affermarsi del cristianesimo o nel ritratto dedi-  cato a Tolstoj da Felice Momigliano. « Pi che l’editore, tu  sei il critico degli autori tuoi », scrive Marchesi  a Formiggini *: e il rapporto dell’editore con gli autori di  profili religiosi si rivela particolarmente stretto e franco,  come nel caso di Labanca e di Buonaiuti; indice della sua  diretta partecipazione è ad esempio l’affettuoso rimpro-   A, Loria, Marx, Genova, Formiggini, Murri, Camillo di Cavour, Genova, Formiggini, Rispetto al giudizio minimizzatore di cui sarà oggetto nell’Enciclo-  pedia italiana, come abbiamo visto, Savonarola era eroicizzato da   Galletti come colui che «riconciliò la libertà colla religione,  ravvivò negli animi il sentimento cristiano offuscato o pervertito, ordinò  un governo libero e onesto sul fondamento della dignità morale », dimo-  strandosi, con tutto ciò, « veramente italiano » (Savonarola,  Roma, Formiggini, AF, Marchesi. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    vero mosso a quest’ultimo, che aveva sottolineato la con-  tinuità tra ebraismo e cristianesimo:    Mi sono letto il profilo del Cristo — gli scrive, contemporaneamente all’uscita di Gesz il Cristo di Buonaiuti,.  un titolo che Labanca aveva esplicitamente rifiutato per il suo Gesg  di Nazareth — e ti confesso che non mi è piaciuto e che non piacerà.  Non è il profilo del Cristo rispetto ai Farisei ma il profilo tuo ri-  spetto a padre Gemelli e hai fatto senza volere un’apologia del fari-  seismo che non la meritava e hai fatto del povero Cristo uno scoc-  ciatore e tale forse non fu.   Ho rimorso di aver fatto un corno al povero mio maestro Baldas-  sarre Labanca, tu sai scrivere in modo meraviglioso, egli non sapeva  scrivere ma nel suo ruvido libretto c’era pur qualche cosa che restava.  in tasca a chi lo leggeva.   Insomma se vieni ti parlerò di Dio, perché mi sento di poterti  dare qualche utile consiglio ©.    Per la loro destinazione e per lo stretto rapporto edi-  tore-autori che rivelano, i « Profili » risultano quindi una  guida utilissima per seguire le tematiche allora più largamen-  te diffuse e gli orientamenti politici e culturali della casa edi-  trice: dal giudizio formulato da Felice Momigliano su  Tolstoj subito dopo la sua morte che corrisponde  a una diffusa « lettura » del romanziere e pensatore russo  (« un distruttore ben pit radicale di Marx » 4), a quello di  FrLosini, che al presunto carattere della  rivoluzione d’ottobre — « suppellettile d’importazione »  senza radici nella tradizione russa — oppone l’ammoni-  mento del suo biografato, Turgenev, « a non prescindere:  dalla nazionalità nella preparazione dell'avvenire della Russia » ‘, fino ai mutamenti significativi che, da un’edizione  all’altra, possono registrarsi nello stesso profilo. Come nel  Telesio di Troilo, che nella prima edizione si  conclude con il rimprovero alla filosofia contemporanea di  dare espressione al suo antiintellettualismo ricorrendo al  pragmatismo — che è solo « un getto, un po’ morbido, del  saldo profondo tronco antico » del « radicale empirismo  Buonaiuti.  6 F. Momigliano, Leone Tolstoi, Modena, Formiggini, Losini, Ivan Turghenieff, Roma, Formiggini, presocratico » —, laddove nella seconda edizione del 1924  termina affermando che vedere nel pensiero del cosentino  l’avvio del processo che sfocierà nella dialettica trascenden-  tale kantiana è « più legittimo che non fare di Bernardino  Telesio qualché di simile ad un idealista assoluto » £.   Anche in periodo fascista la collana cercò di mantenersi  fedele all’ideale di « equilibrio » e di « conciliazione » di  Formiggini: e se non mancarono concessioni alla retorica  fascista, come nell’esaltazione del ricostruttore dello Stato  sabaudo, Filiberto, fatta da Silva,  Levi traccia un profilo di Roma-  gnosi, il severo giudice dell’assolutismo il quale nella  Scienza delle costituzioni — ricordava Levi in pieno re-  gime — aveva affermato che « la luce del vero e del giusto  appartiene al genio onnipossente e beatificante della libertà,  le tenebre dell’ignoranza appartengono al dèmone della  tirannia, d’onde sorge la discordia e la distruzione degli  Stati. Una cultura « al di sopra della mischia »    Il breve e tormentato periodo del dopoguerra, fino al  pieno affermarsi del fascismo, vide il massimo sviluppo del-  l’iniziativa di Formiggini, e il suo tentativo di allargare  l’ambito di intervento dall’editoria a più ambiziosi programmi di organizzazione della cultura. Ma è proprio nel  clima teso di questi anni, fortemente condizionato dal nazionalismo e poi dal fascismo, che egli subirà la più cocente  delle sconfitte, la sconfitta di una utopia, di un ideale non  ancorato a un preciso orientamento politico. Il capitano Formiggini aveva partecipato con entusiasmo alla guerra,  «momento di doveroso lavoro per tutti, ricorderà la  moglie. Troilo, Bernardino Telesio, Modena, Formiggini;  seconda edizione, Roma, Formiggini, Levi, Romagnosi, Roma, Formiggini, Formiggini Santamaria, La mia guerra, Roma, Formiggini, Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    E la guerra non fece che rafforzare l’ideale di Formiggini di una « Europa nuova », « civile e fraterna »,  fondata sulla « comunione di cultura tra i popoli, ma  come presupposto per la sua piena realizzazione si fece  sempre pit frequente in lui — come in tanti altri intellettuali di fronte alla prima grande vittoria dello stato ita-  liano — la rivendicazione dei valori nazionali e patriottici  (simboleggiati dai fregi classicheggianti di Adolfo De Ka-  rolis, già illustratore di « Leonardo » ed « Hermes, contro il quale si scaglieranno in nome dello « spirito popola-  resco » i giovani del « Selvaggio »). L’insistenza su questi  ultimi farà ben presto relegare in secondo piano l’ideale  originario, e si tradurrà in un servizio reso alle forze che  con maggiore coerenza puntavano ad una « riscossa nazio-  nale » della borghesia italiana. Un eclettismo culturale  fiduciosamente perseguito (ma di rado realizzato) e la man-  canza di un netto orientamento politico furono infatti i  motivi della sostanziale debolezza — nonostante i successi  iniziali — delle ambiziose iniziative concepite da Formig-  gini al termine della guerra. Il suo sarà un destino analogo  a quello della « Rivista di filosofia », che si apriva  con un Programma di lavoro in cui Bernardino Varisco rin-  correva l’ideale di una suprema « armonia » tra gli stati le  classi e le singole « culture », fino a incontrare, per la sua  genericità, il consenso di quel Gentile ? che poche pagine  dopo, sulla stessa rivista, era duramente attaccato da Buo-  naiuti.   Frutto del modo col quale Formiggini avverti le lace-  razioni prodotte dalla guerra in campo internazionale, e  della volontà di difendere e rafforzare anche sul piano spiri-  tuale l’unità nazionale pienamente conseguita sul terreno  politico, sono il progetto, poi non attuato, di una colle-  zione italiana di classici greci e latini — « i mostri classici Formiggini, Trenta anni dopo. Era una speranza  formulata confusamente anche da Troilo, che pur non  tralasciava l’occasione per lanciare una nuova accusa contro l’« idealismo  assoluto, una vera e propria Metafisica di guerra » (La conflagrazione.  E storia dello spirito contemporaneo, Roma, Formiggini,   Cfr. G. Gentile, Guerra e fede, Napoli, Ricciardi, per i quali doveva finire il « vassallaggio » nei confronti  della Germania” — e, soprattutto, il mensile « L’Italia  che scrive », forse la creatura più cara a Formiggini. Uscito  nell’aprile 1918, « agli albori di una età nuova », il perio-  dico nutriva, sotto le vesti di una semplice rivista biblio-  grafica, ambizioni culturali più ampie, riproponendosi di  « registrare nelle sue colonne un magnifico rifiorire degli  studi nel nostro paese e di farsene eco diligente e fedele, a  vantaggio di quanti, in Italia o fuori, apprezzano e vogliono  conoscere il lavoro intellettuale degli italiani » *. La strut-  tura agile e articolata che sarà presa a modello dal « Leo-  nardo » e da « La Nuova Italia » — editoriale, profilo di  un contemporaneo, inchieste su istituzioni culturali, recen-  sioni, confidenze degli autori, spoglio di libri e articoli per  argomento, « libri da fare », eccetera — fece ben presto  affermare il mensile (che nei primi anni ebbe una tiratura  non inferiore alle 10.000 copie, giungendo a toccare le  30.000 ”) come un esempio di quelle riviste-tipo che Gram-  sci catalogherà nel genere « critico-storico-bibliografico »:  legata all’attualità e a carattere divulgativo, rivolta a quel  « lettore comune » al quale non basta dare « concetti »  storici, ma occorre fornire « serie intiere di fatti specifici,  molto individualizzati » ?. E proprio « Il grido del popo-  lo » segnalò la « vivace, varia » rivista di Formiggini —  « uno dei più giovani ed intelligenti industriali italiani del  libro » — come quella che « prometteva di diventare un  ottimo ed utilissimo strumento di cultura, quale in Italia  non esisteva ancora, e la cui mancanza era uno dei segni  delle manchevolezze intellettuali del nostro paese, della   Formiggini, Trenta anni dopo Sulla funzione attri-  buita ai classici di « mantenere vivo il senso di continuità col passato  e nello stesso tempo contribuire a un compito di rinnovamento nazionale », richiama l’attenzione A. La Penna a proposito di una successiva  iniziativa sansoniana (La Sansoni e gli studi sulle letterature classiche in  Italia, in AA.VV., Testimonianze per un centenario. Contributi a una  storia della cultura italiana, Firenze, Sansoni, Formiggini, Trenta anni dopo, Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell'Istituto  Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    poca diffusione dei libri e quindi delle idee, della nostra  spaventosa impreparazione spirituale » ”.   Prefiggendosi il compito di « armonizzar le varie cor-  renti della cultura nazionale » perché potessero concor-  rere al fine comune della « valorizzazione nel mondo del-  l’attività intellettuale italiana », Formiggini sostenne anche  nel momento della sua sconfitta che « un giornale edito-  riale nazionale non può essere che un giornale eclettico »,  contro il consiglio di Ettore Romagnoli di « avere un par-  tito, essere con qualcuno o contro qualcuno » *. Ma, nono-  stante l’idealizzazione della capacità unificante di una « cul-  tura » al di sopra delle parti — nel marzo 1917 Formig-  gini aveva offerto la condirezione della rivista a Prezzolini  che stava per assumere un'iniziativa analoga, ma che rifiutò  l'invito perché, rispondeva  « le  nostre concezioni differiscono ancora troppo » ” —, le scelte  de « L’Italia che scrive » furono fin dall’inizio precise:  pedagogia con Emilia Formiggini Santamaria e filosofia con  Tarozzi e Troilo, il quale dedica un ritratto ad  Ardigò in cui riafferma la « funzione storica, tutt'altro che  esaurita, del positivismo » con maggior convinzione di  quanto non facesse nello stesso momento sulle pagine della  « Rivista di filosofia »; storia con Pietro Silva autore di un commosso ritratto di Salvemini — « mazziniano  per l’alto idealismo che informa la sua propaganda, e per  la sua fede nel progressivo cammino dell’umanità verso la  giustizia » ® —, con Barbagallo che traccia i profili di Ferrero e di Ciccotti e  informa  sulla « Nuova rivista storica » da lui diretta, Falco  ed  Michel. Un largo spazio è accordato agli argo-  menti scientifici trattati da Mieli,  Almagià,  Timpanaro, Vacca, e soprattutto ai  problemi religiosi, ove l'intervento di Formiggini è spesso    « Il grido del popolo.  A.F. FOGnIEziol, La ficozza filosofica del fascismo, cdiretto ®, e di cui si occupano Turchi, Pincherle e con particolare frequenza, fino al 1926, Ernesto  Buonaiuti, autore di rassegne su riviste di cultura religiosa  e di inchieste su istituzioni culturali, di articoli sul neoto-  mismo o sull’insegnamento della religione nella « nuova »  scuola, e di recensioni tanto sferzanti da essere ri-  chiamato all'ordine dal direttore della rivista @. Ma è da  notare anche, nel settore politico-culturale, la presenza  dell’antigentiliano Tilgher e di un altro collaboratore de « Il Mondo » oltre che de  « La Rivoluzione liberale », Mario Ferrara, autore dei ri-  tratti di Turati, Treves e Salandra, e quella di Prezzolini, che si segnala per la tempestività dei  suoi interventi: nel maggio del 1920 illustra la grandezza  di Croce e nel dicembre del 1922 vede in Gentile il crea-  tore della « filosofia delle filosofie » e colui che « ha imme-  desimato lo sviluppo della coscienza nazionale con lo svi-  luppo della speculazione nazionale » *. Ma questa che For-  miggini defini « l’apologia di Gentile che ha avuto più  larga eco in tutto il mondo » *, non salverà l’editore mode-  nese dall’attacco del nuovo ministro della pubblica istru-  zione, verso il quale la rivista aveva mantenuto fino ad  allora un critico distacco.    81 Presentando sul primo numero della rivista le recensioni alle « di-  scipline critico religiose », affermava: « poiché la terribile prova spirituale  che stiamo traversando impotrà, dopo la bufera [della guerra], una revi-  sione immancabile dei valori su cui era poggiata la nostra vecchia vita  etica, noi possiamo essere sicuri che le indagini consacrate a rintracciare  il corso storico della vita cristiana nel mondo avranno una fioritura inspe-  rata e diverranno fattore notevolissimo di una coltura veramente nazio-  nale » (« L'Italia che scrive  Formiggini faceva rilevare a Buonaiuti che  alcune sue recensioni « non rispondevano né per misura né per intona-  zione a quell’ideale sereno a cui vorrei che si ispirasse “L’Italia che  scrive”. Dovresti perciò, per non mettermi in un imbroglio spirituale,  recensire quelle opere che si riferiscono alla storia del cristianesimo come  scienza e tralasciare quelle che possono darti adito a sfogare i tuoi senti-  menti politici o la tua passionalità religiosa » (AF, Buonaiuti).  L'Italia che scrive Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    La sconfitta di un'illusione e una tenue « resistenza »    Il programma de « L’Italia che scrive » di essere « specchio fedele della intellettualità italiana » si scontrò infatti  con l’« intolleranza » gentiliana quando Formiggini cercò  di fare della sua rivista il nucleo di un Istituto per la diffu-  sione della cultura italiana. I suoi propo-  siti si erano saldati con le prospettive nazionalistiche del  sottosegretariato per la propaganda all’estero e la stampa  presieduto da Romeo Gallenga Stuart: chiamato a far parte  della commissione per la proganda del libro italiano all’este-  ro — nell’ambito della quale propose la pubblicazione di  Guide bibliografiche per materie dove uscirono, fra l’altro,  la Geografia di Roberto Almagià e i Narratori di Luigi  Russo —, Formiggini stabili i contatti politici necessari a  lanciare un’impresa — l’Istituto per la propaganda della  cultura italiana, poi Fondazione Leonardo — che doveva  rappresentare « non l’ultimo atto dell’Italia in guerra, ma  il primo dell’Italia che dopo una lunga guerra combattuta  con onore vorrà, senza invidia delle altre nazioni, mettere  in valore equamente il contributo non trascurabile e finora  trascurato che essa ha portato, anche negli ultimi decenni,  al progresso del sapere Abbiamo visto come l’iniziativa passasse nelle mani di  Gentile. Invano Formiggini lodò Croce per aver « denun-  ciato la balordaggine di chi vorrebbe istituire una filosofia  di stato e denunciò la « marcia sulla Leonardo di  Gentile, che assieme alla fondazione gli aveva sottratto  l’idea di una Grande enciclopedia italica — l'editore mode-  nese cercherà di realizzarla per suo conto con l’aiuto dei  suoi collaboratori abituali e, in particolare, di Ernesto  Buonaiuti . Mentre l’ente e il suo patrimonio erano desti-    Formiggini, Trenta anni dopo, L’Italia che scrive », Dalle lettere Buonaiuti appare impegnato a redigere il piano generale della formigginiana Enciclopedia delle  enciclopedie; ne usciranno soltanto i volumi I, Economia domestica;  turismo-sport-giuochi e passatempi, Modena, Formiggini e II, Pedagogia, Modena, Formiggini, quest’ultimo coordinato da Fornati ad essere assorbiti, nell’Istituto nazionale  fascista di cultura, « rassegna mensile della coltura italiana  pubblicata sotto gli auspici della Fondazione Leonardo »  diventava, il « Leonardo » diretto da Prez-  zolini — al quale l’anno successivo subentrerà Luigi Rus-  so — ed esemplato su « L’Italia che scrive » « con un contornetto (si capisce) di 4ff0 puro, se no il cataclisma non  avrebbe avuto ragion d’essere », osservava Formiggini *  che ruppe con Prezzolini riaffermando in pubblico, e in    una lettera privata a lui  i propri  ideali:    Voialtri attualisti avete innegabile dottrina, robusto ingegno, e  disponete della forza formidabile di quel partito che giudicaste cosî  aspramente prima che esso subisse in pieno la vostra influenza nefa-  sta. Voi godete ormai persino di una insperata agiatezza che non vi  invidio.   Io non ho né dottrina, né ingegno, né forza politica. Lavoro per  passione e per una esasperata volontà di bene e il lavoro mi costa  tutta la sostanza e mi costringe ad una vita sobria.   Ma ho qualche cosina che voi non avete: il cuore. La parola  « umanità » vi fa ridere, e sarà l’umanità a fregarvi®9.    Dove, accanto a una profonda amarezza, è espressa  tutta la carica etica di una battaglia culturale ma anche,  nella confusione del giudizio sul fascismo, i limiti di una  sua traduzione sul terreno politico. Tracciando un doloroso bilancio della sua sconfitta, Formiggini  insisterà tuttavia in un invito alla conciliazione, con parole  che richiamano l’insegnamento morale di Limentani: « so-  prattutto di pace c’è bisogno oggi. Occorre che l’uomo  ritrovi nell’uomo il proprio simile e che ciascuno rispetti  nell’altrui dignità la propria. Quella di Formiggini può essere considerata una vi-  cenda esemplare, da un lato, dei modi e dei tempi con i  quali il fascismo procedette all’accaparramento delle istitu-    miggini Santamaria (fra i collaboratori, che gli conferirono un'impronta  antiattualista, Calò, Credaro, R. Mondolfo, Tarozzi, Vartisco L’Italia che scrive AF, Prezzolini.   L'Italia che scrive », Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    zioni culturali esistenti per acquisire un consenso sempre  più vasto e, dall’altro, delle reazioni degli intellettuali di  fronte al tentativo fascista di utilizzarli. L’insidiosa « poli-  tica di conciliazione » affidata dal fascismo a Gentile, e la stessa dichiarata assenza di una « cultura  fascista », aprirono facili varchi al consenso presso molti  intellettuali senza precisa collocazione politica o portati a  distinguere nettamente la politica dalla cultura e, spesso,  a privilegiare quest’ultima per le loro scelte.   Ma, proprio per questi stessi motivi, non sarebbe nem-  meno corretto considerare come incondizionato il consenso  cosî estorto, o vederlo come un blocco uniforme senza in-  crinature fin dall’inizio, al cui interno non permanessero  adesioni esteriori o ambigue capaci di ribaltarsi, attraverso  maturazioni personali, dove il comportamento politico im-  mediato era contraddetto dal legame con una cultura che  voleva mantenersi in qualche modo autonoma.   In questo quadro sono collocabili molti collaboratori  della casa editrice e lo stesso Formiggini, che in nome del  suo antico ideale di fratellanza pubblica un pun-  gente pamphlet antigentiliano nel quale il giovane cattolico  Carlo Morandi riconosceva « il coraggio e la schiettezza di  una difesa »”. Giustificando il proprio intervento pole-  mico contro la « marcia sulla Leonardo », Formiggini scri-  veva ne La ficozza filosofica del fascismo di avere « rea-  gito per legittima ritorsione e per il pericolo d’ordine gene-  rale che ci sarebbe per la cultura italiana se l’assurdo di  una dittatura e di una tirannide dottrinale dovesse farsi  piede nel nostro paese ». Ma i limiti della sua impostazione  non si rivelano soltanto nella contrapposizione fra il ruolo  di « armonizzatore » di varie correnti culturali, da lui im-  personato, e quello di Gentile « capo partito » o nella ridu-  zione dell’attualismo a una semplice « moda filosofica » dai  larghi consensi e di Gentile a un « giocoliere di idee »,  bensi anche nel giudizio sulla filosofia gentiliana vista come  « una fortuita e non felice escrescenza [“ficozza” in roma-    9 « Studium » nesco] del fascismo » ”. La distinzione operata da Formig-  gini è netta: da un lato gli attualisti, « sostanzialmente  estranei ed equidistanti sia dal fascismo che dal naziona-  lismo » che si sono assunti ix foto il « problema cultu-  rale » di un movimento puramente politico *, dall’altro il  fascismo che, come scriverà anche in seguito, « nelle sue  prime manifestazioni, non negò affatto i diritti dell’uomo.  Si annunciò come un ristabilimento energico dell’ordine  sociale che era stato scosso. Nulla di strano che dei citta-  dini liberi vedessero questo movimento con simpatia. Il mescolare il sapere con la politica è per noi cosa delit-  tuosa », affermò Formiggini motivando il suo rifiuto di sot-  toscrivere il manifesto Croce, pur firmato da molti colla-  boratori della casa editrice ”; l’unica condanna esplicita di  fascismo e attualismo, uniti sul piano morale, fu formulata  sulle pagine de « L’Italia che scrive » in occasione della  crisi Matteotti, in un articolo significativamente intitolato  La filosofia del manganello in cui, dopo aver ironizzato su  Mussolini — « egli sa di filosofia e di pedagogia qualche  cosa meno di una vacca spagnuola — Formiggini affer-  mava che per il fascismo la « delusione più amara fu quella  di non aver potuto trovare una teoria morale che ne giu-  stificasse i metodi e si comprende quanta riconoscenza sen-  tisse per il moralista di professione che, applicando il suo  visto: si manganelli agli atti violenti del fascismo, dava a  questi una sanatoria di incalcolabile valore » *.   In realtà, una sia pur tenue difesa dalla scaltra « politica  di conciliazione » di Gentile e del fascismo verso gli intel-  lettuali poteva essere consentita da iniziative che si propo-  Formiggini, La ficozza filosofica del fascismo, Il libro non ci sembra quindi, per la sua distinzio-  ne tra politica e cultura, « uno dei primi e più caustici pamphlets contro  il fascismo », come è apparso a R. De Felice (Storia degli ebrei italiani  sotto il fascismo, c L’Italia che scrive », Formiggini, Parole in libertà, cCome è falso  che gli ebrei costituiscano una razza, è anche falso [...] che abbiano una  loro forma mentis che li renderebbe ostili congenitamente e irriducibil  mente alle forme politiche cosi dette totalitarie. L'Italia che scrive », L’Italia che scrive »Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    nessero come apolitiche, ma fossero aperte a intellettuali  accomunati dall’opposizione alla « filosofia del manganel-  lo ». Fu questo il caso, denso di compromissioni e contrad-  dizioni profonde, di Formiggini, che dopo la polemica anti-  gentiliana sembra non desiderasse discostarsi dall’ideale di  equidistanza e di « armonia » perseguito in passato. Cominciano ad apparire le « Apologie » che al posto  delle religioni costituite intendevano valorizzare « il senti-  mento religioso in astratto, come quello che può fare l’uma-  nità migliore e più fraterna » ”, e che annoverarono, accanto  a quelle dell’ebraismo di Dante Lattes e del cattolicesimo di  Buonaiuti (provvista ancora dell’imprimatur ecclesiastico  nella seconda edizione poco prima della scomunica  del marzo, quelle dell’ateismo di Giuseppe Rensi e del  positivismo di Tarozzi, il quale affermava che « la poste-  rità prossima e lontana non vedrà fra l’idealismo e il posi-  tivismo, specialmente italiani, quella divergenza assoluta e  totale che oggi apparisce per la violenza della polemica. Nella collana delle « Medaglie », brevi profili di contem-  poranei all’elogio di Mussolini (« una forza venu-  ta nel momento storico opportuno ») scritto da Prezzolini ”,  Levi opponeva quello di Turati, esaltato —  nonostante l’autore dichiarasse all’editore di essere stato  « molto sobrio negli accenni all’ora presente » — per « la  probità della sua coerenza, la coerenza della sua probità  Con questa forza, che ignora, che sdegna i funambo-  lismi di tutte le demagogie, ma ha il coraggio e la pazienza  delle lunghe vigilie, non s’improvvisano più o meno effi-  mere fortune o dittature personali, ma si squadra almen  qualche pietra per costruzioni destinate alla storia » !°, Co-    Formiggini, Trenta anni dopo, cit., p. 124. Cfr. anche il giudizio  di Vida, Apologie religiose, in « La Cultura », ITarozzi, Apologia del positivismo, Roma, Formiggini, Prezzolini, Benito Mussolini, Roma, Formiggini, Levi, Turati, Roma, Formiggini,  Levi si ado-  però anche per la diffusione del volumetto: « duecento ne hanno prese —  di “copie”, in attesa delle immancabili bastonature — gli eroici lavora-  tori di Molinella, che riscattano col loro contegno di fierezza la vile acquie si, accanto al D'Annunzio di Antonio Bruers e allo Sturzo  di Mario Ferrara, Prezzolini dedicava nel 1925 un ritratto  ad Amendola che, nonostante l’elogio del suo coraggio  « fino al rischio della vita » e le successive proteste di equa-  nimità dell’autore !”, si rivelava impietoso e cinico: « co-  stringendolo a tacere nel parlamento, restituendolo  al giornalismo militante e all’opposizione attiva [il fasci-  smo] gli ruppe quella specie di ingessamento parlamentare,  che pareva averlo stretto e immobilizzato entro le formule  e gli interessi di Montecitorio » !”. E la collana  « Polemiche » presentava insieme alle Battaglie giornalisti  che del « teorico del “governo dei migliori” », Mussolini, Je  Invettive di Marat, il « teorico del “governo dei molti” ».   Con questa sorta di do uf des si parlava comunque di  uomini politici e personaggi storici invisi al fascismo, pur  con quell’ambiguità che è la nota caratteristica anche di  molti giudizi apparsi ne « L’Italia che scrive ». È sintomatico ad esempio che La libertà di Stuart Mill  pubblicata da Gobetti con la prefazione di Luigi Einaudi  sia segnalata come « opportuna non  solo per gli avversari della libertà, ma per moltissimi dei  suoi ditensori di oggi », o che, mentre  La rivoluzione liberale era giudicata « programma di ardi-  mento morale della borghesia », « come un violento spa-  lancar d’usci all’irrompere di una nuova coscienza proletaria » — e il ritratto di Matteotti « una vita esemplare  della Rivoluzione liberale » —, nell’annuncio della morte  di Gobetti il giudizio sul « suo anelito di ritrovare e d’im-  porre un fondamento etico al pensiero in tutte le sue espres-  sioni » sia limitato da quello sulla sua cultura, costruita  « su basi filosofiche e storicistiche un po’ astratte, per  quanto profonde, che lo allontanarono dal veder la vita    scenza del popolo italiano », scriveva a Formiggini il 16 febbraio 1925  (AF, Levi).  Prezzolini affermerà di aver scritto la biografia di Mussolini solo  «a patto che il Formiggini ne pubblicasse anche una dell’Amendola. Prezzolini, Amendola e « La Voce », Firenze, Sansoni,Prezzolini, Giovanni Amendola, Roma, Formiggini, Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    nella sua complessa realtà effettiva e gliela fecero giudicare  per schemi e teorie ». E in settori più strettamente cultu-  rali, mentre Finzi — divenuto colla-  boratore assiduo del periodico — considerava interessante  l’interpretazione marxista del marinismo fornita da Zino  Zini in Poesia e verità, dal Mazzini e Bakunin di Nello  Rosselli — col quale « finalmente anche in Italia si comin-  cia a studiare seriamente il movimento operaio come fatto  storico, all’infuori di ogni preoccupazione di propaganda  politica » — si traeva motivo per mettere in luce « l’azione  insidiosa di Carlo Marx » che si sarebbe servito dell’anar-  chico russo per gettare « i primi germi malsani onde poi in  Italia, unica tra le grandi nazioni, il socialismo nasceva e  cresceva colorito di quell’antipatriottismo che doveva es-  sergli fatale durante e dopo la grande guerra » !°. Analoga  ambiguità è riscontrabile negli interventi — che richiede-  rebbero tuttavia un discorso a parte — di alcuni collabo-  ratori della rivista provenienti dalle file del socialismo.  « Bisognerebbe poter seguire tutte queste recensioni di  simili libri, specialmente se dovute a ex socialisti come  l’Andriulli », notava Gramsci '* a proposito della recen-  sione di quest’ultimo al volume di Bonomi su Bissolati,  uscito a Milano presso ere ma originariamente proposto dall’autore a Formiggini Ora la grande maggioranza dei giovani è sotto l’impressione recente della disfatta prima morale che politica del socialismo italiano  — scriveva l’ex collaboratore de « La Difesa » Andriulli —,  e con semplicistica generalizzazione pensa ad esso come ad una delle  forme di maggiore aberrazione della vecchia Italia prebellica. Eppure,   L'Italia che scrive », Gramsci.   ts «Il libro è... purgatissimo — scriveva Bonomi Il fascismo non esisteva ancora durante l’attività politica di  Bissolati, il quale gode — non so se goda veramente...! — le simpatie fer-  vidissime dei fascisti cremonesi e anche quelle del Duce che inaugurò con  un discorso nel 1923 una lapide in memoria di lui ». Ma Formiggini, che  già nel ’24 era stato l’editore di Ddl socialismo al fascismo di Bonomi,  non aveva potuto accettare l'offerta anche se — gli scriveva — «un  libro scritto da lei non può essere che interessantissimo e tale da non  procurare fastidi a chi lo pubblicasse » (AF, Bonomi).solo che si pensi come il socialismo italiano è stato la grande matrice  di tutti i movimenti rinnovatori del tempo nostro — non esclusi né  il nazionalismo né il fascismo — si sarà tratti a sospettare che ben  altro fenomeno che non quello apparso nell’ultimo ventennio deve  essere stato il partito socialista italiano, e che soprattutto esso deve  essere stato una grande forza ideale se ebbe tanta virtà espansiva da  diffondersi rapidamente non solo nelle classi operaie ma in una gio-  ventù intellettuale generosa e disinteressata e da permeare di sé per  un quarto di secolo la vita italiana.    Dove l’antica milizia politica del recensore, approdato  ciecamente alla « rivoluzione » fascista, è rivelata dal ri-  chiamo alla « forza ideale » del partito — e non solo all’ef-  ficacia pratica del movimento socialista, come nell’interpre-  tazione di un Gioacchino Volpe — e dalla considerazione  finale sul fatto che avrebbero letto il libro « con un senso  di soddisfazione specialmente coloro che, avendo a quel  socialismo consacrato i primi entusiasmi giovanili, anche  dopo aver seguito opposte vie non sanno rinnegare la loro  disinteressata giovinezza. Apparentemente pit distac-  cate, ma sempre puntuali e pronte a sottolineare il valore  della persona umana, sono le recensioni di argomento filo-  sofico e giuridico — con un interesse precipuo per i rap-  porti Stato:chiesa — di un altro socialista, Alfredo Poggi,  che da « Critica sociale » e dalla « Rivista di filosofia »  passa in questi anni al gruppo di « Pietre », per poi rispun-  tare come responsabile del partito socialista subito dopo  1°’8 settembre, e che collabora assiduamente a « L’Italia che  scrive » fino all’ anno in cui fu denunciato e  arrestato per antifascismo. E mentre Rensi, al termine del viaggio dal « socialismo idealista »  allo scetticismo, insiste in un « profilo » di Spinoza sui  limiti dello stato di fronte alla libertà di pensiero dei cit-  tadini, sul suo « dovere di non comandare cose che urtino  le leggi della natura umana » — al « coordinamento per-  fetto di autorità e libertà, alla determinazione cioè della  misura di libertà che l’autorità deve concedere appunto  per poter essere e conservarsi autorità » quale indicata da  Spinoza, « anche oggi potrebbe forse essere rivolto util-    L'Italia che scrive Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo    mente lo sguardo » !” —, sulla rivista faceva una fugace ma  incisiva apparizione Paolo Milano con una recensione, giu-  dicata « notevole e acuta » da Gramsci, che costitui una  delle poche stroncature del Superamento del marxismo di  De Man pubblicato da Laterza, di cui si metteva in luce  lo psicologismo incapace di contrastare realmente il mar-  xismo e di spiegare i fatti storici. Sono pochi esempi che sarebbe errato sopravvalutare,  considerata anche la sempre minore incisività della casa edi-  trice, che di lî a poco accuserà duramente i contraccolpi  della grande crisi. Essi indicano tuttavia, accanto a un’estrema confusione, la esistenza di dubbi e di una prima presa  di distanza non solo culturale, nella quale certezze sempre  coltivate si incontrano con altre maturate di recente. At-  torno a Formiggini troviamo uomini emarginati dal fascismo, come prima erano stati emarginati dall’idealismo:  anche attraverso questo canale passa quindi una cultura,  seppure minore, che non si riconosce in quella ufficiale del  regime. Le scelte di venti anni prima dimostrano una loro  tenuta  anche dopo l’avvento del fascismo, pur dovendo  nascondersi tra le righe di una rivista bibliografica o sotto  il più antico degli espedienti mimetici. Al linguaggio degli  animali ricorre infatti un amico di vecchia data dell’editore  modenese, forse il più caro, Concetto Marchesi.   « Conosco le tue vicende: e perciò ti ho voluto bene »,  gli scrive Marchesi. Le lettere dell’in-  tellettuale comunista all'editore che ha sempre aborrito la  politica gettano luce sull’antifascismo del primo e sull’iro-  nico distacco dalla realtà del secondo, non alieno tuttavia  dal gioco dell’allusione politica. Le Favole esopiche —  « il tuo più che mio, Esopo », scrive il curatore — escono  con una prefazione in cui Marchesi si « sbizzar-  risce a capriccio; e non ci sarà niente da ridire perché siamo  nel mondo fantastico delle bestie » !, inserendovi un ri-   Rensi, Spinoza, Roma, Formiggini, « L’Italia che scrive », Gramsci, Marchesi. Per la figura  politica di Marchesi cfr. la mia voce in F. Andreucci - T. Detti, Il movi  cordo autobiografico sul periodo del primo arresto, studente socialista:    ‘odiavo la macchina, l’ornamento civile del nostro tempo. La mac-  china era per me, allora, lo strumento maledetto onde la ricchezza  dei pochi si era impadronita di tutte le povere braccia della terra:  era il vortice metallico in cui la miseria del mondo precipitava per  farne uscire torrenti di oro e di sangue, a ristoro della superbia e  dell’avarizia.    Si chiariscono cosi in tutta la loro ironia, per acquistare  valore di impegno civile, le parole con le quali Formiggini  si rivolgeva al lettore nella nota che apre il volume: « se tu  leggerai questa versione del magnifico Marchesi col sospetto  che egli, nelle scabre sinuosità della sua prosa asciutta, vi    abbia nascosto dentro se stesso, ti parrà di aver fra le mani    un libro pericoloso e rivoluzionario » !°.    mento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma,  Editori Riuniti, ed E. Franceschini, Concetto Marchesi. Linee per  l’interpretazione di un uomo inquieto, Padova, Antenore, In una lettera Rossi commentava  dalla galera fascista la notizia del suicidio di Formiggini, con parole che  ci sembra possano riassumere tutta la sua esperienza: « Pare ci sia una  vera epidemia di suicidi. Quello che a me ha fatto più impressione è stato  il suicidio del vecchio Formiggini. Aveva fatto per l’incremento  della cultura italiana più di quanto hanno fatto molti illustri personaggi,  che si danno l’aria di Padri Eterni. Lui non aveva mai posato a Padre  Eterno, ma le sue iniziative editoriali eran sempre intelligenti e di buon  gusto. La collezione dei “Classici del ridere” era la migliore espressione  della sua mentalità umanistica, europea, della sua serena saggezza sempre  spumante di fine umorismo. M'era spiaciuto molto che, anche lui, si fosse  adattato alle circostanze piiî di quanto gliel’avrebbero dovuto permettere  la sua dignità e la sua condizione di “chierico” della cultura. Ma, insomma,  non si può pretender troppo dagli uomini quando non trovan più in  alcun luogo un po’ di terreno saldo su cui poggiare i piedi. E lui era  vecchio [...] ed era sempre rimasto estraneo il più possibile alle lotte della  politica, vivendo solo fra i suoi libri e per i suoi libri » (E. Rossi, Elogio  Ft ia Lettere, a cura di M. Magini, Bari, Laterza, I limiti del consenso:  le origini della casa editrice Einaudi   Il futuro verrà da un lungo dolore e un lungo  silenzio. Presuppone uno stato di tale ignoranza  e smarrimento che sia umiltà, la scoperta in-  somma di nuovi valori, un nuovo mondo » (Ce-  sare Pavese, Il mestiere di vivere)    1. Iniziative editoriali negli anni 30    Il problema della formazione della cultura post-fa-  scista, quale si venne elaborando non nell’antifascismo del-  l'emigrazione, ma nell’Italia degli anni ’30 e a cavallo della  seconda guerra mondiale, non è stato ancora affrontato  con puntualità nell’ambito storiografico: siamo infatti in  presenza di uno iato assai profondo fra le ricerche su intel-  lettuali o riviste del ventennio, che culminano nell’espe-  rienza di « Primato », e alcuni sondaggi sulla cosiddetta  « ideologia della ricostruzione » del dopoguerra. Il mancato  collegamento fra i due momenti si traduce, ovviamente, in  carenze interpretative, che si manifestano in tesi troppo  rigidamente contrapposte, sia che insistano — ma con sem-  pre minore frequenza — sugli elementi di « rottura »,  sia che sottolineino, in negativo o in positivo, quelli di  « continuità » tra fascismo e post-fascismo. La questione è  certo assai complessa, ma non può essere risolta dando  credito a improvvise « conversioni » di coscienze indivi.  duali, né applicando — ad esempio — a Cantimori il nico-  demismo da lui studiato negli eretici del ’500, né ricorrendo alle categorie del « trasformismo » o del « popu-  lismo » degli intellettuali, senza tener conto, in tutti questi  casi, del rapporto dialettico fra la posizione degli intellet-  tuali e le trasformazioni sociali e politiche del paese.   La complessità del problema storiografico, è necessario  riconoscerlo, corrisponde alla complessità del processo storico reale, a un aspro scontro politico e culturale insieme che non solo oppose fascisti e antifascisti, ma divise anche  le varie correnti dell’antifascismo italiano, con quegli ele-  menti di incertezza e di contraddizione di fronte all’ideali-  smo che ricorderà anche Togliatti  !. E, pur ammettendo l’esistenza di differenziazioni culturali che si van-  no manifestando in particolare con  l’inizio della guerra di Spagna, non possiamo prescindere dal  forte condizionamento, culturale e politico, esercitato dalle  istituzioni del regime, che raggiunsero il punto pit alto di  consenso, almeno formalmente, nei primi anni di guerra,  quando vediamo Salvatorelli e Omodeo collaborare all’ISPI,  o Cantimori al Dizionario di politica del Pnf ?. Se queste  collaborazioni non significavano automaticamente, da un  punto di vista soggettivo, adesione alla politica del regime,  non bisogna tuttavia dimenticare che — come aveva osser-  vato Volpe — il loro « colore » era dato, agli occhi dei let-  tori e indipendentemente dai riposti pensieri degli intellet-  tuali, non tanto dai contenuti, quanto dalla veste ufficiale in  cui questi apparivano *. Spesso, inoltre, collaborare alle ini-  ziative del regime poteva spiegarsi con l'illusione di una apo-  liticità della cultura, la cui difesa può aver costituito per  alcuni intellettuali una tappa importante per cominciare ad  allontanarsi dal fascismo, senza essere, per questo, indice di  un antifascismo già maturo politicamente. È infatti solo  sotto la veste culturale che è possibile rinvenire, nell’Italia, il tentativo di differenziarsi dall’ideologia del  regime, anche se con il rischio, come osservò Marchesi a pro-  posito dell’università, di chiudersi nella « indifferenza poli-    1 Cfr. il suo intervento alla commissione culturale nazionale in P. Togliatti, Le politica culturale, a cura di L. Gruppi,  Roma, Editori Riuniti, Turi, Le istituzioni culturali del regime fascista durante la  seconda guerra mondiale, in « Italia contemporanea »,Volpe rispose in fatti a Rosselli, a proposito dei colla-  boratori della « Rivista di storia europea » vagheggiata da quest’ultimo,  che bisognava essere «ben certi che è la rivista a dar loro il colore  desiderato, e non viceversa » (cit. in Rosselli. Uno storico sotto il  fascismo. Lettere e scritti vari, a cura di Z. Ciuffoletti, Fi-  renze, La Nuova Italia, Le origini della casa editrice Einaudi    tica e morale » ‘. Il significato politico di una scelta culturale  va quindi verificato caso per caso, guardandosi dal tradurre  immediatamente in consapevolezza politica una cultura che  non si riconosce in quella ufficiale del fascismo. Per questo  preferiamo parlare di « limiti del consenso » piuttosto che  di « antifascismo »: termine — e categotia — che non è  certo da escludere — e allora occorrerà precisarne meglio  le caratteristiche —, ma che per singoli intellettuali o per  imprese culturali collettive costrette a muoversi, come le  case editrici, con estrema cautela sotto il regime, può pre-  starsi a frettolose retrodatazioni di prese di coscienza che  acquistarono spesso peso politico solo con la guerra o dopo  il 25 luglio 1943, e che può comportare un giudizio altret-  tanto generico del termine avalutativo di « afascista »  troppo frequentemente usato per qualificare, come fosse  una razza privilegiata, alcuni nuclei di cattolici.   Queste cautele ci paiono necessarie anche nello studio  di una casa editrice come quella di Giulio Einaudi che,  centro di attrazione di aderenti a Giustizia e Libertà, di  azionisti e poi di comunisti, all’indomani della Liberazione  potrà vantare i maggiori meriti antifascisti, tanto da fian-  cheggiare la politica del PCI che le affiderà la pubblicazione  dei Quaderni gramsciani. È proprio per queste sue caratte-  ristiche « di punta », comunemente accettate — tanto da  farne ritenere meno interessante l’analisi, in quanto « anti-  conformista » e « antifascista » fin dalla nascita, per la pre-  senza di Cesare Pavese e di Leone Ginzburg® —, che la  scelta di studiare questa casa editrice  ci  è parsa particolarmente significativa per verificare « al mas-  simo », nei punti più alti, i limiti del consenso al regime, e  gli elementi di continuità o di rottura tra fascismo e post-  fascismo. Un'indagine del genere dovrebbe tener conto,  oltre che dei condizionamenti oggettivi propri di un’azienda  economica e di un’iniziativa culturale rivolta al pubblico    4 C. Marchesi, Fascismo e università (1945), ora in Umanesimo e co-  munismo, a cura di M. Todaro-Faronda, Roma, Editori Riuniti, Cosî Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari.  Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, sotto il regime fascista, e ai reali obiettivi che la casa edi-  trice si riproponeva, anche del pubblico dei lettori, di cui  purtroppo conosciamo solo la ristretta élite dei recensori,  pur assai significativa, se pensiamo che fra i giudizi favore-  voli alla produzione storiografica meno conformista di  Einaudi spiccano quelli della « Nuova rivista storica » che  negli anni ’30, sotto la direzione di Luzzatto, veniva  anch’essa configurandosi come centro di aggregazione di  intellettuali operanti ai margini del regime. Gli obiettivi  dell’editore torinese sono ricavabili, ma solo parzialmente,  dal carteggio con i collaboratori, a differenza di Formig-  gini, che fino al 1925 poteva esporre pubblicamente i suoi  programmi e le sue proteste; per le testimonianze esterne  le carenze sono invece comuni, anche se su Einaudi il ri-  cordo di Ambrogio Donini — la sua attività editoriale,  « appena agli inizi, si andava già orientando, tra difficoltà e  persecuzioni di ogni genere, verso temi nazionali e interna.  zionali atti a staccare l’Italia dal disastroso clima di provin-  cialismo in cui si esaurivano le energie dei suoi giovani  studiosi »” — concorda con il giudizio di Cantimori, che  in lui vedrà l’inventore dell’editore come educatore. In assenza di un « campione » di lettori, bisognerà  chiedersi, almeno fino alla caduta del fascismo, come un  eventuale lettore poteva accogliere i messaggi culturali for-  niti dalla casa editrice, e se questi erano traducibili politi.  camente; tenere presente, inoltre, il panorama pi generale  dell’editoria italiana, o almeno delle case editrici meno  aderenti alla cultura ufficiale del regime, ove ciò sia possi-  bile, data la mancanza quasi assoluta di studi, oltre che di  testimonianze. Pur nella loro parzialità, anche queste ultime  possono essere indicative di alcune linee di tendenza. Aldo  Capitini ricorderà come, contrario a stabilire un difficile e  pericoloso collegamento con gli antifascisti all’estero, egli    6 Sulla « Nuova rivista storica » cfr. A. Casali, Storici italiani tra le  due guerre. La « Nuova rivista storica » Napoli, Guida, Prefazione a P. Robotti, La prova, Bari, Leonardo da Vinci, Cantimori, Conversando di storia, Bari, Laterza,  avesse sostenuto la necessità di alimentare la formazione  ideologica dei giovani con i « libri disponibili » in Italia, e  indicherà le case editrici più utili a questo scopo in Laterza,  Einaudi e Guanda: e l’autore degli Elementi di un'espe-  rienza religiosa (editi da Laterza), che fu in con-.  tatto anche con Einaudi, citava fra i testi di Guanda — un  editore particolarmente attento alla tematica religiosa —  quelli di Martinetti, Tilgher e Rensi, espressione di un filone  spiritualista, critico dell’ottimismo storicistico, che si rita-  gliò un ampio spazio editoriale nella crisi di valori.   Le iniziative a carattere religioso ebbero certo una mag-  giore libertà di azione, come testimonia la fondazione della  Morcelliana  !°, ma probabilmente, a differenza della  politica di stretto controllo usata nei confronti della stampa  periodica, il fascismo lasciò un certo grado di autonomia a  tutto il settore editoriale — che si rivolgeva a un pubblico  più ristretto di quello dei lettori di quotidiani, e compor-  tava quindi minori pericoli —, anche se nel 1926 fu costi-.  tuita la Federazione nazionale fascista dell’industria edito-  riale, il cui presidente, Franco Ciarlantini, lamentando la crisi del libro, inviterà il governo a misure di con-  trollo sulle piccole iniziative private, e a un’opera di promo-  zione economica e « morale »; ma la censura dei libri non  fu condotta con criteri precisi, e rimase affidata alla discre-  zionalità dei prefetti anche quando essa passò, nel 1935,  dalla competenza del ministero dell’Interno a quella del  ministero per la Stampa e la propaganda, mentre la Commissione per la bonifica libraria, concen-  trò la sua attenzione sui testi di autori ebrei !!. Ed è forse  questa parziale autonomia che spiega come nel corso degli  Capitini, Antifascismo tra î giovani, Trapani, Célèbes, 1 Morcelliana  «Humanitas » Brescia, Morcelliana, BaroneA. Petrucci, Primo: non leggere. Biblioteche e pub-  blica lettura in Italia, Milano, Mazzotta, Ciarlantini, Vicende di libri e di autori, Milano, Ceschina,  Cannistraro, Le fabbrica del consenso. Fascismo  e mass media, prefazione di R. De Felice, Bari, Laterza, tanti intellettuali tendano a divenire organiz-  zatori di cultura attraverso l’editoria: accanto alle edizioni  collegate a riviste, e agli effimeri tentativi di Domenico  Petrini con la Bibliotheca editrice di Rieti o di Carlo Pelle-  grini con la Taddei di Ferrara, vediamo che nel 1926 viene  fondata da Elda Bossi e Giuseppe Maranini La Nuova Ita-  lia, che nel 1930 passerà a Firenze sotto la direzione di  Codignola, nel 1927 la Slavia dell’ex sindacalista rivoluzio-  nario Alfredo Polledro, nel 1929 la casa editrice di Valen-  tino Bompiani, formatosi alla Mondadori; e, mentre Gentile, già direttore di due collane, filosofica e storica,  presso Le Monnier, assume la direzione della Sansoni tra-  sformandone rapidamente il catalogo secondo il proprio  orientamento culturale e politico !?, due intellettuali antifa-  scisti di diversa matrice ideologica, Franco Antonicelli e  Rodolfo Morandi, trovano nell’editoria uno strumento per  tentare di allargare i sempre più stretti confini culturali del  paese: il primo si associa con il tipografo Carlo Frassinelli  per proporre testi della letteratura straniera contempora-  nea, il secondo con l’editore Corticelli per far conoscere  La rivoluzione francese di Mathiez o il Napoleone di Tarlè,  e far riflettere sulle esperienze di nuove realtà politiche,  come la Cina e l’Unione Sovietica . È in questo contesto  che si colloca, alla fine del 1933, la fondazione della Einau-  di da parte di un nucleo originariamente ben definito di  intellettuali, molti dei quali aderenti a Giustizia e Libertà,  la cui opera culturale ha quindi larvati risvolti politici, che  imporrebbero un confronto puntuale con alcune delle case  editrici che si sono presentate, all'indomani della Libera-  zione, con una patente antifascista.   Testimonianze per un centenario. Contributi a una  storia della cultura italiana, Firenze, Sansoni, Su Antonicelli editore — che nel 1942 fonderà la casa editrice De  Silva (cfr. la sua testimonianza in « Rinascita, Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a Torino, Torino,  Cassa di Risparmio, Fubini, Il mestiere del lette-  rato, in AA.VV., Su Antonicelli, Torino, Centro Studi Piero Gobetti; un cenno all’attività editoriale di Rodolfo Morandi in  A. Agosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Bari, Laterza,  Le origini della casa editrice Einaudi    Le notizie di cui disponiamo sono però assai scarse e —  promosse da occasioni celebrative o fornite dai diretti inte-  ressati —, pur offrendo utili spunti interpretativi, avreb-  bero bisogno di ulteriori approfondimenti. È il caso, ad  esempio, di Laterza, de La Nuova Italia e di Bompiani.  ‘ Nella casa editrice barese, durante il periodo della « difesa  eroica, Croce — è stato scritto — « accolse  anche chi era da lui lontano, e contribuf a preparare non  pochi che, poi, scelsero posizioni a lui avverse. Sui libri  che fece leggere agli italiani, con la collaborazione di Gio-  vanni Laterza, si formarono cosi liberali come socialisti e  comunisti, cosî idealisti come materialisti »; e, riprendendo  il discorso, Garin ha individuato nelle opere uscite nel ven-  tennio nella « Biblioteca di cultura moderna »    l’accorta opera d’informazione unita alla difesa di una vocazione  umana anteriore a ogni lotta o differenza di parte. Nei libri, a volte  assai mediocri, di storici, filosofi, critici, economisti, offerti con una  apertura eccezionale [...], c'è sotteso l’invito a non dimenticare mai  quella dimensione umana che, pur nel divenire temporale e nelle  dislocazioni spaziali, è capace di comprendere anche l’avversario.  Che fu il valore di uno storicismo e di un umanismo tutt’affatto  particolari, di una difesa della razionalità e della libertà, che in  un’epoca intesa a celebrare l’hbomo bomini lupus ricordò costante-  mente il senso dell’homo homini deus !8.    Giudizio che andrebbe, a nostro parere, sfumato, in  quanto, se accanto a Omodeo, Russo o De Ruggiero, Croce  accolse un Rodolfo Morandi, la linea generale della casa  editrice fu orientata in un senso ben determinato che non si  apriva a tutti gli « avversari », come testimonia nel 1938  il commento crociano alla ristampa dei saggi di Labriola, 0,  nel 1929-31, l'edizione de Il superamento del marxismo  e La gioia del lavoro di De Man.   Un discorso analogo può essere fatto per La Nuova  Italia di Codignola: se è vero che fu centro di aggregazione  di esponenti di rilievo del Partito d'Azione e che, col suo    14 E. Garin, La Casa editrice Laterza e mezzo secolo di cultura italiana  (1961), ora in Id., La cultura italiana tra ‘800 e ’900. Studi e ricerche,  Bari, Laterza, 1963, p. 170, e Id., Il mestiere di editore, prefazione al  Catalogo generale delle edizioni Laterza 1978, p. XII.    199        « impegno, insieme, di socialismo, di liberalismo “rivolu-  zionario”, di laicismo intransigente », contributi « all’orga-  nizzazione del dissenso » !, è necessario tuttavia non anti-  cipare un orientamento politico che si venne delineando, e  manifestando, a fatica e non senza contraddizioni, se pen-  siamo al persistente legame, ancora negli anni ’30, di Co-  dignola con Vallecchi e con Gentile, o al settore pedagogico  configurato in senso attualista e comunque condizionato  dalla politica scolastica del regime '‘.   Cosi Valentino Bompiani, ripercorrendo la storia della  propria casa editrice, pur riconoscendo il suo iniziale « di-  simpegno ideologico », valorizza giustamente la scoperta,  alla fine degli anni ’30, della letteratura americana, con  Uomini e topi di Steinbeck e Piccolo campo di Caldwell,  tradotti rispettivamente da Pavese e Vittorini, due libri che  « parlavano dell’uomo, della sua condizione e miserià, con  diretto impegno sociale e politico » ”. Ma come non riflet-  tere di fronte al fatto che, mentre la censura interveniva  duramente e con particolare ottusità '" — come testimonia  l'editore —, lo stesso Bompiani proponeva nel 1940 al  Ministero della cultura popolare un accordo per lanciare  una « Biblioteca essenziale dell’italiano », incentrata sui  temi patria, religione, cultura, famiglia, fra i cui autori  dovevano comparire Bottai, Bargellini e De Luca, costituita    15 E. Garin, Un capitolo di rilievo singolare, in 50 anni di attività  editoriale (Venezia 1926-Firenze 1976): La Nuova Italia, Firenze, La  Nuova Italia, 1976, p. XII; cfr. anche, oltre al ritratto di Ernesto Codi-  gnola tracciato da Garin, Intellettuali italiani del XX. secolo, Roma, Edi-  tori Riuniti, 1974, pp. 137-169, gli interventi di E. Garin, N. Bobbio e  T. Codignola in occasione del cinquantenario della casa editrice, ne «Il  Ponte » Questi elementi sono ben messi in luce da S. Giusti, La ‘casa  editrice La Nuova Italia 1926-1943, di prossima pubblicazione. .   17 V. Bompiani, Via privata, Milano, Mondadori, 1973, pp. 43, 143.   18 In un rapporto anonimo al duce del 26 giugno 1943 si diceva:  « Proprio nei giorni dei massacri di Grosseto, di Sardegna e Sicilia, l’edi-  tore Bompiani mette sfacciatamente fuori un “mattonissimo” intitolato  “Americana”, antologia di scarso valore con prefazione di un accademico e  traduzione di Vittorini; antologia condotta sui modelli dell’ebreo Lewis.  E lo stesso Bompiani continua nelle stampe e ristampe di Cronin, Stein-  ‘beck, ed altri, bolscevichi puri e in ogni caso perniciosissimi » (AGS,  Ministero della cultura popolare, b. 27, fasc. 403).    200    Le origini della casa editrice Einaudi    da « alcune centinaia di migliaia di volumetti » da diffon-  dere nei centri con popolazione minore a 10.000 abitanti,  distribuendoli ad esempio, « a partire dal Natale di Roma »,  « a tutti coloro che si sposano nel corso dell’anno, affer-  mando cost il principio che non si deve costituire una fami-  glia senza avere in casa quei pochi libri che diano a un cit-  tadino italiano la conoscenza e la coscienza della sua Pa-  tria »? !   Condizionamenti politici, autocensure, necessità econo-  miche proprie di ogni casa editrice in quanto azienda indu-  striale, costituiscono quindi il quadro entro il quale deve  essere valutata anche l’opera della Einaudi, verificando  puntualmente — senza stabilire schematiche equivalenze —  la traducibilità politica dei suoi messaggi culturali. Con ciò  non vogliamo disconoscere, in linea generale, quanto ha  ricordato Giulio Einaudi — « il primo modo di sfidare il  fascismo era quello di non parlarne mai, di fare come se  non esistesse» ? —, anche se in qualche caso il fascismo  si affaccia nella produzione della casa, né, quindi, negare la  prospettiva in cui si muoveva l’editore, che era, come ha  osservato Bobbio, « quella di offrire alla giovane cultura  torinese lo strumento più adatto e meno pericoloso dati i  tempi per esprimere la propria voce, e di non lasciare sva-  nire nel nulla la grande esperienza gobettiana » ?. Si tratta  piuttosto di misurare la possibilità o capacità di attuazione  di questi propositi, di vedere se sono univoci o differen-  ziati e contraddittori e, in questo caso, quali voci culturali  politicamente significative predominano, e in quale periodo;  verificare, infine, quali elementi di continuità o di rinno-  vamento si manifestano fra gli anni ’30 e il periodo post-  bellico.   La decisione di Giulio Einaudi di fondare la casa edi-  trice non è comprensibile se prescindiamo dall’ambiente  torinese, sia quello rappresentato dalla Slavia di Alfredo    19 Ibidem. Alcuni testi furono pubblicati, come, nel 1941, la Storia  della patria di Piero Operti.   2 Testimonianza scritta di Giulio Einaudi (Archivio della casa edi-  trice Einaudi (d’ora in avanti AE), G. Einaudi).   © N. Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a Torino, Polledro, che nella collana « Il genio russo » presentò per  la prima volta in Italia traduzioni integrali — alcune opera  di Leone Ginzburg — di Turgheniev, Gogol, Dostoevskij,  Tolstoj e Cechov, da cui attingerà in parte la collana einau-  diana dei « Narratori stranieri tradotti »; sia quello dei  gobettiani, con in primo piano l’opera di educatore di  Augusto Monti, ma anche con le iniziative culturali di Anto-  nicelli, Ginzburg e Pavese, o con la pubblicazione de « La  Cultura » passata sotto la direzione di Arrigo Cajumi. Un  modello che Einaudi terrà presente fu la « Biblioteca euro-  pea », diretta da Antonicelli, presso il tipografo Frassinelli,  dal 1932 al 1935 — quando fu arrestato —, dove uscirono  L’armata a cavallo di Babel, e, tradotti da Pavese, Moby  Dick di Melville, Riso mero di Anderson e Dedalus di  Joyce 2. Ispirandosi a Gobetti, « l’editore ideale » #, Anto-  nicelli raccolse per primo le forze intellettuali torinesi che  si erano formate sotto il magistero di Monti, ma in una pro-  spettiva ancora liberale: « Al di là di Croce non vedevo. I  marxisti non sapevo cosa fossero », ricorderà più tardi, rico-  noscendo che le proprie convinzioni politiche erano matu-  rate solo dopo la Liberazione *.   Da un innesto tra crociana « religione della libertà » e  tradizione gobettiana partiva anche Ginzburg, il quale ebbe  gran parte nella fondazione della casa editrice Einaudi *. Ai  numerosi interessi culturali — dalla letteratura russa alla  storia — egli univa, a differenza di Antonicelli, un saldo  impegno politico da quando aveva aderito, nel 1932, a  Giustizia e Libertà. « Noi non crediamo utile ai fini della  lotta antifascista che ci si debba sottoporre a una specie di  rinuncia intellettuale », scriveva sul periodico del movi-  mento clandestino, dove invitò ad approfondire « la pro-  Gobetti, L’editore ideale. Frammenti autobiografici con ico-  RO ehe; a cura e con prefazione di F. Antonicelli, Milano, Scheiwiller,   24 F. Antonicelli, Le pratica della libertà. Documenti, discorsi, scritti  politici 1929-1974. Con un ritratto critico di C. Stajano, Torino, Einaudi,  1976, pp. X-XI.   25 Cfr. l'importante introduzione di N. Bobbio a L. Ginzburg, Scritti,  Torino, Einaudi, 1964.    202    Le origini della casa editrice Einaudi    pria coscienza rivoluzionaria con la meditazione, lo studio,  l’attività clandestina », a riflettere sulla visione gobettiana  della rivoluzione russa e a studiare Cattaneo, scrisse assieme  a Croce il famoso articolo contro la centralizzazione delle  istituzioni culturali operata dal ministro dell’Educazione  nazionale Francesco Ercole, e rivendicò come « principale  ragion di vita » di Giustizia e Libertà « il lavoro, d’orga-  nizzazione e di pensiero, che si compie in Italia sotto i suoi  auspici » #. E della sua capacità di mobilitare altre intelli-  genze dette atto nel dicembre 1934, pochi giorni dopo il  suo arresto, « Giustizia e Libertà »: « È uno dei pochi,  anzi dei pochissimi, che in regime legale di fascismo rie-  scono ad avere un pensiero e un'influenza sul pensiero degli  altri » 7. Mentre già nel 1930 Cajumi aveva pensato a una  casa editrice espressione de « La Cultura » # — alla quale  Ginzburg collaborava dal 1929 —, nel 1933 Ginzburg  tenne contatti fra l’ambiente torinese ed esponenti dell’am-  biente fiorentino tra loro vicini, Nello Rosselli e il gruppo  di « Solaria ». Rosselli, che stava cercando di varare una  « Rivista di storia europea » di cui Ginzburg avrebbe do-  vuto essere gerente responsabile e coredattore, fu contat-  tato per preparare un volume su Mazzini per la progettata  « Biblioteca di cultura storica » ?; Alberto Carocci, il diret-  tore di « Solaria » che per le difficili condizioni finanziarie  della rivista stava già cercando l’appoggio di un editore per  questa e le sue edizioni, entrò in rapporto, tramite Ginz-  burg, con Giulio Einaudi che alla fine di novembre del  1933 — quando già, il 15 del mese, si era iscritto alla  Camera di commercio di Torino come editore —, pur rifiu-    26 Ibidem, in particolare pp. 5, 16, 29.   © Leone Ginzburg, « Giustizia e Libertà », 16 novembre 1934. ll  Tribunale speciale che il 6 novembre 1934 lo condannò a quattro anni di  reclusione, lo qualificò come « l’anima » di GL a Torino (ACS, Ministero  della giustizia e degli affari di culto. Direzione generale per gli istituti  di prevenzione e di pena, fasc. 46489).   2 «Ginzburg mi ha accennato a una Sua intenzione di formare una  casa editrice “la Cultura” », scriveva Pavese a Cajumi il 27 settembre  1930 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di L. Mondo, Torino, Einaudi,  1966, p. 241).   2 Cfr. Nello Rosselli. Uno storico sotto il fascismo, cit., in partico  lare pp. 139 e 143-45, e AE, N. Rosselli.    203    TI fascismo e il consenso degli intellettuali    tando la proposta di Carocci di trasformare « Solaria » in  casa editrice, fece l’offerta, poi caduta, di rilevare la sola  rivista, osservando che « qualche volta sarebbe bene trat-  tare qualche argomento non puramente letterario, ma che  presenti interesse dal punto di vista sociale contempora-  neo » ”°: un’indicazione di lavoro che darà anche per « La  Cultura », e che testimonia quella volontà di impegno  civile che in quello stesso anno era avvertita anche da  Carocci.   La casa editrice Einaudi nasceva infatti proprio quando  un decreto prefettizio del 1934 metteva fine a « Solaria »,  accusata di contenuto contrario alla morale per un numero  che pubblicava una puntata de I garofano rosso di Vitto-  rini: la rivista che si era rifugiata nella « repubblica delle  lettere » accettando di convivere col fascismo, « nell’illu-  sione di conservare intatta l’autentica superiorità dell’intel-  ligenza borghese, l’eredità lasciata dall’attivismo barettiano  e dall’attendismo rondiano », terminava la sua vita proprio  quando cercava, nel 1933-34, di impegnarsi ideologica-  mente, trasformandosi, come era nelle intenzioni di Carocci,  in « rivista d’idee », e quindi di « discussione anche col  fascismo » *. Forse non fu solo una coincidenza, se si pensa  che gli intellettuali fiorentini si dimostrarono per il mo-  mento incapaci, come gruppo, di trasformare la letteratura  in impegno. Sarà quanto tenterà di fare quella che un rap-  porto della polizia del marzo 1934 definiva « una nuova  casa editrice torinese la quale avrà il compito di diffon-  dere pubblicazioni antifasciste abilmente compilate e attor-  no alle quali da ora in avanti si andranno raggruppando gli  elementi antifascisti del mondo intellettuale », fra i quali si  indicavano i senatori Francesco Ruffini e Luigi Della Torre,  Luigi Einaudi e Nello Rosselli » *. « Che fisionomia ha que-    30 Lettere a Solaria, a cura di Giuliano Manacorda, Roma, Editori  Riuniti, 1979, passizz, e, per la lettera di Einaudi a Carocci del 30 no-  vembre 1933, p. 461.   31 G. Luti, Cronache letterarie tra le due guerre 1920-1940, Bari,  TARA: 1966, in particolare pp. 96 e 127, e Lettere a Solaria, cit., p.    I  32 Cit. in R. De Felice, Mussolini il duce, I. Gli anni del consenso  Torino, Einaudi, 1974, p. 115 n. Bottai, che durante la guerra    204    Le origini della casa editrice Einaudi    sta Casa editrice? Quale programma si propone di svolgere?  Quali sono le sue basi finanziarie? E tu fino a che punto  ci sei interessato? », scriveva il 7 febbraio 1934 Rosselli a  Ginzburg *: ad alcune di queste domande non saremo in  grado di rispondere, in particolare a quella relativa al finan-  ziamento della casa editrice, che provenne probabilmente da  Luigi Einaudi, al quale è forse da attribuire anche una fun-  zione di copertura politica all’iniziativa del figlio, come si  può dedurre dalla marcata impronta conservatrice della  prima collana, « Problemi contemporanei ». Ci limitere-  mo perciò, anche in assenza, prima del 1945, di dati sulle  tirature e sulle vendite, a una storia prevalentemente inter-  na della casa editrice, dedicando tuttavia particolare atten-  zione alle collane, ai volumi e ai temi culturali nei quali sia  più facilmente ravvisabile un orientamento politico, nell’in-  tento, indicato all’inizio, di verificare, oltre ai « limiti del  consenso » al fascismo, se negli anni ’30 sono rinvenibili  alcune delle matrici della cultura del dopoguerra.    2. L'ideologia conservatrice di Luigi Einaudi    Le prime, cospicue forze della casa editrice furono  raccolte tramite le due riviste di grande prestigio rilevate da  Giulio Einaudi nel 1934, « La Riforma sociale » e « La  Cultura » — mentre resta eccentrica rispetto al nostro  discorso « La Rassegna musicale », che pur testimonia come  fin dall’inizio l’editore cercasse spazi culturali differen-  ziati. « La Cultura », da cui la nuova impresa editoriale  riprese come proprio segno distintivo il simbolo dello  struzzo, costitui nella sua pur breve  esistenza in veste einaudiana, il collegamento dei giovani    sarà in stretto contatto con l’ambiente della casa editrice, giudicando   antifascista la posizione espressa dal crociano Francesco Flora in Civiltà   del Novecento — pubblicato da Laterza nel 1933 —, osservava che   « Laterza è, insieme con Giulio Finaudi della Riforma sociale, uno degli   editori italiani, che ignora che siamo nell’anno XII dell’Era Fascista »   (G. Bottai, Appelli all'uomo, in « Critica fascista », XII (1934), n. 1, p. 4).  Rosselli. Uno storico sotto il fascismo, cit., p. 150.   allievi di Monti — fra cui Giulio Einaudi — con la tradi-  zione gobettiana, ma solo in una più lunga prospettiva i  suoi collaboratori e le sue curiosità culturali diverranno  punto di riferimento per gli orientamenti della casa. In  questa maggiore peso « politico » ebbe all’inizio, con « La  Riforma sociale », il gruppo di liberisti che si raccoglievano  attorno a Luigi Einaudi, nel quale si può forse ravvisare,  se non l’ideatore, la forza decisiva per la nascita della casa  editrice. È questo un elemento di conoscenza che pare  confortato da alcuni documenti e anche da un semplice esa-  me del catalogo editoriale, e che, finora trascurato dalle  testimonianze, fornisce una caratterizzazione meno « prov-  videnzialistica », in senso progressivo, dei primi passi della  casa editrice.    La rivista « La Riforma sociale » — suona un avviso di Luigi  Einaudi databile al 1933 — allo scopo di contribuire alla illustra-  zione dei problemi sociali ed economici e specialmente di quelli  determinati dallo stato presente di crisi e dai piani di ricostruzione  e di regolazione sia nei rapporti nazionali che internazionali, pubbli-  cherà accanto ai fascicoli bimestrali, destinati ad ospitare studi di  mole relativamente tenue, volumi atti a trattazioni più larghe, di  circa 150 pagine e con una tiratura di 1.000 copie, dal carattere  rigorosamente scientifico [...], tuttavia accessibile al pubblico colto  in generale *.    « Votrei preparare un piano di collaborazioni », scri-  veva il 31 ottobre 1933, poco prima della fondazione della  casa editrice, Luigi Einaudi ad Attilio Cabiati, l’amico fidato  che inaugurerà nel 1934 la collana « Problemi contempo-  ranei » e che si dimostrerà particolarmente attivo nel sug-  gerire all'editore proposte di traduzioni *. « Problemi con-    3 L'avviso dattiloscritto si trova nell’Archivio della Fondazione Luigi  Einaudi di Torino, sezione 2 (d’ora in avanti AFE), nel fasc. Croce. L’in-  tervento di Luigi Einaudi nella casa editrice è testimoniato anche da una  lettera che il figlio gli scrisse il 17 novembre 1942, inviandogli il progetto  di un volume di Sismondi: « Per altri classici dell'economia, che pos-  sono avere un interesse vivo anche in avvenire, ti sarò grato se mi  vorrai favorire i testi originali con un breve giudizio » (AE, L. Einaudi).   35 AE, Cabiati. Sui suoi interessi, prevalentemente rivolti al mondo  anglosassone, cfr. A. Cajumi, Ricordo di Attilio Cabiati, in « L'Industria »,  n.s. (1951), pp. 406-417. « Allorché capitò la faccenda del giuramento,  si consultò con Francesco Ruffini e con Einaudi, e salvò il salvabile, ossia    206    Le origini della casa editrice Einaudi    temporanei » nasce infatti come « Biblioteca della rivista  “La Riforma sociale” », controllata e orientata personal  mente da Luigi Einaudi fino al 1944, come la « Collezione  di scritti inediti o rari di economisti » (1934), le « Opere  di Luigi Einaudi », la « Collezione di opere scientifiche di  economia e finanza » (1934) e la « Biblioteca di cultura eco-  nomica » (1939); e, nel magro bilancio dei volumi pubbli-  cati nei primi anni — solo con la guetra la casa editrice  assumerà proporzioni ragguardevoli —, tutti i 9 titoli del  1934, e 9 su 11 nel 1935, sono testi economici di queste  collezioni, che nel periodo 1934-44 rappresenteranno sem-  pre un quarto di tutte le pubblicazioni — 55 su 212 titoli  —, in cui spiccano, per il peso del loro messaggio cultu-  tale e politico, i 35 volumi di « Problemi contemporanei ».  La presenza di Luigi Einaudi aveva un altro punto di forza  nella direzione della « Rivista di storia economica », pub-  blicata per i tipi della casa editrice, cui fu permesso di con-  tinuare — sotto un titolo apparentemente accademico e  asettico — la battaglia liberista de « La Riforma sociale »,  soppressa nel 1935 perché coinvolta, solo editorialmente,  negli arresti di Giulio Einaudi e dei suoi amici e collabora-  tori appartenenti a GL, alcuni dei quali animatori de « La  Cultura », alla quale la censura fascista non concesse possi-  bilità di reincarnazione, sotto nessuna veste *.   Appare quindi necessario analizzare l’ideologia del grup-  po liberista quale si manifesta non solo nelle collane, ma  anche nelle riviste dirette da Luigi Einaudi — e, in parte,  ne « La Cultura » —, alla cui influenza è forse da attribuire  lo stesso orientamento anglofilo di altre collane storiche o  letterarie; non bisogna dimenticare, del resto, la profonda  conoscenza del mondo britannico di colui che durante il    difese in extremis le cattedre non ancora infestate dall’economia corpo  rativa » (ibidem, p. 407).   36 Secondo Francesco A. Repaci, stretto collaboratore di Einaudi, la  soppressione de «La Riforma sociale » sarebbe invece da addebitarsi  alla sua battaglia anticorporativista (Ricordo di Luigi Einaudi attraverso  alcune lettere, « Giornale degli economisti e annali di economia »; in realtà, come vedremo, la «Rivista di storia  economica » non farà che riprendere la linea de « La Riforma sociale »,  senza per questo essere soppressa.    207        ventennio fu collaboratore stabile dell’« Economist ». La  funzione culturale e politica svolta da Luigi Einaudi durante  il periodo fascista resta ancora da studiare, e il tema non è  di poco conto se si pensa che il « partito dei liberisti »,  « dopo aver conosciuto dalla fine dell’Ottocento una serie  di sconfitte micidiali da cui sembrava non potesse pit risol-  levarsi, riusci nel secondo dopoguerra a prendersi una cosî  piena rivincita », riuscendo « a influenzare in misura deter-  minante i programmi di ricostruzione e l’impostazione gene-  rale della politica economica italiana dei governi di coali-  zione successivi alla Liberazione » ’’. Funzione che Einaudi  si ascriverà a merito nei suoi risvolti anticorporativisti *,  ma che ebbe, più in generale, i suoi obiettivi polemici in  tutte le ipotesi programmatrici o keynesiane che presero  piede con la grande crisi — non è un caso che a tutto ciò  egli facesse riferimento prospettando la pubblicazione di  una biblioteca de « La Riforma sociale » —, e lo vide  chiuso in una difesa ostinata della sua « quasi religiosa »  fede nel liberismo, che gli impedî di individuare « la crisi  economica del ventennio tra le guerre come una prova delle  fallacie neoclassiche » ”, le quali saranno invece da lui ri-    37 Cosîf V. Castronovo nell'intervento in occasione della commemo-  razione di Luigi Einaudi in occasione del centenario della nascita, in  Annali della Fondazione Luigi Einaudi, vol. VIII, 1974, Torino, Fonda-  zione Luigi Einaudi, 1975, p. 168.   3 «La scienza economica italiana non ha da vergognarsi di quel che  fece durante il cinquantennio crociano. Carità di patria vuole si dimentichi  quel che fu scritto di falso e di consapevolmente falso intorno al cosidetto  corporativismo. Quegli errori sono riscattati dalla resistenza dei più »,  affermerà Einaudi ricordando « La Riforma sociale » e il « Giornale degli  economisti » (La scienza economica. Reminiscenze, in Cinquant'anni di  vita intellettuale italiana 1896-1946, cit., vol. II, p. 313). E ancora: la  « Rivista di storia economica » «forse parve ai governanti del tempo  meno fastidiosa a cagione della sua limitazione a cose passate. Ma già  il Sismondi, in una lettera del 1835 al Brofferio aveva avvertito i vantaggi  che la censura offre agli scrittori costringendoli ad essere avveduti nel  dichiarare la verità invisa ai tiranni [...]. 1 saggi datati dal 1936 al 1941  agevolmente persuadono che il forzato velo storico non vietò mai a chi  scrive di discutere problemi contemporanei » (L. Einaudi, Saggi biblio-  grafici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Edizioni di  storia e letteratura, 1953, p. VII).   39 M. De Cecco, La politica economica durante la ricostruzione 1945-  1951, in Italia 1943-1950. La ricostruzione, a cura di Stuart J. Woolf,  Bari, Laterza, 1974, p. 291.    208    Le origini della casa editrice Einaudi    prese e attuate dopo il 1945, come governatore della Banca  d’Italia e come ministro del bilancio nel quarto e quinto  governo De Gasperi nel 1947-48.   Gli unici studi che hanno affrontato l’opera di Luigi  Einaudi anche nel periodo fascista, compiuti in occasione  del centenario della nascita, si sono preoccupati di ridurre  la sua iniziale adesione al fascismo, fino al 1925, ad un  « equivoco » destinato a dissiparsi quando la politica « li-  beristica » di De Stefani sfociò nel vincolismo e nel corpo-  rativismo ‘, o si sono limitati ad analizzarne le indicazioni  per lo studio delle dottrine e dei fatti economici, senza  cogliere i presupposti ideologici della sua posizione meto-  dologica, o arrivando ad espungere volutamente dall’analisi  le sue concezioni antisocialiste e antistataliste, in quanto:  non sarebbero mai state da lui proposte come formule ‘.  Per meglio comprendere la linea interpretativa della col-  lana « Problemi contemporanei » è invece opportuno sof-  fermarci su questi presupposti ideologici, per i quali l’atti-  vità di Einaudi durante il fascismo ha punti di contatto,  ma anche di differenziazione, con quella di Croce. Segui-  remo i motivi di questa riflessione sulla storia e la politica  economica fino al 1944, data l'omogeneità di questa tema-  tica, che corre parallela con gli altri filoni di pensiero della  casa editrice.   È da rilevare in primo luogo che le indicazioni di Luigi  Einaudi sul modo di fare storia economica sono esplicita-  mente basate sulla preoccupazione di non privilegiare il  fattore economico nella ricostruzione storica. Discutendo  il programma di lavoro della « Rivista di storia economica »  con Gino Luzzatto — il direttore della « Nuova rivista  storica » che ribadiva ancora in quegli anni la validità della  storiografia economico-giuridica —, egli sosteneva che allo    4 Cosî R. Romano nell’Introduzione a L. Einaudi, Scritti econormici,.  storici e civili, a cura di R. Romano, Milano, Mondadori, 1973, pp.  XXXILIOXVII.   4 Cfr., per il primo appunto, R. Romeo, Luigi Einaudi e la storia  delle dottrine e dei fatti economici, e M. Abrate, Luigi Einaudi rivisitato, e,  per il secondo, F. Caffè, Luigi Einaudi nel centenario della nascita, in  Annali della Fondazione Luigi Einaudi, cit., pp. 121-141, 151-163, 39-51  (in particolare, per l’affermazione di Caffè, p. 47).    209        storico era necessario solo il « punto di vista » economico:  « “Punto di vista” e non “prevalenza” né “specializzazio-   e”. Non si diventa storici dell'economia dando, come  fecero molti nel tempo verso il 1900, rilievo a certi fatti  detti economici e mettendoli a fondamento delle spiegazioni  da essi date di certe passate vicende umane. Cosi scrivendo,  si fa buona (esistono, nonostante la cosa tenga del miraco-  loso, persino buoni libri di storia informati al concetto  materialistico della storia!) o cattiva storia politica, non  storia economica » *. La storia economica non deve sup-  porte che il fattore economico sia più importante degli  altri, né accettare la tesi che le teorie economiche siano un  mutevole frutto dei tempi, affermava, concludendo che per  scrivere storia economica « fa d’uopo che lo scrittore abbia  l’occhio od il senso economico » ‘. Di qui l'apprezzamento  per la Storia economica e sociale dell'impero romano ©  Città carovaniere di Rostovzev — pubblicate rispettiva-  mente da La Nuova Italia e da Laterza —, in quanto l’au-  tore « ha visto che alla radice della storia non si trovano  l'economia, la macchina, lo strumento tecnico, la terra arida  o feconda, il denaro e simiglianti cose morte, si invece le    4 G. Luzzatto - L. Einaudi, Per un programma di lavoro, in « Rivista  di storia economica », I (1936), p. 201. Luzzatto, che in una lettera a  Einaudi del 5 novembre 1936 accettò in sostanza la sua opinione (AFE,  Luzzatto), salutò con entusiasmo la nascita della «Rivista di storia  economica », perché « può rappresentare per i giovani studiosi italiani  di storia economica una guida ed uno stimolo, di cui si sentiva estre-  mamente il bisogno, indirizzandoli nella scelta degli argomenti di ricerca,  raddrizzando idee tradizionali errate, chiarendo idee confuse, creando  soprattutto quel contatto fra scienza economica e ricerca storica, che fino-  ra è in gran parte mancato » (« Nuova rivista storica », XX (1936), p. 282).  A Luigi Dal Pane — dal quale non riuscirà tuttavia ad ottenere una  collaborazione — Luigi Einaudi spiegò il 4 luglio 1936 il tipo di articoli  desiderati: « 1) un problema teorico importante studiato da un econo-  mista passato; 2) un problema di fatto interessante in sé, interessante  per qualche attacco al presente, su cui l’esperienza di un tempo passato  dice qualcosa di rilevante » (L. Dal Pane, Il mio carteggio con Luigi  Einaudi, in Annali della Fondazione Einaudi, vol. VI, 1972, Torino,  Fondazione Luigi Finaudi, 1973, p. 194).   43 L. Einaudi, Lo strumento economico nella interpretazione della  storia, in « Rivista di storia economica », I (1936), pp. 155-156 (in discus-  sione con Lucien Febvre}. Nello stesso senso cfr. T. Codignola, Esiste  una «storia economica »?, in « Rivista di storia economica », idee che la classe politica si è fatta » #: dove è evidente  la polemica contro quella « vulgatio » del materialismo sto-  rico in cui Gramsci rinveniva uno specifico influsso loriano,  presente anche nel commento a Economic planning and  international order di Lionel Robbins, un autore quanto  mai caro a Einaudi e alla casa editrice, lodato per la tesi  che « la continuità della coesistenza di diverse nazioni del  mondo è incompatibile con qualunque piano diverso da  quello economico liberale », e che un piano è un fatto poli-  tico: « È un capovolgere la storia cercare nell’economia la  spiegazione degli avvenimenti politici, sociali, intellettuali.  Bisogna invece cercare nella politica la spiegazione degli  avvenimenti economici » 4. Gli esempi potrebbero moltipli-  carsi, a testimoniare come l’assai vaga asserzione che allo  storico economico necessiti, e sia sufficiente, « l’occhio od  il senso economico », si connetta con la fede nel carattere  assoluto ed eterno delle leggi economiche, con la polemica  nei confronti del materialismo storico e del socialismo, e  con la difesa del liberismo come vero liberalismo.  Rispondendo a quanti parlavano di superamento delle  teorie economiche, di quella ricardiana in particolare,  Einaudi affermava che « una ideale storia delle dottrine  economiche potrebbe semplicemente consistere nel ricordo  che si facesse, nel trattare sistematicamente la dottrina oggi  ricevuta, del debito da questa contratto verso le precedenti  meno perfette formulazioni che via via la precedettero. Il  legittimo uso della parola “superamento” implica l’accogli-  mento contemporaneo dell’idea che nulla è superato, nulla  è fuor del tempo presente ed ogni teoria che visse vive    4 L. Einaudi, Il valore economico del libro del Rostovzev, in «La  Riforma sociale », XLI (1934), p. 336. Sulla conoscenza « da orecchiante »  del materialismo storico da parte di Einaudi mediata da Croce e Loria,  cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. II, pp. 1289-1290.   45 L. Einaudi, Delle origini economiche della grande guerra, della crisi  e delle diverse specie di piani, in «Rivista di storia economica», II  (1937), p. 278. Il 30 novembre 1946 Giulio Einaudi scriverà a Robbins:  «se durante la deprecabile ultima guerra Voi ricordavate con simpatia  l’ambiente che faceva capo a mio padre, noi altri giovani durante quegli  anni terribili non cessammo mai di guardare con venerazione e speranza  alla Vostra Patria e ai suoi uomini più rappresentativi » (AE, Robbins).    241        ancora perfezionata ed affinata nella teoria attuale » ‘. L’in-  sistente difesa di Ricardo, di Smith, di Francesco Ferrara o  della massima di D’Argenson — « pour mieux gouverner,  il faudrait gouverner moins »  —, si accompagna a uno  sprezzante giudizio su Keynes, nelle cui pagine si può tro-  vare « la esposizione pi ingegnosa e raffinata che imma-  ginar si possa di quella qualunque tesi egli, con pieno prov-  visorio convincimento, sostenga in un dato momento » “£  all’assunzione a modello dei discorsi di Cavour, in quanto  « mutano i problemi; ma l’arte dell’analizzarli criticamente  con spirito non preoccupato damiti e da formule verbali,  non muta » ‘; o, in polemica col corporativismo fascista —  non molto frequente, tuttavia, sulla « Rivista di storia eco-  nomica » —, all’esaltazione delle corporazioni medievali  mai configuratesi come « caste chiuse »: « La lotta, il tu-  multo, le inimicizie, le cacciate e l’esilio sono i segni distin-  tivi di quell’epoca che poi fu voluta idealizzare come tesa  verso la pace sociale. Ma, perché lottava, amava ed odiava,  quell’epoca partori credenti artisti e poeti grandi; ma perché  era un’epoca di rivolgimenti politici economici e sociali,  essa creò ricchezza potenza arte e poesia ». Una difesa della  necessità della lotta e del contrasto che non si traduce mai,  però, nella comprensione delle novità del processo storico,  cui l’ottuso conservatorismo di Einaudi oppone un’imma-  gine statica della vita sociale, assai distante dalla stessa  concezione crociana della storia etico-politica ”    * L. Einaudi, Superamento, in « La Riforma sociale», Einaudi, Una disputa a torto dimenticata fra autarcisti e liberisti,  in «Rivista di storia economica », III (1938), p. 149.   4 Si riferisce ai s aggi di Keynes La fine del laisser faire e L’autarchia  economica tradotti nella « Nuova collana di economisti stranieri ed ita-  liani » diretta da G. Bottai e C. Arena (« Rivista di storia economica »,  II (1937), p. 374). Per una critica agli Essays in Bibliography di Keynes  cfr. anche L. Einaudi, Della teoria dei lavori pubblici in Maltbus e del  tipo delle sue profezie, in « La Riforma sociale », XLI (1934), pp. 221-227.   4 L. Einaudi, Una nuova edizione dei discorsi del conte di Cavour,  in «La Riforma sociale »,(a proposito dei Discorsi  parlamentari di Cavour curati da Omodeo e Russo per La Nuova Italia).   5 L. Einaudi, Alba e tramonto delle corporazioni d'arti e mestieri, in  « Rivista di storia economica », VI (1941), pp. 96-97. Einaudi « non riu-  sciva ad afferrare i motivi del movimento storico », ha affermato L. Dal    212    Le origini della casa editrice Einaudi    È del resto noto come, sul piano politico, il liberalismo  di Einaudi non sia assimilabile a quello di Croce, tanto da  spiegare — come vedremo dall’analisi di alcuni volumi  della collana « Problemi contemporanei » — un maggior  « possibilismo » del primo nei confronti del fascismo. E  ciò, nonostante il rapporto personale e gli elementi di con-  vergenza che legano i due intellettuali durante il regime.  Ne è testimonianza la segnalazione simpatetica che sulla  « Rivista di storia economica » Einaudi fa, in due occa-  sioni, delle edizioni Laterza: valorizza ad esempio l’opera  dei meridionalisti conservatori — Jacini, Turiello, Villari,  Franchetti, Sonnino e Fortunato — analizzati da Enzo Ta-  gliacozzo in Voci di realismo politico dopo il 1870; ap-  prezza incondizionatamente — a differenza di Ginzburg ”  — l’immagine fornita da Nicola Ottokar nella Breve storia  della Russia, un paese la cui « tragedia » sarebbe stata  quella di non aver mai avuto un ceto intermedio numeroso,  ma solo padroni e servi, dove i primi erano una volta i  nobili, ora la burocrazia sovietica ”. Sempre per « rendere  testimonianza di onore all’editore colto e tenace, il quale in  tempi volti ad altri problemi persegue un alto ideale di  cultura », Einaudi segnala La concezione romana dell’im-  pero di Ernest Barker, accogliendone la distinzione fra la  rivoluzione francese, da cui « discendono lo stato napoleo-  nico ed il comunismo economico », e la rivoluzione puri-  tana inglese, da cui derivano « la libertà di coscienza e di    Pane, Commemorazione di Luigi Einaudi, in Memorie dell’Accademia  delle scienze dell’Istituto di Bologna, classe di scienze morali, e Franco Venturi ha osservato che « la storia economica,  quale egli fa concepî, non produsse in Italia quel rivolgimento, quella  trasformazione profonda che compirono in varie forme altrove il marxismo,  la scuola delle “Annales”, le moderne teorie dello sviluppo e la cliometria.  Personalmente sono convinto che l’elemento conservatore presente nel  pensiero di Einaudi agi da freno, da remora a questa rivoluzione storio-  grafica. Riproporre a modello Le Play nel secolo XX era un paradosso »  (in Annali della Fondazione Luigi Einaudi, vol. VIII, cit., p. 180).   51 Le osservazioni di Ottokar « sono giustapposte, e non concatenate,  sf che l'avvento del bolscevismo può configurarglisi come una specie di  cataclisma, che interrompa la continuità storica », notava ad esempio  Ginzburg (« Nuova rivista storica » (1937), ora in Scritti, cit., p. 111).   5 L.E., Edizioni Laterza, in « Rivista di storia economica », II (1937),  pp. 196-198.  pensiero, la società economica a tipo di concorrenza, l’unio-  nismo operaio, il regime di discussione »; ma la « lettura  più vantaggiosa » è per Einaudi la Storia d’Europa di  Fisher, nella quale egli vede la dimostrazione dell’assenza  di basi economiche nei diversi ordinamenti politici. Prende  invece nettamente le distanze da un libro laterziano allora  famoso in quanto espressione della crisi dei valori borghesi,  Democrazia in crisi del laburista Harold J. Laski — un au-  tore che la casa editrice accoglierà solo nel dopoguerra, men-  tre nel 1936 Mario Einaudi lo aveva accusato di marxismo  per l’opera The Rise of Liberalism —, in quanto « dalla pa-  rificazione laskiana di “democrazia” ad “uguaglianza” vien  fuori un’economia comunistica a tipo termitario » ”.   Il liberalismo di Einaudi aveva infatti un minor respiro  ideale di quello di Croce, come dimostra la discussione tra  loro intercorsa negli anni ’30 e ’40 sui rapporti tra libe-  rismo e liberalismo: mentre Croce, pur nella comune ri-  pulsa del comunismo, negava la necessaria identità dei due  termini, Einaudi sosteneva la loro inseparabilità, in quanto  « l’idea della libertà vive, si, indipendente da quella norma  pratica contingente che si chiamò liberismo economico; ma  non si attua, non informa di sé la vita dei molti e dei più se  non quando gli uomini, per la stessa ragione per cui vollero  essere moralmente liberi, siano riusciti a creare tipi di orga-  nizzazione economica adatti a quella vita libera » *. Data  questa rigida identificazione — per cui la presa di distanza  di Einaudi dal fascismo ha il suo motivo di fondo nella  politica protezionista e corporativa del regime —, si com-  prende come più numerosi e acri che ne « La Critica »  siano gli attacchi antisocialisti nella « Rivista di storia  economica », condotti in primo luogo dal suo direttore  con accenti che dimostrano la carica politica, prima ancora    53 L. Einaudi, Ancora a proposito di edizioni e di alcuni libri editi da  Giuseppe Laterza in Bari, in « Rivista di storia economica », III (1938),  pp. 349-354; M. Einaudi, Di una interpretazione puramente economica  del liberalismo, in « Rivista di storia economica », Einaudi, Tema per gli storici dell'economia: dell’anacoretismo  economico, in « Rivista di storia economica », II (1937), p. 195. I testi  del dibattito sono raccolti in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e libera-  lismo, a cura di P. Solari, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957. Le origini della casa editrice Einaudî    che scientifica, dei suoi obiettivi. Ne è documento esem-  plare, nel 1934, la recensione a Socialism's New Start, tra-  duzione di un’opera di socialisti tedeschi nascosti dall’ano-  nimato, critici dei partiti tedeschi socialdemocratico e co-  munista accusati di aver consegnato le masse operaie al  nazismo; con le minacce di simili « untorelli », scrive  Einaudi, il regime hitleriano può dormire sonni tranquilli:    I socialisti del continente europeo, sia quelli dei paesi come  l’Italia, la Germania e l’Austria, nei quali essi sono stati spazzati via,  sia quelli dei paesi come la Francia, nei quali si danno un gran da  fare per farsi mandare a spasso, non hanno ancora capito che « il  capitalismo » è una irrealtà, uno schema partorito dalla loro scarsa  cultura storica e dalle loro rudimentali attitudini psicologiche; e  quindi, essendo un meccanismo tecnico, una costruzione meramente  amministrativa e contabile, può essere rivoluzionato o riplasmato pit  o meno in meglio od in peggio, senza grandissime difficoltà. La  società tollera chiacchiere socialistiche più o meno interessanti e  consente talvolta che in nome di ideali socialistici si compiano ai  margini sperimenti più o meno costosi intesi a tener quiete le molti-  tudini. Ma le chiacchiere e gli sperimenti non devono andare oltre  un certo segno; non devono toccare istituti che hanno nell’animo  umano radici ben più profonde del capitalismo: la proprietà della  terra, della casa, dell’opificio, il risparmio, la famiglia, la eredità,  la tradizione, la religione.    Responsabili della nascita dei regimi totalitari sareb-  bero stati i socialisti, in quanto Blum in Francia, Cripps e Laski in Inghilterra appaiono a Einaudi « magni-  fici alleati e profeti e sostenitori di nuovi regimi che, sorti  in Italia si vanno estendendo, sotto forme variabilmente  adattate alle diverse contrade, un po’ dappertutto » 5.   Proprio riferendosi a questa recensione, e alla raccolta  dei Nuovi saggi di Einaudi pubblicata nel 1937 dal figlio,  « Giustizia e Libertà » — espressione del movimento nel  quale si riconoscevano vari collaboratori della casa edi-  trice — critica violentemente l’esponente liberista, nella  cui opera non ravvisa né antifascismo, né liberalismo, né  scienza, ma solo i frutti di un « liberale è /a page », lealista    55 L. Einaudi, Afforno ad una spiegazione della disfatta dei partiti  socialistici, in « La Riforma sociale », XLI (1934), pp. 713-714. verso il regime, mosso da « una meschina preoccupazione  di antisocialismo, che non ha a che vedere con il bisogno  di libertà che ogni uomo prova, ma semplicemente con un  sentimento originario, più forte di qualunque ragionamento,  di disprezzo per il salariato e per il lavoratore manuale che  aspiri a dirigersi da solo ». Ispirato da un « velenoso » odio  di classe — continua articolista —, Einaudi « arriva a  sostenere la legittimità della reazione fascista, che non  sarebbe l’avventura di un gruppo di spostati né rea-  zione di privilegiati, ma la reazione legittima della so-  cietà contro quei faccendoni dei socialisti che le impedi-  vano di lavorare »; il suo «cieco conservatorismo » si  spiega con la sua « sfiducia totale in qualunque tentativo  di miglioramento, che tolga gli individui alla classe in cui  essi sono costretti a vivere » ”.   È del resto raro trovare nella seconda metà degli anni  ’30, nella « Rivista di storia economica » o nei volumi della  casa editrice ispirati da Luigi Einaudi, una coerente pole-  mica nei confronti della politica economica del regime o dei  testi economici proposti dal fascismo. La critica all’antiindi-  vidualismo della Breve storia delle teorie economiche di  Othmar Spann edita da Sansoni nel 1936 resta un caso  isolato ”, mentre già nel 1934 Einaudi trova modo di lodare  Bottai « promotore di iniziative feconde: come quella dei  buoni libri informativi editi dalla scuola corporativa di  Pisa », o la « Nuova collana di economisti » curata da  Bottai e Arena, in cui apprezza in particolare la pubblica-  zione dell’Economia del benessere di Arthur C. Pigou —  « non conosco lettura più adatta a moltiplicar dubbi su  qualsiasi provvedimento di politica sociale » — e gli scritti    $% Magrini [Aldo Garosci], Liberalismo?, in «Giustizia e Libertà »,  5 marzo 1937; per un altro attacco al « fascismo » di Luigi Einaudi cfr.  La concezione filosofica del mondo, in ibidem, 1 aprile 1938. « Di rado  compaiono operai — notava il corporativista Giuseppe Bruguier recen-  sendo i Nuovi saggi —. Gli è che l’Finaudi, man mano che gli anni  passano, mi pare si faccia sentimentalmente sempre più vicino, piuttosto  che ai lavoratori delle calate del porto di Genova o alle maestranze delle  officine di Torino, ai contadini delle sue belle terre piemontesi », osservati  con « senso patriarcale » (« Leonardo », VIII (1937), p. 70).   5? L. Einaudi, Una storia universalistica dell'economia, in « Rivista di  storia economica », I (1936), pp. 258-263.    216    Le origini della casa editrice Einaudi    sulla tassazione di Wicksell, col quale Einaudi dichiara di  trovarsi « in ottima compagnia nella tendenza a non pren-  dere sul serio certi cosiddetti principî di ripartizione delle  imposte chiamati dell’uguale, proporzionale o minimo sa-  crificio ovverosia della capacità contributiva e simiglianti  vacuità senza contenuto »: la « conquista definitiva teori-  ca » di Wicksell è infatti che « non esiste un principio di  giustizia tributaria » *. In una discussione in cui, accanto a  nette differenziazioni, c’era posto per posizioni intermedie  fra corporativismo e liberismo — tipica è la figura di  Marco Fanno, collaboratore al tempo stesso della « Nuova  collana di economisti » e della casa editrice Einaudi” —,  ma anche per significativi incontri su questioni economiche  di nodale importanza, Luigi Einaudi poteva tranquillamente  combattere la teoria dell’imposta progressiva: cosî nel 1934  con la pubblicazione — preceduta da una sua prefazione  ‘elogiativa dell’autore e dell’opera svolta dai liberisti italiani  nel 1880-90 — dei Principi di economia finanziaria di De  Viti De Marco, dalla quale Edoardo Giretti traeva spunto  per un giudizio politico il cui elemento di distinzione dal  fascismo era rappresentato da una /audatio temporis acti ©,    58 L. Einaudi, Del principio della ripartizione delle imposte (a pro-  posito di una nuova collana di economisti), in « La Riforma sociale »,  Macchioro, Studi di storia del pensiero economico e altri  saggi, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 644-45, e il carteggio Fanno-Finaudi  in AFE, Fanno. :   6 «Lo storico che potrà un giorno, all’infuori delle passioni e dei  rancori dell’età contemporanea, discutere ed esaminare a fondo oggetti-  vamente e serenamente le cause che determinarono la crisi del 1922 e  la caduta di un regime politico-parlamentare che del liberalismo cavour-  riano aveva conservato soltanto il nome, ma non l’idea e la sostanza,  dovrà riconoscere che l’unico tentativo serio e coerente, che si era fatto  in Italia, allo scopo di prevenire la catastrofe di quel regime, da gran  tempo preveduta, fu proprio quello del gruppo liberista, del quale il De  Viti fu il capo e l’ispiratore più autorevole e più tenace », colui che aveva  osservato che i liberisti, « avendo pur sempre di mira la difesa e il  consolidamento dello Stato liberale democratico, avevano esercitato una  critica intesa a creare nel paese una più elevata coscienza pubblica contro  tutte le forme degenerative delle libertà individuali e del sistema rap-  presentativo » (E. Giretti, Un uomo e un gruppo, in «La Cultura »,  XIII (1934), pp. 28-29). Con quest'opera De Viti De Marco « aveva  dimostrato la natura autofaga dell’imposta progressiva », dità Einaudi,  Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino, Einaudi, 1938, p. 197 n.    217        e, con particolare forza, nei Miti e paradossi della giustizia  tributaria, dove il richiamo agli economisti classici si accom-  pagna ad accenti moralistici che mal nascondono la sostanza  antidemocratica del discorso:    Giova — si chiedeva Einaudi — [...] togliere coll’imposta diffe-  renziata a questi pochi [monopolisti] il guadagno di eccezione che  essi temporaneamente lucrano? No; poiché è vero che quel lucro è  ottenuto col vendere a più basso non a più alto prezzo dei concor-  renti. Se si vuole accaparrare quel lucro a vantaggio della collettività  non bisogna adoperare l’imposta, strumento stupidamente repressivo,  ma l’emulazione gli onori la lode. Giova creare l'atmosfera nella  quale il ricco giudichi se stesso disonorato e sia dall'opinione pub-  blica considerato con spregio se non consacri in vita e in morte parte  rilevante dei suoi redditi a scopi di pubblica utilità: a fondare e  dotare scuole ospedali parchi stadi.    Come ammoniva Adam Smith, « un grado assai consi-  derevole di disuguaglianza sembra essere, ove si giudichi  secondo l’esperienza universale dei popoli, un danno di  pochissimo conto in paragone con un piccolissimo grado  di incertezza ». La preferenza accordata alla « certezza »  rispetto alla « giustizia » — per cui si richiamano anche  gli scritti economici di Cattaneo — trova infine il suo natu-  rale corrispettivo, sul piano politico, nella critica alla demo-  crazia: « Chi, salvo gli egualitari, intenti ad aprire la via  al governo dei plutocrati, mai seppe che lo stato ideale si  confondesse con il governo del demo? Anche il governo  di una minoranza può essere una approssimazione all’ideale,  se la minoranza ha lo sguardo volto verso l’alto » ©; dove  l’individualismo economico e l’antisocialismo ricordano gli  aspetti più propagandistici dell’opera di Pareto, il cui  Corso di economia politica apparirà nel 1943 nella « Col-  lezione di opere scientifiche di economia e finanza ».   Anche il richiamo a Cattaneo, sopra citato, si presenta  in Luigi Einaudi nella linea di un discorso conservatore,  difficilmente assimilabile all’interpretazione « illuministi  ca » di un Salvemini o di un Gobetti e ben distante dalla  caratterizzazione democratica che — come vedremo — ne    ®! L. Einaudi, Miti e paradossi, cit., pp. 95, 239, 255.    218    Le origini della casa editrice Einaudi    darà Spellanzon nel 1942. La raccolta dei Saggi di econo-  mia rurale curata nel 1939 da Luigi Einaudi per la « Biblio-  teca di cultura economica » ebbe tuttavia il merito di rinno-  vare l’interesse attorno a una figura di cui l’idealismo si era  sbarazzato rapidamente. « Corrente di vita giovanile », la  rivista di fronda di Ernesto Treccani che prima dell’entrata  in guerra dell’Italia pubblicherà il brano cattaneano Della  milizia antica e moderna in cui la guerra ingiusta era consi-  derata preludio di sconfitta, colse in Cattaneo un modello  di serietà e di impegno ©, mentre su « Primato » Giansiro  Ferrata, dopo aver ricordato che « la lotta politica fino al  ’24 ha insistito su questo nome in tutti i toni possibili,  cogliendone ogni impulso all’azione », oppose 1’« idealismo  operativo » di Cattaneo a quello « descrittivo » di Vico  privilegiato da Croce: « se in questi anni — concludeva  all’inizio del 1940 —, come sembra vero e necessario,  alcuni pregiudizi politici ed ideologici vanno scomparendo,  dovremmo acquistare alla coltura d’oggi questo nome » £.  La riproposizione che ne faceva Einaudi era però, anche se  più puntuale, pit restrittiva, tesa a raccogliere da Cattaneo  l'invito al sacrificio, alla « edificazione della terra colti-  vata », e soprattutto il richiamo alla « certezza che gli  uomini debbono possedere di godere essi i frutti del proprio  lavoro », attuabile attraverso i « mirabili effetti » del cata-  sto: « Mentre troppi dottrinari corrono dietro a false teo-  riche di cosidetta giustizia tributaria e vorrebbero distrug-  gere le più belle tradizioni finanziarie italiane, fa d’uopo    62 S. Pozzani, Quasi una introduzione, in «Corrente di vita giova-  nile », 31 ottobre 1939: «al fondo della sua concezione politica ed  economica stava il convincimento che solo a prezzo di fatiche e di  sacrifici l’uomo può giungere a risultati positivi e fecondi {...] dalle  pagine del Cattaneo emana l’incitamento a meditate preparazioni come  base necessaria per affrontare la paziente e scrupolosa disamina dei  problemi grossi e minuti della nostra vita nazionale ». Il passo di Cattaneo  riportato si concludeva cosî: «Ma la vittoria stessa, destando la mera-  viglia delle genti e l'imitazione, nel decorso eguaglia le sorti, e riduce il  popolo stesso che aveva trascese le condizioni dell’equilibrio » (ibidem,  31 maggio 1940). Sulla rivista cfr. l'introduzione di Alfredo Luzi a Cor-  rente di vita giovanile (1938-1940), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1975.   63 G. Ferrata, Immagine di Cattaneo, in « Primato », I (1940), pp. 27,  29; cfr. anche Id., Caztareo, in « Oggi », 25 novembre 1939.    219        insistere energicamente sulla virti della imposta ripartita  su basi destinate a non mutare per lungo tratto di tem-  po » *   Il Cattaneo einaudiano diventa quindi un’altra arma  contro gli « egualitari » e i socialisti, contro i quali si schie-  rano anche altri collaboratori della « Rivista di storia eco-  nomica ». Si distingue fra questi il giovane allievo di Luigi  Einaudi e Gioele Solari, Aldo Mautino, che nello studio su  La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce —  pubblicato postumo da Einaudi nel 1941 dopo una « accu-  rata revisione » dello stesso Croce — si farà partecipe espo-  sitore della critica crociana al materialismo storico di La-  briola e si schiererà con Luigi Einaudi nel sostenere l’iden-  tità fra liberismo e liberalismo 9. Commentando la mono-  grafia di Dal Pane su Labriola e i Saggi labrioliani ripro-  posti da Croce nel 1938, Mautino osservava che la gran-  dezza del cassinate « non si deve ricercare nel campo specu-  lativo, bensi piuttosto in quello politico », in quanto gli  sembrava che i Saggi tendessero «ad una svalutazione  progressiva di quella medesima dottrina di cui si presen-  tano come interpretazione e commento »: « una costante  linea spirituale di svolgimento conduce in effetti a risol-  vere l’opposizione persistente tra la necessità escatologica  del comunismo e la libera volontà rivoluzionaria e, lascian-  do da un canto la trascendenza economica, la dialettica  della storia e la conseguente apocalissi comunistica, a far  luogo all’azione, diretta ad instaurare per convincimento    4 C. Cattaneo, Saggi di economia rurale, a cura di L. Einaudi, Torino,  Einaudi, 1939, p. 31; cfr. anche L.E., La terra è un edificio ed un arti:  ficio, in « Rivista di storia economica », IV (1939), p. 246. Il richiamo  di Einaudi a Cattaneo appare invece «illuminista » a N. Bobbio, Una  flosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Torino, Einaudi, 1971, PP.  200-201.   65 Cfr. le lettere di Giulio Einaudi a Croce del 16 e 23 dicembre 1940  (AF, Croce). « A suo agio il Mautino avrebbe potuto maggiormente far  risaltare gli elementi della dottrina creduta morta da Croce in se stesso  e rimasti al contrario vivi e fecondi. Se ciò non ha fatto gli è perché  non aveva del materialismo storico, nelle sue affermazioni originali, e  nei suoi più vitali ripensamenti, quella conoscenza che sarebbe stata  necessaria », osservò F. D'Antonio, A proposito della « filosofia politica »  crociana, in « Nuova rivista storica », XXV (1941), p. 333.    220    Le origini della casa editrice Einaudi    morale, fuori da ogni attesa fatalistica, una nuova forma  di vita più umana. Onde la conclusione ideale, a cui i Saggi  medesimi sembrano rivolgersi, finisce per rinnegare quelle  stesse strutture intellettuali di cui la passione politica  aveva tentato di rivestirsi ». Fatta propria la negazione  crociana del materialismo storico come filosofia, e affermato  che nel campo speculativo il marxismo era stato superato da  Croce e Sorel, Mautino notava tuttavia la « comprensione,  profonda nel Labriola, del valore nazionale rappresentato  dal movimento operaio. Questo rigido socialista sognava  un’Italia attraverso di quello rigenerata e fatta più civile  [...]. In questo augurio di una Italia nuova consiste una  delle ragioni, e sicuramente non la minore, della “ perpetua  giovinezza” che l’antico e recentissimo editore riconosce  nell’opera del Labriola » £. Se in quest’ultima affermazione  può apparire un’acquisizione di stampo nazionalistico del  pensiero di Labriola, analoga a quella compiuta da Volpe  nella prefazione alla monografia di Dal Pane, decisamente  liquidatorio era il giudizio sul socialismo espresso da Mau-  tino nella recensione delle memorie di organizzatori operai  pubblicate da Laterza (Zibordi, Rigola, Riguzzi) e dalla  collana dei « Problemi del lavoro » (Azimonti, Zanella,  Bettinotti, Anzi, Rigola): staccato dal marxismo scienti-  fico, « il socialismo fu soprattutto una convinzione mora-  le », ma anche cosî le memorie dei suoi militanti, annotava  Mautino,    lasciano trasparire del grigiore spirituale. Pare che dopo tanto tre-  pidar di speranze e divampare di passioni e avvicendarsi di illusioni  e delusioni e travagliarsi e lottare, l’animo tendesse a volgersi di  preferenza a faccende organizzative, e di miglioramenti economici, e  di compromessi politici [...]. Ormai il vecchio socialismo moriva  senza gloria; e anche questi suoi ultimi fedeli, guardando oggi al  futuro, non sanno più ritrovare nei miti troppo facili della loro gio-  venti motivi capaci di animarli e correggerli ancora ,    6 A. Mautino, Intorno a un teorico del materialismo storico, in « Rivi-  sta di storia economica », IIl (1938), pp. 332-334.   6 A. Mautino, Memorie di organizzatori operai italiani, in « Rivista  di storia economica », IV (1939), p. 76. Recensendo il Concezto cristiano  della proprietà di J. M. Palacio curato da Fanfani per le edizioni di  Vita e pensiero, Mautino trovava modo di condannare anche il cattoli-  A sottolineare le carenze del socialismo e il primato del  liberismo interveniva autorevolmente, nel 1940, Attilio  Cabiati: notando come « da parecchi anni a questa parte il  socialismo, che pareva “relegato in soffitta” », fosse venuto  attirando l’attenzione di studiosi tedeschi ed anglo-ameri-  cani, rivolti a vagliare « la possibilità teorica di un governo  economico collettivista », affermava che tutti arrivavano  alla conclusione che « qualunque sistema economico si  adotti, ove esso miri a procurare col minimo dispendio di  forze il massimo benessere della collettività, deve soddi-  sfare a quello stesso sistema di equazioni, che in libera  concorrenza garantiscono l’utilità massima ai singoli opera-  tori sul mercato »; perciò solo lottando contro l’interven-  tismo statale, concludeva Cabiati, « l'economia potrà rifio-  rire, dimostrando coi fatti che l’azione privata, malgrado i  propri difetti innegabili, supera senza paragone possibile  qualsiasi forma di costituzione socialistica della società, che  costituirebbe l’iperbole del burocratismo, coi suoi insosteni-  bili difetti e con la formazione della peggiore oligarchia arri-  vista » £.   La battaglia antiprotezionistica dei liberisti raccolti at-  torno a Luigi Einaudi, quale si rispecchia non solo nelle sue  riviste, ma anche nei volumi di economia della casa editrice  che ora esamineremo, aveva quindi un’impronta ideologica  conservatrice e antisocialista che, se rappresenta solo una  faccia dell’iniziativa culturale di Giulio Einaudi, è forse  quella che meglio spiega la capacità di quest’ultimo di  aprirsi degli spazi di manovra nelle maglie del regime.    cesimo sociale in quanto, «al pari del socialismo democratico, la poli-  tica cattolica si volge alla plebe con le lusinghe della benedizione  pubblica e la promessa d’un paradiso nel cielo », facendosi sostenitrice  dell’interventismo statale (Cattolicesimo e questione sociale, in « Rivista  di storia economica », III (1938), pp. 79-80).   6 A. Cabiati, Intorno ad alcune recenti indagini sulla teoria pura del  collettivismo, in « Rivista di storia economica »,{prendeva in esame, fra gli altri, saggi di R. L. Hall e M. Dobb). Di notevole interesse per valutare, non solo sul piano  ideologico, il rapporto fra il gruppo di Luigi Einaudi e il  regime è la collana « Problemi contemporanei », che per  dieci anni — dalla fondazione della casa editrice al 1944 —  riflette l'opinione dei liberisti sulla politica economica ita-  liana e internazionale, con delle valutazioni che, passando  quasi sotto silenzio gli indirizzi corporativi del fascismo,  non sono tali da costituire, nella maggior parte dei casi, un  terreno di scontro con gli economisti del regime. Il tema  di maggior rilievo della collana è la crisi del 1929 e il  New Deal rooseveltiano: un punto sul quale l’attenzione  dedicata ai problemi monetari anche dai liberisti « per-  mette loro di trovare un terreno di incontro con i corpora-  tivisti, dati gli indirizzi della politica del regime in questo  settore » ©, anche se, ovviamente, da parte fascista si cerca  di assimilare l’esperimento di Roosevelt — in quanto inter-  ventista — al corporativismo e di ricavarne quindi un’ulte-  riore giustificazione di quest’ultimo come terza via tra capi-  talismo e socialismo; mentre l’entourage di Luigi Einaudi,  nonostante uno sforzo di documentazione, manifesta dure  critiche nei confronti delle analisi catastrofiche della crisi e  della politica del presidente americano. La posizione dei  liberisti — accanto al gruppo einaudiano è da annoverare  anche quello che si raccoglie attorno al « Giornale degli  economisti » — giustifica « un giudizio di incomprensione  e di mancanza di attrezzatura teorica idonea da parte di  questi economisti rispetto ai problemi posti dalla crisi ame-  ricana. È assente la coscienza del dramma di milioni di  disoccupati e non esiste quel travaglio sull’adeguatezza dei  propri strumenti teorici che caratterizza vari economisti  americani. Vi è, soprattutto, una difesa della “scienza eco-  nomica” e delle “leggi economiche” contro la politica eco-  nomica e la politica in generale » ”. Mentre il governo    ® M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche   ed economiche italiane, in G. Spini, G. G. Migone, M. Teodori, Italia   e sno dalla grande guerra a oggi, Padova, Marsilio, 1976, p. 108.  idem.  fascista accentuava l’intervento dello Stato nell’economia,  i liberisti cercarono di ridimensionare la portata della crisi  e di attribuirne le cause, in ultima istanza, alla politica pro-  tezionistica promossa dai vari Stati dopo la prima guerra  mondiale e, quindi, a « errori di uomini » allontanatisi dalle  « leggi economiche ».   Già nel 1931 Luigi Einaudi, svolgendo su « La Riforma  sociale » delle « riflessioni in disordine » sulla crisi, aveva  individuato nel crack del 1929 la manifestazione di quei  « cicli brevi » che « sono dominati dagli errori degli uomi-  ni » e, in quanto tali, facilmente superabili. L’insorgere di  uno squilibrio fra domanda e offerta, una delle cause della  crisi, era imputato moralisticamente a una deviazione dai  modelli tradizionali di vita delle classi inferiori aspiranti  a salire nella scala sociale. Se in Russia, osservava, « non  è concepibile crisi » in quanto domanda e offerta coincide-  vano « forzatamente » per l’intervento dello Stato soffoca-  tore della libertà e delle aspirazioni individuali, il « mo-  dello » americano, che faceva tendere ad un alto tenore di  vita tutte le classi, era un elemento perturbatore dell’equi-  librio fra produzione e distribuzione del reddito: di qui la  convinzione che « la crisi via via si attenuerà a mano a  mano che i nuovi ceti diventeranno vecchi e che il mare  sociale in tempesta si acqueterà. Ogni classe ed ogni ceto  ritornerà a poco a poco a pregiar se stesso, a vivere secondo  i propri gusti fondamentali e tradizionali », in modo che  « l’industria potrà assai meglio prevedere la domanda di  beni da parte di una società » meno fluida, meno commossa  da mutazioni e commistioni di ceti inetti a comprendersi a  vicenda e furiosamente spinti ad imitare gli aspetti più ap-  pariscenti della vita di ognuno di essi ». E, mentre negava  la « novità» della crisi presente e confutava i suggerimenti  di Keynes cosî come l’utilità di ogni piano economico,  mosso dal terrore per il « gigantismo » industriale ribadiva  il suo arcaico ideale di un mondo economico dominato dai  piccoli produttori, che si illudeva di veder realizzato in  Italia, dove « probabilmente il peso relativo della piccola  impresa famigliare, pudicamente condotta fuori degli occhi  curiosi degli statistici, è grandissimo, superiore a quanto    224    Le origini della casa editrice Einaudî    si immagina dai più. Forse quel peso è crescente. Contro i  piani internazionali, contro i consigli dei periti, la sanità  fondamentale italiana ha reagito concentrandosi nella in-  frangibile unità famigliare »: un ideale, il suo, che poteva  incontrarsi con alcuni aspetti della dottrina sociale catto-  lica e della propaganda ruralistica del regime ”.   Analoga era la posizione di Attilio Cabiati, che in Crisi  del liberismo o errori di uomini? accompagnava l’analisi dei  fenomeni economici, sufficientemente articolata, con un fer-  reo dogmatismo, affermando che « l’abbandono dei prin-  cipi economici, messi in disparte in omaggio a vere o pre-  sunte necessità politico-sociali, ha sviluppato nel mondo  intero, come “naturale” conseguenza, una serie di disastri  economici »; l’economia, aggiungeva ricordando Pareto e  Barone, « è una scienza precisa la quale obbedisce a leggi  naturali. Per cui sia che l’organizzazione economica resti  abbandonata al self interest dei singoli, sia che venga data  nelle mani dello stato sotto una forma qualsiasi, una condi-  zione è necessaria: che i privati o il ministro della produ-  zione agiscano secondo le leggi nazurali della scienza eco-  nomica » ”. Si comprende quindi come la domanda formu-  lata nel titolo del volume fosse puramente retorica, e come  Cabiati considerasse la crisi, e i mezzi messi in atto da  Roosevelt per superarla, come « errori di uomini », frutto  cioè dell’indebita ingerenza della politica nell’economia. A  sostegno di questa tesi viene proposta l’opera di uno dei più  ‘autorevoli esponenti neo-classici della London School of  Economics, Lionel Robbins, che agli insegnamenti di Mar-    7 L. Einaudi, Saggi, Torino, La Riforma sociale, 1933, parte II,  pp. 228, 373, 377, 405-410, 515. Il 17 marzo 1939 Einaudi inviava a  Mussolini una lettera in cui considerava la proposta di introdurre nel  codice civile l’« indivisibilità dei fondi rustici» un freno alla piccola  proprietà e allo sviluppo demografico del paese (ACS, Segreteria parti-  colare del Duce, Carteggio ordinario, fasc. 528771, sottofasc. 2).   7 A. Cabiati, Crisi del liberismo o errori di uomini?, Torino, Einaudi,  1934, pp. 9-11. Contro «il ricorso all’immutabilità delle cosf dette leggi  economiche, ripiego in cui si annida il falso presupposto della naturale  armonia degli interessi », espresso in un altro volume di Cabiati (Il  finanziamento di una grande guerra, Torino, Einaudi, 1941), si schierava  A. Brucculeri, Ecomozzia bellica, in «La Civiltà cattolica », shall — cui si rifacevano, a Cambridge, pur con posizioni  diverse, Pigou e Keynes — anteponeva quelli di Pareto,  von Mises e Wicksteed. In Di chi la colpa della grande  crisi? E la via di uscita Robbins, nei cui riguardi i liberisti  italiani dimostravano una speciale venerazione, affermava  che dopo la guerra « il raggruppamento delle imprese indu-  striali in consorzi, l’accresciuta forza dei sindacati operai,  il moltiplicarsi dei controlli governativi hanno creato una  struttura economica che, quale che possa essere la sua supe-  riorità etica od estetica, è certo assai meno capace di rapidi  riadattamenti di quanto lo fosse il vecchio sistema pit  aperto alla concorrenza ». E analizzando i provvedimenti  dei vari governi — moneta manovrata e protezionismo —  scorgeva il pericolo di uno scivolamento verso il socialismo,  in parte già in via di realizzazione:    Il carattere nettamente socialistico della politica economica in  Inghilterra, e in tutto il mondo moderno, non è determinato dagli  elementi obbiettivi della situazione, o dal fatto che le masse abbian  deciso di riorganizzare socialisticamente la produzione. Se la politica  economica ha questo carattere è perché uomini d’intelletto e di cul-  tura hanno creato la teoria socialistica e hanno gradualmente conver-  tito alle loro idee le masse ?3.    Le stesse preoccupazioni per il « socialismo di Stato »  paventato dai liberisti italiani ”* sono avvertibili nella rac-    7 L. Robbins, Di chi la colpa della grande crisi? E la via di uscita,  prefazione di L. Einaudi, traduzione di S. Fenoaltea, Torino, Einaudi,  1935 (ediz. originale 1934, col titolo The Great Depression), pp. 10, 80,  219. Fenoaltea scriveva all’editore di aver fatto rivedere la traduzione da  Luigi Einaudi, e di aver proposto l’opera « per il desiderio, e quasi per  il dovere morale, che sentivo di far conoscere agli italiani questo libro  cosi bello, cosî coraggioso, e così necessario » (AE, Fenoaltea). Su Robbins  cfr. in italiano C. Napoleoni, I/ pensiero economico del ’900, Torino,  Einaudi, 1976, pp. 35-43, e l’introduzione di V. Malagola Anziani a L.  Robbins, La base economica dei conflitti di classe, Firenze, La Nuova  Italia, 1980.   74 Il 13 aprile 1934 Vittorio Racca scriveva dagli Stati Uniti a Luigi  Einaudi che « nelle riforme rivoluzionarie presidenziali americane si fa  macchina indietro a tutto spiano; il paese, sia perchè vede che la  recovery sta venendo in modo indiscutibile, sia perchè, come conse-  guenza di ciò, si rifà coraggio, sia perchè si vede che quelle riforme  ritardano, invece di favorire il ritorno della vita normale, non ne vuole  più sapere di socialismo di Stato » (AFE, Racca). Già il discorso del 1°    226    Le origini della casa editrice Einaudi    colta di saggi degli economisti di Harvard su I/ piano Roo-  sevelt: gli autori, pur dichiarandosi « ben lungi dal credere  che l’individualismo del secolo decimonono rappresenti  l’apice della perfezione per tutti i tempi », si mostrano con-  trari all’ingerenza della politica nell'economia e favorevoli  a un laissez faire corretto in modo tale da impedire lo sfrut-  tamento dell’uomo sull’uomo senza cadere nella soluzione  socialista. Mentre per Joseph A. Schumpeter « l’unico carat-  tere distintivo della presente crisi mondiale [...] è il fatto  che i motivi extra-economici recitano la parte principale del  dramma », Overton H. Taylor, trattando esplicitamente del  « conflitto fra economia e politica », sostiene che « l’inte-  resse economico effettivo di ogni gruppo o frazione di po-  polo dev'essere riposto in una generale rinunzia o severissi-  ma limitazione della “legislazione di classe” e della lotta  per il potere e l’avvantaggiamento relativo, che vi sta alla  base, salvo che qualche gruppo o classe possa realmente  sperare di condurre a compimento una soluzione sociale  secondo il modello marzistico »; tutto il suo ragionamento  è cosi indirizzato a chiedere il ristabilimento dell’economia  di mercato e a confutare i « nuovi radicali », privi di quel  « realismo economico » il quale « deve riconoscere che,  nella nostra presente situazione, l’interesse comune a una  generale ripresa degli affari onesti, dell’agricoltura e del-  l’occupazione operaia è massimamente minacciato dalla stra-  tegia del potere e delle illusioni economiche delle classi mal-  contente » *   Il giudizio sul New Deal non è sostanzialmente modifi-  cato da alcune note informative sulle riviste einaudiane o  dal reportage giornalistico di Amerigo Ruggiero *, né dalla    novembre 1934 in cui il segretario di Stato Cordell Hull si dichiarava  disposto ad abbassare i dazi doganali, era salutato come L'atto di contri-  zione degli Stati Uniti (« La Riforma sociale », XLI (1934), pp. 691-696).   7 J.A. Schumpeter, E. Chamberin, E. S. Mason, D. V. Brown, S.E.  Harris, W.W. Leontiefi, O.H. Taylor, Il piano Roosevelt, traduzione  di Mario De Bernardi, Torino, Einaudi, Cfr. M. Einaudi, Dopo un anno di governo di Roosevelt, «La  Cultura », XIII (1934), pp. 66-67; V. Racca, Il «New Deal» roosevel-  tiano: in che consiste, e Il «New Dedl» rooseveltiano: gli effetti,  in «La Riforma sociale », A. Rug-   stessa pubblicazione di due opere di Henry A. Wallace,  ministro dell’agricoltura dell’amministrazione Roosevelt,  che pur dimostrano un intento informativo da parte della  casa editrice. Presentando Che cosa vuole l'America? —  libro nel quale Mussolini vide la conferma che anche gli  Stati Uniti andavano « verso l’economia corporativa » —,  Luigi Einaudi riconosceva per la prima volta che « il New  Deal in fondo è un nobile tentativo di far qualcosa, non  perché si sappia che quel qualcosa sarà fecondo di risultati  vantaggiosi, ma perché urge il dovere di lottare contro la  disperazione, di infondere coraggio, di impedire che milioni  di uomini si rivoltino contro la società e distruggano, nel-  l’impeto dell’ira, il risultato di tre secoli di sforzo labo-  rioso »; ma si premurava al tempo stesso di mettere in evi-  denza la « grande illusione » di Wallace 7, un « liberista »  costretto dalla realtà della crisi ad ammettere il controllo  statale sull'economia, nella speranza che la nuova epoca si  persuadesse che « l’umanità possiede oggi tanta potenza  mentale e spirituale e tanto dominio sulla natura da togliere  per sempre ogni valore alla teoria della lotta per la vita e  sostituirla con la legge più alta della cooperazione ». Wal.  lace appariva infatti combattuto fra le necessità del mo-  mento e le prospettive di più lungo periodo, prestandosi  quindi anche a una lettura non distante dalla posizione dei  liberisti italiani, preoccupati pur sempre delle tendenze  monopolistiche del capitalismo contemporaneo: poiché l’an-  tico sistema, affermava Wallace, « era il prodotto di un’avi-  dità e di un opportunismo sfrenati »,    siamo stati costretti per forza a pensare in termini non di produ-  zione e di commercio liberi, ma di produzione e di commercio pro-  grammati dentro e tra le nazioni. Il rifiuto di Adam Smith a trac-  ciare meschine piccole linee locali di confine attorno ai concetti di    giero, L’America al bivio, Torino, Einaudi, 1934. Ruggiero pubblicherà  nel 1937 presso Treves un volume sugli Italiani in America, lodato  da «Gerarchia » perchè metteva in risalto «la grandiosa opera di va-  lorizzazione dell’Italia intrapresa dal Fascismo » Wallace, Che cosa vuole l’America?, introduzione di L.  Einaudi, Torino, Einaudi, 1934 (ediz. originale 1934), p. 25 (Einaudi  dichiara di averlo tradotto lui stesso: p. 12); L. Einaudi, La grande  illusione di Wallace, in «La Cultura », commercio e di civiltà può tuttavia ancora adesso giustamente inco-  raggiare le menti ed i cuori a compiere sforzi più grandi. Un popolo  libero sente vivacemente il dolore del nazionalismo,    cioè del protezionismo e dell’isolamento economico *. An-  che in Nuovi orizzonti, in cui pur si vide la proposizione di  un programma « sostanzialmente identico al sistema corpo-  rativo italiano » ?, Wallace osservava la necessità di « con-  troliare quella parte del nostro individualismo che produce  l’anarchia e la miseria diffusa », assicurando che « affidarsi  a simili espedienti di redistribuzione del reddito e delle  possibilità, non ci fa cadere nel socialismo e nel comunismo.  E nemmeno costituisce il metodo dei pirati capitalistici  della scuola economica neomanchesteriana »; ma affermava  anche la temporaneità dei centrolli statali sull'economia,  per concludere con una proposta conforme agli ideali del  New Deal, ma difficilmente assimilabile a quelli del corpo-  rativismo:    La democrazia economica dovrebbe forse create i freni e i mezzi  d’equilibrio che caratterizzano la democrazia politica, ma essa deve  anche porre l’accento su un pronto ed attivo apprezzamento delle  relazioni economiche mutevoli. La democrazia economica deve tro-  varsi in posizione tale da resistere a sconsiderate pressioni politiche.  Al tempo stesso, essa deve effettivamente rispondere ed essere pron-  tamente ben disposta verso le necessità urgenti del popolo da cui  sgorga il potere.    La proposta da parte di Luigi Einaudi — che pur si  preoccupava di premettervi sue « avvertenze » — di testi  che non riflettevano soltanto le opinioni di liberisti, ma  erano passibili anche di una lettura in senso corporativista,    78 H.A. Wallace, Che cosa vuole l’America?, cit., pp. 75, 100. F.  Gazzetti osservava che «il lettore fascista avrà modo leggendo il libro  di vedere che le più indovinate istituzioni americane sono state imitate  da analoghe iniziative del Regime, persino le migrazioni interne!»  {« Bibliografia fascista », X (1935), p. 495).   79 Cfr. la recensione di E. Corbino in «Nuova rivista storica »,  Wallace, Nuovi orizzonti, traduzione di M. De Bernardi,  Torino, Einaudi, 1935 (ediz. originale 1934, col titolo New Frontiers)  pp. 25, 30, 244-245.    229        è indice della consapevolezza che il dibattito mondiale sulla  crisi stava assumendo negli anni ’30 tendenze sempre pit  decisamente anticapitalistiche, che in Italia avevano un  qualche riscontro nelle tesi del « corporativismo di sini-  stra » e dell’« economia programmatica », che ai suoi occhi  apparivano, in quanto statalistiche, pericolosamente otien-  tate verso il socialismo *. Di qui la presentazione, accanto  a Wallace, di un autore « moderato » come Arthur C.  Pigou, che quanto meno salvasse l’essenza del capitalismo  e desse garanzie in senso antisocialista. In Capitalismo e  socialismo il successore di Marshall nella cattedra di Cam-  bridge, al termine dell’analisi di pregi e difetti dei due  sistemi economici, proponeva di mantenere « la struttura  generale del capitalismo » modificandola però gradualmente  con interventi statali al fine di « ridurre le diseguaglianze  più gravi nelle fortune e nelle occasioni di avanzamento che  offendono la nostra presente civiltà » : la proposta non era  certo tale da riscuotere pienamente le simpatie di Einaudi,  per il quale Pigou « oggi sarebbe un “New Dealer” roose-  veltiano negli Stati Uniti o un corporativista in Italia », e  appariva ingenuo nell’assumere « come verità sacrosante le  favole raccontate e rammostrate dai comunisti russi, consu-  matissimi mistificatori, ai coniugi Webb, che sono forse  stati nel campo scientifico la conquista più preziosa dei  bolscevichi » — l’allusione era alla celebre opera sull’URSS  che nel 1938 la casa editrice si rifiutò di tradurre —; ma  l'intervento dell’economista inglese si giustificava come  solido argine nei confronti dei detrattori del capitalismo:  « gli studenti di Cambridge — affermava infatti Einaudi  —-, sceltissimo fiore del paese reputato il più aristocratico  del mondo, affettano oggi quasi tutti di essere comunisti. Il  libretto di Pigou è una doccia fredda per codesti puri con-  sequenziarii » ®.    81 Cfr. L. Dal Pane, Commemorazione di Luigi Finaudi, cit., p. 312.   82 A.C. Pigou, Capitalismo e socialismo. Critica dei due sistemi, tra-  duzione di G. Borsa, Torino, Einaudi, 1939 (ediz. originale 1937), pp.  137-138.   83 Ibidem, pp. 2-4 (Avvertenza di L. Einaudi). La traduzione dell’  opera dei Webb, lodata da Umberto Calosso su « Giustizia e Libertà »    230    Le origini della casa editrice Einaudi    Destinata a una maggiore risonanza e a ricevere il plauso  dei recensori fascisti era la critica severa della società sovie-  tica svolta da William H. Chamberlin in L'età del ferro  della Russia, dove il titolo stava a indicare il periodo del  primo piano quinquennale ma anche i metodi ferrei con cui  era stato condotto. « Il libro è stato scritto prima delle  recenti manifestazioni di terrorismo all’interno e di aiuto  dato all’estero ai movimenti sovvertitori dell’ordine so-  ciale — avvertiva nel 1937, nel corso della guerra di Spa-  gna, l'editore italiano — [...]. Ma la potente analisi, tanto  più spietata quanto più obbiettivamente contenuta, dell’ab-  brutimento spirituale della Russia comunista, giustifica la  resistenza che l'Europa oppone vittoriosamente alla propa-  gazione del bolscevismo ». Con uno stile vivacissimo e con  frequenti — ma scontati e logori — raffronti fra Stalin e  Pietro il Grande, l’autore non si limitava a illustrare il pro-  cesso di industrializzazione dell'URSS, ma dedicava ampio  spazio al soffocamento delle libertà personali, civili e reli-  giose, da parte dell’« autocrate della repubblica rossa »,  un paese in cui si poteva notare « il realizzarsi di una teoria  fanatica che arreca grandi mutamenti di vita e di pensiero  ed al tempo stesso condanna alla distruzione milioni di  avversari », 0 « il risorgere in nuove forme, e sotto la ma-  schera di frasi nuove, di tipiche antiche concezioni russe  come il diritto assoluto dello stato a servirsi degli individui  e distruggerli, se cosî vuole, per il raggiungimento dei suoi  scopi ». E ciò senza che si fossero raggiunti apprezzabili  risultati dal punto di vista economico, perché, « se con il  grano, il caffè e il cotone distrutti si potrebbe idealmente  formare una montagna come monumento alle follie e alle  debolezze del capitalismo, una montagna non meno grande  si potrebbe innalzare nell’URSS con tutte le merci che sono  state sprecate e distrutte non volontariamente, ma per  effetto di incuria e di inefficienza proprio quando la man-  canza di viveri si faceva più acutamente sentire ». Di qui    (7 febbraio 1936), era stata consigliata da Alessandro Schiavi a Giulio  Finaudi, che il 18 febbraio 1938 gli rispondeva: « Ma non Le pare che  gli Autori prendano troppo sul serio l’economia programmatica dei  Sovieti? » (AE, Schiavi).  l'insegnamento di carattere generale che da questo, come  da altri volumi della collana, poteva trarre il lettore:  « L’esperimento russo ha dimostrato all’evidenza che l’eco-  nomia programmatica non è una panacea, che nel funziona-  mento di un sistema economico strettamente centralizzato  e controllato dallo stato possono verificarsi errori non meno  disastrosi delle deficienze e degli attriti di un sistema che  funzioni senza il beneficio di un piano » *. Un giudizio che,  se non poteva incontrare la piena approvazione dei liberisti,  poneva sul tappeto un quesito al quale i corporativisti af-  fermavano di aver già risposto, ma che al tempo stesso era  riformulato come ancora irrisolto dalla rivista di Codignola  « Civiltà moderna », secondo la quale « resta uno dei pro-  blemi fondamentali del regime sovietico quello di trovare  quanto individualismo sia necessario pel funzionamento  d’un sistema collettivista, cosî come in altri paesi il pro-  blema è quello di trovare quanto controllo collettivo debba  istituirsi per far bene funzionare un sistema individuali-  sta! » ®. i   Il quesito verrà riproposto, addirittura con alcuni arre-  tramenti teorici in senso liberista, nei volumi di economia  pubblicati dalla casa editrice nel 1945-46. Non è quindi da  stupirsi che nel 1944, dopo la caduta di Mussolini, appa-  risse come ultimo titolo dei « Problemi contemporanei »  curati da Luigi Einaudi un altro volume di Robbins, Le  cause economiche della guerra, dove, più che la critica    3 W.H. Chamberlin, L'età del ferro in Russia, traduzione di S.  Fenoaltea, Torino, Einaudi, 1937 (ediz. originale 1934), pp. 11-12, 21,  74, 76. « L'entusiasmo è un po’ gonfiato a causa delle circostanze, ma  in fondo il libro si meritava una buona accoglienza », scriveva l’editore  a Fenoaltea il 16 febbraio 1937 (AE, Fenoaltea). Chamberlin pubblicò  anche, nel 1937, Collectivism, a False Utopia.   85 Recensione di A. Rapisardi Mirabelli, in «Civiltà moderna »,  Per Felice Battaglia il libro mostrava « l’organiz-  zazione concreta, in atto, del regime, la vita dolorosa di un popolo,  che ignora ogni attributo della persona e si consuma in un tono assai  basso di esistenza economica e morale, senza neppure supporre che  altri possa realizzare forme più soddisfacenti » (« Rivista storica italiana »,  s. V, I (1936), p. 103); «libro di informazione onesta, spassionata »,  retto dall'idea che « alla dinastia degli zar sia subentrata una dinastia  di fanatici sacerdoti marxisti», appariva al «Meridiano di Roma»  (II, 24 gennaio 1937). .    232    Le origini della casa editrice Einaudi    svolta dall’autore nei confronti della teoria leninista dell’im-  perialismo e la sua proposta degli Stati Uniti d'Europa in  quanto « non il capitalismo, ma l’organizzazione politica  anarchica del mondo è il male principale della nostra civil-  tà », interessa l’avvertenza dell’editore, che in Robbins  vedeva l’esponente di quelle forze politiche e culturali  « che intendono superare gli inconvenienti e le deficienze  della moderna civiltà capitalistica senza apportare nessuna  vera trasformazione strutturale, nessuna modificazione pro-  fonda e rivoluzionaria all’attuale organizzazione sociale »;  e, nella preoccupazione per il futuro, il lettore era invitato  a « giudicare ogni forma di riformismo e la validità degli  apporti, che possono ancora offrire le forze conservatrici  nel nuovo mondo che si prepara » Mentre, nonostante questi limiti, nei testi dedicati agli  aspetti internazionali della crisi poteva passare una polemica  indiretta nei confronti della politica economica del regime,  nei volumi della collana che affrontano i problemi econo-  mici italiani è avvertibile, nel migliore dei casi, una cautela  dettata dal timore della censura fascista. Già il 28 marzo  1931, scrivendo a Luigi Einaudi a proposito dei tagli rite-  nuti necessari per un suo articolo, Edoardo Giretti affer-  mava che « è molto mortificante di non sapere più quello  che si può dire e quello che invece bisogna tacere; ma d’al-  tra parte è anche giustissima la preoccupazione di conser-  varci il mezzo di poter dire alcune delle cose che si pen-  sano e che, forse, è ancora utile di far conoscere intorno a  noi ». Sempre Giretti, parlando del volume scritto in colla-  borazione col nipote Luciano su Il protezionismo e la crisi,  che esprimeva giudizi sulla politica economica del regime,  scriveva di aver « già fatto il possibile per non dire niente  di più di quello che oggi si può dire, ma vi è sempre il peri-    86 L. Robbins, Le cause economiche della guerra, traduzione di E.  Rossi, Torino, Einaudi, 1944 (ediz. originale 1939), p. 95. Il libro era  stato proposto all’editore da Ernesto Rossi il 1° luglio 1942 (AE, Rossi).  «È meraviglioso vedere come le menti degli economisti liberali inglesi  siano aperte alle idee fondamentali del fascismo », come il corporativismo  e il concetto dell’« ordine nuovo europeo antisovietico », affermerà f. p.  [Felice Platone] recensendo il libro su « Rinascita » (II (1945), p. 191).    233        colo di non dimostrarsi abbastanza... reticenti » ”. Tutta-  via, proprio questo volume è fra i più coraggiosi nella pole-  mica: svolgeva, con frequenti citazioni da La condotta e gli  effetti sociali della guerra italiana di Luigi Einaudi, una  dura critica dei provvedimenti protezionistici, lodando le  « coraggiose riforme » in senso liberista di De Stefani, il cui  abbandono veniva giustificato con le « difficoltà inerenti al  generale disordine delle relazioni internazionali, ed ai con-  trasti tosto abilmente suscitati dai gruppi organizzati per  la difesa dei loro particolari interessi minacciati ». Ma os-  servava che l’isolamento economico, se poteva non danneg-  giare paesi con ampio mercato interno, era un « assurdo »  per l’Italia; in particolare Luciano Giretti, dopo aver affer-  mato che « il raggiungimento dell’autarchia, portando natu-  ralmente con sé la riduzione a zero delle esportazioni, fa-  rebbe incontrare enormi perdite agli interessi produttivi  dipendenti dai mercati mondiali », sosteneva la necessità di  tornare al liberismo, pur con tutti i suoi limiti *. Polemico  era anche il volume di De Viti De Marco che sosteneva  l’erroneità della teoria secondo la quale la banca crea cre-  dito, lodato da Einaudi che notava come « su questa teo-  ria, se ben si rifletta, riposano quasi tutte le modernissime  proposte le quali vorrebbero che la banca fosse la suprema  regolatrice del credito e della attività industriale, la leva  necessaria per risanare le crisi e far uscire il mondo dalla  depressione » ®   In altri volumi, invece, il giudizio sulla politica econo-    87 AFE, E. Giretti (lettere del 28 marzo 1931 e del 14 ottobre 1934).   88 E. e L. Giretti, Il protezionismo e la crisi, Torino, Einaudi, 1935,  pp. 54-55, 77, 143; era necessario, si afferma, « tornare a quel libero scam-  bio che, se non rende possibile un alto tenor di vita in un paese, dove  le risorse naturali sono misere, il lavoro poco produttivo e gli impren-  ditori poco geniali; se non impedisce il triste fenomeno della disoccu-  pazione dovuta alle oscillazioni del ciclo economico; se non porta  infine alla prosperità un popolo che per varie ragioni non può ottenerla,  va almeno esente da tutti i mali che della protezione sono caratteristici,  ed ha tuttavia influsso benefico nel far sf che ognuno sfrutti nel migliore  dei modi il proprio lavoro, ottenendo la massima quantità di beni in  cambio di quelli che egli stesso ha prodotto» (pp. 163-164).   8 A. De Viti De Marco, La funzione della banca. Introduzione allo  studio dei problemi monetari e bancari contemporanei, Torino, Einaudi,  1934; recensione di L. Einaudi ne «La Cultura », XIII (1934), p. 136.    234    Le origini della casa editrice Einaudî    mica del regime risulta più favorevole di quanto ci si sa-  rebbe immaginato sulla base dell’impostazione liberista  della collana. Alcuni si presentano come contributi alla solu-  zione di problemi economici concreti, come La questione  petrolifera italiana (1937) di Cesare Alimenti, che pur so-  stiene l’insufficienza dell’autarchia basata sull’uso dei suc-  cedanei del petrolio, o L'agricoltura italiana e l’autarchia  (1938) il cui autore, il senatore Arturo Marescalchi, già  sottosegretario all’agricoltura dal 1929 al 1935, espone  una serie di consigli pratici per obbedire all’invito all’autar-  chia alimentare rivolto da Mussolini nel discorso alle Cor-  porazioni del 15 maggio 1937 ”. Meritevole di un premio  dell’Accademia d’Italia è il volume sulle Sanzioni di Luigi  Federici, teso a dimostrare che « la unità di spirito di idee  di volontà che oggi noi possiamo vantare è — assieme al-  l’ordinamento corporativo — la migliore forza posta al ser-  vizio del paese per realizzare l’unità di azione necessaria  per resistere e per spezzare il blocco » ”. Comprensivo verso  i provvedimenti governativi culminati nella istituzione del-  l’IRI si dimostra lo stesso Cabiati, osservando che « quando  le classi industriali agricole e finanziarie di un paese recla-  mano ad ogni difficoltà l’aiuto dello stato, è logico che que-  sto, per ben amministrare il danaro pubblico, imponga loro  la sua tutela e la sua sorveglianza » ”. E fino ad un’esalta-    % Il 10 febbraio 1938 l’editore, annunciando a Marescalchi che il suo  volume era pronto, scriveva: « Ho pensato che il volume potrebbe essere  distribuito, a cura del Ministero dell’Agricoltura, alle Cattedre Ambu-  lanti, Scuole agricole, biblioteche provinciali, ecc.» (AE, Marescalchi).   91 L. Federici, Sanzioni, Torino, Einaudi, 1935 (II ediz. 1936),  p. 12; il 19 ottobre 1935 l’autore scriveva a Luigi Einaudi che avrebbe  redatto il volumetto «secondo lo schema da Lei suggeritomi» (AFE,  Federici). Federici, già allievo di Einaudi, era responsabile della pagina  finanziaria de « L’Ambrosiano ».   9 A. Cabiati, Crisi del liberismo o errori di uomini?, cit., p. 173;  dando notizia di un altro lavoro di Cabiati (Il finanziamento di una  grande guerra, cit.), Luigi Einaudi affermava che l’autore «ammira la  teoria germanica odierna, per cui la finanza è subordinata alla guerra ed  il ministro delle finanze non fa neppure più parte del Comitato della  politica economica; ma pone le condizioni ed i limiti dello sforzo che il  paese può sostenere per la condotta della guerra. La teoria cosî continua-  mente si rinnova, ma non rinnega, pure perfezionandole e adattandole  alle nuove esperienze, le verità antiche » (« Rivista di storia economica »,  VI (1941), p. 146).    235        zione retorica della politica economica del regime si spin-  geva Franco Ballarini, che non si limitava a lodare il di-  scorso di Pesaro e tutta la politica monetaria del governo o  l’istituzione dell’IRI, ma arrivava ad affermare che « in un  mondo brancolante fra puro comunismo alla russa, super-  capitalismo dei trusts o cartelli privati e capitalismo di  Stato, la luce venne dall’Italia. Si chiamò corporativi-  smo »”. Ancora più concretamente Francesco Repaci, uno  dei più fedeli collaboratori di Luigi Einaudi, lodava il rior-  dinamento della finanza locale attuato con il testo unico del  1931 e con la legge comunale e provinciale del 3 marzo  1934, specificando che la riduzione del 12% sulle retribu-  zioni del personale era stato « elemento idoneo a miglio-  rare la situazione finanziaria degli enti locali » *.   La collana non si limitò quindi a una funzione di  orientamento teorico generale, ma svolse anche una serie di  interventi su temi concreti, negando quello che era stato  un presupposto originario del suo ispiratore. Nel 1942,  presentando l’Introduzione alla politica economica di Co-  stantino Bresciani Turroni — che dopo la Liberazione  avrà anch’egli un ruolo rilevante, come presidente del  Banco di Roma —, Luigi Einaudi riconoscerà infatti che,    dopo avere lungamente creduto anch’io che ufficio dell’economista  non fosse di porre i fini al legislatore, bensi quello di ricordare,  come lo schiavo assiso sul carro del trionfatore, che la Rupe Tarpea  è vicina al Campidoglio, che cioè, qualunque sia il fine perseguito  dal politico, i mezzi adoperati debbono essere sufficienti e congrui;  oggi dubito e forse finirò col concludere che l'economista non possa  distinguere il suo ufficio di critico dei mezzi da quello di dichiara-    9 F. Ballarini, Dal liberalismo al corporativismo, Torino, Einaudi,  1935, p. 131. A Marco Fanno, giudicato da Giuseppe Bruguier molto  vicino all’ideologia corporativa (I/ corporativismo e gli economisti italiani,  Firenze, Sansoni, 1936, pp. 57-59), e autore de I trasferimenti anormali  dei capitali e le crisi (Torino, Einaudi, 1935), Luigi Einaudi chiese di  scrivere «un volumetto di Economia Corporativa » (AFE, Fanno, 30  luglio 1934).   % F.A. Repaci, Le finanze dei comuni, delle provincie e degli enti  corporativi, Torino, Einaudi, 1936, p. 61. Come giustificazione dell’in-  tervento italiano in guerra fu apprezzato dalla stampa fascista B. Minoletti,  la marina mercantile e la seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi,  (na i Venta fascista », XIX (1940), p. 14, e «Leonardo», XII   1941), p. 62).    236    Le origini della casa editrice Einaudi    tore di fini; che lo studio dei fini faccia parte della scienza allo   stesso titolo dello studio dei mezzi, al quale gli economisti si restrin-  5   gono 9.    La collana da lui diretta fino al 1944, se non giunse a  « porte i fini al legislatore », in alcuni casi si fece portavoce  di quest’ultimo. Ma la situazione cambierà drasticamente  un anno dopo. Nell’ottobre del 1945, dal suo posto di  governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi proporrà al  figlio di pubblicare una serie di volumi sui « Problemi ita-  liani » scritti « nel modo pi oggettivo possibile » — con  l’aiuto, per la raccolta dei dati, dell'Ufficio Studi della  Banca — da autori di orientamento liberista, sotto la super-  visione di Bresciani Turroni. Ma il nuovo indirizzo della  casa editrice, che pur dimostrerà una certa fatica a supe-  rare l'impostazione originaria sui problemi economici, non  poteva più accettare le proposte di Luigi Einaudi: trince-  randosi dietro il rifiuto dell’« obiettività » — che i liberisti  non avevano certo rispettato — il consiglio editoriale gli  rispose che intendeva « presentare al pubblico italiano non  soltanto un materiale di studio e di lavoro, ma anche un’opi-  nione ben definita, un orientamento costruttivo. Vogliamo  quindi che l’aspetto strettamente economico di un proble-  ma non sia scisso dal suo aspetto politico: perciò, se chie-  diamo all’autore serietà e obiettività di documentazione,  gli chiediamo anche di indicare la sua soluzione politica,  che sarà proposta alla libera discussione del pubblico » *.  E nella collana « Problemi italiani » appariranno i volumi  di Dorso, Grifone, Sereni e Grieco.    # C. Bresciani-Turroni, Introduzione alla politica economica, prefa-  zione di L. Einaudi, Torino, Einaudi, 1942, pp. 15-16. A difesa del  liberismo di Bresciani Turroni, e in polemica con un articolo di Guido  Carli su «Civiltà fascista », cfr. anche L. Einaudi, Economia di mercato  e capitalista servo sciocco, in «Rivista di storia economica», VIII  (1943), pp. 38-46. Su Bresciani Turroni cfr. la voce di Amedeo Gambino  in Dizionario biografico degli italiani, vol. XIV, Roma, Istituto della  Enciclopedia Italiana, 1972.   9% Lettera di Luigi Einaudi a Giulio del 31 ottobre 1945, e risposta  a Luigi Einaudi del 7 novembre 1945 (AE, L. Einaudi). Le firme dei liberisti — da Luigi a Mario Einaudi,  a Cabiati, Giretti e De Bernardi — compaiono anche su  « La Cultura », a segnalare i volumi della collana « Pro-  blemi contemporanei », ma non sono tali da caratterizzare  la rivista, centro di esperienze culturali più avanzate, che  ritroveremo in altre collane della casa editrice. Quando  appare nel 1934 per i tipi di Giulio Einaudi, « La Cultura »  si presenta completamente rinnovata rispetto alla serie di  Cesare De Lollis e a quella che le era succeduta dal 1929  al 1933, con Ferdinando Neri e Arrigo Cajumi: nuova nella  veste tipografica, vede alternarsi nel suo comitato direttivo,  accanto a Cajumi e Pavese, Sergio Solmi, Franco Antoni-  celli, Bruno Migliorini, Pietro Paolo Trompeo, Vittorio  Santoli e Norberto Bobbio, a dimostrazione di un legame  anche fisico con la precedente tradizione della rivista ma,  al tempo stesso, della volontà di un cambiamento non solo  generazionale. Mentre scompaiono molti collaboratori di  De Lollis, assorbiti dalle iniziative culturali del regime —  pensiamo ad esempio ad Alberto Pincherle, Giorgio Levi  Della Vida, Guido Calogero, Umberto Bosco o Felice Bat-  taglia, impegnati da Gentile nell’Enciclopedia italiana —,  fra i nuovi appaiono vari allievi, al liceo D'Azeglio, di  Augusto Monti, Zino Zini e Umberto Cosmo, che si rial-  lacciano per questa via alla tradizione gobettiana, rivissuta  politicamente, da alcuni, nella militanza tra le file di Giu-  stizia e Libertà”.   Novità si registrano anche nei contenuti — non più    % Il 27 luglio 1935, riferendo al Ministero dell’interno sugli arresti  del gruppo einaudiano come aderente a Giustizia e Libertà, il prefetto  di Torino scriveva: «Detta setta si serviva a Torino dell’attività della  “Casa Editrice Einaudi” la quale segnatamente con la pubblicazione della  rivista pseudo letteraria “La Cultura” era riuscita a riunire una cerchia  di intellettuali e di antifascisti ed a servirsi di redattori e collabotatori  in maggior parte ostili al Regime Fascista e noti per aver svolto in pas-  sato attiva propaganda contro il Fascismo »; e aggiungeva che Giulio  Einaudi, « all’atto del suo arresto, non esitò a riconoscere la polarizza-  zione intorno alla rivista ‘La Cultura’ di tutto il cosidetto ambiente  antifascista torinese» (ACS, Casellario politico centrale, b. 1877, fasc.  52997).  dibattiti sulla scuola o sulla religione, meno filosofia e più  storia, interesse per i problemi contemporanei * —, pur  nella continuità col passato, quale si manifesta nell’apertura  europea — con una particolare attenzione per la cultura  francese — e in una certa oscillazione fra crocianesimo e  anticrocianesimo, anche se quest’ultimo fu presente in mi-  sura maggiore. L’idealismo dei collaboratori della rivista  einaudiana, infatti, « conobbe sfumature molto particolari,  si atteggiò in forme proprie, cercò sempre, pit o meno luci-  damente, il contatto con esperienze diverse » ”. Pi accen-  tuata che nella critica estetica di De Lollis è, ad esempio,  l’attenzione per il metodo filologico e per la collocazione  del letterato nel suo tempo, come risulta dalle recensioni di  Cajumi, di Santoli o di Piero Treves !®. E decisamente  anticrociano è il direttore effettivo della rivista, Cajumi, che  nel 1934 si scaglia con virulenza contro la critica idealistica  rappresentata dai volumi laterziani di Luigi Russo, Elogio  della polemica e Giovanni Verga, richiamandosi alla batta-  glia contro la « critica filosofica » già condotta nel 1910 da  erra:    Fierissimi avversari del cattolicesimo temporale e delle sue pre-  tese (tanto da assumere lo stesso tono stizzoso dei contradditori), ma  conservatori con un soupgon di nazionalismo; riformatori per inse  diar la loro filosofia nella scuola, ma poi estraniati dalla rivoluzione    98 Mario Praz, fedele agli interessi prevalentemente letterari della  vecchia serie della rivista, il 1° febbraio 1934 annunciava le sue dimissioni  da condirettore a Cajumi, che gli aveva indicato le novità della serie  einaudiana: «Rivista mensile su due colonne, tipo Economist, articoli  brevi ed attuali » (AE, Praz). Il 23 gennaio 1935 l’editore scriveva a  Cabiati: «mi permetto di ricordarLe l’articolo sul piano Roosevelt. E  cosi ci tireremmo un po’ fuori ogni tanto dalla solita zuppa di critica  rita ed estetica di cui il pubblico non vuol più saperne » (AE,   abiati).   9 G. Sasso, La « Cultura » nella storia della cultura italiana, in «La  Cultura », XIV (1976) (numero speciale « Per i 70 anni di Guido Calo-  gero »), p. 82. Un accenno a Cajumi e ai collaboratori de « La Cultura »  come «un gruppo di intellettuali ben definito nella vita culturale ita-  liana », in A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. II, pp. 1332-33.   100 Recensendo Saffo e Pindaro di Gennaro Perrotta pubblicato da  Laterza, Piero Treves riteneva necessario inquadrare i poeti nel loro  tempo: «Qualcosa, dunque, vi è, in un poeta, oltre la sua poesia, che  vale e che dura quanto e come la sua poesia » (Storia e poesia nella  Grecia arcaica, in «La Cultura »,  in cammino; nemici tanto del letterato puro quanto di quello politi-  cante, i seguaci dell’indirizzo propugnato dal Russo appaiono a un  osservatore imparziale un curioso impasto di contraddizioni 10,    Sul piano filosofico comincia a muoversi contro l’idea-  lismo Eugenio Colorni, pur allievo del « mistico » Marti-  netti e collaboratore della « Rivista di filosofia », già orien-  tato politicamente verso il socialismo di Lelio Basso e di  Rodolfo Morandi; la sua ricerca, incentrata intorno all’ana-  lisi del pensiero leibniziano, ha modo di esprimersi sulla  rivista in discussione con La spiritualità dell’essere e  Leibniz del cattolico Giovanni Emanuele Bariè il quale,  notava Colorni, si serviva di Leibniz « a scopi postkantiani  e idealistici », accentuando « la concezione dell’essere come  spiritualità »: era invece «una violenza che il pensiero  postkantiano fa sul nostro potere d’interpretazione e di  sviluppo, di considerare tutto ciò che non è materiale nel  senso comune della parola, come necessariamente svolgen-  tesi in forma di soggettività e di pensiero. Ora, proprio la  novità di Leibniz consiste nell’escludere questa costrizione  e nell’additare altre direzioni, diverse da quella gnoseo-  logica » !2, Si manifestava cosi in Colorni, come è stato  osservato, un « consapevole atto di rottura [....] nei riguardi  di una tradizione spiritualistica di cui l’idealismo fu l’ul-  tima incarnazione » !°,   Non mancano, talvolta, anche dirette confutazioni della    101 A. Cajumi, La colpa è della critica?, in « La Cultura », XIII (1934),  pp. 45-47; di questo articolo, dove vedeva «la condanna sommaria  di tutto quello che si è fatto negli ultimi trent'anni », si lamentava  Russo con Finaudi il 31 maggio 1934 (AE, Russo). Sull’insufficienza  del « fiuto filosofico per separare la poesia dalla non poesia » cfr., dello  stesso Cajumi, Gustave Lanson, in «La Cultura », XIV (1935), p. 19;  contrario alla « sostituzione della critica filosofica alla storica » si dimo-  stra anche Enrico Carrara recensendo Il! Quattrocento di Vittorio Rossi  (« La Cultura », XIII (1934), p. 13).   102 E. Colorni, Leibniz e una sua recente interpretazione, in «La  Cultura » Cosî N. Bobbio nell’Introduzione a E. Colorni, Scritti, Firenze, La  Nuova Italia, 1975, p. VI. Per l’attività politica di Colorni cfr. la voce  di E. Gencarelli in F. Andreucci - T. Detti, Il movimento operaio italiano.  Dizionario biografico 1853-1943, vol. II, Roma, Editori Riuniti, 1976, e  il profilo, non privo di accenti agiografici, che gli ha dedicato Leo Solari,  Eugenio Colorni. Ieri e oggi, Padova, Marsilio. 1980.    240    Le origini della casa editrice Einaud?    cultura ufficiale, come quando, di fronte al metodo attualiz-  zante proposto da Gentile ne La profezia di Dante, Um-  berto Cosmo — il docente torinese che nel 1926 era stato  costretto a dimettersi dall’insegnamento per l’« incompati-  bilità » fra il suo pensiero e la politica del regime — osser-  vava che « chi voglia comprendere Dante nella sua inte-  rezza discorderà probabilmente da cotesti criteri », perché  « l’infinità dello Stato, la potenza sua illimitata mi paiono  concetti moderni che il teologo Dante non poteva formulare  a se stesso » !*. Ma la più evidente linea distintiva della  rivista dalla cultura del regime, cosi come da Croce, è ravvi-  sabile nel netto richiamo ai valori dell’illuminismo negati  dal pensiero idealistico, e rimasti ai margini anche dell’inte-  resse de « La Cultura » di De Lollis. Se ne fanno interpreti  soprattutto, oltre al Antonello Gerbi !5, Cajumi e Salvato-  relli, anche se con accenti molto diversi. Per Cajumi la  rivalutazione del ’700 doveva essere fatta a spese dell’hege-  lismo e dei suoi seguaci, e ricollegando l’illuminismo all’in-  dividualismo del Rinascimento — secondo la linea interpre-  tativa esposta da Chabod nella voce IMuminismo dell’Enci-  clopedia italiana —, attraverso il tramite del libertinismo:    La nuova filosofia, sorta con facilità a cavalcioni di un positi-  vismo sfiatato e vaniloquente, giudicava e mandava dall’alto del suo  tedescheggiante idealismo, ed estranea alla cultura francese ed in-  glese, contribuiva al vituperio. Marxisteggiando, i nostri filosofi pren-  devano sotto le ali il Sorel, e covavano Bergson e Blondel. Per quei  poveri sensisti ed illuministi, che disprezzo! [...]. Il male è che un  ritorno al Settecento non può farsi senza rimandar prima in soffitta  Marx, Hegel e compagnia, castigare la democrazia, dissipar l’equi-  voco di certo neoliberalismo, non aver paura di passare per dei con-  servatori e miscredenti vecchio stampo.    14 u.c. [U. Cosmo], Le profezia di Dante, in «La Cultura», XIV  (1935), p. 16. Sulla sua figura cfr. la testimonianza di F. Antonicelli,  Un professore antifascista: Umberto Cosmo, in AA.VV., Trent'anni di  storia italiana (1915-1945). Lezioni con testimonianze presentate da F.  Antonicelli, Torino, Einaudi, 1975?, pp. 87-90.   105 « L'entusiasmo, la buona fede, lo zelo gioioso di quel tempo calun-  niato ci investono e sollevano », osservava Gerbi recensendo Les origines:  intellectuelles de la Révolution Frangaise di Daniel Mornet (Idee del Set-  tecento, in « La Cultura », XIII (1934), p. 41).  Ma i suoi accenti élitari si riscattavano in un sentito  laicismo: per salvare l'Europa « malata, non solo politica-  mente ed economicamente, ma, ciò ch'è più grave, nella  sua cultura », era necessario identificare le origini della  sua civiltà, che erano colte, alla luce de La crise de la con-  science européenne di Paul Hazard — il volume sarà tra-  dotto dalla casa editrice nel 1946 —, nell’Umanesimo e —  aggiungeva Cajumi riecheggiando forse Gobetti — nella  Riforma, dalla quale erano sorte « la libertà di coscienza, la  discussione del cristianesimo, delle affermazioni ateistiche.  Il peccato originale, l’origine unica delle razze sono battuti  in breccia; s’affaccia l’idea di progresso. La politica si lai-  cizza, e si democratizza, l’idea di Stato si disgiunge da quella  feudalisticamente monarchica. Nasce una nuova economia,  mercantile, capitalista » !”.   Pi esplicita e avanzata che in Cajumi risulta, a propo-  sito dell'Illuminismo, la coniugazione di giudizio storico e  impegno civile in Salvatorelli: recensendo nel 1934 La  polemica sul Medio Evo di Giorgio Falco — ma richia-  mando anche la Philosophie der Aufklirung di Cassirer —,  egli osservava che la valorizzazione del ’700 operata da  Falco si inseriva « in un processo di pensiero in pieno corso  e di importanza capitale, da cui usciranno ben altro che  semplici revisioni storiografiche e storico-filosofiche, come  ben altro che queste revisioni è uscito dalla svalutazione  del ’700 proseguita dal Romanticismo in poi ». E, dopo  aver ridimensionato la funzione del Papato e dell’Impero  nella storia della società medievale, con accenti antinazi-  sti — «ci si aggiungono, adesso, le strimpellature misti-  cheggianti del Sacrum Imperium (vedano, gli strimpellatori  teutonici, di accordarsi ora con l’altro misticismo razzista,  quello che fa capo a Vitichindo e a Wotan) » —, Salvato-    106 A. Cajumi, La nascita della civiltà europea e I libertini del Seicento,  in «La Cultura», XIV (1935), pp. 41-43 e 63-67. Negli stessi anni  l’opera di Hazard era accostata da E. Cione alla Storia dell'età barocca  di Croce, anche per il suo taglio etico-politico (« La Nuova Italia »,  VIII (1937), pp. 121-123). Sul significato dell’opera di Hazard, che insiste  sul tema della «crisi» anche per il momento in cui fu scritta, cfr. G.  Ricuperati, Paul Hazard, in « Belfagor »,  relli indicava lucidamente quello che poteva essere l’inse-  gnamento dell’illuminismo:    chi volesse con un solo termine riassumere le caratteristiche del per  siero settecentesco, non potrebbe trovarne altro più adatto che quello  di « umanità ». Ed ecco perché, nella necessità di un nuovo umane-  simo per risolvere la crisi in cui il mondo civile si dibatte, il pen-  siero del Settecento ritorna oggi a splendere più vivo che mai. Per  fare, e non subire, la storia futura occorre giudicare quella passata  e non stenderci sopra il polverino 19.    Non meno significativo è in Salvatorelli il legame isti-  tuito fra Risorgimento e Rivoluzione francese — analogo  all’interpretazione espressa negli stessi anni da Aldo Fer-  rari o da Baldo Peroni sulla « Nuova rivista storica » —,  e la demistificazione della « leggenda » di Carlo Alberto !*:  temi e giudizi che ritroveremo in alcune opere dello stesso  Salvatorelli e di altri collaboratori di Giulio Einaudi.   Attraverso il discorso culturale filtrava spesso anche un  messaggio politico, che si fa talvolta esplicito sulle pagine  della rivista, ma i cui toni pi avanzati sono di stampo  liberale. Bobbio ha dato rilievo a due articoli « feroce-  mente antisoreliani » di Salvatorelli, ricordando come Sorel  fosse « uno dei numi tutelari del fascismo » !’; ma, mentre  in uno l’autore rimane sul terreno puramente culturale della  difesa dell’Illuminismo !*, solo nell’altro Salvatorelli espri-    107 L. Salvatorelli, Storiografia del Settecento, in «La Cultura », XIII  (1934), pp. 3-5.   108 Cfr. L. Salvatorelli, Napoleone, in « La Cultura », XIII (1934), pp.  95-96, e la sua recensione a G. F.H. Berkeley, Italy in the making 1815-  1846, in cui Salvatorelli nega l’esistenza di una politica antiaustriaca  di Carlo Alberto prima del 1845 (« La Cultura », XIII (1934), p. 131).  Contrario alla tesi autoctona delle origini del Risorgimento, ma anche  a quella che ne legava la nascita alla Rivoluzione francese, si dimostra  invece Cajumi nella recensione a H. Bédarida - P. Hazard, L’influence  francaise en Italie au dix-buitième siècle («La Cultura», Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a Torino, cit., p. 69.   110 « Sorel è lo Spengler dell’anteguerra, e Spengler il Sorel del dopo-  guerra [...]. L'opposizione di Spengler al secolo XVIII, reo di aver  iniziato l’epoca del razionalismo, è tale e quale quella del Sorel, per cui  la dottrina del progresso, fondamentale nell’epoca dell’enciclopedismo c  dell’Aufklirung, non era se non la giustificazione ideale di una socictà  datasi tutta alla gioia di vivere, e Diderot, Voltaire e simili non erano    244        me un giudizio politico attaccando Sorel in nome di quel  mondo prefascista verso il quale abbiamo visto volgersi il  rimpianto dei liberisti: Sorel infatti « non si rese mai conto  delle realtà di primaria importanza su cui giocava, degli  interessi sociali che rischiava di danneggiare, dei valori  umani fondamentali che vilipendeva. Tutto questo, in un  periodo storico che richiedeva la massima cautela per non  contribuire, sia pure involontariamente, a scuotere le fon-  damenta di una civiltà grandiosa, ma tutt’altro che conso-  lidata » !!!. Un atteggiamento più arretrato, decisamente  aristocratico, manifesta Cajumi che nel 1934, in polemica  con un uomo politico non certo progressista come André  Tardieu, notava in Francia «la progressiva e trionfante  sostituzione della massa all’individuo, mediante la realizza-  zione di democrazie nazionaliste, che tendono a mettersi  ognora più nelle mani dello stato, contro la garanzia di  un’assistenza economica e sociale sempre maggiore » !.  Una posizione, questa, in linea con quella già esaminata dei  liberisti; anche su « La Cultura », del resto, recensendo  gli Orientamenti di Croce del 1934 Luigi Einaudi ne acco-  glieva pienamente la « stroncatura da filosofi veri » nei con-  fronti di Spengler e della teoria marxiana della base econo-  mica della società !5; e lo stesso ex ordinovista Zino Zini,  discutendo La crise européenne et la grande guerre di  Pierre Renouvin, osservava che « nell’esame delle cause è  messa abilmente in luce la sopravalutazione — diventata  ormai quasi un luogo comune — che si ha l’abitudine di  fare di quelle economiche » !. Né era segno di distinzione  dal fascismo, nel 1934, la critica dell’ideologia nazionalso-  cialista, assai diffusa nelle riviste del regime, e che ne « La  Cultura » si manifesta nella stroncatura del Mein Karzpf    stati che dei buffoni della aristocrazia » (L. Salvatorelli, Spengler e Sorel,  in «La Cultura », XIV (1935), pp. 21-23, a proposito di Anzi decisivi  di Spengler pubblicato da Bompiani).  Ul L. Salvatorelli, I/ mito Sorel, in « La Cultura », XIII (1934), p. 63.  112 A. Cajumi, In punta di penna, in « La Cultura », XIII (1934), p. 30.  113 « La Cultura », Zini, In margine a una storia della grande guerra, in «La  Cultura », XIV (1935), pp. 26-29. Su di lui cfr., fra i vari interventi di  G. Bergami, il suo ritratto in « Belfagor», XXVII (1972), pp. 678-703.    244    Le origini della casa editrice Einaudi    di Hitler tradotto da Bompiani — libro pieno di contrad-  dizioni e caratterizzato da una « spiccata innocenza intel-  lettuale », scriveva Salvatorelli 5 —, o nella recensione  di Luigi Emery a Friedrich der Grosse und die geistige  Welt Frankreichs di Werner Langer, in cui si metteva in  evidenza come l’autore dimostrasse l’influenza francese su  Federico II di Prussia « contro l’aureola di santone del  germanesimo della quale tardi agiografi vogliono citcon-  dare lo spregiudicato Gran Re di Prussia. Dalla sua tomba  nella Garnisonkirche di Potsdam “trasse gli auspici” con  rito solenne il regime che presiede oggi alla vita della Ger-  mania » 1°,   Non sarebbe comunque produttivo ricercare in riviste  o volumi pubblicati sotto il fascismo « segni » politici  troppo discordanti dagli indirizzi del regime. L’analisi deve  rimanere aderente ai temi culturali, per cogliere la manife-  stazione di eventuali dissonanze o contraddizioni, aperture  ideali o non meno significativi silenzi. Per questo ci sembra  necessario soffermarci, sia pur brevemente, sul « letterato »  Pavese, che con Ginzburg fu il principale collaboratore di  Giulio Einaudi nei primi anni della sua attività editoriale  e il legame pit consistente fra « La Cultura » e le iniziative  della casa editrice. Nota è, come abbiamo visto, la mili-  tanza politica di Ginzburg, che gli costò dapprima il car-  cere — dal marzo 1934 al marzo 1936 — e, dall’11 giugno  1940 al 25 luglio 1943, il confino a Pizzoli presso L'Aquila;  nonostante ciò, egli poté dedicare le sue cure, assieme a  Pavese, alla « Biblioteca di cultura storica », ai « Narra-  tori stranieri tradotti » e alla « Nuova raccolta di classici    115 «La Cultura », XIII (1934), p. 105.   116 L. Emety, Gallicanismo di Federico il Grande, in «La Cultura »,  XIII (1934), pp. 58-59; la tesi di Langer era del resto condivisa anche  da Luigi Negri sulla « Rivista storica italiana », LII (1935), pp. 238-240.  Recensendo Le civiltà d’Italia di Giovanni Vidari, Enrico De Michelis  vi notava «un eccesso di sentimento nazionalistico », pur aggiungendo  che l’opera era « ben lontana [...] da quelle fantasie di metafisica antro-  po-etnica che, dopo un periodo di stasi apparente, son tornate oggi a  predominare nella Germania di Hitler e che purtroppo costituiscono un  pericolo non lieve per la pace e per la civiltà dell’Europa e del mondo »  (« La Cultura », XIV (1936), p. 14).    245        italiani annotati » !”. Non ci restano tuttavia, al di là delle  testimonianze, tracce consistenti della sua attività edito-  riale, che invece è maggiormente documentabile — e fu  probabilmente pi continua — per Pavese, confinato per  più breve tempo, circa un anno, a Brancaleone Calabro.  Parlare di Pavese, all’inizio degli anni ’30, significa  soprattutto affrontare il suo interesse per la letteratura  americana contemporanea, individuabile nelle traduzioni  per Frassinelli e negli articoli su « La Cultura » — soprat-  tutto prima del 1934 —, e destinato a esprimersi in nuove  proposte di traduzione per la Einaudi. Il tema è stato af-  frontato più volte, ma spesso con forzature ideologiche o  con una insufficiente storicizzazione, tali da fornire un’im-  magine deformata, e in genere riduttiva, della figura di  Pavese !*. La differenza tra lui e Ginzburg, sul piano poli-  tico, è marcata, e lo stesso Pavese ne era cosciente quando,  coinvolto negli arresti del 1935, preparò il suo memoriale  difensivo o scrisse dal confino ad Alberto Carocci — « Uni-  co mio disinteresse — 4 aeterno e parlo colla mano sul  cuore — la letteratura politica » !. Questa affermazione,  tuttavia, non può essere assolutizzata, anche se trova con-  ferma nelle più segrete pagine del diario, in cui la politica  o è assente o è rifiutata. Infatti, pur non essendo « uomo  d’azione » ‘°, già nei primi anni ’30 il suo impegno lette-  rario, di traduttore commentatore poeta, ha una trasparente  carica civile, se non propriamente politica. La scoperta  della politica avverrà in lui, come in Giaime Pintor, solo  con la Resistenza, ma l’attenzione per la narrativa americana  indica da tempo il suo tentativo di uscire dagli angusti    117 Pavese appare «revisore» dei «Narratori stranieri tradotti » e  dei «libri di carattere storico-letterario », nella lettera di Giulio Einaudi  a lui del 27 aprile 1938 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, a cura di L. Mondo,  Torino, Einaudi, 1966, p. 537).   118 Tali caratteristiche hanno, rispettivamente, i lavoti di N. Catducci,  Gli intellettuali e l'ideologia americana nell’Italia letteraria degli anni  trenta, Manduria, Lacaita, 1973, e di A. Guiducci, I{ mito Pavese,  Firenze, Vallecchi, 1967.   119 Lettera del 24 ottobre 1935; cfr. anche la lettera alla sorella del  26 luglio 1935 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., pp. 412, 454).   120 Cfr, D. Lajolo, Il « vizio assurdo ». Storia di Cesare Pavese, Milano,  Mondadori, 1978, p. 133.    246    Le origini della casa editrice Einaudi    limiti di una cultura nazionale provinciale e soffocante,  spinto da un’« ansia di oggettività » che è stata messa giu-  stamente in evidenza, e che lo allontana dall’ermetismo per  sostanziare le poesie di Lavorare stanca della realtà popolare  e contadina delle sue valli piemontesi !!,   Come ricorderà dopo la Liberazione,    la cultura americana divenne per noi qualcosa di molto serio e  prezioso, divenne una sorta di grande laboratorio dove con altra  libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di creare un  gusto uno stile un mondo moderni che, forse con minore immedia-  tezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori tra noi perse-  guivano [...]. Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’Ame-  rica non era un altro paese, un z%ovo inizio della storia, ma soltanto  il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva  recitato il dramma di tutti !2.    Nel modo in cui, già nel 1930, Pavese parlava degli  scrittori americani in una lettera all'amico Chiuminatto,  vi era una sorta di rovesciamento dell’ottica nazionalistica  con la quale Prezzolini spiegava Come gli americani scopr:-  rono l’Italia, e l'individuazione degli elementi del « dram-  ma » comune ', In Sherwood Anderson Pavese coglieva  quella realtà industriale che intimoriva Luigi Einaudi, «i  centri fumosi e fragorosi, fattivi e ottimisti che il mondo  conosce: Cleveland, Springfield, Detroit, Akron, Pittsburg,  e, su tutti, gigantesca, la metropoli, Chicago. Le fabbriche  inghiottono tutto ». Dos Passos presenta le contraddizioni  e gli aspetti di « quotidiana tragedia » di questa società,    121 Cfr. E. Catalano, Cesare Pavese fra politica e ideologia, Bari, De  Donato, 1976, passirmz.   122 C. Pavese, Ieri e oggi (1947), ora in La letteratura americana e  altri saggi, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 188-189. Sugli aspetti sociali  del romanzo americano cui si rivolgeva l’attenzione di Pavese cfr. S.  Perosa, Vie della narrativa americana. La «tradizione del nuovo » dal-  l’Ottocento a oggi, Torino, Einaudi, Cfr. la recensione di Pavese a Prezzolini ne « La Cultura », XIII  (1934), p. 14 e la lettera di Pavese ad Antonio Chiuminatto del 5 aprile  1930: «un buon libro europeo d’oggi è, in genere, interessante e vitale  solo per la nazione che l’ha prodotto, laddove un buon libro americano  parla a una folla più vasta, scaturendo, come scaturisce, da necessità più  profonde e dicendo cose veramente nuove e non soltanto originali, come  quelle che nel migliore dei casi produciamo noi» (C. Pavese, Lettere  1924-1944, cit., p. 190).    247        la « lotta ch’egli vede combattersi con coscienza di classe,  nel nostro secolo, tra lavoro e capitale ». Attraverso Walt  Whitman, « un gigante dalla camicia d’operaio aperta al  collo e dalla barba dura », un poeta che tanta fortuna aveva  avuto nei circoli socialisti, Pavese scopre che    mentre un artista europeo, un antico, sosterrà che il segreto dell’arte  è di costruire un mondo più o meno fantastico, di negare la realtà  per sostituirla con un’altra magari più significativa, un americano  delle generazioni recenti vi dirà che la sua aspirazione è tutta d'  giungere alla natura vera delle cose, di vedere le cose con occhi ver-  gini, di arrivare a quell’ultimzate grip of reality che solo è degno di  esser conosciuto !%,    Cost, attraverso l'America, è possibile la riscoperta  della realtà della propria terra, espressa nel 1936 nelle  poesie di Lavorare stanca. Dove era contenuto un messag-  gio di speranza immediatamente colto da una comunista  torinese, con due figli comunisti operanti nella clandestinità,  Elvira Pajetta:    Credevo che la poesia fosse morta — scriveva nel 1936 al mae-  stro severo di Pavese, Augusto Monti, allora in galera —. Cosî siamo  noi vecchi: quando non sappiamo più godere pensiamo volentieri che  la gioia di vivere se ne sia partita dal mondo e quando la prosa  quotidiana ha avuto ragione di noi giuriamo tranquillamente che la  poesia è defunta. Ma se il Signor Pavese scrive dei versi, se li crede  pi belli del mondo, se li stampa e li fa leggere — è certo che ho  avuto torto e son felice di ricredermi 15.    5. Storiografia e impegno civile    Giulio Einaudi seppe riprendersi abbastanza rapida-  mente, non solo attraverso le iniziative del padre, dai duri  colpi inferti dal regime, nei primi due anni di attività  della casa editrice, ai suoi collaboratori e alle sue riviste.  Prima della guerra, anche se i titoli pubblicati furono    124 Cfr. C. Pavese, La letteratura americana, cit., pp. 36, 119, 121,  138, 143.   125 ACS, Casellario politico centrale, b. 3790, fasc. 121672 (Cesare  Pavese).    248    Le origini della casa editrice Einaudi    pochi — ancora 8 nel 1937, arriveranno a 16 nel 1938 e a  24 nel 1939 —, egli riusci infatti a impostare quasi tutte  le collane più importanti, che caratterizzeranno le sue edi-  zioni fin dopo la Liberazione: la « Biblioteca di cultura  storica » (1935), i « Saggi » (1937), i « Narratori stranieri  tradotti » e la « Biblioteca di cultura scientifica » (1938),  i « Poeti » e la « Nuova raccolta di classici italiani anno-  tati » la rivista « La Nuova Italia »,  espressione della casa editrice di Ernesto Codignola che  stava prendendo sempre più le distanze dal fascismo, poteva  lodare la consorella torinese che    nel giro di pochi anni [...] ha messo fronde e radici, e saldamente  stabilita nel mercato e nel pubblico, vanta ora una varietà e una ric-  chezza di iniziative (opere di scienza, classici della nostra letteratura,  una collezione storica, una di romanzi stranieri ecc.) che tutte concor-  rono ad attuare il proposito orgoglioso di riuscire centro animatore  di raccolta della più viva giovane e consapevole cultura italiana 12%.    Già prima del 1940, infatti, le pubblicazioni dell’editore  torinese sono tali da richiamare l’attenzione di intellettuali  di rilievo, e da provocare in questi significative divisioni  nei giudizi, nei quali è possibile intravedere schieramenti  contrapposti non solo sul piano culturale; ed è per questo  che ci sembra opportuno dedicare largo spazio alle nume-  rose recensioni ai volumi della casa editrice. Nonostante  la varietà dei temi affrontati dimostri una ricerca di sempre  nuovi spazi culturali che può apparire talvolta confusa e  tale da rischiare il pericolo dell’eclettismo, attraverso le  collane in cui è pi facilmente ravvisabile un impegno  civile — quella storica e i « Saggi » — è possibile seguire  gli elementi di differenziazione dall’ideologia dei liberisti  e il lento, faticoso distacco dalla cultura del regime.   La « Biblioteca di cultura storica » è la collana i cui  orientamenti appaiono pit definiti fin dall’inizio, nella ri-  cerca di una valutazione della storia italiana che si diffe-  renziasse da quella nazionalistica di Volpe e della sua scuola  o dagli accenti sabaudistici presenti negli « Studi e docu-    126 «La Nuova Italia », Xmenti di storia del Risorgimento » curati da Gentile e  Menghini per Le Monnier, e nel tentativo, in un secondo  tempo, di aprirsi alla storiografia straniera, in particolare  quella anglosassone. Né è ravvisabile in questi anni, nel  quadro della cultura storiografica che non si richiama diret-  tamente o esclusivamente alle impostazioni di Volpe e di  Gentile, un’altra collana storica che abbia la stessa consi-  stenza e un uguale prestigio di quella einaudiana: questa  ha alcuni punti di contatto con la « Biblioteca di cultura  moderna » di Laterza e con i « Documenti di storia ita-  liana » de La Nuova Italia — dove apparvero i Discorsi  parlamentari di Cavour a cura di Adolfo Omodeo e Luigi  Russo —, ma una ben maggiore capacità di svolgere una  funzione civile, in quanto si indirizzava a un pubblico più  ampio di quello degli specialisti, tenendo « la via di mezzo  tra la dissertazione storica meramente accademica ed eru-  dita e la storia romanzata », ciò che costituiva una novità  per l’Italia !”. Dell’impostazione della « Biblioteca di cul-  tura storica » si era occupato, prima dell’arresto, Ginzburg,  che, come abbiamo visto, era in contatto con Nello Ros-  selli; a questo si rivolgeva il 4 gennaio 1934 l'editore,  chiedendogli un volume su Mazzini per la collana, « dedi-  cata per ora ad illustrare uomini ed avvenimenti di storia  italiana moderna », e che avrebbe dovuto essere inaugurata  da uno studio su Cavour di Salvatorelli. In un primo tempo  Rosselli accettò — «mi sorride che un mio libro esca  sotto l’insegna di un nome che tengo in cosî alta stima »,  scriveva a Giulio Einaudi nel febbraio 1934 —, lasciando  poi cadere la proposta, cosî come quella, avanzata dall’edi-  tore nel 1935, di riprendere — sia pur ridimensionan-  dolo — il suo progetto di una rivista storica, che Rosselli  giudicò impraticabile per la difficoltà dei tempi": il    127 Cosi Enzo Tagliacozzo nella recensione al Mazzizi di Bonomi, in  « Nuova rivista storica », XX (1936), p. 430.   128 Il 16 aprile 1935 Rosselli scriveva all’editore che « molte delle  ragioni che m’indussero a rinunziare al progetto in grande della rivista  sussistono anche per questo progetto minore [...]; metto in primo piano  la mia personale situazione e la fifa generale. Anche metto in linea di  conto la tendenza che oggi prevale, in alto, di dichiarare guerra a coltello  alle riviste indipendenti (almeno a quelle storiche), per concentrare mezzi    250    Le origini della casa editrice Einaudi    regime aveva infatti provveduto da poco a un rigido con-  trollo degli istituti storici, mentre si annunciava, anche in  questo campo, la « bonifica della cultura » di De Vecchi.  La collana si inaugurò quindi con un’opera dell’« auto-  re » per eccellenza di Einaudi in campo storico, Luigi Sal-  vatorelli ‘’. Ne Il pensiero politico italiano dal 1700 al  1870 — che ebbe molta fortuna, testimoniata dalle nume-  rose edizioni — Salvatorelli riprendeva una tematica già  affrontata su « La Cultura », per dimostrare come il pen-  siero politico italiano fosse nato nel 700, con quello « spi-  rito di umanità » già presente in Muratori, nel quale « tro-  viamo la nuova tavola di valori settecenteschi, tavola che  ignora la grandezza e la trascendenza dello stato dominanti  nella trattatistica anteriore, e destinata a risorgere con  l’idealismo hegeliano »; sulla stessa linea si muove Beccaria,  che « nega ogni concetto di un interesse, di un valore  statale distinto e superiore all'interesse e al valore degli    e appoggi su poche rivistone ufficiali. Sa che in questi giorni anche la  torinese Rivista storica ha subito una radicale trasformazione (imposta)  ed è passata al Volpe? Rebus sic stantibus, ho paura che la nostra rivista  raccoglierebbe tutti nomi ingrati, e ben presto puzzerebbe. Inoltre per  fare una rivista occorre un gruppo omogeneo di collaboratori abituali, 1)  meglio di redattori. Intorno a me questo gruppo, ora come ora, non c'è; né  io mi sentirei di far tutto da me. Le assicuro che questa mia riluttanza a  imbarcarmi nell’i impresa deriva non già da scarso entusiasmo: l’entusiasmo  in questo caso non mi difetterebbe davvero. Ma proprio perché sogno, un  giorno, di dar vita a una bella e viva rivista di studi storici, esito a realiz-  zare questo sogno in un momento cosî poco favorevole. Del resto, dovrò  recarmi a Roma, fra poco; e lf tasterò di nuovo il terreno coi miei amici.  Senza illusioni, però. Debbo proprio dirle che questa rinuncia tanto più mi  costa da quando ho capito di poter contare su di Lei come editore? ». Il 3  aprile 1935 gli aveva scritto di aver parlato della rivista con Salvatorelli,  che « vede molto di buon occhio il progetto ». Ancora nel 1937 Rosselli  proporrà a Einaudi un volume su Montanelli (AE, Rosselli). Il 4 gennaio  1934 l’editore aveva scritto anche a Luigi Russo proponendogli, per la col-  lana storica, « un volume di carattere sintetico sulle origini storiche e psi-  cologiche della nostra guerra » (AE, Russo).   29 In contatto con Giustizia e Libertà, il 16 giugno 1937 Salvatorelli  scrisse ad Amelia Rosselli che i suoi figli « vissero nobilmente dediti ad  alti ideali, e sono caduti combattendo come il fratello che li precedette.  La loro memoria rimarrà viva e alta in molti cuori» (ACS, Casellario  politico centrale, b. 4549, fasc. 89789).   Nel 1938-39 l’editore fu in contatto con un altro storico di formazione  liberale, Nino Valeri, e ancora nell’agosto 1945 si dimostrerà interessato  alla sua proposta di un volume su Filippo Maria Visconti (AE, Valeri).  individui componenti l’aggregato sociale », o Pietro Verri,  per il quale « stati forti sono quelli in cui vi è libertà indi-  viduale, stati deboli quelli dispotici ». E, mentre si accenna  all'influenza della Rivoluzione francese sull’Italia — anche  se l’unico « giacobino » preso in considerazione è Mel-  chiorre Gioia —, la genealogia gentiliana dei « profeti del  Risorgimento » è fortemente ridimensionata e corretta nei  giudizi: in Alfieri si coglie, accanto all’anelito alla libertà  politica, un chiaro « individualismo idealistico », e in Maz-  zini l’importanza del problema sociale; si mette in risalto,  prima del ’48, la superiorità politica di moderati come  Balbo rispetto a Gioberti, e, in Cavour, il suo debito verso  la Rivoluzione francese che ha fondato le libertà costitu-  zionali e la teorizzazione della separazione Stato-Chiesa  che lo statista piemontese profetizzava si sarebbe sempre  più radicata — mentre « l’era del dopoguerra ha segnato  finora una smentita alla profezia cavouriana ». Infine, dopo  aver rilevato come le antinomie di Giuseppe Ferrari fra  libertà e autorità e il suo abbozzo socialisteggiante di società  futura fossero « miscele confuse ed informi », ma rispon-  dessero a bisogni reali — « e conservano quindi ancora oggi  il loro valore » —, il lavoro di Salvatorelli terminava coe-  rentemente con l’inizio, con la figura di un autore caro  agli einaudiani, Cattaneo, che « concludeva il ciclo del pen-  siero politico italiano del Risorgimento. Lo concludeva  ricongiungendosi alle idealità che avevano ispirato la co-  scienza storica del Muratori, il riformismo giuridico del Bec-  caria e del Filangieri, la critica economico-politica del  Verri; lo concludeva riaffermando con meditata coscienza i  valori di umanità e di progresso esaltati dal pensiero del    Settecento, italiano ed europeo » !*.    130 L. Salvatorelli, I/ pensiero politico italiano dal 1700 al 1870,  Torino, Einaudi, 1935, pp. 6, 11, 40, 67, 88, 130, 200, 217, 265, 303,  320, 350, 354. Giustamente Alessandro Galante Garrone ha osservato  che, « nella complessiva valutazione salvatorelliana del Risorgimento, è  data una preponderanza forse eccessiva agli aspetti dottrinali del pen-  siero politico » (Risorgimento e Antirisorgimento negli scritti di Luigi  Salvatorelli, in «Rivista storica italiana », LXXVIII (1966), p. 534).  Sulla riscoperta dell’illuminismo italiano ne I/ pensiero politico concor-  dano comunque Walter Maturi (Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni    252    Le origini della casa editrice Einaudî    Ingiusto appare quindi il commento di chi valutò cro-  cianamente l’opera come « un tipico esempio di storio-  grafia senza problema storico » ‘". Indicativi dell’esistenza  di una precisa tesi interpretativa nel lavoro di Salvatorelli  sono infatti, da un lato, i silenzi della « Rivista storica ita-  liana » di Volpe e della « Rassegna storica del Risorgi-  mento » di De Vecchi, cosi come la distorsione del ragio-  namento dell’autore che appare sulla gentiliana « Leo-  nardo » !“, e, dall’altro, il tono dei commenti suscitati nelle  riviste meno conformiste. Sulla « Nuova rivista storica » si  nota che Salvatorelli contrappone alla storia della ragion  di Stato la storia dell’individualismo, e che « notevole è la  ricostruzione del pensiero politico del Cavour, cosa che  raramente suole esser fatta; preziose le notizie sull’illumi-  nismo giovanile del Mazzini; il Cuoco ne guadagna e di-  venta più modesto per la interpretazione riformistico-illu-  ministica che di lui si fa (disincagliarsi dalle esumazioni  idealistico-gentiliane è già un bel vantaggio!) » !*. Più cauti,  ma improntati a simpatia per le idee dell’autore, sono i  giudizi che compaiono sulle riviste di Codignola: Enzo  Tagliacozzo si chiedeva, rilevando un limite messo in luce    di storia della storiografia, prefazione di E. Sestan, Torino, Einaudi, 1962,  p. 554) e Leo Valiani (Salvatorelli storico dell'Unità d’Italia e del fasci-  smo, in « Rivista storica italiana », LXXXVI (1974), p. 726). Lionello  Venturi scriveva invece a Salvatorelli il 26 aprile 1935: «I capitoli sul  tardo Gioberti e su Cavour naturalmente mi hanno preso di pit, come  quelli dove il pensiero ha più rapporti con la politica concreta [...].  Ma anche per Alfieri, il suo atteggiamento verso la rivoluzione, è cosf  chiaro e mi era affatto sconosciuto [...]. Noto la tua convinzione sulla  inferiorità del pensiero settecentesco. Hai ragione? Questo non so. Io  sento diversamente » (ACS, Casellario politico centrale, b. 4549, fasc.  89789). Su Salvatorelli « educatore antifascista » nella Torino degli anni  ?30 cfr. la testimonianza di Norberto Bobbio in G. Spadolini, Il mondo  di Luigi Salvatorelli, con un’antologia di scritti di Salvatorelli e testimo-  nianze di N. Bobbio, L. Valiani, A. Galante Garrone, L. Compagna, Fi-  renze, Le Monnier, 1980, pp. 65-72.   131 Cosf Ezio Chichiarelli nella recensione alla seconda edizione (« La  Nuova Italia », XIII (1942), p. 67).   13 « Troviamo i segni del nostro moderno concetto totalitario di poli-  tica proprio in quel di solito disprezzato settecento », scriveva Raffaello  Ramat (« Leonardo », VII (1936), p. 99).   133 Paolo Polese in « Nuova rivista storica », XX (1936), p. 449. Cri.  tica è invece la recensione alla seconda edizione dell’opera di Enrico  Guglielmino, sempre in « Nuova rivista storica », XXV (1941), pp. 571-575.    253        anche dalla storiografia, « se sia veramente possibile cogliere  il senso delle dottrine politiche isolandole dal clima sto-  rico che determina il loro sorgere », ma approvava le nota-  zioni di Salvatorelli sul « fondo reazionario dell’ottimismo  storicistico » e sulla « necessità di rivedere alcuni giudizi  idealistici passati in giudicato e non più rimessi in discus-  sione » ‘4; Paolo Treves invece, dopo aver notato che « è  un certo vezzo attuale tentar di sminuire l’importanza del  contributo francese pre e post-rivoluzionario alla specula-  zione filosofico-politica italiana », affermava che il saggio  dimostrava « quanto sia inutile la disputa recente sull’indi-  pendenza o meno del pensiero italiano in quest'epoca, per-  ché non si tratta di stabilire primati, che non esistono nella  storia delle ideologie, ma di dimostrare invece come le idee  prime tolte dal lavoro degli illuministi oltremontani fossero  rivissute e concretate con la positiva esigenza della vita  italiana, in una pit solida e netta visione storicistica » !°.   L’impegno civile dimostrato da Salvatorelli ne Il pen-  siero politico italiano — e riaffermato nella seconda edi-  zione del 1941, in cui l’inclusione degli esponenti del pen-  siero cattolico non modifica la « mentalità liberale » del-  l’autore, come notava « La Civiltà cattolica » evidenziando  il giudizio troppo severo su Monaldo Leopardi, Solaro della  Margherita, il principe di Canosa e Spedalieri '* —, sembra  attenuarsi nel Sommario della storia d’Italia. In esso Sal-  vatorelli sviluppa quella personale interpretazione dell’unità  della storia italiana che aveva espresso sinteticamente nel  1934, criticando la concezione politico-statuale di Croce e  quella di Volpe che indicava nell’alto Medioevo il sorgere  della nazione italiana — proprio « al momento in cui l’Ita-  lia si risolve in una molteplicità di organismi autonomi »,  notava Salvatorelli —, per avvicinarsi alla tesi di Arrigo  Solmi nell’individuazione di una « linea italica » presente  nella penisola già prima della conquista romana, pur ve-  dendo, a differenza di Solmi, delle soluzioni di continuità  nell’affermarsi di quel « piano statale tendenzialmente uni-   134 « La Nuova Italia », VII (1936), p. 181.   135 « Civiltà moderna », La Civiltà cattolica », 93 (1942), vol. II, p. 52.    254    Le origini della casa editrice Einaudi    tario » che, interrotto dalle dominazioni longobarda e bizan-  tina, riprende slancio fra il IX e l'XI secolo !*”. La sua atten-  zione più « allo scomporsi e ricomporsi di un’unità politico-  amministrativa che a una storia del popolo italiano », come  notava Gabriele Pepe !*, si riflette anche nel Somzzario, nel  quale comunque è difficile cogliere, dietro la fitta cronistoria  dei fatti, dei giudizi caratterizzanti; questi si limitano ad  alcune notazioni sulla diffusione popolare delle idee della  Riforma o sull’influenza dell’Illuminismo francese, cui non  segue però un collegamento tra la rivoluzione dell’89 e il  Risorgimento; alla valutazione positiva sulla « epidemia di  scioperi » del primo ’900, che « fu nell’insieme un fatto  fisiologico e benefico, poiché una elevazione del tenor di  vita delle classi operaie era urgente, e perfettamente possi-  bile dato il grande incremento delle condizioni economi-  che »; per terminare con una visione sorprendentemente  limitativa dell’età giolittiana — «l’indirizzo di governo  giolittiano fu, pur con empirismo opportunistico, sostan-  zialmente liberale; ma non promosse una formazione orga-  nica di partito, e venne a favorire in una certa misura la  svalutazione del parlamento e l’autoritarismo personale »  —, e con una forzata sospensione di giudizio sul fascismo !.  Eppure il Sormzzzario, forse proprio per il suo taglio manua-  listico e asettico, poteva presentarsi assai distante dalle  retoriche deformazioni storiografiche del fascismo, e spin-  gere Mario Vinciguerra — un intellettuale liberale già  vicino a Gobetti e quindi a Luigi Einaudi — a vedere in  Salvatorelli « l’uomo che potrebbe benissimo disegnare, se  volesse, anche un programma politico » come Cesare Balbo  nel suo Sormzzzario, ma che, « vivendo in un’epoca non di    137 L. Salvatorelli, L’unità della storia italiana, in « Pan », I-II (1933-  34), vol. I, pp. 357-372.   138 «La Nuova Italia », Di importanza data da  Salvatorelli al « popolo » parla invece A. Galante Garrone, Risorgimento  e Antirisorgimento negli scritti di Luigi Salvatorelli, cit., p. 529.   139 L. Salvatorelli, Sommario della storia d'Italia dai tempi preistorici  ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 1938, pp. 635, 641. Nel 1940 il Som-  mario fu tradotto in inglese, e nel 1941 in tedesco dalla casa editrice  Junker di Berlino (ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordi-  nario, n. 527470).  aspettative, ma di travaglio mondiale, porta necessaria-  mente nella storia uno spirito di revisione e di nuova siste-  mazione » !9.   Accoglienze analoghe non mancheranno nel 1942, come  vedremo, a un’opera dalle caratteristiche simili a quelle del  Sommario, il Profilo della storia d'Europa. Frattanto l’atti-  vissimo Salvatorelli, che nel 1937 aveva pubblicato per  l’ISPI La politica della Santa Sede dopo la guerra — lodata  da « Gerarchia » per la « larga e seria preparazione » del-  l’autore !! —, alla morte di Pio XI fa seguire immediata-  mente, nel 1939, un primo bilancio del suo pontificato,  ricco di penetranti osservazioni personali e ciò nonostante  giudicato da « La Civiltà cattolica », pur con alcune riserve,  fra tutti i libri su Pio XI « uno dei pit seri per copia di  informazioni e per sufficiente oggettività di presentazio-  ne » !£. In esso Salvatorelli, attento, come Omodeo, alle  connessioni fra storia religiosa e storia politica, notava che  nel dopoguerra erano stati «i turbamenti sociali, con il  “pericolo bolscevico”, a rimettere in valore presso larghi  ceti europei la Chiesa cattolica quale fattore di ordine e di  conservazione sociale », con la conseguente tendenza degli  Stati a cercare l'appoggio della Chiesa. È in questo clima  che si sviluppa l’azione politica, non solo concordataria, di  Pio XI, « Segretario di Stato di sé medesimo », che « ebbe  come criterio direttivo di mettere al primo posto il raf-  forzamento dell’influenza ecclesiastico-religiosa sulla socie-  tà » facendo addirittura, come Bonifacio VIII, « della rega-  lità di Cristo il titolo giuridico per il governo della Chiesa  sul mondo » — e qui « La Civiltà cattolica » replicava    140 « Nuova rivista storica », XXIV (1940), p. 419 (cfr. anche E.  Camurani, La Repubblica pene nelle lettere di Einaudi e Vinci-  guerra (Contributo alla bibliografia di Vinciguerra), in Annali della Fon-  dazione Luigi Einaudi, vol. XII, 1978, Torino, Fondazione Luigi Einaudi,  1979, pp. 519-520). Invece per Bruno Brunello, mentre il Sommario di  Balbo «era tutto animato da una fede nei destini della patria », quello  di Salvatorelli appariva « più un’esercitazione letteraria che il risultato di  un’indagine appassionata » (« Rassegna storica del Risorgimento », Il lavoro di Salvatorelli sarà considerato su « Primato »  « molto preciso e concettoso » (I (1940), p. 15).   141 « Gerarchia », XVII (1937), p. 371.   142 « La Civiltà cattolica », 92 (1941), vol. IV, p. 217.    256    Le origini della casa editrice Einaudi    che, al contrario, la politica concordataria aveva visto il  pontefice « pronto a cessioni e a sacrifici, pur di tener gli  Stati almeno in qualche modo uniti alla Chiesa » !* —; e,  molto nettamente, Salvatorelli metteva in luce l’antisocia-  lismo, il legame col fascismo, la lotta contro il Fronte popo-  lare francese, l'appoggio alla guerra etiopica e a Franco,  il possibilismo nei confronti della Germania nazista, come  elementi caratterizzanti l’attività del papa, per concludere  con l’appello a un « nuovo umanesimo » cristiano cui avreb-  bero dovuto ispirarsi anche i laici !4.   Il nome di Salvatorelli tornerà ancora nelle edizioni  Einaudi, sempre con grande risonanza, durante la guerra.  Prima di allora, un altro autore della casa che suscitò vasta  eco fu Ivanoe Bonomi, che abbiamo già trovato, nel 1924,  nel catalogo di Formiggini. Il suo Mazzini triumviro della  Repubblica romana, pubblicato nel 1936 e ristampato nel  1940, incontrò, per la sua esaltazione di un personaggio  storico eroicizzato dal fascismo, una favorevole accoglienza  nelle riviste « ortodosse » !, ma poté prestarsi anche ad  una lettura diversa, come era nelle intenzioni dell’autore:  cosî Tagliacozzo mise in risalto, nell’opera, il fatto che « le  preoccupazioni di politica estera e di carattere militare  non impedirono al Triumvirato di dimostrare il suo inte-  ressamento per i problemi sociali » !#; Aldo Ferrari, lo-  dando il lavoro, ricordava che la qualità di uomo politico  dell’autore, il « teorico pit chiaro equilibrato e sistematico  della corrente riformista », era « non un ostacolo bensî un    14 Ibidem.   14 L. Salvatorelli, Pio XI e la sua eredità pontificale, Torino, Einaudi, Cfr. ad esempio «Rassegna storica del Risorgimento », XXIV  (1937), pp. 845-846; «Leonardo», VIII (1937), pp. 28-29; «Rivista  storica italiana », s. V, I (1936), fasc. IV, pp. 101-103; « Meridiano di  Roma », 3 gennaio e 31 gennaio 1937.   14 « Nuova rivista storica », XX (1936), p. 429; contemporaneamente  ‘Tagliacozzo, recensendo il Labriola di Dal Pane, richiamava l’insegnamento  di Labriola come « salutare » in un momento in cui si tendeva a « soprav-  valutare quello che vien comunemente detto il “fattore morale” » (« La  Nuova Italia », VII (1936), p. 261; cfr. anche E. Tagliacozzo, In memoria  di Antonio Labriola nel trentennio della morte, in «La Nuova Italia »,  aiuto » alla ricerca storica !'”; mentre il crociano Edmondo  Cione opponeva l’esaltazione degli « autentici valori morali  del Risorgimento » operata da Bonomi alla tendenza, imper-  sonata da Luzio, ad « una strana “riabilitazione” dei varii  personaggi del mondo reazionario e clericale e talora per-  sino di quello poliziesco e brigantesco », e notava che « il  dramma religioso dello spirito moderno rende di perenne  attualità il pensiero del Mazzini », nel quale sono conte-  nuti « i fondamentali principi della religiosità laica del pre-  sente e dell’avvenire: la fede nel progresso storico, il valore  educativo della libertà, l'esaltazione del senso del dovere  e dello spirito di sacrificio, il senso della missione e della  dignità personali » ‘4: un giudizio che assumeva tutto il suo  significato se confrontato con quello de « La Civiltà catto-  lica », che coglieva nell’opera un « profondo anticristiane-  simo » spiegabile con la « mentalità di antico socialista »  dell’autore !9,   I contatti dell’editore con l’ex esponente del Partito  Socialista Riformista continuarono, ma gli umori della cen-  sura fascista, come quelli dei recensori, si dimostrarono  mutevoli. « L’idea di avere un altro libro Suo, sulla storia  politica del cinquantennio che precede la guerra mondiale,  mi ha entusiasmato », scriveva Einaudi a Bonomi nel no-  vembre 1938; il volume era pronto nel dicembre 1940 e,  affermava l’autore, « esso non tocca periodi... pericolosi,  ma certo illustra l’età liberale di cui ricorda le benemerenze  ed i pregi ». Tuttavia, sebbene giudicata dall’editore opera  « tutta permeata di patriottismo e basata su dati inoppu-  gnabili », La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto  non ottenne nel 1941 il visto della censura, e potrà essere  pubblicata nella collana solo nel 1944, quando l’autore  sarà presidente del consiglio. Sempre a Bonomi si rivolgeva  Einaudi nel dicembre 1937, affermando che « alcune circo-  stanze recenti mi pare abbiano reso nuovamente di attualità  il Diario di guerra di Bissolati » !. Il volume, pubblicato    147 « La Nuova Italia », VIII (1937), p. 80.   14 « La Nuova Italia », X (1939), pp. 220, 222.   14 « La Civiltà cattolica », 89 (1930), vol. I, p. 269.   150 AE, Bonomi. Da notare che, dopo una seconda edizione nel 1940,    258    Le origini della casa editrice Einaudi    nel 1935 in una collana subito abortita, « Ricordi e docu-  menti di guerra », era stato in un primo tempo seque-  strato !, ma non incontrò nemmeno le simpatie che « La  Nuova Italia » aveva riservato a Bonomi: il recensore della  rivista presentava infatti Bissolati come «uno spirito  rivolto al passato, anziché un veggente delle mete future »,  preso da una « visione umanitaristica della guerra » che ren-  deva il Diario « animato dall’innegabile patriottismo del-  l’autore, ma anche da idee che compromisero la condotta.  della guerra nei momenti decisivi » !*.   Il tono della collana conobbe del resto anche aspre  cadute, veri e propri compromessi col fascismo, come ne  I rovesci più caratteristici degli eserciti nella guerra mon-  diale 1914-18 — teso ad esaltare la capacità di ripresa delle  forze militari italiane — del generale Ambrogio Bollati,  direttore della « Rivista coloniale », autore anche, per la casa  editrice, della Enciclopedia dei nostri combattimenti colo-  niali, e, assieme al generale Giulio Del Bono, della Guerra  di Spagna sino alla liberazione di Gijon, i cui toni antico-  munisti furono apprezzati, fra gli altri, da Eugenio Passa-  monti '*. Di impronta nettamente antidemocratica è anche  il Massimo D'Azeglio politico e moralista di Paolo Ettore  Santangelo, autore di altri mediocri studi risorgimentali: un  volume che, accompagnato da un giudizio favorevole del-  l’Accademia d’Italia, presenta fin dall’inizio le sue creden-    Bonomi chiederà a Einaudi, nell'ottobre 1945, una terza edizione del  Mazzini, perché « il libro usci in periodo fascista quando la sua diffusione  trovava ostacoli d’ogni genere. Io poi terrei molto a diffondere quel mio  libro che, in questa ora, avrebbe un significato di attualità » (ibidem).   151 Il Diario fu sequestrato nel giugno 1934 per le sue critiche all’ope-  rato dei comandi militari (ACS, Segreteria particolare del Duce, Carteggio  ordinario n. 528771, sottofasc. 1). Il 2 luglio 1934 Luigi Einaudi, dopo  aver detto di essere stato lui a consegnare il manoscritto del Diario al  figlio, chiese udienza a Mussolini (ACS, Segreteria particolare del Duce,  Carteggio riservato, b. 70).   152 Carmelo Sgroi ne « La Nuova Italia », IX (1938), pp. 300-301.   153 « Rassegna storica del Risorgimento », XXVI (1939), pp. 258-260;  cfr. anche « Leonardo », IX (1938), pp. 66-68. Il 25 gennaio 1938 l’editore  scriveva a Del Bono di essere lieto che il volume sarebbe stato tradotto  in tedesco (AE, Del Bono). Bollati e Del Bono saranno autori de La  campagna germanica în Polonia, Roma, Unione editoriale d’Italia, 1940,  e Bollati de L'Europa contro il bolscevismo, Roma, La Verità, 1942.    259        ziali metodologiche con la difesa della teoria élitaria —  « sono le aristocrazie che dappertutto nella storia hanno  fondato l’ordine nuovo, lo stato saldamente costruito » —  e con la negazione di qualsiasi influenza del fattore econo-  mico nel processo storico, sostenendo che l’idea di nazione  « nasce molte volte come creatura puramente spirituale,  non solo indipendentemente, ma anche in contrasto con  precisi interessi materiali ». E mentre cerca di giustificare  l’« intermittenza di temperamento » di Carlo Alberto, alla  politica mazziniana « astratta » l’autore contrappone quella  di D'Azeglio, del cui carattere « democratico » presenta  un’immagine quanto mai singolare:    L’Azeglio dunque respinge l’idea democratica, non solo nei casi  di urgenza [...], ma anche come dottrina assoluta, che sarebbe as-  surda in teoria e inattuabile in pratica. Egli è democratico in un  senso superiore e più generale, in quanto non crede a privilegi di  nascita e dà per compito allo stato di venir incontro ai bisogni del  popolo, trattando tutti i cittadini su un piede di uguaglianza; è  dunque democratico nel senso costituzionale, più nello spirito che  nella lettera: la prassi democratica, essendo una specie di materia-  lismo e prestandosi facilmente alle mistificazioni, gli è in genere  sospetta 1%,    Tuttavia, con l’apertura a tematiche non italiane —  affrontate sempre con quel taglio narrativo che poteva ren-  derne agevole la lettura anche ai non specialisti —, già  prima della guerra la collana acquista un maggior peso cul-  turale e civile. Se solo con l’opera di Louis Villat su La  Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico (1940) si  raggiunge un solido impianto storiografico che sostanzia la  narrazione dei fatti e in cui hanno largo posto, soprattutto  nelle appendici sullo « stato attuale delle questioni », temi    15 P.E. Santangelo, Massimo D'Azeglio politico e moralista, Torino,  Einaudi, 1937, pp. 16-17, 78, 99, 286. II 6 agosto 1937 Santangelo chie-  deva all'editore di poter apportare alcune correzioni al lavoro, « dietro  amichevole suggerimento di un alto personaggio dell’Accademia d’Italia »  (AE, Santangelo). Luigi Bulferetti criticò la distinzione operata dall’autore  nel Risorgimento, tra «idea astratta » di Mazzini e «azione politica »  dei moderati (« Rivista storica italiana », s. V, III (1938), fasc. II, pp.  n e « Rassegna storica del Risorgimento », XXV (1938), pp. 1584-  economico-sociali — tanto che Carlo Morandi vi vede domi-  nare, «e talvolta in modo troppo esclusivo », le tesi di  Albert Mathiez '* —, si fa ricorso anche a storici non pro-  fessionali, in grado tuttavia di esprimere un orientamentò  politico. È il caso del Talleyrand di Alfred Duff Cooper, già  ministro della guerra del gabinetto britannico, e quindi  Primo Lord dell’Ammiragliato dal maggio 1937 all’ottobre  1938, quando, dopo Monaco, presentò le dimissioni per là  sua politica contraria all’appeasemzent, ed esponente del  gruppo dei « giovani conservatori » nella cui mentalità —  avvertiva l’editore italiano — « si bilanciano una certa spre:  giudicatezza d’idee e una tendenza al positivo e al concreto  nell’applicazione alla vita vissuta ». Egli svolge, sotto le  vesti di una biografia romanzata — in cui peraltro si preoc-  cupa di affermare la necessità che «i cambiamenti nel  metodo di governo siano graduali », e di notare che « gli  uomini di estrema, a qualsiasi partito appartengano, diven-  gono sempre germi di dissoluzione in un organismo poli-  tico » —, un elogio della coerenza di Talleyrand nel porre  « la nazione francese al di sopra degl’interessi particolari  dei regimi che in un certo momento la governano », e pre-  senta il diplomatico francese assertore di una politica di  alleanze fra le potenze capace di portare all’unificazione  europea: lo considera infatti, per usare le parole dell’editore  che fa propria la tesi di Cooper, « come un uomo moderno,  fors’anche come un nostro contemporaneo », poiché le sue  idee « si riportano al problema della pacifica organizzazione  dell’Europa che attende ancora una vera e sicura solu-  zione » !*. Vinciguerra — che pur aveva curato l’opera —  poteva affermare, da un punto di vista strettamente storio-  grafico, che « non si può accettare neanche con riserve » la  tesi « della modernità democratica e pacifista nella politica  estera » di Talleyrand '”, ma dimostrava di non cogliere il    155 « Primato », I (1940), n. 5, p. 24 (siglato CM.).   15% A.D. Cooper, Talleyrand, a cura di M. Vinciguerra, Torino, Einau-  di, 1937 (ediz. originale 1932), pp. VIII, X, 294. Cooper fu autore di  Ceux qui osent répondre è Hitler, après Munich, Paris, Édinions Nantal,  1938.   157 « Nuova rivista storica », XXIV (1940), p. 99.    261        significato politico di un’opera apparsa in italiano in un  anno cruciale per le sorti dell'Europa: messaggio che era  assai esplicito, se da un’altra ottica ideologica il commen-  tatore di « Leonardo » osservava che « la vita del grande  diplomatico è pretesto a ribadire la concezione diremo cosi  ufficiale della politica britannica improntata ad un conser-  vatorismo pacifista di cui sarebbe garanzia imprescindibile  una stretta intesa anglo-francese » !*.   E ancora nel corso della guerra poteva essere accolto  il messaggio di pace affidato al romanzo sul conflitto russo-  giapponese di Frank Thiess, Tsushimza, tradotto nel 1938  sotto gli auspici dell'Ufficio storico della Marina e giunto  nel 1945 all’ottava edizione, che prima dell’attacco all’  URSS suscitò accenti di umana comprensione anche sulle  pagine di « Critica fascista »: 7 Fra quel popolo russo di martiri grigi, nel cui seno covava la  rivoluzione, e questo popolo giapponese di tenaci e sorridenti lavo-  ratori, la simpatia umana del lettore, e fors’anche dell’autore, finisce  col bilanciarsi: e non è forse senza un presago significato che il libro  si chiuda con la visione luminosa del porto di Jokohama, in cui  centinaia di piccoli russi e di bimbi giapponesi giocosamente s’incon-  trano e si sorridono pur senza capirsi ancora!,    6. « Cultura della crisi » e spiritualismo    Nella seconda metà degli anni ’30 uno dei messaggi  più consistenti di cui comincia a farsi portatrice la casa  editrice è tuttavia di altro tipo, e tale da prestarsi a letture  diverse sul piano ideologico e politico. Si tratta di quel filo-  ne spiritualista che si riallaccia alla « cultura della crisi » svi-  luppatasi in Europa dopo il 1929 con svariate manifesta-  zioni, da quelle politiche dei « non conformisti » francesi  che potevano giocare « un ruolo oggettivamente pro fa-    158 Sergio Martinelli in « Leonardo », VIII (1937), p. 406; come  « biografia romanzesca » l’opera era liquidata da Luigi Bulferetti (« Ras-  segna storica del Risorgimento », XXV (1938), p. 1437).  " ; G.A. Longo in « Critica fascista », XIX (1941), p. 119 (15 feb-  raio).    262    Le origini della casa editrice Einaudi    scista » ‘9, a quelle del mondo cattolico, assai più ambigue  perché difficilmente si concretizzavano sul terreno politico,  ma comunque decisamente anticomuniste e antidemocra-  tiche — più ancora che antinaziste —, come nel caso dei  cattolici italiani che individuavano nella Chiesa l’ultimo  baluardo della civiltà, pur senza mettere in discussione il  fascismo !. Anche in Italia questa ondata irrazionalistica,  tesa a mettere in discussione i valori « materiali » della  civiltà contemporanea, fu alimentata in particolare dagli  ambienti cattolici, ma investî anche quelli laici, a indicare  la presenza di un profondo disorientamento e la ricerca di  nuove o antiche certezze: e l’insofferenza per l'ordine costi-  tuito poteva seminare dubbi in un mondo politico, come  quello italiano, in cui il fascismo sbandierava le sue inoppu-  gnabili verità. Il pericolo era avvertito dal regime, se nel  suo ambito si poteva parlare, a proposito della Kulturkrisis,  di manifestazioni « patologiche » della cultura contempo-  ranea, augurandosi che « allo storico futuro non abbiano a  sfuggire le varie e numerose manifestazioni del genere:  perderebbe con esse una delle più eloquenti testimonianze  di quel singolare squilibrio logico e morale che imperversò  in questi anni »!. Motivi spiritualeggianti, talvolta a  sfondo religioso, sono presenti anche nelle edizioni di  Giulio Einaudi, che fra gli scopi della sua iniziativa nel  periodo fascista annovererà anche quello di « contrapporre  all’ottimismo ufficiale un senso profondo e inquieto dei  problemi del momento » !*; ed è significativo che negli  stessi anni Guanda inaugurasse una collana di « Testi per  una religione universale », e che perfino Laterza ne dedi-  casse una agli « Studi religiosi, iniziatici ed esoterici », dove    10 Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce, I. Gli anni del consenso  1929-1936, Torino, Einaudi, 1974, pp. 545-549.   161 Cfr. R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-  1937), Bologna, il Mulino, 1979, cap. IX.   1@ Cosi il « Meridiano di Roma » del 10 gennaio 1937, nella recen-  sione a René Guénon, La crisi del mondo moderno, Milano, Hoepli, 1937  (con prefazione di J. Evola). Sui precedenti italiani di questa tematica cfr.  E. Garin, Gli italiani e la crisi europea, in « Terzo programma » (1962),  n. 3, pp. 168-176.   163 AE, G. Einaudi.    263        circolò il pensiero antroposofico di Rudolf Steiner che tanto  colpi il giovane Eugenio Curiel '#, « Che il mondo attraver-  si al presente un periodo di grave scompiglio, foriero di più  fosche vicende per l’avvenire, non c’è alcun dubbio fra  quanti hanno un uso passibilmente normale delle proprie  ‘facoltà intellettuali », osservava nel 1938 padre Brucculeri  su « La Civiltà cattolica » passando in rassegna alcuni libri  .sulla «crisi odierna » !9: fra questi, La crisi della civiltà  di: Johan Huizinga tradotto da Einaudi nel 1937, che ebbe  una seconda edizione già l’anno successivo.   4. Il pampblet dello storico olandese, dal titolo originario  Nelle ombre del domani, faceva esplicito riferimento alla  crisi del ’29 cui era attribuita « la sensazione della minaccia  di. un tramonto e del progressivo dissolversi della civiltà »  icome mai si era avuta nel recente passato, se non all’inizio  del secolo con « il pericolo di una rivoluzione sociale che  il marxismo faceva balenare di tanto in tanto ». « Vedia-  mo distintamente come quasi tutte le cose, che altra volta  ci apparivano salde e sacre, si siano messe a vacillare: verità  e. umanità, ragione e diritto », affermava accoratamente  Huizinga, la cui analisi della crisi, cosî come le soluzioni  «indicate, presentano elementi di ambiguità che danno ra-  :gione delle letture diverse cui dette luogo. Da un lato si  :scaglia contro il razzismo, contro Sorel « padre spirituale  degli odierni regimi totalitari », contro le filosofie vitali-  «stiche, la dottrina della « autonomia morale dello stato » e  «quella dello « stato-potenza privo d’ogni freno »; dall’altro  la sua critica non è meno dura nei confronti del marxismo,  in quanto osserva che « né il secolo XVI né il principio  dell'Ottocento vide mai minare con sistematica coerenza  l’ordine e l’unità sociale mediante una dottrina quale quella  dell’odio di classe e della lotta di classe », e a questa acco-  muna « la dottrina della relatività della morale, insegnata    ._. +16 Cfr. ora N. Briamonte, La vita e il pensiero di Eugenio Curiel,  Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 20-24.   IS A, Brucculeri, La crisi odierna, in «La Civiltà cattolica », 89  (1938) vol. I, p. 326: accanto a Guénon e Huizinga esaminava Quel che  o e quel che nasce del cattolico Daniel Rops (Brescia, Morcelliana,    ‘264    Le origini della casa editrice Einaudi    sia dal sistema scientifico del materialismo storico, come:  dai sistemi psicologici che derivano da Freud »; accuse  altrettanto dure sono lanciate contro il « superficiale razio:'  nalismo del secolo XVIII », il cui « disastroso effetto » fu  di « sradicare il concetto del servire dalla coscienza popo-  lare », e contro il progresso in generale, aristocraticamente  giudicato una «ingenua » illusione dell’800. Da questa  analisi scaturiva la proposta di un « nuovo ascetismo » —  di cui forse era un’eco parziale il « nuovo umanesimo »  auspicato da Salvatorelli —, che « non sarà un ascetismo:  della negazione del mondo per amore della salvezza celeste,  ma del dominio di sé e di un’attenuata stima del potere e  del godimento » !*: un invito che non poteva trovare d’ac-  cordo « La Civiltà cattolica » che, pur approvando nelle  linee generali la parte analitica del lavoro di Huizinga,  obiettava come la ricerca di « certe verità eterne » non  potesse fare a meno di chi ne era il depositario naturale;  il papato, che con Pio XI si era dedicato « alla difesa della.  nostra civiltà; quindi le sue proteste contro il bolscevismo,  contro il nazismo, contro il governo tirannico del Messico,  contro le nefandezze dei rossi nella Spagna » !”.   Critiche globali al volumetto dello storico olandese  provennero da ambienti culturali diversi: recensendone su:  « Leonardo » l’edizione tedesca, Cantimori, forse già « se-  mi-marxista » — come si dichiarerà più tardi —, ma co-  munque attivamente impegnato nella difesa degli orien-  tamenti politici del regime, lo considerò « lo sfogo di uno:  spirito d’artista individualistico, liberaleggiante, contro  questo mondo moderno, che non gli va », aggiungendo —:    16 J. Huizinga, La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1937 (ediz.  originale 1935), in particolare (citiamo dall’edizione einaudiana del 1962).  Gherardo Casini, direttore generale per la stampa italiana, assicurava  Luigi Einaudi di aver già provveduto ad assicurare la diffusione del saggio  di Huizinga (AFE, Casini). Enzo Paci ha osservato che «l’ideale di  salvezza che Huizinga propone alla civiltà contemporanea è un ideale  etico-razionale nel quale rinascono in una specie di neogiusnaturalismo  le vecchie idee di Grozio. Quest’ideale finisce per fondersi con una conce-  zione cristiana del fine della vita » (Johan Huizinga, in « Terzo program-  ma » Brucculeri, La crisi odierna, cit., p. 330.    265        ma il passo sarà espunto dalla riproduzione di questo giu-  dizio nell’introduzione che Cantimori farà alla nuova edi-  zione einaudiana del 1962 — che « questa patetica laudatio  temporis acti potrebbe anche interessarci, potrebbe essere  utile a chi volesse rendersi conto dello stato d’animo di  tanta parte della odierna cultura europea di fronte alla rivo-  luzione sociale che in Europa si va compiendo, se non si  mischiasse di politica, e a questo modo non irritasse il  lettore di un paese cosî impegnato nella lotta politica e  sociale di oggi come questa nostra Italia » '#. Analogo il  giudizio espresso sulla « Nuova rivista storica » da Mario  M. Rossi, che lo defini « lo sfogo pit o meno poetico di un  laudator temporis acti, come in mille epoche già ne abbiamo  uditi », e lo avvicinò a Dawson, ad Huxley e alle ultime  teorie sulla morale di Bergson !. Anche i giovani di « Cor-  rente » dichiararono di non consentire con la « speranza che  la scienza possa divenire saggezza », in quanto « non dal  sapere, ma dal concreto tumulto della vita nascono i pro-  blemi e le soluzioni » ‘*, e quelli de « La Ruota », pur  vedendo nel libro il « prodotto spontaneo di un cuore sin-  cero », vi colsero « opinioni superate e irrigidimenti dottri-  nari tutt'altro che accettabili » !, D'altro lato è interessante  notare come, nell’ambito di un giudizio sostanzialmente  positivo, in ambienti culturali opposti si cogliesse l’occa-  sione per polemizzare con l’idealismo e lo storicismo cro-  ciano: « La Civiltà cattolica » criticò infatti il « plauso  della filosofia tedesca » fatto da Huizinga, che invece  « avrebbe potuto rintracciare nelle costruzioni filosofiche  alemanne, nel kantismo particolarmente e nell’hegeliani-  smo, le scaturigini principali e remote della decadenza del  pensiero, dello scetticismo morale, della autonomia della  politica e della statolatria e di altrettali degenerazioni,  contro le quali egli scrive delle pagine brillanti e quanto    168 « Leonardo », VII (1936), p. 383.   16 « Nuova rivista storica », XXIII (1939), p. 145.   170 G.M. Bertin, La crisi della cultura e il problema della scienza, in  « Corrente di vita giovanile », 15 febbraio 1940.   I7l M. Cesarini ne « La Ruota », II (1938), n. 1, p. 100 (era esami-  nato anche H. Keyserling, La rivoluzione mondiale e la responsabilità  dello spirito, Milano, Hoepli,  mai proficue » !; e su « La Nuova Italia » Alfredo Parente,  dopo aver giudicato il libro « altamente pregevole come  sincera espressione di un vivo travaglio e di preoccupazioni  e turbamenti che sono preoccupazioni e turbamenti dell’in-  tera umanità presente », ne traeva spunto per affermare che  « la ormai diffusa concezione idealistica, che il male e l’er-  rore giustifica e redime nell’ordine della vita spirituale, e  il congiunto ottimismo, che non indulge alla disperazione e  ispira la più estrema fiducia nella vittoria definitiva del  bene, possono essere un pretesto di fatalistica inoperosità  nella coscienza degl’imbecilli e dei neghittosi, e un istru-  mento di malizia nelle mani dei disonesti che da quella  concezione filosofica credono di poter trarre la giustifica-  zione e l’approvazione del loro qualsiasi operare »; e,  dichiarandosi d’accordo con Huizinga nel veder conculcati  i valori morali, si spingeva in un invito all’azione assai  distante dalla proposta di un « nuovo ascetismo »:    sappiamo che gli animi dotati della sensibilità morale dello scrittore  olandese, silenziosi custodi pure in tempo di burrasca e di travolgi-  menti dei valori dello spirito, son molti, nonostante le loro voci  siano sommerse da un assai crudo e talora bestiale clamore dei  popoli. Soltanto non bisogna adagiarsi e cullarsi in quella certezza,  col rischio che il ritorno della serenità e della luce sia ritardato dal-  l’opera di coloro, cui quella speranza non lusinga e altri meno eletti  ideali stimolano o imbestialiscono !?3,    « Ma l’autore non è né uno storico, né un politico, né  filosofo: è, mi pare, un buon cattolico » che sorvola sui  problemi della politica e dello Stato, scriveva a Giulio  Finaudi, dopo aver letto Huizinga, il meridionalista di tra-  dizione salveminiana Tommaso Fiore, invitando l’editore  a «pubblicare storia in concreto » !*. Accenti spirituali-    172 A. Brucculeri, La crisi odierna, cit., p. 330.   173 « La Nuova Italia », IX (1938), pp. 324, 326.   174 AE, Fiore, 6 gennaio 1938; come esempio di « storia in concreto »  il 26 dicembre 1937 Fiore aveva proposto la traduzione di Richard  Freund, Watch Czechoslovakia! (1937): «Non è un libro antifascista e  non si ‘può dire una difesa della democrazia (molto meno della Cecoslo-  vacchia), ma si capisce che la difesa della democrazia è un sottinteso e le  simpatie per la borghesia ceca e pel “Socrate di Praga” sono naturali e  profonde ». Fiore, nel ’38, auspicava anche « manuali di geografia politica,  fatti senza aridezza, in cui il senso politico sia profondo » (ibidem).    267        stici, di chiaro stampo cattolico, riappaiono invece ne La  formazione dell’unità europea di Christopher Dawson. L’au-  tore di Progress and Religion (1929), di cui « La Civiltà  cattolica » aveva fatta propria « l'impressione di vedere già  sorgere una nuova società, che disconoscerà ogni gerarchia  di valori, ogni disciplina intellettuale, ogni tradizione sociale  e religiosa, ma che vivrà per l’attimo presente in un caos  fatto unicamente di sensazioni » !*, era stato già indicato da  Mario M. Rossi, sulle pagine della « Nuova rivista storica »,  come uno degli artefici di quelle « sintesi storiche », « fon-  date su una determinata dottrina filosofica o religiosa »,  che, sempre più frequenti « a mano a mano che l’Europa  va dissolvendosi nel caos », « sono un prodotto di crisi e  non dell’esame di una situazione solida e delineata » !*.  Oppositore del progresso scientifico che gli appariva una  religione laica « che ha voluto sostituire la vera unità cul-  turale europea — il Cristianesimo », anche nel volume  einaudiano Dawson considera la Chiesa elemento unificante  della storia europea fra V e XI secolo, in linea con tutta la  componente cattolica della « cultura della crisi », intenta a  costruire « una filosofia della storia che tendeva a gettare  ponti tra i secoli, ridotti ad attimi di un fluire storico di  smisurato respiro attorno alla vita della Chiesa » !7.   Dopo aver dichiarato, con toni spengleriani, che « Azio,  come Maratona e Salamina, fu uno scontro dell’Oriente e  dell’Occidente, una finale vittoria degli ideali europei di  ordine e di libertà sopra il despotismo orientale » — un’af-  fermazione che ritroveremo nelle pagine iniziali del Profilo  della storia d’Europa di Salvatorelli e, ancora più puntual-  mente, nel corso sulla Storia dell’idea di Europa tenuto nel  1943-44 da Chabod —, Dawson faceva una professione di  fede storiografica e ideologica insieme, sostenendo che  « l'influsso del cristianesimo sulla formazione dell’unità  europea è un notevole esempio del modo come il corso dello  sviluppo storico viene modificato e determinato dall’inter-    175 A. Brucculeri, La civiltà e le sue moderne involuzioni, in «La  Civiltà cattolica », 90 (1939), vol. III, p. 120.   176 « Nuova rivista storica » Moro, La formazione della classe dirigente cattolica, cit., p. 449.    268    Le origini della casa editrice Einaudi    vento di nuovi influssi spirituali », in quanto esiste sempre  nella storia « un elemento misterioso e inspiegabile, dovuto  non solo all’influsso del caso o all’iniziativa del genio indi-  viduale, ma anche alla potenza creatrice delle forze spiri-  tuali ». Su questa base l’autore sviluppa il suo ragiona-  mento, teso a dimostrare che la Chiesa non fu coinvolta  nella caduta dell'impero di Occidente perché « era diven-  tata una istituzione autonoma che possedeva il suo prin-  cipio d’unità e i suoi propri organi d’autorità sociale. Essa  era in grado di diventare contemporaneamente l’erede e  rappresentante dell’antica cultura romana, e la maestra e la  guida dei nuovi popoli barbarici »; cosi all’inizio del secolo  VIII, quando l’invasione musulmana aprî un’« epoca di  universale rovina e distruzione », « vennero gettate le fon-  damenta della nuova Europa, da uomini come San Gregorio,  che non avevano idea di edificare un nuovo ordine sociale,  ma siccome il tempo stringeva, si travagliavano per la sal-  vezza degli uomini in un mondo moribondo. E fu proprio  quest’indifferenza per i risultati temporali che diede al  papato l’energia di diventare, nella decadenza generale  della civiltà europea, un centro di riorganizzazione delle  forze della vita ». Al termine di questo processo, il secolo  XI vide « l’incorporazione di tutta l’Europa occidentale  nella cristianità », e l’inizio di « un moto di progresso che  dura poi quasi senza interruzione fino ai tempi moderni »;  la logica conclusione del volume era perciò un invito a  proiettare nel futuro la tradizione culturale ricostruita in  sede storica:    Ai nostri giorni l'Europa è minacciata del crollo della cultura  aristocratica e laica su cui era fondata la seconda fase della sua unità.  Sentiamo di nuovo il bisogno di un'unità spirituale o almeno mo-  rale [...]. Ma è bene ricordare che l’unità della nostra civiltà non  poggia soltanto sulla cultura laica e sul progresso materiale degli  ultimi quattro secoli. Ci sono in Europa tradizioni più profonde di  queste, e dobbiamo risalire oltre l’umanesimo e oltre i trionfi super-  ficiali della civiltà moderna, se vogliamo scoprire le fondamentali  forze sociali e spirituali che hanno lavorato alla formazione del  l’Europa Dawson, La formazione dell’unità europea dal secolo V all'XI,     « Non ci manca che la preghiera a Notre-Dame de  Lourdes, perché il Dawson ci appaia come un maresciallo  Pétain della cultura », osservava sarcasticamente, nel 1940,  il «libertino» Arrigo Cajumi, ormai distaccato dall’am-  biente della casa editrice ‘, Ma sempre nel 1940, quando  anche l’Italia era entrata in guerra, Mario Delle Piane  riconosceva a Dawson il merito di aver fatto rivivere  « un’epoca lontana ed oscura e, pur tuttavia, attualissima,  oggi che si assiste, pare, alla lotta di due civiltà ed alla fine  di una di esse», anche se aggiungeva, idealisticamente,  che « la civiltà è una e imperitura, non essendo altro che  il concretarsi dello sviluppo del libero spirito umano: cioè  storia » !®. Più nettamente si esprimeva, pur mantenendosi  sul piano della discussione storiografica, Gino Luzzatto,  che alla storia delle idee di Dawson contrapponeva il Mao-  metto e Carlomagno di Henry Pirenne — uscito da La-  terza nel 1939 —, mosso « dall’osservazione di un fatto  economico », e, giudicando « alquanto azzardato » il ragio-  namento dello storico inglese, si chiedeva « se la mirabile  fioritura della vita cittadina fra il XII ed il XV secolo  non abbia avuto per la formazione della moderna civiltà  europea un’importanza assai maggiore dei rapporti fra  Chiesa ed Impero » 15.   Il tema del contrasto fra civiltà materiale e aspirazioni  spirituali, presente in Huizinga e Dawson, circola proble-  maticamente anche nei romanzi dei « Narratori stranieri  tradotti », in particolare in quelli di autori inglesi dell’età    traduzione di C. Pavese, Torino, Einaudi, 1939 (ediz. originale 1932), in  particolare pp. 8, 45, 188, 276-277, 282-283. Anche per Chabod ad  opera del pensiero greco si era formata « una Europa che rappresenta lo  spirito di “libertà”, contro il “dispotismo” asiatico » (Storia dell’idea  d'Europa, a cura di E. Sestan ed A. Saitta, Bari, Laterza, 1961, p. 16).   17? A. Cajumi, Pensieri di un libertino, presentazione di V. Santoli,  Torino, Einaudi, 1970, p. 183.   180 « Rivista storica italiana », s. V, V (1940), p. 425. Secondo Ga-  briele Pepe, per Dawson il mondo europeo « sente più vivo il bisogno di  un ordine culturale nuovo, fondato su un pivi intimo contatto con le  civiltà dei popoli dell’Oriente e di tutto il restante mondo, che non rien-  trano nei quadri della nostra tradizione culturale » (La nascita dell'Europa,  in « Oggi », 24 febbraio 1940).   181 « Nuova rivista storica », XXIV (1940), pp. 262-264 (siglato G.).    270    Le origini della casa editrice Einaudi    vittoriana la cui funzione, in questi anni di crisi di valori,  può apparire analoga a quella svolta a cavallo del secolo  dal Tolstoj fustigatore del « progresso meccanico » !. Di  Walter Pater, fin allora conosciuto in Italia solo come « ca-  poscuola di un estetismo immoralistico » che sarebbe  emerso dai suoi studi sul Rinascimento, Einaudi presenta  il romanzo del 1885 Mario l’epicureo, in cui l’autore in-  tende « to show the necessity of religion », in un senso  assai diverso dalla difesa della « religione laica » fatta nel  1882 dal Marc Aurèle di Renan. Il protagonista, la cui vi-  cenda è ambientata ai tempi di Marco Aurelio — espres-  sione di una civiltà « arida » paragonata da Pater a quella  materialistica dell’800 —, abbraccia dapprima « un epicu-  reismo elevato a disciplina morale, che ha per suo fine non  il godimento, sia pure raffinato, ma la perfezione dell’es-  sere intimo, “culto reso alla luce dell’intelletto” », per  approdare infine al cristianesimo, come scrive la curatrice  del volume: « Il cristianesimo fervido e sereno di quei  primi tempi eroici, scevri di fanatismo, l’esultanza invulne-  rabile dei credenti, la loro speranza serena, gli mostrano il  sorgere di un’umanità dotata di quelle qualità morali di cui  il mondo pagano è privo, ma che pure non rinnega l’amore  alla vita e alla bellezza » !*. « Romanzo filosofico », lo  qualificherà Beniamino Dal Fabbro recensendolo positi-  vamente su « Primato », in cui tuttavia «il significato  dottrinario sembra soverchiato da un senso religioso in-  teso liricamente ». Lo stesso Dal Fabbro citava le edizioni  einaudiane, entrambe del 1939, de La storia di Henry  Esmond di Thackeray e del David Copperfield di Dickens  tradotto da Pavese, per coglierne « la contemporaneità in  ciò che fu chiamato il “compromesso vittoriano”, saggia  mistura di borghesia e di cristianesimo, di calcolate ribel-  lioni e di più comode acquiescenze » !*.   Materia e spirito si oppongono e si confondono anche    182 Cfr. G. Turi, Aspetti dell’ideologia del Psi (1890-1910), in « Studi  storici », XXI (1980), p. 85 n. 102.   183 W. Pater, Mario l’epicureo, traduzione di L. Storoni Mazzolani,  Torino, Einaudi, 1939, pp. 9, 13-14.   184 « Primato », I (1940), n. 1, p. 14, e «Oggi», 4 novembre 1939.    271        in Cosi muore la carne di Samuel Butler, un romanzo in  gran parte autobiografico ambientato nell’età vittoriana, in  cui il curatore notava « la ricerca continua e affannosa di  una fede, in grado di sostituire la religione tradizionale »,  e « l’ingenua fiducia accordata a ogni nuova teoria, la quale  non tardava ad abbandonare i precisi limiti scientifici per  confondersi in un alone religioso », la ribellione di Butler  al positivismo e il suo invito agli uomini di liberarsi dal  peccato e dal dolore amando « il vero dio » !*. Dal romanzo  traeva spunto il liberalsocialista Vittorio Gabrieli per pre-  sentare la figura dell’autore su « Civiltà moderna », e met-  tere in luce che nell’età vittoriana, in un momento in cui  « si accentua e si propaga il dissidio tra sentimento religioso  e spirito scientifico, misticismo e razionalismo », nasceva  in Butler, cosî come nel protagonista del romanzo, la satira  della società, della scuola, della famiglia, della religione  tradizionale, e il suo tentativo di conciliare la scienza con  la religione: di qui, in lui, una «curiosa mescolanza di  immanenza razionalistica e di spiritualità profonda e fan-  tasia suggestiva », e, in contrasto con la visione materia-  listica dell’universo fornita da Darwin, « l’affermazione  dell’attività dello spirito sulla materia, della libertà umana,  del progressivo scoprirsi d’un ordine nell’universo, un prin-  cipio vitalistico ed una forza creativa, sostituendo cosî al  meccanismo della selezione naturale una finalità, un dive-  nire teleologico, che effettivamente collima con una conce-  zione religiosa » !,   In questo contesto si spiega come nel 1938 Aldo Capi-  tini, esponente di un liberalsocialismo dalle forti venature  religiose, si rivolgesse a Einaudi per proporgli la pubblica-  zione dell’epistolario di Michelstaedter, un autore che  Capitini « scopri » negli anni ’30 e che tanta influenza  ebbe sui suoi Elementi di esperienza religiosa, cosi come    185 S. Butler, Cost more la carne, prefazione e traduzione di E. Gia-  Dio, Torino, Einaudi, 1939, pp. VII, IX (citiamo dalla seconda edizione  el 1943).  186 V. Gabrieli, Presentazione italiana di S. Butler, in « Civiltà moder-  na », XII (1940), pp. 132, 134-135. Tommaso Landolfi coglieva invece nel  romanzo « un'impressione di triste aridità » (« Oggi », 13 gennaio 1940).    272    Le origini della casa editrice Einaudî    su altri intellettuali che negli anni fra le due guerre ne.  ripresero la riflessione sulla « situazione » umana, sui  valori della morale e della fratellanza; di lui, ricorderà  Capitini, lo aveva colpito « l’antiretorica, quel tipo di esi-  stenzialismo, che poteva divenire supremo impegno pratico,  come poi mi è stato confermato dall’esame dell’epistolario  manoscritto, dall’interesse che egli ebbe negli ultimi suoi  anni per i Vangeli; insomma mi pareva esatto considerarlo.    come la premessa di una tensione pratica etico-religiosa » !”.    Carlo Michelstaedter — scriveva infatti a Einaudi — ha portato.  nella cultura italiana un rigore insolito nell’esigenza dell’assoluto.  Egli spicca in confronto di molti suoi coetanei della « Voce » che  furono morbidi e, prima o poi, arrendevoli. L'elemento intransigente  e tragico difetta troppo nella nostra spiritualità perché non ne sia  desiderabile l’innesto. Le riserve sul pensiero e sulla decisione del  Michelstaedter [morto suicida nel 1910] non spengono l’importanza  che egli ha per quelli che oggi ascoltano voci perentorie e disperate  per vincere la faciloneria. Cresce l’interesse per lui; sta diventando  un punto di riferimento, anche per chi comprende che si deve andare  oltre e ricostruire ma su serie rovine !88,    Dubbi o disorientamenti, tendenze spiritualistiche ed  esperienze religiose, anche se non univocamente contraddi-  stinte, o recepite, sul piano civile, venivano cosî confe-  rendo alla casa editrice la funzione di stimolo alla rifles-  sione, a non affidarsi alle « certezze » del regime proprio  nel momento in cui ci si avvicinava alla guerra.    7. Una cultura eclettica: i « Saggi »    Dubbi e inviti alla riflessione si accompagnano tut-  tavia, ancora in questi anni, alla difficoltà di attestarsi su  una linea culturale ben definita, che si manifesta in una    187 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, cit., p. 53. Sulla fortuna di  Michelstaedter tra le due guerre cfr. E. Garin, Intellettuali italiani del  XX secolo, cit., pp. 102-103.   18 AE, Capitini (17 agosto 1938). L'editore propose invece a Capitini  di scrivere un libro su Michelstaedter; nel 1938 Capitini propose anche  Ends and means di Aldous Huxley (1937).    273        inquieta ricerca di « novità »: ne è testimonianza precipua  la collana dei « Saggi », quella di maggiore diffusione, che  affronta temi disparati secondo ottiche diverse, dimostrando  talvolta l’insofferenza verso i canoni della cultura fascista  ma, al tempo stesso, il persistere di un eclettismo che  smorza i tentativi innovatori della casa editrice.   I « Saggi » erano stati inaugurati nel 1937 da Voltaire  politico dell’illuminismo di Raimondo Craveri, severamente  giudicato da « Giustizia e Libertà » !° incapace di cogliere  gli elementi caratteristici di un’opera che, in linea con  l’interesse per il pensiero settecentesco de « La Cultura »  e di Salvatorelli, si richiamava agli studi più recenti, in  particolare a quelli di Dilthey e di Cassirer negatori della  taccia di antistoricismo mossa al secolo XVIII, per svol-  gere una critica trasparente dell’idealismo e della con-  cezione attualista dello Stato:    Le idées claires che l’illuminismo ha amato — osservava infatti  l’autore —, giovano forse a riportatci in più spirabil aere di quello  saturo di aberrazioni mentali mascherate di hegelismo ed ammantate  di dialettica d’oggigiorno [...]. Il teorico del dispotismo illuminato  diverrebbe ora il nemico d’ogni statolatria e d’ogni anarchia ed, in  quanto fautore della tolleranza, l’avversario principe dello Stato  provvidenzialmente onnipresente ed onniagente. Sul terreno teorico  Voltaire scende in campo contro gli epigoni dell’hegelianismo !%.    L’anno successivo appariva il Profilo di Augusto di  Ettore Ciccotti, dove il rifiuto di ogni glorificazione e attua-  lizzazione del personaggio biografato, proprio quando la  sua figura era ufficialmente celebrata dal fascismo — alla  ricerca di legittimazioni imperiali — in occasione del bimil-  lenario della nascita dell’imperatore romano, appariva  evidente fin dalle dichiarazioni metodologiche iniziali in    189 « Libro di eccellenti intenzioni, ma di esito abbastanza infelice [....]  l’abuso di filosofia del Craveri lo porta a dedicare l’intero suo libro al  sistema filosofico di Voltaire, che era cosa da trattare in quattro pagine  [...]. Le sole cose sensate ci paiono essere le riflessioni sul despotismo  illuminato, e il suo carattere apolitico, la indifferenza di Voltaire per lo  Stato e il suo ottimismo per la libera attività nella società esistente »  (« Giustizia e Libertà », 23 aprile 1937).   190 R. Craveri, Voltaire politico dell'illuminismo, Torino, Einaudi,  1937, pp. 13-14, 19.    274    Le origini della casa editrice Einaudî    cui l’autore, riecheggiando, anche se in forma più blanda,  gli interessi economico-sociali che ne avevano caratterizzato  la produzione a cavallo del secolo, affermava che gli uomini  dovevano essere collocati « in relazione all'ambiente e al  tempo », « onde non si tratta di apoteosi o condanne, di  glorificazioni od esecrazioni; e piuttosto, o meglio, di  cercare di comprendere come e per quali vie e tra quale  varia cooperazione e con quali effetti sociali gli eventi si  svolsero e si conclusero, e con quali prospettive e signifi-  cato »; ma si limitava in realtà ad una narrazione puramente  cronachistica, in cui spicca un solo giudizio dal trasparente  significato politico, che, ancora una volta, la « Nuova  rivista storica » non mancava di rilevare: « Gli autocrati,  d’ordinario, dovendo farsi perdonare la confiscata libertà  e il potere assoluto, ricorrono a miraggi di conquiste, onde  lampeggiano a’ soggetti beneficii spesso sognati od effimeri  e al dominatore ancor più effimero prestigio: quindi la  guerra » !. Distante dalla cultura idealistica era anche l’in-  terpretazione psicanalitica proposta dallo psichiatra spa-  gnolo Gregorio Marafion, che intendeva mettere in luce  le qualità umane dello scrittore ginevrino Henry Amiel  sulla base di una concezione relativistica della morale,  secondo la quale « le cose non sono quasi mai assoluta-  mente buone o cattive, e l’efficacia loro, positiva o negativa,  dipende pi dall’orecchio di chi le ascolta che dal labbro  di chi le pronuncia » !,   Una linea diversa prevale invece nei saggi dedicati  alla letteratura italiana, nonostante la presentazione della  figura inquieta e non conformista di Tommaseo, di cui  Raffaele Ciampini mette in luce, nel Diario intimo, il lace-    191 E, Ciccotti, Profilo di Augusto, Torino, Einaudi, 1938, pp. 13-14,  61-62; cfr. la recensione di Giovanni Costa in « Nuova rivista storica »,  XXII (1938), pp. 406-407. Cfr. anche M. Cagnetta, Antichisti e impero  fascista, Bari, Dedalo, 1979, p. 133. Nel giugno 1938 Ciccotti propose  all’editore la ristampa de La guerra e la pace nel mondo antico del 1901,  ma Einaudi gli contropropose un saggio sui Gracchi (AE, Ciccotti).   192. G. Marafion, Arziel, o della timidezza, traduzione di M. F. Canella,  Torino, Einaudi, 1938, (ediz. originale 1932), p. XV; Giansiro Ferrata  osservò che il libro « manca, del tutto, di sensibilità poetica e psicolo-  gica » (« Oggi » rante contrasto fra il richiamo dei sensi e quello della reli-  gione, mentre, presentando la Cronichetta del Sessantasei  dello scrittore dalmata, ne sottolinea, accanto all’attacca-  mento alla Chiesa, la convinzione federalista, all’origine  di quella «critica troppo spesso genialmente e perfida  mente malevola » che investe in primo luogo i protagonisti  « piemontesi » del processo di unificazione, Cavour e Vit-  torio Emanuele ‘*, suscitando ovviamente lo sdegno della  « Rassegna storica del Risorgimento » — «che giova il  conoscere tanta ombra, quando alla storia si deve piuttosto  chiedere tanta luce? » !*. Preoccupazione precipua dell’e-  ditore appare comunque la difesa del crocianesimo, testi-  moniata anche dal suo fitto carteggio con quel Luigi Russo  che su « La Cultura » Cajumi aveva duramente stroncato !*  Nella raccolta di saggi su Carducci di Tommaso Parodi,  Antonicelli mette in evidenza la vicinanza dei giudizi espres-  si dall’autore e da Croce, entrambi mossi dalla preoccu-  pazione di distinguere l’uomo dall’artista, che in Parodi si  esprime nella sufficienza con cui tratta l’interesse del poeta  per la tecnica filologica, cosî come la sua fase « socialista »  e anticlericale, per concludere che Carducci è « poco fe-  lice [...] quando cerca argomento nella storia più recente,  ove facilmente soverchiano in lui le passioni pratiche, e  allora gli s’intorbida la serenità lirica, mancandogli lo  sfondo epico della lontananza » !*. Il timore di non con-    19 N. Tommaseo, Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino,  Einaudi, 1938, e Id., Cronichetta del Sessantasei, a cura di R. Ciampini,  Torino, Einaudi, 1939, pp. 49-50, 78: Tommaseo, osservava Ciampini,  « vedeva e concepiva l’unità come una oppressione dal forte esercitata sul  debole, come un soffocamento dei vari germi locali. Il Piemonte vincitore  in Italia, gli appariva un arrogante dominatore: per lui, il Piemonte non  vuole fare l’Italia, ma vuole conquistare a proprio profitto l’Italia ».   19 Piero Zama, in «Rassegna storica del Risorgimento », XXVII  (1940), p. 1052.   195 Il 12 febbraio 1934 Russo proponeva una serie di volumi miscel-  lanei sugli studi italiani del ’900: due sulla storia e la filologia (curati da  lui), due sugli studi filosofici, giuridici ed economici (curati da De Rug-  giero e Luigi Einaudi), uno sulle scienze naturali e matematiche (curato  da Enriques); nel giugno 1937 accettava di scrivere un volume sul Per-  siero politico di Vittorio Alfieri (AE, Russo).   1% T. Parodi, Giosue Carducci e la letteratura della nuova Italia,  saggi raccolti da F. Antonicelli, Torino, Einaudi, 1939, pp. XI-XII, XVII  XVIII, 8, 12, 81; recensendo il volume Enrico Falqui osservava che « un    276    Le origini della casa editrice Einaudi    traddire Croce è ancora pit esplicito nella vicenda della  pubblicazione dei saggi sugli Scrittori francesi dell’Otto-  cento di De Lollis, un debito dovuto alla tradizione sulla  quale si era formato il primo nucleo della casa editrice:  Giulio Einaudi ne aveva inizialmente affidata la cura a  Cajumi, raccomandandogli di evitare toni anticrociani tali  da provocare una stroncatura da parte della « Critica »;  ma l’ex direttore de « La Cultura » aveva dichiarato di  non poter accettare la « censura crociana », aggiungendo  che «le colpe e le ipocrisie crociane verso De Lollis (e  non è solo parer mio, ma anche dei vecchi delollisiani come  Trompeo) devono a/fine venire documentatamente in luce ».  Dopo aver inutilmente proposto dei tagli alla prefazione  di Cajumi per togliere gli « accenni più violenti all’idea-  lismo e alla filosofia in genere », l’editore ne affidò quindi  la cura al pi fidato Vittorio Santoli '”, che nell’introdu-  zione dichiarava « decisivo » l’incontro di De Lollis con  Croce, mettendo in luce, nel primo, il riconoscimento  dell’insufficienza dell’indagine filologica secondo la quale  « ogni poeta è l’età sua più qualche cosa che è tutto suo »;  ‘e concludeva estendendo i legami fra Croce e De Lollis alle  riviste da loro dirette: « della Cultura si può tranquilla-  mente dire ch’essa, insieme alla Critica, è stata la rivista  che più ha contribuito ad avviare la mentalità universitaria  italiana dal tecnicismo all’umanesimo, da certe angustie pae-  sane ad una universalità di sguardo nella quale era però sem-  pre riconoscibile il tranquillo orgoglio d’essere “ah si! di  gran signori” » !*. Ma, a testimoniare l’intersecarsi di linee  diverse, nel 1939 la « Nuova raccolta di classici italiani an-  notati » diretta da Santorre Debenedetti — costretto dalle  leggi razziali ad abbandonare l’insegnamento universitario    po’ pit di peso dato alla filologia nel giudizio sur un’opera letteraria e  poetica conferirebbe alla critica idealistica quella aderenza al fatto arti-  stico la quale, da ultimo, si risolve in una maggior comprensione dell’opera  stessa » («Oggi », 17 giugno 1939). Nel ’39 Antonicelli accettava din  Einaudi l’incarico di curare un'antologia della letteratura italiana in otto  volumi (AE, Antonicelli).   197 AE, Cajumi (29 e 30 marzo, 9, 10 e 15 aprile 1938).   1% C. De Lollis, Scrittori francesi dell'Ottocento, con un saggio biogra  fico di V. Santoli, Torino, Einaudi si inaugurava con le Rizze di Dante commentate, in  senso non certo crociano, da Gianfranco Contini, e che  pur Luigi Russo giudicò « opera fondamentale » che « se-  gna una data nella storia degli studi e delle interpretazioni  dantesche » !°.   Al tempo stesso, l’opera di sprovincializzazione della  cultura italiana cui abbiamo già accennato a proposito della  « Biblioteca di cultura storica », iniziava nel 1938 anche  nei « Saggi »: l’Autobiografia di Alice Toklas di Gertrude  Stein — un vivace affresco della cultura d’avanguardia  europea dell’inizio del secolo, da Picasso a Matisse, da  Henry James a Hemingway —, permetteva al traduttore,  Pavese, di cogliere i debiti dell’autrice verso Walt Whitman  nella « contemplazione ironica e insieme intenerita di un  mondo reale, fuori d’ogni troppo compiaciuto interesse per  i procedimenti dell’arte » e in « quel conturbante realismo  della vita subconscia che resta a tutt’oggi il pit vitale  contributo dell'America alla cultura » ?°, motivi non estra-  nei alla ricerca stilistica dello scrittore piemontese. Nello  stesso anno era inaugurata la collana « Narratori stranieri  tradotti » in cui, scriveva l’editore, « dovrebbero entrare,  oltre ai classici, solo scrittori universalmente riconosciuti  come eccellenti » ?". Nata per impulso di Ginzburg —  che con estremo puntiglio filologico ne seguirà le edizioni  anche dal confino di Pizzoli — e con l’apporto di Pavese,  la celebre collana dalla copertina azzurra offrî, sulle tracce  della Slavia — da cui riprese alcuni titoli russi —”,  traduzioni integrali di testi molti dei quali mai fin allora  conosciuti in Italia nella loro completezza, ad opera di  traduttori d’eccezione: accanto a Ginzburg e a Pavese,  Ettore Lo Gatto, Alberto Spaini, Pietro Paolo Trompeo,  Piero Jahier, Massimo Mila, Camillo Sbarbaro, per arri-  vare, nel 1946, alla prima traduzione di Proust a cura di    19 Russo a Einaudi, 11 dicembre 1939 (AE, Russo). Sul direttore della  collana cfr. ora L. De Vendittis, Santorre Debenedetti tra positivismo e  idealismo, in « Studi piemontesi », VIII (1979), pp. 3-25.   20 Ora in C. Pavese, La /etteratura americana, cit., pp. 166-167.   201 Einaudi a Umberto Morra, 8 maggio 1939 (AE, Morra).   2 Cfr. AE, Polledro.    278    Le origini della casa editrice Einaudi    Natalia Ginzburg. Il lettore italiano venne cosî a contatto  soprattutto con i capolavori del romanzo psicologico otto-  centesco, stimolo a riflessioni su vicende e passioni al di  sopra delle contingenze storiche, non senza talvolta, attra-  verso la guida delle introduzioni, riferimenti indiretti  all'attualità.   Gli interessi e i suggerimenti dei curatori sono ovvia-  mente diversi: mentre Lo Gatto antepone nell’Oblòmov  di Gonciaròv il valore artistico rispetto a quello sociale ?%,  Pavese coglie in Tre esistenze della Stein « un primo esem-  pio perfetto di quella che sarà ricerca costante della nar-  rativa americana del nuovo secolo: un mondo fantastico  che sia la realtà stessa, colta nel suo farsi espressivo », un  giudizio non solo estetico che Mario Alicata puntualizzerà  evidenziando la descrizione della provincia americana « nel-  la sua grama miseria, nella sua disperata solitudine », per  cui « il realismo metafisico della Stein sempre volutamente  si nega ad ogni illuso sentimentalismo » ?*. Nei romanzi  di Dostojevskij pubblicati durante la guerra Ginzburg  mette invece in evidenza, pur accanto alle contraddizioni  della « filosofia » dell’autore, il messaggio umano del prin-  cipe Myskin, « assolutamente buono » e non per questo  vinto, la cui figura anima « un libro consolante e vivifica-  tore come pochi altri libri venuti dopo il Vangelo », e, nei  Demoni, la critica di Dostoevskij — che restò tuttavia  « lontano da ogni apologia dell’ordine esistente » — verso  i risultati, e non verso le « ragioni » dei rivoluzionari contro  la società, e, come tema dominante, l’inquieta ricerca della  fede ?*. E, mentre nel 1942 è presentato come «la tra-  gedia d’un Amleto americano » e una sofferta « polemica  contro l'umanità » il Pierre o delle ambiguità di Melville,  che Pratolini considera precursore di Meredith, James e  Conrad, « una filza di nomi che potrebbe continuare, prove  alla mano, fino a comprendere autori che respirano l’aria    23 I. Gonciaròv, Oblòmov, prefazione e traduzione di E. Lo Gatto,  Torino, Einaudi, 1938 (II ediz. 1941), p. VII.   2% C. Pavese, La letteratura americana, cit., p. 169; recensione di  Mario Alicata in « Leonardo », XI (1940), p. 174.   25 Ora in L. Ginzburg, Scritti, di questa lunga giornata di guerra, da una parte e dall’altra  delle trincee » ?*, la difesa dei valori dell’uomo che trascen-  dono sistemi politici o contingenze belliche, e la speranza  di una fratellanza universale, traspaiono, sempre nel 1942,  da Guerra e pace, dove « guerra è il mondo storico, pace il  mondo umano », osserva Ginzburg, quel mondo umano  che « interessa ed attrae particolarmente Tolstoj soprat-  tutto perché egli è convinto che ogni uomo — di ieri, di  oggi, di domani — valga un altro uomo », e che trova la  sua esaltazione nel finale intimistico e famigliare del ro-  manzo, dove è descritta « quella felicità che può far disto-  gliere lo sguardo di un giusto da un uomo ucciso ingiu-  stamente » 2”. « L’amore per la natura, i diritti del cuore,  la gloria del sentimento », contrapposti alla « falsità della  vita sociale », erano stati messi in luce nel primo volume  della collana, I dolori del giovane Werther ®*; da Goethe  si passa, con la caduta del fascismo, a Diderot, a Jacques  il fatalista in cui Glauco Natoli identifica nel protagonista  e nel padrone dei « personaggi reali, nei quali s’incarna  la mortale polemica fra due classi destinate ad affrontarsi,  nel fatale declino l’una, nell’irresistibile ascesa l’altra, che  s’affrancherà sempre più d’ogni servile retaggio per recla-  mare e raggiungere quella dignità umana, che troverà fra  non molto la sua piena espressione nella dichiarazione dei  diritti dell’uomo » °°. Il commento si farà infine ancora più  esplicito nel 1945, sempre attraverso Diderot, di cui  Fernanda Pivano sottolineerà « la passione politica dell’uo-  mo che si pone di fronte a leggi costituite da un’autorità  non riconosciuta e a norme imposte da una tradizione iste-  rilita per abbatterle ed eliminare gli ostacoli al libero pen-    26 H. Melville, Pierre o delle ambiguità, prefazione e traduzione di  L. Berti, Torino, Einaudi, 1941, pp. VII, IX; la recensione di Pratolini  in « Primato », III (1942), pp. 287-288.   20 L. Ginzburg, Scritti, cit., pp. 285, 287.   28 W. Goethe, I dolori del giovane Werther, prefazione e traduzione  di A. Spaini, Torino, Einaudi, 1938, p. VIII   20 D. Diderot, Jacques il fatalista e îl suo padrone, traduzione di G.  Natoli, Torino, Einaudi, 1944, p. XV.    280    Le origini della casa editrice Einaudi    siero, alla libera parola, alla libera morale, alla libera  scienza » 7°,   Attraverso i classici della letteratura universale pote-  vano cosi passare messaggi emotivi capaci di « distrarre »  il lettore dalla realtà della vita quotidiana, e sollecitarne la  fantasia, la riflessione, la critica. Un raggio d’influenza più  limitato ebbe ovviamente un’altra iniziativa della casa edi-  trice, la « Biblioteca di cultura scientifica » avviata nel  1938, che trovò probabilmente un terreno di coltura già  preparato nella Torino di Giuseppe Peano, e un animatore  in Ludovico Geymonat: una collana che con i testi di De  Broglie, Pavlov o Planck, riuscf a presentare, non senza  contrasti ?!, una tematica che era rimasta estranea alla  cultura idealistica, ma che ciò nonostante gli epigoni del  positivismo avevano tenuto in vita; ad essa si affiancò, a  partire dal 1940, la rivista « Il Saggiatore », dedicata alla  divulgazione dell’attualità scientifica nei campi della ma-  tematica, della biologia, della fisica — fino ai problemi  dello sfruttamento dell’energia nucleare — e delle loro  applicazioni tecniche, ma che solo in casi isolati si occupò  dell’utilizzazione delle scoperte scientifiche a fini bellici,  dimostrandosi severa custode dell’autonomia della scienza,  fino a definire « ridicola » la condanna papale di Galileo 2.    210 D. Diderot, La religiosa, prefazione di F. Pivano, Torino, Einaudi,  1945, pp. VIII-IX.   211 Ad esempio il 14 novembre 1942 Geymonat inviò a Francesco  Severi e Armando Carlini un memoriale per protestare contro il parere  negativo dell’Accademia d’Italia alla traduzione di Die Grundlagen der  Arithmetik di Gottlob Frege (AE, Geymonat). Dedica un breve cenno  all'ambiente torinese di Peano C. Pogliano, Mondo accademico, intellet-  tuali, professione sociale dall'Unità alla guerra mondiale, in AA.VV.,  Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Pie  monte, diretta da A. Agosti e G.M. Bravo, vol. I. Dall'età preindustriale  alla fine dell'Ottocento, Bari, De Donato, 1979, pp. 534-535.   212 M.G. Fracastoro, Nel 3° centenario della morte di Galileo Galilei,  in « Il Saggiatore », II (1941), p. 313. La rivista era diretta da C. Fru-  goni, F. P. Mazza, A. M. Olivo, F. Tricomi, G.C. Wick.    281        8. La « svolta » della guerra e i collaboratori « romani »    La seconda guerra mondiale rappresenta, per l’itine-  rario culturale e politico di molti giovani intellettuali forma-  tisi negli anni ’30, quella « svolta » in senso antifascista che  spinse Bottai a tentare con « Primato » di recuperarne il  consenso attorno alla guerra «italiana ». Il 1940 è una  data periodizzante anche per la casa editrice, i cui inter-  venti — se prescindiamo dalla continuazione della battaglia  conservatrice dei liberisti — si modificano sensibilmente:  si accentuano i contatti con la cultura europea e si rac-  coglie attorno alla casa un numero crescente di intellettuali  progressisti, cos che negli anni intercorrenti tra l’entrata in  guerra dell’Italia e il 25 luglio 1943 si pongono concreta-  mente, nelle realizzazioni o anche solo nei progetti — alcuni  dei quali molto coraggiosi per allora — le premesse di  gran parte delle iniziative editoriali del periodo postbellico.   Uno dei punti nodali che è necessario mettere in luce,  in questi anni, è il rapporto della casa editrice con Bottai  e con l’operazione che questi si proponeva di svolgere attra-  verso « Primato ». Giulio Einaudi ha ricordato che    il nostro gruppo non solo non agî all’interno dello schieramento  fascista, ma tentò di fare in proprio — e spesso con successo —  quella stessa politica che il fascismo intendeva attuare con strumenti  come « Primato ». Forme indirette di opposizione sf, com’era inevi-  tabile a chi, producendo libri, doveva agire alla luce del giorno, e  assumere di volta in volta una maschera, che fosse la più trasparente  possibile; concessioni ideologiche al fascismo, o discussioni alla pari,  mai 215,    Queste parole rivelano una sopravvalutazione del ruolo  di « opposizione » che sarebbe stato svolto da Bottai, e di  conseguenza potrebbero essere assunte come prova di un  pieno coinvolgimento della linea editoriale einaudiana nella  fagocitante, proprio perché spregiudicata, prospettiva politi-  ca del ministro fascista, diretta in realtà a imbrigliare ogni  opposizione. Infatti, se « Primato » non può essere tutto    213 AE, G. Einaudi.    282    Le origini della casa editrice Einaudi    risolto nella categoria « fascismo » ?!, e se è necessaria una  sua lettura non univoca, che ne colga gli sviluppi nel corso  della guerra #5, la rivista non poteva essere considerata,  né dal fondatore né dai collaboratori, solo come il luogo  della « difesa della cultura », essendo ben marcato il suo  carattere militante e ben netto l’obiettivo di Bottai — come  risulta anche dai suoi ricordi e dalle sue note di diario —  di far sopravvivere il fascismo al « mussolinismo ».   Non è quindi privo di ambiguità il fatto che, dopo  essere entrato in contatto con Bottai proprio nel 1940,  ancora nel 1942 Einaudi si rivolgesse a lui per proporgli  di pubblicare presso la casa editrice una raccolta dei suoi  interventi sull’arte e la cultura — « non può mancare tra  i miei Saggi una presa di posizione nella polemica che ferve  per l’intelligente modernità dell’arte italiana; e chi meglio  di Voi può difendere questo partito in un libro? » —, e  che nello stesso anno fosse in contatto con il redattore capo  della rivista Giorgio Cabella, di cui pubblica il racconto  Alloggio sul golfo (1942), oltre ad affidare la cura delle  Memorie di Metternich al bottaiano Gherardo Casini,  direttore generale per la stampa italiana ?!9. Tuttavia, nono-  stante la presenza di elementi contraddittori, proprio nel  rapporto con la casa editrice è possibile misurare lo scarto  fra le intenzioni di Bottai e i risultati della sua politica,  in quanto, soprattutto a partire dal 1941, alcuni dei nuovi  collaboratori « romani » di Einaudi che scrivono su « Pri-  mato » hanno già compiuto la scelta antifascista, e solle-  citano l’editore a iniziative più avanzate che reclamizzano    214 E. Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., p. 527.   %5 Cfr. le osservazioni di Luisa Mangoni premesse all’antologia « Pri-  mato » 1940-1943, Bari, De Donato, Bottai (13 gennaio 1942). Il 24 febbraio 1942 Alicata scriveva  all'editore: « Vedrò domani Bottai per Primato, e gli chiederò ancora il  suo volume di scritti culturali » (AE, Alicata). Già il 6 ottobre 1940  l'editore aveva chiesto a Bottai di segnalare « Il Saggiatore » « all’appo-  sita commissione ministeriale affinché vengano sottoscritti alcuni abbona-  menti per le Biblioteche degli Istituti di Istruzione tecnica »; 1°11 giugno  1942 ringraziava il ministro « per l’interessamento dimostrato a mio favore  in merito alla carta ». Cfr. anche le lettere dell’editore a Cabella del 5  si 1942, e di Casini all’editore dell’8 giugno 1942 (AE, Cabella,   asini).     sulla rivista, usata come strumento di discussione e di aper-  tura culturale, consentendo cosî alla casa editrice di atte-  starsi su posizioni che superano i confini del progetto bot-  taiano.   A dare nuova linfa vitale alla casa editrice contribuî  infatti nel 1941, con l’apertura della sede romana, l’in-  contro dell’originario nucleo torinese con quello romano  di Mario Alicata, Giaime Pintor e Carlo Muscetta, tre gio-  vani intellettuali che, pur con diversi orientamenti, avevano  già tradotto politicamente, in senso antifascista, la loro  rapida maturazione culturale; con i loro contatti, inoltre,  essi allargarono il numero dei collaboratori di Einaudi, fra  i quali comparvero, i che rima-  sero ancora i più numerosi —, intellettuali già aderenti al  partito comunista o che si venivano orientando verso di  esso, ma tutti uniti nella comune lotta al fascismo, senza  che si manifestassero fra di loro, almeno fino al 25 luglio  1943, contrasti di rilievo. Nell’aprile 1940 Alicata e Mu-  scetta avevano contribuito a inaugurare la nuova serie de  « La Ruota » — cui collaboravano anche Pintor e Pavese  —, la rivista diretta da Mario Alberto Meschini che, sosti-  tuendo il sottotitolo « mensile di politica e letteratura »  con quello apparentemente più disimpegnato di « rivista  mensile di letteratura e arte », assumeva in realtà la pro-  spettiva di un’azione politica a più largo respiro ?”, nella  convinzione, comune a tanti giovani intellettuali che davano  vita o partecipavano a iniziative di fronda, di potersi sal-  vare — ricorderà Pavese — con «un tuffo nella folla,  un febbrone improvviso d’esperienze e d’interessi proletari  e contadini, per cui la speciale e raffinata malattia che il  fascismo c’iniettava, si risolvesse finalmente nell’umile e  pratica salute di tutti » ?!". Mentre Muscetta era attestato  su posizioni liberalsocialiste, già nel 1940 Alicata aveva  superato l’originaria formazione crociana per abbracciare       2 Cfr. la testimonianza di Antonello Trombadori in M. Alicata,  Lettere e taccuini di Regina Coeli, prefazione di G. Amendola, introdu-  zione di A. Vittoria, Torino, Einaudi, 1977, p. XXXV.   218 C. Pavese, IÙ fascismo e la cultura 1945), ora in La letteratura  americana, cit., p. 220.    284    Le origini della casa editrice Einaudî    uno storicismo pit concreto maturato sulla conoscenza di  De Sanctis e di Fortunato e sulle prime letture marziste,  e aveva aderito al partito comunista segnalandosi subito  per quell’intensa attività politica — tesa ad allacciare rap-  porti con i liberalsocialisti e i cattolici comunisti — che  ne provocò l’arresto alla fine del 1942 ?”. Ancora tutto  « letterato » alto-borghese era invece Pintor, che tuttavia  viene in contatto, nell'ambiente einaudiano, con il catto-  lico Felice Balbo — « il cui influsso sul mio modo di pen-  sare è stato decisivo », annoterà —, e viene maturando  politicamente di fronte alla drammatica realtà della guerra:    senza la guerra — ricorderà nell’ultima lettera al fratello — io sarei  rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari [... .J:  c’era in me un fondo troppo forte di gusti individuali, d’indifferenza  e di spirito critico per sacrificare tutto questo a una fede collettiva.  Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli,  sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutal-  mente a contatto con un mondo inconciliabile 2°    Pur avendo interessi ancora prevalentemente letterari,  i tre « romani » parteciparono alla diverse iniziative di Ei-  naudi: mentre alla fine del 1941 Pintor diviene « agente  volante » della casa editrice, con « il compito di leggere  libri, dare consigli, e girare in Italia £ soprattutto all’estero  come rappresentante dell’editore » ?!, Alicata tiene i con-  tatti col Ministero della cultura popolare per ottenere le  autorizzazioni della censura, e arriva ad occuparsi di un  problema che acquista importanza decisiva nel corso della  guerra, quello dell’acquisto della carta. Inoltre, Alicata e    219 Cfr. l'introduzione di R. Martinelli a M. Alicata, Intellettuali e  azione politica, a cura di R. Martinelli e R. Maini, Roma, Editori Riuniti,  1976, pp. XX-XXI, e C. Salinari-A. Reichlin-A. Tortorella-G. Amendola,  Mario Alicata intellettuale e dirigente politico, Roma, Editori Riuniti,  1978.   290 Cfr. G. Pintor, Doppio diario 1936-1943, a cura di M. Serri, Torino,  Einaudi, 1978, p. 111, e Id., Il sangue d'Europa (1939-1943), a cura di  V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1965, p. 186. Di « ambiguità » di Pintor  ha parlato F. ‘Fortini, "Vicini e distanti. A proposito del « Doppio diario »  È Cine Pintor, in «Quaderni piacentini », XVIII (1979), n. 70-71, pp.   221 G. Pintor, Doppio diario, cit., p. 161.   Muscetta aiutano anche dall’esterno l’attività di Einaudi  collaborando a « Primato », su cui entrambi, con lo pseu-  donimo rispettivamente di Don Ferrante e di Don Santi-  gliano, segnalano con continuità le iniziative della casa  editrice, coinvolgendo in questa opera di « propaganda »  altri intellettuali, come Beniamino Dal Fabbro. Cosi nel  1941 Alicata, mentre si impegna con Einaudi per un saggio  sulla letteratura contemporanea, assicura l’editore che ne  segnalerà i volumi — « tutti, via via, più o meno larga-  mente, nel mio Cotriere delle Lettere su Primato, dove  cercherò di far fare puntualmente anche le recensioni » —,  e nello stesso anno elogia sulla rivista di Bottai la « ricer-  cata collana di narratori stranieri che Einaudi viene con  grande accortezza riunendo. Poche opere, ma tutte ecce-  zionali, tutte illuminatrici d’una personalità o d’un co-  stume » “2. Analogamente Muscetta, rispondendo all’invito  di Einaudi di fare pubblicità ai suoi volumi su « La Ruota »  — cosa che farà regolarmente su « Primato » —, affer-  mava di « aver seguito la sua attività editoriale con inte-  resse affettuoso, e ogni libro [...] pubblicato mi ha recato  un nuovo conforto a credere nei valori della cultura che  non sono da difendere soltanto nel chiuso del nostro pen-  satoio » 2, Con la collaborazione di questi tre intellettuali  le tappe di sviluppo della casa editrice si accelerano, nelle  vecchie e nelle nuove collane o nei progetti che non tro-  vano attuazione immediata.   Assieme a Pavese Alicata fu incaricato di curare la « Bi-  blioteca dello Struzzo », la collana di narratori contempo-  ranei che puntava soprattutto alla scoperta dei giovani:    Dopo molte riflessioni — scriveva Einaudi ad Alicata all’inizio  del 1941 — si è deliberato — e si attende la tua approvazione —    22 AE, Alicata (23 febbraio, 17 aprile e 1 giugno 1941); il 22 ottobre  1941 Alicata diviene collaboratore fisso, a 1.000 lire mensili; il 21 feb-  braio 1942 informa l’editore di aver acquistato 248 risme di carta. Cfr.  inoltre « Primato », II (1941), n. 8, p. 14.   23 AE, Muscetta (s.d.); io e Alicata — scriveva Muscetta all’editore il  20 febbraio 1941 — «ci auguriamo di poter collaborare attivamente  ‘all’ardita opera di cultura che la tua casa svolge con spirito giovanile e  con tenacia ».    286    Le origini della casa editrice Einaudî    che la collezione debba accogliere romanzi brevi italiani e stranieri,  di scrittori contemporanei e in genere « scoperti » da noi, dove, in  via d’eccezione, e per alimentare la scarsa produzione italiana con-  temporanea, si accoglierebbero libri dimenticati o rari, di indiscusso  valore artistico, tipo Mio Carso di Slataper. Quanto agli stranieri...  questo è il problema, ché escludendo gli americani e gli inglesi dob-  biamo per ora limitare praticamente la scelta ai russi e ai tedeschi 24.    In realtà fino al 1945, venuta meno con l’attacco  all’URSS anche la possibilità di presentare la narrativa russa  contemporanea, la collana si limitò a pubblicare testi italiani  tesi tuttavia a quell’originale ricerca della realtà, sia pur  non veristica, che contrassegna il primo volume apparso nel  1941, Paesi tuoi di Pavese. Pavese sollecitava infatti Ali-  cata a « predicare l’arte narrativa, e soprattutto quella  narrativa “come vita morale” che a voialtri ruotai deve  essere in votis » 5: un invito cui Alicata, per i gusti già  dimostrati nella sua intensa attività di recensore lettera-  rio ?*, era particolarmente sensibile, e che, preoccupato di  tenersi lontano « dalle piccole chiesuole di marca fioren-  tina », raccolse assicurando alla casa editrice Le trincee  di Quarantotti Gambini, Le donne fantastiche di Arrigo  Benedetti e proponendo, fra gli altri titoli, Una città dî  pianura di Giorgio Bassani, da lui già recensito su « La  Ruota » quando era uscito in edizione privata di pochi  esemplari sotto lo pseudonimo di Giacomo Marchi, e che  era « passato per molte ragioni quasi sotto silenzio dalla  critica », scriveva Alicata alludendo alle leggi razziali ??.    24 AE, Alicata (26 aprile 1941).   225 C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 588 (28 aprile 1941).   226 Cfr. G. Tortorelli, Le formazione politica di un intellettuale comu-  nista: Mario Alicata 1937-1945, tesi di laurea discussa presso la Facoltà  di Lettere e Filosofia di Firenze nell’anno accademico 1976-77, e Id.,  Contributi alla formazione culturale e politica di Mario Alicata, in « Italia  contemporanea », XXX (1978), n. 132, pp. 93-98.   21 In C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 589 (9 maggio 1941); il  21 novembre 1941 Alicata suggeriva a Einaudi la possibilità di rilevare  alcuni volumi della casa editrice Ribet Buratti di Torino (Comisso, Arturo  Loria, Stuparich, Sbarbaro, Slataper), e l'11 novembre 1942 la necessità  di ristampare l’Ibsex di Slataper, «che non solo è interessante per la  personalità tutta dell’autore, del cui acuto problema morale risente, ma  rimane per se stesso un documento critico prezioso sull'opera ibseniana »  (AE, Alicata).    287        I toni fortemente elogiativi — anche se attenuati in  una lettera a Einaudi ?* — della recensione che di Paesi  tuoi fece Alicata su « Oggi » ”’, la vivace rivista di Arrigo  Benedetti e Mario Panunzio, furono ripresi da Eugenio  Galvano su « Primato » — «ogni lettore può ritrovarvi  gli accenti di una sua esperienza passata e perduta, e il  senso di un paese ritrovato » °° —; e intensi furono i le-  gami fra l’ambiente della rivista di Bottai, cui collaborava  anche Pavese, e la casa editrice, esemplificati dalla pub-  blicazione in volume, presso Einaudi, de L’isola di Stupa-  rich (1942), già apparsa su « Primato ». Rimase un caso  isolato il giudizio negativo riservato da Alfonso Gatto a  La strada che va in città di Alessandra Tornimparte #! —  pseudonimo di Natalia Ginzburg —, e non tale comunque  da essere paragonato alle forti riserve di carattere morale  avanzate da « La Civiltà cattolica » nei confronti di Pavese  e della Ginzburg, i cui racconti, osservava Einaudi, riscos-  sero «i più vivi consensi e dissensi » proprio per la no-  vità di stile e di contenuto ?*: mentre in Paesi tuoi l’or-  gano dei gesuiti vedeva ritratta una « gente di campagna »    28 «Ho apprezzato molto il libro di Pavese, che mi sembra soprat-  tutto un racconto e per questo merita grandi lodi. Quantunque risenta,  è chiaro, l’influenza a volte eccessiva di certi americani e nel gusto d’usare  la lingua e la sintassi, e nel sapore e tono che attribuisce agli uomini e  ai loro gesti » (AE, Alicata, 1 giugno 1941).   29 Ora in M. Alicata, Scritti letterari, introduzione di N. Sapegno,  Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 84-88. Cfr. anche la notizia che Alicata  ne dava su «Primato», affermando che Pavese «rompe un silenzio  lungo e fruttuoso durante il quale egli sembra essere scampato alla reto-  rica, agli schemi che affliggono certa narrativa italiana contemporanea:  come prima sensazione d’una lettura che almeno prende e allaccia in un  suo tempo libero e prepotente » (II (1941), n. 11, p. 16, nel « Corriere  delle lettere » di Don Ferrante).   230 « Primato », II (1941), n. 14, p. 15; pur osservando che «le rea-  zioni psicologiche del personaggio narratore rimangono moralmente fiac-  che », Luigi Vigliani trovava «felicissima» l’utilizzazione del dialetto  piemontese (« Leonardo », XII (1941), p. 218).   231 Nel volume «la realtà osservata è ferma alla crisi di una società  ‘confusa [...]. Forse questo racconto piacerà, disposti come sono oggi  molti letterati, giunti in ritardo al ripensamento di un proprio compito  umano, a vedersi duri e manuali. Il racconto della Tornimparte è fradicio  di quest’enfasi moderna, semplicistico e blando altresi nella sua stessa  ‘acrisia », osservava Gatto (« Primato », III (1942), p. 107).   232 Einaudi a Ginzburg, 2 aprile 1942 (AE, Ginzburg).    288    Le origini della casa editrice Einaudi    che « non è quella che noi generalmente conosciamo. Qui  sembra piuttosto gente di malavita, dove predominano  tendenze istintive e animalesche », nella « dura » prosa  della Ginzburg coglieva « un indice di ciò che si è comin-  ciato a raccogliere anche in Italia dall’abbondante semina-  gione d’una sfrontata romanzeria straniera, e specialmente  americana » ”*. Alla ricerca di valori umani, laici e reli-  giosi, si muovevano anche i nuovi titoli della collana dei  « Poeti », già avviata nel 1939 con la riedizione degli Ossi  di seppia e la nuova raccolta de Le occasioni di Montale **:  accanto a una nuova edizione di Lavorare stanca di Pavese  apparvero infatti Con me e con gli alpini di Jahier la cui  fortuna fra i soldati era testimoniata dai reduci dalla  Russia — « l'hanno aperto per caso e non se ne staccano  più. “Fare il bene con disperazione” è diventato il loro  motto » 5 —, e le Poesie di Rilke nella traduzione di  Pintor, in cui Giansiro Ferrata, occupandosene su « Pri-  mato », vedeva l’opera di un poeta « da difendere contro  la sua stessa generosità di vita e contro un frequente  estetismo per seguirne la grande voce umana, semplice  infine come un grido ma dal fondo d’una religiosità vissuta  nei suoi slanci e nelle sue ferite » ?*.   In questi stessi anni gli aspetti « emotivi » presenti  nella produzione letteraria trovano modo, come vedremo,  di tradursi in un più marcato impegno civile nei volumi  della « Biblioteca di cultura storica » e in quelli della nuova  collana « Universale ». Persistono tuttavia, almeno fino al  1942, e in particolare nei « Saggi » — dove pur appaiono  le Memorie di madame de Rémusat, la cui critica a Napo-  leone era leggibile in senso antitirannico —, molti dei mo-  tivi spiritualistici d’anteguerra non disgiunti da elementi  contraddittori, che trovarono forse nel cattolico Felice  Balbo un sostenitore: « Balbo — è stato ricordato —  non aveva difese contro le proposte e le idee. Tutte le    233 «La Civiltà cattolica », 93 (1942), vol. III, pp. 56 e 371.   24 Per le vicende di queste edizioni cfr. E. Ferrero, Come nacquero  « Le occasioni », in « Libri nuovi Einaudi », IX (1977), n. 1.   235 AE, dalla redazione romana a Jahier (9 luglio 1943).   236 « Primato », III (1942), p. 232.    289        proposte e tutte le idee gli piacevano, lo sollecitavano, lo  mettevano in fermento » ?”. Se non ha luogo la proposta  di Balbo di tradurre The mystical elements of religion di  von Hiigel, il modernista « lodato da Loisy pur essendo  rimasto cattolico », e Bobbio non accetta La preghiera  dell’uomo di Alfredo Poggi per il suo insufficiente appro-  fondimento teorico, pur considerando che il saggio « sia  ispirato ad un alto senso religioso e morale, e sviluppi una  concezione razionale della vita religiosa, rifuggendo dal  dilagante irrazionalismo »; o mentre resta inedito, per le  vicende legate alla caduta del fascismo, L'infinito e il divino  terminato da Giuseppe Tarozzi nell’aprile 1943 ?*, Einaudi  pubblica nel 1942 Le origini del cristianesimo di Loisy —  che giungerà alla terza edizione l’anno successivo — e, su  suggerimento di Gioele Solari, Ragione e fede di Piero  Martinetti: con ciò la casa editrice si faceva banditrice di  una « religione della libertà » che, se potè essere accostata  a quella crociana, se ne differenziava nettamente per l’im-  portanza che l’animatore della « Rivista di filosofia » attri-  buiva all'elemento religioso, cui Martinetti aggiungeva  negli ultimi anni di vita, di fronte allo spettacolo della  guerra e della « barbarie », la riflessione sul pessimismo  di Schopenhauer tesa ad accettare « la realtà del male come  principio radicale, autonomo, forse non riducibile ad al-  tri » 2°. Accanto a Martinetti, nel 1941 Einaudi ripropone  Huizinga con la monografia del 1924 su Erasmo che aveva  già provocato forti riserve, non solo storiografiche, da parte  di Cantimori, per la « troppo evidente tendenza a mostrare  in Erasmo il tipo classico del dotto-gentiluomo, moralista  e umorista, lontano dagli interessi politici e religiosi che  possono scuotere e commuovere » °°; ma forse proprio  per questo, per la presentazione dell’umanesimo erasmiano    23 N. Ginzburg, Lessico famigliare, Milano, Mondadori, 1972, p. 143.   28 Cfr. Balbo a Bobbio, 1 aprile 1943, e Bobbio a Finaudi, s.d. (AE,  Bobbio), e il carteggio Tarozzi-Einaudi del 1942-43 (AE, Tarozzi).   239 Cfr. Bobbio a Finaudi, 21 maggio 1943 (AE, Bobbio}; E. Garin,  Cronache di filosofia italiana, cit., pp. 387-391; e la testimonianza di G.  Mita, dee prefazione di L. Salvatorelli, Vicenza, Neri Pozza, 1968,  pp. 75-76.   20 « Rivista storica italiana », s. V, I (1936), fasc. IV, p. 91.    290    Le origini della casa editrice Einaudî    « come un raffinato giuoco intellettuale entro le mura di un  nobile castello oltre le tempeste del mondo e le vicende  del tempo » ?, « Civiltà moderna » poteva accogliere nel  lavoro l’indicazione della « originalità umanistica » rispetto  al Medioevo, ma con l’accordo « fra l'esigenza del risorto  classicismo e quella del rigenerato cristianesimo »; men-  tre il recensore della « Rivista storica italiana », oppo-  nendo all’umanesimo « negativo » di Erasmo quello « co-  struttivo » del Rinascimento italiano impersonato da Gior-  dano Bruno, prendeva le distanze dall’autore per « quella  tipica mentalità pacifista che, per contingenze storiche fa-  cilmente individuabili, tende a fare dell’equilibrio e della  moderazione la massima espressione della civiltà uma-  na » dii x   Alle immagini catastrofiche de La crisi della civiltà  sembra invece richiamarsi, pur senza citare Huizinga,  Uomo e valore di Luigi Bandini — un allievo di Limentani  che aveva pubblicato presso Laterza un saggio su Shaftes-  bury —, che sviluppa il tema del contrasto fra progresso  economico e libertà individuale con accenti indubbiamente  retrivi. Il volume — che sarà ristampato nel 1949 con  una introduzione in cui l’autore manifesterà un atteggia-  mento paternalistico verso le masse popolari — è un atto  di accusa nei confronti del liberismo e del liberalismo  dell’800 che avrebbero portato « ad uno stato di cose  risolventesi proprio in un massimo di serviti per una gran  quantità di soggetti umani: il caso, precisamente, dell’indu-  strialismo moderno », per cui si era avuto il « rovescia-  mento del rapporto fra uomo e cosa », con l’« innalzamento  ad ideale supremo della realtà economica ». Ma la con-  danna del progresso si traduce nella istituzione di un preciso  rapporto tra la « morte » del cristianesimo, « la religione    2 Cfr. l'introduzione di E. Garin a J. Huizinga, L'autunno del Medio  evo, Firenze, Sansoni, 1961, p. XIII.   2 A. Corsano in «Civiltà moderna », XIII (1941), pp. 355-356, ed  E. Guglielmino in « Rivista storica italiana », LIX (1942), pp. 286-287.  Mario M. Rossi coglieva invece in Huizinga la « disapprovazione per  Erasmo », e giudicava l’Encbiridion militis christiani « opera d’un banale  bigotto » (« Nuova rivista storica », della esaltazione dell’individuo », « la enorme avidità di  possesso e di successo che caratterizza l'umanità moderna »  e, soprattutto, lo sviluppo del marxismo:    una tale dottrina della necessità radicale ed ineliminabile dell’odio  di classe si sostituisce bruscamente e senza passaggi intermedi  proprio alla concezione cristiana nell'animo degli appartenenti ai  ceti sociali più umili, trovando d’altronde nelle effettive condizioni  della società moderna, nel suo sempre più esasperato affarismo, gli  elementi suggestivi più adatti a conferire ad essa la massima efficacia  di persuasione 28,    Si comprende quindi come il ragionamento di Bandini  incontrasse le simpatie de « La Civiltà cattolica » 24, mentre  offriva a Luigi Einaudi l’occasione per attribuire al capita-  lismo « storico » dell’800 la responsabilità della tendenza  verso i monopoli, « verso ciò che incatena ed asserve gli  uomini e di cui l’ultima e più perfetta e diabolica espres-  sione è il comunismo russo », ma anche per dissociarsi  dalla tesi « che la tendenza verso il colossale, distruttivo  dell’uomo, come persona autonoma, sia propria dell’eco-  nomia contemporanea, capitalistica o trafficante », poiché  la liberazione dell’uomo dalle cose era frutto precipuo  dell'economia di concorrenza’. Tesa a dimostrare la  necessità della religione contro il materialismo contem-  poraneo è anche un’opera di Bernhard Bavink che racco-  glieva alcune conferenze tenute in Germania prima della  « rivoluzione » del 1933, la cui traduzione, uscita nel    i 23 L. Bandini, Uomo e valore, Torino, Einaudi, « La Civiltà cattolica », Einaudi, Dell’uomo, fine o mezzo, e dei beni d’ozio, in « Rivista  di storia economica », VII (1942), pp. 121, 125. Pur riconoscendo la  tendenza monopolistica rilevata da Bandini, Mario Dal Pra osservava:  « Ciò non toglie tuttavia che i diritti e le pi profonde esigenze dell’indi-  vidualità non possano essere salvaguardate, ad esempio, mediante l’attua-  zione di quella terza via che lo stesso Luigi Einaudi propone, fra l’indi-  vidualismo da una parte e il collettivismo dall’altra » (« La Nuova Italia »,  XIV (1943), p. 39). Nel 1946 Antonio Giolitti — allora collaboratore  della casa editrice — criticherà Bandini per non aver saputo vedere che  il problema dell’individuo è problema politico e sociale, risolvibile sul  piano di quella lotta di classe che l’autore negava recisamente (« Studi  filosofici », VII (1946), pp. 81-84).    292    Le origini della casa editrice Einaudi    1944, era già stata messa in cantiere nel 1942. In essa  l’autore sosteneva che da scienziati « assai religiosi » come  Galileo, Keplero e Newton, si era sviluppata una tendenza  culturale approdata « ad un materialismo e ad un ateismo  completo ed aperto, quale è attualmente la concezione uffi-  ciale del mondo nella Russia bolscevica » — alla quale  era contrapposto l’esempio positivo della concezione so-  ciale e statale fascista e nazista —; la fisica moderna, con  Bohr e Planck, aveva invece « definitivamente distrutto  certe troppo frettolose obbiezioni contro la fede », abo-  lendo «il concetto classico di sostanza », e quindi ogni  meccanicismo, per cui si poteva concludere che ormai « fare  della fisica non significa, in fondo, far altro che ricapitolare  gli atti elementari compiuti da Dio » ?4   Un richiamo ai valori dello spirito poteva comunque  passare anche da altre vie meno sospette, dai grandi ro-  manzieri ottocenteschi o da I/ problema dell’inconscio di  Jung, tradotto nel 1942: l’opera infatti trova favorevole  accoglienza su « Primato », dove Muscetta considera « me-  rito fondamentale » di Jung aver ricordato    che la psicologia è scienza dell’anima e che nessuna indagine fisio-  patologica potrà mai risolvere lo spirito nella materia, la sua miste-  riosa e libera spontaneità, nell’evidente e misurabile rigore delle  leggi fisiche [...]. Pagine di vent’anni fa, che per vie assai lontane  dalla nostra cultura ci portano affascinanti conferme a quella fede  nei valori spirituali da cui non potremo mai aberrare senza recidere  le radici dell’essere nostro 29.    2% B. Bavink, La scienza naturale sulla via della religione, Torino,  Einaudi, 1944 (ediz. originale 1933), pp. 3, 50, 104; contro il bolscevismo,  « questa terribile filosofia sociale e storica, che distrugge ogni esistenza  degna dell’uomo, il “fascismo” yitaliano e tedesco propugna una conce-  zione sociale e statale " organica” per la quale lo Stato non è una costru-  zione artificiale, razionale, ma anzi la forma matura di una vera vita, della  vita del proprio popolo » (p. 24). Il 30 marzo 1942 Einaudi aveva chiesto  ad Alicata di sottoporre il volume di Bavink all’approvazione del Mini-  stero della cultura popolare (AE, Alicata).   21 « Primato », III (1942), p. 381; «la psicologia è una scienza cre-  tina », osservava invece Pintor dopo aver letto Jung nell’ottobre 1941  (Doppio diario, cit., p. 152). Il 22 maggio 1942 Alicata aveva fatto pre-  sente all’editore l’esistenza di difficoltà per l’autorizzazione della stampa  di Jung, per « certe idee morali e sociali dello Jung non completamente  conformiste » (AE, Alicata). Lo stesso Ernesto De Martino vedeva nello teoria jun-  giana — che riteneva « suscettibile di una traduzione in  termini storicistici » — « una tipica espressione del tra-  vaglio spirituale, dei bisogni e delle aspirazioni della  nostra epoca. Noi siamo giunti a un punto in cui sentiamo  viva la necessità di riprendere possesso della nostra anima,  e di esplorarne le sue profondità sconosciute » **. Diver-  so, sia pure ambiguo, era il messaggio che si poteva rica-  vare dal pensiero degli eretici e degli utopisti, attorno al  quale si assiste, durante la guerra, a un risveglio d’interesse  in vari settori dell’intellettualità italiana, di cui sono testi-  monianza esemplare gli studi di Cantimori e la « Collana  degli utopisti » dell’editore Colombo. Nel 1941 esce, come  secondo volume della « Nuova raccolta di classici ita-  liani annotati », La città del sole di Campanella, un’edi-  zione critica condotta sul testo italiano del 1602, quella più  decisa in senso ereticale, da Norberto Bobbio: respinte  come fittizie le visioni di un Campanella precursore del  socialismo o dello Stato totalitario, in discussione con i  recenti tentativi di rivalutazione cattolica Bobbio ricorre  all’« idea della simulazione » per spiegare la conversione  del frate all’ortodossia, provocando le riserve de « La  Civiltà cattolica », che si appuntano anche sulle frasi di  Bobbio « che accennano con un velo di simpatia “ alle menti  stanche ma non asservite, agli animi sfiduciati ma non  vinti degli eretici isolati” » *°. A queste si potrebbe aggiun-  gere un accenno contro « la morale della potenza »; ma  il discorso di Bobbio si mantiene volutamente generico,  nel sottolineare il « fondamentale antistoricismo » del  pensiero di Campanella, per cui « c'è in quell’utopia qual-  cosa di selvaggiamente primitivo, che richiama alla mente  le comunità degli indigeni delle Nuove Indie; e c’è nello  stesso tempo qualcosa di lucidamente attuale, che fa pen-  sare ad una città operaia dell'America moderna » ?°. E    28 « Primato », IV (1943), p. 11.   24 « La Civiltà cattolica », 93 (1942), vol. IV, p. 50.   250 T. Campanella, La città del sole, testo italiano e testo latino a cura  di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1941, pp. 45, 50. Il 4 aprile 1941 Ginzburg  avvertiva Einaudi che Tommaso Fiore stava curando l’edizione de L'utopia    294    Le origini della casa editrice Einaudi    Luigi Einaudi poteva trarne spunto per sostenere che una  storia delle utopie non doveva analizzare i « tipi di società  comunistiche immaginati dagli utopisti » sulla base di una  problematica economica, ma «rigettare nel limbo delle  cose che non furono mai scritte le esercitazioni frigide di  letterati in cerca d’argomento in apparenza nuovo e met-  tere in luce le poche le quali risposero veramente ad un’e-  sigenza dello spirito » ?!: un modo, ancora una volta, per  esorcizzare il pericolo di un richiamo eterodosso, sia pur  « utopistico », ai problemi concreti della società contem-  poranea.    9. L’anticonformismo storiografico e l’« Universale »    Il settore che, ancora una volta, dimostra meglio di  altri e sempre più l’anticonformismo della casa editrice,  è quello storico, dove troviamo ora impegnati anche due  « laici », in diversa maniera crociani, come Giorgio Falco  e Adolfo Omodeo. Il primo — che, costretto dalle leggi  razziali a nascondersi dietro pseudonimo, era venuto affian-  cando agli originari interessi medievalistici o a quelli  per l’illuminismo, dopo la definitiva sconfitta dello Stato  liberale, un’attenzione a figure significative del Risorgi-  mento, come Pisacane — si occupò in particolare fin  dal 1941, assieme ad Alicata, Morra, Ginzburg, Giolitti,  Benedetti e Venturi, di quel progetto della collana « Scrit-  tori di storia » che avrà attuazione solo negli anni ’50,  anche per le difficoltà allora opposte dalla censura — la  Histoire de la conquéte d’Angleterre di Thierry, ad esem-  pio, fu bocciata come « inopportuna » nel 1942 ?*. Omo-    di Moro che uscirà nel 1942 presso Laterza (AE, Ginzburg).   21 L. Einaudi, Delle utopie: a proposito della Città del sole, in «R+  vista di storia economica », VI (1941), pp. 126-127. Luigi Bulferetti invi-  tava invece a collocare l’opera di Campanella nella realtà culturale e poli-  tica del Mezzogiorno («Rivista storica italiana », LVIII (1941), pp.  400-401).   252 Su Falco cfr. le osservazioni di A. Garosci, Una cosa non ancora  del tutto chiara..., in « Rivista storica italiana », LXXIX (1967), pp. 7-27.   253 Lettera di Alicata all’editore, 24 giugno 1942 (AE, Alicata).  deo, contattato nel 1939 da Ginzburg, fu prodigo di sug-  gerimenti — da testi di antichistica o di religione a I/  medioevo barbarico di Gabriele Pepe o il Murat di Angela  Valente —, e si era assunto anche l’impegno, come ricor-  derà ad Einaudi, di trovare per la casa editrice « colla-  boratori italiani, per equilibrare le traduzioni da lingue  estere: dovevo formare un complesso di collaboratori  giovani, perché nella situazione presente, con i “valvas-  sori” avviliti e rimbecilliti dalla speranza della feluca  accademica, non c’è nulla da fare » 4. Un contrasto con  Falco lo spinse tuttavia a passare nel 1941, con i suoi  progetti di lavoro, all’ISPI”5; ma aveva frattanto assi-  curato alla casa editrice due suoi lavori caratterizzati da  una dura polemica, da un punto di vista liberale, nei  confronti della corrente storiografia fascista sul Risor-  gimento.   La leggenda di Carlo Alberto, che raccoglieva saggi  già apparsi sulla « Critica », viene ad affiancare la revisione  della figura del sovrano piemontese condotta « con spie-  tato rigore » da Guido Porzio sulla « Nuova rivista sto-  rica », ed è una requisitoria feroce contro la storiografia  sabaudista espressa da Alessandro Luzio, di cui è messo  in luce « il semplicismo del giudizio moralistico e. l’indi-  stinzione dei valori storici », per investire anche Rodolico,  rappresentante di « una nuova sofistica che vuol confon-  dere il moralismo casistico con l’intellezione etico-politica  del processo umano ». Tributato un caldo riconoscimento  alla Storia del Risorgimento e dell'Unità d’Italia intrapresa    254 Cfr. le lettere a Einaudi del 25 agosto 1939, 28 ottobre e 24  novembre 1940, 3 gennaio, 13 febbraio, 8 marzo, 22° maggio, 2 e 17  giugno, 2 luglio 1941 (A. Omodeo, Lettere 1910-1946, Torino, Einaudi,  1963, pp. 612, 629-631, 635-636, 638-641, 644-651).   255 Cfr. la lettera a Einaudi del 9 settembre 1941 (ibidem, pp. 655-  656) e varie lettere in AE, Falco, Pepe: il contrasto riguardava rà ntrodu-  zione agli studi storici medievali di Pepe proposto da Omodeo; Muscetta  a Einaudi, 29 dicembre 1941 (AE, Muscetta); Ginzburg a Finaudi, 21  novembre 1941: « Ho visto il programma della nuova “Biblioteca storica”  dell’ISPI, che non solo nel nome, ma anche nelle opere mi sembra derivi  dalla Vostra, dato che i volumi annunciati sono tutte opere rifiutate da  Voi, se ben ricordo » (AE, Ginzburg); Carteggio Croce-Omodeo, a cura  di M. Gigante, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1978, passize.    296    Le origini della casa editrice Einaudi    da Cesare Spellanzon — « opera che da sola riabilita i  recenti studi risorgimentali, che in genere non brillano  per doti superiori » —, Omodeo nega recisamente, contro  gli apologeti di Carlo Alberto, l’esistenza di una profonda  opera riformatrice nel primo decennio di regno e di un  preciso e segreto disegno politico nazionale prima del  1848, e fa del sovrano « il discepolo ideale di Giuseppe de  Maistre », un convinto « cattolico-legittimista », accusando  lo stravolgimento dei veri valori del Risorgimento operato  da quegli storici che non condannavano le repressioni del  1833, pur cogliendo l’occasione, da buon liberale, per una  non necessaria puntata antisovietica *. La forza delle argo-  mentazioni critiche di Omodeo è tale da ottenere un ricono-  scimento anche sulla codina « Rassegna storica del Risor-  gimento », ma il significato civile e politico del suo lavoro  provoca subito sulla stessa rivista un duro intervento di De  Vecchi ?”. Tuttavia l’invito rivolto a Luigi Russo da Omo-  deo — ferito da questa e da altre critiche —, che «si    25% A. Omodeo, La leggenda di Carlo Alberto nella recente storio-  grafia, Torino, Einaudi, 1940, pp. 10, 13, 15 n., 27, 45, 47, 49, 111, 120;  e a p. 16, criticando lo scarso peso dato dagli storici di tendenza naziona-  lista ai processi del 1833: «È vero che gli odierni processi di polizia di  cui è maestra la Russia di oggi hanno ottuso la nostra sensibilità morale,  e che al confronto i processi del ’33 possono apparire cosa mitissima... ».  Dell’importanza di questo volume, come del Gioberti, non tiene conto  A. Garosci, Adolfo Omodeo. III. Guida morale e guida politica, in « Ri-  vista storica italiana », LXXVIII (1966), pp. 140-183.   25 Cfr. la recensione di Paolo Romano (Paolo Alatri) in « Rassegna  storica del Risorgimento », XXVIII (1941), pp. 555-557; ma C.M. De  Vecchi di Val Cismon, Ancora di Carlo Alberto: «Questo cercare di  attaccarsi a forme razionalistiche della storia affermando o demolendo  uomini la cui azione può avere riflessi sulla vita presente, è da una parte  errore di storico ma è, peggio, mancanza al dovere di uno storico in  quanto cittadino [...] rilevando le cattive intenzioni politiche di codesti  ingiusti giustizieri [di Carlo Alberto] e non rinunziando a definirli  secondo i loro meriti, vogliamo astenerci dal scendere nel campo della  politica cui pure saremmo chiamati dal contegno loro » (« Rassegna sto-  rica del Risorgimento », XXVIII (1941), pp. 608, 613). Negativo il  giudizio di G. Ferretti (La leggenda di Carlo Alberto, in « Primato »,  I (1940), n. 14, pp. 15-17), mentre Luigi Bulferetti, pur prendendo le  distanze da alcune affermazioni di Omodeo, riteneva, a proposito dello  Statuto, che «si avvicinasse molto più alle dottrine di Carlo Alberto  (e fosse quindi più nel vero) l’interpretazione datane nel decennio dai  reazionari, che non quella dei liberali di sinistra » (« Rivista storica ita-  liana », s. V, V (1940), p. 463).    297        prendesse da parte di persone di buona volontà posizione  nelle riviste di Codignola e in qualche altra che ci fosse  aperta » 2*, fu subito raccolto, a testimonianza dell’eco  non solo storiografica suscitata dall'opera: cosi non solo  « La Nuova Italia » con Vinciguerra o « Civiltà moderna »  con Pieri, ma anche altre riviste ormai di fronda come  « Oggi », con Umberto Morra — tutti intellettuali legat.  in vario modo alla casa editrice —, si lanciano in lodi  incondizionate al volume, fino ad arrivare a una vera e  propria difesa politica dell’autore sulla « Nuova rivista  storica », sempre ad opera di Pieri: dopo aver affermato —  riecheggiando la recensione di Edmondo Cione al Mazzini  di Bonomi — che «certa storiografia del Risorgimento  pare tenda a risolversi in un capovolgimento di valori, nel-  l’apologia di reazionari, di capibanda, di aguzzini, e nella  diffamazione dei nostri cospiratori e dei nostri martiri »,  Pieri ricordava come Omodeo,    che ha vissuto sul Carso e sul Piave, prima che negli archivi e nelle  biblioteche, la passione del Risorgimento italiano, e che fin da allora  rinunziò agli agi e alle prebende delle retrovie, può a buon diritto  assumersi il nuovo onere e il nuovo onore. Quanto grande del resto  sia oggi l’influenza dell’Omodeo, negli studi del nostro Risorgimento,  presso ogni categoria di studiosi, non esclusi i suoi più illustri avver-  sari, è ormai a tutti manifesto. Questo è il premio maggiore, per il  chiaro studioso, e la migliore prova del generale consenso che le sue  vedute vanno acquistando, nonché del posto preminente che oggi a  lui compete nel campo della nostra cultura storica 299.    Analoga risonanza ha, nelle riviste di fronda, il volu-  metto su Gioberti, che sfata l’immagine gentiliana del  « profeta » del Risorgimento dal « pensiero in sommo  grado speculativo insieme e realistico », per mettere in  rilievo, accanto alle continue oscillazioni politiche, le ca-  renze filosofiche e il sacrificio giobertiano « dell’idea libe-  rale al cattolicismo », contrapponendogli il « liberalismo  laico » di Cavour che, « ben lungi dall’essere agnostico,    258 Lettera del 7 ottobre 1940 (A. Omodeo, Lettere, cit., p. 628).   259 « La Nuova Italia », XIII (1942), pp. 64-66; « Civiltà moderna »,  XIII (1941), pp. 91-94; «Oggi», 16 novembre 1940; «Nuova rivista  storica », XXV (1941), pp. 126-131.    298    Le origini della casa editrice Finaudi    garantiva lo svolgimento autonomo delle fedi intrinseche  alla cultura ». E mentre Gentile vedeva nell’azione « popo-  lare » di Gioberti « uno degli ammonimenti tuttora più vivi  della sua politica nazionale », « Omodeo dichiarava la neces-  sità di insistere sui suoi « difetti » ed « errori » « per ricor-  dare a certo neoguelfismo di cattiva lega, che va risorgendo,  a certo neogiobertismo che ammicca vantandosi furbo, che  l’esperienza giobertiana è irriproducibile, non ha possibilità  di sviluppi in linea retta; il suo retaggio attivo fu assor-  bito nella sana politica del Cavour » 2°. Un’interpretazione  laica, questa, che proveniva dall'ambiente crociano, il cui  legame con la casa editrice è attestato anche dall’attenzione  che alla produzione storiografica di Einaudi riserva « La  Critica ». Spicca in particolare la recensione al Medioevo  barbarico d’Italia di Gabriele Pepe (1941) — che era  stato stroncato dai giudici dell’Accademia d’Italia! —,  ritenuto invece da Croce « una delle opere più pregevoli »  della « nuova storiografia » cresciuta in Italia negli ultimi  quindici anni, non cronachistica o filologica, materialistica,  economica, nazionalista ed etnologica, « ma semplicemente  e puramente umana, cioè etica (il che non vuol dire mora-  listica) », trovando in ciò concorde il giudizio di Luigi Ei-  naudi; e, con evidente allusione all’alleanza del fascismo  con la Chiesa e col nazismo, Croce faceva sue le tesi prin-  cipali del volume — giudicate con perplessità o come  troppo tendenziose da altri recensori —, secondo le quali  i Longobardi « furono sostanzialmente un elemento nega-  tivo » nella storia d’Italia, cosî come il potere temporale  della Chiesa « non solo fu dannoso alla moralità e alla  civiltà, sî anche dannoso alla stessa azione, quale che sia,    260 A. Omodeo, Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica, Torino,  Einaudi, 1941, pp. 25, 38, 56, 62; per i giudizi di Gentile, quali si  erano venuti configurando fin dal 1919, cfr. ora G. Gentile, I profeti del  Risorgimento italiano, terza edizione accresciuta, Firenze, Sansoni, 1944,  pp. 69, 125. L’anonimo recensore della « Nuova rivista storica » notava  che il carattere di Gioberti « fu piuttosto di teorico e di sognatore, an-  ziché di politico mirante alla realtà dei fenomeni politici e nazionali »  (XXVI (1942), p. 112); analogo il giudizio di U. Morra, Gioberti e  Garibaldi, « Oggi », 25 ottobre 1941.   261 Cfr. G. Turi, Le istituzioni culturali del regime fascista durante  la seconda guerra mondiale, cdella Chiesa in quanto istituto religioso [...] perché il  potere temporale non le dava ma le toglieva forza, non le  accresceva o garantiva libertà, ma la legava. Né è detto che  anche ai nostri giorni essa non abbia sollecitato e accettato  un dono, un piccolo dono, di Danai » ?°.   Sulla linea di una continuità di intervento liberale  compare ancora una volta Salvatorelli col Profilo della  storia d'Europa, in cui è sempre presente l’interpretazione  multisecolare dell’unità della storia italiana, e torna un  motivo che abbiamo già trovato in Dawson, quello di una  « civiltà unitaria europea » la cui otigine è retrodatata  rispetto all'opera dello storico inglese, con forti — e attua-  lizzati — elementi di differenziazione dall’Oriente, in  quanto la civiltà europea sarebbe stata « preparata dai  caratteri comuni che i popoli europei già all’inizio dell’età  storica presentavano rispetto all’Oriente [...]. Fin da  adesso, insomma, l'Europa di fronte all’Asia rappresenta  l’individualità di fronte al collettivismo, la libertà di fronte  al dispotismo, il progresso di fronte all’immobilità » 2°.  Espressione, come il Sommario della storia d’Italia, di quel  « nervoso e moderno enciclopedismo » di cui ha parlato  Sasso °*, il Profilo non esprime particolari valutazioni sulle  vicende della storia europea, se non nell’unificazione, tipi-  camente liberale, dell’esperienza della Russia bolscevica  e dei regimi fascista e nazista sotto la stessa etichetta di  « Europa autoritaria », e ciò nonostante nel volume ap-  paiano, come novità nella storiografia di Salvatorelli, fre-  quenti accenni alla storia economico-sociale, anche se in  prevalenza relativi alla storia antica, e non senza impto-  prie attualizzazioni °°. Ma, forse proprio per avere le stesse    22 «La Critica » Einaudi, Sui fattori  (economici morali ecc.) delle variazioni storiche, in «Rivista di storia  economica », VI (1941), pp. 184-189. Una certa « tendenziosità » di Pepe  era colta da E. Chichiarelli (« Nuova rivista storica », XXVI (1942), pp.  301-302) ed E. Farneti (« Oggi » Salvatorelli, Profilo della storia d'Europa, Torino, Einaudi,  1942, pp. 24-25.   Ri Sasso, La «Cultura» nella storia della cultura italiana, cit.,  p. A    %5 Ad esempio, a proposito di Atene nel VI secolo a.C.: «È da    300    Le origini della casa editrice Einaudi    caratteristiche del Somzzario, la fortuna dell’opera fu note-  vole, secondo la profezia di Ginzburg — per il quale il  Profilo, scriveva dal confino il 5 marzo 1942, « di sicuro  aumenterà considerevolmente la diffusione della vostra col-  lezione storica » #4 —, e non certo indifferenziata, se nel  concedere il nulla osta ai volumi della casa editrice da  introdurre in Germania il Ministero della cultura popolare  suggeri di «levar via il Salvatorelli » ”, Infatti, pur  lasciando scontenti i cattolici e i crociani — lamentandosi,  i primi, delle « due pagine striminzite dedicate all’avvento  del cristianesimo », e, i secondi, della mancanza di una  « superiore giustificazione ideale delle notizie raccolte »  a differenza della Storia d'Europa di Croce ?* —, il volume  riscuoterà nel 1943 l’elogio appassionato di Giovanni Mira,  ospitato anch'egli, già aderente al Partito d'Azione, sulle  pagine della « Nuova rivista storica »:    Nella nostra età tempestosa — egli scriveva —, lontani come  siamo dal dogmatismo della storiografia cattolica, dall’orgoglio razio-  nale della volteriana, dall’ottimismo progressista della ottocentesca,  questo sforzo compiuto dal Salvatorelli per stringere in breve la  storia del nostro continente, per far capire anche agli ignari come i  fatti si sono svolti, con una narrazione cosi lucida da non aver  bisogno di commento, con una parola cosî piana da essere intesa da  tutti, col solo interesse di stimolare in sé e negli altri il riesame del  passato, con la sola morale di ritrovare nei fatti umani il lume del-  l’umanità: quest’opera è forse il più sano cominciamento che si possa  dare alla storiografia di domani ?9.    notare come tra i grandi proprietari ed i piccoli agricoltori si fosse for-  mato un partito medio, che potremmo chiamare della borghesia » (Profilo  della storia d'Europa, cit., p. 39).   #6 AE, Ginzburg.   26 Alicata a Einaudi, 30 maggio 1942 (AE, Alicata).   268 Cfr. «La Civiltà cattolica », 94 (1943), vol. II, p. 52, e la recen-  sione di E. Chichiarelli ne «La Nuova Italia », XIV (1943), p. 37.   26 « Nuova rivista storica », XXVII (1943), p. 123. L'opera di Salva-  torelli era presentata da Pietro Amendola al fratello Antonio, in una  lettera del 28 aprile 1941, come una « cronaca », « tranne che per quanto  concerne le questioni religiose o dei rapporti tra gli Stati e la Chiesa,  che è come sai il cavallo di battaglia del Salvatorelli: allora abbiamo  della storia vera e propria » (in Lettere di antifascisti dal carcere e dal  SEO, peo di Giancarlo Pajetta, Roma, Editori Riuniti, Il volume di Salvatorelli testimonia la necessità, av-  vertita dalla casa editrice nel corso della guerra, di confron-  tarsi con le vicende degli altri paesi e di ripensare grandi  momenti o figure del passato, in saggi che, se si eccettua la  cattiva cronaca del Cavour e Napoleone III di Giulio Del  Bono (1941) ”°, accoppiano sempre alla dignità scientifica  una notevole capacità narrativa, e quasi sempre si fanno  portatori di un messaggio politico. Nel 1941 appaiono due  studi di George Macaulay Trevelyan: la Storia dell’In-  ghilterra nel secolo XIX, tradotta da Umberto Morra,  riscosse il plauso di intellettuali di diverso orientamento,  come Eugenio Curiel, che la giudicò « uno dei pit bei libri  di storia usciti in questi ultimi tempi » per l’« acutissima  indagine sociale », ed Ernesto Rossi, che la riteneva « frut-  tuosa, per la formazione della educazione politica. Contro  l’irrazionalismo, oggi tanto diffuso, mostrare gli sforzi coro-  nati dal successo di tanti uomini egregi del secolo scorso, che  si proposero di modificare l'ordinamento esistente per  renderlo più adeguato ad un ideale di superiore civiltà  [...] significa fare una iniezione di ottimismo, e stimolare  all’azione consapevolmente diretta al pubblico bene » ?!.  La rivoluzione inglese del 1688-89 era presentata da Ginz-  burg come quella che aveva «improntato del proprio  formalismo e conservatorismo tutta la vita pubblica nazio-  nale » fino ad allora, tramandando tuttavia anche il prin-  cipio della tolleranza politica e religiosa — e Ginzburg  invitava il lettore italiano a leggere le conclusioni di Tre-  velyan, che vedeva nella rivoluzione « una vittoria della  moderazione », e valorizzava il sistema parlamentare in-    290 Giudicato dall’editore libro « magistralmente condotto» (lettera  del 21 ottobre 1941, in AE, Del Bono), il lavoro era negativamente recen-  sito sulla « Rassegna storica del Risorgimento » (XXX (1943), pp. 511-512)  da Paolo Romano (Alatri), che gli contrapponeva l’interpretazione omo-  deiana di Cavour.   21 Cfr. E. Curiel, Scritti 1935-1945, a cura di F. Frassati, Roma,  Editori Riuniti, 1973, p. 229 (segnalazione apparsa nel « Bollettino del  Fronte della gioventii » del febbraio 1944), e la lettera di Ernesto Rossi a  Luigi Einaudi del 18 novembre 1941 (AFE, Rossi). Salvatorelli apprezzò  l’opera in quanto correggeva l’immagine stereotipa della vita politica  inglese come semplice contrapposizione di due partiti (« Nuova rivista  storica », XXVI (1942), pp. 81-86).    302    Le origini della casa editrice Einaudi    glese nei confronti di « poteri accentrati di un nuovo tipo  e ben più formidabile che non quelli dell'Europa dell’  ancien régime », quali quelli instauratisi in Europa nel  dopoguerra 7°. Il significato politico dell’opera è confer-  mato dai giudizi negativi di Carlo Morandi, per il quale,  di fronte alle novità del secolo XX, l'Inghilterra non era  stata in grado di rivedere le sue posizioni, « preferendo  rinchiudersi nella difesa del passato » — « Ora, veramente,  i motivi fecondi della rivoluzione liberale del 1688 possono  dirsi esauriti » ?? —, e di Cantimori, pur già in contatto  con la casa editrice, che la giudicava « un saggio di apolo-  getica costituzionale » dalla visione conservatrice, dato  l’« insistente paragone, a tutto detrimento di quest’ultima,  con la Rivoluzione francese », e un documento « della men-  talità degli ambienti universitari più vicini alla classe  politica attualmente dominante in Inghilterra » ?*.   Sempre nel 1941 appare — non sappiamo se prima  della guerra all’URSS — la Storia della rivoluzione russa  di William H. Chamberlin, un’opera che l’editore aveva  in preparazione fin dal 1938 — opponendola, come « obiet-  tiva », a quella degli Webb proposta da Schiavi ?° —, e  tradotta da Mario Vinciguerra: un lavoro in cui l’autore  dell’Età del ferro, pur attenuando gli accenti apocalittici  della prima opera per tentare una esposizione « narrativa »  degli avvenimenti russi dal 1917 al 1921, si presta a una  lettura fortemente antisovietica da parte di Omodeo, il  quale osservava che, « per quanto in vari punti l’autore  indulga a correnti punti di vista materialistico-storici e a  connessi schemi classistici », sfuggiva in realtà « agli schemi  generici e vuoti del marxismo », per presentare come deus  ex machina della rivoluzione « la non amabile persona di  Vladimir Ulianov detto Lenin », uomo spregiudicato, con    I G.M. Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, traduzione  di C. Pavese, Torino, Einaudi, 1941 (ediz. originale 1938), pp. IX-XI  Pia di L. Ginzburg), 168, 171 (citiamo dalla seconda edizione del  1945).   2733 « Primato », I (1940), n. 15, p. 20 (siglato CM.).   274 «Leonardo », XI (1940), pp. 321-322; analogo il giudizio di  Tullio Vecchietti {« Rivista storica italiana », LVIII (1941) pp. 106-113).   215 Finaudi a Schiavi, 18 febbraio 1938 (AE, Schiavi).    UA)        « un legame scarsissimo col mondo circostante », caratteriz-  zato dal « doppio aspetto del fanatismo implacabile e della  scaltrezza opportunistica », forgiatore di un partito che  « ricorda insieme il primitivo Islìm e la Compagnia di  Gesù » e « concepisce la dittatura sugli schemi del regime  zaristico: dispotismo di polizia » ?°.   Analoghi motivi di discussione politica sono suscitati  anche dalla presentazione di grandi individualità storiche  di un più lontano passato, e provocano ora incrinature all’  interno della casa editrice, e fra questa e l’ambiente di  « Primato » o de « La Critica ». Il Richelieu di Carl J.  Burckhardt è visto dal curatore dell’opera Bruno Revel,  sulla traccia dell’interpretazione di Belloc — contestata  da Salvatorelli —, come fondatore dell'Europa moderna  e del nazionalismo,    artefice di quell’ordine, che proprio ora ci sta crollando davanti  cosi spettacolosamente, fino a incidere anche nell’ambito della sfera  privata. Tanto più se una quasi ironica coincidenza di suoni con-  fonda due nomi cosî ambigui come Versaglia e Vesfaglia; sf che nou  sai se la travolgente e frastuonante insurrezione contro alla pace di  Versaglia non travalichi ora tali limiti, e non si spinga per avventura  più addietro nei secoli, scalzando dalle basi precisamente l’intero  ordinamento europeo, quale era stato introdotto e legalizzato nella  storia dalla pace di Vesfaglia 27.    E contrastanti sono, nel 1942, due opere che presentano  la differente concezione dello Stato di rilevanti persona-  lità della Grecia antica: da un lato l’ Alessandro il grande  di Georges Radet, che percorre le vicende del biografato alla    2î6 La recensione, apparsa su «La Critica» del 1943, è ora in A.  Omodeo, I/ senso della storia, a cura di L. Russo, Torino, Einaudi, 1970,  pp. 362-365.   297 C.J. Burckhardt, Richelieu, traduzione di B. Revel, Torino, Einau-  di, 1941 (ediz. originale 1900), p. 9. Oltre a contestare la tesi di Belloc,  Salvatorelli sosteneva anche l’esistenza di contrasti fra poteri temporale  e spirituale nel Medioevo: «Fa della mitologia, o della fantasia, il  Revel quando ci parla nella sua prefazione di “quella felice coincidenza  di una cattedra sovrumana e di un ordinamento terreno” che sarebbe  esistita prima dell’età moderna » (Assolutismo del Richelieu, in «Pri-  mato », II (1941), n. 20, pp. 15-16). Notava l’analogia con la tesi di   oc anche Mario M. Rossi nella recensione all’edizione tedesca del  1937 («Nuova rivista storica », XXIII (1939), pp. 266-267).    304    Le origini della casa editrice Einaudî    luce della sua ispirazione religiosa — suscitando la critica  di Omodeo che invitava a una più concreta analisi storico-  politica —, fa dire al curatore che nell’opera di Radet  si vede «sorgere e progressivamente attuarsi il gene-  roso ideale dell’eguaglianza di tutte le genti in un mon-  do pacificato e concorde » ?*; dall’altro Werner Jaeger  — contro gli storici tedeschi dell’800 che, come Droysen,  avevano esaltato l’opera di unificazione « nazionale » di  Filippo il Macedone e di Alessandro, visti come precut-  sori di Guglielmo I — difende il « martire della libertà  greca », Demostene: ed è significativo che mentre su « Pri-  mato » Gennaro Perrotta valorizza la politica egemonica  di Filippo e di Alessandro contro l’« angusta » difesa della  libertà di Atene fatta da Demostene — « ch'era libertà  comunale, municipale » —, più tardi, sulla « Nuova rivista  storica », Giovanni Costa sosterrà la tesi di Jaeger facen-  done proprie le parole — «la lotta di Demostene è im-  mortale, per mortale che sia stata la nazione per cui com-  batté ». Una tesi che già dieci anni prima la stessa rivista  aveva fatto propria, prendendo spunto dal Demostene e  la libertà greca pubblicato nel 1933 da Piero Treves presso  Laterza ?°.   Non mancano quindi elementi di contraddizione all’in-  terno della casa editrice, al di là dei limiti posti dalla  censura che non permettevano di superare la linea liberale  di Omodeo o quella moderata di Trevelyan. Sembra tuttavia  di avvertire, al tempo stesso, una maggiore cautela verso  la casa editrice da parte dell'ambiente crociano — come nel  caso di Chamberlin — e di « Primato » che, con l’inasprirsi    8 G. Radet, Alessandro il Grande, traduzione di M. Mazziotti, To-  rino, Einaudi, 1942 (ediz. originale 1931), p. XII. La recensione di Omo-  deo, apparsa su «La Critica » del 1943, è ora in A. Omodeo, Il senso  della storia, cit., pp. 48-52. Secondo Giovanni Costa Radet operava una  « esagerazione magnificatrice » dell’opera di Alessandro, nel quale invece  « si sente l’autocrate, pi che l’uomo di genio » (« Nuova rivista storica », Jaeger, Demostene, traduzione di A. D'Andrea, Torino, Fina  di, 1942 (ediz. originale 1938); G. Perrotta, Demostene, gli antichi © i  moderni, in «Primato », ICosta in « Nuova  rivista storica», XXVIII-XXIX (1944-45), pp. 335-337; E. Cione in  « Nuova rivista storica »,  della guerra, si arrocca in una posizione di minore « aper-  tura » culturale, accompagnata, alla fine del ’42, dalla ces-  sazione della collaborazione di Alicata e dal diradarsi di  quella di Muscetta. Uno sguardo ai progetti della casa  editrice in questo periodo, che riguardano in particolare  il settore storico, può aiutarci a spiegare questa iniziale  presa di distanza. Alcune proposte, in questo campo,  tendono infatti a ricostruire una tradizione democratica  nel pensiero politico italiano a partire dalla Rivoluzione  francese, e non perdono il loro significato per il fatto di  cadere nel nulla — anche per le traversie della casa editrice  dopo il 25 luglio —, o di essere realizzate, in gran parte,  dopo la Liberazione.   Si comprende come, in questo quadro, non abbiano  esito le proposte avanzate da Maturi nel 1942 ?”, scarsa-  mente innovative nella tematica e, forse, ritenute poco  attraenti pet i legami di Maturi con Volpe, o quella di  Vittorio Gorresio, che nel 1941 aveva terminato un saggio  sulla « storia del bolscevismo in Italia dal 1917 al 1921 »  in cui sottolineava « l’isolamento del partito comunista dal  grande tronco del socialismo », ma che fu sottoposto al  giudizio di Pavese che lo ritenne « superficiale » ?!. Nel  1941 Piero Pieri, che nella « Nuova rivista storica » aveva  segnalato con simpatia alcuni dei titoli più innovativi di  Einaudi, propose una raccolta di saggi di storia militare che  « non furono terminati per il Volpe, perché io non volli  più sottostare alle osservazioni e mutilazioni di due militari  di professione messi alle costole all’Accademico », tanto  da dover subire le « sue basse vendette » 2; e mentre  Cantimori, fra gli altri progetti, avanza quello di una rie-  dizione de La repubblica romana del 1849 del mazziniano  ministro degli esteri della repubblica Carlo Rusconi ?*    280 Maturi propose volumi su Lord Bentinck e i Borboni di Sicilia,  Nigra, e Le interpretazioni del Risorgimento, frutto del corso pisano del  1942-43 (AE, Maturi).   281 Gorresio a Einaudi, 20 novembre 1941 (AE, Gorresio}; Einaudi ad  Alicata, 13 gennaio 1942 (AE, Alicata).   282 Pieri a Einaudi, 6 luglio 1941 (AE, Pieri).   283 Nel 1941-42 l’editore si dimostrava interessato a questa e ad altre    306    Le origini della casa editrice Einaudi    Falco propone, pur con riserve legate alla tendenza « mate-  rialistica » dell’autore, il volume di Domenico Dematco su  Il tramonto dello Stato pontificio — che sarà pubblicato  nel 1949 —, e una scelta di scritti di Giuseppe Montanelli  in cui, osservava, « andrebbe conservato quanto riguarda  la coltura del tempo, problemi vivi anche ai nostri giorni,  come la democrazia, il socialismo, la personalità del Mon-  tanelli, soprattutto in relazione coi pensatori e politici  contemporanei » ‘4. Alessandro Schiavi, che aveva già pro-  mosso presso Laterza la pubblicazione di alcune memorie  di esponenti socialisti, con la speranza di poter continuare  una battaglia politica ”, propone nel 1941 — senza suc-  cesso per il timore dell’editore di incorrere nella censura  — un saggio di Zibordi sulla Storia del partito socialista  italiano nei suoi congressi, e nel 1942 un proprio volume  su I contadini e i socialisti italiani che si sarebbe giovato  di note stese da Nullo Baldini. Il 1° settembre 1942, infine,  Schiavi inviava a Einaudi tre cartelle di un suo Proezzio  al carteggio Turati-Kuliscioff, suscitando l’interesse dell’  editore, che cercherà di avviare la pubblicazione nell'agosto  1943 perché « il libro — scriveva — potrà riuscire som-  mamente opportuno e formativo, nelle prossime lotte  sociali »; gli scopi politici dell’edizione erano ben chiari  anche a Schiavi, per il quale la giovane generazione,    che non ha avuto modo di conoscere i pionieri e gli artieri del  movimento sociale in Italia trascinati via dalla morte e dall’esilio,  inibita di leggerne la vita e l’opera nei libri perché arsi e sequestrati  come apportatori di veleni, ignara del senso di libertà che tien deste  e aperte le menti alle varie correnti del pensiero e dell’opinione e  della critica che le scerne e le affina, e che non è quindi in grado  di giudicare di quel movimento che fece di una plebe un popolo,    proposte di Cantimori, come la traduzione di Politik als Beruf e Wissen-  schaft als Beruf di Max Weber (AE, Cantimori).   284 AE, Falco.   285 Significativa la lettera inviata il 24 gennaio 1932 da Schiavi a  Felice Anzi per incoraggiarlo a scrivere le sue memorie: «Non tutto  sparisce colla inerzia imposta, oltreché dalle circostanze, dagli anni, e  un po’ della semente gettata germoglierà, e il nostro spirito rinascerà in  quelle particelle che andranno a formare la società quale noi l’abbiamo  sognata. Ed in tal senso il nostro io non morirà » (ACS, Casellario politico  centrale, b. 4689, fasc. 6133).  attraverso lotte, errori, cadute, e sforzi innumerevoli, se non nelle  leggende sconce e vituperose di avversari senza fede in un ideale,  senza rispetti umani, e sol gonfi di sé medesimi, potrà imparare da  queste lettere di che ‘lagrime e di che sangue l’ascensione delle classi  lavoratrici italiane voluta, preparata ed avviata da un pugno di  uomini colla sola forza della persuasione e della comprensione, della  solidarietà e della educazione [sic] 286.    Sempre nel 1942 Alicata, mentre rifiutava la proposta  di tradurre Qu'est-ce que la proprieté? di Proudhon, perché  « a parte il coraggio di certe formule diventate famose, è  un po’ fiacco nell’analisi dialettica », si faceva portatore  della proposta di Gastone Manacorda — il quale nell’ot-  tobre dichiarava di averne già terminato la traduzione —  di pubblicare la Storia della congiura degli uguali di Filippo  Buonarroti — indicato nel 1937 da Franco Venturi, su  « Giustizia e Libertà », come il « primo egualitario ita-  liano » ” —, e del Sistemza politico degli uguali di Babeuf.  Il primo testo — che sarà pubblicato nel 1946 — incontrò  l’approvazione di Einaudi ?*, che nello stesso anno pubblicò  il Saggio su la Rivoluzione di Pisacane. Dai progetti si era  ormai passati alle prime realizzazioni; e la storia di questa  edizione non è meno significativa delle pagine di prefa-  zione scritte da Pintor e dell’eco che essa suscitò. Nell’e-  state del 1941 Aldo Romano, che nel corso degli anni ’30  si era già occupato della figura di Pisacane, aveva proposto  a Einaudi una scelta di suoi scritti, che in un primo tempo  avrebbe dovuto curare per la collana « Studi e documenti  di storia del Risorgimento » diretta da Gentile e Menghini  presso Le Monnier, e che non prevedeva il saggio sulla    286 Schiavi a Einaudi, 29 agosto 1941 e 1 settembre 1942, ed Einaudi  a Schiavi, 3 agosto 1943 (AE, Schiavi).   281 Gianfranchi [F. Venturi], F. Buonarroti, primo egualitario italiano  1837-1937, in « Giustizia e Libertà », 13 agosto 1937.   288 Per Proudhon cfr. Alicata a Einaudi, 18 giugno 1942 (AE, Alicata);  per Babeuf e Buonarroti, Alicata a Einaudi, 11 maggio 1942 (AE, Alicata);  il 18 luglio 1942 Fabrizio Onofri scriveva all'editore di avere esaminato  assieme ad Alicata una scelta di scritti di Babeuf (AE, Onofri); nel  marzo 1943 Alessandro Galante Garrone inviava lo schema di un suo  volume su Mazzini e Buonarroti, mentre l’editore lo avvertiva che dal  giugno 1942 Gastone Manacorda era stato incaricato di tradurre la Conspi-  ration pour l’égalité di Buonarroti (AE, Galante Garrone).    308    Le origini della casa editrice Einaudi    Rivoluzione. Alle obiezioni dell'editore, che chiedeva solo  quest’ultimo, Romano rispondeva che il terzo saggio era  « solo una parte dell’opera di Pisacane, ma non certo la  più importante. Staccata dalle altre rappresenta un fram-  mento che ora non vale la pena di pubblicare [...]. Il  terzo saggio contiene, nelle sue pagine migliori, il pensiero  sulla quistione sociale, ma non certo tutto il pensiero poli-  tico del Pisacane: le pagine migliori si trovano nel IV  saggio che, collegate a quelle poche del secondo, rappre-  sentano il pensiero del Pisacane sulla guerra, la sua filosofia  della guerra come creatrice di eventi »; ma il 2 settembre  1942 Einaudi gli rispondeva di aver affidato la Rivoluzione  a un suo collaboratore’. Non è probabilmente senza  motivo — o motivi — che il nome del democratico meri-  dionale, annoverato alla fine dell’800 fra i precursori del  socialismo, ma di cui nel 1932 Nello Rosselli aveva messo  in luce le contraddizioni del pensiero sociale per ricavarne  l’ammonimento che « il riscatto di un popolo dalla tirannia,  dalla serviti, dalla cronica fiacchezza politica, è anzitutto  problema morale » — e Ferruccio Parri non mancò di  rilevare la riduttività del giudizio di Rosselli ?° —, tornasse  a circolare con lo scoppio della guerra: con patticolare  riferimento alla Guerra combattuta ne parlarono Giansiro  Ferrata su « Primato » e, su « Argomenti », Raffaello Ra-  mat, che pose però l’accento anche sul pensiero politico  e sociale di Pisacane ?!. In questo contesto, la scelta einau-  diana trovava già predisposto uno spazio di intervento, ma  assumeva anche particolare rilievo, come ha ricordato  Gerratana affermando che essa « fu in quel periodo uno    289 AE, Romano.   29 Cfr. N. Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, con  un saggio di W. Maturi, Torino, Einaudi, 1977, p. IX, e la recensione  di Parri (siglata F. Pr.) al volume di Rosselli, che notava in Pisacane  delle « rigide postulazioni di comunismo autoritario e spregiudicato, le  quali sono — sembra a me in qualche dissenso da Rosselli — più che  fredde e formali e provvisorie acquisizioni ideologiche », e suggeriva di  dare maggiore spazio all’influenza di Marx su Pisacane {« Nuova rivista  storica », XVII (1933), pp. 157, 161).   DI G. Ferrata, Strategia di Pisacane, « Primato », I (1940), n. 17, pp.  13-14; R.R. [R. Ramat], Per un'antologia di scritti del Pisacane, in  « Argomenti », I (1941), pp. 101-104.    309        dei più importanti contributi alla cultura antifascista della  nostra generazione » ??, Infatti nella presentazione del  Saggio Pintor operava una netta rottura con l’interpreta-  zione di Rosselli: pur mettendo in luce i limiti teorici e  politici di Pisacane, coglieva in lui l’intreccio di motivi maz-  ziniani e marxiani e, soprattutto, lo indicava come « l’unico  socialista intransigente dell’Italia pre-unitaria, e un socia-  lista per temperamento e per metodi assai più vicino ai  moderni teorici che ai vecchi dottrinari di un’utopia collet-  tivista », in quanto « l’affermazione cosi frequente in Pisa-  cane che le idee derivano dai fatti, e non questi da quelle,  corrisponde nella sua sommaria enunciazione al cosiddetto  “rovesciamento della dialettica hegeliana” operato da  Marx » ?3, Era un’affermazione che, al di là della sua cor-  rettezza interpretativa, ebbe un’eco significativa: alcuni la  passarono sotto silenzio, come il recensore di « Critica  fascista » che si limitò a sottolineare l’autonomia di pen-  siero e l'imperativo morale del patriota, o la contestarono,  come Gabriele Pepe, che dopo aver messo in luce l’astrat-  tezza di pensiero e la lontananza dal marxismo di Pisacane,  assegnò al Saggio un significato « esclusivamente patriot-  tico »; ma subito, nel 1942, Muscetta salutò su « Primato »  la ristampa di « un classico della pix schietta tradizione  rivoluzionaria italiana », mentre sulla « Rivista storica ita-  liana » Armando Saitta difese il valore teorico del suo  pensiero, in particolare l’intuizione, a suo parere marxista  e sociologica insieme, del popolo come « classe politica »,  e più tardi, nell’inverno 1943, Paolo Alatri potrà affermare  che « alla base di tutto il Saggio è una convinzione che diffi-  cilmente anche oggi, a circa un secolo di distanza nel tempo  da quando esso fu scritto, ci si sentirebbe di rifiutare: che  cioè una rivoluzione, per mutare veramente un mondo, deve    22. Introduzione a G. Pintor, I/ sangue d'Europa, cit., p. XL..   293 Cfr. la prefazione al Saggio, del 1942, ora in G. Pintor, I/ sangue  d'Europa, cit., pp. 113-117. Nonostante la conclusione della vicenda  editoriale, il 16 febbraio 1943 Pintor ammoniva Einaudi: «ti ricordo  l'opportunità di non buttare a mare completamente i collaboratori che  ti sono antipatici: i calci in faccia dati a Romano e la distruzione del suo  volume risultano ora piuttosto dannosi giacché una scelta degli scritti  di Pisacane non si improvvisa e il volume è rarissimo » (AE, Pintor).    310    Le origini della casa editrice Einaudi    essere sovvertimento di un ordine costituito non soltanto  politico ma anche e soprattutto sociale » ?*.   Resta l’interrogativo di come, nello stesso tempo, Pintor  potesse consigliare a Einaudi la pubblicazione, avvenuta  nel 1943, de I proscritti di Ernst von Salomon, uno degli  assassini di Rathenau, un volume che l’editore propagandò  perché vi era rievocata la guerriglia « per strappare le re-  gioni baltiche alla minaccia bolscevica », e al quale già nel  41 aveva dichiarato di tenere molto, assieme a Volk obne    Raum del pangermanista Hans Grimm, « per il loro tono    documentario nazionalsocialista » ?5; una proposta che Pin-    tor cercherà di « riscattare » nella recensione al volume —  pubblicata postuma —, tesa ad analizzare, con moduli can-  timoriani, anche se concettualmente assai più fragili, la vi-  cenda dei « reazionari di sinistra » tedeschi del primo dopo-  guerra, vista come testimonianza del « destino di un'epoca  in cui la tolleranza doveva diventare una colpa e la morte    fisica scendere con inaudita violenza su intere generazio-    ni» 2,    L’interrogativo posto per Pintor ci sembra valido anche  per l’editore, che nel 1939 aveva consigliato cautela a    24 P. Succi in «Critica fascista », XX (1942), p. 234; G. Pepe ne  « La Nuova Italia », Don Santigliano [Muscetta]  in « Primato », III (1942), p. 159; A. Saitta in « Rivista storica italiana »,  LIX (1942), pp. 279-282; P. Romano [Alatri], in « Leonardo», XIV  (1943), p. 247.   295 Cfr. Attività Einaudi anno XXI (ACS, Segreteria particolare del  duce, Carteggio ordinario, n. 528771, sottofasc. 1); Einaudi ad Alicata, 24  novembre 1941 (AE, Alicata); G. Pintor, Doppio diario, cit., p. 203 n.  10.   2% G. Pintor, Il sangue d’Europa, cit., pp. 162, 164. Recensendo più  tardi il volume Croce, dopo aver ricordato la nobile figura di Rathenau  e la «radicale negazione della moralità » dei « mistici » tedeschi, in  questo simili ai fascisti italiani, concludeva con velata ironia: «La tra-  duzione italiana del libro del Salomon, è stata pubblicata nel marzo 1943,  nel tempo dell’ancora imperante fascismo, e dovette perciò avere il lascia-  passare di quel regime: al quale è da credere che tale libro sembrasse  edificante, confortante, educativo, persuasivo per gli italiani, perché  dettato nello stesso spirito di talune delle nobili sentenze che allora  si facevano imprimere dappertutto sui muri delle case urbane e rurali.  Ma l’accorto editore, provvedendo a quella traduzione, avrà avuto di  mira, crediamo, l’intento opposto» (Misticismo politico tedesco («La  Critica », 1944), ora in B. Croce, Pagine politiche (luglio-dicembre 1944),  Bari, Laterza, Spellanzon nella cura delle Considerazioni sulle cose d’Italia  nel 1848 di Cattaneo: poiché « la materia è, a novant'anni  di distanza, ancora cosi incandescente », scriveva Einaudi,  era « indispensabile far precedere il testo di Cattaneo da  un’introduzione, che serva un po’ da antidoto, un’intro-  duzione che non sia naturalmente di piaggeria carlalbertina,  ma renda equilibratamente ragione dell’occasione e dell’in-  tonazione dell'Archivio triennale e di questi scritti che ne  formano l’ossatura ». Ma all’editore di Omodeo, spietato  critico della « leggenda » di Carlo Alberto, Spellanzon  aveva risposto di non essere sicuro di poter scrivere una  introduzione-« antidoto », perché si sentiva « meno caldo  di furore di quell’uomo inesorabile e severo, vero Farinata  del secolo decimonono. Ma {...] all’infuori del toro, e  all’infuori di qualche sua deduzione troppo consequenziaria,  io condivido molta parte dei giudizi del fiero lombardo! » ?”.  Infatti nella presentazione dell’opera pubblicata nel 1942  — che nella ristampa del 1949 sarà dedicata a Salvemini  —, Spellanzon faceva sue le critiche del democratico mila-  nese alla politica di Carlo Alberto, e coglieva negli scritti  dell’« Archivio triennale » «un acerbo disdegno per i  subdoli maneggi di servi cortigiani e gesuitanti, un caldo  amore di libertà inseparabile da ogni impresa di civile  progresso. Anche in queste pagine, il Cattaneo ci appare  quel che fu durante l’epico momento delle Cinque Gior-  nate: il Farinata della rivoluzione nazionale italiana » ?*.  Scontate appaiono quindi, da un lato, le critiche de « La  Civiltà cattolica » e, dall’altro, la favorevole accoglienza  di Pieri, per il quale con questo volume « la tanto auspicata  ricostruzione della storia del nostro Risorgimento è final-  mente in atto, nelle sue correnti ideali, nel suo travaglio  politico, nello sforzo d’elevazione morale di tutta la vita  italiana »; ma anche Carlo Morandi, su « Primato », invi-  tava ad una lettura del Cattaneo democratico ben diversa  da quella proposta nel ’39 da Luigi Einaudi: « Nella storia,    297 Einaudi a Spellanzon, 24 giugno 1939, e Spellanzon a Einaudi,  7 luglio 1939 (AE, Spellanzon).   28 C. Cattaneo, Considerazioni sulle cose d’Italia nel 1848, a cura  di C. Spellanzon, Torino, Einaudi, 1942, p. XCII.    312    Le origini della casa editrice Einaudi    se l’obbiettività è un’utopia, la probità è un dovere. Sa-  rebbe eccessivo affermare che la probità del Cattaneo, anche  in queste pagine, non è inferiore a quella degli scrittori suoi  contemporanei di parte avversa? Crediamo di no » ?”   Ma poco prima del 25 luglio, alla vigilia di una nuova  fase nella vita della casa editrice, Einaudi cercava un punto  di equilibrio affidando ancora una volta a Salvatorelli il  compito di riassumere in rapida sintesi una riflessione del  Risorgimento che unificasse la concezione liberal-moderata  di Omodeo e quella democratica di Spellanzon, pur in una  visione sempre etico-politica della storia. In Pensiero e  azione del Risorgimento, individuata nella circolazione delle  idee del '700 europeo la matrice del processo risorgimen-  tale, Salvatorelli superava sue precedenti incertezze inter-  pretative ripercorrendone le tappe attorno al nesso di  « pensiero e azione », che vedeva per la prima volta in-  carnato dai giacobini italiani, per passare poi nell’inse-  gnamento di Mazzini e spiegare la « funzione capitale »  svolta dal Partito d’Azione. Pur contestando la sottovalu-  tazione di Cavour e l’unico punto — relativo alla rivolu-  zione del 1848 — in cui l’autore accennava al problema  sociale — e il recensore sottolineava la « difettosa impo-  stazione etico-giutidica di tutti i moti socialistici » —,  Omodeo poteva salutare, su « La Critica » del 20 luglio  1943, « un’opera meritoria » nella dura polemica contro  « certi indirizzi semi-camorristici che con la prepotenza han  preteso imporre risultati prestabiliti alla ricerca storica »;  e Curiel inviterà a leggere il volume, perché metteva in  luce « le forze progressive della democrazia, indicandone le  insufficienze per cui il moto rivoluzionario per l’unità  d’Italia sboccò nel compromesso monarchico e nel pseudo-  liberalismo antidemocratico » *”. Infatti dalla ricostruzione    ._ 29 «La Civiltà cattolica», 93 (1942), vol. IV, p. 252; Pieri in  « Nuova rivista storica », XXVII (1943), p. 143; Morandi in « Primato »,  III (1942), p. 179. Cfr. anche, più tardi, la recensione di Bianca Ceva  ne « «La Nuova Italia », XIV (1943), n. 7-12, pp. 88-90.   «La Critica », XLI (1943), pp. 219-221; E. Curiel, Scritti 1935-  1945, cit., vol. II, p. 229 (segnalazione sul « Bollettino del Fronte della  gioventd » del febbraio 1944). Anche Carlo Morandi, pur non condivi-  dendo alcune osservazioni particolari di Salvatorelli, ne sposava comple-    storiografica — che arrivava ad accennare alla crisi del  dopoguerra, pur senza nominare il fascismo — Salvatorelli  faceva scaturire nella pagina conclusiva un chiaro messag-  gio politico, invitando a « non subire le deformazioni e  i traviamenti delle visuali nazionalistiche »; ma a « preser-  vare la libertà di pensiero e d’azione, guardare dall’alto e  lontano, ascoltare e riflettere, preparare e costruire, se-  condo le direttive di principio espresse dalla coscienza  storico-morale dell’umanità, in cammino verso la sua meta  divina: la pienezza di vita dello spirito nella fraternità  universale » *!   A valori umani e civili non confinabili in un ambito  nazionalistico intendeva ispirarsi anche la nuova collana  « Universale » che cominciò a uscire nel 1942 sotto la  direzione di Muscetta, invitato dall’editore ad accelerarne  i tempi di pubblicazione « di fronte alle minacce di con-  correnza che si annunziano da varie parti » ®*”, Il 15 giugno  1942, infatti, « Primato » presentava con soddisfazione  l'uscita di due collane « universali » ritenute necessarie,  in quanto « fra le caratteristiche di questa guerra, gli sto-  rici ricorderanno anche la fede nei valori della cultura,  l'ardente bisogno di dissetarsi alle sorgenti di vita eter-  na » ®*: la « Corona » di Bompiani e la collana einau-  diana, cui avrebbe fatto seguito, nel 1943, la « Meridiana »  di Sansoni, con volumi il cui piccolo formato era imposto    tamente la tesi generale sulle origini non autoctone del Risorgimento,  legate alla Rivoluzione francese (La polemica sul Risorgimento, in « Pri-  mato », IV (1943), 1-15 agosto, pp. 267-268).   %! L. Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, Torino, Einaudi,  1943 (finito di stampare il 18 marzo), p. 222.   302 Einaudi a Muscetta, 23 marzo 1942 (AE, Muscetta). La discus-  sione sulle caratteristiche della nuova collana fu assai vivace nell’autunno  del 1941, quando l’editore pensava di suddividerla in due sezioni, una  « Biblioteca classica universale », dove avrebbe potuto apparire l'Aesthetica  in nuce di Croce, e una « Biblioteca moderna universale »: cfr. G. Pintor,  Doppio diario, cit., pp. 157, 163; Muscetta a Einaudi, 29 ottobre 1941  (AE, Muscetta); Einaudi ad” Alicata, 27 ottobre 1941 (AE, Alicata).   303 Vice, Il problema delle « Universali », in « Primato », III (1942),  p. 233. A proposito della nuova collana, il redattore capo della rivista,  Giorgio Cabella, il 20 maggio 1942 scriveva a Einaudi: « Non mancherò  di farne parlare su “Primato” con quella cura e attenzione che abbiamo  sempre usato per le Vostre pubblicazioni e che questa collezione merita »  (AE, Cabella).    314    Le origini della casa editrice Einaudi    anche da un dato oggettivo, la carenza di carta. Da parte  fascista si cercò di cogliere in queste iniziative la prova di  un sostegno della cultura alla « guerra italiana », « come  se lo spirito — affermava Lorenzo Gigli in un articolo  della « Gazzetta del popolo » fatto proprio da « Primato »  — voglia in pieno conflitto proclamare e dimostrare il rag-  giunto grado della sua emancipazione e sottintendere fin  d’ora un impegno fondamentale nel processo ricostruttivo di  tutti i valori morali e materiali che seguirà alla conqui-  stata indipendenza politica ed economica della Nazione  come frutto della guerra vinta » ®*. La nuova collana di  Einaudi si presentò tuttavia, fin dall’inizio, come espres-  sione di un rinnovamento culturale della casa editrice, che  intendeva ora allargare il suo pubblico con volumi agili e  a basso prezzo — non è un caso che dai 29 volumi del 1941  si balzasse ai 53 del 1942, per attestarsi sui 41 nel 1943.  Anche se l’annuncio editoriale era necessariamente ambi-  guo — la collana « non vuole assecondare diffuse abitu-  dini culturali, ma orientare il pubblico secondo un gusto  italiano, aperto alle esperienze moderne, ma sempre viva-  mente sensibile alla nostra secolare tradizione umanisti-  ca » ® —, il giudizio espresso nel dopoguerra, nella fase  di preparazione di « Politecnico biblioteca », da Vitto-  rini, al quale la vecchia « Universale » appariva « com-  promessa dalle inclusioni di opere esplicitamente reazio-  narie » **, non solo prescinde dalla necessaria collocazione  storica dell’iniziativa, ma risulta anche inesatto, e oppor-  tunamente contraddetto da Concetto Marchesi che, all’u-    30 Vice, Calendario, in « Primato », III (1942), p. 292.   305 Cit. da C. Cordiè in « Leonardo », XIII (1942), p. 135.   36 Vittorini a Einaudi, 3 luglio 1945, in E. Vittorini, Gli anni del  « Politecnico ». Lettere 1945-1951, a cura di C. Minoia, Torino, Einaudi,  1977, p. 8. Nella comunicazione a Einaudi di un colloquio avvenuto il  4 luglio 1945 tra Vittorini e Pavese a proposito dell’« Universale », si  dirà che Vittorini «intende aprire la collezione a moderna letteratura  progressiva — sia creativa sia polemica — la quale escluderebbe natural-  mente molti titoli che in passato entrarono nella collezione. Treifschke e  Novalis non possono sopravvivere quando entri, cosî per dite, il teatro  di Saroyan, la poesia di Toller, la polemica di un oratore sovietico. A  Pavese pare che possano » (AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma  1945).    315        scita dei primi volumi della collana, lodava Einaudi per  aver « fatto entrare la sua attività editoriale nella storia  della nostra cultura italiana che tanti maltrattamenti e  oscuramenti ha dovuto sopportare » *”   Ciò non significa che non siano numerosi titoli pura-  mente letterari non inquadrabili nelle finalità di un orien-  tamento politico, prima e dopo il 25 luglio, o che non  fossero scartate proposte di testi più incisivi da questo  punto di vista **. Ma è bene ricordare che alcune esclusioni  sono da attribuirsi alla necessità di un compromesso con  la censura: « Bottai potrebbe dire una parola a Pavolini  — scriveva l’editore a Muscetta l’8 aprile 1942, rivelando  un rapporto privilegiato con il ministro dell’Educazione  nazionale — [...]. Noi faremo molti italiani e quindi anche  qualche straniero [...]. Accetteremo nello svolgimento del  piano i loro consigli, e sospenderemo nel caso qualche vo-  lume che può essere inopportuno. Ma occorre che anche  loro collaborino con noi » *°. E tuttavia Einaudi poteva a  buon diritto scrivere ad Arrigo Benedetti che con l’« Uni-  versale » gli pareva di venire incontro « a un vero bisogno  della nostra cultura nazionale. Tengo molto a che questa  collezione non passi per un tentativo di volgarizzamento  di cui non si sentiva affatto la necessità, ma per un con-  tributo fattivo a un riesame serio e consapevole del patri-  monio culturale universale. In quest'ultimo senso vorrei  appunto che fosse inteso l’attributo della mia collezio-    30? Marchesi a Einaudi, 23 maggio 1942 (AE, Marchesi).   308 Per i vari progetti di pubblicazione cfr. AE, Muscetta. Fra i testi  non realizzati figurano: La rivoluzione e i rivoluzionari in Italia di Ferrari,  affidato nel giugno 1942 a Mario Ceva e poi, nell’ottobre, a Cantimori  AE, M. Ceva, Cantimori); i Pensieri politici di Vincenzo Russo scartati  dall’editore che, d'accordo con Alicata, accantonò anche il progetto di  pubblicazione del saggio sulla libertà di Labriola — non sappiamo se  quello Della libertà morale del 1873 o quello Del concetto della libertà  del 1878 —, in quanto «le osservazioni interessanti per lo sviluppo futuro  del suo pensiero sono appena marginali; siamo ancora in piena disqui-  sizione psicologistica herbartiana, priva di interesse per noi» (lettere a  Muscetta del 24 agosto 1942 e ad Alicata del 26 agosto 1942, in AE,  Muscetta, Alicata). Il 25 giugno 1943 Ginzburg inviava il sommario di  un’antologia di scritti di Cattaneo (AE, Ginzburg).   39 AE, Muscetta.    316    Le origini della casa editrice Einaudi    ne » *°. In effetti, le finalità di apertura cosmopolitica della  collana vennero rispettate, se dal 1942 al 1946 i titoli ita-  liani risultano solo 17 su un totale di 69, di cui 5 su 10  nel 1942 e 7 su 19 nel 1943; e le prefazioni, stringate ma  spesso assai incisive, furono affidate in molti casi a intel-  lettuali antifascisti, anche se non tutti quelli contattati,  come Marchesi, poterono rispondere all’appello.   Cosi, mentre i Canti del popolo greco di Tommaseo  assumono oggettivamente, all’inizio del 1943, un signifi-  cato politico, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee  Masters, da tempo segnalata da Pavese che vi vedeva « un  meraviglioso mondo che ci parve qualcosa di più che una  cultura: una promessa di vita, un richiamo del destino »,  suggerisce alla curatrice, Fernanda Pivano, l’osservazione  che « solo le anime semplici riescono a trionfare nella  vita » *!, E Ginzburg, se ne La sonata a Kreutzer di Tol-  stoj indicava i motivi artistici come prevalenti su quelli  sociali, terminava la prefazione a La figlia del capitano  ricordando l’epigrafe di Puskin — « tieni da conto l’onore  fin da giovane » ?* —, mentre presentando Cristianità 0  Europa di Novalis Mario Manacorda metteva in luce la  « statolatria reazionaria » dell’autore, che    trasferisce allo stato « etico », nazionale e monarchico, quei compiti  ideali di civiltà che l’illuminismo assegnava allo stato razionale e  cosmopolitico, e, confondendo evidentemente stato e società, dà una  cattiva versione romantica dell’esser cive quando afferma che « il più  umano dei bisogni è quello di uno stato » e predica la necessità che  lo stato sia dovunque visibile anche nei distintivi e nelle uniformi 313.    310 Einaudi a Benedetti, 16 maggio 1942 (AE, Benedetti). La scelta  delle novelle di Maupassant fatta da Benedetti non ottenne il nulla osta  della censura per l’inclusione di quelle riguardanti la guerra del 1870  (Alicata all'editore, 30 marzo e 24 giugno 1942, in AE, Alicata); il 30  luglio 1943 l’editore scriveva a Benedetti: «Facciamo subito il Mau-  passant. Dovresti tradurre le novelle di guerra escluse in un primo  tempo » (AE, Benedetti).   311 E. Lee Masters, Antologia di Spoon River, a cura di F. Pivano,  Torino, Einaudi, 1943, p. XII; C. Pavese, La letteratura americana, cit.,  p. 64.   32 Ora in L. Ginzburg, Scritti, cit., pp. 153, 289.   313 Novalis, Cristianità o Europa, a cura di M. Manacorda, Torino,  Einaudi, 1942, pp. XII-XIII.    317        Accenti antigentiliani, non privi talvolta di risvolti  politici, sono avvertibili anche nella presentazione di molti  letterati e uomini politici italiani dell’800: accanto alla  valorizzazione del cristianesimo di Capponi, ritenuto da  Umberto Morra « più vivo » di quello manzoniano *!, o  all’inclusione di esponenti moderati del Risorgimento cari  alla concezione liberale di un Luigi Einaudi o di un Omo-  deo, come Cavour — di cui Cantimori cura una scelta  dei Discorsi parlamentari sottolineandone il realismo poli-  tico *° —, appaiono autori propri della genealogia risorgi-  mentale di Gentile — Cuoco, Foscolo o Alfieri —, ma  profondamente rivisitati. Significativo non solo in questo  senso, ma anche come una sorta di manifesto di tutta la  collana, è il primo titolo pubblicato, le Ultizze lettere di  Jacopo Ortis, che offriva a Muscetta l’opportunità di far  proprie le affermazioni pacifiste di un commentatore di  Foscolo — « Un popolo non deve snudare la spada se  non per difendere o conquistare la propria indipendenza.  Se attacca i vicini per aggiogarli, si disonora; se invade il  loro territorio col pretesto di fondarvi la libertà, o è  ingannato o s’inganna » —, e di riproporre la concezione  democratica e antitirannica espressa in « pagine dimen-  ticatissime » da Cattaneo, per il quale Foscolo fu    il primo a gettare in Italia quella vanissima sentenza, che il « rimedio  vero sta nel riunire in una sola opinione tutte le sètte ». È idea  chinese, idea bizantina; e per essa la Grecia, sf feconda quand'era  piena di sètte, giacque per mille anni nel letargo della sepolcrale  ortodossia bizantina. Ogni setta che invoca questo sofisma intende  solo imporre silenzio alle altre tutte, fuorché a se stessa, e regnare  unica e sola3!.    314 G. Capponi, Ricordi e pensieri, a cura di U. Morra, Torino, Einau-  di, 1942, p.X.   315 C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D. Cantimoti,  Torino, Einaudi, 1942, p. XII. Scrivendo a Finaudi il 28 aprile 1943,  Ragghianti giudicava alcune note di Cantimori « tendenziose, con un profu-  mino di “marxismo” aggiornato, che dà noia » (AE, Ragghianti).   316 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di C. Muscetta,  Torino, Einaudi, 1942, pp. XIV-XV. «La Civiltà cattolica » noterà che  l’opera di Foscolo era posta all'Indice (a. 94, 1943, vol. II, p. 388). Nel  1943 Manlio Mazziotti presentava Il Congresso di Vienna (1814-1815)  di Heinrich von Treitschke affermando che per l’autore lo Stato era forza,    318    Le origini della casa editrice Einaudî    10. I quarantacinque giorni, la Liberazione e il Fronte  della cultura    Entusiasmo e frenesia di iniziative contraddistinguo-  no il periodo immediatamente successivo alla caduta di  Mussolini, quando ai tentativi di acquisire il controllo  su un giornale — già il 26 luglio, quando « Roma vive  il primo giorno di libertà », Muscetta invitava Einaudi a  « metter le mani » su « Primato » *” — si aggiungono a  ritmo serrato, fino all’8 settembre, proposte di nuovi vo-  lumi e collane, destinate per la maggior parte ad essere  definitivamente accantonate o sospese fino alla Liberazione,  non solo per l’incertezza della situazione politica generale.  Inizia infatti un processo di riassestamento della casa edi-  trice di non facile soluzione — tanto che si ripresenterà,  aggravato, dopo il 25 aprile 1945 —, dove ai problemi    ma che «una forza che calpesta ogni diritto deve finalmente andare in  rovina, perché nel mondo morale nulla si regge che non abbia virtî di  resistere » (p. IX).   7 AE, Muscetta. Intense furono le trattative per l'acquisto di altri  Genta Si pensò, da parte di Muscetta e Ginzburg, a « La Ruota » da  trasformare in settimanale sotto la direzione di Mario Vinciguerra (AE,  Vinciguerra, 30 agosto 1943; Muscetta, 11 agosto 1943), anche se Pintor  affermava: « Resta da decidere se l’acquisto di una rivista in questo mo-  mento e con le prospettive oscure che ci attendono sia un gesto oppor-  tuno e resta da fissare l’indirizzo politico della rivista. Un uomo come  Vinciguerra, degnissimo ma ufficialmente legato a un partito, non mi  pare il più adatto per la direzione » (AE, Pintor, 9 agosto 1943). Vi  furono trattative anche per « Il Lavoro italiano », per cui Pintor entrò in  contatto con Piccardi che non voleva — scriveva Pintor a Einaudi — « affi-  darlo a elementi troppo di destra, dato che si tratta del Quotidiano dei  Lavoratori. Temeva che tu avessi le idee di tuo padre» (AE, Pintor,  30 luglio 1943; Muscetta, 18 agosto 1943). Per la « Gazzetta del popolo »,  che Einaudi avrebbe voluto affidare alla direzione di Felice Balbo, si  chiese l'appoggio di Bonomi presso l’IRI, ma Pintor non riuscî a convin-  cere Menichella che — comunicava all’editore — « vede nerissimo, pre-  vede il regno dei grossi capitalisti e un attacco in grande stile contro  l’IRI. La “Gazzetta del popolo” come la faremmo noi costituirebbe una  provocazione contro i pescicani e affretterebbe la catastrofe » (AE, Pintor,  3 e 31 agosto 1943; Bonomi, 31 luglio 1943). Il 18 agosto 1943 Einaudi  scriveva ad Alicata: «Il periodico di educazione popolare che saluterei  con simpatia, sarebbe quello che votrei faceste tu e Vittorini [...] questo  dovrebbe essere il giornale spregiudicato e vivo, dei tempi nuovi [...]  qui tutte le manifestazioni della vita, politiche ma sovratutto di costume  dovrebbero essere rappresentate » (AE, Alicata).    319        organizzativi si intrecciano le divergenze fra i collabo-  ratori, che acquistano ora rilevanza politica. Il 21 luglio  1943 Einaudi riteneva « necessario l’accentramento in  Piemonte dei servizi relativi al funzionamento worzzale  della casa editrice », mentre nell’agosto incaricava Ginz-  burg, liberato dal confino, di dirigere la sede romana *:  ed è da questa, dove nell’agosto è presente anche Franco  Venturi, che scaturisce una forte pressione degli azionisti  — nelle loro diverse componenti, dai liberalsocialisti ai  « crociani » — che cercano di condizionare a loro favore le  scelte editoriali.    Il senato romano (presenti Ginzburg, Muscetta, Pintor, Giolitti,  Venturi) — scriveva Muscetta a Einaudi il 7 agosto 1943 — ha  discusso e progettato, ad unanimità, una collezione di attualità poli-  tica, a cui si darebbe il nome di « Orientamenti ». Suggerisce di  pubblicare, preferibilmente a Roma, per ovvi motivi, una serie di  volumetti formato « universale » [...]. Come è chiaro dalla parola  « Orientamento » la collana dovrebbe accogliere scritti delle pi  serie tendenze odierne per illuminare il pubblico sulle condizioni  reali dell’Italia e dell'Europa, per disegnare delle prospettive di  concreta ricostruzione politica, per offrire dei contributi al chiari-  mento dei più urgenti problemi, non esclusi quelli ideologici 39,    Ma le proposte concrete privilegiavano un indirizzo  azionista della collana, prevedendo i saggi di Guido Calo-  gero su Giustizia e Libertà — dall’ambizioso sottotitolo  « breviario di politica » —, di Altiero Spinelli sull’unità  europea, di Manlio Rossi Doria sul problema agrario in  Italia, quello sul Risorgimento che Ginzburg stava prepa-  rando dalla primavera del 1943, e una storia del socialismo  di Franco Venturi. Queste proposte — di cui si fece porta-  tore, pur con riserve su Calogero, anche Pintor? —    LI    318 Disposizioni di Finaudi per la sede romana del 21 luglio e del-  l’agosto 1943 (AE, Corrispondenza editoriale Roma-Torino 1941-1944).   319 AE, Muscetta.   320 AE, Pintor (7 agosto 1943). Fra le altre proposte « romane », Dal  socialismo al fascismo di Bonomi (già edito da Formiggini), Synthèse de  l'Europe di Sforza, La terreur fasciste di Salvemini, il Pisacane di Ros-  selli e la traduzione — da affidare a Franco Rodano — de Les sources  et le sens du communisme russe del pensatore religioso, ex-marxista e  ora antisovietico, Nikolaj A. Berdjaev (AE, Corrispondenza editoriale  Roma-Torino 1941-1944, 30 luglio e 30 agosto 1943), un’opera che sarà    320    Le origini della casa editrice Einaudi    furono respinte dal gruppo torinese, che invece approvò  la ristampa di Nazionalfascismo di Salvatorelli, un’antolo-  gia di scritti di Gobetti che avrebbe dovuto curare Carlo  Levi, un volume di Mario Vinciguerra — Storia di cento  anni (1848-1948) —, e la richiesta a Guido Dorso di pre-  parare una biografia di Mussolini *. Un netto e signifi-  cativo rifiuto riceve invece, a Torino, la proposta di racco-  gliere gli scritti politici di De Sanctis — il suggerimento,  tramite Muscetta, era arrivato da Croce # —, mentre viene  lasciata aperta la possibilità di pubblicare Guerra e dopo-  guerra di Giacomo Perticone, una storia della « crisi della  coscienza politica italiana tra il 1914 e il 1922 » ritenuta  interessante da Antonio Giolitti, che suggeriva    l’eventuale opportunità di una collezione specifica che potrebbe pre-  sentarsi come « Contributi alla storia del fascismo », intendendo  naturalmente il fascismo in senso lato, come crisi, per dir cosî, della  democrazia nazionale italiana; e allora rientrerebbero in quei contri-  buti anche le indagini sulla storia dell’Italia dopo il 1870 le quali  sappiano vedere il fascismo già latente in certi aspetti della vita  politica dello Stato italiano, e non lo considerino soltanto come un  mostro emerso improvvisamente da chissà quali profondità, o come  la criminosa avventura di un gruppetto di sopraffattori:    un’indicazione di ricerca che superava la visione crociana  della « parentesi », ma che sarebbe stata raccolta molto  tardi dalla cultura storiografica italiana, anche se Einaudi  si dimostrò interessato alla proposta, cui cercherà di dar  seguito dopo il 1945 ®.   Di fronte alle posizioni del « senato romano » — di-    tradotta nel 1944 da Giacomo Perticone (Roma, Edizioni Roma); di  Berdjaev Laterza aveva tradotto nel 1936 Il cristianesimo e la vita sociale,  mentre Finaudi pubblicherà nel 1945 La concezione di Dostojevskij.   321 Cfr. C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit., p. 721 (13 agosto 1943);  AE, Pavese (11 agosto 1943), Vinciguerra (7 agosto 1943).   322 Muscetta a Pavese, 19 agosto 1943 (AE, Pavese); «Qui ognuno  di noi si infischia sia del Perticone, sia degli scritti politici di De Sanctis »,  si rispose da Torino il 21 agosto 1943 (AE, Muscetta).   323 Giolitti a Einaudi, 24 agosto 1943 (AE, Giolitti); «si potrà  discutere la proposta di Giolitti in merito a una collezione critica sul  fascismo », scriveva Einaudi a Pintor il 25 agosto 1943 (AE, Pintor); e  Pintor era favorevole: cfr. la lettera del 24 agosto a Pavese (in C. Pavese,  Lettere 1924-1944, cit., p. 730).    321        viso al suo interno tra azionisti da un lato, Pintor e Giolitti  dall’altro — e di un Pavese, « nauseato dall’indaffaramento  politico della casa editrice » ’*, Pintor si dimostrava preoc-  cupato dell’unità dell’indirizzo editoriale: il 7 agosto 1943  scriveva a Einaudi che « le possibilità di “rottura” si ac-  centuano e che la crisi può intervenire da un momento  all’altro », occasionata originariamente dal « breviario poli-  tico » di Calogero; « le varie discussioni — aggiungeva il  9 agosto — hanno messo in evidenza un problema che  doveva inevitabilmente maturare. Non si tratta pit cioè di  dissensi personali che hanno sempre alimentato l’attività  della casa, ma di un contrasto di posizioni, che secondo  me non è insanabile, ma che deve essere chiarito se non  vogliamo che diventi un elemento pericoloso di erosio-  ne » ?5, Da queste preoccupazioni scaturisce il deciso inter-  vento di Einaudi che provoca il naufragio della collana  « Orientamenti » considerata la « provvisorietà dell’inizia-  tiva » **, e punta su Ginzburg — liberato il 26 luglio dal  confino — e Alicata — uscito dal carcere il 7 agosto —  come elementi moderatori delle diverse posizioni:    tu avrai di fronte — scriveva ad Alicata il 18 agosto 1943 — [...]  una persona che ha dato prova di grande serietà morale, e di w245-  sima comprensione per tutte le idealità politiche degne di questo  nome. Ritengo che tu possa lavorare con Ginzburg amichevolmente    324 Pavese a Pintor, 23 agosto 1943 (C. Pavese, Lettere 1924-1944, cit.,  p. 728).   325 « In particolare — aggiungeva Pintor il 9 agosto —, per “Orien-  tamenti”, nonostante l’unanimità proclamata da Muscetta, io avrei diverse  riserve: vorrei che si tenesse conto del programma originario di Balbo e  vorrei che fosse consultato Vittorini »; e il 16 agosto scriveva a Einaudi:  « Il mio atteggiamento personale è molto conciliante: il clima di lotta  parlamentare che si è creato a Roma mi dà parecchio fastidio e non vorrei  assolutamente che si riproducesse nel lavoro della casa » (AE, Pintor).   32% Einaudi ad Alicata, 18 agosto 1943 (AE, Alicata). La decisione di  Einaudi parve «discutibile » a Pintor: «In questo modo si sfugge al  primo problema posto dal coesistere delle diverse tendenze: l’accordo  deve essere ottenuto attraverso una rigorosa selezione delle proposte [...],  ma è indispensabile che la casa editrice segni il passaggio a una nuova  fase uscendo dagli schemi delle vecchie collezioni e affrontando coraggio-  samente l’attualità. A questo non bastano i progetti di giornali e riviste  che cominciano a diventare invadenti ma occorre che si faccia qualcosa  di nuovo anche nel campo editoriale » (a Einaudi, 19 agosto 1943, in  AE, Pintor).    322    Le origini della casa editrice Einaudi    e con rapidità di decisione [...]. Comunque la funzione di Ginzburg,  in quanto collaboratore della casa, più che di difensore di principi  diversi è quella di moderatore, anche nei riguardi della corrente che  a lui può sembrare faccia capo. Tu usa con lui, collaborando alla  casa, altrettanta moderazione, sia pure con intransigenza, in modo  da arrivare nel nostro Senato anziché alla disgregazione temuta da  Pintor, alla collaborazione spontanea ?7,    In questa situazione, fatta di contrasti e di incertezze,  cui si aggiungerà dopo 1’8 settembre la dispersione dei col-  laboratori e la sostituzione di Giulio Einaudi — che si  rifugerà in Svizzera — con il direttore dell’ISPI Pierfranco  Gaslini e il commissario prefettizio Paolo Zappa, con i  quali resta in contatto Muscetta, l’attività della casa edi-  trice conosce, nel 1943-44, una stasi, anche se viene dato  esito ad alcuni progetti precedenti. Non vengono pub-  blicati, ovviamente, i testi più politicizzati suggeriti dalla  sede romana e accettati a Torino, cosi come resta ine-  dito E il gallo cantò di Augusto Monti che, scriveva l’au-  tore, « pur trattando di casi relativamente remoti, è del-  la più viva attualità, tanto che potrebbe avere per sotto-  titolo: origini del fascismo e dell’antifascismo » ®*. Nella  « Biblioteca di cultura storica » esce solo, nel 1944, La  politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto di Bono-  mi *’, mentre nei « Saggi » alle Riflessioni di Montesquieu  curate da Leone e Natalia Ginzburg per venire incontro a  « un rinnovato interessamento per certi valori umani, pro-  clamati dagli uomini del Settecento, e poi a lungo negletti    3 AE, Alicata. Ma era necessario tener conto, scriveva Pintor a  Einaudi il 31 agosto 1943, che Alicata «è preso da un'attività quanto  mai turbinosa e che negli ultimi giorni si è occupato quasi esclusivamente  di fare arrestare fascisti sediziosi » (AE, Pintor); perciò l’editore scriveva  a Ginzburg il 4 settembre: «La sua richiesta di sostituire Giolitti ad  Alicata nel Comitato Politico mi pare utile. Giolitti dovrebbe essere  una specie di supplente al quale Alicata delega, quando è impossibilitato  a partecipare alle riunioni, il mandato di voto » (AE, Ginzburg).   328 Monti a Einaudi, 15 agosto 1943 (AE, Monti).   329 Di Bonomi non fu invece pubblicato Dd/ socialismo al fascismo,  cui si dichiararono contrari Pavese, Balbo, Venturi e Ginzburg, favorevoli  Pintor e Giolitti: cfr. Pavese a Muscetta, 13 agosto 1943 (C. Pavese,  Lettere 1924-1944, cit., p. 721), e Muscetta a Pavese, 11 agosto 1943  (AE, Pavese). da un troppo unilaterale storicismo » *°, fa da contrap-  punto, nel 1943, la pubblicazione delle Memorie di Met-  ternich in cui Gherardo Casini sottolinea l’« orrore » del  cancelliere austriaco per la Rivoluzione francese e la sua  testimonianza « sul sangue che è corso per le piazze di  Francia, sulle violenze che hanno reso esecrabile questo  evento, sulla brutalità con cui sono stati incrinati e calpe-  stati i fondamenti dell’ordine » *!, Nell’unica collana che  conserva una certa vitalità, anche per il minor costo che  richiedeva, 1’« Universale », accanto a numerosi testi più  propriamente letterari ne appaiono altri segnati da un  chiaro, anche se non univoco, impegno civile: alla presen-  tazione simpatetica del « buon senso » che traspare dagli  Opuscoli politici di D’Azeglio fatta da Vittorio Gorresio **,  si accompagna il Manoscritto di un prigioniero del mazzi-  niano Carlo Bini, di cui Goffredo Bellonci illustra la conce-  zione del Risorgimento come rivoluzione sociale capace di  eliminare « le ineguaglianze materiali » **; nel Della tiran-  nide di Alfieri Massimo Rago coglie « uno spirito veramente  rivoluzionario » che cerca di « dar risalto alle forze che  ostacolano l'affermazione della libertà, e questo chiarimento  suona come un invito ad una più accurata osservazione delle  esperienze sociali » *4; mentre presentando Conquista e  usurpazione di Benjamin Constant Franco Venturi osserva  come soltanto Jaurès e Mathiez avessero insegnato a vedere  nella Rivoluzione francese « il nostro moderno problema di  una rivoluzione sociale alle sue origini », come tale non  compreso da Constant, di cui per altro è esaltato il libera-  lismo che si manifesta nel « chiudere [...] la rivoluzione,  ma non per negarla: per salvarne i principi rinati dall’espe-    330 Ch. De Montesquieu, Riflessioni e pensieri inediti 1716-1755, a  cura di Leone e Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1943, p. XIV.   331 C. von Metternich, Merzorie, a cura di G. Casini, Torino, Einaudi,  1943, pp. XII-XIII.   332 M. D'Azeglio, Opuscoli politici, a cura di V. Gortresio, Torino,  Einaudi, 1943, p. XVI.   333 C. Bini, Manoscritto di un prigioniero, prefazione di G. Bellonci,  Torino, Einaudi, 1944, p. XIII.   334 V. Alfieri, Della tirannide, a cura di M. Rago, Torino, Einaudi,  1943, pp. IX, XVI. r    324    Le origini della casa editrice Einaudi    rienza delle assemblee e del terrore » *   L’unico elemento di novità, n@ il 25 luglio, è. È  « Collana di cultura giuridica » ‘diretta da Norberto Bob-  bio — uno dei primi collaboratori di Einaudi, la cui firma  era apparsa anche ne « La Cultura » —, che già nel giugno  1943 era venuta configurandosi come distinta dal progetto  di una collana filosofica formulato, come vedremo, nel  1941. Pavese gli comunicò la proposta di Manlio Maz-.  ziotti di una « collezione di classici del diritto, la quale  servirebbe a svegliare il sonno dogmatico dei giuristi ita-  liani, i quali credono che la loro scienza consista nell’inter-  pretazione e non nella creazione della legge », e Bobbio  rispose di essere anch’egli convinto che « nel campo de-  gli studi giuridici ci sia molto da fare per la diffusione  di. una cultura seria e creatrice: dalla scuola del diritto  naturale ai grandi giuristi tedeschi del secolo scorso; dalla  moderna sociologia giuridica alla dottrina pura del Kelsen.  Che io sappia non è stata mai tentata in Italia un ‘impresa  del genere, che raccolga con un certo ordine e con inten-  dimenti culturali, e non tecnici, opere d’argomento giuri-  dico », a parte i « Classici del diritto » di Formiggini, fer-  matisi tuttavia nel 1933 al primo volume, I difetti della  giurisprudenza di Muratori **   Coadiuvato da Antonio Giolitti, Bobbio cercò di dar  vita alla collana con due opere già da lui preparate nel  1942 per la « Biblioteca di cultura filosofica » *#’: nel 1943  appare il Giovazni Althusius di Otto von Gierke, il conti-  nuatore della scuola storica di Savigny che considerava il    335 B. Constant, Conquista e usurpazione, prefazione di F. Venturi,  Torino, Einaudi, 1944, pp. 9-10. Già proiettato esplicitamente nel futuro  è il commento a E. Quinet, La repubblica, a cura di E. Lussu, Torino,  Einaudi, 1944, dove si afferma che gli italiani sono «arretrati d’un  secolo, ché tutti i fondamentali problemi di democrazia che il Risorgi-  mento poneva sono rimasti insoluti », e che «in Italia, dopo la disfatta  del 1920-22, che ha in comune con quella francese del 1848 solo l’imma-  turità politica e non l’epopea, la classe operaia va lentamente ricompo-  nendo le sue forze e maturando l’esperienza del passato, conscia del  compito ch’essa è chiamata ad assolvere » (pp. VII, X).   36 Pavese a Bobbio, 23 giugno 1943, e Bobbio a Einaudi, 29 giugno  1943 (AE, Bobbio). .  ? Bobbio a Einaudi, 15 novembre 1942 (AE, Bobbio).    325        diritto come « espressione della coscienza del popolo », e  con lo studio del giurista Althusius aveva seguito « la via  attraverso cui il pensiero moderno è passato per elaborare  quei concetti da cui è uscita la concezione dello Stato di  diritto, tanto più oggi preziosa — scriveva Bobbio —,  quanto più minacciata, e tanto più viva quanto più con-  dannata dagl’impazienti, dai fanatici, dagli indotti di tutte  le fazioni » **. Nel 1945 seguirà La fondazione della filo-  sofia del diritto di Julius Binder, « il più intransigente e for-  tunato assertore della rinascita hegeliana in Germania », la  cui opera, osservava Bobbio, serviva a scagionare la filo-  sofia italiana recente dall’accusa di provincialismo, « qua-  lunque sia poi il giudizio che si voglia formulare sul neo-  hegelismo italiano, al quale peraltro non si potrà discono-  scere il merito di aver tenuto il pensiero italiano lontano da  quegli stessi estremi dell’intellettualismo e dell’intuizio-  nismo » contro cui combatté Binder *’, Ma dopo questi due  titoli — che venivano ad allargare ulteriormente i già nu-  metosi interessi della casa editrice — la collana perderà i  suoi connotati per trasformarsi nel 1950 in « Biblioteca di  cultura politica e giuridica », nonostante gli sforzi di Bobbio  di mantenerle l’identità originaria, convinto, come scriveva  nel 1945, che « in un momento in cui è diventato argo-  mento di pubbliche e private discussioni il rinnovamento  delle istituzioni giuridiche tradizionali, dalla proprietà allo  stato, dall’eredità al sistema penale, si ridesta l’interesse  per i problemi del diritto e nello stesso tempo si rivela la  ignoranza degli stessi da parte dei più », per cui la collana  poteva giovare « anche agli specialisti, i quali, abituati a  ripetere le solite formule senza ripensarle, ignari per lo più    338 O. von Gierke, Giovanni Altbusius e lo sviluppo storico delle  teorie politiche giusnaturalistiche. Contributo alla storia della sistematica  del diritto, a cura di A. Giolitti, Torino, Einaudi, 1943, pp. VIII, X.   339 J. Binder, La fondazione della filosofia del diritto, traduzione di A.  Giolitti, Torino, Einaudi, 1945, pp. VII, IX-X. In «Società» si nota  comunque che Binder finisce, come Hegel, col fondare « una metafisica  dello Stato e della storia », e si ricorda che in altre sue opere « lo Stato  nazionalsocialista viene presentato come la pit rilevante incarnazione del-  TOR a etico» (V. Palazzolo, in «Società», III (1946), pp.  235-238).    326    Le origini della casa editrice Einaudi    dei grandi movimenti giuridici stranieri, sono incapaci di  cogliere il significato universale di una tecnica, di vedere  in una formula il risultato di un determinato orientamento  del pensiero » *°   La breve, intensa ma caotica esperienza dei quaranta-  cinque giorni non aveva comunque permesso di definire  con precisione quella « nuova » collocazione culturale e  politica della casa editrice sulla quale gli azionisti avevano  cercato di mettere un’ipoteca. Il problema si ripresenta  quindi all'indomani della Liberazione, con una intensità  acuita dalla necessità di individuare una prospettiva di pit  lungo periodo, non più resa precaria dalle contingenze bel-  liche #. Il dibattito politico interno acquista ora rile-  vanza maggiore in quanto si intreccia con il confronto  aperto e aspro fra i partiti ai quali aderiscono vari collabo-  ratori di primo piano della casa editrice, e risente delle  spinte diverse provenienti dai vari centri culturali, la cui  collocazione geografica rispecchia la variegata situazione  politica creata nel paese dalla lotta di Resistenza *°. A quelle  di Torino e di Roma si aggiunge nel 1945 la nuova sede  di Milano con Elio Vittorini, l’intellettuale che aderisce al  partito comunista assieme a Pavese, col quale aveva condi-  viso negli anni ’30 l’interesse per la letteratura americana  contemporanea, cogliendovi tuttavia — a differenza di  Pavese — soprattutto quegli elementi positivi di un popolo  « nuovo » e quella conferma della superiorità della cultura  sulla politica che trasferirà ne « Il Politecnico » e in alcune  iniziative della casa editrice ®.    Grava sulla civiltà americana la stupidità di una frase: civiltà    30 Appunto sulla « Collana di cultura giuridica », cui seguono, nume-  rose proposte di pubblicazione (AE, Bobbio).   31 Questa necessità era ben chiara, oltre che a Balbo — come ve-  dremo —, a Bobbio, che 1’8 luglio 1945 ammoniva Einaudi: « Mi pare  che ci stiamo lasciando tutti quanti tentare dalla seduzione dell’attualità.  Ti ripeto una frase memorabile: le case editrici si misurano a decenni,  non a mesi » (Archivio privato Bobbio).   #2 Cfr. le osservazioni di E. Garin, Cronache di filosofia italiana, cit.,  pp. 501-502.   33 Cfr. E. Catalano, La forma della coscienza. L'ideologia letteraria  del primo Vittorini, Bari, Dedalo, materialistica. Civiltà di produttori: questo è l’orgoglio di una razza  che non ha sacrificato le proprie forze a velleità ideologiche e non è  caduta nel facile trabocchetto dei « valori spirituali » [...]. Questa  America non ha bisogno di Colombo, essa è scoperta dentro di noi,  è la terra a cui si tende con la stessa speranza e la stessa fiducia dei  primi emigranti e di chiunque sia deciso a difendere a prezzo di  fatiche e di errori la dignità della condizione umana,    aveva scritto Pintor cogliendo il messaggio di Americana  di Vittorini **. Caduti nella lotta di Resistenza Pintor e  Ginzburg, mentre Alicata si trova assorbito dall’attività  politica, accanto a Vittorini e Pavese emergono fra i colla-  boratori della casa editrice altri intellettuali comunisti,  come Antonio Giolitti e Delio Cantimori, o l’esponente del  movimento cattolico-comunista Felice Balbo. Nonostante  la matrice comunista di questi intellettuali sia tutt'altro che  omogenea, tale da non impedire l’insorgere di contrasti, i  rapporti di forza interni tendono a spostarsi verso il PCI  che, privo all’inizio di propri centri editoriali, individua in  Einaudi un interlocutore privilegiato: ed è attorno al tema  dell’orientamento politico della casa editrice che nelle  pagine seguenti concentreremo l’attenzione, per cercare di  coglierne alcune linee di tendenza nell’immediato dopo-  guerra, utili, nell’ambito di una ricerca che ha il suo centro  nel periodo fascista, a verificarne ulteriormente caratteri-  stiche originarie e capacità di rinnovamento.   Il 10 maggio 1945 Felice Balbo, da Torino, scriveva  preoccupato a Einaudi che « anche per la Casa vale quello  che vale per i partiti politici: qui la situazione è attualmente  molto spostata a sinistra e molto fluida specie negli ambienti  intellettuali per gran parte disorientati ed in attesa di poli-  tica concreta, di costume, di tecnica. Non dobbiamo lasciarci  sfuggire l’occasione favorevole perché poi le posizioni rea-  zionarie potrebbero fissarsi nuovamente » #5. Ma proposte  concrete arrivavano contemporaneamente da Milano:    Il nostro programma editoriale milanese — si scriveva sempre  il 10 maggio a Einaudi — risponde ai criteri da te stabiliti: iniziare    34 G. Pintor, I/ sangue d’Europa, cit., pp. 155, 159.  35 AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945.    328    Le origini della casa editrice Einaudi    la pubblicazione di una rivista di punta che dovrebbe essere quella  dal titolo « Il nuovo politecnico », organo centrale del Fronte della  Cultura, iniziativa di carattere nazionale sorta da Curiel, Banfi, Vit-  torini che ne costituiscono il comitato d’iniziativa nazionale, il quale  a sua volta si appoggerà ai vari comitati regionali che saranno creati  successivamente. Questo Fronte della Cultura è destinato a interes-  sarsi a tutti i problemi di cultura, artistici e scientifici, per una loro  rivalutazione, o superamento, da elementi appartenenti a qualsiasi  ideologia o partito ma sinceramente orientati su un piano progressi-  sta: è un fronte quindi aperto a tutto il popolo italiano.    Ma subito dopo si precisava che il bollettino del Fronte  si sarebbe occupato dello « studio alla luce del marxismo di  tutti i fenomeni e le situazioni politico-culturali », avvalen-  dosi delle collaborazioni di Vittorini, Banfi, Remo Cantoni,  Giansiro Ferrata, Pietro Zveteremich, e si accennava all’ini-  ziativa di una « collana marxista » **. L’estrazione politica  dei membri del Comitato nazionale del Fronte della Cultura  ne esprimeva del resto chiaramente l’orientamento: due  esponenti del partito comunista (Banfi e Vittorini), due  rispettivamente di quello socialista e del partito d’azione,  uno (Mario Motta) per i Lavoratori cattolici *’. Einaudi,  pur convinto che « a Milano si giuoca una grande partita  per noi » **, si preoccupava tuttavia dell’insorgere di attriti  fra i responsabili delle varie sedi, e suggeriva una diversi-  ficazione di funzioni fra di esse. Perciò, mentre raccoman-  dava la necessità di una « fraterna intesa fra Torino, Mi-  lano e Roma, in modo da costituire un unico fronte pro-  gressivo di cultura senza settarismi, aperto alla collabora-  zione di ogni sincero democratico », nell’impostare il pro-  gramma delle riviste del Fronte proponeva, per Roma,  « Risorgimento » e « Cultura sovietica » — dal carattere,  soprattutto la prima, pit « aperto » —, una rivista di studi  meridionali per Napoli, un settimanale politico-culturale  per Milano — « Il Politecnico » — e, per Torino, un perio-  dico economico, « sui problemi della ricostruzione »: « in    36 Renata Aldrovandi a Einaudi (AE, Corrispondenza editoriale To-  rino-Roma 1945).   3? Ibidem.   38 Einaudi a Renata Aldrovandi, tal modo — osservava — alle diverse sedi si darebbe un  significato concreto di legame tra gli intellettuali e i pro-  blemi che più interessano le masse immediatamente circo-  stanti, dando un pieno significato nazionale ai problemi che  più sono sentiti nelle diverse regioni » *.   Al tempo stesso, tuttavia, il contatto con l’ambiente  politico romano gli suggeriva di correggere l'orientamento  che si intendeva dare a Milano al Fronte della Cultura:  « su un piano più generale politico di lavoro — scriveva a  Vittorini il 9 luglio 1945 — tra gli intellettuali la linea  attuale come si va definendo a Roma è quella di fronte  contro i residui del fascismo, fronte nel quale si possono  accogliere elementi di partiti cosiddetti conservatori, che  siano però sinceramente antifascisti e quindi sostanzial-  mente progressivi. Questa linea è meno settaria di quella  definita nell’ultima nota riunione di Milano, dove si pen-  sava in sostanza di fare un fronte delle sinistre » ®*, Era la  linea cui si ispirava il PCI, e che sarà espressa — pochi  giorni dopo la costituzione del primo governo De Gasperi  — al suo V congresso (29 dicembre 1945 - 6 gennaio  1946), dove Togliatti rivolse un appello all’unità di tutte  le forze democratiche aprendo le porte del partito a quanti  ne condividessero la linea politica, « indipendentemente  dalla convinzione religiosa e filosofica », anche se Alicata si  premurava di precisare che compito degli intellettuali  doveva essere la battaglia contro l’idealismo, espressione  della « cristallizzazione del provincialismo della cultura ita-  liana » !,   L'indirizzo sostenuto da Einaudi è rispecchiato fedel-  mente dalle riviste edite a Roma, in patticolare da « Risor-  gimento », ma anche da « La cultura sovietica ». Questa  ultima, rivista trimestrale dell’Associazione italiana per i  rapporti culturali con l'Unione Sovietica, diretta nel 1945-    39 Einaudi a Renata Aldrovandi (e, per conoscenza, a Balbo e Vitto-  rini), 16 maggio 1945 (ibidem).   350 AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945.   31 Cfr. P. Togliatti, Opere scelte, a cura di G. Santomassimo, Roma,  Editori Riuniti, 1974, p. 452; N. Ajello, Intellettuali e Pci 1944-1958,  Bari, Laterza, 1979, pp. 62-66.    330    Le origini della casa editrice Einaudi    46 da Gastone Manacorda, si proponeva di mettere in cir-  colazione quegli elementi di conoscenza della realtà sovie-  tica che erano stati impediti dal fascismo, il quale — si  ricordava nella Presentazione, alludendo anche all’« oppo-  sizione » liberale durante il regime — « andò oltre la gros-  solana propaganda calunniatrice e, studiandosi di fuorviare  gli intelletti dalla conoscenza del vero con tutti i mezzi pit  subdoli, diede diritto di cittadinanza, con benevola tolle-  ranza, a tutto ciò che fosse antisovietico anche se fuori del-  l’ortodossia reazionaria » *7. E, pur svolgendo un’opera di  acritica esaltazione delle realizzazioni sovietiche — pubbli-  cando ad esempio alcune pagine de I/ sistema finanziario  dell’URSS di Michail Bogolepov che apparirà nel 1947 nelle  edizioni Einaudi —, o di passiva presentazione di opere  come la Storia del partito comunista (bolscevico) dell'URSS,  della quale Manacorda faceva proprio anche il giudizio sui  « germi controrivoluzionari » presenti in Trotzki anche  quando egli era « apparentemente rivoluzionario » ®*, « La  cultura sovietica » si preoccupò soprattutto di mettere in  circolazione, tramite Ettore Lo Gatto e Angelo Maria Ripel-  lino, la letteratura russa contemporanea. Né è senza signi-  ficato che l’articolo di apertura della rivista fosse affidato  a un intellettuale azionista, la cui recente polemica con lo  storicismo crociano non era priva di elementi retorici, come  Guido De Ruggiero, teso a dimostrare la necessità di « ele-  vare la politica alla cultura » per superare ogni chiusura  nazionalistica, e pronto a riconoscere che nell’Unione Sovie-  tica « s'è compiuta nell’ultimo trentennio la più profonda  trasformazione che la storia ricordi, e dal cui contatto con    352 Ma, si continuava, il tentativo non riusci: « ognuno ricorda quale  interesse quel mondo abbia sempre suscitato da noi; come avidamente  si leggesse fra le righe di testimonianze settarie e antisovietiche, le sole  cui fosse concesso il privilegio della pubblicazione o della traduzione;  come rapidamente si esaurissero quelle poche opere, generalmente tradotte  dalla produzione di altri paesi, ispirate ad obiettività d’informazione e a  serenità di giudizio, che qualche editore coraggioso riusciva di tanto in  so) a mettere in circolazione » (« La Cultura sovietica », I (1945), « La Cultura sovietica », I (1945), pp. 196-197.    331        la civiltà occidentale potranno scaturire altri mutamenti  non meno profondi » **   Sempre con l’intento di combattere la pretesa « neutra-  lità » della cultura, in quanto tale ritenuta anch’essa respon-  sabile della nascita e dello sviluppo del fascismo, usciva il  15 aprile 1945, sotto la direzione di Carlo Salinari, « Risor-  gimento »: decisa a operare « dentro la mischia », la rivista  voleva essere organo non di un gruppo, ma di una tendenza,  « organo di cultura di una società aperta e progressiva »,  unificante intellettuali di fedi diverse che si erano trovati  uniti nella lotta antifascista °°. « Risorgimento », scriveva  Salinari a Vittorini il 25 maggio, « vuol essere una rivista  d’incontro delle correnti progressive della cultura italiana:  ma, sorta fra un cumulo di diffidenze ed energicamente  sabotata dal PdA, deve naturalmente nei primi numeri  avere un carattere un po’ vago, se vuol mantenere la sua  linea e non diventare una rivista di partito. Noi qui a Roma  ci troviamo di fronte a difficoltà che voi forse neppure  concepite! »; e, nonostante Vittorini fosse invitato a « iniet-  tare nella [...] rivista del buon sangue del Nord » **, que-    35 G. De Ruggiero, Cultura e politica, in «La Cultura sovietica », I  (1945), pp. 9-10. Su De Ruggiero, « fra le pit caratteristiche espressioni  delle ambiguità e delle incertezze degli “intellettuali” italiani della prima  metà del secolo », cfr. E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, cit.,  in particolare pp. 105-106.   « È un fatto — si aggiungeva — che non s'è avuta in Italia una  cultura dichiaratamente fascista e c'è chi si vanta di questa impermeabilità  come di un’anticipata condanna del fascismo. Ma la verità è che di fronte  al fascismo non bastava assumere un atteggiamento di distacco fra sde-  gnoso e prudente ma bisognava lottare apertamente in difesa di una col-  lettività spinta sempre più verso la schiaviti e la rovina » (Presentazione,  in « Risorgimento », I (1945), pp. 3-4).   35 AE, Vittorini: «Non appena potrà prendere la sua reale figura »,  continuava Salinari, la rivista avrebbe dovuto, fra l’altro, sostenere la  -«« democrazia progressiva » e l’« antinazionalismo », e « promuovere, per  quanto è possibile, una letteratura maggiormente legata alle aspirazioni  delle masse popolari». Il 9 luglio 1945 Salinari scriveva a Vittorini  di essere stato incaricato da Einaudi di «raccogliere il materiale per il  Politecnico » utilizzando l’organizzazione di « Risorgimento », e faceva  proposte di collaboratori anche se, aggiungeva, « dubito che vi sia oggi  in Italia un numero d'’intellettuali tanto progressivi da poter alimentare  una rivista del genere. Per lo meno nell’Italia centro-meridionale » (ibi-  dem). In un verbale del 6 giugno 1945 relativo ad una riunione per  « Risorgimento », si dice: « Onofri vorrebbe che la rivista si decidesse ad    n    332    Le origini della casa editrice Einaudi    sta mantenne il suo carattere « vago » ed eclettico che la  espose alle critiche di « Società » *”: condizionata dalla  realtà della lotta politica, che rendeva sempre meno efficaci  gli appelli all’unità della Resistenza, la rivista finî col quinto  numero del 1945, senza poter realizzare il programma pre-  visto per il momento in cui essa avrebbe potuto « prendere  la sua reale figura ». Cosi, all’articolo di apertura su L'Italia  e la democrazia di Sturzo, per il quale « chi potrà operare  la rinascita e la redenzione del proprio paese non sarà né  un uomo né una classe, ma tutto il popolo animato dal sof-  fio di un ideale e dalla forza di una volontà » **, seguiva  l’Esperienza di Spagna di Togliatti; assieme alle testimo-  nianze sul fascismo e sulla Resistenza, apparvero articoli di  Salvatorelli sui rapporti Italia-Jugoslavia o su Weimar,  come di Grifone sul problema bancario. Tuttavia nelle note  e nelle recensioni — di Salinari, Cantimori o Giolitti — le  prese di posizione erano più omogenee: a proposito del  dibattito sui rapporti fra liberismo e liberalismo veniva  negata l’identificazione operata da Luigi Einaudi, per affer-  mare che « la libertà politica può essere garantita anche da  una economia pianificata e collettivistica » *°, mentre nella  polemica fra De Ruggiero e Croce sullo storicismo si inter-    assumere un tono più polemico nei confronti delle altre tendenze e  delle altre riviste » (AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945).   357 « Risorgimento » ha un carattere antologico, affermavano G. Pie-  raccini e R. Bilenchi: «manca appunto quello sforzo collettivo uni-  tario che forma lo spirito di una rivista. Anche il carattere progressista di  questo periodico non riesce ad affermarsi con un serio contributo » (« So-  cietà », I (1945), p. 305). Nell’Archivio privato di Felice Balbo si trovano  degli « Appunti per “Risorgimento” », senza data e non firmati, ma dove  è rilevabile la mano dell’esponente cattolico-comunista: « Concetto infor-  matore: dopo l'oppressione della tirannia fascista il Risorgimento riprende  il suo cammino nazionale nelle nuove condizioni obiettive sociali, cioè  avendo come spina dorsale, la classe operaia nella sua storica funzione  di classe di governo e classe nazionale; il Risorgimento continua vera-  mente solo su questa strada. Funzione della nuova classe dirigente  rispetto agli intellettuali ed ai tecnici. Funzione degli intellettuali con la  nuova classe dirigente nella costruzione della democrazia progressiva  post-fascista. In una frase il concetto è: pianificare e articolare la rivo-  luzione come è pianificata e articolata la reazione ». Segue una esempli-  ficazione assai puntuale del contenuto « ideale » della rivista.   358 « Risorgimento », I (1945), p. 8.   359 C.S. [Carlo Salinari], Libertà politica e liberismo economico, in  « Risorgimento », veniva per sostenere la necessità che la filosofia crociana  fosse « superata da uno storicismo che affondi le radici più  profondamente nel movimento dialettico della storia degli  uomini, da uno storicismo che non sia appannaggio del  conservatorismo, ma potente leva di una società nuova.  Ma che sia sempre storicismo, immanentismo assoluto » *°   E sulle pagine di « Risorgimento », nel fascicolo del 25  luglio, con la Lettera a un intellettuale del Nord Fabrizio  Onofri preannunciava i termini del dibattito sulla « nuova  cultura » che si aprirà su « Il Politecnico » il 29 settembre,  rivolgendosi a Vittorini per affermare la necessità    che un intellettuale veramente progressivo, e perciò in primo luogo  antifascista, oggi come ieri debba necessariamente militare, se non  in questo o in quel partito, certo al fianco di quelle forze sociali  organizzate che più e meglio garantiscono l’abolizione dalla vita  nazionale di tutte le forme di oppressione fascista; debba cioè neces-  sariamente « occuparsi di politica », che è ora il modo migliore di  occuparsi della propria sorte di intellettuale, ossia badare a che non  si ricreino sulla sua terra le condizioni di schiavità in tutti i campi  che contrassegnavano il fascismo, e che si creino invece le condizioni  politiche e sociali di quella libertà di cui egli ha bisogno anche e  proprio come intellettuale ?9,    Ci è parso opportuno accennare alle riviste meno cono-  sciute del Fronte della cultura, per rilevare l’ampiezza delle  iniziative della casa editrice tese, in accordo col PCI, a  mantenere aperto, nel primo biennio post-bellico, un dia-  logo con tutte le forze democratiche, anche a prezzo di dis-  sonanze e di polemiche interne; ciò vale — pur con una  sfasatura cronologica — anche per le più note e discusse ri-  viste edite in quel periodo da Einaudi: « Società », nata con  una propria fisionomia autonoma e critica — tanto che  l’intransigenza di Luporini o di Cantimori verso il crocia-  nesimo creò motivi di frizione con « Rinascita » —, e solo  alla fine del 1946 sottoposta a un pi rigido controllo del  partito *; e « Il Politecnico » che, invece, solo con la nuova    36 C. S. [Carlo Salinari], Lo storicismo, in ibidem, p. 96.   361 F. Onofri, Lettera a un intellettuale del Nord, in ibidem, p. 327.   362 Cfr. ora, pur senza i necessari approfondimenti, G. Di Domenico,  Saggio su « Società ». Marxismo e politica culturale nel dopoguerra e negli    334    Le origini della casa editrice Einaudi    serie mensile inaugurata il 1° maggio 1946 passerà dall’in-  genuo dogmatismo del direttore a quella rivendicazione di  indipendenza e « apertura » che fu criticata da Togliatti  come « ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorpren-  dente » *#. Ma al nostro discorso interessa soprattutto  notare che motivi di polemica antivittoriniana erano pre-  senti all’interno della stessa casa editrice, tali da investirne  l'orientamento complessivo nei suoi rapporti col partito  comunista. Il 21 maggio 1945 Pavese scriveva a Einaudi,  anche a nome di Balbo, che Vittorini e Giansiro Ferrata  avevano    radici troppo fonde in Milano per poterli einaudizzare, cioè piemon-  tesizzare. Vittorini sarà l’uomo del Nuovo Politecnico, edizione  Einaudi, organo del Fronte della Cultura, e del relativo bollettino,  stampati entrambi a Milano; Ferrata darà consigli specialmente sui  libri marxisti in cui è ferratissimo [...]. Io invece, sino a nuovo  ordine, approvo l’eclettismo politico che la Casa conserva. Se mai,  sulla purezza d'orientamento giudichi uno solo (per esempio Balbo,  incorruttibile) non tutti i cani e porci che, muniti di tessera, salte-  ranno fuori,    anni cinquanta, Napoli, Liguori, 1979. Nello stesso senso la testimonianza  di Cesare Luporini riportata da N. Ajello, Intellettuali e Pci, cit., p. 71.  A Einaudi, che il 3 maggio ’45 si era offerto di diffondere «Società » a  Roma e nell’Italia centro-settentrionale, il 22 maggio Luporini rispon-  deva accettando, e affermava che la rivista aveva «carattere di alta cul-  tura, anche se non strettamente tecnico, organica e decisa nella tendenza,  ma del tutto aperta quanto ai problemi e agli argomenti presi in consi-  derazione » (AE, Luporini). Nelle «condizioni » poste da Einaudi, si  diceva al punto 3: «La Casa propone di stabilire un collegamento reda-  zionale tra “Società” e gli altri periodici della Casa, attraverso Carlo  Salinari, responsabile editoriale delle riviste della Casa» (l'editore a  Bianchi Bandinelli, 7 luglio 1945, in AE, Bianchi Bandinelli).   363 Ora in P. Togliatti, La politica culturale, cit., p. 80. Su « Il Poli-  tecnico » come rivista del Fronte della cultura cfr. M. Zancan, « Il Poli-  tecnico » e il Pci tra Resistenza e dopoguerra, in «Il Ponte», XXIX  (1973), pp. 994-1010. All’inizio Vittorini si era preoccupato di far appa-  rire la rivista legata al PCI: «Bisogna che la Casa Einaudi si faccia  conoscere come casa legata al P.C., che “Il Politecnico” sia riconosciuto  come settimanale di cultura legato al P.C.», scriveva a Einaudi il 6  luglio 1945 (E. Vittorini, Gli cuni del «Politecnico », cit., p. 11); si  comprende come una collaboratrice di Einaudi, Bianca Garufi, cercando  di diffondere le riviste della casa editrice, e in particolare «Il Poli-  tecnico », in ambiente azionista, si fosse sentita rispondere che «è  assurdo pensare ad un interessamento anche minimo del Partito d’Azione  per un giornale cosî evidentemente comunista » (a Einaudi, 16 novem-  bre 1945, in AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945).    335        concludeva duramente Pavese dopo aver riferito il malcon-  tento dei milanesi per la pubblicazione di Ore decisive, le  memorie dell’ex sottosegretario di Stato di Roosevelt Sum-  ner Welles che nel marzo 1940 aveva cercato un accordo  con Mussolini. Einaudi, pur prendendo le difese di Vitto-  rini e Ferrata — « È appunto perché essi hanno radici fonde  a Milano che a noi interessano » —, ribadiva la sua conce-  zione non partitica del fronte culturale:    La Casa ormai si è acquistata la fiducia più assoluta negli am-  bienti che ci interessano, la nostra linea di attività è stata ampia-  mente discussa e trovata la migliore, ed è cosa voluta l’assenza di  ogni settarismo, per concorrere col nostro lavoro all’affermazione di  quel fronte progressivo aperto, di quella unità, che è indispensabile  raggiungere per ragioni politiche, morali e culturali. Questo fronte,  ditelo anche a Milano, ove forse c’è ancora un po’ di settarismo,  comporta l’iriclusione, sul piano internazionale, anche dei Sumner  Welles quando tutti non sono dei Wallace ##,    affermava evocando il nome di quello che si stava dimo-  strando uno dei più aperti esponenti democratici statu-  nitensi.   Ma a mettere in crisi il « settarismo » dei milanesi con-  tribu probabilmente un intervento di Felice Balbo *,  in questo momento forse il più lucido consigliere di Einau-  di, interlocutore autorevole sia di Pavese che di Vittorini,  e l’unico — a quanto risulta — capace di formulare una  visione e un programma complessivi della casa editrice,  non senza, tuttavia, elementi di utopia e di contradditto-  rietà. Riferendosi in particolare all’articolo di Remo Can-  toni su Che cosa è il materialismo storico, apparso sui nu-    364 AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945; Einaudi a Balbo,  26 maggio 1945 (ibidem). Il 18 maggio Balbo aveva scritto a Finaudi:  « attento a prendere delle decisioni per il Nord senza esservi presente  [...]. A Milano bisogna andare con piedi veloci ma di piombo [...]. Vit-  torini è tutt'altro che acquisito » (ibidem).  Su di lui cfr. il saggio, assai « interno » e discutibile, di G. Invitto,  Le idee di Felice Balbo. Una filosofia pragmatica dello sviluppo, Bologna,  il Mulino, 1979; sul movimento cattolico-comunista, cui parteciparono  alcuni collaboratori della casa editrice come Mario Motta e Franco Rodano,  cfr. C.F. Casula, Cattolici-comunisti e sinistra cristiana (1938-1945), Bo-  logna, il Mulino, 1976.    336    Le origini della casa editrice Einaudi    meri 2 e 3 de « Il Politecnico », il 20 ottobre 1945 Balbo  scriveva a Einaudi che    il tutto rappresenta un tentativo un poco mistico, un tentativo di  sostituire un mito vecchio con un mito nuovo e quindi è in fondo.  antieducativo. Si dovrebbe, mi pare, tendere a formare in tutti i  lettori quella mentalità nuova che è scientifica, critica, sperimentale  e aperta mentre Politecnico presenta il materialismo storico troppo  come una pietra filosofale. Se si deve fare un giornale di cultura e  non di propaganda, come credo debba essere anche se prima d’ora  lo era solo in parte, è necessario, proprio sui piani di cultura in senso  stretto (e in questo caso del materialismo storico), affrontare le  critiche, non eluderle dogmaticamente attraverso impostazioni che  ripetano le formule in cui il materialismo storico è sorto. Un mate-  rialismo storico cosî « affettivo » soffoca ed elude lo stesso sforzo di  apertura di Cantoni.    A conferma dell’autorevolezza del suo intervento, que-  ste critiche saranno fatte proprie dall’editoriale che conclu-  deva, il 6 aprile 1946, « Il Politecnico » settimanale:    Noi non abbiamo avuto, col settimanale, una funzione propria-  mente creativa, o, comunque, formativa. L'altra funzione, la divul-  gativa, ci ha preso, a poco a poco, e sempre di più, la mano. Ci  siamo lasciati andare ad essa. Abbiamo compilato, abbiamo tradotto,  abbiamo esposto, abbiamo informato, abbiamo anche polemizzato,  ma abbiamo detto ben poco di nuovo. In quasi tutte le posizioni  che abbiamo prese, pur senza mai sbagliare indirizzo, ci siamo limi-  tati a gridare mentre avremmo dovuto dimostrare. E troppo spesso  abbiamo dato sotto forma di manifesto quello che avremmo dovuto  dare sotto forma di studio [...]. Ci siamo trovati cosî a divulgare  delle verità già conquistate mentre avremmo dovuto cooperare alla  ricerca della verità.    Nella stessa lettera del 20 ottobre Balbo allargava il  discorso all’attività complessiva della casa editrice, indivi-  duandone la carenza di fondo nella mancanza di una precisa  strategia di politica culturale:    L’ottimismo non è sufficiente alla lotta. Ci vuole positività e    36 AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945. Remo Cantoni  propose un Dizionario marxista per aggiornare il lettore « su quel sapere:  che è stato oggetto di ricerca e di analisi specifica da parte dei marxisti »  (AE, Cantoni). quindi contatto continuo con i dati veri della totale situazione ita-  liana. Tra l’altro, Milano, ricordiamolo, è di natura troppo euforica:  a Milano, come osservava Gobetti, è possibile ogni avventura, da  quella di Marinetti a quella del Popolo d’Italia [...]. Il punto di  vista è, malgrado tutto, Roma [...]. In noi c'è ancora troppa men-  talità insurrezionalistica e cioè: a) precipitazione; b) estremismo  anzi piuttosto « avanzatismo »; c) visione asfittica o almeno sempli-  cistica di tutti i problemi sia culturali che politici; d) mancato appro-  fondimento del « a che punto siamo » sia politicamente sia, per noi,  soprattutto culturalmente [...]. Come conseguenza di una matura-  zione mancata o non avvenuta, si scivola, sembra impossibile ma è  cosf, su modi e impostazioni ancora fascisti o almeno vecchi. In-  somma Einaudi 1945 è in fondo, capiscimi, pit fascista di Einaudi  1940. Proporzionalmente siamo calati di tono invece di crescere;    e concludeva individuando un arretramento di posizioni ri-  spetto agli avversari e l’incapacità di sfruttare appieno « le  grandissime possibilità che abbiamo, in uomini e in possi-  bile chiarezza di idee ».   Le critiche — e l’apparente paradosso — di Balbo ave-  vano la loro ragion d’essere non solo in rapporto al suo idea-  le di cultura e al suo modello di una casa editrice « critica-  mente » progressista, ma anche, come vedremo, rispetto alle  concrete iniziative di Einaudi, che riflettono, in molti casi,  un'eredità difficile da superare. Ma in queste ebbe probabil-  mente un'influenza lo stesso Balbo, che cercava di coniugare  un’analisi ispirata al marxismo con soluzioni di stampo cat-  tolico. Il suo concetto dinamico di cultura, che ne vedeva il  mutamento col mutare dei rapporti di produzione, e coglieva  gramscianamente la lentezza del processo di adeguamento  degli intellettuali ai nuovi stadi via via raggiunti dalla socie-  tà, invitava — senza i toni ingenui di un Vittorini — a quel-  l’avvicinamento fra cultura e realtà che tuttavia — contrad-  dittoriamente — il cattolico Balbo riteneva raggiunto in mo-  do esemplare nel medioevo, perché « nella sua produzione,  sia agricola che artigiana, architettonica o scientifica, nelle  ideologie politiche come in quelle religiose, si rivela una sin-  golare unità, superiore ai contrasti, che è quella del concetto  feudale della proprietà o del nascente diritto comunale ».  Al contrario, la cultura contemporanea, gelosa della pro-  pria indipendenza e « irresponsabilità » di fronte alla classe dominante e ai processi produttivi dell’epoca industriale,  aveva dato luogo, tra le due guerre, a quell’irrazionalismo  « che rese possibili tutte le mitologie disumane che hanno  vagato e forse vagano ancora, paurose, sui continenti »,  mettendosi di fatto al servizio dei « privilegiati », per cui  « la cultura del capitalismo è scritta sulle facciate delle  metropoli moderne, è la grande officina, la produzione cro-  nometrata, l’esercito motorizzato, la grande stampa, il cine-  ma ». Con un rigore e una violenza intellettuali ben mag-  giori dell’editoriale con cui Vittorini apri « Il Politecni-  co » — e per il quale questo scritto avrebbe forse dovuto  servire da traccia —, l’esponente cattolico-comunista con-  tinuava:    Rimproveriamo dunque all’idealismo di Croce, all’umanesimo di  Thomas Mann e allo spirito « non prevenuto » di Gide, o meglio agli  idealismi, umanesimi, cristianesimi, spiritualismi, esistenzialismi ecc.  che da quelli provengono (e per quella parte almeno d’essi e dei loro  discepoli che vorrebbe farci credere d’aver trionfato con la Carta  Atlantica e la bomba atomica) d’essere insufficientemente critica con  se stessa e perciò sterile, imbalsamata, defunta — regressiva [....].  Lottare per una nuova cultura intellettuale [...] equivale a lottare  per una nuova società    e ad affermare — concludeva in conformità con la propria  concezione filosofico-religiosa — « il concetto di persona  umana o di uomo obbiettivo e origine d’ogni cultura, inteso  come l'individuo nella coscienza della propria correlazione  col prossimo e delle proprie determinazioni storiche » *?.  Nel quadro di questo discorso, nel quale appare decisa-  mente superato ogni residuo crociano della sua formazione  originaria **, Balbo presentava un « abbozzo di teoria gene-  rale di una casa editrice culturale in senso stretto », in cui  il notevole sforzo di chiarificazione teorica era finalizzato a    367 F. Balbo, Una nuova cultura, dattiloscritto senza data ma con  l'indicazione «per servire alla elaborazione dell’editoriale. Si chiede  da 3 lo stile con baffi e favoriti, da falso-Cattaneo » (Archivio privato   0).   38 Diversamente da quanto sostiene G. Invitto, Le idee di Felice  Balbo, cit., in particolare p. 29.trovare i mezzi necessari alla promozione degli « essenziali  valori dell’uomo » *.    11. La ricerca di un nuovo orientamento e l’eredità del  passato    Le critiche e le proposte di Balbo — che ritornerà  su questi temi insistentemente, fino al suo distacco dal  marxismo e dalla casa editrice — miravano ad un fronte  « critico » della cultura che lasciava tuttavia ampi spazi per  ritorni mistici o più propriamente tomistici, come avvertirà  più tardi Bobbio. Ma, nonostante alcuni testi pubblicati  portino il segno — esplicito o implicito — della sua pre-  senza, fra il suo modello di casa editrice di cultura e gli  indirizzi editoriali effettivamente attuati esiste un notevole  scarto, non attribuibile soltanto ad una « sordità » dei suoi  interlocutori o ad un loro consapevole rifiuto delle sue  proposte, ma, soprattutto, alla situazione oggettiva. Il suo  progetto editoriale si affidava infatti ai tempi lunghi e non  teneva sufficientemente conto — come riconoscerà alcuni  anni dopo lo stesso Balbo — dei contrasti ideologici e poli-  tici all’interno della casa editrice, del peso della tradizione  che questa si era formata nel decennio precedente — di cui  Balbo contribui a tenere in vita alcuni aspetti —, e dei  reali rapporti di forza esistenti nella vita politica italiana,  o del loro rapido mutamento, che portò nel giro di due anni    369 I compiti della casa editrice erano individuati nel « puntare alla  egemonia editoriale nel suo genere », e nello scegliere «quelle opere che  in se stesse ed in riferimento alla situazione storica che si svolge, siano  realmente necessarie o utili a far maturare e sviluppare il potenziale  culturale dell’intero pubblico colto »; la « capacità di scelta » della casa  editrice si doveva misurare sul piano filosofico e su quello scientifico:  « La capacità filosofica significa essere in grado di giudicare i valori cul-  turali in sé, secondo la nozione di valore e disvalore, e quindi il saper  riconoscere tutti gli essenziali valori dell’uomo, ossia l’essenziale di ciò  che è indispensabile alla sua pienezza. La capacità scientifica significa  essere in grado di giudicare i valori culturali per riferimento al movimento  storico în cui ci si trova, significa quindi comprendere le necessità della  rivoluzione » (Appunti sulla casa editrice, dattiloscritto senza data in  Archivio privato Balbo).    340    Le origini della casa editrice Einaudi    alla rottura dell’unità antifascista e alla guerra fredda, con  pesanti riflessi — non certo favorevoli a visioni critiche o  problematiche — anche negli schieramenti culturali. Oltre  al difficile equilibrio politico fra le varie sedi e fra i diret-  tori delle collane *°, all’organico orientamento della casa  editrice richiesto da Balbo si opponeva la sua stessa multi-  forme attività rilevata da Pavese e da Giolitti, per i quali  essa manteneva la caratteristica originaria di « eclettica  officina di cultura » — « non c'è altro editore in Italia che  copra un campo cosi vasto » ”! —, moltiplicando contrasti  e contraddizioni: ad esempio, mentre la redazione romana  « si oppone energicamente » e con successo alla pubblica-  zione dei Cinquant'anni di vita intellettuale italiana in  onore di Croce proposta da Carlo Antoni, l'edizione delle  Lezioni di filosofia di Guido Calogero vede la netta opposi-  zione di Pavese, Balbo e Giolitti, ma l'approvazione — vin-  cente — di Bobbio”. Nei volumi pubblicati nell’imme-  diato dopoguerra possiamo del resto constatare, accanto ad  una notevole opera di sprovincializzazione della cultura ita-    30 Il 6 agosto 1945 Einaudi inviava a Pavese un « Pro-memoria della  Direzione » inteso a riorganizzare il lavoro editoriale: Pavese e Vittorini  consulenti, Natalia Ginzburg vice-consulente per « Poeti», « Narratori  contemporanei », « Giganti », « Narratori stranieri tradotti »; Pavese e  Vittorini consulenti, Balbo vice-consulente per la progettata collana « Cor-  rente »; Mila consulente, Pavese e Balbo vice-consulenti per i « Saggi »;  Chabod consulente esterno, Manacorda e Giolitti vice-consulenti per « Bi-  blioteca di cultura storica » e « Scrittori di storia »; Bobbio consulente  esterno, Balbo vice-consulente per « Biblioteca di cultura filosofica »; Ceria-  ni consulente esterno, Giolitti vice-consulente per « Biblioteca di cultura e-  conomica » e « Problemi contemporanei »; Cantimori consulente esterno,  Manacorda vice-consulente per « Biblioteca marxista »; Balbo e Rodano  consulenti, Giolitti vice-consulente per « Problemi italiani »; Giolitti e Vit-  torini consulenti, Salinari vice-consulente per «Testimonianze »; Vit-  torini consulente, Pavese e Balbo vice-consulenti per la « Vittoriniana » che  avrebbe dovuto sostituire l’« Universale »; Aloisi consulente esterno, Mana-  corda relatore al consiglio per « Biblioteca di cultura scientifica »; Rag-  ghianti direttore della « Biblioteca d’arte »; Debenedetti direttore della  « Nuova raccolta di classici italiani annotati » (AE, Pavese: dove ci sono  altre proposte di Einaudi e la risposta di Pavese del 7 settembre, con  alcune osservazioni critiche).   371 Pavese e Giolitti alla Direzione di sede di Roma, 25 ottobre 1945  (AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945).   37 « Pro-memoria per la Direzione Generale » della redazione romana,  sulla proposta di Antoni del 22 ottobre 1945, e sulla proposta di Calo-  gero liana, motivi di disorientamento, schematiche attualizza-  zioni politiche di problemi storiografici, assieme ad ecces-  sive cautele e perfino a tendenze conservatrici — se misu-  rate sul metro dei propositi enunciati da Einaudi nel  1945 — che i giudizi delle stesse riviste einaudiane, cosi  come di « Rinascita », non mancano di mettere in evidenza.   Senza ripetere, come in precedenza, quell’analisi a tap-  peto dei volumi, e delle relative recensioni, che era indi-  spensabile per la produzione del periodo fascista, quando  era importante sottolineare anche singole affermazioni sfug-  gite alle maglie della censura, ci soffermeremo soltanto sui  testi di alcune collane — i « Saggi », la « Biblioteca di cul-  tura economica », la nuova serie dei « Problemi contem-  poranei », i « Problemi italiani » e la « Biblioteca di cultura  filosofica » — che permettono di individuare l’orientamento  generale, culturale e politico, della casa editrice all’indo-  mani del 1945. Ciò non ci esime, tuttavia, dall’accennare  al significato di alcuni titoli delle collane letterarie o stori-  che: nei « Narratori stranieri tradotti » apparvero, accanto  ai classici, Kafka e Proust, mentre i « Narratori contempo-  ranei » si aprirono alla produzione straniera con I/ muro di  Sartre — non senza contrasti ” — e con Fiesta e Avere e  non avere di Hemingway, il cui carattere « rivoluzionario »,  rivendicato da Vittorini, era sprezzantemente negato e ri-  dotto ad una somma di sensazioni « elementari » ed « egoi-  stiche » da Alicata, che giudicò « superficiale » anche i  Dieci giorni che sconvolsero il mondo di Reed con cui si    393 «Il libro è indubbiamente molto bello e anche l’ultimo racconto,  però può capitare che un pubblico non molto preparato caschi facilmente  in equivoco. Forse libro e autore andrebbero presentati. Resta da vedere  cosa ha fatto Sartre durante l'occupazione nazista — pare che due o tre  suoi libri siano stati pubblicati dalla N.R.F. in questo periodo », si  scriveva da Roma all’editore il 4 giugno 1945 (AE, Corrispondenza edito-  riale Torino-Roma 1945). Il libro era già stato suggerito da Pintor in  una lettera a Pavese del 21 aprile 1943 (in C. Pavese, Lettere 1924-1944,  cit. p. 694). Il muro fu denunciato per oltraggio al pudore; il 4 aprile  1947 Pavese ne dava notizia a Corrado Alvaro il quale, in veste di presi-  dente del sindacato nazionale scrittori, con lettera a Pavese del 25  aprile si metteva a disposizione della casa editrice: «se non ci difen-  diamo, si preparano per noi giorni assai peggiori di quelli sotto il paterno  Ministero della cultura popolare » (AE, Alvaro).    342    Le origini della casa editrice Einaudi    inaugurò nel 1946 la vittoriniana « Politecnico bibliote-    ca » 3.    La « Biblioteca di cultura storica », posta sotto la dire-  zione di Federico Chabod — e con l’attenta consulenza di  Franco Venturi, sensibile in particolare alla produzione  storiografica francese e russa ** —, riprese le pubblicazioni  con i Saggi sul Risorgimento di Nello Rosselli — con la pre-  fazione di Salvemini — per continuare, a testimonianza di  un interesse più generale della casa editrice per la « demo-  crazia » americana, con America. La storia di un popolo  libero di Allan Nevins e Henry S. Commager, e aprirsi  quindi alle opere di Mathiez e Lefebvre sulla Rivoluzione  francese o, più tardi, alla scuola delle « Annales » con  Bloch e Braudel, nonostante l’opposizione di Cantimori 7%,  Non possono tuttavia essere sottaciute alcune iniziali cadute  di tono della collana, rappresentate dalla ripresa dell’oria-    374 La corrente « Politecnico » (1946), ora in M. Alicata, Intellettuali  e azione politica, cit., p. 63. Sempre con Hemingway si apri nel 1947 la  collana «I Millenni », dove nel 1948 apparirà Le mille e una notte a  cura di Francesco Gabrieli, di cui si suggeriva, per la pubblicità, di  mettere in luce il «carattere sociale »: «il libro è sempre stato frain-  teso come mondo delle fate e delle meraviglie, mentre, adesso che lo  facciamo noi, è ora di vederlo nel suo vero carattere di straordinario  documento su una medioevale società agreste, con naturale democrazia  tra gli umili (fornai, mendicanti, pellegrini, mercanti, schiavi, donne  conculcate ecc.) » (da Roma a Renata Aldrovandi, 14 novembre 1945,  in AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945).   375 Numerose sono le proposte in AE, Chabod, Venturi. Il 29 novem-  bre 1945 Chabod scriveva a Einaudi di assumersi la direzione della  « Biblioteca di cultura storica» e degli «Scrittori di storia », annun-  ciando, per le traduzioni, « un piano di lavoro che contemperi opportu-  namente biografie e studi monografici, lavori di grossa mole e studi assai  più smilzi », in modo da « toccare un po’ tutti i principali problemi della  storia europea e nord-americana » (AE, Corrispondenza editoriale Torino-  Roma 1945).   376 Parte del giudizio di Cantimori su La Méditerranée di Braudel  è riportato da G. Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova  critica storiografica, Torino, Einaudi, 1970, p. 257, che nel cap. XVIII  ricostruisce puntualmente la collaborazione dello storico con la casa  editrice; nello stesso giudizio, del 1949, Cantimori investiva tutta la  scuola delle « Annales »: « non ritengo utile, anzi dannoso, diffondere,  per mezzo della traduzione di un’opera cosi ben scritta — brillante,  affascinante anche per la sua facilità ed evasività e superficialità di rifles-  sione e di concetti — il metodo, o il sistema, o il regime o l’arte o la  retorica, chiamateli come credete, del gruppo di L. Febvre, Morazé,  Braudel » (AE, Cantimori).  nesimo nell’Axzistoria d’Italia di Fabio Cusin ?” e da Robe-  spierre e il quarto stato di Ralph Korngold dove, come in  altre opere dedicate al giacobinismo, l’intento di rivalutare  un movimento politico dimenticato o disprezzato dall’idea-  lismo e dal fascismo si accompagna a schematiche e ambigue  attualizzazioni — «Si può dire che tanto la dittatura  fascista quanto quella comunista si siano servite di un me-  todo giacobino perfezionato », affermava Korngold ?*,   La concezione della storia come elemento costitutivo  dell’educazione civile continuerà tuttavia a caratterizzare la  collana: assai significativa in questo senso — e degna di  essere citata per esteso — è l'offerta a Cantimori di scrivere  una storia d’Italia dal punto di vista marxista. E altrettanto  significativo è che portatore — e ispiratore, assieme ad  Einaudi — della proposta fosse proprio quel Balbo che  abbiamo visto tanto cauto rispetto a pericolose fughe in  avanti:    L'Italia manca fino ad oggi di un’opera storica marxista nel senso  più profondo ed esatto che dia la reale fisionomia della sua storia  dall’indipendenza ai giorni nostri — scriveva Balbo a Cantimori il  27 giugno 1947 —. Questa mancanza si fa duramente sentire oggi  non solo nel campo degli studiosi ma soprattutto nella scuola e addi-  rittura nella vita politica. Non è esagerato affermare infatti che  questa mancanza è in qualche modo determinante dello stesso svi-  luppo democratico del nostro paese. L'azione concretamente ideo-  logica da parte delle forze progressive sta diventando sempre più  necessaria: il proletariato non ha di fronte a sé soltanto, ad esem-  pio, il problema meridionale, ma anche il problema cattolico e il  problema crociano che sono poi aspetti dello stesso problema meri-  dionale [...]. La proposta è questa: non sarebbe possibile rispon-  dere ai bisogni rivoluzionari in questo campo? non sarebbe possi.  bile cominciare con una Storia dell’Italia moderna o anche solo  contemporanea? Potrebbe essere un nutrito Somzzario che desse  l’avvio a tutti gli studi particolari e per intanto rappresentasse il    377 Cfr. la recensione di R. Zangheri in « Società », IV (1948), pp.  280-285. Perplessità sulla pubblicazione del volume avanzarono sia Chabod  (lettera a Giolitti del 20 dicembre 1945, in AE, Corrispondenza edito-  riale Torino-Roma 1945), sia Salinari (a Giolitti, s.d., in AE, Cusin).   318 R. Korngold, Robespierre e il quarto stato, traduzione di F. Papa,  Torino, Einaudi, 1947 (ediz. originale 1941), p. 87. Una volta stampato  il libro, ci si rese conto dell’« incongruenza storica e critica » di questa  e di altre affermazioni (Balbo a Giolitti, 22 aprile 1947, in AE, Giolitti). canovaccio, la direttiva generale per un rinnovamento dei manuali  scolastici. Potrebbe essere invece una grande Storia, a largo respiro,  da concretarsi attraverso un lavoro collettivo [...]. Se pensi cosa ha  rappresentato il Sommario di storia della filosofia del De Ruggiero  nel senso della egemonizzazione borghese della cultura italiana, puoi  pensare cosa rappresenterebbe un Sommario storico fatto da te! Ma  anche qui non credo che proprio io debba sottolineare a te l’im-  portanza di questo lavoro. Voglio solo confermarti che c’è in tutti i  compagni, anzi in tutta la cultura italiana, una profonda aspettativa  in tal senso?”?,    Nell'ambito della casa editrice il marxista Cantimori  avrebbe dovuto sostituire il liberale Salvatorelli, ma lo scru-  polo scientifico del primo impedî quello che ancora nel  1956 — ricordando un’analoga proposta di Alicata, consi-  derata un preannuncio di « Zdanovismo » — Cantimori  titerrà un rovesciamento solo ideologico dell’interpretazione  crociana, in assenza di studi preparatori **.   A un intento educativo immediato risponde invece  prima delle altre, anche per la sua maggiore flessibilità, la  collana-cardine di Einaudi, i « Saggi », che — assieme alla  nuova collana « Testimonianze » — affronta temi di attua-  lità politica, da Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu  a Leningrado di Alexander Werth a Fascismo e anticomu-  nismo di Lucio Lombardo Radice, che inizia la riflessione  su una tematica ripresa dal Lurgo viaggio di Ruggero Zan-  grandi *', e presenta uno dei best sellers del tempo, Cristo    379 AE, Cantimori (Balbo parlava anche a nome di Einaudi); sempre  il 27 giugno 1947 Einaudi scriveva a Giolitti di « una Storia d'Italia degli  ultimi cento anni che noi vorremmo far fare a Cantimori inchiodandolo  per uno, due, tre, dieci anni a tavolino per costruire il monumento più  importante che in questo momento gli studiosi devono impostare: quello  IR ST della storia d’Italia, soprattutto di quella ultima » (AE,   jolitti). Pro e contra, in « Movimento operaio », VII (1956), p. 330. In questo quadro Balbo propose — trovando favorevoli Giolitti,  Salinari, Manacorda e Pavese — un’opera collettanea su La guerra di  liberazione in Italia, con documenti, testimonianze, biografie ecc., che  sarebbe servita « alla nazione italiana per una migliore conoscenza del  pi grande moto popolare che la sua storia ha fino ad oggi avuto; e  per una esatta valutazione di quelle che sono state le vere forze della  liberazione popolare e che sono le vere forze del suo avvenire (si vedranno  finalmente quelli che hanno lottato e quelli che sono compatsi solo a  oa alla consulta) » (AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma  si è fermato a Eboli di Carlo Levi, denuncia efficace — no-  nostante le riserve di « Società » °° — di quella realtà che  contemporaneamente, nei « Problemi italiani », era argo-  mento della Rivoluzione meridionale di Guido Dorso, già  apparsa nel 1925 nelle edizioni Gobetti. E mentre un volu-  me molto caro a Cajumi, La crisi della coscienza europea  di Hazard, rientra nell’interesse per l’illuminismo manife-  stato dalla casa editrice fin dai suoi esordi, il nuovo clima  di libertà permette la realizzazione di progetti già in can-  tiere negli anni del fascismo, come la Congiura per l’egua-  glianza o di Babeuf di Filippo Buonarroti, il primo, secondo  Gastone Manacorda, a fornire una « interpretazione clas-  sista della grande Rivoluzione », nonostante la persistenza  di quegli elementi utopistici ** che non erano invece tenuti  presenti da Giuseppe Berti nella presentazione del Filippo  Buonarroti di Samuel Bernstein: tesi entrambi, autore e  prefatore, ad attualizzare oltre il lecito il significato del  giacobinismo — « Buonarroti fu, con Babeuf, uno dei  grandi precursori di Marx e di Engels » **.   Ma un motivo che ci preme segnalare — a testimonianza  di un’altra e più profonda continuità col decennio prece-    382 Gianfranco Piazzesi, pur affermando che era «uno dei pochi  libri dove abbiamo potuto apprendere qualcosa sulla “questione meri-  dionale” », notava che Levi « resta sempre spettatore, intelligente quanto  volete, ma di un’altra classe, rispetto a questi contadini, e non sa mai  trovare il modo di farli parlare sinceramente, come si parla da pati  a pari, perché manifestino le loro riposte esigenze» (« Società, F. Buonarroti, Congiura per l'eguaglianza o di Babeuf, introdu-  zione e traduzione di G. Manacorda, Torino, Einaudi, 1946, pp. XVII,  XX. La proposta di pubblicare Buonarroti e Babeuf era stata rilanciata  anche da Vittorini nella prospettiva di un rinnovamento dell’« Univer-  sale » dove — scriveva a Einaudi il 3 luglio 1945 — « potremmo inclu-  dere anche autori antichi ma che segnino un punto nella evoluzione del  pensiero progressista » (E. Vittorini, Gli anni del «Politecnico », cit.,   . 8).   È 34 S. Bernstein, Filippo Buonarroti, traduzione e prefazione di G.  Berti, Torino, Einaudi, 1946, pp. 61-62; il saggio era apparso nel 1942  ne « Lo Stato operaio ». Cfr. le critiche di Sergio Romagnoli in « Annali  della Scuola Normale Superiore di Pisa», lettere, storia e filosofia, s.  II, vol. XVI, 1947, fasc. I-II, p. 103. Ancora nel 1948 Bernstein pub-  blicò su «Società » un articolo su Buonarroti storico e teorico comu-  nista, affermando che il giacobino italiano «si avvicina di molto al socia-  lismo scientifico » («Società », IV (1948), p. 383). Le origini della casa editrice Einaudi    dente — è la permanenza dell’interesse per la tematica  religiosa, sostenuto ora da nuovi collaboratori cattolici della  casa editrice che affiancano Balbo, come Franco Rodano e  Mario Motta. Questo interesse ha varie manifestazioni:  supera ogni misticismo nella riflessione di Balbo — L’uomo  senza miti e Il laboratorio dell’uomo —, teso a indicare, in  un altro momento di profonda crisi di valori, il fallimento  della filosofia tradizionale e la necessità di nuove « formule  di liberazione » dell’uomo, che non lo isolino dal contesto  storico-sociale *°; ha un’intonazione nettamente spiritualista  in Che cos'è il personalismo? di Emmanuel Mounier; si pre-  senta a sostegno di un vasto e generico affresco « alla Hui-  zinga », in cui la realtà storica è piegata alla dimostrazione  di una tesi — secondo la quale, nella deprecata età del pro-  gresso tecnico, « il cammino della secolarizzazione della cul-  tura non può essere percorso sino all’estremo » — nel  Profilo d’un umanesimo cristiano di H. W. Riissel, che in-  vitava a ricucire la frattura fra umanesimo e cristianesimo  operata dalla Riforma, facendo propria quella che gli pareva  « la grande verità della teologia umanistica », la non anti-  teticità della filosofia greca e del cristianesimo: tesi non con-  divisa nella prefazione postuma di un intellettuale dalla  tormentata vicenda culturale e politica come Giuseppe  Rensi — che pur aveva proposto e curato il volume nel  1940 —, mentre Bobbio riconosceva «la necessità e la  perennità di un umanesimo cristiano » per combattere la  « filosofia della crisi » originata da Kirkegaard ®*.    385 Pur riconoscendo ne L’uomzo senza miti il tentativo di liberarsi  dalla spiritualità dello storicismo immanentistico di Croce, Ludovico  Geymonat riteneva dogmatico il metodo di ricerca di Balbo (« Rivista  di filosofia », terza serie, I (1946), pp. 86-88); cfr. anche le critiche di  Croce, ora in Nuove pagine sparse, serie seconda, Napoli, Ricciardi, 1959,  pp. 157-160.   38 H. W. Riissel, Profilo d’un umanesimo cristiano, traduzione di G.  Rensi, Torino, Einaudi, 1945 (ediz. originale 1940), pp. IX, 2. Nel 1940  la pubblicazione del volume era stata impedita dalla censura; Rensi pro-  pose anche la traduzione di Platonismus und Christentum di C. Ritter  (AE, Rensi). La recensione di Bobbio è in « Rivista di filosofia », n.s.,  IV (1945), pp. 101-103. Nel 1949 Cantimoti, in un parere editoriale su  Erasmo e il Rinascimento di Siro A. Nulli — che sarà pubblicato da  Einaudi nel 1955 —, dichiarerà di condividerne le idee, « tanto per quel  che riguarda le interpretazioni del pensiero e della attività di Erasmo,  Alla tematica religiosa si volge anche l’interesse dei  « laici »: è del 1949 la proposta di Remo Cantoni — accet-  tata da Balbo ma poi non realizzata — del volume Critiche  allo spiritualismo *"; del 1950 Nuova socialità e riforma  religiosa di Capitini — il cui liberalsocialismo era presen-  tato come una concezione sociale e religiosa « postcomu-  nista » —, proposto da Cantimori come « opera importante  per la storia religiosa-politica e culturale del periodo 1926-  1944 e oltre: come cronaca, documentazione, e storia del-  l’unico movimento antifascista e anticlericale autoctono e-  spontaneo nel terreno italiano dopo il fascismo, consape-  volmente diverso dal comunismo, ma mai anticomuni-  sta » **. Antonio Banfi, formatosi alla scuola di Martinetti,  presentò inoltre il progetto di una « Collana di studi reli-  giosi », che si sarebbe proposta    di far conoscere in Italia a un pubblico più vasto dei consueti centri  di cultura religiosa, sia cattolici che di altre confessioni, quelle opere,  per lo pi recenti, che testimonino di una problematica viva e nuova  nel campo del pensiero religioso; opere che si propongono tutte un  mutamento sensibile nella considerazione del rapporto fra singolo e  collettività appunto in relazione con una differente valutazione dei  principi della confessione di fede; opere che propongono infine,    quanto per quel che riguarda la severa critica allo Huizinga, al Toffanin,  al Riissel, e compagnia. Si tratta di un energico richiamo alla realtà storica  di quel che furono, in quanto affermazione di idee nuove e critica di una  Fiserggi storica culturale, l’'Umanesimo e il Rinascimento » (AE, Can-  timori).   387 Cantoni a Balbo, 13 aprile e 24 giugno 1949: «La critica allo  spiritualismo teologico e metafisico è il grande tema culturale degli ultimi  cento anni. Vorrei presentare criticamente tutte le variazioni storiche sul  tema, da Feuerbach a Marx, da Kirkegaard a Stirner, arrivando fino alla  filosofia contemporanea. E si tratta di ricostruire le ragioni sociali per  le quali muta la sensibilità metafisica » (AE, Cantoni).   388 A. Capitini, Nuova socialità e riforma religiosa, Torino, Einaudi,  1950, pp. 26-27; Cantimori a Einaudi, 12 gennaio 1949 (AE, Cantimori).  Nel 1946 Capitini aveva proposto «un volume quasi pronto » su Anti-  fascismo della non violenza e della non menzogna a Pisa nel ’32 ed uno,  già terminato, dal titolo Saggio sul soggetto della storia — anche questo  non accettato, ma preso in visione per consiglio di Cantimori —, in  cui conduceva «un'indagine oltre lo storicismo crociano per accertare  l’autentico soggetto, collettivo e corale, della storia, per fondare quella  che io chiamo la compresenza di tutti alla produzione del valore; pro-  blema nel quale rientra quello sociale e quello religioso » (Capitini a  Giolitti, 13. gennaio 1946, e a Einaudi, 14 luglio 1946, in AE, Capitini).    348    Le origini della casa editrice Einaudi    tutte, una precisa presa di posizione per il credente, in ordine alla  vita politica:    opere ispirate allo storicismo — e si facevano i nomi di  Newman, Blondel, Barth, Jiger, Troeltsch, Weber — e che,  si specificava,    prevedono una rottura con le forme tradizionali di direzione politica  definite dalla autorità della Chiesa come le sole possibili e conse-  guenti ed anzi prevedono un mutamento radicale di prospettiva in  tal senso consentendo al credente la più ampia libertà di ricerca  della propria prospettiva politica e la possibilità di affiancare la pro-  pria azione a quella di forze politiche progressive di ideologia dif-  ferente 599,    La presenza di queste riflessioni e di queste proposte  relative a tematiche religiose, se da un lato si collegano a  un filone già presente nella casa editrice, dall’altro testimo-  niano l’attenzione che in questo periodo i comunisti dedi-  cano al problema cattolico. Non bisogna tuttavia dimenti-  care che, contemporaneamente, una visione tradizionale del  cristianesimo è il punto di riferimento obbligato di quegli  intellettuali che — sulla falsariga di Huizinga — lamen-  tano le degenerazioni della politica e del progresso contem-  poranei per riproporre un assetto conservatore della società.  È il caso de Le democrazie alla prova di Julien Benda —  un libro la cui edizione francese era positivamente recensita  su « Società », con qualche appunto sul tono aristocratico  e moralistico dell’esponente della « letteratura della cri-  si » °® —: se nel momento in cui fu scritto (1941) si giusti-  ficava nel suo assunto principale, sostenendo che le demo-  crazie, più deboli in guerra dei totalitarismi, debbono difen-  dersi anche a costo di limitare le libertà — « un popolo  veramente libero è tanto più grande quanto più sa ridurre  le sue libertà » —, si faceva poi forte delle argomentazioni  di Constant, Kant e Spencer contro quelle di Bonald, De  Maistre, Hegel, Nietzsche e Marx — tutti accomunati come    %° A Banfi, che accettò, Balbo chiese nel 1947 di fare la prefazione  agli Scritti teologici giovanili di Hegel previsti per la collana filosofica  (AE, Banfi).   39 Recensione di Vezio Crisafulli, in « Società » antidemocratici — per affermare che « i principi democra-  tici sono dei comandamenti della coscienza, e non già degli  insegnamenti dell’esperienza e del costume »; di origine  socratico-cristiana, la democrazia era realizzata solo in Sviz-  zera e negli Stati Uniti, e non sopportava « abusi » del prin-  cipio egualitario come il suffragio universale, osservava  Benda, per concludere che « lo sviluppo di qualsiasi orga-  nizzazione terrena importa sempre qualche violenza contro  i comandamenti divini di giustizia e di libertà »: « il filo-  sofo non può riporre le sue speranze se non in quei sistemi,  come il cristianesimo, omogeneo in questo alla democrazia,  i quali dell’uomo non glorificano altro che la sua natura  divina » ?!,   A fini decisamente reazionari il cristianesimo era utiliz-  zato ne La crisi sociale del nostro tempo di Wilhelm Ropke,  l'economista teorico della « terza via », « in tante cose  affine al Croce e dal Croce assai pregiato » per il rifiuto  del concetto e del termine « capitalismo », come osservava  Cantimori *. Nel volume, uscito originariamente nel 1941  e già in traduzione presso Einaudi prima del 25 luglio ’”,  l’autore criticava « le incomparabili conquiste meccanico-  quantitative della civiltà tecnica » per lamentare, in una  società caratterizzata dalla grande industria e dalla concen-  trazione delle proprietà, la decadenza del cristianesimo —  « una delle più formidabili forze costruttrici della nostra  civiltà, da essa inseparabile » — e della famiglia, oppure  « la diserzione delle comunità rurali e la decadenza del vil.  laggio a favore della città e dell’urbanizzazione e commer-  cializzazione della campagna stessa ». Una critica che ricorda  il leit motiv di Luigi Einaudi — difesa della piccola pro-    39 J. Benda, Le democrazie alla prova. Saggio sui principi demo-  cratici, traduzione di G. Crescenzi, Torino, Einaudi, 1Cantimori, Studi sulle origini e lo spirito del capitalismo, pub-  blicato su « Società » nel 1946, ora in Studi di storia, Torino, Einaudi,  1959, p. 130.   393 In una lettera del 2 luglio 1943 alla sede romana, l’editore scri-  veva di iniziare la traduzione del volume di Répke, affidandola a Ernesto  Rossi (AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1941-1944); scrivendo  a Pavese il 9 agosto 1943, Pintor giudicava il volume «di grande attua-  lità » (AE, Pintor).    350    Le origini della casa editrice Einaudî    prietà contadina e condanna del « gigantismo » economi-  co —, e da cui Ropke partiva per indicare una « terza via »  o « umanesimo economico » — il modello era individuato  nella Svizzera —, che si risolveva in pratica nella ripro-  posta del liberismo classico in opposizione al socialismo °*:  era quanto notava Cantimori, ricordando che le lodi rivolte  all'autore nel 1942-43 da Luigi Einaudi e da Croce « furono  uno degli ultimi episodi più notevoli, data la personalità  degli autori, della lotta intellettuale condotta sotto il do-  minio del fascismo dal gruppo “crociano” e diretta da una  parte contro il fascismo e dall’altra contro il comuni-  smo » °?. Un liberalismo, quello del futuro collaboratore  de « Il Mondo », che sarà messo in dubbio da Togliatti,  per il quale era solo una mascheratura dello « sconcio  ghigno hitleriano » **.   Del resto, se consideriamo i volumi pubblicati fino al  1946 nella nuova serie dei « Problemi contemporanei » —  nella quale non aveva più diretta influenza Luigi Einaudi —  e nella « Biblioteca di cultura economica » — che secondo  Balbo e Giolitti avrebbe dovuto avere un carattere « non  istituzionale e teorico, ma storico-informativo » #” —, pos-    34 W. Ropke, La crisi sociale del nostro tempo, traduzione di E.  Bassan, Roma, Einaudi, Nella recensione a Civitas Humana di Répke, pubblicata su « So-  cietà » nel 1946, ora in Studi di storia, cit., p. 715. Luigi Einaudi aveva  visto rispecchiate le proprie idee di politica economica nel volume di  Ropke, mosso dall’intento di « salvare la civiltà occidentale dall’avvento  di una democrazia livellatrice e collettivistica » (Economia di concorrenza  e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, in « Rivista.  di storia economica », VII (1942), n. 2, pp. 49-72).   3% Il giudizio di Togliatti, del 1952, è citato da N. Ajello, Intellettuali  e Pci, cit., p. 259; già nel 1947, in una recensione di Bilancio europeo  del collettivismo pubblicato nei Quaderni di «Rinascita liberale », si  osservava su «Rinascita »: «se i liberali tedeschi non sono mai stati  altro che questo, si capisce benissimo come la Germania sia sempre  stato un paese reazionario e con tanta facilità abbia potuto Hitler pren-  dervi e tenere il potere » (« Rinascita », IV (1947), p. 271). Dell’« assidua  collaborazione » di Ròpke a « Il Mondo », che nei suoi primi anni si ispi-  rava al liberismo di Luigi Einaudi, parla P. Bonetti, « I{ Mondo » 1949-66.  Ragione È illusione borghese, prefazione di V. Gorresio, Bari, Laterza,  1975, p. 16.   39 Balbo (anche a nome di Giolitti) alla sede di Milano, 10 ottobre  1945 (AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945). È da rilevare,  tuttavia, che il 5 febbraio 1946 la casa editrice assicurava Luigi Einaudi    351        siamo notare che Ropke è soltanto la punta estrema di un  ‘orientamento che non si oppone drasticamente alla linea  liberista: la casa editrice non fa altro che rispecchiare l’arre-  tratezza della sinistra nel campo della cultura economica, e  la sua rinuncia, in questo momento, a porre in discussione  il ruolo dell’iniziativa privata nella ricostruzione ®**. È in-  fatti significativo, da un lato, che nel primo biennio post-  bellico l’unica voce favorevole alla pianificazione sia quella  di Pasquale Saraceno *”, e, dall’altro, che gli studiosi ai quali  si guarda con maggiore attenzione siano statunitensi, cosî  che il liberatorio « mito » americano di Pavese e di Vitto-  rini — temperato negli anni ’30 dalla critica dei liberisti al  New Deal rooseveltiano — trova ora una sua realistica  traduzione nell’immagine che gli economisti e gli uomini  politici americani danno del loro paese, impegnato a supe-  rare con la somma delle sue energie individuali la nuova  « frontiera » posta dall’eredità della guerra.   Cosî, mentre l’opera collettanea di Friedrich von Hayek,  N.G. Pierson, Ludwig von Mises e Georg Halm, Pianifi-  cazione economica collettivistica (1946), è, come annuncia  il sottotitolo — « Studi critici sulle possibilità del socia-  lismo » — e il nome del prefatore, Bresciani-Turroni, una  decisa esaltazione del liberismo ‘*, a incarnare il nuovo mito  riappare Henry A. Wallace, l’esponente democratico che  alla fine del 1946 aveva rotto con Truman a proposito della    della prossima pubblicazione — poi non avvenuta — di The Road to  Serfdom di Hayek: «La nostra Casa, come Lei sa, non persegue un indi-  rizzo politico di partito, ma pubblica opere di varie tendenze — da  Togliatti a Lippmann a Répke a Schumpeter — secondo la linea già corag-  giosamente seguita, nei limiti del possibile, sotto il fascismo » (AE, L.  Einaudi).   398 È quanto osserva, anche in riferimento alle edizioni Einaudi,  G. Santomassimo, Il dibattito economico, in «Italia contemporanea »,  XXVI (1974), n. 116, p. 45.   39 Cfr. la prefazione di Saraceno a G. Bienstock, S.M. Schwarz,  A. Yugow, La direzione delle aziende industriali e agricole nell'Unione  Sovietica, traduzione di P. Saraceno, Torino, Einaudi, 1946 (ediz. origi-  nale 1944).   40 Von Mises — tanto lodato, assieme a Robbins e Hayek, da Ernesto  Rossi nelle sue lettere del periodo bellico a Einaudi (AE, Rossi) —  sarà giudicato da Piero Sraffa « un reazionario antidiluviano » (a Balbo,  23 gennaio 1950, in AE, Sraffa).  Le origini della casa editrice Einaudi    politica del governo americano verso l’URSS ‘!: in un’ope-  retta dall’accattivante titolo Lavoro per tutti dichiarava  che gli USA non avevano nulla da temere dal comunismo  « se il nostro sistema di libera iniziativa si dimostrerà all’al-  tezza delle sue possibilità », e di fronte all’aprirsi di nuovi  mercati per l'economia statunitense si mostrava fiducioso  che « la guida economica americana potrà recare alla regione  del Pacifico un grande vantaggio materiale ed una grande  benedizione al mondo » ‘°; e l’esperimento di colonizza-  zione interna nella valle del Tennessee che Wallace propo-  neva a modello per il mondo intero, era puntualmente esa-  minato da David E. Lilienthal in Democrazia in cammino  (1946). Un energico richiamo al liberismo, contro i pianifi-  catori di qualsiasi colore, fossero fascisti, comunisti, o i  sostenitori del « collettivismo graduale » degli Stati demo-  cratici, veniva da un altro esponente democratico ameri-  cano, Walter Lippmann: ne La giusta società — la cui edi-  zione originale era del 1936 — egli si dichiarava debitore  della « critica a una economia razionalizzata » svolta da  von Mises e von Hayek, ma anche da Keynes — « la cui  opera è tutta volta a dimostrare che l’economia moderna  può essere regolata senza ricorrere alle dittature ed è com-  patibile con istituzioni libere » —, e cercava di dimostrare  che la libertà dell'individuo era assicurata dai principi origi-  nari del liberismo depurato di quelle degenerazioni che ave-  vano portato a processi di concentrazione produttiva — « il  principio basilare del liberalismo è [...] che il mercato  deve essere lasciato libero di funzionare, ed anzi perfezio-  nato, come regolatore principe e primo della divisione del  lavoro » —, non senza usare toni apocalittici di sapore puri-  tano che ritroviamo in altri esponenti del mondo anglosas-  sone: « Gli uomini vivono in un mondo torbido, dove non  si guarda più con fiducia alla Provvidenza divina, quale  ente regolatore delle cose umane, dove il costume eredi-  tato ha cessato d’essere di guida e la tradizione non pi    41 Cfr., per l’attenzione di cui era oggetto da parte comunista, Inter-  vista con Wallace, in «l’Unità », 17 aprile 1947.   42 H.A. Wallace, Lavoro per tutti, traduzione di G. Olivetti,  Torino, Einaudi, santifica le vie fino adesso battute » ‘*. È lo stesso Lipp-  mann che ne La politica estera degli Stati Uniti e ne Gli  scopi di guerra degli Stati Uniti (1946) manifesta la sua  tendenza democratica sostenendo la necessità di un accordo  USA-URSS per il mantenimento della pace mondiale, ma al  tempo stesso giustifica l’espansionismo americano e coglie  l’occasione per ammonire l’URSS che « per quanto corrette  possano essere le nostre relazioni diplomatiche, esse non  saranno quelle relazioni veramente buone quali dovrebbero  essere, finché nell'Unione Sovietica non saranno state in-  staurate le fondamentali libertà politiche e umane » ‘*.    12. La rottura dell’unità antifascista e il rapporto col PCI    La spaccatura politica che si ha nel paese nel mag-  gio 1947 ha profonde ripercussioni sulla casa editrice, i cui  legami col PCI si stringono ulteriormente provocando un  sensibile mutamento negli indirizzi culturali. Anche dopo  la fine dei governi di unità antifascista, all’interno del PCI  non scomparve completamente la prospettiva di una al-  leanza con gli intellettuali democratici: se al VI congresso  del gennaio 1948 Togliatti invitava a serrare le fila — « La  nostra attività ideale non può non avere, come l’attività  pratica, l'impronta di partito » ‘ —, nel dicembre dello  stesso anno Alicata, pur notando che «la borghesia del  nostro paese sta compiendo un tentativo estremo per rior-  ganizzare in senso reazionario la cultura italiana, per tra-  sformarla ancora una volta in una efficiente barriera ideo-  logica contro il marxismo », con la collusione di cattolici e  liberali in un « blocco antirazionalista », invitava a « conti-  nuare a lavorare per costituire un fronte della cultura il    #3 W. Lippmann, La giusta società, a cura di G. Cosmelli, Roma,  Einaudi, 1945, pp. 6, 9, 41, 221. Lippmann era autore anche di A  Preface to Moradls (1929).   44 W. Lippmann, Gli scopi di guerra degli Stati Uniti, Torino,  Einaudi, 1946 (ediz. originale 1944), p. 136.   45 Rapporto al VI congresso del PCI del 5-10 gennaio 1948, in P.  Togliatti, La politica culturale, cit., p. 90.    354    Le origini della casa editrice Einaudi    più possibile ampio » ‘*. La situazione oggettiva non ren-  deva tuttavia immediatamente praticabile, come nel 1945-  46, questa indicazione, e il rapporto privilegiato che si  venne istituendo fra PCI ed Einaudi provocò profonde lace-  razioni — di cui è esempio la vicenda de « Il Politecnico »  — e contrasti interni fra i collaboratori. La casa editrice  riuscf comunque a mantenere una sua sfera di autonomia —  basti pensare ai settori letterario, storico e filosofico — che  le permise di non essere isolata e, al tempo stesso, di non  istituzionalizzare il suo legame col partito.   Proprio il carattere non ufficiale del suo rapporto col  PCI aveva permesso che questo individuasse in Einaudi il  canale più adatto, anche se non unico, per diffondere la  conoscenza del marxismo nella cultura italiana. La deci-  sione di affidare a Einaudi, piuttosto che all’editoria di par-  tito, gli scritti di Gramsci, si situa appunto in un quadro  che vedeva la pubblicazione, da parte della casa editrice,  di testi di Monti, Sforza, Sturzo, Nenni, Togliatti, Grifone  e Sereni, e la proposta di edizione delle opere di Salve-  mini o, su suggerimento anche di Togliatti, di quelle di  Dorso e dei Discorsi di Giovanni Giolitti *”. L’uscita, nel  1947, delle Lettere di Gramsci — che, come osservava    46 M. Alicata, Una linea per l’unità degli intellettuali progressivi,  ora in Inzellettuali e azione politica, cit., pp. 81, 84.   40 In una lettera all’editore del 23 gennaio 1947 Muscetta avver-  tiva, a proposito di Dorso di cui curerà le opere: « Bada che il Partito  Comunista, appena Togliatti avrà visto i manoscritti inediti, desidera  farsi promotore dell’edizione »; il 20 settembre scriveva che Togliatti  desiderava che fosse Einaudi a stampare Dorso (cfr. anche l'esplicita  richiesta di Togliatti a Einaudi del 24 settembre 1947, in AE, Togliatti),  e il 1° dicembre si scusava per non aver inviato i manoscritti di Dorso:  « Ma non era mica io a tenermeli. Era Togliatti, e ce n'è voluto per  riaverli »; il 4 marzo 1949 Giolitti avvertiva l’editore che Togliatti aveva  approvato la prefazione alle opere di Dorso (AE, Muscetta, Giolitti).  Il contributo di Dorso — morto all’inizio del 1947 — « dal marxismo  può essere accettato per essere sisterzato », affermò Franco Rodano  (Guido Dorso, in «Rinascita », IV (1947), p. 11). Il 31 ottobre 1946  Muscetta proponeva a Pavese i Discorsi di Giolitti con prefazione di  Salvatorelli, e il 16 marzo 1947 gli scriveva: « Giolitti è stato già da  tempo gradito dal Togliatti » (AE, Muscetta). Inoltre, il 2 dicembre  1947, Bobbio interpellava Dal Pane per una raccolta di scritti rari o  inediti di Labriola, « magari come inizio di una più ampia raccolta  dell’opera filosofica e storica del Labriola » (Archivio privato Bobbio).  Felice Platone, « sono in buona parte come una introdu-  zione generale agli scritti che verranno dopo e ambiente-  ranno il lettore meglio di qualsiasi prefazione » —, costituî  un inusitato successo editoriale, se nel giugno 1949 la tira-  tura era arrivata a 43.526 copie, di cui 37.254 vendute ‘*.  Nel 1948 cominciò la pubblicazione dei Quaderni del car-  cere, che fu accompagnata tuttavia, da parte della casa  editrice, da impazienze e dubbi sulle reali intenzioni del    partito, se il 15 maggio 1947 Cantimori poteva scrivere a  Einaudi che    con quelli della edizione di Gramsci bisognerebbe usare mezzi feroci.  Mi han fatto vedere il volume sulla storia degli intellettuali, o  com'è il titolo preciso, quello insomma dove si parla di Croce, e dei  problemi filosofici: è pronto (a meno di una revisione del dattilo-  scritto pessimo), e chi sa perché non lo fanno uscire [...]. Sembra  che qualcuno abbia scrupoli per le critiche al Croce che ci sono in  quel volume [...]. Ho protestato contro questi scrupoli, con chi  voleva sentire e con chi non voleva, Ma che cosa aspettano, che  Croce sia morto, per poi farsi dire da qualche stupido che non si è  avuto coraggio di pubblicare le critiche Croce vivo? E lo stupido  sembrerebbe aver ragione! Appena tornerò a Roma mi butterò alla  carica 49.    E il 15 ottobre 1948 gli faceva eco Einaudi che, prote-  stando con Togliatti per il ritardo del « si stampi » per i  quaderni su Gli intellettuali e l’organizzazione della cul-  tura, invitava il dirigente comunista a evitare « una tempo-  ranea battuta di arresto », essendo    48 AE, Platone. Già il 7 giugno 1945 Togliatti aveva scritto a Einaudi:  « siamo perfettamente d’accordo sulle sue proposte riguardanti l’edizione  completa delle opere di Gramsci. Vogliamo solo porre due condizioni:  1) Eventuali prefazioni e note di singoli volumi che Ella vorrà pubbli-  care in collane particolari, debbono avere la nostra approvazione. 2) La  Direzione del P.C.I., pur concedendo a Lei tutti i diritti per questa edi-  zione e le successive ristampe, si riserva la proprietà letteraria dell’opera »  (AE, Corrispondenza editoriale Torino-Roma 1945).   49 Cantimori a Einaudi, 15 maggio 1947; lo stesso giorno Cantimori  scriveva a Balbo: «La Direzione del Partito farebbe meglio a spicciarsi  a consegnarvi le opere di Gramsci invece di farle conoscere a spizzico [...],  o di avere scrupoli perché si critica Croce »; il 30 settembre 1947 Balbo  — su suggerimento di Einaudi — inviava a Cantimori le bozze de //  materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce «in via privatissima  affinché tu potessi, dando una scorsa veloce, segnalarci eventuali notevoli  lacune » (AE, Cantimori).    356    Le origini della casa editrice Einaudi    ormai chiaro a tutti che Gramsci serve ai nostri compagni per raf-  forzarsi ideologicamente, per imparare a ragionare e a porsi dei  problemi, che Gramsci serve agli intellettuali non comunisti per far  loro misurare nella sua pienezza la nostra forza ideologica. Non  solo, ma è dimostrato che attraverso Gramsci molti intellettuali si  avvicinano al nostro partito e, sovratutto, si creano delle alleanze 41°.    L’operazione che riusci con Gramsci non ebbe suc-  cesso — anche per la difficoltà di trovare i testi originali e  traduttori preparati — per il progetto di una « Collana  marxista » di cui Einaudi aveva parlato a Lucio Lombardo  Radice già il 5 gennaio 1945 ‘, e che nella fase di prepa-  razione occupò, fra gli altri, Manacorda, Cantimori, Emma  Cantimori Mezzomonti, Luporini, Massolo, Bobbio, Balbo e  Giolitti. Su questo terreno si era già impegnata, subito  dopo la liberazione di Roma, l’editrice comunista Nuova  Biblioteca diretta da Carlo Bernari e per la quale Cantimori  era stato incaricato di dirigere la collana « Pensiero sociale  moderno » ‘“; l’iniziativa non ebbe tuttavia seguito e, prima  che fosse ripresa dalle edizioni Rinascita, alcuni dei cura-  tori previsti confluirono nel progetto einaudiano. Ma già  nel luglio 1945 la collana veniva definita « minor » ‘, e    40 AE, Togliatti.   41 « Nell’intendimento di soddisfare un’esigenza oggi largamente dif-  fusa, la mia casa ha deciso la pubblicazione di una “Collana Marxista” »;  a Lombardo Radice Finaudi offriva la cura dell’Indirizzo inaugurale di  Marx del 1864 (AE, L. Lombardo Radice).   412 Cfr. G. Manacorda, Lo storico e la politica. Delio Cantimori e il  partito comunista, in Storia e storiografia. Studi su Delio Cantimori.  Atti del convegno tenuto a Russi (Ravenna) il 7-8 ottobre 1978, a cura  di B. V. Bandini, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 67-70.   413 .Manacorda a Bobbio, 18 luglio 1945; i testi già « in lavorazione »,  non esistendo più il pericolo di interferire con la Nuova Biblioteca, che  «non fa praticamente nulla », erano: Manifesto e scritti preparatori  (Emma Cantimori), Guerra civile in Francia (Enzo Lapiccirella), Lotte  di classe in Francia (Mario Manacorda), Ideologia tedesca (Arturo Mas-  solo e Cesare Luporini), l’Imzperiglismo di Lenin (Bianca Maria Luporini)  (Archivio privato Bobbio). Il 10 maggio 1945 Renata Aldrovandi  scriveva da Milano a Einaudi che «con Misha {Michele Kamenetzki,  che assumerà in seguito lo pseudonimo di Ugo Stille] è stata discussa  una collezione di civiltà marxista — raccolta di autori meno classici  di quelli del tuo programma ma imperniata sui problemi pit partico-  lari e attuali (es. il libro di Sereni sull’agricoltura in Italia, ecc.): questa  collana sarebbe costituita in parte con libri che ha Vittorini, e in parte  con la critica di libri italiani visti alla luce marxista » (AE, Corrispon-  denza editoriale Torino-Roma 1945). una circolare editoriale annunciava testi brevi di Marx;  Engels, Lenin e Stalin, col sussidio di un commento espli-  cativo, per « orientare il lettore verso certi punti fermi del  marxismo, e di introdurre allo studio del marxismo, evi-  tando quegli accostamenti attraverso materiale di seconda  mano finora tanto frequenti e tanto nocivi » ‘*. Il progetto  naufragò definitivamente nel dicembre 1946, quando Balbo  propose a Giolitti di inserire i vari testi marxisti nelle col-  lane esistenti e di farne una scelta accurata in modo da  « mantenere le nostre caratteristiche di Casa editrice rivolta  a un pubblico abbastanza colto o addirittura di studiosi » ‘.  Non mancarono le proteste del PCI per il fallimento della  collana, finché nel 1948, in coincidenza con la pubblica-  zione del primo testo, Le lotte di classe in Francia di Marx  — nell’« Universale » #9 —, Togliatti scrisse a Einaudi  che « per i classici io non sarei favorevole a passare a te  l'iniziativa editoriale » ‘”. Si registrava cosî un pesante ri-  tardo nella diffusione del marxismo, reso evidente, ad  esempio, dal fatto che ancora nel 1947 « Rinascita » pub-  blicava elenchi di testi di Marx ed Engels, in varie lingue e    414 Circolare s.d. (ibidem).   . 45. Balbo a Giolitti, 10 dicembre ’46; nella risposta del 24 dicembre,  Giolitti si dichiarava d’accordo (AE, Giolitti). Assai riduttiva era invece  la proposta di Muscetta, che per il Manifesto suggeriva «la classica  traduzione di Pompeo Bettini e una prefazione di un tipo come Um-  berto Morra: proprio adatta al gran pubblico dei non marxisti» (all’e-  ditore, 21 giugno 1947, in AE, Muscetta).   . #16 Il 5 settembre 1947 Einaudi scriveva a Cantimori che, «in se-  guito allo smistamento della ex-collana marxista », aveva proposto a  Chabod di includere il volume negli «Scrittori di storia »; Cantimori  rispondeva di non essere d'accordo perché le Lotte di classe costituivano  «un grande esempio di analisi critica politico-sociale, economico-politica,  ma non un libro di storia come invece può essere considerato il 18  Brumaio che tratta lo stesso argomento ma a svolgimento storico con-  chiuso »; il 13 settembre Chabod dichiarava a Einaudi di condividere  le ‘osservazioni di Cantimori, in quanto l’opera di Marx era « un'analisi  politico-sociale, che è al tempo stesso un programma d'azione. Sul  genere, insomma, dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio del  Machiavelli » (AE, Cantimori, Chabod).   . 4? AE, Togliatti. Le proteste del PCI per il fallimento della « Col-  lana marxista » sono registrate, ad esempio, da una lettera di Gio-  litti all'editore del 16 aprile 1947: «Togliatti, impazientito per i  ritardi di queste pubblicazioni, ha esortato le edizioni del Partito a  pubblicare senza indugi» (AE, Giolitti). in vecchie edizioni, presenti nelle biblioteche italiane.   È in questo quadro, di disinformazione e disorienta-  mento, che si colloca il « caso » di Gustavo Wetter,. il  gesuita austriaco professore al Pontificio Istituto Orien-  tale in Roma, autore de I/ materialismo dialettico sovietico.  Il libro era stato presentato da Balbo come opera « seria  ed onesta, di carattere informativo, filologicamente cor-  retta e documentata, compiuta tutta su testi originali non  accessibili agli studiosi italiani per molto tempo. Le poche  osservazioni critiche, naturalmente condotte con metodo  scolastico, sono però sempre intelligenti e non settarie ».  Bobbio ne prendeva atto, pur con qualche dubbio, e un  anno dopo Cantimori — particolarmente incline a presen-  tare come opere « documentarie » i testi di autori spiritua-  leggianti, come Capitini o Toynbee — esprimeva il suo  parere positivo: « è chiaro che è il libro d’un gesuita e non  di un comunista; è un libro utile, per le discussioni e retti-  ficazioni che provocherà » ‘. Ma, se Miccoli nota opportu-  namente che il libro fu pubblicato un anno dopo questo  parere, « in un momento infelicissimo per le “discussioni e  rettificazioni”, evidentemente pacate, alle quali pensava  Cantimori » ‘, è difficile non cogliere l’atteggiamento patti-  giano dell’autore, che nel 1953 dedicherà su « La Civiltà  cattolica » un ritratto a Giuseppe Stalin demone dell’antire-  ligione. Nonostante l'avvertenza editoriale — che presen-  tava l’opera come « informatissima e aggiornata » dichia-  rando al tempo stesso un « fondamentale dissenso dalle  premesse e dalle conclusioni dell'Autore » —, Wetter  affermava infatti che per i sovietici la filosofia era ancella  della politica, coglieva una presunta « affinità tra la filo-  sofia di Lenin e la filosofia religiosa russa » — « nell’intui-  zione d’un nesso e d’un’unità reali in cui fra loro si uni-    418 Balbo a Bobbio, 17 ottobre 1945 (Archivio privato Bobbio);  Bobbio a Balbo, 20 ottobre 1945 (Archivio privato Balbo). Il 10 dicembre  46 Balbo scriveva a Giolitti che il testo era stato revisionato da Can-  timori, mentre il 19 giugno 1947 Giolitti, in una lettera a Serini, diceva  di aver preparato l’avvertenza al volume (AE, Giolitti).   419 G, Miccoli, Delio Cantimori, cit., p. 253 (anche per il siind  a Toynbee}. Su tutta la vicenda cfr. anche G. Manacorda, Lo storico -e  la politica. Delio Cantimori e il partito comunista, cit., pp. 78-81.    359        scono tutte le cose del mondo » —, e concludeva che «i  materialisti dialettici sovietici, per non esser costretti ad  assoggettarsi a Dio, si gettano nelle braccia d’un idolo. È  forse altro, invero, quella materia a cui, negato Iddio, ven-  gono trasferite tutte le prerogative divine? » ‘’. Erano  quindi giustificate le lodi de « La Civiltà cattolica » *" e la  violenta stroncatura del volume da parte di Giuseppe Berti,  che ne sottolineava gli errori, la tendenziosità antisovietica,  il privilegiamento di sconosciuti intellettuali sovietici, e  accusava di « incredibile leggerezza » quei marxisti che ‘ave-  vano consigliato la sua pubblicazione ** — che fu un « er-  rore », come riconoscerà più tardi lo stesso Cantimori ‘*  Una riflessione sul marxismo priva di preconcetti rimase  quindi limitata, in questi anni, a Ordine e vita del biologo  inglese Joseph Needham (1946), un volume già proposto  da Alicata nel 1941 .che concludeva la sua analisi scienti-  fica con l’accettazione del materialismo dialettico ‘4; mentre  una conoscenza dell’Unione Sovietica più equilibrata di quel.  la fornita dagli studiosi statunitensi fu avviata — prima che  nel 1950 fosse tradotta l’opera dei coniugi Webb respinta  da Giulio Einaudi nel 1938 ‘5 — con la traduzione di saggi  di altri autori inglesi, significativamente caratterizzati da un  acritico confronto con l’esperienza del cristianesimo primi-  tivo. In Un sesto del mondo è socialista l’alto prelato angli-    40 G.A. Wetter S.J., Il materialismo dialettico sovietico, Torino,  Einaudi, 1948, pp. XI, 393, 397, 399.   A. Brucculeri, Scientismo marxista, in « La Civiltà cattolica », 99  (1948), vol. I, pp. 508-512; cfr. anche, contro la critica di ‘« Voprosy  filosofii » all’edizione tedesca del volume, U.A. Floridi, Materialismo  dialettico e critica sovietica, in «La Civiltà cattolica», 104 (1953),  vol. Rio pp. 302-308. °   « Società », III (1947), pp. 705-716.   n G. Miccoli, Delio Cantimori, cit., p. 253 n   44 Cfr. Alicata a Einaudi, 27 novembre 1941 (AE, Alicata), e la  favorevole recensione di Lucio Lombardo Radice in « Rinascita », III  (1946), pp. 134-135.   45 Il 3 dicembre 1948 Mario Motta scriveva a Einaudi: «I sondaggi  sul Webb sono stati eseguiti. Tutto bene. Il libro non è mai stato  attaccato nell'Unione. Tanto Togliatti che Sereni sono d'accordo sulla  sua diffusione anche all’interno del Partito. Togliatti però pensa ‘che  forse sarebbe bene alleggerire l’opera di tutte quelle parti documentarie  che non hanno più un interesse attuale (per es. la costituzione sovietica  ecc.) » (AE. Motta).    360    Le origini della casa editrice Einaudi    cano Hewlett Johnson partiva infatti dalla constatazione  dell’assenza di una base morale nel « sistema » occidentale  per cogliere nell’organizzazione della società sovietica la  possibilità di sviluppo di quei valori umani che « sono per  chi scrive indissolubilmente legati con la religione e la  tradizione cristiana » ‘9; un analogo afflato religioso per-  corre Fede, ragione e civiltà del laburista Harold J. Laski,  per il quale    è difficile vedere su quali basi possa essere ricostruita la tradizione  della civiltà; all’infuori di quelle su cui si fonda l’idea della rivolu-  zione russa. Essa corrisponde, prescindendo dagli elementi sopranna-  turali, con esattezza considerevole al clima spirituale nel quale il  cristianesimo divenne la religione ufficiale dell'Occidente [...]. Ovun-  que si è affermata, l’idea della rivoluzione russa ha suscitato nei suoi  esponenti un’aspirazione ardente alla salvezza spirituale 47    I più stretti rapporti instaurati nel 1947 col PCI tro-  vano comunque espressione soprattutto nella pubblicazione  di testi di politica e di economia. Esce nel 1948 Il Mezzo-  giorno all’opposizione (Dal taccuino di un ministro în con-  gedo) di Emilio Sereni che, sollecitato nel febbraio dello  stesso anno da Balbo a fornire un parere sulla traduzione  di The great conspiracy in cui Michael Sayers e Albert E.  Kahn analizzavano la « cospirazione antisovietica » dalla  Rivoluzione d’ottobre al secondo dopoguerra — un libro,  affermava Balbo, « estremamente utile in se stesso, e oggi,  per la campagna elettorale » —, chiedeva, anche a nome  di Togliatti, di accelerarne la pubblicazione perché il vo-  lume — tradotto nel 1948 in « Politecnico biblioteca » —  era « ancor nuovo e di grande interesse per il pubblico  italiano e può avere ora una grande efficacia propagandi-    46 H. Johnson, Un sesto del mondo è socialista, a cura di A. Taglia-  cozzo, Torino, Einaudi, 1946 (ediz. originale 1944), pp. 7, 9; cfr. la  recensione di Mario Montagnana i in « Rinascita », III (1946), pp. "333 -334.   42 H.J. Laski, Fede, ragione e civiltà. Saggio di analisi storica, tradu-  zione di È. Bedetti Aloisi Torino, Einaudi, 1947 (ediz. originale 1944),  p. 60. Del leader laburista fu pubblicato su «l'Unità » del 12 settem-  DE sai l’articolo «Ux popolo veramente libero » crea la nuova Ceco-  slovacchia.    361    H fascismo e il consenso degli intellettuali    stica » ‘**, Alla fine del 1949, in un momento in cui il pro-  blema della terra si era riacutizzato con le lotte contadine  nel Mezzogiorno, Balbo si rivolgeva ancora a Sereni per  invitarlo a scrivere quella storia dell’agricoltura italiana di  cui si avvertiva il bisogno in un paese « che nella risolu-  zione del problema agricolo ha uno degli aspetti più deli-  cati dell’intero problema politico del suo sviluppo » *  legata all’attualità politica era anche l’Introduzione alla  riforma agraria pubblicata nel 1949 da Ruggero Grieco, che  nello stesso anno, di fronte a « una palese offensiva contro  la costituzione delle Regioni » da parte della DC propo-  neva una raccolta di suoi scritti su Unità statale e decentra-  mento regionale in Italia*®, E una più stretta collabora-  zione fra la casa editrice e il partito veniva chiesta da Einau-  di a Togliatti nel 1948 per promuovere in Italia una mag-  giore conoscenza della cultura sovietica, che avrebbe dovuto  essere rappresentata non solo da I/ marxismo e la questione  nazionale e coloniale di Stalin (1948), ma anche da « un’am-  pia scelta di scritti di Zdanov » curata personalmente da  Togliatti ‘!.   È inoltre in questo periodo che si intensifica il ruolo di  Antonio Giolitti nell'esame e nella proposta di testi di eco-  nomia, con la consulenza, da Londra, di Piero Sraffa. Ebbe    48 Balbo a Sereni, 3 febbraio 1948, e Sereni a Einaudi, 12 febbraio  1948 8 (AE, Sereni).   429 Balbo a Sereni 27 dicembre 1949, e Sereni — che accettava —  a Balbo, 19 gennaio 1950; nel 1947 Sereni propose anche un'antologia  intitolata Bertoldo, i canti dell’oppressione, del lavoro, della lotta (AE,  Sereni).   4 «La nostra posizione sull’ordinamento regionale e, quindi, a  sostegno della creazione delle Regioni, parte da due considerazioni  fondamentali: dal fatto che noi siamo sinceri fautori del decentramento  amministrativo regionale (l’ordinamento regionale cosi com’è stato  sancito dalla Costituzione non è dovuto al nostro concorso, se non in  parte) e dal fatto che la Costituzione deve essere applicata: se si  comincia con il rivedere questo o quel punto della Costituzione, si finirà  col far crollare la Repubblica », scriveva Grieco a Einaudi il 30 maggio  1949 (AE, Grieco).   41 Einaudi a Togliatti, 15 ottobre 1948; il 19 ottobre Togliatti  rispondeva di essere d’accordo anche per la scelta di scritti di Zdanov:  «Quella che fa il partito non uscirà dalla cerchia del partito. L'hanno  cacciata in una collezione che si intitola: “Educazione comunista”. E chi  votrà farsi educare da noi? » (AE, Togliatti).    362    Le origini della casa editrice Einaudi    peso il suo giudizio negativo sull’opportunità di tradurre  il saggio di Sidney Hook sul marxismo — accusato di  « trotskismo » da Togliatti 4 —, cosî come la presenta-  zione di Political economy and capitalism di Maurice Dobb,  che sarà tradotto nel 1950: in un parere editoriale dell’ot-  tobre 1947, che mette in evidenza il distacco dalla prece-  dente produzione della casa editrice in campo economico,  Giolitti attribuiva a Dobb il merito di cogliere    il nesso tra Marx e l’economia classica, di cui sono dimostrati ‘il  vigore scientifico e il carattere progressivo, mentre le successive  teorie « soggettive » del valore (scuola austriaca, « utilità margi-  nale », ecc.) manifestano — a un’indagine critica che sappia situarle  storicamente — il loro significato ideologico conservatore. La teoria  marxista del valore è convalidata sul terreno sperimentale, nella sua  capacità di interpretazione e di previsione di fronte ai fenomeni più  moderni dell’economia capitalistica (crisi, monopoli, ecc.). Un bel-  lissimo capitolo sull’imperialismo analizza le origini economiche del  fascismo. L’ultimo capitolo — sulla validità delle leggi economiche  nell’economia socialista — risponde efficacemente alle obiezioni  mosse da Hayek, von Mises e C. alla pianificazione economica col-  lettivistica: e dimostra la perfetta coerenza dell’economia pianificata  con le posizioni veramente valide e feconde dell’economia classica  {la scoperta di questo nesso costituisce forse l’elemento più interes-  sante di tutto il libro, che proprio per questo segna una data nella  scienza economica) 43,    Si profila cosi un orientamento che, sia pure con ritardo,  pone fine all’ideologia liberista che aveva fin allora carat-  terizzato la casa editrice. Mentre Cesare Dami, collabora-  tore di « Società » per i problemi economici, mette a con-  fronto in due testi del 1947 e del 1950 l’economia liberale  con quella pianificata, con una chiara preferenza per que-  st’ultima *, la Relazione su l’impiego integrale del lavoro    43 Cfr. G. Manacorda, Lo storico e la politica. Delio Cantimori e  il partito comunista, cit., p. 70. Anche Giolitti, scrivendo a Einaudi il  29 agosto 1946, giudicava trotzkista l’autore: «Ora tu sai che la tua  casa è stata accusata di zoppicare un po’ da questa gamba (Reed,  Franklin, Hemingway); perciò reputerei politicamente inopportuna la  pubblicazione, da parte tua, di un libro di S. Hook » (AE, Giolitti). Si  trattava, probabilmente, di From Hegel to Marx: studies in the develop-  ment of Karl Marx (1936).   43 AE, Giolitti.   44 C. Dami, Economia collettivista ed economia individualista (1947),  ed Esperienze di economia pianificata in una società libera di William Beveridge (1948) e Gli  insegnamenti economici del decennio 1930-1940 di H. W.  Arndt (1949) suggeriscono l’intervento regolatore dello  Stato nell'economia, venendo incontro all’esigenza, espressa  da Giulio Einaudi, di « fare libri che tengano conto del-  l'economia dei paesi occidentali e ne facciano una critica.  Non trascurare certi filoni del laburismo inglese i quali ten-  gono conto dell’economia classica e la criticano continua-  mente al vaglio delle riforme richieste dalla crisi dell’impe-  rialismo » *,   La realizzazione di questo nuovo indirizzo apparve tut-  tavia insoddisfacente a chi, come Balbo, pur consigliando  testi come quello di Wetter, concepiva il lavoro editoriale  come continuo suggerimento di problemi, senza la pretesa  di orientare dall’alto, didatticamente, il lettore. Prendendo  spunto dalla pubblicazione de La teoria del diritto nel-  l'Unione sovietica di Rudolf Schlesinger (1952), Balbo si  rivolgerà a Einaudi, in uno dei suoi ultimi interventi prima  del distacco dalla casa editrice, per affermare che libri  « sulla linea di Schlesinger, Cole, Webb, Hook prima ma-  niera, Wallace ecc., insomma libri anglosassoni progressivi  e corretti verso URSS e comunismo sono libri utili, se vuoi,  ad una provvisoria propaganda ma non sono libri di vera  cultura. Paiono vicinissimi a capire; in realtà milioni di  anni luce li separano da una vera comprensione. Nel loro  fondo, che non tutti avvertono esplicitamente ma che tutti  sentono subcoscientemente, quei libri sono oppio sottile:  fanno in maniera più inavvertibile e quindi anche meno  significativa culturalmente e più pericolosa, ciò che fece  Croce in modo scoperto, chiaro e cosciente » ‘#. Nel gen-  naio 1949, intervenendo a una riunione editoriale sulla  « Biblioteca di cultura economica », egli aveva affermato  che il PCI « non deve prendere posizione, avallando la  collana; ma di volta in volta può consigliare o meno i vo-  lumi. La Casa deve svolgere la funzione di Casa editrice e    435 AE, Verbali delle riunioni editoriali 1949-1950 (riunione del 12-13  gennaio 1949).  4% Pro-memoria per il dott. Einaudi (AE, Balbo).    364    Le origini della casa editrice Einaudi    non può fare biblioteche di partito » ‘”. Era una critica im-  pietosa — nel paragone con Croce — e forse « anacroni-  stica », in quanto non teneva conto dei condizionamenti  imposti dall’imperante clima di guerra fredda: una critica  alla propaganda e al monolitismo culturale che veniva in  parte a contraddire il positivo accoglimento, da parte di  Balbo, del nuovo orientamento assunto dalla casa editrice  nel 1947. La fine dell’eclettismo e delle incertezze proprie  della produzione editoriale del 1945-46 era stata anzi auspi-  cata da Balbo, che aveva accolto la « svolta » del 1947 non  come indice di una subordinazione al PCI, ma come l’inizio  di una politica d’intervento più organica e avanzata. Già  nel dicembre 1946, informando Franco Rodano di un suo  ooqui con l’editore, affermava che Einaudi aveva deciso   i    mettersi a fare l’editore sul serio, cioè di affidare la fabbricazione  dei libri specialmente di tema politico-economico e strutturale (mi  capisci!) ecc. alle forze migliori che oggi sono inserite nel processo  democratico del paese. A farla breve si tratta di creare tutta una rosa  di libri seri, impegnativi e urgenti sui problemi che possono concre-  tare sul serio il nuovo corso: capitalismo di stato in concreto, per-  manenza amministrativa del fascismo, situazione culturale generale  da un punto di vista direi di geografia culturale, problema igienico  nazionale, problema agrario ecc. Si tratta naturalmente anche di dare  inizio finalmente a certi temi di marxismo teorico consoni alle esi-  genze attuali 48,    concludeva proprio nello stesso momento in cui — anche  col suo avallo — naufragava il progetto di una « Collana  marxista ».   Il « nuovo corso » della casa editrice suggerî a Balbo  una serie di scritti programmatici che si collocano nel pe-  riodo immediatamente successivo alla crisi del maggio  1947, e che hanno il loro principale obiettivo polemico  nell’idealismo crociano. Il 21 giugno di quell’anno egli  inviava a Einaudi una serie di proposte, accomunate dal  titolo significativo « L’Anticroce », che Giolitti farà pro-    437 AE, Verbali delle riunioni editoriali 1949-1950 (riunione del 12-13  gennaio 1949).  438 AE, Rodano.   prie, relative al rinnovamento delle varie collane — preve-  dendone una nuova di « cultura sociale-politica » —, par-  tendo dalla considerazione che la cultura idealistica, « inva-  lidando per principio le possibilità stesse degli studi socio-  logici e in genere degli studi umanistici condotti con metodi  scientifici o fenomenologici », aveva soffocato una nascita  autonoma di questi studi in Italia **. Poco dopo, in un  articolo di risposta alla recensione fatta da Croce, nel luglio  1947, alle Lettere di Gramsci, prendeva spunto da una  frase di Croce — « gli odierni intellettuali comunisti ita-  liani troppo si discostano dall’esempio del Gramsci, dalla  sua apertura verso la verità da qualsiasi parte gli giun-  gesse » — per affermare:    Riconosciamo che in ciò vi è del vero, che molti di noi si manten-  gono al di sotto di quel livello sia nelle intenzioni, sia nelle realiz-  zazioni. Ma dobbiamo anche ricordare a Croce che molti intellettuali  comunisti cercano sul serio di migliorarsi e di imparare e che co-  munque il livello degli altri intellettuali italiani è forse ancora più  basso del nostro, se non si vuole continuare a scambiare per cultura  l’arcadia, la raffinatezza fine a se stessa, l’educazione ipocrita. Soprat-  tutto dobbiamo ricordare a Croce la realtà che egli più ha dimen-  ticato nel suo pensiero e che ne è certo stata la ragione più grave  di debolezza: questa realtà è il popolo, il popolo oppresso, spesso  ignorante e violento, quel « volgo » che egli disprezza e che è pur  formato di uomini come noi e come lui [...]. Forse allora compren-  derebbe che Gramsci non può essere diviso dal suo partito, che  Gramsci appartiene a tutta la cultura italiana, ma che il partito  comunista italiano è parte integrante della cultura e del pensiero di  Gramsci, è parte integrante della cultura italiana #0,    Può quindi apparire tUn’ironia della storia che l’inter-  vento più organico del Balbo « militante », sulla Cultura  antifascista, fosse nato come promemoria per Einaudi e che,  al tempo stesso, venisse pubblicato con alcune modifiche,  nel dicembre 1947, nel numero col quale « Il Politecnico »,  dopo le critiche di parte comunista, fu costretto a termi-  nare le pubblicazioni.    E di AE, Balbo; cfr. anche Giolitti a Einaudi, 4 luglio 1947 (AE,  iolitti).   40 AE, Balbo (articolo per «l'Unità »); la recensione di Croce è ora  in Due anni di vita politica italiana (1946-1947), Bari, Laterza Oggi l’Italia è tutta piena di Benedetto Croce (e, nota, del Croce  deteriore) e ancora è tutta piena, contrariamente alle apparenze, di  Gentile — scriveva Balbo — [...]. La mentalità papiniana, giuliot-  tesca, prezzoliniana è rimasta come un substrato generalizzato e dif-  fuso nel retroterra culturale di ognuno. Le categorie di giudizio, sia  culturale, sia politico, si muovono ancora completamente su di un  terreno che va da quello di Mussolini stesso in persona a quello della  Civiltà Cattolica, a quello del più stracco spiritualismo cattolico di  importazione francese e di un esistenzialismo universitario ed estrin-  seco. Insomma in Italia si è rimasti senza Gramsci, senza Dorso e  senza Gobetti.    E, rivolgendosi in particolare a Einaudi, affermava che  la casa editrice    per la sua struttura, per il suo passato, per i suoi quadri interni ed  esterni, attuali e possibili, può svolgere un compito fondamentale nel  movimento per l’abbattimento della vecchia egemonia culturale bor-  ghese e per la creazione metodica e sensibile della nuova egemonia  culturale proletaria e finalmente moderna [...]. Strumento e base  per la ricerca qualificata e per la socializzazione è oggi non tanto  l’università o la scuola quanto l’editoria;    e, in armonia con una tradizione culturale cara all’editore  torinese, concludeva insistendo per la pubblicazione delle  opere di Gobetti, che avrebbero costituito « uno specchio  nel quale la borghesia più intelligente potrebbe scorgere  la “sua vera faccia” e, per rivalsa, la “falsa faccia” di una  borghesia che vuole a tutti i costi illudersi di saper soprav-  vivere al fascismo » ‘'. Cosî, proprio quando lo scontro nel  paese si faceva più duro, a Balbo sembrò giunto il momento  opportuno per realizzare il suo « modello » di casa editrice:  sotto la spinta dell’ottimismo maturarono nella sua fervida  mente nuovi progetti, da quello di una « rivista di ricerche  e sviluppo storico-ideologico » per la quale alla fine del  1947 aveva già impostato il lavoro assieme a Rodano,  Motta, Giolitti e Gerratana, a quello del 1948 — sostitu-  tivo della rivista — di una collana « Il nuovo politecnico »  assieme a Vittorini, fino alla proposta, realizzata nel 1950,  di trasformare la « Collana di cultura giuridica » in « Bi-    41 AE, Balbo.    blioteca di cultura politica e giuridica » *. Ma il terreno sul  quale Balbo concentrò i suoi sforzi per realizzare una cul-  tura « critica », tale tuttavia da scontrarsi duramente col  laicismo di Bobbio, fu quello filosofico.   Il primo progetto di una « Biblioteca di cultura filoso-  fica » era stato formulato nel 1941 da Bobbio, che aveva  preso contatti con Abbagnano, dal quale vennero le propo-  ste di tradurre la Metapbysik di Jaspers e, sempre sull’esi-  stenzialismo, L'illusione della filosofia della Hersch, pub-  blicato nel 1942 nei « Saggi ». Nel marzo del 1943, dopo  ulteriori contatti con Della Volpe, Banfi, Levi e Garin,  Bobbio ritenne giunto il momento di annunciare l’uscita  della collana filosofica che,    al di sopra di ogni pregiudizio d’indirizzi e al di là di una visione  tecnicamente angusta della filosofia, raccoglierà opere antiche e mo-  derne, tanto più accette quanto più trascurate dagli storici della filo-  sofia, e considererà come suo principale fine e suo rigoroso dovere  tener conto della infinita problematicità del pensiero filosofico attra-  verso le sue inesauribili incarnazioni nei diversi tempi e nei diversi  campi del sapere.    La collana, che avrebbe dovuto configurarsi come una  via mediana tra i « Classici » Laterza e la « Cultura del-  l’anima » Carabba, prevedeva opere di Butler e di Hume  per l’illuminismo, per 1’800 tedesco Avenarius e i Principi  di una filosofia dell'avvenire di Feuerbach, Kirkegaard e  Jaspers per l’esistenzialismo, Juvalta e Martinetti come  rappresentanti della filosofia italiana contemporanea **. Nel  1943 l’inizio della « Collana di cultura giuridica », con l’in-  clusione delle opere di Binder e Gierke originariamente  previste per la collana filosofica, fece fallire per il momento  l’iniziativa, senza che per questo si fermasse l’attività di  Bobbio, che in una lettera a Banfi presentava la collana  progettata come una raccolta di « libri rappresentativi di  quella filosofia costruttiva (contrapposta alla filosofia spe-    42 Cfr. in particolare, per questi e altri progetti, i documenti dell’Ar-  chivio privato Balbo.   43 Cfr. in particolare le lettere di Bobbio a Einaudi del 3 agosto  1941, 26 aprile 1942, 8 marzo e 29 aprile 1943 (AE, Bobbio).    368    Le origini della casa editrice Einaud?    culativa) che la filosofia italiana ufficiale, e la stessa storia.  della filosofia scritta dagli scrittori ufficiali ha quasi sempre:  ignorato, e che è poi l’unica filosofia veramente “peren-  ne” »; e citava, fra gli altri, scritti di Cattaneo e di Frege,.  per rafforzare la caratterizzazione neo-positivista della col-  lana da lui voluta contro la presenza, che pur non riuscirà  a evitare, di un filone esistenzialista. Erano affermazioni  coraggiose nel clima culturale dell’epoca, rese più esplicite  nel luglio 1945 quando Bobbio, nell’atto di dare finalmente:  avvio alla collana, parlò di « libri rappresentativi di tutte:  quelle correnti filosofiche che nel mondo filosofico-accade-  mico italiano — diviso tra idealisti e neo-tomisti in lotta.  fra loro — erano respinte con maggior o minor impeto come:  filosofia non ufficiale » ‘*.   La collana diretta da Bobbio e Balbo iniziò in tono:  minore, nel 1945, con I limiti del razionalismo etico di  Erminio Juvalta, di cui tuttavia Geymonat — che lo aveva  proposto — metteva in luce il rifiuto per le « soluzioni  puramente verbali », « il valore impegnativo e profondo di  tutta l’attività politica, sociale ed economica », e la nega-  zione del carattere anti-individualistico del socialismo **  Continuò con le Lezioni di filosofia di Calogero, caldeggiate  da Bobbio ‘, e La mia filosofia di Jaspers, un testo dal quale:  Bobbio prendeva le distanze, ma che, affermava, « potrà  servire ad eliminare diffidenze preconcette e altrettanto in-  consulti entusiasmi », e venire incontro « ad un’aspetta-  tiva talora eccessiva che è in molti » *”. Senza pretendere:    #4 AF, Banfi; Archivio privato Bobbio (Bobbio alla sede romana,  13 luglio °’45). Il 20 ottobre ’45 Bobbio si dichiarava d’accordo con  Balbo per presentare « le opere rappresentative dei principali indirizzi di  pensiero moderno, da Hegel in poi, senza correr dietro alla moda»  (Archivio privato Balbo).   45 E. Juvalta, I limziti del razionalismo etico, a cura di L. Geymonat,  Torino, Einaudi, 1945, pp. VIII, X-XII. Cfr. anche le lettere dell’editore  alla figlia di Juvalta, 1 agosto 1942 (AE, Juvalta), e di Geymonat a  Pavese, 19 febbraio 1943 (AE, Geymonat).   #6 Cfr. « Pro-memoria per la Direzione Generale » della redazione  romana, in AE, Corrispondenza editoriale Milano-Roma 1945. Sul  « moralismo » dell’opera di Calogero cfr. le osservazioni di Nicola Ba-  daloni in « Società », III (1947), pp. 140-141.   47 K. Jaspers, La mia filosofia, traduzione di R. De Rosa, Torino,.  Einaudi, 1946, pp. VII-XI (avvertenza di N. B.).   di dare un giudizio complessivo sulla collana, ci sembra  sufficiente accennare al suo carattere articolato, non uni-  tario, che riflette le diverse « preferenze » dei suoi ispira-  tori. Sono ad esempio significativi i giudizi espressi da  Bobbio e da Balbo sui Principi della filosofia dell’avvenire  di Feuerbach: presentando la prima edizione dell’opera,  nel 1946, Bobbio osservava che la filosofia di Feuerbach si  collocava « tra la crisi del romanticismo e la nascita del posi-  tivismo », e che dal secondo accoglieva « una netta aspira-  zione antispeculativa, un’accettazione supina ed ingenua  della realtà dei sensi; ma accoglie pure, dal primo, un’invin-  cibile ripugnanza a toccare veramente il fondo del problema  concreto, la tendenza ad un sentimentalismo un po’ faci-  le » #*. In occasione della ristampa del 1948, invece, Balbo  notava l’affinità    tra il nostro mondo attuale in particolare italiano, e quello in cui si  formò il pensiero di Feuerbach e in cui ebbe origine il grande movi-  mento marxista. La crisi culturale apertasi con la dissoluzione della  filosofia di Hegel è tutt’altro che chiusa, Ancora permangono sia  pure in una diversa fase di sviluppo i motivi sociali ed economici  che l'hanno determinata. E, in Italia, specialmente per via della  filosofia di Croce e di Gentile e del fascismo, c’è stato un ritardo  ideologico nel prendere piena coscienza della crisi. Croce e Gentile  in questo senso sono stati veramente epigoni hegeliani perché hanno  mantenuto vivo di Hegel proprio ciò che di pit «teologico » in  senso feuerbacchiano c’era nella filosofia di Hegel;    e osservava che    la passione, il violento bisogno di aria e di luce reale, « sensibile »,  con cui Feuerbach rompe il sistema della « Teologia razionale » di  Hegel, l’entusiasmo di Marx e di Engels nel leggerlo, sono ancora  cose nostre, sono esperienze di molti e molti giovani studiosi e  uomini di cultura, in Italia che ancora oggi cercano di rompere l’idea-  lismo e ritrovare il mondo, la realtà ‘9.    Un giudizio, questo, da cui è ricavabile non solo la di-  vergenza con Bobbio — che sarà esplicita nel 1950 nel    #8 L. Feuerbach, Principi della filosofia dell'avvenire, a cura di N.  Bobbio, Torino, Einaudi, 1946, p. IX.  «9 Significato di una ristampa, in Archivio privato Balbo.    370    Le origini della casa editrice Einaudî    dibattito fra i due sulla « Rivista di filosofia » ‘*, e indica  una spaccatura all’interno della casa editrice —, ma anche,  nello stesso Balbo, la tensione fra la necessità di proposte  positive — in questo caso, Feuerbach in funzione antiidea-  lista — e l’asserita problematicità del lavoro editoriale.  Mentre dimostrava con questo giudizio il suo « settari-  smo » — per usare in senso non dispregiativo un termine  che egli respingeva —, in alcuni « Appunti per l’imposta-  zione delle pubblicazioni filosofiche Einaudi » Balbo lamen-  tava il rinchiudersi del mondo accademico italiano in scuole  e sette, osservava che    il giudizio sulle collane filosofiche dipende in primo luogo dal deci-  dere se si tratta di accettare, « riflettere » e conservare la situazione  storico-sociale presente, o se si tratta di « conoscerla », criticarla e  mutarla [...] — e, al tempo stesso, che — una casa editrice di « op-  posizione culturale » come la Einaudi manca al suo carattere se in un  momento storico in cui messuno ha la soluzione dei gravissimi pro-  blemi dell’ora si schiera da una parte o partito o setta sia pure la pit  « intelligente » 0 « colta » o « ben educata » o « progressiva ». Una  casa editrice di opposizione culturale è una casa editrice che chiede,  in tutti i modi che le sono propri, la soluzione ai problemi dell'ora  attraverso alle manifestazioni di bisogni, problemi aperti, prospettive  nuove, fornitura di servizi per la ricerca teoretica, sensibilità alle  voci degli oppressi, degli esclusi, dei dimenticati ecc.    E aggiungeva, lasciando aperta la possibilità di un recu-  pero di forme differenziate di speculazione filosofica: « Se  la situazione culturale è di crisi radicale significa che nulla  più della passata filosofia ci serve per lo meno cosi come    storicamente si è data. Ma quando w%/la più serve o c’è la    fine assoluta o tutto serve » *!.    40 Ora in F. Balbo, Opere 1945-1964, con introduzione di M. Ran-  chetti, Torino, Boringhieri, 1966.   4531 Archivio privato Balbo. Riflettendo ancora su «Senso e funzione  delle pubblicazioni filosofiche Einaudi », Balbo affermava che una collana  filosofica andava concepita «come un servizio da rendersi alla società  italiana », alle « minoranze rivoluzionarie (che innanzi tutto si formano  con la filosofia)», ma che «l’idea di servizio implica la concezione dei  fruitori come totalità, ed esclude quindi a priori una qualsivoglia ten-  denza a identificarsi con i blocchi dominanti »: «la collana deve mirare  a completare, ad allargare e a tenere aperto, cioè a far progredire  7 va l’orizzonte problematico della situazione filosofica italiana »  ibidem).    371        Quando si passò alle scelte concrete, il dissidio tra  Bobbio e Balbo — che intendeva riservare un settore della  collana al tomismo — non poté essere che profondo.    Il punto su cui siamo d'accordo è questo: massima apertura —  gli scriveva Bobbio il 6 aprile 1952 — [...]. Il guaio è che la tua  parte di chiusura (le correnti empiristiche) coincide perfettamente  con la mia apertura, e la mia parte di chiusura (il misticismo medio-  evale e medioevalizzante) coincide altrettanto decisamente con la tua  apertura. Ti dico francamente che la presenza di testi come lo  Pseudo-Dionigi e Bòhme, in una collana filosofica di una casa editrice  che si presenta come una casa di avanguardia culturale, mi ha fatto  rabbrividire [....]. Doveva essere ben decaduta la filosofia nel medio-  evo se lo Pseudo-Dionigi era destinato a diventare, come tu giusta-  mente riconosci, un fatto decisivo per il pensiero medioevale [....].  La verità è che tutta la tua impostazione, nonostante la pretesa di  essere della massima apertura, è guidata da una polemica molto  chiara: la polemica contro il pensiero moderno.    La cultura universitaria, aggiungeva Bobbio,    soffre di grande nostalgia per il pensiero teologico, perché sembra  che le idee (e anche le cattedre) siano meglio garantite dalla credenza  nei cori angelici di Pseudo-Dionigi che dal dubbio cartesiano [...].  Credi, se oggi in Italia c’è un lavoro culturale da fare, è per fermare  lo zelo antilluministico, non già per aiutare i zelatori della Contro-  riforma a chiuderci la bocca. Bada che a giudicare come vorresti tu  « massimamente insufficienti » le « posizioni più avanzate », si rischia  di fare cosa non tanto nuova né tanto peregrina in Italia, dove se  c'è una vecchia e persistente e sempre contagiosa passione è la pas-  sione per le posizioni più reazionarie non per quelle più avanzate,  e dove le posizioni più avanzate hanno fatto di solito la nota e tragica  fine che sappiamo #2.    Le parole di Bobbio erano indice della difficoltà estrema  in cui veniva a trovarsi la cultura progressista ancora nel  1952, l’anno della morte di Croce, quando anche Togliatti    452 Archivio privato Balbo. Il 15 febbraio 1952 Bobbio gli aveva  scritto che «in un ambiente filosofico come il nostro saturo di spiri-  tualismo sedicente cristiano (che è la filosofia della pigrizia mentale) un  po’ di cultura empiristica che abitui alla analisi rigorosa e paziente fa-  rebbe molto bene [...] Ma già tu hai scritto contro l’empirismo e hai  portato tanta acqua al mulino di tutti i reazionari della filosofia, di  tutti gli spiritualisti... » (ibidem). Sul tomismo di Balbo cfr. G. Invitto,  Le idee di Felice Balbo, cit., pp. 104 ss.    372    Le origini della casa editrice Einaudi    — come abbiamo visto — riconosceva nella politica cultu-  rale del PCI « discontinuità, asprezze, capitolazioni non  necessarie, oscillazioni tra la pura propaganda e l’azione  culturale di più ampia portata, e anche contraddizioni » ‘*.    La Casa sta attraversando una crisi grossa, la più grossa dopo  quella del 1935 quando restai letteralmente solo — scriveva Einaudi  a Balbo il 10 dicembre 1951 — [...] al fronte antifascista chiaro e  compatto del periodo fascista, che era tenuto da tutti gli strati sani  della nazione, si è sostituito un fronte anticomunista che è tenuto da  strati sani ed insani della borghesia, e da irrequiete e intelligenti  forze intellettuali.    Ma il suo appello all’unità contro il fronte anticomu-  nista non poteva essere più raccolto da Balbo, divenuto  critico implacabile del « settarismo » del PCI.    Se tu davvero presentassi la linea della Casa come lotta contro  la cultura ufficiale insipida e decadente avresti presto o tardi attorno  a te le forze sane della cultura — rispondeva Balbo all'editore il  12 dicembre 1951 —. Ma come fai a presentarti così se accetti di  fatto direttamente o meno, la direzione culturale comunista? Oggi  non esiste cultura più ufficiale e insipida di quella comunista: questo  è un fatto ‘%.    E le riflessioni amare stese da Balbo sulla casa edi-  trice — una specie di sua « storia » —, che gli servirono  per chiarire a se stesso il proprio distacco da Einaudi, cer-  cavano di spiegarne la crisi alla luce di quelle che gli sem-  bravano le sue caratteristiche originarie:    La casa editrice Einaudi è nata da profonde esigenze di rinnova-  mento che si manifestarono in Italia dopo l'affermarsi stabile del  fascismo che rivelava il problema del male della civiltà moderna.  Non è stata perciò mai definita unicamente dall’antifascismo {...] ha  sempre teso al postfascismo, alla vittoria costruttiva sul fascismo. A  questo si lega anche la sua adesione al comunismo: in quanto il  comunismo in Italia per opera di Gramsci-Togliatti si presentò come  la più forte garanzia e promessa di un effettivo rinnovamento, di  una costruttiva vittoria sul fascismo. In tal senso era più forte del-  l’arbitrio dei singoli il suo tendere a congiungersi al comunismo. E    43 Togliatti, La politica culturale, cit., p. 196.  44 Archivio privato Balbo.  va anche da sé che cosi si spiega come tale adesione non sia mai  stata di « soggezione » né di « mitigazione » del comunismo ma da  potenza a potenza ossia da realtà a realtà. Veramente era falso dire  che la casa editrice Einaudi fosse una casa editrice comunista ed  era pure falso dire che fosse paracomunista.    Anzi, aggiungeva, l’elemento che aveva accomunato  Ginzburg, Pavese, Venturi, Muscetta, Pintor, Balbo, Gio-  litti, Bobbio, Alicata e Vittorini, « non era il laicismo, non  era il razionalismo, non era il comunismo core tale nean-  che per i comunisti. Era la causa del rinnovamento, la  causa rivoluzionaria »; ma l’incontro di questi intellettuali  era soggetto « a fatale decomposizione su due fondamentali  sollecitazioni: quella interna della crescita organizzativa e  quella esterna della situazione storica generale [...]. Con la  morte di Pavese venne a mancare l’ultimo residuo puntello  dell’autonomia della casa editrice », la quale si era quindi  trasformata in « terza forza paracomunista » incapace di  costituire un « servizio » per la cultura italiana nel suo  complesso ‘°.   Il giudizio di Balbo — sulla cui posizione ci siamo sof-  fermati perché emblematica dei problemi e dei difficili equi-  libri nei quali doveva muoversi la casa editrice — conte-  neva alcuni elementi di verità, ma anche profonde contrad-  dizioni, nell’individuare in un primo tempo, ad esempio, il  « rinnovamento » col comunismo, per poi mettere in netta  contrapposizione i due termini. Esso peccava inoltre, come  quello di Giulio Einaudi, di una visione idillica delle ten-  denze originarie della casa editrice, fosse il « fronte antifa-  scista chiaro e compatto » o la « vittoria costruttiva sul  fascismo ». Senza voler nulla togliere al peso delle « inten-  zioni », le concrete vicende della casa editrice non indicano  infatti una univoca e lineare direttiva culturale e politica.  Alla cultura del regime essa non rispose soltanto col silenzio  nei riguardi del fascismo, ma in modi differenziati, che ac-  canto a coraggiose prese di posizione de « La Cultura »    455 Dattiloscritto s.d.; ma nella lettera del 12 dicembre 1951 a  Finaudi Balbo diceva di aver «preparato una specie di storia della  casa editrice » (Archivio privato Balbo).    374    Le origini della casa editrice Einaudi    vide a lungo la battaglia liberista di Luigi Einaudi, assai  più conservatrice di quella crociana, tanto da trovare punti  di convergenza con le scelte culturali e politiche dominanti,  anche al di là del comune antisocialismo; una forte presenza  di intellettuali aderenti a Giustizia e Libertà, al liberalsocia-  lismo e quindi al Partito d’Azione, il cui scontro con i  comunisti — non uniti al loro interno — sarà assai duro  nell'immediato dopoguerra, proprio attorno al modo con-  creto di intendere il « rinnovamento »; e infine — ma è un  dato rilevante fino alla decisa riaffermazione del laicismo da  parte di Bobbio — un filone spiritualista o religioso e catto-  lico che, se poté avere una funzione di stimolo alla rifles-  sione e al dubbio di fronte alle certezze del regime, conte-  neva in nuce notevoli elementi di ambiguità in quanto con-  notato, in molti casi, da un potenziale ideologico reazio-  nario, o, nelle voci più aperte, da una tendenziale fuga dalla  realtà: una tematica religiosa che confluirà nel 1948, con  ben altro respiro, nella « Collezione di studi religiosi, etno-  logici e psicologici » voluta da Pavese e da Ernesto De Mar-  tino. Può forse sorprendere che questi motivi perman-  gano a caratterizzare la casa editrice fino, almeno, al 1947,  che costituisce la vera data periodizzante della sua storia,  tale da concluderne, a nostro avviso, il capitolo delle origini.  La « battuta » di Balbo, secondo la quale l’Einaudi del  1945 era « più fascista di Einaudi 1940 », indicava infatti  la persistenza di un passato dal quale era difficile sbaraz-  zarsi rapidamente: una « tradizione » di cui abbiamo cer-  cato di mettere in luce la complessità, e che la semplice  categoria di « antifascismo » è insufficiente a « contenere »  e a spiegare in tutte le sue articolazioni. Abba Abbagnano Abramo Abrate Agnoletto Agosti Agostino Ajello Alatri Alberti Aldrovandi Alessandro Alessandro Alfassio Alfieri Alicata Alighieri Alimenti Aliotta Almagia Aloisi Althusius Alvaro Amendola Amendola Amendola, Giovanni Amendola Amiel Anderson, S., 202, 247.    Andreucci, F., 104, 165, 191, 240.    Andriulli Angiolini Anile Antoni Antonicelli Aquatrone Arangio Ruiz ARGS Armndt Argenson, R-L. W. d’, Arpinati, L., 60.   Arrivabene, G. G., 33.   Ascoli, G. I., 159.   Asor Rosa, A., Avenarius, R., 368.   Azimonti, C. F., 221.    Babel, I. E., 202.   Babeuf, F. N., 308, 346.   Badaloni, N., 74, 100, 369.   Balbo, C., 252, 255, 256.   Balbo, F., 12, 285, 289, 290, 319,    Baldini, N., 307.   Ballarini Bandini, B. V., 357.   Bandini, L., 291, 292.   Banfi Baratono, A., 59.   Barbagallo, C., 107, 174, 181.   Barbera, G., 153.   Barbera, M., 149.   Barbera Baretti, G., 174.   Bargellini, P., 200.   Barié, G. E., 240.   Barker, E., 213.   Barone, G., Barth, K., 349.  Bassan, E., 351.  Bassani Bassi Basso Battaglia Baur Bavink Beccaria Bedarida, H., 243.  Bellezza Belloc Bellonci, G., 324.  Belluzzo Bemporad, E., 26, 30.  Benda, J., 349, 350.  Benedetti Benedetti Aloisi Benedetto, L. F., 134.  Berdjaev, N. A., 320, 321.    , 241, 266.  Ber Jey, G.F. 'H, 243.  Bernari Bernstein, $, 346.  Berti, G., 346, 360.  Berti, L., 280.  Bertin, G. M., 266.  Bertoni, G., 153.   i Jovine Bettini Bettinotti Bevione Beveridge, W., 364.  Bianchi Bandinelli Biasutti Bienstock, G., 352.  Bilenchi, R., 333.  Binder, bi. vi 368.  Bini, C.,  Ra a di, 86  Bissolati, L, 104, 189, 258, 259.  Bloch, M, 343.  Blondel, M, 241, 349.  Blum, L., 215.  Bobbio, Bobbio Bohr Bollati Bompiani, Vv, 198, 200, 245.   Bonald Bonaparte, N., 289.   Bonetti Bonfante, P., 25, 55.   Bonghi, R Bongiovanni, B., 9.   Bonifacio VIII, 256.   Bonomi, I., 28, 104, 189, 250,  257, 258, 259, 298, 319, 320,  323.   Bontempelli, M., 163.   Borsa, G., 230Borso Bortone Bosco Boselli Bossi Bottacchiari, Bottai Bottasso, E., 40.   Bourgin Botti Braudel Bravo, G M, 281.   Bresciani Briamonte Bricarelli Brissot, J. P., 117.   Brofferio, A., 208.   Broglie C.-J-V. A. de, 281.   Brown, D. V., 227.   Brucculeri, A., 225, 264, 265, 267,  268, Bruers, A., 188.   Bruguier Brunello Bruno Bryce Bulferetti Buonaiuti, Buonarroti Burckhardt Burdach Busnelli Butler Cabella Cabiati Cabrini, A., 104.  Cadorna, L., 26, 55.  Caffè, F., 209.  Caggese, R., Cagnetta, M., 275.    Cajumi Calabi, G., 29.  Calamandrei Calderoni, M., Caldwell, E. P., 200.  Calò Calogero Calosso Campanella Camurani Canella Cannistraro Cantimori Cantimori Cantoni Cantoni Caparelli Capasso Capitini, A., 196, 197, 272, 273,    348, 359    , S., 59, Carducci, G., 23, 24, 163, 276.    222, 225, 235,    D., 6, 15, 98, ill, 124,   160, 193, 194,  290, 294, 303,  318, 328, 333,  345, 347,  357, 358,    Indice dei nomi    Carducci, N., 246.   Carli, G., 237.   Carlini Carlo Alberto Carlo Emanuele I, 128.   Carlo Magno, 120.   Carocci, A., 203, 204, 246.   Carrara, E., 63, 240.   Casamassa, A., 142.   Casali, A., 196.   Casati Casini Cassirer Castelli, D., 159.   Castris, A. Castronovo, V., 5, 26, 33, 34, 208..   Casula, C. F., 336.   Catalano, E., 247, 327.   Cattaneo Caviglione, C., 138.   Cavuor, C. Benso, conte di, 176,  212, 250, 252, 253, 276, 298,  299, 302, 313, Cechov, A., 202.    er I; "38, ‘112   Cesarini, M, 266.   Ceva Ceva, M., 316.   Chabod Chamberlin, E, 3a   Chamberlin, w H., 231, 232, Chiappelli, A., 42, 159.   Chiavolini, A, 62.   Chichiarelli, E., 253, 300, 301.   Chiesa, F., 163.   Chiovenda, G., 26, 28.   Chiuminatto, A., 247.   Ciacchi, E., 173.   Ciamician, G., 26.   Ciampini, R., 275, 276.   Ciarlantini, F., 197.   Ciasca, R., 58.   Ciccotti Ciliberto, M., 6, 113, 122.    381    Indice dei nomi    Cilibrizzi, S., 24.   Cione, E., 242, 258, 298, 305.   Ciuffoletti, Z., Codignola, E., 29, 36, 58, 62, 143,  149, 198, 199, 200, 232, 249,  253, 298.   Codignola, T., 200, 210.   Cognasso, F., 134.   Cola di Rienzo, 120, 124.   Colapietra, R., 14, 46, 49.   Cole, G. D. H., 364.   Colombo, C., 328.   Colorni, E., 240.   Colozza, G. A., 166.   Comandini, Comisso, G., 287.    Conrad, J., 279.   Constant, B., 324, 325, 349.   Contini, G., 278.   Cooper, A. D., 261.   Corbino, E., 229.   Corbino, O. M., 28,   Cordié, C., 315.   Corradini, E., 33, 86.   Corsano, A., 291.   Cortese, N., 58, 128.   Corticelli, A., 198.   Cosmelli, G., Cosmo, U., 238, 241.   Costa Costamagna, C., 84.   Costantino, D., 153.   Craveri, R., 274.   Credaro, L., 165, 184.   Crescenzi, G., 350.   Cripps, S., 215.   Crisafulli, V., 349.   Crispolti, F., 24.   Croce Crocioni, G., 173.   Cronin, A. J., 200.   Crosa, E., 117.   Cuoco, V., 127, 253, 318.  Curiel, E, 264, 302, 313, 329.  Cusin, F., 344.    Dal Fabbro, B., 271, 286.   Dal Pane, L., 105, 210, 212, 220,  221, 230, 257, 355.   Dal Pra, M., 292.   D'Amelio, M., 147.   Dami, C., 363.   D'Andrea, A., 86, 305.   D'Antonio, F., 220.   Darwin, C., 174, 175, 272.   D'Azeglio, M., 260, 324.   Dawson, C., 266, 268, 269, 270,    300.   Debenedetti, $S., 277, 341.   De Bernardi, M., 227, 229, 238.   De Cecco, M., 208.   De Cristofaro, M., 130.   De Felice, R., 6, 25, 65, 78, 152,  186, 197, 204, 263.   De Gasperi, A., 8.   Degli Occhi, L., 88.   De Grand, A. J., 46.   De Karolis, A., 179.   Del Bono, G., 259, 302.   Delitzsch, F., 159.   Della Torre, L., 26, 204.   Della Volpe, G., 368.   Delle Piane, M., 270.   De Lollis, C., 238, 239, 241, 277.   De Luca, G., 72, 132, 137, 200.   De Man, H., 106, 191, 199.   Demarco, D., 307.   Demarsico, D., 19.   De Martino, E., 294, 375.   De Mattei, R., 73.   De Michelis, E., 245,   Demostene, 305.   De Rosa, G., 20.   De Rosa, R., 369.   De Ruggiero, G., 94, 167, 199,  276, 331, 332, 333, 345.   De Sanctis, F., 49, 171, 285, 321.   De Sanctis, G., 55, 63, 75, 78, 133.   De Stefani, A., 55, 209, 234.   Detti, T., 104, 165, 191, 240.    De Vecchi, C. M., 251, 253, 297.  De Vendittis, L., 278.   De Viti De Marco, A., 217, 234.  Devoto, G., 72.   Dickens, C., 271.   Diderot, D., 243, 280, 281.   Di Domenico, G., 334.   Dilthey, W., 274.   Dobb, M., 222, 363.    Dos Passos, J. R., 247.  Dostojevskij, F., 202, 279.  Droysen, J. G., 305.  Dvotak, M., 147.    EFerembeemt, L. van den, 136.  Efirov, S. A., 13.  Egidi, P., 33.  Einaudi Einaudi, M., 214, 227, 238.  Emanuele Filiberto, 39, 128, 178.  Emery, L., Engels Enriques Erasmo Ercole Evola Faggi Falco Falqui Fanelli Fanfani Fanno Farinacci Farinata degli Uberti, 312.   Farinelli, A., 28, 42.   Farneti, E., 300.   Faucci, R., 175.   Fausti, R., 139.   Favaro, G., 148.   Fazio-Allmayer, V., 58, 82, 106.   Febvre, L., 210, 343.   Fedele, P., 37, 64.   Federici, L., 235.   Federico II d’Hohenstaufen, 120.   Federico II di Prussia, 118, 245.   Federzoni, L., 46, 86.   Fenoaltea, S., 226, 232.   Fenoglio, P., 26.   Ferrante, Don, (cfr. Alicata M.)   Ferrara, F., 212.   Ferrara, M., 182, 188.   Ferrari Ferrari Ferrari Ferrata Ferrero, E., 289.   Ferrero, G., 181.   Ferretti, G., 297.   Feuerbach, L., 104, 348, 368, 370,  371.   Fichte, J. G., 91.   Filangieri, G., 252.   Filippo il Macedone, 305.   Filograssi, G., 142.   Fiore, G. da, 139.   Fiore, T., 267, 294.   Firenzi, G., 143.   Firpo, L., 101, 102, 125.   Fisher, H. A.L., 214.   Fitzpatrick, S., 22.   Flora, F., 205.    383    Indice dei nomi    Floridi, U. A., 360.   Foot Moore, G., 67.   Forges Davanzati, R., 60.   ‘Formiggini, A. È, 8, 12, 19, 20,  22, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 38,  41° 4T, SÌ, 55, 151, 152, 153   157, 158, 159, 160,   , 163, 164, 165, 166,   171, 172, 173, 174,   179, 180, 181, 182,   185, 186, 187, 188,   192, 196, 257, 325.   Fortini, F., 10, 285.   Fortunato, G., 213, 285.   Foscolo, U., 127, 318.   Fracastoro, M. G., 281.   Fracchia, U., 34.   Franceschini, E., 192.   Franchetti, L., 213.   Franco, F., 257.   Franklin, F., 363.   Frassati, F., 302.   Frassinelli, C., 198, 202, 246.   Frateili, A., 71.   Frege, G., 281, 369.   Freud, S., 265.   Freund, R., 267.   Frezza Bicocchi, D., 38.   Frébel, F. W. A., 165.   Frugoni, C., 281.   Fubini, M., 198.    Gabrieli, F., 343.   Gabrieli, V., 272.   “Galante Garrone, A., 252, 253,  255, 308.   Galassi Paluzzi, C., 38.   ‘Galiani, F., 93.   Galilei, G., 169, 174, 281, 293.   Gallenga Stuart, R. À, 27, 183.   *Galletti, A., 176.   Galli della Loggia, E., 5.   ‘Galvano, E., 288.   Gambino, A., 237.   Garibaldi, G., 86.   Garin Garosci, A., 98, 216, 295, 297.   Garufi, B., 335.   Gaslini, P., 323.    384    Gatto, A., 288.  Gava, G., 12.  Gazzetti, F., 229.  Gemelli, A., 58, 65, 68, 69, 71,  131, 132, 138, 143, 145, 147,  149, 169, 177.  Gencarelli, E., 240.  Gennaro, 136.  Gentile, E., 6.  Gentile Gerbi Gerratana, V., 22, 160, 180, 285,  309, 367.   Geymonat, L., 281, 347, 369.   Ghisalberti, A. M., 89, 117, 119,  121.   Giachino, É., 272.   Gianfranchi, (pseudonimo di Ven-  turi F.) 308.   Giannantoni, S., 16, 171.   Giannini, A., 28, 29.   Giannone, P., 146.   Gide, A., 339.   Gierke, O., von, 325, 326, 368.   Gifuni Gigante, M., 296.   Gigli, L., 315.   Giglioli, G.Q., 29, 64.   Ginzburg Ginzburg, N., 279, 288, 290, 323,  324, 341.    203,  278,    Gioberti, V., 66,  253, 298, 299.   Gioia, M., 252.   Giolitti, A., 292,  322, 323, 325,  341, 344, 345, 348, 351,  357, 358, 359, 362, 363,  366, 367, 374.   Giolitti, G., 20, 23, 25, 355.   Giretti, E., 217, 233, 234, 238.   Giretti, L., 233, 234.   Giuliano, B., 59.   Giuriati, G., 59.   Giuseppe II, 118.   Giusti, S., 200.   Gobetti, P., 17, 18, 24, 27, 127,  156, 188, 202, 218, 242) 255,  321, 338, 367.   Goethe, J. W., 280.   Gogol, N. V., 202.   Gonciarov, I., 279.   Gorresio ,V., 306, 324, 351.   Grabmann, M., 138.   Gramatica, L., 64, 67, 132, 133.   Gramsci, A., 5, 16, 17, 22, 26,  33, 86, 131, 150, 175, 180, 189,  191, 211, 239, 355, 356, 357,  366, 367, 373.   Grassi, V., 55.   Gravina, M., 105.   Graziani, A., 97, 105.   Gregorio, 269.   Grieco, R., 237, 362.   Grifone, P., 237, 333, 355.   Grimm, H., 311.   Grozio, U., 265.   Gruppi, L., 194.   Gualino, R., 33.   Guanda, U., 263.   Guénon, R., 263, 264.   Guerri, G. B., 6, 46.   Guglielmino, E., 253, 291.   Guglielmo I, 305.   Guiducci, A., 246.   Guzzo, A., 58, 103, 142, 143.    128, 129, 252,    295,  326,    320,  328,    321,  333,  355,  365,    Hall, R. L., 222.   Halm, G., 352.   Harris, H. S., 14, 47.   Harris, S. E., 227.   Hayek, F. von, 352, 353, 363.  Hazard, P., 242, 243, 346.    Hegel, G.W.F, 91, 101, 103, 104,    Indice deî nomi    142, 170, 171, 174, 241, 326,  349, 369, 370.   Helvétius, G A., 108.   E, 278, 342, 343,    Hersch, J., 368.   Hitler, A., 245, 351.   Hobbes, T., 104.   Hobsbawm, E. J., 13.   Hook, S., 363, 364.   Hiigel, F. von, 290.   Huizinga, J., 264, 265, 266, 267,  270, 290, 291, 347, 348, 349.   Hull, C., 227.   Hume, D., 368.   Huxley, A., 266, 273.    Interlandi, T., 59, 60, 61, 62.  Invitto, G., 336, 339, 372.  Iraci, A., 83.   Isnenghi, M,, 6, 23, 163, 195.    Jacini, S., 213.   Jaeger, W., 305, 349.  Jahier, P., 278, 289.  James, H., 278, 279.  Jaspers, K., 368, 369.  Jaurés, J., 324.  Jemolo, A. C., 58, 140.  Johnson, H., 361.  Joyce, J., 202.   Jung, C. G., 293.  Juvalta, E., "169, 368, 369.    Kafka, F., 342.   Kahn, A. E., 361.  Kamenetzki, M., 357.   Kant, I., 103, 171, 349.  Kelsen, H., 325.   Keplero, J., 293.   Keynes Keyserling, H., 266.  Kirkegaard, S., 347, 348, 368.  Korngold, R., 344.  Kuliscioff Labanca Labriola Lajolo, D., 246.   Lalla, M. di, 14, 35.    385    Indice dei nomi    Lanaro, S., 7, 32, 96.  Landolfi, T., 272.   Langer, W., 245.   La Penna, A., 180.  Lapiccirella, E., 357.  Laski, H. J., 214, 215, 361.  Lassalle Laterza Lattes, D., 187.  Lavoisier, A. L., 174.  Lazzari, G., 12.  Lee Masters, E., 317.  Lefebvre, G., 343.  Leibniz, G. W., 240.  Lemmi, F., 118.  Le Monnier, F., 153.  Lenin, V.I., 303, 357, 358, 359.  Leonardo da Vinci, 148, 175.  Leontieff, W., 227.  Leopardi, M, 254.  Le cha ( P.G.F., 213.    Levi Levi Levi, F., 9.   Levi della Vida Lewis, S., 200.    Lilienthal, D. E., 353.   Limentani Lippmann Locke, J., 103.   Lo Gatto, E., 278, 279, 331.   Loisy, À., 134, 290.   Lombardo Radice Lombardo Radice Lombroso Longhi Longo Loria Losacco, M., 170.  Lo Schiavo, A., 14, 67.  Losini, F., 177.  Lukécs, G., 13.  Luperini, R., 9.  Luporini, B. M., 357.    Luporini, C., 17, 104, 334, Lussu Lutero Luti Luzi Luzio Luzzatti Luzzatto Lyttelton Macchioro, Machiavelli Magini Magrini, Li 216 (pseudonimo di  ; A)    124,    Garosci  Maini, R., 285.  Maiocchi, R., 38.  Maistre, } de 128, 297, 349.  Malagodi, O  Malagola prc V., 226.  Malthus, T. R., 174, 175.  Manacorda, G. 204, 308, 331,  341, Manacorda Mancini, P, S., "129.  Mangoni Mann, T,, 339.  Manzini, E., 163.  Matanini, G., 198.    Marchesi, C., 134, 174, 176, 191,  192, 194, 195, 315, 316, 317.   Marchesini, 6. 168, 169.   Marchi, G., 287.   Marchiafava, E., 55.   Marco Marcolongo, R., 82.   Marconi Marescalchi Margherita, S. della, 254,   Margiotta, U., 16.   Margiotta Broglio, F., 65.   Mariano Marinetti, F. T., 338.   Martoi, F., 96.   Marramao, G., 109.   Marshall, A., 225, 230.   Martinelli, R., 17, Martinelli, S., 262.   Martinetti, P., 197, 240, 290, 348,    368.  Martini Marx Mason, E. S., 227.   Massolo, Mathiez Matisse, H., 278.   Matteotti, So 188.   Mattioli, R, 6, 88.   Maturi Maupassant, G. de, 317.   Maurras, C., 128.   Mautino, A., 220, 221.   Mazza, F. P., 281.   Mazzini, Mazziotti, M., 305, 318, 325.   Meinecke, F., 125.   Melograni, P., 74.   Melville, H., 202, 279, 280.   Menghini, M., 20, 25, 26, 30, 55,  104, 113, 250, 308.   Menichella, D., 319.   Meredith, G., 279.   Meschini, M. A., 284.   Metternich, C. von, 283, 324.   Miccoli, G., Michaelstadter Michel, E., 181.   Michels Mieli, A., 181,   Migliorini, B., 238.   Migone, G. G., 223.   Mila, M., 278, 341.   Milano, E., 11, 163.   Milano Mill, J.$., 188.   Minocchi Minoia Minoletti Mira, G., 290, 301.   Mises Momigliano Momigliano Mondo, L., 203, 246.   Mondolfo Mondolfo Montagnana, M., 361.   Montale, E., 289.   Montanelli, G., 251, 307.    Montenegro, A., 6, 82.   Montesquieu, C. de, 108, 323,  324.   Monti Morandi Morandi, R, Morazé, C., 343.   Morelly Morgagni, G., 174.   Morghen, R., 145.   Mori, G., 11, 34.   Mornet, D., 241.   Moro Morra Mosca, G., 59, 82, 114.   Mosé, 137.   Motta, M., 329, 336, 347, 360,  367.   Mounier, Muratori Murri Muscetta Mussolini Nallino, C., 56.  Napoleone III, 86.  Napoleoni, C., 226.  Natoli, G., 280.  Needham, J., 360.  Negri, A., 114.  Negri Negri, L., 245.  Nenni, P., 355.  Neri Nevins, A., 343.  Newman Newton Niccoli, Nicolini, F., 114, 145, 146.  Nietzsche, F., 349.   Nitti, F. S., 20, 23.   Nobili Massuero, F., 29.  Novalis, 317.   Nulli, S. A., 347.    Odoacre, 119.  Ojetti, U., 24, 34, 42, 48, 55, 56,  136    Olivetti, G., 353.   Olivo, A. M., 281.   Omodeo Onofri, F., 308, 332, 334.   Operti, P., 201.   Orano, P., 167.   Osimo Ovidio Owen, R., 108.   Paci, E., 265.    Pagliaro Pajetta, E., 248.  Pajetta, G., 301.  Palacio, J. M., 221.  Palazzi, F., 163.  Palazzolo, V., 326.  Palla, Palmarocchi, R., 140.  Pannunzio Papa, È. R., 49.  Papa, F., 344,  Papini, G., 167, 174.  Parente, A., 267.  Pareto, V., 82, 218, 225, 226.  Paribeni, R., 25, 26.  Parodi, T., 276.  Parri, F., 309.  Pasquali Passamonti, E., 259.  Pastonchi, F., 163.  Pastore, Pater, W., 271.   Pavese Pavlov, I. P., 281.   Pavolini, A., 316.   Peano, G., 281.   Pellegrini, C., 198.   Pelster, F., 138.   Pende, N., 56.   Pepe, G., 139, 255, 270,  299, Peroni, B., 243.   Perosa, S., 247.   Perrotta, G., 239, 305.   Perticone, G., 321.   Pesante Pétain, H. P.H., 270.   Petrarca, F., 124.   Petrini Petrucci Pettazzoni, R., 59, 67.   Piazzesi, G., 346.   Picasso, P., 278.   Piccardi, L., 319.   Pieraccini, Pieri Pierson, N. Ga 352.   Pietro il Grande, 231.   Pigou Pincherle Pintor Pintor Pio Piovani, P., 75.   Pirandello, L., 163.   Pirenne, H., 270.   Pisacane, C., 295, 308, 309, 310.   Pivano Pivato, S., 131.   Pizzetti Planck, M., 281, 293.   Platone Poggi, À., 165, 190, 290.    369, 374,    296,    Pogliani, A., Pogliano, C., 281.  Polese, P., 253.  Polledro, A., 198, 201, 278.  Pomba, G., 40, 153.  Porena, M., 127.  Porzio, G., 296.  Pozzani, S., 219.  Pratolini, V., 279, 280.  Praz, M., 239.  Preziosi, G., 77, 93.    Prezzolini Proudhon, P. J., 308.  Proust, M., 278, 342.  Pseudo-Dionigi, 372.  Pugliatti Puskin, A. S., 317.    Quadrotta, G., 160.   Querealpiti Candia, P. A., 287.  Quazza, G.,   Quinet, E., 2 ‘325.    Racca, V., 226, 227.   Racinaro, R., 82.   Radet, G., 304, 305.   Ragghianti, Ragionieri, E., 7, ‘11, 35, 111.   Rago, M., 324.   Ramat, R., 253, 309.   Ranchetti, M., 11, 371.   Ranfagni, P., 131.   Rapisardi Mirabelli, A., 232.   Rathenau, W., 311.   Ravà, A., 170.   Reed, J., 342, 363.   Reichlin, A., 285.   Rémusat, C.-E. de, 289.   Renan, E., 2Renouvin, Rensi,  191, 197, 347.   Rensis, C., 145.   Repaci, F. A., 207, 236.   Revel, B., 304   Ricardo, D., 212.   Ricci, C., 28.   Ricciardi, R., 173.   Ricciotti Ricuperati, G., 242.   Rigola Ripellino, A. M.,, Ritter, C., 347.   Riva, Gi, ds.   Rizzoli, A,   Robbins Robespierre, M.F.I., 118.   Robotti, P., 196.   Rocco, A., 46, 85.   Rodano Sola Romagnoli, E., 163, 181.   Romagnoli, S., 346.   Romagnosi, G. D., 178.   Romanelli, R., 7.   Romano, A., 308, 309, 310.   Romano, P., (cfr. Alatri P.)   Romano, R., 209.   Romano Romeo, R., 126, 209.   Roosevelt Ropke Rops, D., 264.   Rosa, E., 58, 64, 68, 142.   Rosada, A., 104.   Rosada, M. G., 172.   Rosselli, A., 251.   Rosselli, Ci 109.   Rosselli, N, 189,”194, 203, 204,  205, "250, 251, 309, 310, 320,  343.   Rossi, A., 32.   Rossi, E., 33, 192, 233, 302, 350,  352.   Rossi Rossi Rossi Rossi Rossi Rossi Doria Rossini, G., 131.   Rostovzev, M. U., 210.   Rota, E., 126, 134.   Rousseau, J. J., 88, 95, 101, 104,  108.   Ruffini, E., 89, 90.   Ruffini, F., 59, 63, 204, 206.   Ruggiero, A., 227, 228.   Rusconi, C., Riissel, H. W., 347, 348.   Russo, L., 29, 49, 58, 153, 154,  183, 184, 199, 212, 239, 240,  250, 251, 276, 278, 297, 304.   Russo Saitta, A., 270, 310, 311.   Saitta, G., 60, 68, 85, 129, 145.   Salandra, A., 25, 57, 59, 182.   Salata, F., 55, 104, 138.   Salinari, C., 285, 332, 333, 334,  335, 341, 344, 345.   Salomon Salvadori, G., Salvadori Salvatorelli Salvemini Santamaria Santangelo FADUBIANO: Don, (cfr. Muscetta    .)   Santoli, V., 238, 239, 270, 277.  Santomassimo, G., 7, 92, 94, 330,   352.  Sapegno, N., 288.  Saraceno, P., 352.  Saroyan, W., 315.  Sarpi, P., 174.  Sartre, TL P., 342.  Sasso, G. , 239, 300.  Savonarola, Gi 140, 176.  Sayers, M, 361.  Sbarbaro, C., 278, 287.  Scaduto, M., 65.  Schiavi, A., 231, 303, 307, 308.  Schipa, M., 58.  Schlesinger Schlosser Schopenhauer, A., 290.  Schumpeter Schwarz, S. M., 352.  Scialoia, V., 28.  Scoppola, P., 8, 131, 160.  Selmi, N., 11.  Semeria, G., 138.    242,  252,  265,  302,    390    Sereni, E., 237, 359, 357, 359,  360, 361, 362.   Serra, R., 163, 173, 239.   Serri, M., 285.   Sestan, E., 98, 116, 119, 124, 125,  253, 270.   Setti, G., 173.   Severi, F., 281.   Sforza, C., 320, 355.   Sgroi Shaftesbury Silva, P., 56, dr pe 181.   Simonetti, M,   Sismondi, I. C. T , 206, 208.   Slataper, Ss, 287.   Smith, A., 212, 218, 228.   Solari, G., 73, 91, 100, 101, 102,  103, 104, 127, 220, 290.   Solari, L., 240.   Solari, P., 214.   Soldani, S., 11, 112.   Solmi, A., 120, 159, 254.   Solmi, S., 238,   Sombart, W., 98, 100.   Sonnino, S., 213.   Sonzogno Sorel, G., 106, 110, 168, 221, 241,  243, 244, 264.   Spadolini, G., 253.   Spaini, A., 278, 280.   Spampanato, V., 134, 171.   Spann, O., 216.   Spaventa, Spellanzon, C., 219, 297, 312, 313.   Spencer, H., 349.   Spengler, O., Speranza, I., (cfr. De Luca G.)   Spinelli, A., 320.   Spini, G., 223.   Spinoza, B., 104, 190.   Spirito, U., 14, 75, 80, 81, 84,  85, 87, 92, 93, 94, 95, 96, 97,  98, 101, 103, 117, 147.   Spriano, P., 17, 24, 127, 156.   Sraffa, A., 147.   Sraffa, P., 352, 362.   Stalin Stein, G., 278, 279.   Steinbeck, J., 200.   Steiner, R., 264.   Stille, U., (cfr. Kamenetzki, M.)   Stirner Storoni Mazzolani, L., 271.    Strada, V., 22, 127.  Stringher, B., 25, 26, 34, 59.  Stuart Hughes, H., 21.  Stuparich, G., 287, 288.  Sturzo, L., 333, 355.   Succi, Tacchi Venturi, P., 58, 64, 65, 67,  68, 69, 77, 132, 138.   Tagliacozzo, A., 361.   Tagliacozzo, E., 213, 250, 253, 257.   Talleyrand, C. M., 261.   Tardieu, A., 244.   Tarnlé, E. V., 198.   Tarozzi, G., 164, 174, 181, 184,  187, 290.   Taylor, O. H., 227.   Telesio, B., 171, 174, Teodori, M., 223.   Testoni, S., 82, 87.   Thackeray, W. M., 271.   Thaon di Revel, P., 55.   Thierry, J. N. A., 295.   Thiess, F., 262.   Thode, H., 122.   Tilgher, A., 42, 164, 170, 182, 197.   Timpanaro, S., 181.   Tocco, F., 104, 107, 160, 170, 171.   Todaro-Faranda, M., Toffanin, G., 348.   Togliatti 355,  356, 357, 358, 360, 361, 362,  363, 372, 373.   Toller, E., 315.   Tolstoj, L., 176, 177, 202, 271,  280, 317.   Tomasi, T., 37.   Tommaseo, N., 275, 276, 317.   Toniolo, G., 7.   Tornimparte, A. (pseudonimo di  Ginzburg, N.) 288.   Torrini, M., 11, 165.   Tortorella, A., 285.   Tortorelli, G., 156, 287.   Tosi Toynbee 359.   Tramontano, R., 137.   Tranfaglia, N., 9.   Travi, N. (pseudonimo di Ventu-  ri L.) 79.   Treccani, E., 219.   Treccani, G., 20, 23, 25, 31, 32,    Indice dei nomi    33, 34, 38, 39, 40, 41, 42, 43,  48, 51, 53, 54, 55, 56, 62, 64,  65, 66, 67, 74, 76, 83.   Treitschke, H. von, 318.   Trevelyan Treves Treves, Paolo, 254.   Treves, Piero, 26, 165, 182, 239,  305.   Trevisani, P., Tricomi, F., 281.   Troeltsch, E., 349.   Troilo, E., 167, 168, 169, 170,  174, 177, 178, 179, 181.   Trombadori, A., 284.   Trompeo, P. P., 71, 238, 277, 278.   Trotzki, L. D., 331.   Truman, H. S., 352.   Tumminelli, C., Turati Turchi Turgenev, ITutgot, R. J., 108.   Turi, G., 9, 38, 194, 271, 299.   Turiello, P., 213.    Vacca, G., 181.   Vaccari, A., 68, 136, 137.   Vailati Valente Valeri Valiani Valitutti Vallecchi Valli, L., 169.   Varisco Vasoli Vaudagna, M., 223.   Vecchietti, T., 303.   Vecchio, G. del, 86.   Venturi Venturi Venturini Verri Vian Vico Vidari Vieusseux Vigliani Villari Villat Vinciguerra Wallace Visconti Weber Vita Finzi Welles Vitichindo Werth Vittoria Wetter Vittorini Whitman Wick Wicksell Wicksteed Vittorio Amedeo II, Woolf Vittorio Emanuele III Wotan Vivanti Volpe Yugow Zaccaria Zama Zancan Zanella Zangheri Volpicelli Zangrandi, Zappa Volpicelli Zdanov Volta Zibordi Voltaire, F. M. Arouet de Zini Zoccoli Volterra Zveteremich. Ideologia e cultura del fascismo: l’« Enciclopedia italiana »  La ricerca del consenso. Il progetto di Martini e Formiggini. L’intervento di Treccani e Gentile. Lo « specchio  fedele e completo della cultura scientifica italiana ». La « politica di conciliazione » di Gentile. I  collaboratori e le proteste del fascismo estremista. L’ipoteca cattolica. Il controllo del regime. -  9. Le voci politiche e l’ideologia del fascismo. L’assimilazione dei « competenti »: Gioele Solari e Rodolfo Mondolfo. Gentile, Volpe e il  nazionalismo storiografico. Le voci religiose:  presenza e conflittualità dei cattolici.  Formiggini: un editore tra socialismo e  fascismo. La parola, veicolo di « fraternità universale. Positivisti, modernisti, socialisti. Intenti divulgativi. Una cultura al di sopra della mischia. La sconfitta di un’illusione e una tenue resistenza. I limiti del consenso: le origini della casa editrice Einaudi. Iniziative editoriali. L'ideologia  conservatrice di Einaudi. L’impronta liberista sulla casa editrice. La Cultura e la  tradizione gobettiana. Storiografia e impegno civile. Cultura della crisi e spiritualismo. Una cultura eclettica: i Saggi. La svolta della guerra e i collaboratori romani. L’anti-conformismo storiografico e l’Universale. I  quarantacinque giorni, la Liberazione e il Fronte della cultura. La ricerca di un nuovo orientamento e l’eredità del passato. La rottura dell’unità antifascista e il rapporto col PCI. Grafiche Galeati di Imola. Turi. IL FASCISMO  E.IL CONSENSO: DEGLI INTELLETTUALI. Questo volume offer un contributo di grende interesse alla storia della cultura italiana, analizzando alcuni momenti. di gregazione culturale particolarmente. rilevanti, ta' iat nascita e la  caduta del fascismo. La Fondazione dell’Enciclopedia-italiana. Pattività\edi‘origle di A. Formiggini, la nascita della casa editrice. Einaudi — chevpetmettonò i; collegare significativamante gli Itinerar di’ singoli intellettuali con Je vicende politiche ‘delipaese  e di individuare, anche negli anni. del‘ regime, accanto «a condi:  zionamenti;»autocensure e compromessi, il. permanere oil inuscere  di. «schieramenti » i! cui significato «non ‘è' soltanto. culturale, ma  anche: politico. L'« Encicloped'a italiana»; fondata sotto la  direzione di Gentile e con la collaborazione dil'intetlettuali  anche antirascisti, testimonia i esistenza di-una cultura fascista; sia  pur. eclettica e forlsmente condizionata dalla ‘presenza: cattolica MAt-  torno-alla casa. editrice. Formiggini si erano. raccolti,  intellettuali di formazione. positivistache cercheranno di resisiere alla politica culturale del. regime appellandosi ad una orma l’illùsori autonomia della cultura. Nella casa editrice fondata da Einaudi, infine; ii liberalismo. Conservatore di Einaudi  convive con l'orientamento di intellettuali. legati a  «{iustizis © libertà» e, vin seguito, con orientamenti: di matrice azionista e comunista: che prevartranno. nettamente nel'1945 con la presenza delle forti personalità di Pavese; Vittorini, Cantimoti, Balbo, e Bobbio — cercando’ di dar vita va un ampios«fronte  de:'atcultura +» destinato (a. dissoiversi con la rottura dele  l'unità-antifascista,  Introduzione. -tIdeologia «e. cultura: del fascismo:nl-Enciclopedia. Italiana. Formiggini» un editore  tra socialismo e fascismo. I limiti déell'consenso. Le origini: della casa editrice Einaudi. GTuri insegna a Firenze. Storia dell'Italia’ contemporanea  nella Facoltà: di Lettere e Filosofia. Sudiato! periodo della  riforme ‘setteceritesche e. dell'occupazione francese in, Italia; «pubblicanido nel:1969 il volume « “Viva Maria”, La reazione alle riforme  leopoldine. Su occupa della cultura italiana, ema sul auzls ha prbblicato diversi contributi. Gak  labora alle riviste Studi storicì..; « Movimento onsraio e socialista» e « [talia contemtoranea  (i.i.) ©0GO. Fabrizio Desideri. Desideri. Keywords: consenzienti -- consentire, “i consenzienti del bello” – perizia del bello – imago imaginis – il bello -- costellazione griceiana, aporia, il riflessivo, l’esperienza del bello, il sentire, sensum, sentiens, sensus, sentire e esperienza, esperimentare, esperienzare, emozione, giudizio, giudicare, espressione dell’emozione, contenuto proposizionale, il volitum, il co-sentire del bello, Grice, Sibley, meta-property, second-order property, aesthetica, Sibley on Grice, Scruton on Sibley on Grice, aesthesis, sensus, senso, consensus ------ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Desideri” – The Swimming-Pool Library. Desideri.

 

Grice e Diacceto: l’implicatura conversazionale del convito -- i tre libri d’amore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I love Cattano – Amo Cattani – who philosophised so avidly on ‘amore’ – in fact, he philosophised in three different ‘symposia’: ‘primo simposio,’ ‘secondo simposio’ and ‘terzo simposio’ – and so outdoes Plato by far!” Figlio di Dionigi Cattani di Diacceto e Maria di Guglielmo Martini. Suo padre era uno dei tredici figli del filosofo Francesco Cattani da Diacceto, chiamato il Vecchio o il Pagonazzo per distinguerlo dal nipote.  Divenne un canonico della Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. Protonotario apostolico. Nominato vescovo di Fiesole, dopo il ritiro dello zio Angelo Cattani da Diacceto. Durante la sua carica, termina la costruzione del monastero di Santa Maria della Neve a Pratovecchio, già iniziata da suo zio. Restaurò l'Oratorio di San Jacopo a Fiesole e la Chiesa di Santa Maria in Campo a Firenze, e supervisa i lavori di restauro del Duomo di Fiesole, progettando la forma dell'abside.  Studiò diritto continentale e frequentò l'accademia fiorentina. Filosofo prolifico. Pubblicò le opere, in latino e in italiano, di suo nonno e incarica Varchi di scrivere la sua biografia, che fu pubblicata assieme a Tre libri d’amore e un panegirico all’amore del vecchio Cattani a Venezia. Altre opere” Gli uffici di S. Ambruogio vescovo di Milano: in volgar fiorentino (Fiorenza: Lorenzo Torrentino); “Sopra la sequenza del corpo di Christo” (Fiorenza,: appresso L. Torrentino); “L'Essamerone di S. Ambruogio tradotto in volgar fiorentino” (Fiorenza: Lorenzo. Torrentino); “L’autorità del Papa sopra 'l Concilio” (Fiorenza: appresso i Giunti); “Instituzione spirituale utilissima a coloro che aspirano alla perfezzione della vita” (Fiorenza: Giunti); “L'Essamerone” (Fiorenza: appresso Lorenzo Torrentino); “La superstizzione dell'arte magica” (Fiorenza: appresso Valente Panizzi & Marco Peri). I tre libri d'Amore, filosofo et gentil'hvomo fiorentino, con un Panegerico all'Amore; et con la Vita del detto autore, fatta da M. Benedetto Varchi (In Vinegia: appresso Gabriel Giolito de' Ferrari). Ricerche su Diacceto: Cultura teologica e problemi formativi e pastorali. Firenze: Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia. Dizionario biografico degli italiani. D. In divinis PLATONE symposium Enarratio ad Clementem VII. Pont. Max. Amorem distinguit atq, definit, antequam rei explicatio nem aggrediatur. Ntequam Symposi enarrationem aggredia mur, operæprecium eſt uidere, quid perA morem ſitnobis intelligendum. Secus enim fieri nequit, ut diuinú PLATONE de AMORE diſſereniem intelligamus. Solec itaqduplici capite definiri. Autenim pingui Mineruade, finitur, aut exacta quadam ratione. Siqui dem pinguiMinerua,omnis appetentia, quæ cungilla ſit,Amorrectèdici poteſt. Sinautē exacta ratione, AMOR EST DESIDERIVM perfruendæ &effingendæ pulchritudinis. Quapro pter quot ſunt appetitus, totidem elle amores neceſſe eſt. Atqui ue rum efficiens propter intimam fæcunditatem appetitextra fe effice re:appetit quoqz ſeruare quodeffecerit. Vnde & diuinus Iohannes Omnia,inquit,per ipſum facta ſunt, & feorfum ab ipſo nihil, quod factum eſt:ſignificans,non ſolùm ex Deo, ideft,ex uero efficiente res effe,uerumetiam eaſdem citra dei auſpicia nihilfieri. Dionyſius quo que Areopagita ſplendor Chriſtiane theologię, Amor, inquit,entiū auctor, cùm lupereminenterin bono antecederet,minimèpaſſuseſt ipſum in ſeipſo manere, quaſiſterile lit: ſed ipſum impulit ad opus ſe, cundùm exceſſum omnia efficientem. Seruat autem propterea om nium cauſa,beneficio fupereminentis amoris: quandoquidem non fimplici prouidentia extra ſe procedens ſingulis entium immiſcetur. Quapropter quidiuinorum peritiſunt, Želotem ipſum appellant, quaſi uehementem entium amatorem. Acuerò &res ipfæ femper in auctorem reſpiciunt&conuertuntur, proindeqz afiectantipſi adhæ rere: Adheſionem enim ultima conſummatio fequitur.Huncautem appetitum ſiquis furorem amatorium dicat, recte appellauerit. Non folùm uerò inferiora in auctorem femper propenſa ſunt, uerume tiam quæ funt eiuſdem ordinis ſeipfa mutua quadam charitate com plectuntur. Simile enim ſimili ſemper adhæret,utinuetere prouer bio eſt. Hoc autem propterea euenit, quoniam fimilitudo ſeruat ab foluités,diſsimilicudo uerò contrarium efficit, Quapropter diuinus Hierotheus in hymnis amatoris,Amorem,inquit,fiue diuinum, li ueangelicum,fiue intellectualem, ſiue animalem,ſiue naturalem dixe ris,unificam quandam conciliantem facultatem intelligimus, qua fuperiora ad inferiorum prouidentiam:quæ ueró funt eiuſdemordi nis, ad mutuam quandamcommunionem:inferiora uerò ad fuperio rumconuerſionemmouentur. Verùm huncappetitum, qui poftre mòrebus aduenit,aliuslongè antecedit, rebus adueniens inter exor dia.Principio quidem diuina ſtatim quàm ab auctoreſunt; in partes proprietates eſſentiales procedere concupiſcunt. Diuina enim a. &tusprimiſunt; horum uerò abſolutio ſua functio eſt.Conftantenim diuina exagente potentia, ac ſua functione, quafi ex calefaciendi fa cultate calefactione cipfumactu calefaciens. Atqz in huncſenſum lo cutus eſt PLATONE in 10.Libro Reip.dicens,diuina feipfa efficere.Signi ficat enim ex primo fecundoğactu diuina conftare. Quod etiam len fiſſe ARISTOTELE,ex his quędicuntur in undecimo Rerumdiuinarū, perſpicuum eſt.Intellectus,inquit,actus eſt. Actus autem per fe illius uita optima &fempiterna. Dicimus autem Deum eſſe animal ſem. piternum optimum. Quare uita &æuum continuum & æternum ineſtdeo. Ineft quod & materiæ primæ appetitus ad formam: qui quidem amordici poteft, quando quidem merito formæ boniipfius particeps fit.Eft & alius appetitus, quo res compoſitæ ſibiipfæ cohæ reſcere amant, optimus eorum conciliator, quæ natura diſsident. Quemſagax naturæ interpres ſedulò obſeruans, non dubitat capta to cæli fauore poſſe rerum aſymmetriæ, quæfitex materia, mederi. Virenim naturæ ſtudioſus, quaſi Lunam è cælo in terram carmini: bus trahens,uim animæ facilè ductilis,utinquitPlotinus, per cælum generationi inſinuat. Quægeneratio ueluti excuſſo morboin fuam integritatem farciri poteft.Dehis latius in ſequentibus agendum no biseſt. In plenumappetitio omnis qua bonum ſibi res adeſſe cupi unt, amor dici poteſt,ſiueappetitus inanima, ſiuealibiſit, ſiue artis, ſiue uirtutis,ſiue ſapientiæ, ſiue cuiuſcunqz alterius. Hactenus de eo amore, quipinguiquadam Minerua nuncupatur. Amor autem qui exacta ratione dicitur,primò quidem diuinæ animæineft, fi Plotino credimus. Pulchritudo enim in intellectu primùm apparet. Siigi tur amoror pulchritudinem ſequitur,reſtat utanimæ primò inſit: quæ quidem intellectui deinceps eſt. Affectat autem anima diuinam pul. chritudinem uſqz adeo impotenter, ut aliquid pulchrum in fe effi. ciaț. Sed nos longè aliter diuinum Platonem interpretati, credimus primum amorem cum prima pulchritudine maximè natura con iunctum eſſe. Quapropter cùm primapulchritudo intellectui infit, eidem quoq ineſſe amorem; habere autem originem ex intelligentia,quandoquidem appetentia omnis fequitur cognitionem. Atue rò diuina anima gemino amore, nonaduentitio quidem& acciden tario, ſed euidenti &intimo prædita eſt. Nam&perfrui pulchritudi ne,eandemớper modumſeminis & naturæ in ſeipſa exprimerecon cupiſcit: & in materiamtransferre affectat idearum participationes. Sed de his in primo &fecundo libro de Amore ſatis abundèdiſſerui mus, &in ſequentibus uberrimèdiſleremus. Animaquoquenoſtra præter hos amores dupliciter in pulchrum aliquod uehementi deli derio inhæret,uelgratia pulchræ prolis procreandæ, quali pulchrū in pulchro procreari oporteat (atąhicamoranimam in generatio nem deorſumą trahit )uel gratia recuperandæ ueræ pulchritudinis, quamdeſcendens nimia generationis cupiditate amiſerat. Quicun que igitur ſpectaculo ſenſibilis pulchritudinis rectè utitur, is profe. étò facillimèrecuperat alas, quibus ad diuinam pulchritudinem at collitur. Rectèigiturimmortales, ut inquit Homerus, Amoremap pellarunt Alationem: quandoquidem amore in diuinum rapimur. Expoſitio primifermonis,qui Phadrieft: Actenus declaratūeſt quid ſit amor, pingui Minerua, quid fit exacta ratione nuncupatus. In præſentia uerò reftat uc Phædri ſermonem aggrediamur, in quo FEDRO non de eo qui proprièeſt Amor, ſed deeo potius appecitu, qui rebus adue nitinter exordia,principiò uerba facit. Cornumèrans uerò ea com moda, quibus amoris beneficio participamus, in eum tranſit amo rem, quiab umbratili, Auxaſ pulchritudine ad ueram pulchritudi nemnos reuocat.Sedagèdum uideamus,quid Chaos, quid Terra, quid Amorfit,tum in mundo intelligibili,tum in anima,tuminmun do ſenſibili,in quibus hæcinueniuntur. Verumàmundo intelligibi liexordiendum eft,modò priusconſter,Chaoseſſe ubiqellentiæru ditatem: Terramuerò effentiæ firmitatem: Amorem autem eſſe Ap petitum. Plato in Philebo dicit,primòelle perſeunum ſiue Deum, ab ii. lo fuere Terminum&Infinitum,quartum eſlemiſtumex his,quod dicitur per fe ens. Ego uerò Plotinum ſequutus, non puto Termi num & Infinitumelleduas ſoliditates ſuprà ens,quemadmodúcom miniſcitur Syrianus & Proclus:fed quod àperfe uno primo profuit; quà eſtactusprimus,& aliquid in fe,dici Terminuni, quoniam eſt quiddefinitum ac terminatum: quà uerò eſt actus primus, habens po teſtatem agendi,acper actionem perfici debet,dici Infinitum: quate nus utrung ſimul complectitur,diciEns. Quocirca rectè à Placone. er N 2 miſtumappellatur, quoniamtermini &infiniti naturaper fe habet. Chaosigiturin mundointelligibili nihil eft aliud, quàm miſtumex termino ac infinito, id eft, ipſum per feens,quod ratione poteſtatis dicitur, perfectioniobnoxium. Poftchaos eſt Terra, quoniam ens ipfum, quodeftchaos,ſtatim fequitur ſtatus deſignatus per Terram. NamutPlato docet in Sophiſte,mundusintelligibilis conftat exel ſentia,ftatu,motu,eodem, diuerſo. Status autê nihil eft aliud, quàm firmitas, per quam fingula manent idipſum quod funt. Quamo brem autemfirmitas eſſentiæ deſigneturperterram, paulo poſt de. clarabitur. Poft terrameft amor:nam ens ipſum cùm fit actus pri: mus, perficitur perintimam actionem,quieſt primus &intimus mo tus,habens originem ab infinito ipſius entis, ficuti ſtatus eſtà termi. no. Quapropterà Platone motus ponitur in Sophiſte tertium ele. mentum,utprius ſitens, deindeftatus, deinde motus, id eſt, interior actio ipſius entis,quæpropriè Vita dicitur. Vnde &Ariſtoteles in undecimo Rerumdiuinarum actü per feipfius intellectus aſſeruiteſ ſe uitam optimam &ſempiternam. Inter actionem ac potentiam a. gendi,medius eft agendiappetitus,principium actionis.Namagen ti prius ineſtagendi facultas,deinde agere affectat,deinde agit. Ecce igitur quomodo appetitus agendi mediumobtinet locum inter po tentiam &actionem,cuius eſt principium.Nam potentia omnis, quç cunc ſit,deſiderat appetitőz ſuum actum. Quod etiam euenitprimæ materiæ,ut Ariſtoteles ait. Sed de his paulopoft. Rectè igitur dicta eſt, poſt Terram eſſe Amorem, id eſt, poſt eſſentiæ firmitatem,qui propriè Status dicitur, efle principium intimæ actionis, quæ Vita appellatur,cùm ſitprimus motus, cuius beneficio ensin ideas diſtin Ctum eſt.Ex quo patet etiam quomodo amoranteceditdeos omnes, utinquit Parmenides. Parmenides enim infueuit ſub Deorum appel latione ideas intelligere. Nam ſiens diſtinguitur peruitam & motū intimum, Vitæ autem appetituseſt principium, necefle eft appeci tumhuiuſmodi ideis eſſe priorem. Recte igituramor,quieft appeti. tus,antecedit deos omnes, ideft,ideas. Sedut ad terram redeamus,a nimaduertendum eft fecundùm Pythagoricos,ab ideis fuere mathe mata, à mathematis uerò res naturalesnon: quod uelint res natura les ſecundùm materiam &formameſſe à mathematis (licenim ſunt abideis )ſed uoluntà mathematis eſſe figuras rerum naturalium, qui busconftituuntur. Proinde mathemata appellantur à Platone ob ſcura intelligibilia,quoniam pendent ab ideis, quæ funt clara intelli gibilia:ſicuti corporum imagines & umbræ,quæ funt obſcura ſenſi bilia,à corporibusnaturalibus pendent,quæſunt ſenſilia clara. Sed de his latius in fexto de Rep. Rectè igitur ex proprijs figuris rerum natu.  FC naturalium Placo in Timæodeſignat earundemingenium. Propte: reaignem & terram ac cæteraid genusex triangulis componit.Ari ſtoteliquoqs placet,naturalianon ſine accidentibus quibuſdam de. finiri, quemadmodum patet in quinto Primæ philofophiæ, quem iuniores fextum exiſtimant. Idem quoque aſſerit Plotinus. Sed quorſum hæc: Nempeutintelligamus, per proprias rerum natura lium figuras delignari rerum ipfarum naturam. Atqui palàm eſt, teſ ſeramelle propriam terræ figuram, quæ ineptiſsimaeftad motum: quo fit,ut recta ratione terraſignificet firmitatem. Quodetiamex eo conijcere poſſumus, quoniam terrà tanquam immobilis eſt totius centrum. Vnde & PLATONE in FEDRO, Sola, inquit,in deorum æde manet Veſta. Siigitur terræ ſuapte natura debeturteffera, terrauti que ſtabiliserit.Vnde &Plato in Timæo componit folam teſſeram ex triangulisduum æqualium laterum rectangulis, ut eius oftendat admotumineptitudinem. Verùm dehis fufius in TIMEO. Terrai: gitur firmitatis prærogatiuamubiq præ ſe fert. Hec quidem de mun do intelligibili. Animauerò ab intellectu primo prodit, ſicuti intel: lectus ab ipſo perſeuno, fi Plotino crédimus,ńső,qui Plotinum ſe cuciſunt, Porphyrio & Amelio, quanquam Syrianus & Proclus alio ter fenciant. Dionyſius quoq & Origenes contendunt, ab ipfo per ſeuno eſſe cummentem,tum animam,tum materiam, Chriſtianum dogma potius quam Platonem ſequuti. Anima igitur cùm ſit ab in tellectu,ut inquit Plotinus,primofuzeproceſsionis momento inſig. nis prodit idearum notis. Prodit quo® intelligendi prædita facul tate Nam quemadmodum intellectus ab ipfo per feuno procedens inde fecum affert unitatis participationem(quod ſummum eſtipſius intellectus, & quo ipſum per ſe unum attingit) ſic & animam proce dens ab intellectu indeſecum affert facultatis intellectualis idearum que participationem.Ergo anima primo ſuæ proceſsionis momento habet idearum expreſsionem, habet & facultatem intelligendi, qua non folùm intimasnotiones,uerumetiam ideas intueatur. Sic enim intellectum auctorem exactè refert.Non continuò tamen perfecta a nimadici poteſt,quandoquidem debet habere aliquid proprium ac ſuum.Atqui intellectus etli primo ſuæproceſsionismomento per ſe unius participationeunum eft: per intimam tamen ac primam actio. nem, quædicitur per ſe uita,cuius ope ſeipſum in ideas diſtinguit, quaſi Geometria in ſua Theoremata,per ſe animal efficitur:per in telligentiam uerò uitæ ſummum,përſe intellectus, ac mundusintel ligibilis. Sic &in anima, quæ primo ſuæ proceſsionis momento fa cultate intelligendi ideiső participac, quaſi cæra imprimentis ligno, intimailla prima ac ſua actio, per quamfeipfam in rationes diſtinguit, ac per quam propriè animadicitur,uita eſt participarò, mo. tus autemper fe.Cuiusſummumeſt ſecunda participatione intelle, ctus, ratiocinatio autem perfe. Quo fit,ut inſtar intellectus ſit orbi cularis. Intellectus enim circulus eft. Dicitur autem propriè motus, quoniam fecum habet & tempus. Quemadmodum enim primus motus eft in anima, ſic & primum tempus. Nec quenquam pertur bet in eadem eſſentia animæ idearum participaciones, hoceſt, no tionesipfas,acrationes formisrationeqz diſtinctas eſſe. Namintelle. ctus & ratiocinatio in eadem anima, quorum alter in participacio. nesidearum,altera uerò in rationes dirigitur,formæ quoque ratio nisis diſcrimen inter fe habent. Differunt autem notiones à rationi. bus,quoniam notiones (ſicenim voipatæ præanguſtia linguæ appel. lamus: ſicuti aéyous rationes ) tanquam impartibiles acfimpliccs latent in penetralibus ipſius animæ, ſoliintellectui obuiæ. Rationes uerò multiplices explicatæớz ſuntſimiles ratiocinationi, cum qua habenc affinitatem. VtræQ tamen ſunt tum ſibiipfis,tum animæ ſubiecto i dem. Intellectum, quianimæ ſuus eſt, Ariſtoteles appellat intelle. & tum agentem,ratiocinationem uerò intellectum potentiæ,quidiui. duuseltacdiſcurſu agit.Omnes enim animæſuo quæqmodo intel lectu auctoreacprimo participant,qui omnibuscomuniseft,in quo tanğzin centro lineæ copulantur.Atqideft,quod rectè inquit The. miſtius,deſententia ARISTOTELE, unum eſſeagentem intellectum illu minantem,illuminatos autem ac ſubinde illuminantes complures. Vnum,inquam intellectum agentem,quoniam eſt unus,qui reuera acprimò eſt:complures autem, qui ſunt animarū, illuminati quidē, quoniãprimi intellectus particepes ſunt: illuminantes uerò, quoniã ex his principia hauriunt potentiæ intellectus. Verùm de his alibi exquiſitius.Ergo anima primo ſuæproceſsionis momento etli inſig. niseſt idearum participationibus,etliprædita eftintelligendifaculta te,quoniam tamen nondūin eam actionem prorupit,quain ſuas rati ones interius diſtinguitur,nondumin eam, quaeaſdem.proſequitur perpetiambitu, quibus propriè anima cognominatur,Chaos dici poteft.Eftenim Chaos,utdictum eſt,effentia rudis. HocautēChaos fequitur Terra.Nam animæ eſſentia etſimotuieſt obnoxia (perpe tuò enim tum generatur,tum interit,ut in PARMENIDE DI VELIA dictüeſt, quan doquidem motus repetita quadãuiciſsitudine conficitur) ſemper ta menmanet,necmotudiſperditur. Amorautem eſtappetitus prorū. pendi in motum: quo tum diſtinguitur in ſeipſa, tum etiam abſolui-. tur.AmoritaQ cùmprincipium ſit racionā,rationes autem ſintidea rum ſimilitudines,meritò dicitur deosantecedere.Hæc quidem dea. nima. In mundo autem ſenſibili Chaos materia eſt,quam Plato in Timæo temere agitatam Auitantem appellat:materia,inquam,omni no expers formæ,ſuapte natura, acſpuria quadam ratione cognobi lis, ut in Timæo dictum eſt.Idautem nihil eft aliud, quàm cognobi lemeſſe per comparationem ad formam,ut Ariſtoteles inquit. Hæc materia abeſtab omniperfectione, omnino deo contraria, ut Plato ait, infimum ac fæx totius proceſsionis, infra quam duntaxat ipſum nihil inuenias,principium omnis aſymmetriæ. Vnde& Plotinusi, pſum per ſe malumappellauit. Huic nonnulli putant ineſſe poten tiam,perquam formæ ſubijciatur.Sed mea quidem ſententia mace ria eiuspotentiaomninoidem ſunt. Nam per defectum totius per fectionis eftunum: ſicuti deus perexceſſum eſtunum.Ad hæc, condi tionis formalis aliquo modo particeps foret. Cùm igitur ſit unum per defectum,eo quòd careat omni perfectione: erit etiam obnoxi generis, cùm citra auſpicia formæ uel extrinfecus aduenientismane renequeat. Profecto quaeſtunum per defectum, & cafus abente, di citurmateria: quàuero eſt obnoxii generis,dicitur ſubiectum, pro pterea quòd ſubeſſe debet. Vnde & Plato ueluti matrem appellauit in Timæo,eo quòdrecipiat. Ariſtoteles quoçidem cognomentum materiæ tribuit,quando ſubeſt. Sic fortèmelius, quàm utThemiſtio uiſumeft: cui placet,materiam eſſe earum rerum, quæ nondum faétæ aut ortæ ſunt:ſubiectum uerò earum, quæ iam ſunt actu:quo fieri,ut materia fit cum priuatione, ſubiectum cum priuatione non ſit. Sub iectum itaq dicit tum firmitatem, tum etiã potentiam priuationém que.Firmitatem quidemdicit, quoniam ſubiectum generationis ma nes,contraria uerò abeunt,ut Ariſtoteles inquit. Fitenimex aere ig. nis, non quà eſtaer, ſed quàaccidit ei ut ſit aer. Potentiã autemdicit, quoniam performã perfici poteſt: non enim fecus fit boni particeps: quo fit,ut formam uehementiſsimèappetat. Eſt enim forma diuinū &bonum &appetibile,ut Ariſtoteles inquit.Hisita perſpectis, pa. tet materiam,quà eſtunum,per defectūtotius perfectionis eſſe Cha. os.Eius autem firmitas deſeruiens generationi, Terraeſt. Appetitus autem formæ recta ratione amordici poteſt.Rectèigiturdictum eſt, in mundo ſenſibili uia generationis primoeſſe Chaos,deindeTerra, poſtea Amorem ſequi.Patetquocßex his ſententia PARMENIDE DI VELIA. Nã uia generationis,priorineſtmateriæ appetitusformæ, quàm forma. Forma autem ideæ participatio eſt in materia.Quapropter ſiidea de usdicitur,fecundùm Parmenidem, idegutiớparticipatio,hoceft,for ma,dicetur diuinum. Amorigitur,hoceft formæ appetitus, Deosi plos,ideft,diuinas participacionesmeritò dicitur antecedere. Dictú Auñ eft hactenus, quid GitChaos,quid Terra,quomodo amorſitantiquiſfimus; atqid tumin mundointelligibili,tumin anima, tum in mun do ſenſibili. Nunc uerò ea commoda uidenda ſunt, quæ ex amore nobis eueniunt. Animaduertendumtamen eſt,uirtutes eſſe animæ noftræ purificationes. Animaenim dumingenerationem delabitur,morta li hoc eđeno inficitur, neglectis plerunq; diuinis, quorum cognata eft:quodin decimode Rep. diuinus Plato indicat, dicens, animas quæueniuntin generationem, ſumpto potu ex Amelita flumine ad CampumLethæumdeſcendere. Significat enim ex materiæ com mércio animis alioqui diuinis ineſſe negligentiam obliuionemére. tum diuinarum. Reuocatur igitur anima tumin ſui ipſius curam, tumin memoriam diuinorum,miniſterio uirtutum,quarumbenefi. cio maculas abñcit, quibus ueluti inuſta erat propter materiæ for. des.Vnde &Ariſtotelesin ſeptimo libro de Naturali auditu dicit, perturbationes in nobis fedari quandoque natura, utpueris euenit, quando @ ex alñs,ſignificans uirtutes, quarum opè perturbationes excutiuntur.Ergo amorcauſanobiseft uirtutumomnium,quarum beneficio maxima bona conſequiinur, hoc eſt, ipſam ſapientiam. Namſapientia ex moribus ſuſcipit incrementum.Veritasenimpræ ſtò animæ fit per uirtutes expurgatæ, inftarauri quod igne defæca tur. Quod & Ariſtoteles quo & clara uoce afſeritin ſeptimo deNa turali auditu. Sedquamobrem amor uirtutum nobis cauſa eſt: An prior nobis ſénſiliū cognitio ineſt approbatiocs, perinde ac libona fint: quo euenit, ut fiant expetibilia: hanc fequitur appetitus(fierie nim nequit,appetitum nonexpetere idipfum, quod ueluti bonum à ſenſu comprobatur )hunc ſequitur proſequutio. Appetitus enim principiummotus eſt. Vnde&Ariſtoteles in tertio libro de Ani ma progreſsioneni animalium imaginationi appetituig acceptam refert. Voluptas autem profequutionis conſequutionisfruitioniſą eft finis. Illa igitur uirtus,quæanimæ cum appécitu conſentienti mo dum legemő indicit proſequendi expetibilis, Ciuilis appellatur. Quæuerò ita confirmat animam,Pombaiam profequutionem abomi. netur, Purgatio. Atquæita defæcat, ut ab expetibili uix commo ueatur, iure Sanctitas dicipoteſt. hæc nos deò nonhabenti uirtu tem, (ut inquit Plotinus, alioquiflagits eſſet obnoxius:quodeti. din fatetur Ariſtoteles, eiuső enarratorAlexander Aphrodiſiæus) hæc inquam, nos deo fimiles facit. Vnde & Plato in Theäteto, Fu. ga, inquit, hinc ad deum, iplius dei fimilitudo eft. Similitudi nem uerò iuſticia & ſanctitas cum prudentia præſtant. His ita perſpectis, uidere poſſumus; quomodo amor uirtutum cauſa. lit. Quod Phædrus adſtruere contendit. Pudor, inquit, reuo cansnosà turpibus, præter hæc æmulátio ad honeſta inultans,no-, bis fternit muniti uiam ad præclarè rectei uiuendum. Altera e nim dū in honeſtis ſuperari neſcit, alter ueròeuitando extrema, ſem per habet ob oculos mediocritatem.Quoeuenit, ut quicquid magni præclarię efficimus, horum ope efficiamus. Quid aucem amore promptius aut in nobispudorem excitat, aut ſuſcicatçmulacionem: Amorenimuel abiectiſsimum quemq,licgnauum reddit ad uirtu tem conſequendam,ut numine percitus uideatur. Amorquoq;fica mans amatúmque inſtruit,utnon æquè ſibi erubeſcendum ducant, quàmſialterum ab altero ſcelerisacfocordiæ iure coargui poſsit. Ha ctenus adſtructumeſt, Amoremuirtutes ciuiles efficere, atqz id fyl logiſmo &ratione. In præſentia uerò adſtruendum,ex eodem quo que eſſe cum purgatiorias,tum etiam purgati animi uirtutes: quarü beneficio ſapientiæ acfelicitatis participamus. Cuius quidem rei Al ceſtidis atop Achillis fabula admonemur. Operæprecium uerò eſt noſſe prius, animam trahi in generationem affectuuitæ ſenſibilis, cu ius lenocinis impura redditur:aſcendere uerò ad diuina affectu uitæ intelligibilis, quæ inprimisanimæpuritatê exigit. Vitæ quidem fen fibilis ſummumeſtopinabile,in quo nihilconitantiæ,nihil firmitatis inuenias. Atuita intelligibilis ubiqueritatem præſefert. Sed dehis latius agemus in fequentibus,ubi declarabimus, quid aſcenſus deſcen ſusţzanimæ ſit, quid ſibi Plato uoluerit in decimode Rep.dicens, a nimas in generationem deſcendere per Cancrum, per Capricornum uerò ad diuina aſcendere. In præſentia uerò fatis ſitgeminum huncaf fectum geminæquoquitæ nobis auctorem eſſe. Sed iam fabulæmy ſterium aggrediamur. Alceſtis, inquit, Peliæ filia amans Admetum uirum,pro eo mori uoluit. Dijuerò facinore delectati, eam ab infe ris in uicam reuocarunt. Alceſtidem puto eſſe animam, quęiaminue ritatem incumbat. Admetum uerò credo ipfas eſſe ſenſibilium notio nes, quibus anima ad uera intelligibilia excitatur: impuritate uerò ſenſibilis uitæ impedita,eis rectèuti nequit. Quapropter ſenſibilem uitam exuendam intelligit, quamfibi deſcendens in generationem induerat, alioqui nunquam uoricompos euaſura. Hinceſt,quòd mo ri Alceſtis dicitur.Dij uerò in uitā reuocarunt. Quandoquidem de. poſita ſenſibili uita, in ſuam puritatem reſtituta eſt.Qua igitur mori tur, hoc eſt,quà exuit ſenſibilem uitam, uirtutibus purgatorijsinniti tur.Namexuere uitam ſenſibilem,nihileft aliud, quàm animam ita defæcari,ut ne ipfam quidem admittat expetibilisproſequutionem. In quo uirtus purgatoria conſiſtit. Quà uerò in puritatem reſtitu. ta eſt,prædita eſt uirtutibus animi iampurgati. Virtus enimhuiu £ modinonin purificatione,fedpotius in ipfa puritate conſiſtit. Purifi 'catio enim motio quædameſt. Atpuritas motionis terminus. Con fummatio igituruirtutis potius in termino motionis, quàmin ipſa motionecõliſtere debet. Sititaqß puritas confummatio uirtutis, qua quidem diſcimus etiam abipfo ſenſibili uix commoueri. Præclarum utic eſt &longèmaximū,& quod longo uſuacdiuina quadam ſor teuix comparatur,neceſſariūtamen ad fapientiam felicitatem con fequendam,ita paratuminſtructumós eſſe,ut corporeas tantùm fen tias affectiones,cetera prorſusabiunctus.Longè uero errat,quicunos Orpheumimitatus, exiſtimat, dum ſenſuum lenocinis delinitur, fim bi in ueritatem patere aditum. Hicenim ſenſibilium notionibus,qua tenus ducuntadueritatem,uti nequit, ſed quà ſunt duntaxat ſenſibi. lium. Quo euenit,utumbras,hoceft,fimulachrū Eurydices captans, falſis opinionibus diſtrahatur.Iure igitur Orpheum fürentibusfae minis dilaniandū irati di propterſcelus expofuerunt. Verùmquid euenit animæin puritatem iamredactæ. An talem uiteſtatum ſapien tia ſequituradhæſioc in deum, quod ſuum cuiusqz bonumeſt: Ani maenim adminiculo utitur ſenſibilium ad ueritatem conſequendă. Namſenſibilia imagines ſunt rerum diuinarum. Vnde et Plato in Ti mæo idem fermètribuitanimædiuinæ ingeniū,quod priusin mun. di corporeexplorauerat, ut à Simulachro, tanſ ab inſtrumentoad exemplarrectè fiat aſcenſus. Ergo ueritatemintelligibilem plerungs accedimus adminiculo ſenſibilium:quorum notiones in ipſa intelli gibilia excitantanimam.Dimittimusautem ſenſibiliūnotiones,ubi primumintelligibilia conſecuti ſumus, ex quorum contactu fapien tiamreportamus. Sapientiã uerò felicitas bonumo conſequuntur. Dehis uberrimèin Socratis oratione agendum nobis eſt. Horumſa nè Achillis Patrocli (fabula nosadmonet. Achilles,inquit,mortuo Patroclo amante mori uoluit: diuerò admirati facinus, non ſolum in uitam reuocarunt,uerumetiam beatorum inſulas deſtinarunt illi habitandas.Patroclum puto animamipſamaſcendentem ad uera itt telligibilia adminiculo ſenſibilium. Achillem uerò ſenſibilium notio nes in anima. Mortuus eft Patroclusamans, id eft, eò ufog proceſsit anima,ut non amplius ſenſilium notionibus indigeat,quibus innita tür.Quo fit,ut ſenſilium notiones uſui deſinantelle animæad intelli gentiam comparandā.Hinceſt quòd mori Achilles dícitur. Dij uerò huncuolunt reuiuiſcere,quoniam animæ pro notionibus ſenſibiliú fiuntobuia ipſa intelligibilia:unde fapientia comparatur. Ex ſapien tia ueròfelicitas euenit & bonum,quod eſt beatorum inſulas Achilli habitãdas deſtinari. Sed quomodo dicitur amansamato pręſtantius eſſe: An ſi comparetur uisintelligendi ad id quod intelligitur, longè I melius . meliuseſt id quodintelligitur. Intelligibile enim mouet nõ motū, ut Ariſtoteles inquit in undecimo Rerum diuinarum.Mouet enim tan quamamatū. At uerò intellectus ab ipſo intelligibili mouetur. Vis enim intelligendi producit actionem in ipſum intelligibile, quæ intel ligentia appellatur.Ex quo diuinus Plato in ſexto deRep.dicit,ueri tatem intelligibili,ſcientiam uerò intellectui ineſſe.Quodetiam uolu iſle Ariſtotelem alibi declarabimus. Licetin ſexto inſtitutionū Mo ralium aliter ſentire uideatur. Sin uerò ſenſibilium notiones, quibus anima in uera intelligibilia excitatur,comparentur ad eam facultatē, qua intelligimus,quisambigat longè minoris eſſe æſtimandas: Pen dencenim à ſenſibilibus,ſuntázanimæintelligenti aduentitiæ. Plato igitur quando dicitamatum eſſe deterius amante, non deipfo intel, ligibili intelligit(quodreuera amatumeſt: id enim longè pręſtat)ue rum de notionibus ſenſibilium inanima, quæ &ipfæ propterea ama tum dicuntur,quoniam uſui ſuntanimæ ad uerum intelligibile con ſequendum.Hæfanè intelligente animalongè ſunt deteriores. Cu ius rei indiciūeſt, quòd intelligens anima affinitate coniuncta eſt cũ ipſo intelligibili.Intellectusenim,ut rectè inquit Ariſtoteles, rerum intelligibiliumeft,eiuſdem @ eſtutrunca contemplari. Quandoqui demeadem contemplatio eſtomnium ita coniunctorum, ſicuti etiã ſenſus, &rei ſenſibilis. Quo euenit,ut deſiderio agatur ueritatis. Ato ideſtquod inquit Plato, Amans propterea amato præſtantius effe, quod diuino furore agitur. Verùm quid ſibiuult Plato dicens, longe magis dijs cordi eſſe,ubi amatum, in gratiam amantis moritur, quàm ubiamansin gratiam amatirAnmoriamansin gratiam amati, nihil eſt aliud, quàm animam incumbentemin ucritatem, abijcere uitam fenfibilem,ne ſenſilium notiones, quæ ſuntuſuiadueritatem compa randam,irritæ ſint: Amatumenim ſenſiliūnotionesſignificat. Quod exeo aſſeritur, quoddictum eſt,amatum amante eſſe deterius. Fiunt autem irritx, filieimpedimento ſenſibilis uita. Amatū uerò moriin grati amamantis, SIGNIFICAT notiones ſenſibiles uſui non eſſe amplius, quòd intelligens animain ipſam ueritatem intueatur: quod re uera amatum eſt. Siigiturmulto plus eſt omnino negligere notiones ſen lilium, intuente animaueritaté, quàm deporre uitam ſenſibilem, ut notiones ſenſilium ad ueritatem uſui ſint:multo plus utiq; erit, a matū pro amante, hoceſt, Achillem in gratia Patrocli: quàm amans pro amato,hoceſtAlceſtidē in gratiam Admeti mori. Quapropter quid mirūgli Achilles ad maiorem honorē cuectus eſt: Anima enim exuero intelligibili non ſolum ſapientia,uerumetiam ipfam felicita temreportat. Quod quidem eſt,Achilliin uitam à dis reſtitu to beatorum inſulas habitandas deſtinari: cùm Alceſtidi in uitam reuocari ſatis fuerit.Vlo tur expoſitio. ) Voniamà Pausania dictum eſt, totidemeſſe Amores, quot ſunt Veneres:oportetexplicare in primis Vene rem, quideaſit:alioquiphiloſophia amoris(quod qui dem in præfentia quærimus ) lateat nos neceſſe eſt. Plotinus igitur putat, Venereineffe ipfam animam, proindecaulamamoris efficientem. Sunt etiam & alij, qui aliter ſen. tiunt,magnialioqui uiri, ſed quos in præſentia dimittere conſilium eſt. Vir enim fapientiæ ſtudioſus,ut inquit Dionyſius, ſatis ſibi factu cenſere debet,ſinon alios laceſſendo,fed quàm ualidis poteſt rationi bus,quam putateſfeueritatem,audacter aſſerat. Ego uerò Hermiæ libenter aſſentior, qui credit per Venerem pulchritudinē ſignificari. Argumento, in Phædro dictum eſſe furorem amatorium, & optimū effe furorum omnium, & ex optimis.Exoptimis quidem, quoniam ſenſibilis pulchritudo,à qua amor excitatur, optima ac præſtantiſsi ma eſtomnium, quæcunq ſenſui offeruntur: nam & exquiſiciſsima diuinorum ſimilitudo eft, quæ optima ſunt, & ſenſui omnium perſpi caciſsimo ficobuiam.Viſusenim alios ſenſus longè ſuperat. Cùm e. nim cæteri ſenſus,uel fi nulliſint uſui,cognitionis gratia per fe expeti biles ſint,ut Ariſtoteles inquit:præ ceteris tamen uidendi facultatein optamus, quippe qua exquiſitius cognoſcimus. Quapropteruiden di facultatem ad intelligentiam traducere folemus,ut etiam intellige reuidere ſit. Quod &Ariſtoteles indicauit. Nam & in tertio uolumi ne eius libri,inquoadſtruendi deſtruendic locos docet, & in primo de Moribus adNicomachum, Sicut,inquit,pupillain oculo,licintel lectus eſt in anima.Patet igicuramorem ex optimis eſſe, cùm ex pul. chritudine ſenſibili excitetur,quę optimaeſtomnium quæcunq hic ſunt. Optimum autem eſſe facile dabit is, quem non latuerit intelligi bilem pulchritudinem, cuius eſt Amor,indagancibus bonum obuia fieri: quippe quæ boni penetralia ingredientibus in ueſtibulo occur rat.Siigiturfuroramatorius tumexoptimis eſt,quodexcitatur ſen fibili pulchritudine:tum etiam opcimus, quoniam in pulchritudi nem intelligibilem dirigitur, huius autem patrocinium Veneri cri butumeſt, ut PLATONE inquit in FEDRO:quoniam dij alij alñs furori bus præſunt, Mulæpoetico, Apollo uaticinio, Myſterijs autem Bac chus: ſicúz Amor, qui Veneremcomitatur, pulchrorum dux puerorum, eorumſcilicet animorum, quos pulchriuehementer prouocat {pectaculü: quotuſquiſpambigat, perVenerempulchritudinem in. dicari: Nuncuerò quid ipſa ſit Pulchritudo uidendum eſt. Quod pulchritudo ſitex eorumnumero, quæmodum habēt qualitatis,uni cuiqué palàm eſſe poteft. Quòdautemmodum habeat eius qualita tis, quæ uidendifacultati obuia ſit,idquoqueperſpicuum puto.Nam &pulchritudo ſenſibilis ueræpulchritudinis fimulachrum ab una uidendi facultate percipitur. Ea uerò qualitasuiſibilis, quæ fecüdum ſuperficiemexcenta eſt,Colordici poteft. Quæuerò nullam patitur extenſionem, ſed temporis puncto ubiquediſcurrit, Lumen appella tur. Eft & alia qualitas uilibilis,quæ tanquam imago acflos ellenti alis perfectionis allicit rapítque in borum.Id igitur quodhabetmo dum eius qualitatis quæ uiſui obuia eſt, imago acfloseſſentialis per fectionis,alliciens rapiens in bonum,reuera eſtPulchritudo:quod que huius particeps fit,Pulchrum appellatur. Cæterum pulchritudi nieuenit,ut delicata,utiucunda,utamabilis ſit. Delicata,eo quodfe. quitur perfectionem eſſentialem.Iucunda,eo quòddelectat. Amabi. lis,eo quòd allicit rapita.Hincpatet,quàm hallucinationis coarguê dinon ſint, quiafferuntpulchrum à bono differre, tãquam extimum ab intimo.Eſto pulchrum omnebonum eſſe: neque tamen uiciſsim. Quid tum poftea.Num continuò ſequitur,bonum quidem genus ef ſe,pulchrūuerò ſpeciem? Alioqui& ſapiens,& iuftum, & perfecta &cetera generis eiuſdé,boniquo ipfius ſpecies eſset. Sapiensenim omnebonumeft,ficédecęteris: nõtamen uiceuerſa.Nūcuerò neck perfectum,negiuſtum, ne s fapiens boni ſpecies ſunt,alioquieſſent quoqſpecies unius. Simpliciſsimum enim optimúmg in idem cõſpi rant:non minúſą Vnius participãt omnia; quàmboni. Atquotuſ quisqaſſeruerit,unum eſſegenus,fiquidem genus totum eſt: totum uerò partibus obnoxium: Siigitur unum eft genus,non utiqueerit citra partes. Atuerò unumomnino &undequaque impartibile eſt, quemadmodum in Sophiſte declaratur. Sedagedum ſidetur bonum eſſegenus, quídnam id poterit:Nónneperfectio eſsentialisactuseſt: Quodexeo patere poteſt, quòdeſsentiæ beneficioomnia ſunt id ip ſumquod ſunt. Viuensuitæ beneficio uiuens eſt. Quo euenit,utuita uiuentis actus ſit. Animabeneficio motusanima eft: fed quocuſquif queambigat,motumeſse animæ actūł Ignis beneficio formæ ignis eſt. Tuncenim reuera eſtignis,cùm primūignis formamactu habet. Quis autem non uideat formam actum eſse ignis:Quoeuenit,utre Eta ratione dici poſsit, perfectionem eſsențialem actum eſse. Actum autem omnemeſse bonum,neminem inficias iturum puto, quando quidemi merito actus unicuiqz bonumineſt. Nónneignieſseignem; bonumeſt:Atquis ambigat per formam,quieſt actus, ignemeſſeig nēNónne quo anime eſſe animā,uiuęciéeſſe uiuens, bonüeſt: Ve rùmalterūbeneficio uitæ,altera beneficio motus, quorūutergeſta ctus,id euenire palàm eſt.Exñs patere puto, perfectionem eſſentialē bonüeſſe,uiciſsimo bonüaliquodeffentialem eſſe perfectionê.Quii gitur affirmat, pulchrumàbono differre, tanquam extimum ab inti mo,etſi nõibit inficias, fibonuminuniuerſum accipiatur, pofſe dari, gracia diſſertationis,idipſumgenus effe:contender tamen,fedebono uerba facere, non quatenus in uniuerſum ſimpliciter accipitur, fed quatenus particulare definituma eſt,ſuam præſe ferens duntaxateſ ſentialem rerum perfectionem. Atque id quidem affirmat recta ra. tione. Nampulchritudo ingenium modumýzhabens accidentis,re uera extimaelt,quodab ipfa rationeexploditur. Atperfectio eſfētia, lis, quam ſequitur pulchritudo, reuera intima:quod ex co aſseritur, quoniam unumquodąeſſentia conſtat. Hinc quidem uidere poſlu. mus,primā pulchritudinem neğz efle ideas,necin ideis. Ideas enim ab omniaccidentis ingenio procul eſſe perſpicuumeſt. Namipſum per ſeensin ideas diſtinctumeſt: quaſi Geometria in ſua Theorema ta. Quemautem lateat Theoremata non eſſe geometriæ accidentia: Sed ſubeft quærere,ubi nam&quo pacto lintideæ. Vtrumânt in eo,in quo ſunt,uel tanquam forma in materia, uel tanquamaccidés in ſubiecto, uel tanquam in caufa effectus, uel tanquam actus in eo quod perfici debet,uel-tãquam totum in toto,uel totum in partibus, uel pars in parte, uel parsiu toto.Fieri enim nequit,ut fecus in aliquo aliquid ſit. Namgenus &ſpecies totius partium (habent ingenium. An ex diuiniPlatonis fententia,ideas eſſe in ipfo perfe animalidicen dumeft:Namin Timäo aperta uoce aſserit,Opificem munditot for mas mundo exhibere,quot ſpeciesmensuideratin ipfo per ſeanima. li.ex quo patet, idearum diſcrimen in ipfo per ſeanimali primò eſse. Reliquumeſtutuideamus, quo pacto in ipſo per feanimali ſintidex. Anuelutiforma inmateria eſse nequeunt. Non enim per fe animal materia eſt, quando alterius beneficio noneſtactu. Sed neque tano accidens in ſubiecto. Quis enim contendat ideas eſse accidentia, quando idearum ſimulachra foliditateseſse perſpicuum eſt,utignis, & terra, & cætera generis eiuſdé:Non ſuntquoq tanquãin caufa effe. ctus, quandoquidemeſsentpoteſtate. Nücuerò ideæ acti funt. Quo modo autem eſse poſsunt tanquam actus in eo quod perfici debet? Namper feanimal uita ipfa,non ideis, tanquam actu animaleſt. At nequetanquam totum in toto, neque tanquam totum in partibuseſ ſe dicendum eſt. Non enim totum ſunt ideæ, quoniammultitudini ſunt obnoxiæ. Totumuerò unumeft. Nónneſi tanquam partemin parte  1 parte eſſe conMilanius, oportet quoque nos concedere, tam per ſea nimal,quàm ideas,alicuius totius partes eſſe: Atcuiúſnam pars fu eritipſum per ſe animal:Reftatigitur, ideas eſſe in ipfo per fe animali tanquamin toto partes. At id eft, quodin Timæodiuinus Plato fi bi uoluit,dicens Opificēmundi tot formas mūdo èxhibere, quot fpe cies mènsuideratin ipſo per ſeanimali.Quemadmodum enim forme quas mundo exhibuit mundiOpifex, continentur in mundo, tano in toto partes:ficetiam ſpecies, quas mundi Opifex eſt imitatus,in ip ſo per le animalicontineri pareſt. Abipſo autem per ſèuno procedit primò ens: quodintima functioneabfolutum, quæ uita dicitur,fit per ſeanimal. Vitaenim uiuentiseſt actus. Ipſum autem per ſeanimalui tæ beneficio cùm totum ſit, in partes quoce diſtribuatur neceſſe eſt. Totumenim& partes ſimul ſunt. Quapropteripſum per ſe animal quemadmodum habet exuitauc totū ſit,ex eadem quoqhabet,ut ſe ipſum diſtinguat in partes: partes aüt huiuſmodi ideæ ſunt.Ex quoli cetadmirari nõnullos:quicõminiſcunturideas aduenire extrinfecus ei in quo funt,tãquam actü informi naturæ. Quo genere peccarenul lummaius poſſunt, qui amant uideri Platonisftudiofi.Hecdiximus, nõſtudio quempiã laceſſendi (quod à uiro philoſopho alienum ſem per duximus) fed quoniam ſunt nonnulli, qui dum alteros auidius quàm decetinfectantur,nõ cômittuntutipſiiurenõ poſsint coargui. Nãduxnoſter Marſilius, etſi alicubi dicitideas excrinſecus accedere, Chriſtianis fortè quibuſdam adftipulatus:ubi tamen exactèrem Pla tonicam tuetur,longè aliter ſentit. Exhis quædicta ſunt patere arbitror, primā pulchritudinem non efle ideas, quemadmodumnonnulli ineptèaſſerunt. Sed neçetiam effe primò in ideisin præſentia declarandumeſt. Plato in Timæo di cit mundum eſſe pulcherrimum omniumquæcunq genita ſunt: eſse autemalicuius ſimulachrum, quodratione ac fapientia ſola compre, hendi poteſt:adhæcmundumpulcherrimum natura opus optimum que eſſè:effe, inquam, animal animatum intelligens.Ex quo intelli, gere poſſumus, de Platonisfententia,id exemplar quodmundiOpi fex eſt imitatus, tūanimal eſſe, tum etiã pulcherrimum. Quapropter pulchritudinem primò eſſe ipſius per ſe animalis,non idearum: nam ipſum per fe animal ideas antecedit. Adhæc, ſi pulchritudo exuberan tia quædamexterioreſtintimæ perfectionis: intimauerò perfectio ne ipſum per ſe animal fit: quis non uidet,ipſius per fe animalis prima pulchritudinēeſſe: Quomodo igitur idearu: Dehis tum paulo poft diſſerendūnobiseſt, tūetiã in libro de amore ſatis abūdediſſeruimus: Hactenus oſtenſum eſt, quid Venus ſignificet, quid ſit pulchritu do ubiſit.In præſentia uidendum eſt, nunquid pulchritudo materia ſitamoris,an potins finis.Nonnulli ſunt, quidicantde Platonis fen tentia,pulchritudinemeſſe materiam amoris. Nampulchritudo cau fa eſt amoris,non tanquam principium efficiens eius actus qui eſta mare, fed tanquam obiectum.AtueròſecundumPlatonicosactuum animæ animaipſa eſtefficiens:obiecta uerò ſuntmateria, circaquam actumillumproducit anima. Quaproptercum hacratione pulchri. tudo materia ſitamoris,propterea Venusdicitur amoris mater.Nam materiam eſſe tanquammatrem,efficiensuerò tanquam patrem,con tendunt Philoſophi. hæcilli ferèaduerbum. Sed non poſſum non uehementer admirari, quihæcproferunt in medium, uiri alioquigra ues &magni, &quos arbitror nihillatere potuiſſe, in his præſertim quæ pertinent adintegram caſtamos Platonis Ariſtotelisęzintelli. gentiam. Non ſolum enim quæ dicta ſunt,Platoni Ariſtotelicpug. nant, uerùm etiam pugnant &rationi, pugnant quoque&his quæ ab eiſdem alibidicta ſunt.Primò quidem Plato in ſextodeRep.libro dicit, fjs quæ intelliguntur inefleueritatem:intelligentiuerò ineſſeſci entiam,ueritatemcz intellectu percipi. Quo euenit,ut ueritasannexa ſit intelligibili:ſcientia uerò intellectui. Siigitur ita fehabet,quomo do ueritas ſcientiæ materia erit fecundùm Platonem:Veritas enim ſci entiæ longè præſtat:quod nulla ratione eueniret, fi materia eſſet. Ari ftoteles quomin undecimoRerum diuinarum, Expetibile, inquit, &intelligibile mouetnonmotum, quodalterumapparens, alterum reuerabonum eſt.Mouereautem nonmotūquotuſquiſque materię tribuerit:Etpaulo poft,Intellectus,inquit, abintelligibili mouetur. Intelligibile autemalter ordo fecüdum le. Addit&hoc:Mouet icaqz tanquamamatum. Ex quibusliquidò patere poteſt, expetibile intel. ligibilegs finis ipſius habere ingenium. Siitam expetibile &intelligi bile mouetut finis, pulchritudo autē expetibilis intelligibilisőseſt: quomodo materia eſſe poterit: At prima pulchritudo ſoli intellectui eſtobuia, quemadmodum oſtēſum eſt,cùm fitiplius per ſe animalis: eftetiamexpetibilis, quandoquidébonum quoddam eſt,bonum au tem quà bonum ſemperexpetibile.Poſſent &alia multa afferri in me dium,quibus oftenderetur de Platonis Ariſtotelisés ſententia obie ctum nõ eſſe materiam actuum animæ. Quæ quidem propterea omi fimus, quandoquidemijs, qui uel breuem deambulatiunculam cum Platone Ariſtoteleđß fecerint,notiſsimaſunt.Atuerò &rationi recla mat,obiectum ueluti materiãeſſe. Materia enim folet eſſe id ex quo ali quid fit.Nó fiūtaūtex obiectis animæactus,ſed potius funt circa obie éta. Quo euenit,ut obiecta materia eſſe nequeat. Adhæc bonüexpeti bileeſt, quandoquid exeo appetimus quodbonãelt: nõuiciſsimeſt bonüpropterea quòdexpetimus. Expetibile autē obiectõeſt,quo fit, ut bonum ut bonum obiectum ſit: Gaddas, obiectüeſſemateriam,bonum quoqs materia fit neceſſe eſt. At quaratione aſserendum, bonumipſummā teriam eſſe: Pugnantquoque fibiipſis.contenduntenim pulchrum à bono ſeiungi, tanğſpeciem àgenere. Quo fit, ut pulchrum boni ſpecies fit:bonum ueròde pulchro tanquamde ſpecie dicatur. Siigi tur pulchrum eſt bonum,bonumuerò materiam eſſenequit,quo pa eto pulchrum materiam eſſe dicendum eſt: Quapropter meaquidem ſententia aſſerendum non eſt, pulchritudinem eſſe materiamamoris, fed potiusfinem.Cui quidem ſententiæ Plato Ariſtoteleső adſtipu lătur. Verumfi pulchritudo ingenium habet illius, cuius gratia: quo pacto Amorem exoriridicendum eſt: Anubi primumcognoſcendi facultas,pulchritudinem utdelicatam, ut iucundam,utamabilem co probat,ſtatim uisappetēdiexcitatur.Appetitus enim cognitionem fequaturneceſse eſt. Dumigitur appetens exoptat ſibi adeſse ac per frui delicato, iucundo,amabili,utinde plenitudinem hauriat uolupta tis,eữactú circa pulchritudinem producit, qui appetere dicitur.Qui quidemreuera Amoreſtappellandus,hoceft,appetitus &deſideriū perfruendæ pulchritudinis.Huius deſiderñ efficiens cauſa,uiseſtap. petendi:pulchritudo illud,cuiusgratia. Quænam uerò materia ſit, in Socratis oratione declarabimus, exponentes, quid nobis per Peniam fit intelligendum, quam eſſematrem amoris affirmat Plato. Quod quidem euidens argumentum uideri poteſt, pulchritudinem non ef ſemateriam amoris.Nunquam enim dicit Plato, Venerem (quæ pul chritudinem ſignificat ) matrem eſse amoris, ſed potius amorem co, mitari ſequio Venerem,quippe quiVenerisipſius eſt,in Venerēms dirigitur. Quæ quidem omnia finis ſuntipſius, non materiæ. Nonnulliſunt, quidicant,quiſquis deſiderat, quodammodo poſsi dere id quod ab eodeſideratur: idq eſse deſiderācis uirtutis propriū. Adſtruūt autē hocipſum dupliciratione, tumquoniam deſiderium omne antecedête cognitione lubnititur (cognitio autem, quædã pof ſeſsio eſt) tum quóniam inter deſideransacdeſideratum congruentia ſemper ſimilitudo@intercidit.Fieri autem nequit, utidquod deſide. ratur,à deſiderante quodammodonon participetur. Alioqui nulla eſſet inter utrung congruentia, nulla ſimilitudo. Sed mea quidē ſen tentia cómentitiử hoceſt.Nã deſideransomne,quà deſiderans, cogni tione priuatur. Cuius rei indiciū eſt, quod ex antecedête cognitione deſideratquiſquis deſiderat. Quo fit,ut recta ratione uis deſiderãdi di catur cęca eſse,quippe àqua cognitio ſeiūcta fit,quæuiſio appellatur. Atfieri nequit,ut quicquid cognitione priuatur,non priueturetiã ea poſſeſsione,quęmerito fitcognitonis. Sed fortè dicent,nõ ficfeadui uum reſecare, ut uelint,deſiderãs,quàdeſiderans, merito cognitionis cognit habere quodämodo poffefsionem illius,quod delideratur: fed eadū taxatratione habere,qua cognofcit. Nosaūtenitemuroſtenderenec etiã cognoſcésqua cognofcēs,habere ali zrei cognobilis poſſeſsionē dūcognoſcit. Vtrūuerò id affequemur,alñ iudicabūt.Nobisſatis erit afferre in mediū,nõ quæ adeo premất alios,eospræſertim, quosuelu tinaturæmiraculū ſoliti ſumusadmirari:fed quę caſtūueritatis fecta torējaſsertoreo decere arbitramur. Quod quidem ſignumoboculos ſibi ſemper proponere debet, quicũceſt fapientiæ ſtudioſus.Côten dimus igitur,cognitionēnullo pacto eſſerei cognobilis poffefsionē. Nãcognitionem eſſe per modumuiſionis, nemo eftomniū qui rectè poſsitambigere. Cognitio.n.inipſum cognobile à cognoſcētedirigi tur, quafi in ipſum uilibile uifio.At poſſeſsio nullā habet cumuiſione affinitatem. Non enimqui poſsidet quodãmodo intuetur, ſedquali manu tenet,accöplectitur id ipſum quod poſsidetur. Quoeuenit, ut poſſeſsio potius ingenium fapiat tactionis. Siigitur cognitio uifionis imitatur naturam,poffefsio uerò non imitatur, quo pacto dicendum eft,cognitionem eſſe poſſeſsionem. Adhæc, uerum & bonūnonidē funt.Quod ex eo patere poteft,quòdnoneadē facultate percipiütur: In uerum dirigitur cognofcendifacultas,in bonūuerò appetendi. Ex ueriperceptioneaſseueratio certitudoớa reportatur:exboni poſſeſsi onecóplexu (uoluptas. Si igitur cognofcens, quà cognoſsēs quodā modopoſsideret, uoluptatisquo particeps fieret. Voluptas enim boni poſseſsionêcomitatur.Atuoluptas facultaté cognoſcentem no perficit,fed appetētem.Quapropterdiuinus Plato bonü noftrumin miſto quodã ex lapiétia uoluptate coſtituit: quarüaltera, id eſt,ſapi entia intellectum:altera uerò,hoceſtuoluptas, uoluntatem perficit. Sed de his infequentibus comulatiſsime agemus. Hactenus often ſum eſt, quicūą deſiderat,huncipsūnon poſsidere,necquà deſiderat, nec quà cognoſcit.In preſentia uerò declarandûeft,neclimiltudinem quoos poſseſsionem aliquo modo auteſse autdici debere. Quodreli quüerat ut adſtrueretur.Quæcun $ igitur fimilia ſunt,aut propterea dicuntur ſimilia, quòdcerto quodã tertio participent (cuiuſmodico, plura alba aut calida ſunt )aut quoniã alterü alteriſimileeſt,non tamé uiciſsim:quemadmodūuiuenti Socrati pictus autæneus ſimilis eſt, quãdo uiuentem Socratem quodãmodo imitatur. Nemo tamen pro pterea fanę mentis contendet,uiuentē picto auteneo ſimilē eſse. Quo genere,homo per uirtutes deo ſimilis fit,ut rectè inquit Plotinus.Sen lilia quoqhocpacto intelligibilib. ſimilia ſunt, quæ nihil cum eisha bentcõmune,niſi nomen. Quodquidem clara uoce diuinusPlatoin Parmenide Timæocz teftatur. Ex quo Ariſtotelis ratio contra ideas de tertio hominefacilè diluitur. Quæcũçaūt ſuntidonea,utrecipiãt, cuiuſmodi informis materia eſt, & cætera generis eiuſdem, fimilia & ipſa dici poffunt, tū ijs quærecipiuntur,tumis quæ efficiunt.Horum eniin be Inic enim poteſtas quædam ſimilitudo uidetur eſſe. Dicitur quo &effi ciens finiſimile, quoniã efficiensomne à fine mouetur: illius enim gra tia omnia ſunt. Vnde &ARISTOTELE in undecimo Rerūdiuiuarū,Ěx petibile,inquit, & intelligibile mouētnon mota:quaſi efficiens motu moueat. Quod paulo poſtexpreſsit,dicés: Intellectus ab intelligibili mouetur. lis itaq expoſitis,uidendū eſt, quopacto deſiderãs, ei quod deſideratur fimile eſt, cuius ſimilitudinem meritò fibi deſiderati inſit poſſeſsio.Non eſtigiturdeſiderásſimile eiquod deſideratur, quoniã tertio quodamparticipent. Alioquiutrunqz alteri pari ratione ſimile eſſet. Quod quidem ñseuenit, quæhoc pacto ſimiliaſunt,quando in tertio cócurrunt. Atdeſideras &idquod deſideraturita fe habent, ut idquod deſideraturno motūmoueat, deſiderãs uerò moueatur:Quo euenit,ut ſecus id, quod deſideratur, deſiderāti: ſecus autem deſiderás ei,quod deſideratur,ſimile ſit. Siigitur quæ cõcurruntin tertio, ſibi in uicem ſimilia ſunt:deſiderans uerò &id quoddefideratur non ſimili côditioneſimilia ſunt:quis ambigat,eadētertñ quoq nõ participare: Non ſunt quoqz ſimilia,eo quòd alterü alteri duntaxat ſimile ſit:alio, quiaut alterum alteriusſimulachrū imagóą eſſet,autfaltē imitaretur. Nuncuerò neutrūaut alterũimitatur,aut alterius imago exmplumue eft.Sed nec quoqeo pacto ſimilia ſunt, quo recipiensautei quodre cipitur,auteiunde eſt principiū motus ſimile dicitur. Neutrumenim recipientis habet ingeniū, quandoquidem alterum eſtran efficiens, alterútanſ illud cuiusgratia efficitur. Reſtat igitur, fi qua eft ſimilitu do,utdeſideras &id quod defideratur propterea fimilia ſint, quoniã id quod deſideratur tãğexperibile mouer:deſiderãs uerò eft efficiés. Quã quidē fimilitudinēnemoeſtomniã quidiſsimulet. Quis enim ambigat, inter finem atoßea quæ in finĉprogrediãtur, ſimilitudinem quandãaffinitatēc eſse:Quoenim pacto eo côtéderent, niſi aliquid inde reportarent, quod in uſumbonūĝz ſuum uerteretur. Sed hæc ſimilitudo cógruencia (znullădicit poſseſsionem. Nã propterea effici ens finiſimile eft, quod efficiésmoueri poteſt, finis aūtmouere.Poſse aūtmoueriadfinem,nulla finispoſseſsio eſt:finis enimpoſseſsio actu eft,poſse aūtmoueripotencia. Quomodo igitur huiuſmodi ſimilitu: do poſseſsionēdicit. Adhæc lidefideransratione ſimilitudinis ali quomodo poſsiderid quod deſideratur,id quidē actu eſse neceſse eſt. Quod aūtactu pofsidetbonū,habet quogiãactu &uoluptatē, quão doquidēactupfruitur. Quis aūt afseruerit,deſiderãs quà deſiderãs iã bono gfrui,diliniriq uoluptate:Nãdeſideriūmotio quædã uidetur, quãdo motionis pricipiūelt.Voluptasaŭt motionis terminus.Cõti getigitu ridē ſimulmoueri,acno moueri.Quod fieri nulla ratione po teft:Ěxhis perſpicuñeſse arbitror,deſiderãsminimèilliusparticipare ģddeſideratur.Verùmhæc paulo altiusrepetëda sūt. Omnia quæcũ queſunt, poft primūingenita cupiditate urūtur pociūdi illius: quip pe ex cuius poſseſsioneſuum cuique bonumineſt. Cupiunt autem quam uehementiſsime ſingulaſibibonumadeſle. Quidenim eſlea maret,niſiid fibi proforet: Appetentiauerò omnis ex cognitioneſus mit exordia. Fieri enimnequit,ut alicuius cupiditas aliqua fit, cuius non fuerit &cognitio.Hæcquidem cognitio no intelligencia eſt,non ratiocinatio,non opinio, ſiue cogitatio,nõ ſenſus aliquis, ex his quos particulares uocamus,fed longèhæcomniaantecedit. Singula enim ftatimquàmfunt, intimoquodamnatiuoç ſenſu præſentiunt, in au Ctorem,unde uenerunt,libieſſeproperandum, indebonumuberri mèadfequutura.Hicquidem ſenſus, quem Intimū Naturęgsappella mus,principiūeſt, quo mūdusintelligibilis in uită intelligēciāõpro cedat.Nãuita intelligentiaõ progreſsioeftin bonū.Progreſsio aūtin appecētiã reducitur. Quofit,utappetētiauitæ intelligentiæis princi piūſit. At appetētia omnis cognitione fubnititur. Quapropter cùm nulla prior cognitio fuerit, quàmea, quamūdus intelligibilisſtatim, quàmeft,præféntit ex auctore ſibi bonūadfuturū (quem ſenſumInci mum uocamus)ſequens eft,ut inhunceundem uitaintelligentiáque reducatur.Pari pacto de animadicendum eſt. Namhic ſenſusperpe. tis illius motionis ratiocinationis & ipſiusauctor eſt. Vnde& Iambli chus,cætera quidēdiuinus, in hocaūtuerè diuiniſsimus.Effentie, in quit,animæ ipfiusingenitaquedamineft deorum cognitio,omniiu dicio melior,antecedens electionem,ratiocinationem, demonſtrati onem omnem: quæ quidem interexordia inhærens in propriam cau fam,coniúcta eſt cumeo animæappetitu,qui ſubſtantificus bonieft: Plotinus quo @ aſserit,omnia naturæ opera eſſe Theoremata,quip pe quæex intima quadã naturæ cognitione orta ſint.Hoc fenfu &ele menta in propria loca feruntur.Vnde &illi, meaquidem ſententia, audiendinonſunt, qui ñſdem tribuunt appetitum in ſua loca proce dendi,adimuntuerò cognitionem appetitus huiuſmodi principium, quaſi abextima intelligentia dirigantur.Namfieri nequit,utextima fit cognitio,appetitusuerò intimus. APPETITVS enim cognitionem fequitur, eiuſdemqz rei eſt cognoſcere & appetere. Huncienſum ue. teres Magiobſeruauere, hincopera ſuæ arcis feliciſsimè auſpicantes. Hunceundem in hymno naturæ Orpheus quietum acline ſtrepitu appellauit. Quippe in quemnoncadaterror, quando nulla indiget ope externorum, fed totus in boni quaſi uiſionem incumbat. Qua propter mea quidemfententia, quemadmodum concupiſcendiira ſcendió cupiditas ſuã habet ſentiendi facultatē,electio uerò ratiocinā dig atintelligédi facultatē uolūtas, quibus nitătur (alioquin he quidé quod reuerabonüeſt,illęuerò qa bonūuidetur,nequico deſiderio cöplecterentur) fic & cómunisrerü omniūappetitus,quo in bonum dirigūrur, ſuāhaberecognitioné (quë nature ſensűrite nücupamus) ġd bonü præſentiatur,neceſſe eſt.Hecquidēcognitio quéadmodūnā 1 eſtbonipoſſeſsio (alioqui nunquam in bonum progreſsio fieret ) fed potius poſsidēdi principiū:pari ratione neccæteras cognitiones,pof ſeſsiones eſſe dicendüeſt, ſedprincipia uias@ potius in poſſeſsionem. Quo fit,utrecta rationedici nequeat,AmoremPulchripoſſeſsionem habere,quòdantecedête cognitioneſubnicatur, quaſicognitio ſitpof feſsio quædam. Quomodoautemnon folùm Amor, fed appetentia omnis,media ſitinter idquodbonum eſt,atquenonbonum: quidper Porum, quidper Peniam Amoris parentesdiuinus Plato ſibi uelit, in Socracis oratione uberrimèenitemur oſtendere. Hactenus declarauimus Pulchritudiném eſle Amoris finem, non materiam: declarauimus quoqs Amoremnullam habere pulchritu dinis poſſeſsionem, quemadmodumnõnulli comminiſcuntur. In præſentia declarandum eſt,quænam, qualésque pulchritudines ſint. Quoquidem declarato, uidebimusquinam, qualéſoamores ſint. Fi eri enim nequit,utcitra pulchritudinem ſit Amor. Vbiigitur fem per pulchritudinem fequitur, non ſolùm totidem eſſe amores, quot ſunt puichritudines, pareſt: uerùm etiam expulchritudinisingenio amoris eſſencia,uires, opera ſuntæſtimanda. Sediamrem ipfamag grediamur. Rerum genusunumintelligibileeſt, ſenſibile alterum. Rurſus intelligibile in partes duas diuiditur, in clarum ſcilicet &ob. {curum.Intelligibile clarum dici poteft, quod ſuapte natura obuiam fit intellectui,necalio adnititur; cuiuſmodi funt ideæ fiuemundus in telligibilis, ac liquid aliud tale eſt, quod non indiget adminiculout maneat. Obfcurumuerò intelligibile,quod nonnili in claro intelligi bili apparet: cuiuſmodi mathemata ſunt, quæ habent in ideis quic quid participant firmitatis.B, rõrinus Pythagoricus in eo libro, qui de Intellectu cogitationem inſcribitur, Cogitatio, inquit, intellectu ma ioreſt,ſicut & cogitabilemaius intelligibili. Intellectus enim ſimplex eft,citra compoſitionem, id quod primò intelligit:huiuſmodi autem ſpeciem dicimus:eftenim citra partes, citra compoſitionem aliorum primum. At cogitatio tummultiplex eſt, tum partibilis,id quod fe cũdo intelligit:ſcientia enim demonſtrationeớ nititur. Simili ratio ne ſe habentipſa cogitabilia. Hæcautē ſunt ſcibilia demonſtrabilia ipſac uniuerſalia, quę ab intelle &tu per rationem comprehenduntur. Ex quibuscolligere poſſumus, intelligibile clarum per illud ſignifi cari, quoddicitur, fine partibus,fine compoſitione aliorum primum. Obſcurūuerò per illud, quod dictur, Scibile, demoſtrabile, uniuer ſale. Nam cogitabilia omnia, cuiuſmodi ſunt obſcura intelligibilia, ipfacemathemata,non attinguntur quafi recto quodamintuitu, quê admodum euenit claro intelligibili:fed per rationem, & quandam,ut fic dixerim,ab ideis declinationem acdeſcenſum. Suntautē mathematare uerafluxus eorum generum,quæcuque rèentiintellectuíçinfunt, intelligibilium, idearum imagines, ex empla ſenſibilium,eandem habentia ad ideas comparationem,quam habétumbræ &imagines in ſpeculis aduera corpora,quę& àcorpo ribus profluunt, & in eiſdem,& beneficio eorundem, ſenſui fiuntob uiam.Sicutig &mathemata funt ab ideis, &in ideis apparent, & i, dearum beneficio habéntfirmitatem. Sicuti autemipſuminelligibile in clarumobſcurū < diuiditur: eodempacto &ſenſibile in clarum ob ſcurūgs diuidendum eſt.Senſibile clarūdicitur, quodprimò acrecto quodamtramite ſenſui fit obuiam, quodą ſuapte natura opinabile eſt, utcælum,ut elementa, & reliqua corpora naturalia. Obſcurum uerò, quod,etſi ſub ſenſum cadit,pendet tamen ex corporenaturali tū quatenus fit,tumetiamquatenusapparet. Hæcſunt corporum natu ralium imagines ac ſimulachra, quæ & à corporibus naturalibus pē dent, &citra eadem ſtatim dilabuntur, necſenſuifiuntobuiam. Hu iuſmodi autemſunt umbræ in aquis, in ſpeculis @ imagines. Addunt Syneſius &Proclus, eſſe quorundam corporum naturalium profu uia,ad certam intercapedinem integrum feruantia characterem.Quę nõambigunt mirisquibuſdã machinis à Magis impetiſolere, fiquã do quenquam perderein animo éſt.Hæc cùm & ipſa ſimulachraquæ damſint ſub obſcuro illo fenſili collocari poſſunt. Architas Tarenti nus in eo libro,cuide intellectu & ſenſu titulus eft,quæcunqdicütur eſſe, in pares ordines gradusi diſtinxit, afcenſum fieri uoluitàde, terioribus ad meliora, quippe in quibus deteriora comprehenderē tur.Diuinus quoạPlato in fexto de Rep. declarat,quatuoreſſererű gradus, qualeſas ſintä animænoftræ uel habitus uel facultates, qui. bus uniuerfam illam rerum diſtributionem cognoſcimus.Quæom nia non erubuit ab Archita ad uerbum ferè mutuari. Quodquidem ös,qui aliquando legerint Architæuerba, luce clarius patere poteſt. Sed magnacontrouerſia eſt,in quonam rerum ordineanimaipſa col locari debeat, quicß de ea contempletur. Nam ſi in mentemani mæ præſtantiſsimum intuemur,noneftcurhæſitemus intelligibilis generiseſſe ac diuini.Contrà uerò ſi cæteras facultates penlitemus, rė rum naturalium ordini adſcribemus. Sinuerò utrūos ſimul,necinter diuina cõnumerabimus (quodomnino à motu materiaớ abhorrēt ) necinter ea,quæ naturalia ſunt, quandoquidem ſupra fenfilia non af cendunt. Mensautem genus ſenlibile longè ſuperat. Themiſtius in ter Peripatecicos nõ poſtremæ auctoritatis dat manus extremeratio ni: proindecs contendit, animæ ipſius, quaſimedijgeneris ſit, media quoơſciệtiãeſſe,cuiuſmodi ſuncdiſciplinæ. Anobisuerò lögè abeſt, ut credamus, cã eſſe mentē Ariſtoteli, utnaturalis intellectü contēple tur. Quid enim eo illuſtrius eſſe poteſt,quodin ſecüdo de Animadir ctum &umeft:Intellectus fortè diuinum quiddameſt &impatibile. Quin etiam nihil prohihet,inquit,partem animæ aliquam ſeparari:liquidē nullius corporis actus eſt.Præterea & illud:deintellectu autemnon dumpalàmeſt,namuidetur aliud genusanimæ eſſe időzſeparari,tan quamæternumà caduco. In primoautem de partibus animaliumex erta uoce ait:Naturalemphiloſophum non de anima omnidiſſerere, quandoquidem non omnisanima natura eſt.Et in fecundo de Gene ratione animalium,folam mentemextrinfecus accedere,eamąfolam diuinam eſſe, cùm eiusactio no communicet cumactione corporali. Præterea in quinto Rerumdiuinarum (quêpleriq falsò fextum au tumant, fi credimus Alexandro Aphrodiſixo) Naturalis, inquit,ip. ſius eſtnon omnemanimam contemplari,ſed quandam,quæcunque non ſine materia fit.Etinundecimo eiuſdem operis, cum de Deolo queretur: Vita,inquit,poteſteſſe optimanobis,f ed breui. Sicenim femper illud:nobis autem fieri nequit. Ex quibus intelligi poteft,ex fententia Ariſtotelis contemplationem de intellectu ad facultatem naturalem non pertinere. Proinde aliam quandamſcientiam eſſe, quæanimæ ingenium contempletur. Diuinusquoque Plato anima ipſam, quando ſeparabilisæternacpeſt,ſub eflentia concludit.Proin de intelligibilis generiseſſedubitandum non eſt.Quòdfiquis obříci at Timæum Platonis,in quo multa de animeingenio differuntur,cui nihilominus de Natura tituluseſt:nosutią quemadmodum non dif fitemur elle princeps eius dialogi uotum, naturę opera contemplari: ficquoqzimusinficias, quçcungibicótinentur,naturam effe.Multa enim præ ſe fertilledialogus, quæ naturæ ingenium longè fuperant. Nectamen continuò commiſcerimateriasobrjciendum eſt. Fuite nim operæ precium de iis etiam fieri meditationem, quorumopus, & organum natura eſt. Huncautem eſſe diuinū opificem,diuinamą. animam, PLATONE afferit.Ex his perſpicuum eſt,rationalem animam ge neris intelligibilis effe,non quidem obſcuri, quemadmodummathe. mata ſunt:fed talis potius,cuiuſmodimūduseſtintelligibilis.Nãani marationalis necalieno indiget adminiculo,utmaneat, & fuapte na tura intellectui fit obuiã. Eftenimuera & abſoluta participacione, quicquid per femūdusintelligibilis eſſe dicitur. Verūtamen animad uertendum eſt,animam propterea à mente declinare, quòduergitin corpus. Quo fit,ut tumſui ipſius,tumalterins dicatur eſſe,ut rectèin quitProclus. Siquidem ipſius, quòd eſſentia ſeparabilis æternáque eſt:alterius autem, quòdin corpus propenſa,eſſentiam uitāçcorpo ri impartitur. Hinceuenit,utalteram quãdam animã producat: cu ius ope molem agitetacregat. Hæcanima irrationalis appellatur, quæſoligenerationi deſeruit, plena ſeminum earum rerum, quæ cunque cum materia commnicandæ ſunt. Hæc in præſentia de animafatis ſint:Namin fequêtibus eius philoſophiam uberrimècon. templabimur. Ergo animam rationalemègenere intelligibili,irratio nalemuerò èſenſibilieſſe aſsèremus. Quod etiam PLATONE SIGNIFICAVIT IN TIMEO, appellans animam irrationalem mortale animæ genus; mortale autem omneſenſui obnoxium eſt. In plenum colligere poſ ſumus,ſub claro intelligibili animamrationalem, ideasý, hoceſtin telligibilem mundum,quamprimam quoộmentem,primumens,ac perſe animalappellant:ſub obſcuro uerò Mathemataconcludi.Cla rumuerò ſenſibile complectiir rationalem animam, complecti & om nia corpora naturalia, cælum,elementa, quæibexhis coaleſcunt,ani malia,plantas,& cætera generis eiufdem. Obſcurum uerò imagines in fpeculis,umbrásque in aquis, & fiqua ſunt alia id genus. Adhęc & ea profluuia corporum naturalium,de quibus paulo ante mencio nemfecimus. His ita perſpectis,dicendumefttotidem eſlepulchri tudines, quot rerum ordinės ſunt. Quapropter eſſe pulchritudinem intelligibilem,effe quoqj & ſenſibilem. Rurſusa intelligibilempul chritudinem tumdarameſſe, tumobſcuram. Claramquidem, tum quæmundiintelligibilis eſt,tum etiam quæeſtanimæiplius.Obſcu ram uerò eam effe, quam in mathematis contemplari poſſumus. At ſenſibilem pulchritudinem cum animæ irrationalis fiue naturæ, tum etiam corporum naturalium eſſe dicimus: quamquidem claram ap. pellamus.Quęuerò imaginümumbrarumã eft, & fiquaſuntalia id genus obſcuram appellari par eſt. Ergo pulchritudo mundiintelli gibilis reuera cæleſtis acdiuiua eft appellanda, cuinihil non elegans admiſcetur, nonconcionum, undequaqcompofita, undequaqfibi ipficonfentiens. Anime quoq rationalis pulchritudo coeleſtis acdi. uinadici poteft:quæ tantum abeft,utmateriæ ſordibus immiſceatur, ut etiam cumprima pulchritudine ferè coniuncta ſit.Atueròpulchri tudo tumirrationalisanimæ, tumetiam corporum naturalium,non fine materia eſſe poteſt. Anima enim irrationalis ſuapte natura circa corpora diuiduaeft, ut Plato inquit: undeuulgarisacplebeia pulchritudo meritò appellatur, quòdhabet cum materiacommerci um. Siigitur duo pulchritudinisgenera funt,cæleſte ſcilicetacplebe ium:coeleſtisautem pulchritudo uniuerſum intelligibile complecti tur, ſiuemundi intelligibilis ſit, ſiue mathematum,ſiue animæratioria lis: plebeia uerò univerſum ſenſibile: totidem quoq eſse amorumge nera neceſse eſt. Quapropter amor,qui cæleſtis pulchritudinis eſt,& ipſequoc cæleſtis:qui uerò plebeiæ pulchritudinis,plebeius & ipfe nuncupabitur. Sed agedū, exquifitius uidédữelt,quomodo Àmorcircà pulchri tudinauerfetur.In ſuperioribus declaratum eſt, Amoremeſse appe. 1 titum. titum deſideriumộ pulchritudinis. Pulchritudo enim bonum quoddameſt:bonumautem omne expetibile. Quo fic,ut pulchritu, do uim moueat appetendi.Huius autemactus circa pulchritudinem amorappellatur.Primusigitur acperfectiſsimus amor, circa primam pulchritudinem uerſatur:quæ in ipfo per feanimali primùm appa ret,ut pauloante dictum eſt. Sedquomodo primus amor circa pri mampulchritudinem uerſatur:An non ſolumin primam pulchritu dinem incumbit,ut inde particulam hauriat uoluptatis (qua uis per ficitur appetendi)uerum etiam principium eſt, quo in eadem ellen tia mundi intelligibilis aliquid pulchrūconcipiatur: Hoc autem ni hileft aliud, quàm pulchritudinem mundiintelligibilis, quæ tano ſpectaculum intellectui fitobuiam, in eodem concipi permodum ſe minis acnacuræ. Huiuſmodi autem conceptus, eius facultatis uis eſt, per quammundusintelligibilis extra ſe pulchritudinem poteft effi cereEx. quo perſpicuum eſt, Amoremeffe principium producen di,quæcunq diuinam pulchritudinem imitantur. Nam fieri nequit, utpulchritudinis ſemina producant extrinſecus pulchritudinem,ni. fi & ea quoqproduxerit, in quibus apparet pulchritudo. Quapro pter integra abſolutacz amoris definitio eſt,ut defiderium ſit non ſo lùm perfruendæ,uerum etiam effingendæ pulchritudinis:ut in hoc quoqàquouisalio diſcrepet appetitu,quòd cæteriduntaxaruolup tate contenti ſint, quam hauriantex boni poſſeſsione, hic autem ada datetiam efficaciam.Pari ratione de anima dicendumeft, in qua cùm fituera participacio pulchritudinis,uera quocß Amoris parcicipatio fit neceſſe eſt. Amorigitur in anima, qua pulchritudine perfrui con cupiſcit,eandem affectateffingere permodum ſeminis ac naturæ,cu, ius eſt imago. Natura ueró animæ rationalis inſtrumentum (quam ſecundam animam appellant)habetab anima ſuperiore pulchritudi nem:fed &ipſa per modum feminis. Quandoquidemper hanc ani marationalis componit uerſatớp materiam, in qua pulchritudo per modum ſpectaculi apparet.Meritò igitur in anima gemini ſuntamo res:alter, qui eius pulchritudinis eft, quam anima à mundo intelligi bili mutuatur:alter uerò qui in eam pulchritudinem dirigitur, quæ per modum ſeminis in natura fecundamanima effulget. Hicquidem amoraffectans ſeminariam pulchritudinem, transfert in materiam pulchritudinis illius participationem, quandopulchritudinis ſpecta culum in ea anima effingerenequit. Exquo amorhuiuſmodi totius generationis re uera principium eſt. In omniautem anima rationali geminus uiget amor. Namubi ſecundùm eſſentiam æterna eſt, cor pus habet & ipſaſempiternum, quod uita donec: in quo explicet fuæ pulchritudinis imaginem. Anima enimquàanima,uicam alicui exhibere debet:quo fit, cùmfemper animafit,uitam quoc alicui ſemper exhibeat. Idautem eſſe corpusneceſſeeſt.Cuienim alteri,nificorpo ri,uitamexhiberepoteſt:Acid corpus,cui uita ſemper exhibetur, ce leſti conditione participare dicendum eſt. Quapropter anima om nis rationalis,habet corpus æternum, quod Vehiculum appellant, cuiſemper uitam imparciatur.HæcquidēProcliſententia eſt. Quan quamPlotinus & lamblichus credantpoſſefieri, utanima noftrae. tiam quandoơ ſine corpore fit. Sed dehis alibi latius. ARISTOTELE quo in fecundo libro de Generatione animalium, Omnis, inquit, animæ ſiueuirtus, ſiuepotentia, corpus aliquod participare uidetur, idő magis diuinum,quàmea quæ elementa appellantur. Ex quibus uerbis colligere poſſumus,Ariſtotelem cenſuille, cum animaradio nalialiquod effe corpus,quod cælo proportione reſpondeat. Quod etiam Themiſtius in ea paraphraſi, quam in primum librumde A nimaedidit, de mente Ariſtotelis affirmat. Quapropter in omni ani. marationali geminus eft amor. Quorum alter pulchritudinemin telligibilem,alter ueròſeminalem explicare in corpore materias af fectat. Quo euenit,utinanima omnirationali,cæleftis ſit amor,lice tiam & plebeius. Habet & alia ratione utrun amorem animano ſtra.Nam liquando ſenſibilis pulchri ſpecie excitata præcipitatina moremexplicandorum feminum,proindeq pulchro illo potiri im potenter affectat,ut pulchram ſobolem in eo progeneret,plebeio a moreoccuparidicendumeft. Rapit enim deorſum implicatớ ani mamgenerationi huiuſmodiamor. Quod quidemanimæ maximu malumeſt. Atuerò fieodem pulchro nonadgenerationem, ſed ad contemplationem utatur,quaſihuius beneficiodiuinæ pulchritudi nisreminiſcatur, quis ambigat,amore diuino incendir Quandoqui dem in diuinam pulchritudinem reuocatur, unde facilis in bonum eítaſcenſus. Quo fit, ut hic amor ſummopere laudandus extollen á dusclit: ille uerò ſummopere uituperandus. Declaratumeft, quid Venusſignificet: declaratum quoque quid fit pulchritudo, ubi fitprimò, ubi deinceps: quòdpulchritu do noneſtamorismateria,fed finis: quòd nonelt idex, necin ideis: quòd amor nullam habet pulchri poſſeſsionem, ſed potius mer dium tenet locum inter pulchrum atque non pulchrum: quod to. tidem ſunt amorum genera, quot pulchritudinum: quòd pul chritudo omnis ad cæleſtem plebeiámque reducitur, quo fit ut amor partim plebeius, partim cæleſtis ſit: quòd in omni ani. ma rationali utrunque amorem ſit inuenire, in noftra autem duplici ratione. In præſentia uerò reſtat, ut diuiniPlatonis fer e uc uc moneminterpretemur.Pauſanias apud Platonem laudaturus Amo rem,improbat Phædrum, quodliclaudarit,quali unus ſimplex (pa mor,atą is rectus honeſtusõpeſſet. Quoniam uerò non unus ſim plexoelt,oportet,inquit, declarare nos prius, quot ſunt Amores, quis laude dignus, quis minimé.Eftautem laudedignus,qui bonus & àbono,& in bonum. Qui uerò necbonuseſt, neqz à bono, neq; in bonum:tantum abeſtutlaudari debeat,ut etiam uituperatione ſit di gnus. Qui uerò cauſa eſt maximorum bonorum,hunc ipſum bonū effe,nemoeſtomnium qui ambigat. Contrà uerò, quimaximorum malorum cauſaeſt, nónne &ipfemalus eſt putandus. Quapropter illé reuera laudanduseſt,quibonorumnobis auctor eſt. Contrà ue rò ille uituperandus,à quo nobismala eueniunt. Videndum igitur primò,quot ſunt amores. Amor,inquit, femper Venerem comita tur. Quapropterfi una eſfet Venus,unus &Amor utique eſſet. At quoniam duo ſunt Veneres, altera cælo nata, fine matre quę cæleſtis Venusdicitur: altera uerò,quæ Plebeia nuncupatur, ex loueac Dio ne progenita: propterea duos eſfe Amores neceſſe eſt. Quorū alter.cæleftis eft, illeſcilicet, qui cæleſtem Venerem: alter uero plebeius, qui plebeiam comitatur.Dux,inquit,Veneres ſunt,hoceft,duo pul chritudinis genera:ut Plotinum,alios omittamus. NamPlotinus putat, Venerem eſleipſam animam. Nosautem oſtendimus interex ordia ſermonis huius,ex his quæ à Platone dicuntur in Phædro, Ve nerem nihil aliud, præter pulchritudinem, ſignificare. Cui quidem ſententiæ Hermias Ammonius adftipulatur.Namin Phędro,ubiex ponit illud Platonis, Furoris amatorñ patrociniū tributum eſſe Ve. neri,apertè dicit,Venerem SIGNIFICARE pulchritudinem. Sed Hermiæ auctoritas contra Plotinum afferendanoneſt. Satis autem mihi ſit, poſſe ex Platonis ſententia probabiliratione defendere,Venerem ef ſe pulchritudinem. Quod quidem etiam obnixè contenderem, ni magnus Plotinus meremoraretur. Tantum enimei uiro tribuendű cenfeo,utexiſtimem, huncipſum primo longè eſſe propiorë quàm tertio, fiue is ſitNumenius Pythagoræus,fiue lamblichus Chalcidæ us (quem inter homines deum facit Iulianus Imperator) ſiueſitmag. nus Syrianus,quem Proclus non ſecus acnumen colic. Ergo dug Ve neres, hoceſt, duo pulchritudinis genera ſint: quarum alteramdi cit Cælo natam finematre:alteram louis Dionesof ſtirpem. Vetus eſt dogma(cui Plotinus, quiğz Plotinum ſequuti ſunt,Porphyrius, Amelius Longinusadftipulantur) tria effe rerü omnium principia, Perſeunum,Mentem, Animam.Aperſeuno eſſe Mentem, quam uocant Mundumintelligibilem, à Menteeſſe Animam, ab Anima uerò uniuerſum ſenſibilem mundumprocedere. Per ſe unum rebus elargiri unitatem: Mentemſiue mundum intelligibilem elargiricon ftantiam:Animamueròmotum. Rurfus,per ſeunum quandoque Cælumappellari, Mentemuerò Satúrnum, Animam louem. His itaqz conſtitutis,poſſumus dicere,E Cælo,hoceft, ex primo rerum omnium principio, quodper ſe unumdicitur,natameffe Venerem, ideſt,primam pulchritudinem, quæprimò in ipſo perſe animali ef fulget. Natam,inquam,exipſo per reuno, quoniam intellectus fiue ipfum perfe animal, in quoeſt prima pulchritudo,ex ipſo perfe uno prodïjt.Natam porrò ſinematre,quoniam proceſsio huiuſmodi nul Ioantecedente indiget fubiecto, quemadmodum rebus naturalibus euenit. Prodit enim ſecundum à primo, per fimplicem quandam proceſsionem (ſicuti lumen à Sole prodit ) eius potentia totaeft. in producentis uirtute. Quo pacto dicimus &animam ab intelle ctu, & materiam ab anima prouenire. In toto hocproceſſu concin git, ſex rerumordines obſeruare. Ipfum per fe unum, Mundumin telligibilemn,Animam ipſam,Naturam animæ inſtrumentum, Cor pusMateriam,. Infra autem noneſt deſcenſus. Vnde & Orpheus, In ſexta, inquit, progeniecantilenæ ornatum finite. Quod ctiamin Philebo uſurpat diuinus Plato.Poteft &alia ratione, acnondeteri ore fortaſſe, Veneremdici Cælifiliam eſſe. Namin CRATILO dictum eſt,Cælum efle aſpectum in fuperiora intuentem: Saturnum purita tem intellectus: Iouem uerò uiuentem, & perquemuita, ita ſcilicet, atis aſpectus, quo mundusintelligibilis per fe unum intuetur, Cæ. lumappelletur: is uerò, quo ſeipſum uidet, Saturnus, quali lit pura intelligentia, in ueritatem incumbens: Iupiter uerò ſit Mundusin telligibilis,quatenus uidet feextra feipſum participabilem eſſe.Qui quidem dicitur mundi opifex, quandoquidem mundi principium eſt.Quo euenit, ut recta ratione tum uiuens dicatur, tum etiam per quemuita. Viuens quidem, quoniamprincipium eſtefficiendi. Ac uero per quem uita, quoniam fingula ſuum hinc habent efficiendi modum. Is igituraſpectus, qui in ſuperiora intuetur, merito in eum ſenſum reduci poteft, quem naturæ paulo ante appellauimus.Qui propterea Cælum recta ratione dicitur, quandoquidem principi umeſt, quo per fe bonum ſingula præfentiant. Huius quidem Cæ li Venusfilia dici poteſt: quoniam pulchritudo intelligibilis, quæ cæleſtis Venus eſt, hinc habet originem. Nam hicſenſus princi piumeftuitæ. Quo fit, ut etiam ſit principium pulchritudinis. Pul chritudo ením uitam fequitur,ut dictumeft. Eft autem fine matre: quoniamnondummateria erat, quæmaterappellatur: quando pri mapulchritudo longè materiani antecedit. Plotinus uidetur àdi uino Platonediſſentire,qui dicit, Veneremcæleftem Saturni ſtir pem, fo pemeſſe.Putat enim Veneremeſſe animam,quæ àprimo intellectu procedit.Sed hęchactenus de cæleſti Venere.Nuncuerò de plebeia agendűeft.Plato dicit,plebeia Venerem louis acDiones ſtirpē eſſe, afferens habere matré,quãCæleſtis Venusnon habebat. Iupiter ſig nificatMundianimā, quemadmodūpatet ex his,quædicútur in Phę dro.Magnus uciądux in Celo lupiter,citans alatū currum,primus incedit,exornans cuncta,prouide diſponens. Huncſequitur deo. rumdæmonumą exercitus,per undecim partes ordinatus. Solà autem in deorumædemanec Veſta.Ex quibus uerbis palàm effe po teft, louemeſſemundi animam. In Philæbo quoque dicit Plato, In magno loue eſſe regium intellectum, eſſe & regiam animam: lig. nificans,mundi animam tumuninerſaliintelligentia,tumetiam uni uerſaliuita præditameſſe. Ergo Iupiter mundi anima eſt; ſecun, dùm Platonem. Dione autem Materia dici poteſt. Anima enim quælupiter appellatur,mundumproducere debet. Mundusautem materia indiget. Quo fit, ut mundo neceſſaria ſit, non quidem ſim pliciter,fed ex ſuppoſitione.Námſidomus fieri debet, talis aut talis materia fit neceffe eft. Vnde &Ariſtoteles materiam appellauit ner ceſsitatem ex ſuppoſitione. Plato quoqiri Timæo dicit; mundum ex mente &neceſsitate,id eft, ex materia eſſe conſtituium: quaſi ma teria neceſſaria fit. Si igituranima mundum producere debet, mà. teriam quo producat neceſſeeſt. Quo euenit, ut Dionérectara tiónė diči poſsit: quandoquidemand trüdros, hoceſt,à loue trahit ori ginem. Eft itaque plebeia Venus,louis Dioneső filia:quoniam ſe minaria naturæ pulchritudo tum pendet à mundi anima, cuius eſt inſtrumentum ad generationem, tum etiam materiam mundo ne. ceſſariam reſpicit: quæ propterea amat eſſe mater, quòd ſuopte in. genio gremium eſt formarum omnium. Dicitur autem plebeia; quandoquidemi cūſenſu materias commercium habet. Quod enim àmateria ſeiungiturubi, ueritatis participat, cæleftem diuinámque conditionem præ fe ferre credendum eft. Ergo cùm duæ fint pul chritudines,diuina fcilicet,ac plebeia, duo quoque Amores ſint ñes ceſſeeſt. Amor enim femper pulchritudinem ſequitur. Diuinæ pul chritudinis Amor diuinuseſt: qui non folùm diuina pulchritudi: ne perfrui affectat, uerùm etiam hanc candem exprimere per mo dum feminis. Plebeiæ pulchritudinis amor&ipfe plebeius. Hic autem principium eſt generationis, quando pulchritudinem ini materiaper modum ſpectaculi exprimere nequit, citra formarum omniumexplicationem: Sed ambigi poteſt,quo pacto dictum ſic, quot ſunt pulchritu dines, totidem efle Amores, Nónne pulchritudo finis Amoris eft: is At vero quid prohibet, fi finiseſtunus,ea quæ ſuntgratia illius,mul taelle: Sicut etiam nihil prohibet, exemplar unum eſſe, multa ue. rò quæreferuntexemplar. Vnus enimHercules eſt: Herculisautem imagines complures. Vnde&illud Platonis in Timæo in contro uerliam trahitur,propterea, inquit,munduseft unus, quoniamex emplar unumimitatur. Nam ſiunius exempli multæ imagines eſſe poflunt,quomododictum eſt mundum propterea unum eſſe,quo. niam exemplar unum imitetur: Ariſtotelescùm uellet oftendere, Mundum eſſeunium,ex tota ſua materia conſtitutum effedixit. Edli enimaliudmundus eft,aliud ſua mundo eſſentia: non tamen conti nuo euenit,ut uel plures fintmundi,uel plures contingat fore: qua. ſi ſpecies, quæ fit in materia, femper amet eſſe uniuerfale. Suntau tem plura ſub eadem fpecie, quæcunque ſibi ſuæ materiæ aſſumunt particulam:ut equus,utleo, & fi quaſuntalia generis eiuſdem. At ueròquæcunqextota materiafua conſtant, hæc quidem ſingulain ſingulis funt.Exhisautem mundus eſt. Dehisabundèin primo li brodeCælo agitAriſtoteles. Vnde colligere poſsumus,materia copiam,multitudinemindicare ſingularium.Quod etiam in undeci. moRerumdiuinarumclara uoce dictum eſt. Verumenimuero de claremus primò diuinum Platonem rectè dixiſse, qui aſseruit in Ti. mæo,mundumpropterea unumeſse, quòd exemplar unum imita. tur.Deinde declarandum nobis eſt, totidem efse Amores, quotſune pulchritudines.Tametfi pulchritudo finis eſt Amoris. Plato igitur oftenſurus,muudum eſse unum,non ex eo oftendit, quòdmateria eſtuna (quemadmodum Ariſtoteles fecit ) nec.exco, quòdmundi eſsentia in corpus unum occurrat,ficut Stoicicomminiſcuntur. Aut enim ſolus,aut maximèuſus eſt præcognofcente cauſa,quemadmo. dum inquit Theophraſtus.Nam mundum eſse unum, acceptumre. fert exemplaricaufæ. Sienim exemplar unum, opifex unus,neceſse eft & mundum eſseunum. Nam opifexunus dum perfectiſsimèexo primit exemplar unum, omnes exprimendi numeros impleat ne ceſse eſt. Alioquinon perfectiſsimèexprimeret. Huiuſmodi autem expreſsio nonniſi in uno perfectiſsima eſt. Si enim multa eſsent, quæ perfectiſsimè exprimuntur, quid prohiberet, in infinituma bire: At aſserere, ab uno opifice infinitos eſse mundos, ſtupidi omnino mancipñ eſt. Non eft igitur dicendum, multa eſse quæ perfectiſsimè exprimuntur. Sed neque etiam aliud alio eſse perfe ctius, quandoquidem perfectiſsimum obuiam fieret. At fi uel plu. ra, uel exquiſitius in perfectiſsimo continentur, nónne cætera fu perfluent:Quaproptermeaquidem ſententia, rectè adſtructum eft. Si exemplareſt unum, opifex unus, neceſse eſt &mundum eſseu num. Acexemplareſſeunum, opificem unum, facilè oftendi poteſta Sienim multa exemplaria eſſent,autæquè perfecta dixeris,autaliud alio ex his præſtantius. Fieri autem nequit, ut æquè perfecta fint, quandoquidem ſingula ualerent idem. Quo euenit, ut unum fatis ſit. Sin autem aliud alio perfectiuseft,nónne in id,quod eſt præſtan tius,ſemper opifex intuebitur unde & cætera nulli uſui fuerint. Si. mili ratione de opifice adftruendum. Quapropter recte dictumeſt à diuino PLATONE, Mundum propterea unum eſſe, quòd exemplar unumimitetur. Quo fit,ut facillimè ea ratio refutari poſsit, quæ co nabatur oſtendere,non continuòmundumeſfeunum, quòd exem plar unumimitaretur:quando uidemus,exemplaris unius multa ſi mulachra eſſe. Namomnino fierinequit, utmulta ſimulachra exem plarisſint unius, ſi ſit opifex unus, ifíp perfectiſsimus: cuiuſmodi mundi opifex eſt.Nam multitudo fimulachrorum,autex opificis de bilitate: autex multitudine uarietateof fic. Quòdfiobijcitur, ani marum ideameſleunam, opificem unum, huncés perfectiſsimum: complures tamenanimaseſſe. Adhæc,leonis autequi, & fiqua ſunt generis eiufdem, ideam eſſe unam, complura tamen quæ ideam i plamimitentur. Nos ad hæcreſpondeamus,non eſſe animarum om nium ideam unam, proinde nec exemplarunum. Sed fingulas ani mas, ſingulas habere ideas. Vnde & animæ omnesrationales, de Pla tonis fententia,fpecie differunt. Quodetiamſenliſſe Ariſtotelem non ambigimus. In his,inquit,quæ ſunt ſeorſumà materia, idem res ipfaeft,& fuum rei eſſe. At intellectum ſiue rationalem animam ſe orſum eſſe,ſecundùm Ariſtotelem facilè dabuntij, qui multis in lo cis Ariſtocelis uerba attentè legerint. Themiſtius in tertio libro de Anima dicit de mente Ariſtotelis, intellectum illuminantem eſseu num, illuminatosuerò aclubinde illuminantes complures. Quoe. uenit,uttum multi ſint,tum etiam ſpecie differences. Quapropter & animarum diſcurſiones, & uitæ, ſpecie differunt: ſicut etiam &cor pora. Sedde his alibi latius agendum eſt. Satis eſt auteminpræſen tia declaraſſe,animarum omniumnon eſſeideam unam. Soluitur & alia ratio.Nam propterealeoniseftidea una, exemplar unum, par ticipatus uerò mulci:quoniam idquodexprimit in materia, non eſt unum ac perfectum,ficutimundiopifex unus perfectusoz eſt. Con currunt enim dij mundani, & cælum ac cauſæ particulares, ad i pfam rerum generationem. Quod etiam Ariſtoteles clara vocete ſtatur,dicens, ab homine & ſole hominem generari, Hactenusdeclaratum eft, liexemplareſtunū, quo pacto id, quod exemplarimitatur,unumeft, quo pacto contingitmultitudinem in cidere. Nuncuerò reſtat,ut eirationi reſiſtamus, qua adftruitur, non elle totidem Amores, quotpulchritudines, propterea quòd concin git finemeſſeunum:complura uerò, quæ illius gratia ſunt. Nampul chritudò finiseft amoris. Dicimusigitur, id quod habetrationemfi nis,expetibile effe:atqzidquod reueraomnium finiseſt, reuera quo que acmaximèexpetibile. Quapropterquoniamper ſeunum &per febonnmomnium eſt finis,reuera & primòab omnibus effe expe tibile. Vndeapud Ariſtotelem legas,bonumid efTe, quodomnia ap petunt. Significatur enim idquodab omnibus, fed pro ſua cuiuſque facultate,expetitur,eſleid,quodreueraac primò bonumeſt. Cum itaqs expetibile moueat appetitum, ubi plura expetibilia ſunt, toti demeſſe appetitus generaneceſſe eſt. Appetitus enim ſemper expeci bile ſequitur,eiuſdem eftutrunqß contemplari; quaſi natura con iuncta lint.Vbiuerò unumexpetibile, appetendigenusunumquo. queſitoportet. Quo fit,cùm unum idem's omnibus commune bo, numſit, unum quoqlıtomnibuscommuneappetendi genus.Om nia enim ſibi bonumadeffe cupiunt:cuius gratia agunt, quicquida gunt. Atqz ita in cunctis unum eſt. Præter autem id bonum,quod cùmprimòbonumſit, omnibusadeſt, ſuntalia & bonorum genera, quorumſuus cuiuſeftappetitus: cuiuſmodi pulchrumeft, cuiuſ modiiuſtī, & fi qua ſuntgeneris eiuſdem. Rectè igiturà diuino Platone dičtum eſt,totidem effèAmores,quot ſunt Veneres. Venus énimpulchritudo eſt:amor autem pulchritudinis deſiderium. Cum igiturduæ ſint pulchritudines,altera diuina accæleſtis,altera plebe. ia ac ſenſui obnoxia: ſintóshæc genera duo expetibilium:neceffe eft, totidem quoq; effe appetendigenera,qui duo ſuntAmores. Atque ſicmea quidem fententia fortèmelius, quàm quibus uiſumeft, pul chritudinem Amoris eſſe materiam. Ex his ratio illa facilè diffolui tur.Adftruitenim polito appetibili uno, contingere, ut complures illius fint appetitus. Cui quidem manus dandæ ſunt, non tamen continuo pluraelle appetendi genera: quod quidem adſtruendum érat. Nam pulchritudo fi unafit, etſi nihil prohibet inultos illius Amores efle, unum tamen fuerit amandi genus. Quoniam uero duæ pulchritudines ſunt, duoquoq amandi genera ſint neceffe eſt. Acą hanc ego exiſtimo ueriſsimam diuini Platonis ſententiam èffe: arguimerito, quòd Amorum alterum cæleftem, alterum ple bcium appellauit:quoniami altera pulchritudo diuina ſeparabiliság dicitur,altera plebeia,accumimateria communićañs: quali ex inge nio appetibilis appetitus ipſe ſitæſtimandus. Hactenus de his amoribus tranſegimus, quiomnibus animis inſunt, ſiue hæ deorum ſint, fiue dæmonum, ſiue illius generis, quodcorpus caducum ſibi induit, cuiuſmodi hominum animę funt. Nunc uerò ñ amores ſunt expediendi, qui propriè hominum dici poſſunt,ſiuenos rapiant in generationem, ſiue in diuinam pulchri tudinem reuocent. Atqui ſenſibilis mundi huius pulchritudo, intel ligibilis exemplarisógillius eſt imago. Huius quàm ſimillima eſtcu iufuis hominis pulchritudo. Anima enim omnis rationalis totius inanimati curam habet: ut in Phædro dictum eſt. Quofit,utquaf: cung ſpecies ſortiatur, ſiue deorum uitam uiuens, ſiue cæleſtem ac dæmonicam,fiuecorpus terrenum, elementarech nacta, totius ſem per ingenium præ ſe ferant. Quapropter compacta mortali corpori, etſi uideturanguſti carceris miniſterio detineri, omnem tamen in eo explicat uniuerſi facultatem, quaſi ubicunqz ſit uniuerſum produs ctura. Ex quo ueteres Theologi hominem paruum mundumap pellarunt. Fieri enim nequit,quando anima omnis eft uniuerſum,. quin profuo efficiatingenio, ubicunq efficit. Hinc legas apud Pla tonemin primo libro de Legibus, hominem eſſe miraculum quod. dam diuinum,in animantium genere, fiue ludo ſeu ſtudio quodam à ſuperis conſtitutum. In ſeptimo quoc eiuſdem operis, Deus, in quit, omni beato ſtudiodignus eſt:homo uerò deiludo eſt fietus.Ex quibus uerbis colligi poteſt, hominem habereomnia in numerato, quæcunqmundus ipfe habet. Nampropterea dicitur dei ludo con ftitutus,quoniam ueluti Simia deum ipſum imitatus, fuo quodam modo fit uniuerſum. Siigitur hæcitafe habent, quis ambigat,homi-. nis pulchritudinem ipſius mundi pulchritudinis quàm ſimillimarn effe: Quicuno itaq; huiuſmodiſpectaculo delectatus, in Amorem declinat generationis, hic plebeio amore detineri iure dicitur. None nim obaliud quæritaffectató pulchrum,niſi quoniam credit ſepol fe in co generationem conſummare. Amator autem talisaggreditur, quodcunqobtigit,ſiue mas ſit, ſeu fæmina. Fæminãquidem, quoni amhocinſtrumentū neceſſariū eſt ad generationē.Fieri enim nequit, utcitra fæminam generatio abſoluatur. Fæmina enim ſi credimus Ariſtoteli, materiçuicem gerit:Eſtenim fæmina mas lęſus, utillein quit. Marē uerò,quoniã quandoquſą adeo inſanit, uſą adeo impo tenti uoluptate delinitur,ut credat ſeibi generationé conficere pofle, unde ſummum hauriat uoluptatis. Quofit,ut cecus omnino in pudo. rem temere graſſecur. Amatautēcorpus magis quàm animữ. Quan. doquidéanimus diuina res eſt,diuino amoreprofequenda. Ille uerò iã totusà diuino abhorret. Quo fit,ut corpus magis probet uolupta tū miniſteria exhibitură. Amatquo & potius ſinementehomines, prudentes.Quoniam non facile eft prudentes decipere, qui mente ualentacnitunturratione.Noneftautem conſilium, ea incommoda in præſentia recenſere, quçtalesamatores ſuis amatis adeffe cupiunt. Quidenimaliuddiu noctub cogitant,niſiquo pacto ualeant uolup tatem explere: Vndeſiamatipauperes fuerint, ſine neceſſarös, ſine clientelis,lineamicis,adheline omnianimi cultu, cuiuſmodi ſuntdi ſciplinæbonarumartium, ſinequibus nemo uirmagnus eſle poteft, denią fine diuina philoſophia, quæ homines facit prudentiſsimos, miruminmodum gaudent,quafiex calamitatibuseorum ſuam felici tatem auſpicaturi.Quapropterimprobandi,reiciendi,inſectandig ſunt,tanquam maximèpernicioſiac noxij, quippequigenus huma nummaximis detrimentis,bonisuerò nullis afficiant. Quid igitur mirumfi legibus cautum eſt,nullo pacto uulgares amatores audien dos eſſe, quaſi impudenti ſsimiiniuſtiſsimiĝzlint: Huiuſmodi igitur ac fimilium affectuũauctoreſtilla ſenſibilis pulchritudo, quam Ve neremplebeiam appellat Plato. Trahitenim, utdictum eſt, rapitớs animamadcorpora (quodanimæmaximummalumeſt ) niſi optimi morešdiuiniacobftet philoſophia,cuius beneficio ueritatis partici pamus. Atuerò ſipulchritudo ſenſibilis ſit inſtrumentum addiuină pulchritudinem, Venuscæleſtis rectè dicitur:affectusõz ille,qui cir ca hancuerſatur, Amorquoq cæleſtis iure appellatur. Prouocatau tem ad diuinam pulchritudinem,non fæminæ pulchritudo,ſed ma ris. Amatorenim diuinus,cùm probè nofcat fæminamgenerationi deſeruire, in mareuero generationem expediri non poſle, abhorreat autem penitusà generatione (quandoquidem totus in diuinum in hæret)fit utiqz maſculæ pulchritudinis & fectator adeò &admira tor: quippe qui pulchro uti amet,non tanquam in quo explicet ſemi nalem pulchritudinem (quemadmodum euenit plebeio amatori) fed tanquam inſtrumento, quo in domeſticam pulchritudinem, ac tumdeinde in diuinamattollatur. Probat autemnon pueros adhuc mentis expertes,fed adoleſcentes, quimente ualere iam cceperint. In certum eſtenim,an pueri uirtute præditi futuri ſint. Ille autem in pri mis uirtutem, optimum (Banimi habitum admiratur. Ergo adole ſcens ubi furentem amicumcontemplatur, quàm omni uirtutum ge nere abundet,non minus obferuareac colere debet, in omne oble quium paratiſsimus,quàmdeorum immortalium ſtatuas colendas cenfet. Scit enim cumeo diuinum ad omnetempus habitare: proin de nihil aliud fibicogitandum efle,niſiquo pactoualeatomneuirtu tumgenus explicare,utdiuino amatore dignus amatus & uideatur & fit.Hactenus Pauſaniæ ſermonem explicaſſe ſatis erit. Nam quæ dicunturde Ariſtogitonis &Harmodñjamicitia,quæíz deuarijsa mandi legibus, tum apud Græcos, tumetiam apud Barbaros, expli canda alijs relinquimus. Nobis enim ea duntaxat proſequi conſi liumeft,quæuideanturadPhiloſophiam pertinere.  Eros non è nato né immortale né morta-  le, ma nello stesso giorno, ora fiorisce e vive,  se vi riesce, ora muore, per poi risuscitar, di  nuovo.   (Diotima a Socrate)   Sigmund Freud, nella creazione della psicoanalisi, dette un rilievo assolutamen-  te centrale alla sessualità; per essere più esatti le pulsioni sessuali, o libido, poi  eros, rappresentarono uno dei cardini portanti sui quali ruotò la metapsicologia  freudiana, nonché la ricostruzione delle dinamiche intrapsichiche e relazionali  nelle loro manifestazioni patologiche e non. Tutto questo è risaputo. È anche  noto che al riguardo Freud si richiamò ripetutamente all'eros di Platone.  L'obbiettivo di questo contributo è di sondare brevemente in quali forme e con  quali significati egli si riallacciò alla concezione del filosofo greco, se i richiami  risultano giustificati sul piano storico e filologico, e infine se fu la lettura dei te-  sti platonici a suggerire a Freud determinate valenze dell'eros; dunque se vi sia  una "paternità" platonica della rinomata concezione della sessualità freudiana.  Vi sono due indirizzi principali rispetto ai quali Freud si appoggiò a Platone,  che segnano al contempo due delle più importanti vie della concettualizzazione  della sessualità: l'una concerne la sua estensione sul piano delle dinamiche psi-  chiche; l'altra la sua trasposizione sul piano biologico, a sua volta articolata in  due filoni. Seguiamo la partizione freudiana.  Lo scudo del "divino Platone"   In Massenpsychologie und Ich-Analyse, scritto e pubblicato, il concetto di libido, e con esso l'estensione della sessualità in esso presupposta, è diret-  tamente ricondotto a tutto ciò che rientra nell'universo semantico della parola  Liebe\ ove Liebe va dal «Geschlechts-liebe mit dem Ziel der geschlechtlichen  Vereinigung» fino all'amore per le «abstrakte Ideen» Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, in Gesammelte Werke, Libido ist ein Ausdruck aus der Affektivitatslehre. Wir heifien so die als quantitative Gròfie  betrachtete - wenn auch derzeit nicht meBbare - Energie solcher Triebe, welche mit ali dem  zu tun haben, was man als Liebe zusammenfassen kann. Wir meinen also, dass die Spra-  che mit dem Wort "Liebe" in seinen vielfàltigen Anwendungen eine durchaus berechtigte  Zusammenfassung geschaffen hat, und dass wir nichts Besseres tun konnen, als dieselbe auch  SOLINAS Difendendo tale operazione dallo «Sturm von EntrUstung» che sollevò, Freud si  riallaccia direttamente a Platone:   Und doch hat die Psychoanalyse mit dieser "erweiterten" Auffassung der Liebe nichts  Originelles geschaffen. Der "Eros" des Philosophen Plato zeigt in seiner Herkunft,  Leistung und Beziehung zur Geschlechtsliebe eine vollkommene Deckung mit der Liebeskraft, der Libido der Psychoanalyse, wie Nachmansohn und Pfister im Einzelnen  dargelegt haben. Diese Liebestriebe werden nun in der Psychoanalyse a potiori und  von ihrer Herkunft her Sexualtriebe geheifien. Il tono essenzialmente difensivo del richiamo a PLATONE emerge in modo ancor  più esplicito nell'immediato prosieguo:   Wer die Sexualitat fllr etwas die menschliche Natur Beschàmendes und Erniedrigendes  halt, dem steht es ja frei, sich der vornehmeren Ausdrucke Eros und Erotik zu bedienen.  [...] Ich kann nicht finden, daB irgend ein Verdienst daran ist, sich der Sexualitat zu  schamen; das grìechische Wort Eros, das den Schimpf lindem soli, ist doch schliefllich  nichts anderes als die Obersetzung unseres deutschen Wortes Liebe 4 .   Considerazioni analoghe, e con la stessa identica intenzione difensiva, aveva  svolto del resto Freud l'anno prima, nella nuova prefazione ai tanto celebri  quanto discussi Drei Abhandlugen zur Sexualtheorie, quando ricordava a tutti  coloro che lo accusavano, indignati, di "Pansexualismus": «wie nane die erwei-  terte Sexualitat der Psychoanalyse mit dem Eros des gSttlichen Platon zusam-  mentrifft» Per individuare i dialoghi platonici cui si riferisce qua Freud vi sono due  elementi principali: i suoi precedenti richiami al Simposio e il rimando ai saggi  di Nachmansohn e Pfister. Quest'ultimo, nel suo brevissimo Plato als Vorlàufer  der Psychoanalyse presenta una panoramica complessiva dell'eros nel Simposio delineandone la convergenza con la libido e la sublimazione freudiane Nachmansohn nel suo Freuds Libidotheorie verglichen mit  der Eroslehre Platos, pubblicato fin dal 1915, aveva del resto già mostrato che   unseren wissenschaftliche Erorterungen und Darstellungen zugrunde zu legen». Tutte le ope-  re di Freud sono citate dai Gesammelte Werke (d'ora in poi GW), Chronologisch geordnet,  Frankfurt am Main. Assoun, Freud, la filosofia e i filosofi, Roma 1990, p. 177  [ed. or. Freud la Philosophie et les Philosophes, Paris 1976] commenta: «L'Eros platonico è  la forma originaria di quella sintesi che la stessa psicoanalisi promuove attraverso il suo con-  cetto di libido ».   4 Ìbidem.   5 S. Freud, Vorwort zur vierten Auflage, Drei Abhandlugen zur Sexualtheorie, GW, voi. V, p.  32, rimandando anche qui a Nachmansohn.   6 Cfr. O. Pfister, Plato als Vorlàufer der Psychoanlyse, «Internationale Zeitschrift Air Psychoanalyse, qui p. 267 sg.: nell'ascesa erotica descrìtta da Diotima si  ritrova «ciò che Freud chiama sublimazione.nel Simposio, ma anche nel Fedro e nella Repubblica, era contenuta una conce-  zione dell'eros equivalente a quella psicoanalitica, sia quanto all'estensione se-  mantica sia quanto al concetto di sublimazione 7 . Le coordinate testuali entro le  quali si inscrivono i richiami freudiani sono dunque rappresentate da questi tre  dialoghi. Quanto al Fedro, Freud stesso avrebbe di lì a poco adottato -  tacitamente - la metafora del cavaliere quale emblema dell'utilizzo da parte  dell'Io dell'energia erotica dell'Es 8 , rielaborando così l'immagine della biga  alata richiamata da Nachmansohn 9 . Quanto alla Repubblica, citata da Freud in riferimento al sogno 10 , è stato scritto molto rispetto alle  affinità con la concezione psicoanalitica (in parte intuite da Nachmansohn) 1 a  cominciare dalla idraulica dell' epithymia, alle modalità di gestione repressive e  sublimanti del desiderio, all'analisi dell'emersione onirica 12 ; tale questione ci  allontanerebbe però dal nostro tema perché più che di paternità sembrerebbe qui  trattarsi di anticipazioni; veniamo dunque al Simposio e cerchiamo di capire se  l'estensione freudiana vi trovi effettiva corrispondenza.   Nel discorso di Socrate-Diotima - ove è contenuta la concezione che può  esser considerata rappresentare quella di Platone -, l'eros si configura anzitutto  quale forza sessuale in senso stretto, riproduttiva: è in virtù di eros che uomini e   7 Cfr. M. Nachmansohn, Freuds Libidotheorie verglichen mit der Eroslehre Platos, «Interna-  tionale Zeitschrift filr Àrztliche Psychoanalyse.  Platone «anticipa» la concezione della libido e la concezione della sublimazione di Freud:  l'eros copre infatti tutte quelle manifestazioni che vanno dall'istinto di conservazione»  alI'«amore per la scienza. Freud, Das Ich und das Es, GW, voi. XIII, p. 253; Id., Nette Folge der Vorlesungen  zur Einflihrung in die Psychoanalyse, GW, voi. XV, p. 83. Sulla paternità platonica dell'im-  magine cfr. tra gli altri A. Kenny, Meritai Health in Plato 's Republic, in Id., The Anatomy of  the Soul, Bristol and Oxford 1973, pp. 1-27, in particolare p. 12; W. Price, Mental Conflict,  London and New York 1995, p. 188.   9 M. Nachmansohn, op. cit., p. 77 sg., si richiama alla «Vernunft» quale «Lenker der Seele»  rimandando direttamente a Fedro 254 a e 247 d, ovvero ai passi del mito della biga.   10 Sui richiami a Repubblica, cfr. S. Freud, Die Traumdeutung, GW, voi. II/III, p. 70 e p.  625, entrambi aggiunti nel 1914, e Id., Vorlesungen zur Einfuhrung in die Psychoanalyse,  GW, voi. XI, p. 147.   1 1 Cfr. M. Nachmanoshn, op. cit., p. 82: «Die Sublimierungstheorie Freuds fìndet sich schon  ausfuhrlicher bei Plato und "der Staat" bringt noch eine noch auszubeutende padagogische  Lehre, um die Sublimierung des Eros in die Wege zu leiten».   12 Cfr. ad esempio W. Jaeger, Paideia, voi. Ili, Berlin 1947, pp. 74-8; K..R. Popper, The  Open Society and its Enemies, London 1 966*, voi. I, p. 313; C.H. Kahn, Plato's Theory of  Desire, «Review of Metaphysics» XLI, 1987, pp. 77-103, soprattutto p. 83 sg.; A. Kenny, op.  cit., p. 1 1 sgg.; A.W. Price, Plato and Freud, in C. Gill (ed. by), The Person and the Human  Mind, Oxford 1990, pp. 247-270, soprattutto pp. 261-3; J. Lear, Open Minded, Cambridge  1998, p. 10 sg. e p. 108; M. Stella, Freud e la "Repubblica": l'anima, la società, la gerar-  chia, in M. Vegetti (a cura di), Platone, La Repubblica, Napoli 1998, voi. HI, pp. 287-336.  Ho cercato di affrontare alcune di tali questioni in M. Solinas, Unterdriickung, Traum und  Unbewusstes in Platons «Politeia» und bei Freud, «Philosophisches Jahrbuch» 111, 2004,  pp. 90-112. animali «sentono il desiderio di generare (yevvav è7tt0i)u/n,o-Tj)» (207 a). Il con-  cetto viene quindi "esteso", sì da risultare il fondamento di ogni tipo di amore,  come emerge nella celebre ascesa erotica: se il giovane all'inzio «deve amare  (èpfiv) un determinato corpo», poi «bisogna far sì che divenga l'amante  (èpaornv) di tutti i corpi belli, e che allenti la veemente passione per uno solo»,  in modo da poter amare «la bellezza ch'è nelle psychai», esser «indotto a con-  templare il bello che è nelle istituzioni e nelle leggi», nelle scienze, fino alla  contemplazione della bellezza in sé (210 a-c) 13 . Così, il giovane che «è stato  educato nell'eros (npòq xà èpamKà naiSaycoYtiGfì) fino a questo punto» (210  e) giungerà alla conoscenza; è perciò grazie alla forza dell'eros che si può giun-  gere alla philo-sophia (210 d). Platone si riallaccia così alla precedente defini-  zione della philosophia quale desiderio (epithymia) erotico per la sapienza di  cui si è privi (200 a-e).   In sintesi, l'eros, volto originariamente alla procreazione sessuale, grazie  alle corrette modalità pedagogiche adottate a livello extrapsichico, mostra di po-  ter essere modellato, plasmato intrapsichicamente, "sublimato" utilizzando il  linguaggio freudiano, sì da trasformarsi da forza sessuale in forza amorosa, in  eros-philia o Liebestrieb come potremmo dire 14 . Da questo punto di vista la  vollkommene Deckung quanto a Herkunft, Leistung und Beziehung zur Geschle-  chtsliebe tra eros e libido individuata da Freud (come da Nachmansohn, Pfister  e più tardi da molti altri commentatori) 15 si rivela sostanzialmente corretta;  sebbene la convergenza - sul piano ontologico e filosofico-antropologico - non  debba essere spinta oltre i confini posti dallo statuto di Eros quale «demone me-     13 Seguo la traduzione di G. Calogero, Platone, Il Simposio, Roma/Bari 1946.  '4 Freud attribuirà paritariamente a Goethe e Platone una concezione aitine a quella della su-  blimazione in S. Freud, Goethe-Preis 1930, GW, voi. XIV, p. 549: «Den Eros hat Goethe  immer hochgehalten, seine Macht nie zu verkleinern versucht, ist seinen primitiven oder  selbst mutwilligen Àufierungen nicht minder achtungsvoll gefolgt wie seinen hochsublimier-  ten und hat, wie mir scheint, seine Wesenseinheit durch alle seine Erscheinungsformen nicht  weniger entschieden vertreten als vor Zeiten Plato». Già A.E. Taylor, Platone. L 'uomo e  l'opera (1926), trad. it., Firenze 1987-1990, p. 327 sg. e pp. 349-59, pur accostando l'eros  all'amore cristiano ne ribadiva l'originaria forma «sessuale» ed «istintiva» di «desiderio  bramoso».   15 Tra i tanti crìtici si veda ad esempio E. R. Dodds I Greci e l'Irrazionale, Firenze 1997, p.  264 sg. [ed. or. The Greeks And The Irrational, Berkeley/Los Angeles/London 1951] che  commentando il Simposio scrive: «Platone qui si avvicina molto al concetto freudiano di libi-  do e sublimazione». Nello stesso senso va G. Tourney, Freud and the Greeks, «History of the  Behavioral Sciences» 1/1, 1965, pp. 67-85 e p. 80 sg.; H. Marcuse, Eros e civiltà, Torino  1964-1967, pp. 226-7 [ed. or. Eros and CMlisation. A Philosophical Inquiry into Freud, Bo-  ston 1955-1966], scrive che l'ascesa rappresenta una «sublimazione non repressiva»; M. Ve-  getti, L'etica degli antichi, Roma/Bari 1994, p. 137 sg., senza rimandare a Freud, scrive che  nel Simposio si tratta di «eros sublimato». diatore» (cfr. 202 c sgg.), e dal legame, invero assai significativo, tra desiderio  erotico e bellezza, originario in Platone, derivato in Freud 16 .   In conclusione, la paternità storica della concezione freudiana della libido  quale estensione o ampliamento della sessualità spetta di diritto a Platone. Con  paternità però in questo caso non si deve pensare ad una influenza diretta del  pensiero platonico su Freud; la teorìa della libido infatti, sia quanto all'adozione  del termine (latino), che rìsale ai primissimi testi di Freud 17 , sia quanto al mo-  dello di funzionamento che ne permette la sublimazione, anch'esso di antica da-  ta 18 , non sembra infatti esser stata suggerita dalla lettura dei testi platonici. Re-  sta invece il fatto che Freud poteva legittimamente farsi scudo dell'autorità del  "divino Platone", e questa era in verità la sua primaria intenzione, di fronte  all'indignazione ed alle proteste sollevatesi da più parti contro la sua teoria che  attribuiva all'eros si grande rilievo pressoché a tutti i livelli della vita psichica,  rinvenendo nell'antico filosofo greco un precursore. Platone levava ancora una  volta alta la sua voce, questa volta a difender però la potenza 'positiva' di  un'energia psichica, l'eros, per tanti secoli temuta quanto bistrattata, anche in  suo nome.   Il discorso sulla "paternità" dell'eros assume invece un'altra direzione ove si  prenda in considerazione l'estensione della libido o dell'eros al piano biologico;  con ciò veniamo al secondo significato attribuito all'eros.     II. 1 due suggerimenti del «Simposio»   Jenseits des Lustprinzips, scritto e pubblicato nel 1920, segna una tappa fonda-  mentale per la psicoanalisi perché in esso Freud inaugura la nuova concezione  dualistica delle pulsioni di vita e di morte (che qui tralasciamo), attribuisce ad  entrambe carattere "regressivo" (1), e adotta una concezione per cui la pulsione  sessuale, o libido, o meglio Eros, riportato sul piano cellulare, viene identificato  quale forza che «alles Lebende erhalt», garantendone la potenziale immortalità  (2).   1. Quanto al carattere regressivo o funzione di riprìstino attribuito (anche) alle  pulsioni sessuali, Freud richiama esplicitamente «die Theorie, die Plato im  Symposion durch Aristophanes entwickeln làBt»: l'ipotesi esposta nel mito,  scrive, «leitet nàmlich einen Trieb ab von dem Bedùrjhis nach Wiederherstel-     16 Cfr. ad esempio Freud, Dos Unbehagen in der Kultur, GW, voi. XTV, p. 441 sg.: «Einzig  die Ableitung aus dem Gebiet des Sexualempfìndens scheint gesichert; es wàre ein vorbildli-  ches Beispiel einer zielgehemmten Regung. Die "Schoneit" und der "Reiz" sind ursprttnglich  Eingeschaften des Sexualobjekts».   17 Cfr. J. Laplanche e J.B. Pontalis, Enciclopedia della Psicoanalisi (1967), trad. it., Ro-  ma/Bari 1997 , voi. I, p. 320 sg. [ed. or. Vocabulaire de la psychanalyse, Paris 1967], per cui  il termine «lo si incontra a più riprese nelle lettere e nelle minute indirizzate a Fliess e per la  prima volta nella Minuta E (data probabile: giugno 1894)».   18 Cfr. ivi, voi. II, pp. 618-21. lung eines fruheren Zustandes»^ 9 . Egli sintetizza il mito ricordando che antica-  mente v'erano i tre generi del maschio, della femmina e dell'androgino, in cui  tutto era doppio finché Zeus non si decise a tagliarli in due, per citare infine:   Weil min das ganze Wesen entzweigeschnitten war, trieb die Sehnsucht die beiden  Halften zusammen: sie umschlangen sich mit den Handen, verflochten sich ineinander  im Verlangen, zusammenzuwachsen [...] 20 .   Freud rinviene dunque nel mito arìstofaneo, legittimamente, un modello che  soddisfa proprio quella condizione che egli cerca di soddisfare, ovvero la fun-  zione della pulsione sessuale di ripristinare uno stato precedente, di raggiungere  una meta antica 21 . Con ciò abbiamo una dichiarata ammissione di paternità sto-  rica dell'eros quanto al suo carattere regressivo.   2. Quanto all'eros "che conserva", Freud, sempre discutendo il Simposio, non si  richiama più direttamente ad Aristofane bensì al Dichterphilosoph 22 ; questo  sembra un indizio della sua consapevolezza perlomeno del fatto che nel mito a-  ristofaneo il discorso sulla separazione originaria concerne esclusivamente la  natura umana (cfr. 189 d; 193 c), l'eros non ha la valenza biologico-universale  attribuitagli da Freud (che ora vedremo), concezione che si ritrova invece pie-  namente nel discorso di Socrate-Diotima. Egli sembrerebbe dunque coniugare  parallelamente le sue due nuove concezioni attribuite all'eros e i due discorsi  del Simposio: il ripristino grazie al mito di Aristofane, la funzione universale  grazie al discorso socratico; operazione che, sebbene contravvenga in parte al  dettato platonico, mostra che Freud sembra volersi riferire ad entrambi i discor-  si, ed è ciò che qua conta 23 .     19 S. Freud, Jenseìts des Lustprinzips, GW, voi. XIII, p. 62, corsivo di Freud.  2 ^ Ibidem. Cfr. Platone, Simposio 191a-b, traduz. di U. von Wilamowitz-Moellendorf, corsi-  vo di Freud.   2 1 Ibidem. Freud scrive che non citerebbe l'ipotesi contenuta nel mito «wenn sie nicht gerade  die eine Bedingung errullen wUrde, nach deren Erfullung wir streben». Anche T. Gould, Pla-  tonic Love, London 1963, p. 3 1 sg., riporta l'interpretazione freudiana del mito esclusivamen-  te alla questione del «carattere regressivo»; cfr. anche P.L. Assoun, op. cit., pp. 167-172.   22 Finita la citazione prosegue Freud, Jenseits des Lustprinzips, cit., p. 63: «Sollen wir, dem  Wink des Dichterphilosophen folgend, die Annahme wagen, dass die lebende Substanz bei  ihrer Belebung in Ideine Partikel zeirissen wurde, die seither durch die Sexualtrìebe ihre  Wiedervereinigung anstreben?».   23 Ove la liceità agli occhi di Freud di una coniugazione dei due discorsi verrebbe conferma-  ta dall'osservazione per cui rispetto al mito, Platone «sich nicht zu eigen gemacht, geschwei-  ge denn ihr eine so bedeutsame Stellung angewiesen natte, hStte sie ihm nicht selbst als wa-  hrheitshaltig eingeleuchtet», ivi, p. 63, nota 2 aggiunta nel 1921; interpretazione che come  sappiamo si scontra irrimediabilmente con la negazione da parte di Socrate della concezione  del «ripristino» dell'unità originaria di Aristofane, cfr. Simposio 200 e, 20S d-e. L'idea guida dell'eros quale forza che «alles Lebende erhàlt», assicurata  dall'estensione delle pulsioni sessuali alle singole cellule, è garantire una «po-  tentielle Unsterblichkeit» alla materia vivente (se si vuole: mortale) 24 :   das Wesentliche an den vom Sexualtrieb intendierten Vorgangen ist doch die Ver-  schmelzung zweier Zelleiber. Erst durch diese wird bei den hoheren Lebewesen die Un-  sterblichkeit der lebenden Substanz gesichert 25 .   Così, con tale «Ausdehnung des Libidobegriffes auf die einzelne Zelle wandelte  sich uns der Sexualtrieb zum Eros, der die Teile der lebenden Substanz zuein-  anderzudràngen und zusammenzuhalten sucht» 2 ^; la sessualità converge quindi  con «den alles erhaltenden Eros» 27 , «mit dem Eros der Dichter und Philoso-  phen» 28 . Nel corso degli anni tale concezione verrà conservata e ribadita per  sempre da Freud, di contro a quella del riprìstino più tardi abbandonata 29 , e ri-  condotta anche in seguito esplicitamente al Simposio: nel 1924 ad esempio scri-  verà che «was die Psychoanalyse Sexualitat nannte, [deckt sich . . .] mit dem al-  lumfassenden und alles erhaltenden Eros des Symposions P/atos» 30 , nel 1932  che le pulsioni sessuali vengono chiamate «erotische, ganz im Sinne des Eros  im Symposion Piatosi 1 .     24 Ivi, p. 42.   2 ^ Ivi, p. 60, corsivo nostro.   2 *> Ivi, p. 66 nota 1, corsivo nostro.   27 Ivi, p. 56.   2 " Ivi, p. 54: «So wilrde also die Libido unserer Sexualtriebe mit dem Eros der Dichter und  Philosophen zusammenfallen, der alles Lebende zusammenhalt».   29 Tale concezione era esplicitamente compresa anche in Freud, Massenpsychologie und Ich-  Analyse (1921), cit, p. 100, ove Eros «alles in der Welt zusammenhalt»; si veda anche Freud,  Das Ich und das Es (1923), GW, voi. XIII, p. 268; Id., Hemmung, Symptom und Angst  (1926), GW, voi. XIV, p. 152; Id., Das Unbehagen in der Kultur (1929), GW, voi. XIV, pp.  596, e p. 604 sg.; Id., Die endliche und die unendlìche Analyse (1937), GW, voi. XVI, p. 91  sg. (ove è ripreso Empedocle); infine nel 1938, Id., Abrifi der Psychoanalyse, GW, voi. XVII,  p. 70 sg., Freud ribadisce: meta dell'Eros è «immer grofierere Einheiten herzustellen und so  zu erhalten, also Bindung» (Empedocle è ivi ripreso nella nota 2); egli abbandona invece  esplicitamene il carattere regressivo delle pulsioni erotiche: quanto alla formula «dass ein  Trieb die Rttckker zu einem fruheren Zustand anstrebt», «Fttr den Eros (oder Liebestrìeb)  kònnen wir eine solche Ànwendung nicht durchfuhren». In nota chiarisce: «Dichter haben  Àhnliches phantasiert, aus der Geschichte der lebende Substanz ist uns nichts Entsprechendes  bekannt»; è scontato il rimando al mito aristofaneo.   30 S. Freud, Die Widerstande gegen die Psychoanalyse, GW, voi. XIV, p. 105: «was die  Psychoanalyse Sexualitat nannte, [deckt sich] keineswegs mit dem Drang nach Vereinigung  der geschiedenen Geschlechter oder nach Erzeugung von Lustempfindung an den Genitalien,  sondern weit eher mit dem allumfassenden und alles erhaltenden Eros des Symposions Pia-  tosi.   3 1 S. Freud, Warum Krieg?, GW, XVI, p. 20: «Wir nehmen an, dass die Triebe des Men-  schen nur von zweierlei Art sind, entweder solche, die erhalten und vereinigen wollen, - wir  Ora, l'attribuzione di Freud trova effettivamente riscontro nel discorso di Socra-  te-Diotima. Ad un primo livello eros si configura quale causa ultima che spinge  gli uomini e «tutti gli animali della terra e del cielo [...] dapprima ad unirsi  l'uno con l'altro (av\i\iiyr\\ai àXXi\\ov;) e poi a curarsi dell'allevamento della  prole» 32 . Platone amplia quindi ancor più il discorso: «la natura mortale cerca,  per quanto può, di divenire eterna ed athanatos. E può riuscirvi solo per questa  via, la via della generazione (xfj yevéoei), perché essa lascia sempre dietro di sé  un altro essere nuovo in luogo del vecchio» 33 ; ove «ogni singola creatura viven-  te [...] non conserva mai in sé le medesime cose, ma si rigenera di continuo,  deperendo in altra parte, nei capelli, nella carne, nelle ossa, nel sangue e in tutto  quanto il corpo» 34 . Conclude Platone: in virtù di tale incessante generazione «si  conserva (oró^exai) tutto ciò che è mortale, non col restare sempre assoluta-  mente identico, come il divino, ma in quanto ciò che invecchiando viene meno  lascia al suo posto qualcosa di nuovo e simile a sé 35 . Con questo espediente, o  Socrate, il mortale, sia corpo sia ogni altra cosa (icori a&\ia icori zàXXa  nàvxa), partecipa dell'im-mortalità» 36 .   Eros viene dunque esteso a forza biologica universale che "unisce" e "conserva"  «ogni cosa» mortale (se si vuole: vivente) garantendone la relativa e potenziale  immortalità grazie ad una sorta di macro-duplicazione, la generazione della pro-  le, e ad una micro-duplicazione, concernente ogni singolo elemento dell'or-  ganismo; Platone dischiude così la via che nel XX secolo sarebbe stata battuta  dall'estensione biologico-cellulare freudiana dell'eros (che si appoggiava anche  sui risultati della giovane microbiologia ottocentesca- di Weismann, Woodruff  etc, dunque sui processi di «duplicazione» cellulare) 37 .     heiflen sie erotische, ganz im Sinne des Eros im Symposion Platos, oder sexuelle mit bewuB-  ter Oberdehnung des populàren Begriffs von Sexualitat, - und andere, die zerstoren und tdten  wollen».   32 207 a-b; esordisce qui Diotima: «Quale credi, o Socrate, che sia la causa di questo amore e  di questo desiderio (ocinov et vai xornot) xoO epco-Eoi; Kai tt^ èjtiG'uu.iaq)?», per prosegui-  re: «Non ti accorgi del tremendo stato di tutti gli animali, della terra e del cielo, ogni volta  che sentono il desiderio di generare, ammalandosi tutti e assecondando l'impulso erotico  (èpatiKcòc, Siaxi8é|XEva), che li spinge dapprima ad unirsi l'uno con l'altro e poi a curarsi  dell'allevamento della prole?».   33 207 d 1-3: «fi 8vnxT| <pv>oic, £nxeì icona tò 8waxòv àtei xe etvai icaì àOavaxoC;. Stiva-  Tal 8è xavun uóvov, xfj •yevéaei, òxi òeì KaxaXeinei èxepov véov àvxi xoù naXaiov».   34 207 d 7 - e 1 : «àXkò. véoc, àeì yiyvónevoc,, xà 8è ànoKKòq, Kai Kaxà xàc, xpixac, sai  oàpKa Kai òaxà Kai atna Kai aonjiav xò oiòua», sull'apparente manchevolezza del testo  cfr. P. Pucci, Platone, Opere complete, Roma/Bari 1993 8 , voi. Ili, p. 187.   3 5 208 b 1-2: «àXXà x$ xò àitiòv Kai 7taAxtiov)ievov exepov véov è^KaTaXelneiv otov  ainò fjv».   3 *> 208 a-b. Sulla natura «inconscia» del desiderio cfr. F. Comford, The Division of the Soul,  «The Hibbert Journal», XXVIII, 1929-30, pp. 206-219, soprattutto p. 217; A.W. Price, Plato  and Freud, cit., p. 252 sg.; t. Gould, op. cit., p. 49.  37 Cfr. S. Freud, Jenseits des Lustprinzips, cit., pp. 46-61 .Riepilogando, si deve attribuire al dialogo platonico, sia quanto al ripristi-  no arìstofaneo sia quanto all'eros che unisce e conserva, la paternità della con-  cezione adottata da Freud. In questi due casi però, rispetto alla prima estensione  del concetto di sessualità, si tratta di una paternità in senso stretto, nel senso che  Freud sembra aver ripreso direttamente da Platone le due idee. Ad avvalorare  tale ipotesi vi sono i seguenti elementi. Rispetto al mito di Aristofane, va rico-  nosciuto che esso, citato già nel 1833 in una lettera all'allora fidanzata Martha  Bernays 38 , è attestato nel corpus fin dal lontano 1905, quando Freud vi accen-  nava nei Drei Abhandlugen zur Sexualtheorié 39 ; si tratta dunque di una presen-  za (scientifica) di antica data che dopo circa quindici anni si sarebbe andata co-  me a solidificare in una delle teorie biologico-filosofiche più ardite dell'intero  edificio psicoanalitico.   Quanto all'eros quale forza che conserva è degno di nota sottolineare che fin dal  1910, nel suo Leonardo, Freud aveva assunto quasi tacitamente una tale conce-  zione ove scriveva di sfuggita che Eros «alles Lebende erhalt» 40 . Ora, fa pensa-  re il fatto che circa tre mesi prima dall'inzio del Leonardo, iniziato all'incirca  nell'ottobre del 1909 e finito nell'aprile del 1910, Freud citasse il Simposio nel  saggio Sull 'uomo dei topi (finito per l'appunto il 1 7 luglio del 1 909); discutendo  del rapporto tra il fattore negativo dell'amore e la componente sadica, in modo a  dire il vero sorprendente Freud citava in nota le parole pronunciate da Alcibiade  nel dialogo platonico: «"ja oft habe ich den Wunsch, ihn nicht mehr unter den  Lebenden zu sehen. Und doch wenn das je eintrafe, ich weiB, ich wtìrde noch  viel unglucklicher sein, so wehrlos, so ganz wehrlos bin ich gegen ihn," sagt Al-  kibiades iiber den Sokrates im Symposion» 41 . Se da questa citazione, per  l'appunto inaspettata ed estemporanea, è lecito presumere che Freud avesse ri-  letto o perlomeno ripreso in mano il Simposio, è altrettanto lecito inferire che  l'idea di Eros quale forza che «alles Lebende erhalt» espressa appena tre mesi     38 Cfr. S Freud, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Torino 1960-  1990, p. 41, lettera a Martha Bemays, Vienna, 28 agosto 1883: «Ormai non riesco più a sop-  portare la compagnia, tanto meno quella della famiglia, sono soltanto un mezzo uomo come  dice l'antica favola platonica che tu certo conosci, e la mia sezione soffre non appena sto  senza far niente».   39 S . Freud, Drei Abhandlugen zur Sexualtheorie, GW, voi. V, p. 34: «Der populàren Theo-  rie des Geschlechtstriebes entspricht am schònsten die poetisene Fabel von der Teilung des  Menschen in zwei Halften - Mann und Weib -, die sich in der Liebe wieder zu vereinigen  streben».   40 S. Freud, Etne Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci, GW, voi. Vili, p. 136, discu-  tendo della "castità" degli scritti postumi di Leonardo scrive che tali scritti «weichen allem  Sexuellen so entschieden aus, als w8re allein der Eros, der alles Lebende erhalt, kein wtlrdi-  ger Stoff Air den Wissendrang des Forschers». Il termine Eros era stato utilizzato da Breuer  fin dal 1895: cfr. Breuer e Freud, Studi sull'isteria, in Opere Complete, Torino 1967-1989,  voi. 1, p. 389 (la parte di Breuer è assente nell'edizione degli Studien iiber Hysterie edita nel-  le Gesammelte Werke).   41 S. Freud, Bemerkungen iiber einen Fall von Zwangsneurose, GW, voi. VII, p. 456, n. 1;  cfr. Simposio 216 c.     240     MARCO SOLINAS     dopo gli venne suggerita proprio dalla recente rilettura del dialogo platonico. In  questo caso si tratterebbe dunque di ben più di una solo eventuale "Kryptomne-  sie" dovuta all'ampiezza delle sue lontane letture giovanili, come quella tirata in  gioco laddove Freud - rinunciando garbatamente e felicemente all'originalità -  riconosceva ad Empedocle la paternità storica della sua teoria dualistica 42 .  Sembra dunque che il Simposio, dalle sue timide comparse del 1905, del 1909 e  presumibilmente del 1910, abbia poi più o meno silenziosamente, più o meno  inconsciamente continuato a lavorare nella mente di Freud per riemergere infine  con l'ampia revisione della concezione della sessualità di Jenseits des Lustprin-  zips del 1920. In questo caso però, sia quanto al carattere regressivo sia quanto  alla funzione biologica, la "paternità dell'eros" non sarebbe più solo storica, né  si tratterebbe più dell'utilizzo dell'autorità del "divino Platone" quale scudo  contro le proteste sollevate dal risalto dato alla sessualità: sembrerebbe invece  trattarsi di una paternità in senso stretto, di un'influenza diretta esercitata dal  Simposio, sviluppatasi e sedimentatasi col lento trascorrere degli anni. Possiamo  allora concludere affermando che da una o verosimilmente più riletture del dia-  logo di Platone sia scaturita una decisiva rielaborazione di una delle concezioni  della sessualità, dell'eros, se non forse tra le più originali in assoluto, di certo tra     42 In Die endliche und die unendliche Analyse (1937), GW, voi. XVI, pp. 90-2, Freud scrive  della sua teoria pulsionale dualistica, che incontrava ancora resistenze: «Umsomehr musste es  mieti erfreuen, als ich unlàngst unsere Theorie bei einem der groflen Denker der griechischen  Frtthzeit wiederfand. Ich opfere dieser Bestàtigung gern das Prestige der Originalitat, zumai  da ich bei dem Umfang meiner Lektiire in fruheren Jahren doch nie sicher werden kann, ob  meine angebliche Neuschòpfung nicht eine Leistung der Kryptomnesie war». Freud procede  quindi nell'accostamento: «Die beiden Grundprinzipien des EmpedoMes - cpiAla und veìkck;  - sind dem Namen wie der Funktion nach das Gleiche wie unsere beiden Urtriebe Eros und  Destruktion", ove philia ed Eros (come rispetto all'eros del Simposio) hanno in comune la  tendenza «das Vorhandene zu immer grOfieren Einheiten zusammenzuffassen». Empedocle è  ripreso anche in Abrifi der Psychoanalyse, GW, voi. XVII, p. 70. Sull'accostamento cfr. per  esempio G. Tourney, Empedocles and Freud, Heraclitus and Jung, «Boullettin of the History  of Medicine» XXX, 1956, pp. 109-123, specialmente pp. 109-116, e Id., Freud and the  Greeks. le più discusse e significative del XX secolo. Si rivela così, ancora una volta, la  forza e la fecondità di un passato antico, che, anche perché tanto amato, sembra  morire solo per poi rinascere, di nuovo. D. con un panegerico all’ more ET CON LA VITA DEL DETTO  filosofo ,fatta daVarchi    07 ^ V H.I V I L E G    IH VINEGIA AP PRESSO G A fi A 1 1 R  GIOLITO DE* FERRARI.    fa      AMORE D. O NON DVBITO  douer’ eflere molti ,  e quali dannino me  hauerein lingua uol  I gare trattato de pro-  fondi rmlteni deH’amore , oppo-  nendo il decreto de gli antichi Pira*»   v- * A ii      gorici V fecondo il qua*. dè-   cito comunicare al uulgo , come all-  etto , Je cole diuine , non ientendo  d’effe rettamente ; il quale per non  hauere feruato Hippafo Pitagorico,  fu morto . Noi rifpondiamo cffer di  due nature nomi : altri formati nel-  l’animo da effe cofe, & interiori : al-  tri fabricati dall’artifìcio humano ,  &efteriori . Quelli effere a placi-  to , & p*erò diuerfi , appreffc diuer-  fè'nàtioni . Quelli per natura, & ap-  preffo ciafcuno e medefimi . De no-  mi interiori comporli lo eloquio in-  teriore v Delli efteriori formarli lo  efteriore . Et quella crediamo effe-  re la fententia del diuin Platone con-  lèntientifsima ad Arillotele , come  ajtroue dichiararemo . Sendo adun-  que ilfermone/fteriore imagine , &    « r    s   nota del fermone interiore : nòti  tjeggo , perche cagione fi debba (bt T  t’entrare a maggiore calunnia ^par-  lando, & fcriuendo delle cofe diuine  in lingua Tofcana , che in qualun-  que altra lingua. Crediamo piu.tp-  fto , che fia da riguardare al modo  del trattare. E però li Egitii fotto for  me di diuerfi animali nelle colonne  di Mercurio , da chi & Pittagora, de  Platone imparorno la Filofofia , &  Pitagorici fotto uelami Matemati-  ci , & li antichi Theologi fotto mo-  ftruofi figmenti occultorono le co-  fe diuine , & la natura . Noi , ben-  ché habbiamo trattato delle mede-  fimecofe fuori di uelami , & di fig-  menti, non di manco ci confidiamo  non douere efleregiuftamente dan-  nati del peccato della profanatone. Tu adunque leggerai quanto c'èoc-  corfo al prefente dire de mifterii del  lo amore : & penferai le cofe diuine  tanto fuperarele menti noftre , che  fpeffo ci fia neceffario altrimenti par  lare d’effe, altrimenti intendere I T"' C A NATYRA cor-   | por ale. nulla contenere   1 m fi dt aero, ma al tut-   % toeJJìreimagmaria,Q   urna , chiaramente di-  ira la perpetua uarietà s fp) m u t at io-  lacuale in ejfa appare. Imperoche U     V 8 L I *B Ti 0  uerita delle cofe fi dttermina una fermtZc  za, ffi) una permanenza . Per laquale efi  fa fimpre flando ferma in uno ejfire quel-  te medefime nel medefimo modo in nat-  ta uariate s'offerifiono,a chi le contempla ,  la natura corporale per un filo momen  tò di tempo non conferita l'ejfer filo facen -  dofi in ejja continua generatione , ff) cor -  ruttione. llche Her adito non filo attri-  huìfie a tutti i corpi , che fino fitto la Lu-  na , ma ancora al Cielo , ft) alle [Ielle : le  quali fino tanto piu perfette , che gli al-  tri corpi y quanto piu fi apropinquono alla  natura dell'anima . Onde come uicini alla .  rdiumitdyhanno meritato d’efier chiamati  corpi diurni . Et pero riguardando alcuni  fittilmente affermorono tale openione ef  fire approuata dal diurno c Platone nelTi -  meo . Quafi ejfo uoglia non fi potere at-  tribuire al corpo l'effere , ma piutofto il   M° fife    VT“1 ■    T K I M:0. p   flujjo , {fi la gener attorie . La cagione di  tal fluffi , e la mattria t della quale fino  compofti tutti e corpi co fi celefh come ter *  reni . Laquale qualche uolta ci s'apprefin *  partecipe dello flato , per *   manentia : Inquanto dalla forma , che fi  riceue m effd in un certo modo e contenti *  ta qualche uolta come del moto : inquanto  per fua natura fugge l'ejfere, {fi la cogni * /   tione, hauendo firn prefica la contrarietà $   V infi abilità , la uarietà * Il che forfè fi gnu  ficorno li antichi Theologt per la fauola di  *7 roteo : qua fi come Proteo fi mutaua in  diuerfi forme , bora in fiamma , bora in  acqua , bora in leone , bora in forma di  qualche altro animale : cefi la materia fia  atta, {fi pronta al rteeuert tutte le forme f  non fi partendo pero mai dalla fua natu*  ra . Et perogli antichi Pitagorici,confide*  rato tal propor tione. hauer la materia 4    io L 1 2J ^ 0  corpi; quale ha la dualità a numeri non  duhitorono chiamare la materia dualità .  Laquale fendo la prima diuifeone , ft)  principio d'ejja, ancora chiamorono l[ide ,  ffe Diana . 'Ter che come Diana , è fle-  rile y fecondo dice ‘Tlatone nel Thettheto ,  co(i ancora la prima dualità , fendo principio della diuerfetà , della inequalitàydel-  la dtfsimilitudine , è priuata d'otri* anio-  ne; oue confifie la fecondità di tutte le co-  fe . Se adunque la natura corporale e par-  tecipe di tanta imperfettione y chi non uede effeer neceffario [opra ejja ejfere un'altro  principio y ilquale la regga , ffe la conten-  ga: pendendo fempre l'imperfetto da quel-  lo y che e perfetto ? Et però Democrito , ffe)  glabri y che l'hanno feguitato y cioè Leu-  cippo y ffe) l Epicuro y fecondo il mio pare-  re y meritano non ejjèr uditi . E quali po-  nendo principucorporab tndiuifìbili , ma   didiuerfe >       P £ 1 AÌ 0 * 7 /   di dtuerfe figure chiamati da loro Storni,  vogliono tutte le cofe efftr compofte d'unó  fortuito concorfo d'e/si. "Dicono adunque  di quegli , che hanno figura circutare , e fi  fer compofta l'anima : de gl' altri Trian -  gulariy Quadrangulari , ft) fimilt efjtre  compofta la uarietd delle altre cofe : nfer~  uando ciaftuna cofa la Natura la po*  tentia fimile a quegli atomi , di che effe  fufsi compofta . Dicono ancora le cofe per  tanto ffatio di tempo conftruarfì in effe-  re,per quanto m luogo di quelli atomi , che  continuamente fi partono y fàcce dono altri  della medefima Telatura . ISoi al prefen-  te pretermetteremo dichiarare efftr' impo fi  ftbile il Cielo y gl' Elementi y gl' animali , le  piante , ffij tutta la ‘Natura, o uuoi fecon-  do l'effere , o uuoi fecondo la confiruationc  pendere da alcuno fortuito concorfo ; firn-  pre apparendo mamfeft amente per tutto    12 L IV Ito-  or dine y ffi ragione . Solo diremo noi uede-  re di tanto maggiore potentia, ffi) di tanto  maggiore efficacia ejfir le co fi, quanto fino  piu umte\ffi quelle effitre di mafsima poten  tia,{fi di mafiima efficacia y cbe fino mafsi  inamente unite : onde per quefto ejjd uni-  tà bauere infinita potentia y infinita ef-   ficacia: come autore , ft) principio dogni  unione . Sendo adunque la moltitudine in-  finita al tutto oppofìtaalla fimplicifiima  unità , ft) però pnuata dogni modo dat -  itone come potrà dire rettamente TDemo-  crito l'infinita moltitudine delli atomi e fi  fir principio delle co fi: determinandofi in-  finita debilità : della quale nulla y e piu  oppofito alla ISlaturXdd principio t     *    p'TOi M à. 93    ai    C  » * N \ M ' ' ' k* * * > < '      ■rama E l numero de corpi alca*  1 1 m fi muouono f er ‘Vfytura}   I j$J|^ Ì come il fuoco , Varia , taci  qua , ft) là terra ft) quegli,  che fin compofh d'efit , de quali il fuoco ,  ft) l'aria , come leggieri, fi muouono in sùi  dfioftandofi fimpre dal centro \V acquei ,■  {fi la terra fi muouono in giu cercando  fimpre il centro . ^Alcuni altri non filo fi  muouono come quelli > ma ancora utuono ;  ft) quefto per uirtù di un principio , ilqua-  le efii hanno dentro chiamato meritamene  te anima . Fra t corpi , che hanno Inulta,  alcuni fin contenti della uirtù nutritiua ,  come fino le piante, le quali non hanno bi-  fogno della potentia del fintire , come ne -  cefiaria alla loro filiate, ma fitte in terra  colle radici , quali hanno in luogo di bocca         tirano il fro nutrimento ; alcuni fino do -  * tati della potentta del fintire , per la qua-  le conofcono quello , che a fi e dilettabile ,  o tnfitfico \ (fi della facultà , perche efii  da un luogo a un'altro fi tramutano . Im-  per oche hauendo a cercare l'alimento , è  neceffario efii hauere unauirtù : per la-  quale pofimo y o fuggire , o fi giure quello ,  thè giudicono ejfire m fuo danno o falute .  Sono ancora altri poflt in mezo delle pian-  te ; (fidi quelli y che hanno il /enfi , (fi la  facultà del tramutar fi come ricchi , (fi fi-  mili chiamati Zoofiti y quafi fieno parte-  cipi della natura de gli animali , (fi delle  piantf : tquali contenti filo del [enfi del  tatto ; fendo loro fimmintflrato compe-  tente nutrimento , Hanno fempre , come  immobili y in un mede fimo luogo . Oltre a  tutti quefti e thuomo grandifiimo mira-  tolo , come dice ^Mercurio 9 animale at-  ramente    P 5 ? 1 M O . *s   r amente degno d'efèr Inonorato , ft) ado-  rato ; tlquale aogmgne alle predette potenz-  ile la fi acuità dell' intendere : per lacuale  ripieno di dtumità JpeJJò diuenta filmile 4  gli T>ij : ma , Jenoi confedereremo retta-  mente , diremo wfeeme col diuin r Platone  il Cielo , ft) le fttUe ejfeer donate della aita,  fife dell'intelletto . Quefto dtmoflra un per-  petuo tenore di fare fimpre le medefeme  cofe, ft) nelmedefemo modo , già incomin-  ciato per gr andi fimo fpatio di tempo  per durare per l'auenir e fenza errore, fen-  za impedimento , quale e nel Cielo, nelle   flette; le quali col fio diurno moto, quafe un  batto magnificentifi. di tutti e batti , a tut-  ti gli altri ammali donano la generatone,  l'ejfeentia>{t) la aita. Oltre a qucfio ancora 1  lo dimoftra la marauighofa bellezza , ft)  per fettone, laquale in efii ueggiamo affermare l'huomo, il quale ha il corpo caduco ,    J - - /   t6 L 1 ® x 0  (p) fittopofto a infinite off e fé-, batter la uU  ta y ft) lo intelletto ; e'I [telo , le (Ielle ,   onde pendono gltaltri corpi effirne pri»  uo; e d'huomo al tutto ftohdo , mfin-  fato. Ma chi confiderà la grandezza loro ,  chiaramente cono fie e fiere impofitbile efii  potere effère mofii pertanto tempo o dal  cafi o da impeto alcuno corporale o da ca-  gione eftrmfica ft) uiolenta : anzi mouen .  do fi tanto efi/ufit amente , è necefidrto tal  moto procedere dall'anima diurni fitma .  Onde ficur amente fi può affermare il Qe-  lo , q) le [ielle efier compofie di corpo , ft)  d'anima ; ve da altri , che dall'anima il  corpo loro efier prodotto , ft) gouernatp.St  però giudicheremo efii douerfi chiamare  non filo cofe diurne 9 ma ancora T)ij.Ma  fi noi pigliamo filamente il corpo loro y fi*  parandolo dall'anima , affermeremo effe-  re statue degli Dij , fabricate da loro   di materia  PRIMO. n  di materia prtfìantifeima , ffe con mar a*  uigliofe artificio , legnali per effer polle in  luoghi nobilifeimi fendo bellifeime , ri-  piene di uita .debbono effere in maggiore ue  ner adone, che qualunque altra featua co-  me efquifite imagini della diuimtà. Se adun  eque il corpo animato è piu perfetto , che  quello y che non ha l'anima : perche que-  feo non urne , quello uiue , ffe) fra Riani-  mali qUello y che ha facultà di intendere è  piu preflante , che gli altri ; ffe quello, che  intende mafeimamente è prefìantisfimo :  Viuendo , ffe intendendo il Cielo , le felle,  l'huomo , faremo coferetti confejfare  efei efeer piu prefi anti , che chi non uiue,  ftf intende . Onde fe l'umuerfe è priua -  to della uita,{t) dello intelletto ,gh ammali  uerranno ad effer piu nobili, che l'umuer-  fe ; di che nulla può effere piu aJfordoSPer  Lqual cofa come l'uniuerfe e prefìantifei-  ; 2   o   mo di tutti i corpi non lafciando fuori di fi  corpo alcuno . Ma come fuoi membri con -  tenendoli tutti . Cofi è nectjjario effo haue -  re nobilifiima anima > capo , ft) guida di  tutte le anime : per beneficio dettatale fta  partecipe di prefantifima uita , q) di  prefiantisfima intelligentta. St pero li antichi Teologi di Fenicia (come dice Iam-  bkco , fp) Iultano Imperadore ) afferma-  rono efjtr infufa per tutto una ‘Natura lu  cida y pura , calda % uehiculo dell'anima  diuintj?ima : per laquale dall'anima fta  concejjo allo umuerfo il pretiofo dono della  aita y onde efjo meritamente fìa appellato  uno animale^ laqual co fa ( benché o/cura-  mente ) fgnifìca Timeo Tittagorico , ft)  ' r Fiatone nelTtmeo, ft) nel decimo della  *Rtpubhca . alMa di cjuefto nella concordia  fra Platone , ftf zArifotile diffufifiima.  mente par laremoy ouc dimoieremo ch’ut -  v rumente    ^ 1 M 0. zip  rumente fecondo la mente d'oArifìotile il  primo motore non effer e Dio, ma l'anima  diutmfeima dalla quale penda il Cielo , {0  tutta la natura. ^Adunque infeeme col  diuin alatone diremo ejjere il corpo , e [fere  ancora , {0 l'anima certamente molto dif-  ferenti fra loro . L'anima hauer l'intellet-  to , il corpo nodo hauer e . L'anima , come  madonna , hauer e imperio fepra il corpo ;  quefìo , come feruo , effer fuddtto >{0 ret-  to . L'anima effer fontana della ulta, {0  del fenfey {0 di tutte l' altre affettiom ,  quali noi ueggiamo nel corpo : quefto per  flanatura effer atto a riceuere , {0 pati-  re , di che pofeiamo conchiudere l anima ,  come di gran lunga piu perfetta , hauere  grado migliore nell' uniuerfo.    • 20 L I 2 7^ o r      E l’anima non fila-  mente dona la una , ma an-  cora contiene , ft) regge la  natura corporale ( come di-  fipra è dimofìrato ) e necejjario ejja batte-  re una affinità naturale col corpo , per la-  cuale naturalmente l'anima pofja dare la  uita : e'I corpo la pofja riceuere . L'anima  pofia reggere , ft) contenere . Que fi a non  . e altro 3 che una naturale ine linat ione per  lacuale noi pofitamo dire l'anima ejjirt  anima 3 ft) uer amente diftintada qua-  lunque altra cofa : Di che appare marii-  fe fi amente nell'anima eJJir due proprietà  per TJatura ; una , per laquale ejjà incli-  ni a produrre , ft) reggere i corpi ( altri-  menti non farebbe chiamata meritamente  , anima ) l'altra , per laquale effa non filo rp % 'iM o . it   comprenda la ‘Natura , che detta effer  retta , ma ancora fi medcfima , ft) le co-  fi frperiori:quale poco auàti fuchiamata  Intelhgentia. Qutfìa intelligentia fe noi ret-  tamente confider eremo , uedremo effer nel-  l'anima non per fra natura , ft) inquan-  to anima ; ma piu tofto per benefìcio d'al-  tri. Imperoche fi l'anima, inquanto ani-  ma, ft) fecondo la natura fra haueffi l'in -  telhgentia , ogni anima intenderebbe: co-  me ogni fuoco fimpre e caldo : fendo la ca-  hdità nel fuoco per fra naturai ffjnot  ueggiamo manififìamente non ogni ani—  ma hauere facultà d'intendere . lmpe-  roche chi direbbe gl' animali bruti haue-  re intelletto , equali non per altro fono  chiamati bruti : fi non per effer priuatì  della intelligentia? molto meno e da dire  delle piante , lequali fono animate d'ani-  ma molto più im perfet ta ; che i bruti ;   ■ iti    22 L 1 2 7^0 '  ff) però come il lume è molto piu, per *  fettamente nel fole che nelle felle , fen-  do nel fòle per fua natura , nelle fi elle per  dono y ffe beneficio del Sole : co fi noi dicia-  mo la inteUigenda effer molto piu perfetta-  mente y in cui effa fio per propria natu-  ra y che nella anima , oue è per pardeipa -  tione ; di che noi concludiamo ancora quel-  la fu(l arnia effer piu prefi ante che l’anima ; sendo in e (fa la fontana dello intendere y principio y ft) Idea d'ogni cornicione ,  imperoche la nobilifeima oper adone proce-  de danobilifeima fubflanda , la inteL  hgentia fupera tanto Poltre oper adoni: al-  ' manco quanto il lume Poltre qualità fen-\  Jibili . Quefla fuflantidnon è altro, che la  datura Angelica , laquale meritamente  e denominata Intelletto , hauendo per pro-  pria oper adone P intendere . Et per queflo  noi concludiamo P anima effer e ordinata ,   fri retta    % / ; M 0 . 2 >   natura ^Angelica , cowie il  corpo e ordinato , rmo dall'anima .  Onde appartjce l'angelo tanto piu effer  preftante dell'anima , quanto l'anima è  piu nobile , /] corpo : ft) però l'anima   non tenere il primo grado nell'uniuerfi •  adunque diremo ejjere due nature neL  l'anima : una per laquale rappreftnta la  datura angelica > l'altra , perla quale  inclina al corpo. Onde e detta dal diuin  Alatone nel Timeo ,fu[ìantiamez&, co-  me quella , che pofta in mezo fra l'ange-  lo, ft) il còrpo partecipa dell' una, {^ del-  l'altra natura . Quefta anima merttamen  te chtamorona i ^Magi in parte lucida, in  parte oftura , come pofta in mezo di quel-  lo che è al tutto lucido , e di quello che e al  tutto ofeuro . L'Angelo è al tutto lucido ,  perche fendo la prima ejjèntia; {R iapri- ,  ma effèntta fendo ejfa firmità ,ftmpre fi-   * Hij    24 L 1 $ 7^0   mile a fi medefima e accompagnata da e fi  fa uentà , laquale e efifia luce intelligibile  fi) pero l'angela è tutto lucido . Il corpo findo oppofito ficondo la fua natura allo angelo , è tutto ofiuro y l'anima pofta m mez-  zo fiala natura corporale, ffil' angelo,  inquanto partecipa dell’Angelo e uera-  mente lucida , inquanto inclina al corpo ,  fi P uo dire ofiura .Chi adunque dubite-  rà fipr a l'anima non effier l'angelo: fin-  tana di ogni luce intelligibile?  Aliti allo fpìendore del-  la uerità intelligibile , quale  noi chiamiamo al prefinte  c, Angelo , for fi potremo cre^  dere hauer trouatoil padre dell untuerfi .  lmperoche quiui ogni coja è uera ; efinzet ,     • fi   s   ogni co fa e ulta , ogni cofa e intelletto , uerì*  ta , ft) fiientia : fendo principio dell'efjere ,  ft) della mta a qualunque altro fi dice ef  fere,ft) utuere per quefto nella natura contiene l'uniuerfità di tutte le cofe fendo il lo-  ro effir e per fitti fimo * Imperoche, benché  le cofì in effa fieno di flint e , ft) non con fu*  fi , come dtmoflrala intelligentia opera *  tion fua principale , laqualt definitamen-  te comprende tutte le cofi , nondimeno han  no e fiere unitifiimo . Imperoche nulla può  effir e piu unito } che quello , in chi ciaf u-  na parte m un certo modo fia quel mede-  fimo , cheti tutto, come e nelttAngelo\do-  ue la uita , benché inquanto uita è dtfffinu  ta , nondimeno per partecipatone è tutto  lodimelo . L'intelletto ha il fuo proprio  modo d' effir e : perche è detto intelletto. Ld  uent à il fuo modo d' effir e particolare : per  lo qual# è effa uentà : parimente adirne*    26 L /2 0   ne in qualunque altra parte . FJondiman*  co quefto non fa che lo intelletto , la uerità  per fa , non Jia tutto t Angelo per par -  tecipatione : in modo che nell' Angelo non  fi può trouar parte , laquale non conferui  in fi la natura del tutto . Quejìo credo ha-  uereintefa Parmenide ; ft) Melijfo anti-  chi^ittagorici, quando ajfermorono tue -  • te le cofe effere un 'Ente : cioè , ejfere una co*  fa, una fufiantia , quale notai pr e fante  chiamiamo Angeloinella quale tutte le co*  fi habbino il fùo primo ejfere , cioè pcrfet*  tifaimo ejfere. Come adunque nelle cofe ar*  tifictate fono due ejfaeri , l'uno nella men-  te dell'artefice , manzi , chehabbia pro-  dotto fuori la cofa artificiata , l'altro in  effa cofa artificiata ? Verbigratia la /ta-  tua di ifMinerua ha il primo ejfere nella  mente di Fidia , l'altro m effe marmo : de  quali quello che è nettamente dello artefi-  ce, è ^    RIMO. 27   ce , e primo cffere\{t) p ero molto piu no*  bile ; che quello, che è nel marmo : co fi tut*  te le cofe hanno duoi ejjen : ; uno nella effen -  tta dell’angelo , ilquale , è primo , ft)  perfettifimo effere ; l’altro in effe cofe ; il-  quale , è participatione del uero ejfere . TDu  co adunque fecondo tl loro efftr primo per -  fettifimo,nonfolo confhtuire una Jufìan *  tia ; ma ancora ciafcuno d’effe efer tutta  quella umuerfità ; ft) pero meritamente fi  può dire una fu fsifl ernia ; fff) quefia e la  fintentia di Parmenide , ft) di Mehffe  della umtà dell’Ente , come io fimo . Qtie  fio Ente , o uuoi Angelo e chiamato da  Hi* lottilo mondo intelligibile : mondo , per-  che è pieno di elcgantia , hauendo tutte  le cofe in effe il feto e (fere uero ; lmperoche  mondo fi gm fica ornamento ; intelligibi-  le , perche è comprefe felamente dal-  l’intelletto , tlquale riguarda effa ucri •    28 L 1 ® ^ 0 *  tà . 7 ?^/ diuin Telatone e chiamato nel  fi fio dilla fypublica figliuolo di Dio. Ma  di quello piu diffufamente in quello , che  figue y parleremo : 6 . Nondtmanco fi noi con -  ftdereremo , che il primo principio è firn -  pltctfiimo , ft) potentifiimo : altrimenti  non farebbe /opra ogni altra cofa : chia-  ramente conofieremo quefìo mondo intel-  ligibile y o uuoi (^Angelo non potere effir pri-  mo . lmperoche nell'Angelo fendo moltitu-  dine, ancora u'e compofitione ; ffi) per que-  flo imper fedone, imperoche ogni cofa com-  pofla ha in fi una parte, comcpotentia ,  ma parte , come atto : la potentia ha fi-  co imper fettone ; Patto la per fedone . Et  peroogmcofacompofìaha mefiolatoin fi  l'imperfetto col per fitto . La potentia non  e altro , che quello , pel quale la cofa può  effir e, non fendo ancora . L'atto aggtugne  l effir al potere ; fg) pero la potentia è im-  perfetta ,    P % 1 M O. z 9  perfetta , lacuale gli antichi 'Pitagorici  chiamarono infinita , come per fìta natura  indeterminata . Inquanto adunque l'An-  gelo ha compofitione non è fimplicifitmo :  inquanto ha tmper fetione , non è potenti fi  fimo . Imperoche qualunque imperfetto  uiene alla per fetione coll'aiuto et altri :  però quello è piu potente , per beneficio di {  chi confeguita la fua per fettone . Ter la-  qual coja fèndo l'cAngelo ne (empiici fimo,  ne poterà fimo , non può efièr ancora pri-  mo >ft) pero Tarmenide Pittagorico afi  fermo il primo Ente , qual noi al prefinte *  chiamiamo Angelo , efièr filmile a una sfe- '   ra » lì) P er o hauer parte , hauendo  la sfera mezo , g) eftremi. T>i che ne fi -  gutta ejfo non patere efièr la femphci (lima  Vmtà, come diurnamente dice tMeliffò ;  laquale al tutto efclude ogni parte, (fi ogni  moltitudine,^) ogni imperfettione ;{t) però    30 LIBRO  come ueramente capo di tutte le coffe au-  tore della per fettone dell' angelo; tignale me  rit amente e chiamato uniuerfi intelligibile.  S s o Iddio findo principio  ff) autore d' ogni per fettione  nelle cof , che fino , non è  capace d'imper fettone alcu-  na y di (jualuncjue natura ejfa fa . Et pe-  rò noi pofitamo dire fimile proportene ba-  ttere alle cofe create ; eguale ha la fimplicif  fima unità a numeri Tutti t numeri han-  no moltitudmeybanno ancora unità . Mol-  titudine fecondo che noi diciamo il nume-  ro ternano hauere tre unità ; il quaterna-  rio hauer quattro unità , {fi eofi gli altri  numeri nel medefimo modo. Unità, per-  che il numero Ternario , è uno Ternario ,   q) una     P 1 A4 0 .   ft) una Trinità . Il quaternario è uno  quaternario , ft) una quatrinità : adun-  que tutti i numeri hanno moltitudine ,han  no ancora Vmtà . La moltitudine dice  imperfetto ne , ft) diuiftone . L'unità dice  coniandone ft) per fettone . Et pero tutti i  numeri participano della per fettone , f0  della imper fettone , Della per fettone > in-  quanto ogni numero e un numero . Del  l imperfettione y inquanto ogni numero  ha moltitudine . L'unità ancora de nu-  meri non e acutamente perfetta , cioè  quella lenita , per laquale il numero Ter-  nario è un Ternario i ft) il numero Qua-  ternario è un Quaternario . Imprima ,  perche tale unità ha conuenientia , ft) af-  finità colla fua moltitudine ; come l'unità  del Ternario ha affinità con le partidel  Ternario . altrimenti di efifa uita 3 ft)  dcde parti fik non fi farebbe un tutto ; ft)    >    3 2 L 1 *B %. 0  quefta è una frette et imper fettone . Dipoi  perche l’unità d'ogni numero è diffimta  m modo , che l’unità del numero Ternario  è dtuerfa de It unità del Quaternario, ft)  ciascuna di loro ha la fra potentia determinata per laquale tfro produce U fro  numero. Questa non e propriamente imper fedone , Jènon perche l'unità del Ter-  nano benché fecondo che e unita del Ter-  nario , fra perfetta , nondtmanco non con-  tiene la per fettone , ft) utrtù in fi delt al-  tre unita : carne la perfetti firn a lujlitia ,  benché inquanto Iujhtia non ha difetto al -  e uno ; nondimeno non contiene infila per fi  t ione della fapientia>{f) cofì la per fettone Ut  terminata ha fico in un certo modo la im -  per fettone* Adunq; lafimpliciftma unita  \n prima non ha moltitudine alcuna findo  al tutto indtuiftbile . Oltre a quefio non ha  afflìtta con alcuna moltitudine numerale  * non    P ^ / M O. ss   non potendo hauer fuo coniugio . 7/on e  ancora dif finita, ftfi particolare unità ,ma  fimphcifiima unità , eminente unità ; ft)  pero Pitt agora affermò effa contenere in fi  la potentia, (tfi i fimi di tutti i numeri.  ‘Riduciamo tl numero al proceffo delle co/i  dal primo principio , fecondo il coftume t  ‘Ptttagorico . Nelle cofi create fi truoua  potentia ; trouafi ancora atto . La poten -  tia , inquanto potentia, eimperfetta,l'au  to , inquanto atto , e per fettone , adunque  Imprima imper fettone delle cofi,nafiedaU  la potentia , della quale fono partecipila -  fee ancora imper fettone in effe per cagione  dell'atto . Imper oche l'atto fi chiama atto ,  inquanto è per fettone di potentia , ff) in  queflo modo uiene a par deipare della im-  perfetto ne congiungendofi fico . La forma  è atto della materia , però facendofi  della forma , della materia un compo -   C    34 L I 2 0   fio : la forma partecipa delle condizioni  della materia .. Uoperat tont i atto della  potentia attiua , come la cale fattone è atto  ft) per fettone della potentia calefatttua :  nondimanco ha conformità colla potentia  dipendendo da effa . Oltre a cjuefìo , fatto  dice per fedone definita, ft) terminata. La  forma del fuoco dice una per fettone termi-  nata : cioè effa natura dclfuoco^La terra  dice per fettone definita , cioè , effa natura  della terra, fp) cofìe proprio d' ogni altro  atto. Et pero t uno atto non include la per -  fittone dell'altro, adunque e [eludendo e fi  fi Iddio ogni imper fittone, efiludt f imper-  fetione , che fi troua per cagione della po-  tentia . Imper oche Iddio non ha potentia  alcuna , fendo fimplicifiimo : Efclude an-  cora f imper fettone , che e per cagion del-  l'atto . r Ver che Iddio non ha conformità ,  ft) proporftone con alcuna potentia: non   fendo    1 M 0 . 3 s   fendo per fettone di potentia attuta > nefe  potendo d'effe , ff) della, potentia confettai -  % re un compoflo . 'ISfon è ancora di per fedo-  ne definita , ffej particolare , come ctafetì -  no atto , procedendo da lui ogni atto , ff)  ogni potentia . c Adunque in ‘ Dio , e ogni  per fedone sjclufa ogni imper fettone^ pe-  ro in lui ogni cofa , è per mododtVnità  fìmplicifeima . e in lui diftinta la fa-  pientia dalla Inflitta , non è in lui diflmt a  la bontà dall'efeèntia , fjfe dalla aita. Ma  è unicamente l' e fènda , la aita, la fapien -  da : Et pero il dtuin Platone dtfee nel Par-  menide y non efeer di Dio nome , non diffi-  nidone y non fcienda , non fenfe , non opi-  nione : come quelli , che dicendo per fedone  determinata , attribuir ebbono a TDio im-  per fettone , dalla quale al tutto abborifee .  Et pero *P lodino yft)gl altri c Platonici nie-  gono Iddio ejjer ejfentia , o intelletto : ma  . ì . x v fj    t    L I B 7^0   tome molto piu prefilante , efifir contentò  delle fue ricchezze ; ricco della /ita fimplt-  ttfiima lenità . Solamente noto a fe mede -,  fimo ,filo amtratore , {fi cultore dellabtfi  fi della fiua diumitd. Quefla è quella diut -  na caligine , laquale tanto celebraDioni*  fio zAreopagtta fplendore della Cbrifha-  fia Theo logia ,alla quale non dggiugne utr -  tu alcuna rat tonale, o intellettuale . Impe-  rochcy come il rationabile non può efjer pe-  netrato dal finfi : ne lo intelligibile dalla  potentia rattonale : ne le cofe incorporee , {fi  femplict da t corpi , {fi dalle cofe compo[ìe m y  cofi quello y che eccede ogni modo d y e fiere ,  t (elude al tutto la intelligentia , o qualun-  que altra cognittone, qua fi un Profano  delle cofi fiacre . ^Ma è nelle cofi create un  Carattere , {fi una (ìmtlttudme di Dio,  fiore , {fi capo d'effe: per benefitto della -  yuale fi congtungono a Dio , quafi non fila   lecito    i    rp XI M o. r?   lecito aggiugnere al fuo creatore con parte  alcuna di fe>mapm tofto con tutto fi . On+  dell Profeta ratto daldiuin furore efe la-  ma y o Signore la tua laude , è tl felentiofi-  gmfeando ognipotentiayO uuoi r attornierò  uuoi intellettuale , douer ceffare dalla fila  operat ione,quado fi fa l'ultima unione del  le cofe create con effe Dio . Adunque molto  piu appropinqueremo a T)io procedendo  per le negazioni ; che per l'affermationiipur  chefempre mediamo effer meglio ^che quel  by che noi neghiamo di lui . Nondimanco  pofeiamo ufare ancora l'ajfcrmatioMynon  derogando alla fita diuinitàpur che intera  diamo effe hauere nfpetto , ft) compara-  tane alle cofe create . Come quando noi di-  ttamo T>io effer principio , mezo , fp) fi-  ne . Imper oche per il principio intendiamo  le Cofe da lui procedere ; per il mezo a lui  conuertirfi : per il fine effer da lui donato   C iij    38 L I 3 7^0   della ultima fùa per fettone; lacuale con-  file nella uer a unione fico. Quefto fgntf-  corono gli antichi ‘Tittagorici quando difi  fonoyla Trinità ejfer mifura di tutte le co -  fi. Quefìo panifico ancora Orfeo quando  dijfi Gioue ejfer Principio , mezj), fine,  ft) pero ( come dice Diontfio Ariopagita )  in quefto modo Iddio e fplendore a gli il-  luminati , per fedone a perfetti ; a Tteifi-  cati diumità , a /empiici fimplicità ; leni-  tà a quelli y che partecipano dell'uno ; uita  de uiuenti \ejfentia di quelle cofi y che Jd-  no'ydi tutta l'effintiaydi tutta la uita prin-  cipio y ftj caujà . Et pero . ogni copi creata,   < o uuoi eterna , o uuoi mortale , o uuoi ra r  Rionale, o uuoi Angelica, può efilamare in :  peme col \Profeta,Signore lo fjlendore del  la faccia tua , e fignato fipra noi.    \ 1 M 0. 39   L i antichi Pitagorici chia  morono e/fo Iddio per fe uno ,  ffi) per fi bene > come auto-  re della /Implicita alle co/e  create , quanto di e/fa po/fono ejfer capa -  et : aggiungono Siriano y ft) Troclo per  quefto nome efier fignificato y non efio Id- *  dio ; ma quanto noi di Dio participia -  mo 3 quaf mi crediamo hauere efprejfi ef  fi Dio , quando noi efprimiamo Caratte-  re della diurni à y col quale noi fiamo fi-  gnati . Ter fi bene , perche non filo e (fi  non niega a ciafiuno il fio grado di per fe-  ttone ; ma ancora y perche , co.me fine , e  de fiderato da tutte le cofi: ilquale poi che  hanno configmtoficondo il modo della /ùa  natura , fi quietano . c Adunque ctoche  procede da lui fi fa partecipe della fua firn   ' C ni/     yo L 1 2 7^0  p lìcita , ft) della /ita per fettone . Ma per-  che qualunque cofa procede da altri, per  necefiità degenera dalla per fettone di co-  lui , da chi procede ; altrimenti l'effetto  non farebbe di minore per fettone , chela  cagione ; fendo effo(come dicono e Pitago-  rici, ft) Plotino) uer amente uno: quello  che procede da lui, è non uno, ft) pero ha  fico moltitudine . Onde habbiamo adire  hauere ancora imper fettone . Quella tm-  per fedone e per la dtgrefitone , ft) partita  da tffo TDio, meontrandofì fimpre nell'im-  perfetto quello , che parte , ft) fi allonta-  na dal perfetto : nondimanco ritornando  a quello , donde procedeua -, acqui fi a la  per fedone . Per laqual cofa rettamente fi  dice , ogni cofa compofia ejfir compofta di  imperfetto , ft) di perfetto » Quefto inten-  dono e Pitagorici, quado dtffono per il prò  ceffo dall'uno produrfiildua ; ilquale ri-  tornando    P 1 Ad 0\ 4.1   tornando a l’uno, donde s’era partito, con-  Jìituifee il tre prima figura : l’effentia di  cui contempliamo nel triangolo, come dice  Teone . Imperoche quello , che procede da  'Dio, partendo/! dalla infinita fua perfe -  tiene, cade nello imperfetto, quale è la na -  tura del dua; ritornando a T>io per la fua  interiore anione participa del perfetto ,  quale é la natura del tre . Imperoche come  il tre è compofìo della progreditone dell’uno 9  ft) della rtgreftone a l’uno, cofi quello 9  che procede da Dio, è compofio dell’ imper-  fetto , inquanto da lui procede, ffe del per-  fetto inquanto a lui ritorna. In fomma da  Dio procede l’Angelo : ilquale nella prima  mifura di fuo proceffo e imperfetto. ^Ma  come imperfetto ? certamente imperfetto ,  perche , fendo l’angelo il primo uiuente,  ft) il primo intelligente ; ffe ogni uiuente ,  intelligente effendo compofìo della pò-    4 2 L 1 <B T^O  tentia aitale , ft) della fùa operatone, cioè  del uiuere ; ft) della potentia intellettuale,  ft) della fua operatane, cioè dello intendere  la potentia come antecedente- alla opera -  none fu prima prodotta , la quale ha im  per fettone, fecondo che noi intendiamo efjd  ancora non operare . L'angelo adunque  nella prima mifura del fuo ejfere , fendo  una efentia con facultà di uiuere , ft) dt  intendere ; ft) non umendo , ft) non inten-  dendo , ancora fi può dire imperfetto . £t  perche la potentia attiua riguarda La fa  operattone ; altrimenti farebbe uana , fi  non operaffiy ft) operando confeguita il fuo  fine , ft) la fùa per fettone , laquale per  natura intenfamente de fiderà : è necejja-  rio nello Angelo effer naturalmente un'in-  tentifiimo defìderio di uiuere , ft) d'inten-  dere. Que fio defiderio nondimanco ante-  cede una certa fermezza , ft) una certa   conftantia    X / M 0. 4/   confi arnia , per uirtu della quale mai Van-  gelo parte dafe dalla fua natura y ma  fempre fi a quel me de fimo. Quella ferme* z  za dal dium ‘'Piatone nel Soffia e chia-  mata fiato. L'operattone y che feguita quel  defederiofe chiamata moto, di qui polia-  mo uedere quello y chefegmfec a il dium Pla-  tone nel Simpofeo y nell'oratione di Fedro ,  quando dice l y amore cjjcr del numero degli  Iddi/ antichifeimi ; affermando fecondo  V opinione de Ih antichi Teologi dopo il Cha-  os effer la terra , ft) l'amore , im per oc he il  Chaos non e altro y che la effentia dell'an-  gelo fecondo , che e confederata nella prima  mifetra del feto effer e y come imperfetta,^  come potentia y moltitudine y ft) infinito à  chi meritamente fi conuiene queflo nome  Chaos y fignificando indige filone , ff) con-  fatone . L'amore non e altro , che quella  ingenito defìderio y principio del u\uace y fp)    44 L 1 V Ilo   dello intendere . La terra fignifica la fer-  mezza 3 ft) l* fi abilità , per uirtu della  quale l'angelo non mai parte dalla fìta na-  tura . Tuttamente adunque e detto l'amo-  re ejfere antichifetmo , imperoche ejfo ante-  cede ogni operatone fendo principio d'ef-  fe s per uirtù delle quali , le cofe diurne me-  ritano d'ejfere chiamate lddij .   • ' * • '•[ V * \ V ;     £/ni appetito , ft) ogni de-  fiderio fi può chiamare amo  re in un certo modo benché pi  ghandopropriamentei l'amo  re fìa felamente defiderio di bellezza > co-  me dichiareremo tn quello , che fegue. On-  de non mmeritamente ildefìderio , tlqua-  le muoue tutte le cofe al fuo fine y ff) al fuo  bene , e detto amorei ft) c Platone nel firnpofio nell'orattone di Fedro per l'amore  non intende altro , che l'appetito , che e  nell'angelo ; per ilquale fi muoue a con -  fegtiire la fua per fettone . Si che pigliando  in quefto modo amore , diciamo ejjere in  ogni co/a creata infino ad' ultima materia,  nedaquale è ancora l'appetito alla forma  laquale è co fa diurna , fgf buona , ft) ap-  petibile , come dichiara ^rifiot eie. Adun-  que l'amore e cagione , che l'angelo 3 ilqua -  le e prodotto imperfetto , confeguiti la /ùa  perfetione ma come diciamo l'amore effir  cagione di tale per fedone ? certamente per-  che quedo ingenito appetito , quale al pre-  finte chiamiamo amore , quafi uno filmo -  lo , fpinge l'angelo a l' operatone . Impero -  che qualunque co fa fubtto , che ha l' effir e  e inclinata adoperare , ft) quanto ha piu  perfetto ejfire , tanto ha maggiore inclina -  tione ad' operare , onde perche i' angelo ha    4 6 L I <B X 0  perfettifeimo ejfere , anzi è effe ejferefendo  lo ejfere la prima cofa creata ; per quefio  ha grandtfiima incltnatione adoperare ,  quefia oper adone fi chiama tuta: fendo  la uita il primo moto interiore , ft) primo  atto , ft) per fedone dell' effe nda , come di-  ce Plotino , ft) q u ^i che l'hanno feguita-  to, cioè r Porfirio , ft) Amelio : benché Si *  riano , Proclo crediino altrimenti', tetta-   li al ùrefente dimetteremo. Sendoadun ~  que la uita la prima operatone dell'ange-  lo , è manifefto efeere il primo feto atto , ff)  la prima per fettone . L'angelo adunque  nella prima mifura delfuo procefeo e detto  tjfentia ; laquale è non uno procedendo da  Dio , che è perfatifeimamente uno :  pero ha moltitudine, anzi in ejfa ( come di  ce il dium c Platone nel r Parmenidefe efpli  tata tutta la natura de numeri, mediante  iqualt procedendo nella ulta difttngue fe   medefima -    P 1 Ai 0 . 47   ntedefima ne modi particolari ffe dell' effe  re ffe) come in piu efeentie , dando fecondo  il feto numero a ciafeuna effentia le fete prò  prietà , come y fe tu pcnfafii la Geometria  per una atione interiore dtftinguere fe me -  defema ne Tbeoremt particolari : lacuale e  una in tutti e teoremi ; perche ciafeuno è  Cjeometria:nondtmanco è ancora moltitu-  dine , fendo l'uno Theorema difemto dal  l'altro, (fe però ‘Plotino dimoftr a diurna-  mente dopo l'uno, cioè Dio,efJere l'efeentia ;  dopo l'efeentia 1 numeri , dopo i numeri , e  modi particolari dt II' efeer e, cioè le efetntie.  In fiomma l'angelo mediante il numero  come efattifeima regola per benefit io della  feuaatione interiore, quale fi chiama pri-  mo moto , (fe prima uita , diflingue, (fe  diffimjce fe me defimo in tutti 1 modi par-  ticolari dell'efeere , onde l'efeentia de II' am  gelo è come un tutto. L'efeentie particolari    4* LIV^O   fino le parti , non come il capo , o la mano  è parte di Socrate : ma come il Leone, o il  cauallo è parte dell' animale . di quefio piu  diffujamente habbiamo detto nel libro del  *T utero : ft) diremo nella concordia fra  Platone, ft) zArifiotile . Di qui chiaro ap-  parifie quello , che uuolc il diuin Platone ,  quando dice le cofe diurne produrre fi me -  defime . Imptroche non figni fica altro, che  le cofe diurne efier compofte dell'atto primo  ft) del ficondo , cioè della potentia attiua,  ft) della fila operationeilaquale pende dal «  la potentia attiua , come l'angelo , ilquale  e compofìo della potentia uttale , ft) della  fua operatone , ft) della potentia intellet-  tuale , ft) della fua operatane ; per benefi-  co dellaquale l'angelo è attualmente ui-  uente , ft) intelligente . Onde è chiamato il  primo animale , ft) il primo intelletto ; ft)  chi intende altro atto , ft) altra potentia nelle cofi diurne , non intende la fintentia  di f Piatone , ne forfè la natura di effe nel  modo del procefo loro dal primo principio .  Quelle e fentie , ffè quelli modi particolari  dell' ef tre di finiti nell'angelo dalla ulta  fino chiamati /fette, (g) Idee,lequali fino  in tanto intelligibili , in quanto hanno lo  efèere uiuo, (t) la ulta . Onde ildiuin Platone dice nelTimeo,che topefice del mondo  fece tante forme nel mondo , quante tua *  telletto uide neluiuente,fègnificando l' Idee  efèer nel primo animale . Et pero io mi  marauiglio afai , come qualcuno habbia  detto , che la forma , che effo Dio da alla  materia angelica , fino efe Idee , come fi  l'angelo , inquanto procede da Dio , fufii  potentia pafiiua , laquale diuenti ricetta-  colo delle Idee . forfè maggiore errore  fi può commettere nelle cofi diurne, che pen  fare in efe eferpotentia pafiua fìmile al -    io L 1 5 X 0 ;  la materia de corpi finfibtlt : perche cioche  procede da e fio Dìo immediate , procede  piu fimtle a lui, fg) p M perfetto, che è paf  fibtle. Onde fendo molto piu perfetta la  potentia attiua , che la paffuta , ì con-  veniente immediate procedere da lui la po  tentia attiua, ft) non pafiiua . c Adunque  noi diremo da 'Dio procedere immediate  un'atto primo : ilquale fi può chiamare  efientia prima , fendo la prima cofa , che  ha l'efiere; lacuale inquanto efientia e per  fettifiima : ma bene nelfuo primo procefio  ha fico congiunta potentia d'operare, non  operando ancora : q) fecondo, che ancora  non opera , ha fico Imperfetto : Et que-  llo e quello , che dice il diuin Platone nel  Filebo , da ‘Dioeffirt dua elementi, cioè  l'infinito , ft) il Termino della mtflione',de  quali fi confi ituifia unaTerza natura ,  cioè l'effintia .Imperoche quello , che pròcede , inquanto e atto , {fi diffinito fi può  dire hauer termino : inquanto ha fico con-  giunta la potentia, {fi l'tmper fettone fi  può dire infinito : e l'uno {fi l'altro infieme  fino la Telatura della prima ejjentia ; la  per fettone y {fi atto, dellaqualee la fua  operatane interiore , {fi non Idee . Come  dal termino proceda lo Ciato , {fi la iden-  tità : da l'infinito , il moto , {fi la diuerfi-  td ; Et come tutte le cofi fitto il primo fie-  no compofie d'ejfintia,diftato,di moto. di  Identità , di dtuerlìtà altroue h abbiamo  detto , {fi diremo diffufamente nella con-  cordia fra Platone , {fi Artftotile ; oue di-  mena l'opinione di Siriano , {fi di e Proclo  dichiareremo , come ciafiuno d'efii e ele-  mento , {fi come e genere dell'Ente . zAl  prefinte fi conuiene piu tofto accennare ,  che efplicare fimilt materie .     sz L 13 Ito  ' A# a d i particolari del-  l'tjjìre nell'zAngelo di [Unti  per beneficio della ulta al  yprefinte chiameremo ldee\  benché fecondo diuerfi confi derat iohi fi  pofiino chiamare per diuerfi nomi , come è  dichiarato breuemente nel primo libro del  nofiro Palerò, ffi) altrotte piu dijfufamen .  te fi dichiarerà . Onde fi foluono facilmen-  te tutte le obietioni contro a l'Jdee fatte da  ss4riflotile in diuerfi luoghi: ma principal-  mente nel primo libro dell'Etica , ft) nel  fifto delle co fi diurne , Uguale comunemen-  te fi reputa il fittimo . Quefla difìnbut io-  ne fèndo con ordine , mi fura, proporzione ,  fi già quello , che da l'ordine all' altre cofi  non è d'effe priuato , come le cofi diuine ,  le quali producono , ft) reggono , le infe-  ■ ^ . riori ,     rp X i m o„ j ì   riori, e per necefittà accompagnate da una  cenar gratta-*; da un ceno splendore ;da  un florido colore , tlquale fi può chiamare  rettamente efia bellezza* lmperoche ( co-  me diurnamente dice Plotino ) benché la  prima bellezza non fia un'altra cofa dada  ferie d'ejfi Idee , come aduentitia , q) efira*  nea ; nondimanco quella gratta , quello  fplendore , quel fine ,• che in fu la prima  giunta apparifie ad'afpettto di coloro, che  raguar ciano tutta la ferie dell'ldee , quafi  come il colore neda fuperficie , è chiamata  efia bellezza ; laquale non feguita la natu-  ra di parte alcuna 9 ma piu toflo del tutto .  Onde è manifeflo la prima bedezza prò*  cedere dada per fedone interiore dell'Ange-  lo > quale duerno efjere fioatto . Et pero  chi dice che' l bedo e diflinto dal bene come  l'eflrtnfeco dali'mtrinfico , fecondo il mio  parere dice rettamente, ft) chi lo riprende  r ^ -> D iij    34 l n x o   fer quefto, merita ejfo piu tojlo effir riprn  fi , perche fi noi compariamo il hello al be-  ne , affolutamtnte confejjiremo il bello  tjfire come fpetie ; il bene , come genere. 0  nero firfi piu rettamente , il bene ejfirt  per fi, mparticipato,e'l bello cffere una   certa partictpatione del bene, ma fi noi  non compariamo il belìo al bene affò luta -, 1   mente, ma quello, che è proprio bene a eia -  feuno , diciamo effer il bello differente dal  bene , come l'eftrinfico dall'intrinfico.Im -  per oche la Juftantia , diffinitione , è, il   proprio , primo bene di ciafiuno ; ft)  neffuno dubita la Juftantia ejfire mtrin -  fica . Il bello , findo per modo d'acciden-  te , come esirinfico feguita la fuftantia ,  e la diffinitione . Tuttamente adunque e A  dettoci bene effir fi parato dal bello , come  I mtrin fico dall'eftrinftco . Ma ( per tor-  nare onde noi partimmo ) findo la prima   bellezza   i ^ i    / M 0 : yr   bellezza una gratta , uno fplendore , uh  fiore della per fettone interiore ,lac/uale me-  ritamente chiamiamo bontà ; che mura T  digita e fe nella potentta mtelletuak del »  l'Angelo eccita un'intenfi appetito , g / 1 dd  Jìdertonon filo di fruirla , d'ejfrimer -   la, per modo di fimi , di Telatura? On*   de l'Angelo fi fa tutto bello. Que fio è l'amo  te, ff) la Venere celtfìe, celebrata nel  fimpofio, neìloratione di Paufitnia . c Per -  c/0 /0 «0» poffo non mi marauigltare di cer  ti per altro h uomini , Sgrani ft) grandi  iquali dicono , che l'amore e cagione della  per fettone della bellezza . Imperoche , fi  l'amore e appetito , fjfi defiderio ; la bellez?  za, e appetita , ft) defiderata,e necejfirio,  che la bellezza anteceda all'amore , ante -  tecedendo l'appetibile all'appetito ■. (orno  adunque dona l'amore la per fettone alla,  bellezza dicono ancora co fioro , che la bef  * ' 2 ? tiij    6 L 1 *B X. 0  lez&a e cagione materiale dell'amore y la-  qualcofa e piu marauighofaimperocbe la  bellezza muoue , come cofa amata , ff) de*  fiderata, come ancora muoue l'appetibile ,  ft) l'intelligibile , ft) fino cagione come fi  ne, non come materia . llche apertamente  afferma zAnfiotile nel undecimo libro del  le co fi diurne , ft) il diuin Platone nelfiflo  della %epublica . Tsle però fi può dire an-  cora interamente perfetto l'angelo . Im - ,  Per oche l'ultima per fedone di ciafiuno è  la pofi fione di effo Dio , fecondo che a fi  e pofiibile : Uguale da neffuno e poffeduto  con parte di fi-, ma con tutto fi . Onde Id-  dio non può effer compre fi ne per l'intellet-  to, ne per la uolontà, fendo l' tino, come l'al-  tra, par te deli' Angelo, {fi non tutto l'Ange  lo . adunque l'ultima fùa per fettone, e la  coniuntione di tutto fi con effo Dio , alla-  gale procede per necefsità uno intentai -  -u - mo    P M 0. si  mo appetito . Quefìo è l'amore tanto e fai-  tato nel Stmpo fio, nell' or aitane di Agatone;  llquale è beat if imo, fendo la cagione della  felicità ,e ottimo , congiugnedo la creatura  con Dio , che è ejfa bontà ,e gtouanijsimo di  tutti gli altri Dtj ; perche è t ultima co fi ,  che riafca nebtzAngelo . 'Ter la qual cofa  ‘Dionifio Areopagita dice , che l'amore è  un circolo fempiterno dal bene nel bene al  bene, fìgnificando tre fpetie d'appetiti, nel-  l'angelo da noi dichiarati di fopra : uno  fùbito , che l'efentia dell' (^Angelo procede  da Dio , pel quale l'Angelo produce la pri-  ma operat ione, cioè, la ulta; tintali ro, che fi  gue nell'Angelo fubtto , che è difhnto nelle  Idee,oue rifflende la prima bellezz&*£t que  fio e proprio Amore,cioè dtftdeno della bel  lezx&.Wl terzo è quello appetito , che con •  duce l'zAngclo alla comunione d'effo Dto>  della cui pofftpone acquifìa la fua felicità. O me l'Angelo proee*  de da effo Dio, co/i l'ani   feguito principalmente , cioè *7 orfino ft)  zAmeho.Qutfìa incomincia a riceuer mol  mudine y tmper oche fèndo principio del mo-  to come pruoua tldiuin Alatone nel deci-  mo libro delle leggi , fg) il moto feguitando    SS , ' . ' ' «v      S9  l infinito , è neceffario in efjd comma a re-  gnare l'tn finito . A cjuejìo fieguita la molti*  tudme 9 come per fiua natura inde termi*  nata . Et però la prima molttplicatione di  fiuHantta , quafi fitto un medefimo pene*  re 9 incomincia a effer nell'anima. Sono  adunque le anime , che procedono dallan *  gelo molte . Conctofia che l'Angelo non fia  finon uno 9 nondimeno fino tutte compre fi  fiotto quella commune anima , le qua li fi -  no differenti luna dall'altra , fecondo ,che  piu fi appropinquano , o piu fono lontane  da quello , da chi procedono : il capo 9  guida di tutte è l'anima mondana t da chi  procede tutto quefto corpo utfìbile , che noi  chiamiamo mondo , o uuoi ùniuerfò . Sot -  to la prima anima fono dodici anime prtn  cip ah, lequah finoprepofìe a dodici parti  principali dell'uniuerfe cioè , a otto sfere ce -  kfli 9 quattro elementi 9 ft) perche eia .    60 L 1 B 7^0  y cuna anima ha due parti , come dimoflra  Platone nel Timeo ; una , per lacuale è fi-  mtle all'angelo , da chi procede ; l'altra  perche e fimile al corpo , tlquale produce ;  per queflo ha finito due nomi , per l y uno  de quali e figmfìcat a la inclmatione al pro-  durre , (fi reggere d corpo ; per l'altro , la  tnchnatione alle cofi diurne . Orfeo adun-  que (fi i fuoi figuaci chiamano l'anima  della terra, Plutone, (fi r Profirpina:l'ani  ma dell'acqua , Oceano , ffi Theti : del-  l'aria , Cjioue fulminatore , ffi Giunone:  del fuoco, Faneta, ffi Aurora : della sfe-  ra Lunare ‘Bacco Lichinto , ffi Thalia ;  del file, Bacco Sileno ffi Euterpe ; di Mer-  curio, Bacco Lifio , ffi Prato : di Venere,  Bacco Trietarico, ffi Melpomeneidi Mar  te , Bacco Bajjareo , ffi Cito : di Gtoue ,  Bacco Sabafio , ffi Tberfìcore : di Satur-  no Bacco Anfiareo , ffi Polinnia : de l'ul-  tima  6i  tima sfera Bacco Pcriciomo , g) Franta:  Bacco cnbromio g) Calliope di tutto l'uni  uerfo . One , e da notare , che a ciafiuna  Mufa , è propoflo un Bacco per figmfica-  re , che la parte dell' anima, che melma al  corpo, è retta da quella, che partecipa del-  la mtelligentia , inquanto per tale partici -  pationee fatta ehria del diurno detta-  re . zAlle noue<iZMufi li antiqui Theologi  prepofono un'Apollo, lignificando le otto  anime , d'otto sfere celcfii,g) l'anima del-  lumuerfo, chiamata Calliope , ejjer mini-  fi r a della diurna mtelligentia , laquale  efii chiamorono apollo ; noi al preferite  chiamiamo Angelo . ^Non farà forfè fluo-  ri di propofito riferire una maramghofit  opinione circa il numero , g) l'ordtne del-  l anime intellettuali , la quale fi può attri-  buire a gli antichi Theologi . ( I^ot ueggia-  mo il numero duodenario batter grande    62 L r <B HO   automa nell'uniuerfb , di che facciamo  coniettura per ejjtre dodici parti principa-  li in ejfo , cioè dodici sfere . Oltre a quefto 1  ueggiamo Uno bili filma sfera effir dtfìin - j   ta m dodici figni , onde ragionevolmente  habbtamo a concludere ogni altra sfera ef  fer ordinata , ft) diftrtbuta nel mede fimo  modo, mafiime e (fendo in ogni sfera U na*  tura del tutto , come accenna Platone nel  Timeo : ma di quefto altroue piu dijf ufi-  mente parleremo , oue dimoieremo , che  tffendo l'uniucrfì compoflo , ft) retto dal-  la ragione Harmonica , e neceffirio , che  fa ordinato fecondo il numero duodenario,  radice dell'armonia di diapafon, fappiamo  ancora , che'l numero fobico dice plenitu-  dine , ff) firmità ; ft) pero quando il m-  • mero procede nel fio Cubo,eJphca tutta la   ua per fettone • Il cubo , e quando un nu-  mero multiphcato m fe medefimo di nuouo   fi multi *     % 1 M 0. 63   fimultiplica per fi . V irbigratia noi chia-  miamo il dua numero lineare , perche ha  fimilitudme con la linea . Se tu multiplichi  tl dua in fi mede fimo ,fi fa il quattro , ti  (juale ha fìmilit udine con la fuperficie . Se  tu di nuouo moltiplichi il quattro per dua  fifa otto tlquale ha fimilitudme col corpo,  piu la non ua la multtp Ite ut ione, come con-  tenta di tre termini longitudine , latitudt-  ne * {0 altitudine , ftf per ejuefio il cubo è  ultimo proce fio y per fettone de Inume-   rò. Quefi a procefiione e Pitagorici diurna-  mente accommodano alle fufiantie cofifi -  par ate y ff) eterne , come corporali , ff) ca-  duche y come altrouemofir eremo , Adun-  que il duodenario , tlquale e il primo nume  ro fecondo , compofìo di dua finarij fiqua-  le e tl primo numero perfetto 9 procedendo  nella fuperficie y ft) nel fuo cubo fa il nu-  mero osìd. T>CC. XXVlll ilqual nume    64 1 *B KO *   ro contiene tutta la plenitudine , fp firmi-  la , c/tf procede dal duodenario . Qualcu-  no adunque fondato in fu quefto> forfi po-  trà credere ejfiere dodici anime nell'umuer-  fo, quafi dodici principi) , come è detto •  Sotto ciaf una ejfir e dodici altre anime,  delle quali ciaf una habbia /otto fi dodici  legioni d'anime piu particolari . In modo  che il numero crefie fino alla fimma di  A4. D C C. XXV III. legioni , in ciafiuna  delle quali fia tanto numero d'anime ,  quante [Ielle fino nell' ultima sfera. 4 A£e  debba parere frano tanto numero d'ani-  me y quando ff) T)aniel profeta dice mi-  gliaia delle migliaia erano fìioi mini fri.  fommunque e fia , tutta la moltitudine  delle anime ha per guida , ff) capo la ani-  ma del mondo prefantifiima , diuimf   fima di tutte le altre .   ...     ’ c^nima degenerando  dall' Angelo , da chi proce-  de, inclina alla natura del  corpo y qual produce ; nondt-  manco non degenera dall'angelo tanto 9  che ejpt non rifirui delle condittoni diuine ;  ne inclina tanto al corpo , che effa al tutto  partecipi delle [òr de matertaliSPer laqual  co/a pofta in mezzo dell' una, fp) dell altra  natura y ncn dimette la cura , ffi) il minifte-  rio del corpo : q) gode le delilie del mondo  intelligibile, Onde meritamente è detta no-  do dell'uniuerfi. Et per quefto ilduttn Pia  tone nel Timeo compofi l'anima di fitte nu  meri, in modo che pofta l'unità da ciafiu-  no de iati , ne fegutti tre numeri ; cioè dal-  l'uno de lati il proce fio infino al primo cubo  de numeri pari . T> alt altro ilprocefti in -  — 4 E     Vi    *6 .OLQ/^3! X 0 5L  4/ primo cubo de numeri impari . Si  4/4 cg«/ /dta fino termini quattro , {fi  tre inter uaìli , per (lenificare nella natura  dell'anima ejjer dua propietà : l' una, per-  che effa fi congiugne fempre all'angelo,  -{fi quefìa è denotata per gli numeri im-  pari : l'altra , perche ejfa produce il corpo,  denotata per li numeri pari, {fi tana, {fi  l'altra è dif finita pel quattro. Et però noi  pofiiamo dire la quatrmità efjir uer amen-  te l'Idea della perfetione ; non filo perche  marauigliofàmente contiene il dieci; ilqua-  le fendo tutto tl numerose Ptttagorici chia-  morno Cielo , {fi umuerfi . Ilche ancora  fignificorono li antichi Theologi ofiuramen  te,quando a noue mufe prepofino un' Apoi  -lo . *ZMa ancora perche quando fi procede  nel cubo fignificato pel quattro , fi mene  ^all'ultimo termino della proctfiione;ne fi  può procedere piu oltre . Onde in ogni natu -    rapel Cubo efignificata l'ultima perfetto-  ne di ciafi uno .‘Non e adunq; marauiglia ,  fi e Pittagor tci(come dice Teone)giuraua-  no per colute he dona all'anima noflra la  Quatrinità y fontana della natura , che e  tmperpetuo flufjo ; Imperoche quefto non è  altroché giurare y per colui, cioè per Pitta  gora ; ilquale h abbia trouata L'anima e fe-  re diffimta per la quatrinità,cioe dalla po  tenda dell' intendere, dalla ragionerai fin  fi , dalla ueget attua . Dalle quali potentie  l'anima, che fi muouefimpre : fifa perfet-  ta. L'anima adunque produce il corpo ;ma  pel mezo d'uno in frumento proprio y ilqual  chiama grande fiminario y o uuoi natura * .  o uuoi anima feconda ; laquale dall'ani-  ma prima , è fatta grauida de fimi di tut-  te le cofi y che hanno a effire prodotte nella  materia. Da quefto grande fiminario pen  de tffa materia : laquale è imperfettifiima   . , ~ È ij    6S L I 2 TfO  di tutte le cofe fendo mafimamente diflan  te da effo Dio autore d'ogm per fettone ; la-  quale , "Plotino chiama principio di tutti  i mali , co[t nell'umuerfi, come nell'anima  noflra . "Pendono ancora dal medefimo fe-  minario procefiiom de femt qua fi razzi dal  lume Squali non mai fino fèp arate dal-  la materia , anzi fino fimpre congiunte fi-  co . "Noi le chiameremo e femi delle cofe . La  prefintia de ' quali nella materia affilue  la generatone : quando accompagnati da  lo affetto dell'anima feconda , moffo dalla  prima anima h fanno termine nel compofìo  \ naturale . Imperoche il compofìo non e al-  tro , che il fime , che pende dall'anima fe-  conda f q) la materia , in modo intra fi  uniti , che defii fi faccia uno . Quefto for-  fè e à Chaos dzAnaffdgora , di finto dal-  l'affetto dell'anima feconda , ilquale pende  dalt anima prima , rat tonale f uer a pa-   drona    SECONDO. 69  drona della gener attorie. Di qui fi può  uedere il fondamento di coloro , che affer - ,  mano tutte le cofe qualche uolta tornare  quelle mede (irne. Laquale opinione benché  paia molto aliena da zA riftottle : mafiime  nel fine delfecodo libro della Generazione 9  ft) corruzione ; nondimanco noi Jperiamo  dimoftrare ejfirhconfenttentifiima. Ma  per tornare alla co fa noftrafendo nell' ani-  ma fecondo efemi delle cofe , uere cjprefìont  delle Idee, ft) per que fio fendo accompa-  gnati da una bellezza, che ìtale a fimi ,  quale e la prima bellezza alle Idee , e necef  fario s'accenda in effa uno appetito ,ff) uno  defideriodi quella bellezza ; ilquale inco-  minciando dalla cognitione, ft) non poten-  do fare la fimilitudme di que da bellezza»  di dentro a fejransferifee nella materia la  par ticipat ione delle Idee , alle quali feguita  quefea gratta , que fi a elegantia, quale noi   E lij    io Litico V.  Aleggiamo nel corpo mondano uer amento  •figliuola dell' timore . Et pero Plotino di -  ce, che tutte le co/e fino teoremi >quafì pro-  tedino dalla contemplatine, hauendo prin  tipio dalla cognttione di quella anima .  Quella bellezza, che e nell'anima feconda , *  et quello appetito , che fi accende in e/fa e lo  Amore la Zienere uulgare nel fimpofio  riferita da Paufama, laquale è detta figli-  uola di (fioue, {fi di Dione; perche pende  dall' anima prima,ffi rationale, laquale è  detta Gioue, dalla feconda , ratina-   le , laquale ha commertio con la materia i  L Cielo, o uuoi tuni-  uerfi è uno , procedendo da  una anima, ft) fendo fatto  a fimilitudme di un mondi)  intelligibile -, ilquale noi dtfipra habbiamo   chiamato     S E V P 2 \£ 27 0.   chiamato Angelo ; ffi) pero Democrito *  ft) Leuctppo non meritano d'effere uditi ,  ujuali pofono mondi infiniti . o^irtfiotik  pruoua che'l mondo è uno: perche egli è fot  to di tutta la fua materia : ffi) Alatone  proua , che'l mondo è uno fendo fatto a  fimtlitudine d'uno efemplare . W<?i hab±  btamo nella r Parafrafì noftra /opra il cie-  lo hreuemtnte dichiarato , ffi) altroue dif-  fufamente dichiareremo in che modo della  unità del mondo fia la medefìma opinione  dell'uno , ft) dell'altro filo fio fo , e il mondo  non filo uno, ma ancora ingenito , ft) incor  r unibile, fe noi crediamo ad Ariftotile . Al  diuin Platone piace il mondo fempr e effe-  re fiato, et fempre douere effiere : nondime-  no hauere cagione da cui penda , cioè dal-  l'anima diuimfitma, principio della natu-  ra corporale . Et pero habbiamo da dire  effer tre principali fu ftantie, lecitali uera-   E mj    72 L 1 <B 7^ 0 ?   mente hanno natura di principio : cioè Id-  èo, l'Angelo, l'anima diuinifiima . Iddio è  autore dell'unità in tutte le cofi , l'Angelo  della permanenza , l'anima del moto: ft)  quefia è la fintentia di Plotino, ft) di Por  fino; benché Siriano, ffi Proclo altrtmen  ti procedmo . Sono fiati ale unicorne ^lu-  tar co, ft) Seuero, iquah hanno affermato,  fecondo Platone il mondo effere incomincia  to qualche uolta , ft) qualche uolta douere  finire; ft) per quefto hanno detto filo effèr  dua prmcipij di tutte le cofi, cioè la mate -  ria , ft) Dio , non pendendo la materia da  *Dio , ne Dio dalla materia . In modo che  Iddio fia al tutto finza materia , ft) fim-  plice;la materia fia al tutto eterna, ft) fin  zci participatione di Dio , ma quefta oppi-  none (come è conueniente ) non è ammejja  dalli altri Platonici . Le parti principali  del mondo fino otto sfere celefii, ft) quat-   . tro eie-    SECO 5 SI DO. 7 ^  tro elementi . T>e!le quali le sfere celefli fi-  no nobihfiime. llche dmoflra la magnitu-  dine loro e'I / ito , l'ordine , e'I moto , il lu-  me. Plotino uuole che il Cielo Jia fuoco, ffi)  c . "Piatone nel Timeo uuole ,che il mondo Jia  compofto di quattro corpi , Fuoco , Terra t  Aere , ff) oAcqua , in modo , che da que :  fio nome fuoco fino comprefi i corpi celeftu  os4riftottle s'ingegna dimofirare , che il  Cielo non e fuoco . lmperoche il fuoco , co-  me ejjo dice , p muoue naturalmente in -  uerfi la cir cunferentia,p artendofi dal cen-  tro. &l corpo celeftenon fi muoue di moto  retto partendofi dal centro, ma di moto  anulare , ilquale moto [i fa intorno al  Centro , pero il Cielo non è fuoco, altri-   menti bifignerebbe dire y che il Cielo barn fi  fi dua moti naturali ; uno per ilquale fi  muoue intorno al centro , che e ilctr calare:  l'altro , per ilquale fi parte dal centro , ff)    74 L IV Z 0 - "  ua alla circunferentia , che è moto retto ,*  Lacuale co fa pare habbia per imponibi-  le- Quefla ragione facilmente foluono Pio-  tino , ‘Proclo . Ilche breuemente nella  no fra c Parafaf f opra il Qelo habbiamó  tocco y fé) altroue piu diffuf amente dichia-  reremo y mofìrando , che altro è muouerfi  nel proprio luogo , ft) fecondo la fua natu-  ra : altro e , fndo fuori del proprio luogo ,  ritornare ad cjfo > ff) nella fua naturaro-  no alcuni , che dubitano y fe le felle hanno  moto proprio . Platone dice nello Spinomi-  de y che le lidie fono animali ignei ; ft) nel  Timeo y che le lidie fi muouono intorno al  proprto centro . È piu de Peripatetici op-  pongono zAriflotile cjuafì uogliayche le jlel  le fieno continue col Cielo ; ma piu denje ;  ff) però non hauere altro moto , che quel-  lo della fua sfera . ^oi diciamo z^riflott-  le non hauer mai quefo affermato . ^a     '7f  quando duce le fteUee/Jere della medefima  ] fuftantia , di che è il Cielo ; intendere effe  effire della medefima natura , cioè ignee ;  fffi quando dice le sielle effire mfijfie nella  sfera ; non fignificare pero efftr continue ,  ma che non mutano luogo fecondo il tutto ;  ft) pero apparire effire tnfiffi ; perche fi  muouono circa il proprio centro . In fom-  ma le sfere celefh , ft) le Belle effire di na-  tura ignea , hauere proprij moti , è ma -   mfeflifiimo appreffio Platone . ‘Nelle sfere  celefh fin due moti , uno da Oriente 3 m oc-  cidente, tlquale ‘Platone chiama moto del  la fapientia , q) della identità . L'altro  da Occidente in Oriente chiamato moto  della diuerfità . Quefio , è delle sfere erra-  tiche : quello del fermamento ; ilquale in-  ulta la intclligentia dell'anima diuintfii-  ma , di chi è tmagtne . Quello, è chiama-  to deBro , e quello fimfiro. L'uno,    7 fi L I % 7^0 |   .l'altro fanno la generatone, la cor r-  ruttone;Quello del fermamente fa che firn  pre fia ejja generattone , ff) corrutione ,  come dichiara o Ariflotik . Et pero t Pitta -  gorici affermarono ff) ildeflro , ft) il fini •  fìro efier nel numero de' principi] pendere «  do dal moto del fermamente, ffi) delle sfe - ']   re erratiche tutta la generatone .     L Moto da Occiden-  te in Oriente , chiamato da  ‘ Platone moto di diuerfità  proprio delle sfere erratiche  autore della generatone , come è detto , è  diuifiin fitte, Imper oche ogni sfera ha il  fuo moto . di tutti è uelocifiimo il mote della  sfera di Saturno di tutti è tardifiimo il mo  to della Luna . Sono alcuni , uguali affer -  mono Arifiotile fintire il contrario, quale       77  uogha il moto di Saturno e [fere tardiamo  determinando fi longhfimo tempo perla  fiia fpeditione . ‘Ter contrario il moto del-  la Luna effer uelocftmo deter minandofi  breuftmo tempo. Tsfoi crediamo e far fen-  tentia d'o^lr ifìotile le sfere fàpertorimo-  uerji piu uelocemente,che le inferiori . Im-  peroche la magnitudine , che debba effer  trapaffata dalla sfera di Saturno s fuper a  molto piu la magnitudine , che debba effe-  re trapaffata dalla sfera della Luna , che  il tempo , che fi dttermina Saturno per il  fuo moto , non fitpera quello , che fi deter-  mina la luna . Quello è uno de gli errori ,  che Platone imputa a greci (come è detto )  nel fettimo delle leggi , cioè credere il moto  di Saturno effer tar difimo fra i pianeti ,  fendo ueloc fimo, può fi ancora r acorre de  comentarij di ‘Porfirio J opra il Timeo e  Pittagorici affermare il moto di Saturno    7S .L IV 7^0 \   effer ueloci filmo, ff) riflotile ancora dice   nelle quefiioni meteorologiche il moto della  Luna non fare accenfìone nell'aere fendo  tardo , ft) pigro : ilche fa il moto del file  per la uelocità , ff) uicimtà . Credono i Pi-  tagorici , ff) Platone il Cielo fendo imagi*  ne dell'anima efjir e dige fio fecondo la ra-  gione armonica ; L'anima, fecondo che pia  ce a Timeo Pitagorico, pigliando le duple,  ff) le triple con le fifquialtere, g) fiper ter  ite , fuper ottaue , ff) fimitomi è digefla in  trcntafei termini. Il primo di tutti è il nu-  mero trecento ottantaquattro . La fomma  di tutto il numero , e cento quattordici mi-  gliaia , ff) fecento nouanta cinque unità.  'JSfelquat numero è contenuta tutta la ra-  gione Armonica . Sendo adunque le sfere  celefh in modo coerenti fa fesche facilmen  te paiono piu tofio continue , che contigue  tanto fono pulite , ftfi coequate ; ft) mo?   uendofi      uendofi uelocifiimamente non dubitano af  fermare ; da loro mandarfì fiora un fuo-  no di tanta gratta , quale fta conueniente  a fi nobtl corpo y come e il Cielo , Imperoche  il fuono fi genera del moto di dua corpi,,  che uelocemente mouendofi f tocchino . Il  moto piu ueloce genera il Juono piu acuto ;  e*l moto piu tardo genera il fuono piu  grane \ ff) pero il moto del fermamepto  generati fuono acutifeimoye'lmoto della  Luna grauifeimo , ff} perche i moti delle  6 fere fino digeftt, fecondo la medefìma ra-  gione harmonica , come fino ancora i loro  interualli ; fecondo laqualcfe digefla l'ani-  ma : e neceffario , che tali fuoni proc eden?  do da moti armonici in modo confinano  fa fi , che di tutti fi confi itmfea una ar r  montagna melodia di gran lunga piu fua  ue , che quella , che noi pofeiamo compren?  dere con le orechie elementari > Et perotl    80 L 1 <B 7{0  dtuin Platone nel decimo libro della 7{epti  blica dice , che ctafc una sftra celefte ha fi-  co congiunta la fua Sirena , laquale canta  il fio tuono . Dequah fi fa una armonia .  e Pittatomi affermorno il Cielo eff re la li  ra di T>io: a quali acconfentifcono Aleffan   dro eJ "Milefìo , ft) Eratoflene .   . .    * #vi v , , • • . ,r*   /r a bi l e bellezza nafcc   nel corpo modano dalla unto   ne, per laquale cofe tanto   diuer(i,ff) fi contrarie, co-   me fono nel mondo , fatte fra (e amiche,   con ftitui fono un grande animale . £ fegliè   lecito comparare le cofe grandi alle piccole,   il mondo è ftmile a l'huomo ; Il fuoco , la   terr a, l'aria , l'acqua hanno fmilitudme   con la collera y con la malinconia , col fin -   *   gue,con     sz  gue , conia flemma ; della retta mifttone,  de quali fi fati temperamento radice della  finità y cofi a l'huomo , come al mondo . Il  fermamento fi può chiamare il capo di que  fio grande animale , alquale un numero  * quafi innumer abile di fielle come occhi fui  genttfiimi fino grandifitmo ornamento .  £ ‘Tittagorici affermano le fielle penetra-  re col fio lume nel centro del mondo : dout  pel concorfi di tanta moltitudine di raggi  uoghono accender fi unfuoco eterno quafi  cele filale . c Al firmamento , come capo ,  obbedtfiono i pianeti : in fi a quali il Sole  ha fimilitudine del cuore , e fontana della  uita . ^Marauighofamente eccede il Sole  tutte l' altre fielle , non filo di magnitudi-  ne y ma ancora di potentia , ff) di uirtu ;  la qual cofi dtmoftra la copta del lume .  (fili antichi Theologi affcrmomo , laGiu-  fiuta , laquaky come Regina, ordmaydriz-     -82 JSlpXQ V   qi , regge l'umuerjo, per tutto procederi  dal mezo del trono del Sole. zs4riftotile at-  trtbuifie tutta la generatone al Sole , ft)  atta Luna ; lacuale , come dice Hipparco  è neramente uno Jpecchio del Sole rifletten  do a noi il lume , Uguale ejja da lui pren - •  de. (fiiambhco , {$) Giuliano Imperatore  confhtuifiano nel Sole tutti lifDij de (gen-  tili . Et ^Plotino affermagli antichi haue-  re adorato il Sole > come Iddio. Confideri  la muc chi dubita il Sole effer preftantif  fimo di tutte l 1 altre flette ; oue ancora ciò  che e di lume , e per beneficio del Sole . Gio-  ueconla fita beneficentia , peonia fua  equità raprefinta il fegato, dal quale il nu  trimenioìfommmt firato a tutto il corpo ;  onde da gliaftrologi , è chiamato la prin-  cipale dette grafie celefti ; da «J /Marte , qua-  fi amaritudine del fiele , e ridotta al tem-  peramento la dulcedtne di (filone . V mere.    'I T    SECO X D 0 . 83  ft) la Luna , fendo miniflre della genera -  tione per cagione della uirtu humida , che  regna in effe , hanno proportene col feme,  ft) con i membri genitali : chi confiderà la  deferita , ft) prontitudme di J Mercurio  forfè non dubiterà a/fomigliarlo alla lin-  gua : per tu fido dellaquale noi facciamo  note le intime noflre cogit adoni . èt pero li  antichi meritamente attribuirono a t jue -  fio Dio il patrocinio dettelo (juentta. lAt*  tribuifcono ancora a Saturno il dono del  lintelhgentia , ft) però chi ajfermaffe Sa-  turno effer e in luogo di reni, forfè non fa-  rebbe lontano daluero . lmperoche cjuefìi  fendo aridiflimi , efpurgano lo spirito di  ogni cahgmofo uapore . Onde effo , e fatto  atttfimo mflrumento della inteUtgentta :  non è dubbio ancora effere un tenuifimo ,  ft) luddismo Vehtcolo della uita , fg) del  fenfi corre /fondente alt elemento delle fiel  v . . o . f jj    u L IB \0   le : per Uguale , come per competente me-  zo y l'anima consunta al corpo elementa-  re y lo fa partecipe de doni della aita . zA  queflo è Jtmile quel fuoco dimmfitmo , il  quale e fimpre per tutto diffufi ; ripieno  della uirtìi dell'anima regia, fecondo affer-  ma Cjiambhco , ff) (giuliano Imperatore ,  ilquale da ziatone nel Fedro e chiamato  il carro alato del gran Cjioue . Aderita-  mente adunque fendo l'huomo belhfitmo  di tutte le cofe , che fino in terra : ff) effen-  do fintile al mondo y tn modo che e fio e chia  mato piccolo mondoy h abbiamo affermare  il mondo , quafi un grande huomo , effr  belhfitmo di tutte le cofi fenfibtlu *Noi hab •  biamo dichiarato fino a qui la bellezza efi  fere una gratta , un fiore , uno splendore  della bontà ; ft) l'amore non ejjere altroy  che uno intenfi de fiderio di fruire , ft) di  •fingere la bellezza . Riabbiamo ancora dichiarato eftere àua bellezze : una prima ,  ft) diurna , laquale, feguita all' Idee chia-  mata Venere celefte ; d'altra feconda , ft)  naturale , laquale e nell'anima feconda,  o uuoi grande femmario detta Venere uol-  gare , fé) commune , ft) pero eftere duoi  amori . Vno circa la bellezza celefte , ft)  diurna : detto diurno e celefte : l'altro circa  la bellezza feconda , ft) naturale , detto  amore commune yfft) uolgare.Sendo adun-  que l'amore diurno circa la diurna btttezz  za ; ft) effìngendo efta , è necejjario ejjere  in mezzo di due bellezze > una prima , ft)  impar.ticipata , laquale fendo appetibile ,  antecede all'appetito amat or io)' altra non  prima , ft) partictpata , cioè quella prole  . bella y laquale l'amore diurno effìngeneL  l'angelo per modo feminale , ft) di natu-  ra a ftmilittidine della prima bellezza s ft)  imparticipata , ft) quefta non antecede,   : ^ > f $    SS L IH 2 io  ma fegmta all'amore . L'una, {0 l'altra  chiameremo Venere celefle. Medeftma-  mente quella bellezza, che è nel gran (emi-  nario antecede all'amore uulgare . La beL  lezz& .* che e nel corpo mondano figuita ad  tfio y in modo che ancora lo amore uolga -  re yl collocato nel mezzo di dua bellezze ,  dellequaltl'unae fine dell'amore uolgare,  l'altra e prole ; {0 però ancora ciafiuna  di quelle può efier chiamata Venere uoL  gare . Oue è da notare la prima bellezza ,  che antecede all'amore ejfiere nell Angelo  per modo fpett abile ; la feconda cioè quel-  la y che è prole dell'amore efier per modo (e-  minale . TSJel grande fiminario per con-  trario , perche la bellezza 9 che antecede  all'amore uolgarey e meffo per modo di fi- .  mt:queUa y the figuita, cioè la bellezza che è  nel corpo mondano prole dell'amore , e per  modoffett abile. Onde la prima, {0 ultima   bellezza    SECONDO, st  bellezza fino in quefto fimilt,che l'una,q}  l'altra, è obietto della potentia utftuaique-  fi a della corporale ; quella incorporale , ft)  intellettuale , ft) pero non è mar auiglia, fi  dalla bellezza finfibile fiamo eccitati alla  bellezza intelligibile. E ancora da inten-  dere non filo la bellezza dell'angelo , ma  quella dell anima diuina efier lignificata  per quefio nome Venere cele fi e: parimente  l'amore ; che nafie di tale fpett acolo, nel*  1 anima diurna effer figmficato per lo amo-  re celefie . lmperocbe , fèndo nell anima la  uera participatione delle Idee , e neceffario  ancora in ejfa fia la uera participatione  della bellezza, ft) dell amor e, come ancora  in ejfa è la uera participatione della uita ,  ftj dello intelletto . adunque nell'anima  diuina fino dua amori, fjfidua bellezza*  Vna uera participatione della bellezze*  Ideale detta V mere celefie . L'altra detta    a*v*V>    ss : L 17t Jt o • V   Venere uolgare > hauendo commertio con  la materia, zsélla bellezza uolgare e inten-  to l'amore uolgare . Alia bellezza celejle ,  è intento l'amore celcfìe , ffi) fermezza  deffa alla prima , ft) uera bellezza.!} aL  la cui contemplatone s'afiende al capo,{t)  principio di tutto l'uniuerfo , la cut bellezj  za y filo per uaticinto fi può comprendere ,  trapalando tutta la f acuità del conofcere  d infinito inter uaRo.   ^Qr. ài- * L D l v in ‘"Piatone dice  nel Timeo t anima noflra  effere Hata creata nel mede  fimo cratere, quale fu crea-  ta l'anima mondana delle reliquie de me -  defimi generi; uokndofigmficare l'anima  nojlra hauere proprietà , ft) potente fi-   mili     SECO 2\£ ZX 0. ^  mili alt anima mondana >{t) alt altre anu  me diurne } ma in un certo modo piu impera  fetto. Quefto uuolefegntficare che t anima  nojlra , benché habbta le medefeme uirtà;  nondimanconon opera nel medefimo mo-  do: perche intenta alla gener adone , ff)  cura del corpo caduco , dimette la contem-  platane della uera bellezza. Per contrario  intenta alla uerità intelligibile dimette la  cura della gener adone ; fp) cjueflo aduiene  ragioneuolmente . Imperoche non potendo  adempire infieme tuno , ff) l'altro uficio ,  enecefeario la efeedidone dell'uno fìaac-  • compagnata dalla dtmefeione dell'altro ,  quando e intenta alla gener adone , fi dice  difeendere , quando e intenta alla contem-  platane yfi dice afeendere ; non perche l'ani-  ma afeenda, o difeenda fecondo il cojìume  de corpi . Imperoche fendo ejfentia fepara -  bile y ft) non pardeipando dicondidone aU    ?o L I *B ^ 0   cuna corporale , fecondo che piace a tr Pla-  tone , ffe) adzAnflotiU, ma di fuori ft an-  dò , è al tutto afioluta dalla natura del  luogo , alcjuale filo è obligato il corpo ; di  cui è proprio il fetlire ff) lo feendere ; ma  diciamo afcendere > ft) difendere m que-  llo modo . Le cofe diurne y feno prefenti fe-  condo y cheefee oprano . lmperoche noi di-  ciamo la dimnità ejfere in cielo , o in terra  fecondo che efea opera in Cielo , o in terra .  £t altrimenti non puòefeere determinata^  mente in luogo alcuno . Della operatone ,  e principio l'affetto , corne e manifefeo\chi  è quello 9 che operafei in alcun modo , fe  prima non fujfe moffo da uno a : ffetto an-  tecedente? que fio affetto non e altro che un  defederio d'operare , tlquale pendendo dal’  la fognatone e principio dell'operatione.Pri  ma concepe Ftdia la forma della fica ^Mi-  nerua , dipoi defederà di produrla , o nel   marmo    S E C 0 TSfD 0. pi   marmo , o mi ramo , dipoi la produce . Se  non haueffe defiderio di produrla y non mai  la produrrebbe , ff) fi prima non conce -  pejfi la fua forma , non mai dtftdereb-  be di produrla . ^Adunque la cognttione è  principio dell'affetto , ffi) l'affetto dell* ope-  ratane ; fff pero alatone dice nel Timeo ,  che l'opefice del mondo fece tante forme  nel mondo , quante hauca uedute la men-  te nel trnente , per lignificare la produzio-  ne del mondo pendere dalla cogmtione , in  fra lequali , come fra due efiremi y e mezz  ZP tl defiderio di produrre . Sendo adun-  que l'anima no fra nel numero delle cofi  diurne , diremo effer e prefinte oue effa ope-  ra ; ft) operare , oue effa e tratta dallo af-  fetto , g •) defiderio d'operare . llquale af-  fetto pende dalla cognitione . Imperoche  glie impofiibile noi hauere defiderio d'ope-  rare quello , che al tutto c'è nafioflo . ‘Ter    92 LIBICO  lagnai co fa , quando l'anima nojlra con - *  cepe la uita ftnfibde ; ft) la gener adone 5  ft) hauendo affetto a effa la produce , ft)  efphca ; noi diciamo l'anima dcfccndere . ,  Jmperochela natura mortale oue effa ope-  ra, e V infimo dell' uniuerfò: Ada quando <•  effa concepe la tuta de gli T>ij, ft) la ulta  intelligibile lontana da ogni moleflia , ft)  ùgnytriflitia , ft) con l'affetto l'efplica, dir  ciamo afendere , fèndo gli c Dij. il fupremo  \detl' unmtrfo . ‘Rettamente adunque dice  ^Porfirio nel primo libro. DeU'aftinentia  de gl' ammali , f noi defi deri amo ritorna  rea quello , che è proprio nofìro , f) alla  ulta degli T>ij , effer di bifigno , noi al tut-  to diporre qualunque cofà habbiamo pre/o  dalla ^Natura mortale infieme con t affet-  to decimante ad effa , quafi non per altro  defeenda , 0 afenda l'anima no fra, che  per Iq affetto. ^Tiace al dtuin r 'Platone ,ft)   Plotino l'anima noftra , quando uiue con  la uita intelligibile, ffe) degli Dij : conferi-  re tanto grado di degnitd , che fatta colle-  ga dell'anima mondana infieme fico reg-  ga tutto il fato , ffe) la generatone . Viue  aUhora con la uita de gli Dij , quando ri-  dotta ne peniitfeimi tefeori della feua effen-  tia , ft) di quindi nell amemfeimo Tarato  della uerità intelligibile , contempla effa lu-  Jìitia , efea bellezza , effa bontà ; Oue in-  tendendo tutta la TSjatura di quello , che  è uer amente , fp) non folo intende tutte le  cofe , che di quindi procedono , ffe) tutti e  gradi della procefeione mfeno all'ultima  materia ; ma ancora confeguentemente ope  ra fecondohe effa intende . Onde merita *  mente è detta collega dell'anima monda-  na , laquale hauendo mteUigentia^ffe) prò -  uidentta uniuerfale , e principio del Cielo ;  ffe) di tutta la generatione . Onde Telato-    . 94 L I V 7^0   rie nel Filebo dice in Cjioue cffere intelletto  ft) regia anima, fignifìcando come nettuni  ma mondana è intedigentia, ft) prouiden-  tia mtuerfale ; cofi ancora effer ulta ft)  principio uniuerfale di produrr e, ma quan-  do effa declina adageneratione, ft) al cor-  po mortale, dimettendo la intedigentia uni  verfitle , ft) però fendo oppreffa dall' obli-  vione delle cofe diurne, attende alla fabrica  di quello , che offerendo fi adì occhi noflri)  chiamato da gli ignoranti huomo , fèndo  piu tofto imagine, ft) ombra d*huomo;che  vero huomo . Queda dimeffione, ft) queda  oblivione) lignificata dal dtuin ‘Telatone,  nel decimo libro deda 'Rgpub. quando dice 9  che l' anime, che difiendono nella genera-  tone beono dell'acqua del fiume Amelita  ft) pervengono nel campo leteo. lmperoche  Amelita fignifica negligenza , ft) leteo li-  gnifica oblivione. T^ondimeno non gli è negato la uta di patere tornare alla ulta in-  telligibile ,/e feparandoftdal {enfi eccita il  lume della ragione ,per laquale finalmente  tifando per inflr amento la bellezza corpo-  rale , e reuocata in ejja uerità . In fomma  l'anima quando muendo con la aita intel-  ligibile contempla la uerità atramente fi  può dire integra . Imperoche fatta collega  dell'anima mondana regge ilfato f {t) tut-  ta la natura corporale noftra , quando in-  tenta alla generatone s'ingegna effinge-  re nel caduco corpo la natura del mondo o  dimettendo al tutto la fpeculatione della  uerità , gt) obltgandofi afenfì , uer amente  fi può dire dimidtata . Laquale e ri/litui -  ta nella fua integrità , quando s'accende  in ejfa uno intentiamo amore , ilquale in-  cominciando dalla corporale , finalmente  la reuoca nel marauigltofo fplendorc della  bellezza intelligibile. Di qui apparifce quel r    V’1£> v   . òè    9 * L 1 X 0   lo y che e ìnclufi nel portentofifìgmentodi  Ariftofane nelSimpofio . lmperoche k da  principio ejjire thuomo di figura circola-  re , ffi) co ’ membri addoppiati ejjer fato  partito in dua >per reprenfitone del filo fa-  fio , tentando di combattere con gli T>ij ,  poiché gli e cofìdiuifi cercare della fila me -  tàydefiderando intenfàmente ritornare nel  primo flato ; Incontratolo , quafi infuria-  to , non concedere per un breue momento  di tempo mancare d'ejfio ; onde ejjer nato  l'zAmore conciliatore dell'antica forma ,  medico , ft) curatore della generatione hu-  mana ; non mole altro fignificar e , che da  principio l'anima no fir a uiuere con la ul-  ta intelligibile , la cui contemplatone ha  fico congiunta la cura della natura corpo -  tqle , ft) meritamente è detta circolare ,  fendo la contemplatone un circolo: Ran-  della generatone  dedita    do crefiendo lo ftimolo dedita al proprio opificio crede fi e fière ha*   \ fi ante , a fimilitudme dell'anima celtfle ,   effingert il mondo in e fio, perde la contem-  ) piattone , {f) fiero uer amente come inalza « -  ta dalfiafto , è diuifa . Cerca della fina me-  tà perche ejja ottimamente conojce quello,  che ha per fi per la inclinatione , affet-  to al corpo mort alerone non trotta niente di   t   verità', neiquale incontrando fi, cioè in qual  che imagine della divina bellezza, fubito co  me da un profondo (inno /vegliata, fi rtcor  da della divina bellezza ; per l'amore della  quale e (purgata dalle (ordì materiali final  mente recupera la perduta metà . Merita .  mente adunque (amore è detto medico, et  curatore dell'humanageneratione reftitu -  tndo l'anima alla vita diurna, laquale è la  fua integrità, QuefUfino forfè i uefìtgij per  che uno filerte inuefiigatore della uerità  configura il fegreto (enfi d'iAriftofane.   g    99 L 1 55 R^O  * Non hauédo in animo al prefinte inter pre-,  tare minutamente il dium Platone, a noi fa  ra a bajìanza qua/ì col dito hauere accen  nato il camino in fi profonda mtelligentia . L’anim a nostr azoi-  che e difiefia nel corpo  mortale fe ufia per iftru  mento la bellezza corpo  rale alla diurna belltZz  Z&, guidata dall' amor celefle , recupera le  perdute delizi della aita intelligibile . Ma   fi fatta ebbra, quafi da focali di Qrce ,  precipita nella generai ione, ingannata dal-  l'amore uolgare , diuenta ferua di tutte  quelle calamità , che ha feco congiuntela  datura corporale . Ma innanzi , che noi  dichiariamo come nafte, {fi quello , che  opera l'uno , {fi l'altro c Amore ,  fuori di propofìto dichiarare piu parti-  colarmente la fua diffinitione\ come quelli  che di qui potremo piu facilmente conofie-  re gli accidenti , di chef amo partecipe. E  adunque L’amore desiderio   DI FR V I R E, ET GENERARE LA  BELLEZZA NEL BELLO, fecondo  che il diutn Platone difnifte nel simposio.  ‘Ter laquale diffinitione balliamo a in-  tendere l' Amore effere l'appetito , {fi non,  filo appetito , ma di bellezza , {fi di gene-  rarla nel bello . Onde per quejìa ultima  parte , come per propria cùfferentia t l'amore, e difìinto da ghaltri appetiti, iejuali  non fono di bellezza . Chi adunque /apra  che cofa è appetito , ft) che cofa è bellezza ;  faprà a fufficentia , che cofa e tumore.  L'appetito q) la cogmtione non effer quel  mede fimo dimofira quello , circa ilquale è  tana , ff) l'altra potentia . La potentia  del cono fiere è circa il nero . La potentia  dell' appetire è circa il bene . Sendo adun-  que diftmto il aero dal bene , e ancora di-  fintala potentia del conofiere , dalla po-  tentia dell'appetire . Il uero e quello , che è  adequato a. fuoi principij. Come il uero  oro e quello , che per tutto corri fponde a  principij, ft) alla effèntia dell'oro, non am  mettendo in fi alcuna cofa tftranea , ft)  auentitia . PI bene e quello , che per fua  natura fa quiete, fp) uoluttà. Sendo adun-  que il uero , fecondo la fua diffinitione,di -  finto dal bene , è necejfario , che U corni-  none   •* < y . f   . ioj   tione fiadifttnta , fecondo la fua dtffini-  tione , dall' appetito. Ter laejualcofa la '  facoltà del conofiere e una potentia in ap r  prendere il aero . Lo appetito è una poten-  te in fruire il bene. Della apprenfìone del  nero, fi fra nella corninone certit odine. ^Rel  fruire del bene t fi fra nell'appetito uoluttà*  sAriflotile nel fi fio libro dell'Etica dice, il  uero , ft) il falfò ejfir nell'intelletto ; tlbe-  ne; fp) il male nelle cofi, lS[oi 3 che diciamo  la corninone effer circa il uero > affermia-  mo il uero y ft) il falfi effer nelle cofi fecon-  do notatone 9 . Uguale nel fi fio libro della  Republica dice nell intelligibile effer e la uer  rità , nell intelletto la fiientia * llcbe non  repugna ad zAriftotile , come nella noflra  concordia dichiareremo. Al uero, ft) al  falfò féguita il benc,fj} il male : imperoche  nulla può efier uero che non partecipi del bt  ne ; nulla può effer falfò , che non partecipa   q tij    ìo2 L 1 % 0   del male , ft) però alla cogmtione,che e cir-  ca il aero yfeguita i appetito , che è circa il  bene . Prima conofiiamo , di poi appetia-  mo ; ft) appetiamo quello, che noi appetia-  mo y perche crediamo ejfer buono , ft) uti-  le per noi. ^Adunque l'appetito appetifie  quello , che la potentia del cono/cere giudi-  ca ejjer buono * onde è manifefto l'appetito  figmtare la cogmtione . Sono diuerfi gradì  di uero nelle cofe : Sono ancora diuerfi gra-  di di bene , ft) pero fono diuerfi cognitiont ,  ft) diuerfi appetiti ; onde et diuerfi certitu-  dini , ft) diuerfi uoluttà . £'l primo grado  di uero è nella natura Angelica , oue tutte  le co fi fino adequate a fuot principìj y ft)  però fino partecipi uer amente della bontà.  Circa ad effe è la prima potentia di cono-  fiere 3 laquale e chiamata intelletto ; ft) il  primo appetito , ilquale è chiamato uolon -  td nell' intelletto )e la pritna cer tit udine ,ft)     TE \Z 0 . 103   nella uolontà , la prima uoluttà . Il fecon-  do grado del nero , ft) del bene e nell'ani-  ma : om il aero , benché non fia affoluta*  mente aero , come quello della natura An-  gelica ; ilqualee per fia natura uero , e  nondimeno aero , ft) bene r adottabile , cir-  ca ilquale è la feconda potentia del cogno -  fiere , qual' e chiamata ragione ,{t) il fe-  condo appetito chiamato elettione , nella  quale e la fia uoluttà , come nella ragio-  ne , e la fua certitudme y laquale e detta  propriamente fcientia i fendo la certitudme  intellettuale detta fàpienza . & l terzo gra-  do di uero , ft) di bene , è nel gran fimma -  rio y circa ilquale è la fua cogmtione , qua-  le noi chiamiamo finfò intimo , ft) à fio  appetito principio della bellezza corporale ;  la certitudme di quella cognitione ft può  dir fede , ft) quella uoluttà fi può dire  tmaginaria . Il quarto grado è nella na-   . <3 «<j    104 L 1 3 ? \ O  tura corporale , oue le cofi astutamente  fono ombra di utro,q) ombra di beneinon  dimeno fino uero>ft) bene fin fibile. Et pe-  ro la corninone, che è arca tal ucro s e una  ombra di cogmtione; noi la chiamiamo fin  fi particolare , nelquale è neceffaria certi  t udrne y ma piutofto afimilitudtne 9 come ,  dice il dtum ^Piatone nel fi fio libro della  2{epublica ft) lo appetito 9 che è circa tal  bene e un'ombra del uero appetito , nel-  quale è uolutta al tutto ombratile : difcor -1  rendo adunque per tutti i gradi dell'ap-  petito y fimpre l'appetito è circa il bene ffi)  confeguente alla cogmtione . Et però io mi  marauigho d'alcum che diuidendo l'ap-  petito dicono lo appetito diuiderfi in natu-  rale , cogmttuo , (fuafì pojfi efiere ap-   petito finza cogmtione 9 ile he al mio pare-  re e afjordo : Imperoche mjfuno può appe-  tire , quello che è al tutto incognito 9 fi   noi    TERZO. tot  noi diciamo negli elementi efftr appetito  del proprio luogo s e neceffario concedere in  tfii e (fere una cogmtione antecedente allo  appetito , lacuale è principio et appetire 4  tutte le cofe , che appetifiono .Est a c va dichiarar che  cofa e bellez&a , potre-  mo intendere chiaramente ,   che cofa e amore . La belle z?   za, come e detto difoprafe una gratia y uno  fplendore della bontà , che in fu la prima  giunta apparifce all'affetto , qua fi il colo-  re nella fuper fiele* Oue è da notare due co -  fe . ‘Trimala bellezza efftr obietto della  jotentia uifuale: dtpoi ejìtre per modo d'oc  adente , ft) eftrtnfeca. Le bellezze fon  molte ; perche altra ila bellezza dell'An -    ioó L 1 S* ^ 0   gelo, quale chiamiamo bellezza intelligibi-  le , ftj diurna : altra la bellezza dell' ani.   , ma rat tonale , quale al prefènte chiamia-  mo animale ; altra la bellezza del gran-  de femmario , quale e detta feminarta;  altra la bellezza del corpo , quale è det-  ta corporale : a tutte nondimànco è com -  mune ejfer un fiore della bontà , ejjer obiet-  to della potentia uijuale , efier per modo  d'accidente * Et per piu piena wtelligen -  aia e da intendere ejjer piu potentie uifùa -  li, fecondo che fino piu obietti uijibili. La  prima è efio intelletto , ilquale ragguarda  nella uerità intelligibile , ilquale è uera-  mente un'occhio eterno, che uede ogni cojà  Signore del mondo , temperatore delle co fi  celejli, ft) terrene. La feconda potentia  uifuale , è nell'anima, effa ancorale-,  culatrice della uentà : Ma multipbce,ffi  uaria, detta potentia rationale . La terzi*   j ènei    TERZO, r io7  è nel grande fiminario intenta alla uarie -  ta de fuoi fimi. Onde nafte l'affetto ,  principio della bellezza corporale . V ulti-  ma è ia potentta , dallaqual fin uedute le  corporali , preftanttfiima di tutte le poten -  tte finfualt particolari , come dice tAru  fiorile, aera imagtne dell'intelletto . Ha -  uendo dichiarato che cofa è appetito , ff)  che cofa, ecognitione, fffi che fino tanti  modi di cognitione , ff) d'appetiti , quan-  ti fino e modi del uero , ff) del bene : ba-  ttendo ancora dichiarato , che cofa è bel-  lezza , ft) e modi di effa , ft) che cofa è  potentia ut fiale , ft) i modi di effa piena-  mente pofiamo intenderebbe cofa fia amo  re , ft) la natura d'effo . É adunque  l’amore desiderio di fr vi   RE, ET D’EFFINGERE LA BEL-   l e 2 7 / a nel bello . Sendo l'amo-  re , defiderio , ft) appetito pof tamo inten-    108 L 1 ® 2^0   dere effir circa il bene . Sendo di bellezza ,  poliamo intendere effir circa quella partir  apatione di bene , che e detta bellezza ; la-  quale è efìrinfica , ftfi per modo dacci -  dente obligata alla potentia uifuale, St pe-  ro h abbiamo ad intendere l'amore effire  m'appetito , che figuita la cognitione ui-  fuale.Onde Plotino dice rettamente l'amo  re hauere acquifìato il nome dalla uifìone .  E detto appetito non folodi fruire la bel-  lezza ma d' e f fingerla per lignificare l amo  re effir efficace . Imperoche non glie a ba-  llante fruire la bellezza, fi ancora affet*  tuofifiimamente concependola non la effri  me ; ft) in chi ? nel bello ; cioè in chi fia di -  fpofto> ft) preparato a riceuerfì tale effir e fi  fione . Laqualcofia dichiara il diuin r Pla-  tone nel Simpofìo : quando dice l'amore e fi  fiere del parto della generatone nel bello .  £ modi dell'amore fon tanti , quanti fono   e modi      1    T E % Z 0 . 109   e modi della bellezza , ùjuah fi riducono a  dua , cioè alla bellezza diurna , detta Ve-  nere celefte , ft) alla bellezza finfibile 9 det -  ta Venere uulgare , ft) commune : ft) fe-  ro diremo e modi dell'amore effir duot cele  fte,{t) uulgare. L'amore celefte è appetito  intellettuale circa la bellezza intelligibile .  L'amore uulgare e appetito ftnjuale, circa  alla bellezza finibile . L'uno , %t) l altro  fa la fua efprefiione nel bellori celefte nella  natura diurna per modo di fimi , ffi) di na-  tura , come è detto ; il uulgare nella mate-  ria per modo uifibtle, fgl d'imagine ; la-  quale per tjuefto fi dice bella , perche e pa-  ratifiima a riceuere la ejprefitone della bel  lezza fimmana , di qui fi può intendere  la fententia di Alatone, quando dice Po-  ro figliuolo di Metide ebbro di Tettare,  ft) Pema hauer generato l'amore , ne na-  tali di V mere . ^Noi perche di quefta ma-      n o L I *B 7{0   teria h abbiamo breuemtnte trattato nel  primo libro del fulcro , (g) h abbiamo in  animo trattarne altrove pia diffufamen -  te , al prefente dimetteremo piu particola-  re efpofitione contenti filo in queflo luogo  hauere aperta la uia a quelli ,c he fino fìu-  dtofi d'intendere i profondi , fg) fegrett mi -  * fterij di Platone *   > f • - * , « v* f '   /chiarata ladiffini-  tione dell'amore , fg) come  gl' amori fin dua,cwè celeftc  ft) uulgare , refterebbe a di-  chiarare m che modo nafia , fg) quello ,c he  operi in noi l'uno , fg) l'altro amore , ma  perche dell'amore cele [le a bastanza e det-  to fi nel terzo libro del *7* utero , fi ancora  nel panegirico nofiro all'amore ; per quefio  diremo filo ft) breuemente dell'amore mi   gare .     T E % Z 0. ///   gare. Al pr e finte fuporremo in effir noi uno  cor puf colo diffufi per tutto , quafì unum-  colo infra l'anima ,(g) il corpo elementari,  detto spirito y mediante tlquale dall'anima  nel corpo piu terrefìre fia trans fufa la ul-  ta. Quefio fendo generato d 1 una fot tilifi  fima efialatione di fangue , ha origine dal  cuore principio , g) fontana del fangue  piu puro, fi) al cuore prende la utrtu,per  beneficio dellaquale noi fiamo partecipi  della uita, detta uirtù uitale . Dalcerebro  procede la uirtù,mediante laquale noi fin-  tiamo , g) et mouiamo , detta uirtù unir  male , dal fegato la uirtù , per laquale fi  fa il nutrimento . £t la generatone , g)  altre operai ioni f nuli detta uirtù natura-  le . Di tutte quefle operationi e mflrumen-  to lo fpirito , ilquale ( come e detto ) ha ori  gine dal cuore . Laqual co fa confidtrando  zArifiotile, fecondo la mia opinione, diffi    ÌÌ2 L / 2 % 0  il cuore eficr principio del uiuere , del fin -  W , ft) del mouerfi } fé) pero tenere infra  gl' altri membri il principato > Come que-  fio non re pugni a Platone , ilquale affer-  ma il capo effer prtnctpalfiimo di tutti e  membri , ajjoluendofi per e fio l'intelligen -  ita, laquale, è nobil filma di tutte le nofire  operationi, altroue a bafìanza dichiare-  remo, Stndo aduncjue lo fpirito mHrumen  to del finfo , mafiime della fantafia , che  marauigliaè fi con tanta affinità natu-  rale infra loro fi congiungono , che una po-  tente alter atione dell'uno fa tran/ito nel-  l'altro ? ‘Per lacjual co fa lo fpirito poten-  temente alterato , e baflante a muouere la  fantafia a produrre l'immaginatione fil-  mile a quella alteratane . llche apparifie  in quelli , che fino ueffati da ueemente fi-  bre , oue tal moto dello fpirito fa tranfito  nella fantafia. Mede fimamtnt e fe la fantafia interi famente opera in qualche peti-  fiero: nello /finto fi fa una imprefiiom  naturale , firmle a quella operatone . La-  qual co fa dimofirano le fife tmagwationi  delle donne grauide , in cui ueggtamo non  filo dalla fantafia far fi tmpref ione nello  fpirito y ma ancora mediante lo /pirico tra  pa/farene teneri cor pi del fio tenero por +  tato . E n?ittagorici fferauano medicare  le malattie con certi modi d'armonie . Im-  peroche l'anima dell'armonia e fi erme re -  uocata nella interiore , ff) naturale per  grande predominio , che ha / opra il corpo ,  produce fimtle armonia in e/fo , in età ftà  la fita finita . Ecco adunque , che dado  [pirito nella imagmatione fi fa tranfito ,  cogitando la fantafia fecondo che efio è  affetto dall' imaginat ione . niello fptrito  parimente fi fa tranfito , fendo l'ima -  gtne , come Juperiore , Ufi ante a muoue-   a    ìi 4 Lf I *B 0   re la uirtù naturale . Oltre a quefto hab -  btamo a intendere da ogni corpo generabi-  le > ft) cor rutilale far fi una continua refi +  lattone , ft) un continuo fiuffo, come after*  mano Sinefio , ffi ‘Troclo; rituale pir cer*  to /patio di tempo , ft) a certa dt/lantia fi  conferua integro , hauendo continuatane  con quel corpo , da cui procede . E magi fi -  gliono ofteruare cjuefto fìmulacro , per.   e/Jo offendere lo fpirito , quando hanno in  animo perdere alcuno • ^Mafiimamentc  fi fatalflu/Jb per gl' occhi .quafi per piu  aperte fineftre dell'anima , ft) dello spiri-  to : ilche afferma o^riftotile, quando dice  l affetto ciana donna, che patifta il men-  firuo fpeffe uolte machiare uno Jpechio .  È ancora da Jupporre nella generazione  delle cofi ejfir neceffaria una cagione , che  produca detta cagione efficiente , ft) una,  in chi , ft) di chi fi produca detta cagione  ... necejjaria ,    TET^ZO. ns   necejfaria , ft) materia. Et pero Telato-  ne nel Timeo dice , che'l mondo e fatto di  niente y ft) di necefiità , cioè dt materia ,  ft) Arift otite chiama la materia necefiità  nonjempltce , ma per fuppofitione . Impe.  roche come (e fi dee far ma cafa , ft) una  fatua y è necejfaria tale , o tal materia y  coffe fi dee fare que fio ornamento , qua-  le noi chiamiamo mondo , è necejfaria ta -  le y ft) tale materia , di che effo fìa confiti  tato; ft) però la materia per fitppofitione f  è necejfaria * . Oltre a (juefte due è ancora  necejfaria una cagione infìrumentariayme  diante lacuale fia preparata , ft) diffofta  la materia a riceuere attamente il dono  della cagione efficiente . TSjoi pretermette-  remo come a quattro cagioni della genera-  ■tione indotta da zArifìottle , cioè efficien-  te y fine y materia , ft) forma fieno da Pla-  tonici aggiunte le cagioni eftmpìari , fg)   ^ H ij    !    n6 L I 3 ^ 0   l'organica . lmperocbe alerone s' appartie-  ne determinare di queft a materia.. Oue di  chiararemo ti nero efficiente dilla genera-  tione ejjer la parte naturale dell'anima  mondana ,chiamatada noi di {opra gran-  de Seminario. Il fole, ff le fuflantie indiai -  due effer cagioni inftrumentarie : questi co  me inftrumentt particolari,quello come in -  flrumeto uniuerfale. Al prefente ci bafli la  generatione hauerc dibifogno della cagione  efficiente, della infìrumentaria,e della ma  tena.Pofìi qucfli tre fondamenti facilmen  te pof iamo intender come nafea in noi que  fla affett ’ionc , quale e nominata amore .  Ada f imamente fe non et fiamo dimentica-  ti eh quello, che è detto poco innanzi, l'amo  ' re hauer confeguito tl nome dall'affetto .  Quando adunque per lo affetto ci s'appre-  fenta nella fantafia qualche ff et t acolo, il  quale noi appromamo , come bello ff) pieno  ,p ^ ' dtgratia  di gratta; [àbito t anima eccitata nella col  gmtione della /ita bellezza interiore v defe-  derà non filo fruirla, ma e f finger la . Et .  perche tale efirefiione ha dtbifigno della  materia , ft) del fubietto, atto a quell&rk  cetttone ; per quefto de fiderà ejpt merla in  quello , che efid ha prouato , ft) da cui è  fiata eccitata a tale ejprefiione , come piu  atto a riceuere la participatione della bel-  lezza, ft) perche quella ejprefiione non fi  può far nel bello , quantunque di fra no* ’  tura atto , fi prima non e frffiaentemen*  te preparato : per quefto mtenfamente de-  fidera congiugner fi col bello ; Come quello j  che altrimenti non può efficr preparato ;  che dalla uirtìt del fime , ilquale è tnftru*  mento naturale ad efpr'tmer la bellezza fi  minarla dall'anima . *Di qui fi può uede ;  re apertamente con l*amor uulgare 3 effèr  fimpre congiunto il defiderio dell'atto Zie-   H. iij    -ni LI 3 710  nereo , fecondo Platone, Imperoche fendo  l'amore defedeno defungere la bellezza  nel bello , fj) non fi potendo effìngere , non  fendo preparato ; ne prepar andofi fe non  per quell' tnftr amento , quale ha deputato  lunatura , cioè il feme y oue fiala uirtù  gener attua, Imperoche la generatione y o  non fi ejpcdifie fenza il feme , o per il feme  piu commodamentefe necejjario fìa accom  pugnato naturalmente da quel defìdeno y  • qual noi chiamiamo Venereo , Et quefea  c una commune difpofìtione dell 1 amor mi  gare circa ogni bello. Imperoche l'anima re  focata nella bellezza interiore , giudica  ogni bello , degno ; in cui s'effinga il fimu -  lucro della bellezza . Ma quando noi ap .  prouiamo piu un bello y che un'a\tro y come  piu grato apprefjo noi , penfando del conti-  nuo adejfe affettuofamente ; fi fa nello (f i-  rito ma certa difpofìtione confeguentea    TE 2? Z 0. 4 W   quella cogitai ione . lmperoche y còme edit-  to , dall' anima fi fa tranfito nello fpiritq  come tn proprio y $) naturale infìrumen -  to. Incontrati adunque m quello , circa cui  Jiamo affetti , ff) a una certa diftantia  appropmquati riceuiamo nello fpirito per  tutto il corpo quello efirementofilquale na u  turalmente fi rifolue dal corpo dello ap-  prouato fpettacolo ; Mafiimamente fi fa  tale recettione , quando noi dtr itti gli oc*  chi nel uoltOyft) ne gli occhi dtUa co/a,  che tanto ci piace , per la marauighadi-  uentiamo fimili a gli ftupidi • Imperoche  come per gli occhi , quafi per piu paten-  ti finefire , fi fa maggiore refolutione del-  lo fpirito y coli ancora per efii è parata  piu la uia negl'intimi penetrali dello (pirt-  to . Marauigliofamente opera l' efficiente È  quantunque debile , nella ma teria ben pre-  parata fupplendo alla debilità della cagto-   H tiij    12 0 L 1 S 2^0  ne, la dtfpòjitiòne della materia, della qual  co fa e mani fefto inditio in gran copta di  materta da una pìccola fcintilla fiufiitarfi  grandi fimo incendio . Lo Jptrito dallo af-  fetto continuo della fifa cogttatione , quafi  formentato , come prima è tocco da quello  efiremento ,/uhito alterato -, quafi fimu -  tavella natura di quello : Intanto che ar -  riuando l'tnfettione al cuore, fontana del-  lo jpirito, fa che, ft) effi ancora parimen-  te patifia . Onde ft) il /angue ,che in lui  fi genera , ft) lo /finto , che è infi aurato  dalla continua efalatione del /angue, riten  gono quella medefima infettione . Di qui  'auiene , che quelli, che fino infermi dalla  graue malattia dell'amore, (intono dolore  principalmente nel cuor e. lmperoche la co-  fà amata fa uiolentta nello Jpirito', ft)  per lo //ir ito nel cuore, onde ha origine'.  Meramente alla maggior parte de malt(cò   me dice       r £ x z o. ni   me dice tldium Alatone) un certo demone  ha mefcolàta la uoluttà dolcifrima e/ca ,  l'anima inferma fi diletta dei diuin afpet - .  to del fuo bello ffett acolo ; ffr) in prima del  lume de' rifflcndenti occhi ; Màinganria-  ta dalia uoluttà 3 non finte il mortifero uè -  ne no penetrare , per li occht entro alle uu  [cere ; dalquate il grauiftmo morbo pren-  dendo nutrimento , d'hora in bora mera-  uigliofametiie crefce . c Adunque lo ffniito  tutto infetto , mouendo uiolentemente la  fdntafraja coftrmge non mai ad altro pen  fare ch'ai fuo bello spettacolo ; rituale ap-  prouando l'anima , come foto derno in cui  effa poffa ottimamente cfprimere una bel-  la prole y a fmtlitudtne della bellezza in-  teriore y eccita uno intenttfrimo dtfrder io  di fruirlo . Quefìa e la generatione dell a -  mor uulgarc per quanto i circa alla hd-  lez&aparticolare d'uno , o d'm'altro . Cjli    T22 L I 2 7{0  accidenti , che l' accompagno™ , in par-  te faranno dichiarati brevemente da noi  in quello che fiegue .   f& ' ■ al  Omi l' anima èia aita del  corpo, co fi la cogitatone è la  ulta dell' anima. £1 corpo fi  dice ejftre allbora infirmo ,  quando l'anima /eco non confinte . Ondo  l'arte della medicina non è circa altro , che  in conciliare l'anima al corpo-, in che sla  la finità dell'animale . L'anima e infir -  ma , quando non confinte con la fua cogi-  tatane , ma difìratta dimenticataf , ff)   « di quello, che efia è, ffi) delfuo ufficio ; non  cura , come è conueniente , fi medefima.  L'infermità principali dell'anima fon  dua:l' una è detta ignorantia-,1' altra e det-  ta infanta   ta infima ; le quali fin unto piu gratti *  che le malattie del corpo , quanto i anima  e piu eccellente , ft) piu nobile , Ma a che  fine tjuefto ? Certamente perche la cogita *  tione dell'amante non mai fi parte per un  filo momento di tempo dall'amato . Et pero  dimettendo il fuo uffitio naturale , non  confinte con l'anima di cui è ulta . Vani -  ma inferma , ft) affetta accompagna la  fua cogitatone : lmperoche nulla può uiuer  lontano dalla ulta . TDi cjui aduiene , che  l'amante e detto uiuer finzlamma, unteti*  do nell'amato . Queflo fa, che'l corpo non  riceue il defiato dono dell'anima : onde, f)  ejjo cerca dell' amato, q) trouatolo alcjuan  to fi quieta 9 (juafi habbta trouato ìani-  ma , ma perche ne all'anima e concejfit  la cogitatone , ne al corpo l'anima, cioè ne  all'uno , ne all'altro la fua ulta , è necefi  fàrio, che ciafiuno incorra in grauifiime    iriJf L I 2? TfO  malattie ; l'anima nell'ignorantia 3 fjf) nel-  l'infima : il corpo nella difcordia di tutte  le fie parti fra fimedefime che è il mafi  J Imo di tutti i mali . Di qui fi può uedert  quello 3 che uolfi tl dtuin Telatone nel Sim*  pofìo 3 quando diffi , l'amore ejjèr arido  efier macilento 3 effer e /quando co piedi nu-  di uolare per terra 3 finza cafi 3 finza  letto , finza coperta alcuna dormire nella  ma prejjò alle porte ; ffi) quefìo per effir  figliuolo della pouertà « Imperoche l'aridi-  tà 3 la macilenta , lo fquallore che 3 e ne  corpi degli amanti , feguita la difcordia  delle parti del corpo fi a fi) lequah non  pomo adempiere il fio officio naturale 3  non fèndo l'anima intenta aidehito reggi-  mento deleorpo . L'anima difir atta dalla  potente cogitatane 3 opera de talmente nel  corpo : onde conuertita la maggior parte  del cibo in fiper fluita 3 fi genera poco fin-   gue 9    TERZO. i2$  gue, ft) quello per la mede/ima cagione fin  do mdigefìoy e grofjo, ft) negro . El difetto  del [angue , di che fi fai alimento genera  efiiccattone , ffi) configuentemente eftenua  tione mi corpo . La grofiez&a,{tf ba negrez -  za genera affcrità , mifihiata col pallore .  È adunque lamore arido , perche e cagio-  ne y che e corpi delti amanti manchino del-  la conuemente quantità del [àngue , diche  fi nutrifiono . E macilento perche il difet-  to del nutrimento genera in efit efienuatio -  ne di tutti e membri. E [quaUido perche fi  nutrifiono di [àngue groffiy ntro y ilqua -   le genera [quallore . Tutto quefto non uuole  altro (tonificare , finon che e corpi degli  amanti principalmente fono obligati a ma  li malinconici . Et quefto inquanto a mali  del corpo . 5 S[oi h abbiamo detto quando la  cogitatone y non confinte con l'animaygene-  rarfi in ejfà Tignorantia , t infanta ;    12 6 L I *B T{ 0   ' «   onde hanno origine tutti glialtri fitoi ma-;  li . Volendo adunque ed diuin ^Platone fi*  gmficare la ulta degli amanti e fiere affati  caia dall'ignorantia , dall' infama, ff)   configuentemente da glialtri mali , che le  figuitano : diffi l'amore effer co' piedi nu-  di, per che non curando l'anima fi medefi-  vna rettamente, come aduiene adamante,  non conofie quello , che effa è, anziché e di  gran lunga peggio ) crede fi effer altrimen-  ti che effa fia . ~Di qui aduiene , che effa è  priuata della cognitione della uerttà . Et  pero in ogni fua anione procede finza ra-  gione alcuna , e uer amente co' piedi nudi .  Diffi uolare per terra , perche l'amante fi  fa firuo della bellezza corporale . Laqual  cofa nafie daefìrema tgnorantia , da  cfìrema infama , fèndo l'anima noftra nel  numero delle cofe diurne , lequah hanno a  dominare alle cofi corporee , ffi) non fimi-   re . Di    TERZO. ixà   re. TDi qui naf ce , che l'amante e fòt topo-  fio a infinite offe fi , ne mai uer amente fi.  quieta in cofa alcuna , ne ancora nella co*  fa. amata , fendo fempre agitato da uant  speranze , da uani timori , i quali fi-  no m modo potenti , che effo non ha fatui-  tà di poterli in alcun modo celare ,quafi  un fìupido , obhgato fempre alla bellezza  corporale , ma alla bellezza diurna, ap-  poggiato a [enfi , iquali fino parte dell' anu  ma noflra ; mentre e congiunta col cor -,  po mortale . 'Rittamente dunque l'amore  fi può dire finza cafa , finza letto , fin-  tai coperta , dormire all'aere nella uia ap-  presole porte. Sendo adunque l'amante  fottopoflo a tanti mali per cagione del-  l'amato , qual pena fi potrà trouare con -  ueniente , fi efio non riama ? Certamente  chi priua il corpo della ulta e h omicida :  chi rapifie le cofi diurne èfacrilego.L'ama    ì2S L 1 3 % 0  to e fi ordendo la cogitattone all'aman .  te rapifce l'anima sofà neramente diurna .  ‘Priua ancora tl corpo della aita , uiuendo  effo per la pre/entia dell'anima : Onde co-  me homictda , ft) Jacrilegofe degno di cru -  delifiima morte . <^Ma riamando l'amato  marauighofamente reHituifce l'anima al-  l'amante . Imperoche , chi riama dona la  fua cogitatone , ffi) la fu a anima, nella  quale urne l'anima dell'amante . £t pero  donando fe , refhtuifce all'amante la per-  duta anima ; ne per quefto pero abbando-  na fi mede fimo , battendo fmpre fico con-  giunta l'anima dell'amante . Oitefh ffij fi  mili fono gbaccidenti , che feguitano al-  l'amore per hauere origine dalla pouertà ,  come madre . Chi uuol conofiere efijufita-  tnente ancora quelli , che configuitano al-  l'amore pereffer figlio di Poro , cioè della  ma alla copiai legga icomcntarij foprail   Simpofio  Smfojto del Duca noftro ^Marfiho ; otte  la natura dell'amore fecondo la intenda-  ne di ‘Platone è diurnamente ejplicata .   ... \ .   Otrebbe alcuno dubi -  tare > perche cagione non fìa  mo parimente affetti circa  ogni hello. <JMa fi ne trotta  qualcuno , tlquale , henche giudichiamo  efeer hello, nondimanco non eccita in noi  quello intenfò affetto , quale chiamiamo  amore. Qualcuno altro potentfiimamen-  te ci commuoue ; anzi {che e di gran lun-  ga piu forte ) fpejfi fìamo affetti a quel-  lo, che ancora noi medefimi giudichiamo  effèr men hello in fa molti . Quella qui -  fi ione fecondo la mia fintentia , fendo difi  folle , ftj) anfia y fff) ha fi ante ad affati -      n o L I S 7{ O   care ogni buono ingegno habbtamo dedica-  ta al fine di quefta opera , della quale al  preferite breuemente tratteremo . Qualcu-  no forfè giudicherà la femilitudme , g)  la congruente , perche noi fìamo piu. af-  fetti ad un bello , che ad un'altro : hauere  origine dal padre , g) dalla madre , quafi  fia neceffariOy hauendonot di quindi l' effe-  re, hauere ancora da mede f mi tutu l' al-  tre ajfettioni ; Qualcuno altro crederà  douerfi ridurre alla natura > g) al Cielo  come autori di tutte le cofe inferiori . Tfoi  che fèguitiamo il dium Alatone, affer y  miamo la datura , g) il Cielo efeere in-  dumenti della diurna inteUigentia , g)  per queflo operare nelle cofi inferion y quaii  eoi loro ordinato di fòpra . ‘ Diremo dun-  que le cofe diurne ejjereinfra fi di flint e ,  fecondo che s'appropinquano , o fino lon-  tane da quel principio % onde procedono ,    i T B '%'Z 0. ni   fa per quefio fèndo /’ anime rattonah nelnu-   W mero delle co/e diurne, e neceffario altre efi  fa fere ne primi gradi della perfettione , al-  $ tre ne fecondi , altre ne tertij . Quefla di -  { ftributione ha origine dal primo mtellet T  tri to , ilquaìe difipra habbiamo apellato ,  tjl fff Angelo , ft) mondo intelligibile , oue  l tutte le cofè hanno il loro efiere perfiettifi  /- fimo . Sendo adunque l anime rattonali  ì difìribuite in tanti ordini , quanto è il nu-  , mero delle stelle, come dice ildiutnTla-  i tone nel Timeo , benché naturalmente  tutte fieno in fra fi confintientt , nondi-  meno infra quelle è maggior confinfi , in  chi è piu congruentta , ft) piu fìmihtudi-  ne : Onde l 1 anime di ciafiuno ordine piu  cónfintono fico medefìme , che con quelle ,  che fino di dtuerfi ordini , hauendo infra  fi maggior fimilitudme , ft) maggior a fi  finità: fór bigratta, t anime fitto l'ad-   l \ V t,;-    Vs»    i3z LIVIDO  tniniftr attorie di Gioue piu conuengono in  fra loro ; che con quelle , che fino ordinate  fitto l'amminifìr adone di «J "Marte , o di  Saturno : fendo piu fìmili , ffi piu affini.  & anime , che dt/cendono nella genera-  tione tratte dall'amore delle cofe terrene  formandofi i corpi , iquali reggono : in efii  efprimono la natura fua per qudto la ma  teria ne può effir capace . lmperochejl cor-  po none altro y che una imagine dell ani -  ma , ft) quanto i corpi fino piu perfetti *  tanto meglio rapprefintono l'anima . On-  de il corpo celefle perfettifiimo di tuttii  corpi , fèndo tanto uicmo all'anima , che  tffi quafì fianon corpo , ottimamente la  reprefenta : HPer laqual cofà t anime , che  difiendono nella generatone sformandoli  da principio un corpo di \ Natura fimileal  corpo celefle ( ilche hauere affermato Ari-  fiotde ancora confinte Temifiio ) prima in   V • * *Jfi    MI» mi ni  j I   tu-  w  w-  h  ri- tti  it  li  fi  i 9 fi-  in  ejji fanno la fùa participatione sfatta-  mente , dipoi negl altri o meglio , o peggio,  fecondo che per la loro perfettione , o tm-  per fattone , fi prefi ano piu , o meno obe-  dienti . Tutti nondimanco ritengono il Ca-  rattere dell'anima Jua r fendo adunque la  bellezza corporale rnagine della bellezza  dell anima, {fi per queflo riducendofia  medefìmi ordini , quel bello filo è ajfet-  tuofamente offeruato da noi ., ilquale fi ri-  duce al nojìro ordine , {fi quello è innanzi  a tutti offeruato, {fi adorato , che proce-  de da anima nel medefimo ordine di firn-  ma preftantia , {fi di fimma degnità,{fi  per queflo fi V anima noftrà e intenta alla  generatione , fubito, che ci incontriamo  in efja , quafì attoniti giudichiamo altro -  ue piu attamente non potere ef fingere la  diurna bellezza . * Onde a nullo altro pen-  iamo, m nulla altro tt udiamo >che adem-   I *   /    tu  fiere l'ardente defìderio nojìro . Quefta  forfè effir la cagione, come io fimo' affer -  merebbe uno ftudiofodeldiuin ‘Tlatone ,  per laquale fiamo affetti pm ad uno , che  ad un'altro bello . Queflo fìa tifine, o buo-  no Amore del nojìro cercare , della tua di-  urna origine . Dio uolefii, che a me fufii  tanto facile trouare le parole , quanto co-  fi grandi , ft) marauighofi di te concepia-  mo . Imperoche e mi farebbe un pic-  colo inditio , che la mia te -  nebricofa mente pof  fa effire Ulu-   firata " ;   i . dalla chiarezza della tua di ; •  £v; umifitma luce .   iL FIl   j. Giof'^t'HX 1 conisi, e .   PALLA B. V G E L L A I<   ’ ' • V ?• fN *> 1 . f\ I .   • . • • » >.» . % v ; j . « +4   R AVE PECCATO  è non fentire rettamen-  te de gli D.ìj , molto piu  grane detrarre alla lo-  ro maie(ìà,ft) pero ca±  r fórni amici, non uituper atelo amore,  cojà certamente diurna, acctoche nonni  auenga come a Steficoro Poeta, ilquale ef       136 PATSfEG ITTICO   fendo accecato per hauer ne' fiuoi uerft pec  tato contro a Helena,non mai recupero la  perduta uifia fi prima fatti e uerfi incon-  trario fenfe non placò la offefa deità . Ho-  mero ancora perche non uolfe confejfare  hauer peccato yUtffe cieco infin nell'ultima  vecchiezza. V n adunque non filo ui after  rete da tale uituperatione , ma celebrando  ilfacratifiimo nome dello amore,lefue mi-  rabili uirtuti infieme meco predicante y fe  non come e conuemente a tanta maieftà ,  almeno fecondo le forzz del uofiro ingegno ,  di che nulla piu uttle a uoi , nulla piu ac-  cetto a gli Uij fare pofiiamo .   6 Neffuna cofa e tanto grata quanto la  bellezza, neffuna tanto mole fi a quanto la  deformità . La bellezza rapifie e diletta  l'anima no lira, per contrario la deformi-  tà l' affligge e la difeaccia. La cagione  credo fia , che la bellezza offendo fuori alle   co fi    '  cofi create mofira la perfettione di drento %  onde uiene , perche la perfettione dt qua*  lunque cofa e accompagnata da una certa  gratta ejìeriore , laquale dimoftra quella  cofa non hauere di drento alcuno difetto , c  pero non e merautglta fi l'anima noftra e  prouocata e rapita dalla bellezza; impeto -  che effa naturalmente indoutna per la bel*  lezza douerfili aprire la uiaatla infinita  perfettione della diurna bontà , per laqual  cofa li antichi Theologi affermano la bel-  lezza effiere portinaia alla habitatione fi*  crettfitma della diurna bontà , quafi fia  neceffarioa qualunque cerchi ladtuinità  prima incontrar fi nella beUezza.£per que -  fio la bellezza non è altro , che uno fiore ,  una gratta , uno splendore della diurna  bontà, laquale prouoca e rapifie tutte le co-  fi che hanno facultà di cono fiere, accioche  per fuo beneficio fi faccino dteffa parte*    13 * PA^EGltTCO  dpi y ou'èla aera q) ultima perfittione di  c taf imo . Onde fi cofi che hanno potentia  di cono/cere , fino piu perfette > che quel-  le che ne fino prrnate , ffi fra quelle che  condfiono ■> chi ha miglior grado di cogni-  tione ha maggior grado ancora di per fet-  tione , la ragione è, che chi ha miglior gra *  do di cogmttone , cono fendo piu perfetta-  mente la bellezza , e intromeffo a maggior  grado della participatione della diuimtà ,  doue conftfle la perfettione . Onde la firn-  ma cognìtione fi fa participe di fimma  perfettione , conofcendo ptrfettifiimamen-  te la bellezza , Ma chi è al tutto priuato  della cognìtione yfendoli nafìofio lo fplendo  re della bellezza y è priuato ancora della ue  ra participatione della diuinitdye pero me-  ritamente fi reputa imperfettifimo fra le  cofi create . Chi negherà le cofe inanimate  effire piu imperfette che quelle ylequali han   no anima t    1    { A L V A MOltJZ . 139  no anima t ft) fa quelle , che hanno ani-  ma molto piu imperfette e (fere le piante , e  gli altri animali che Ihuomo? Le cofe ina-  nimate no battendo cogmtione alcuna nten  te guftano della bellezza , ft) pero hanno  poca per fattone , perche per ft non pojjo -  no aggiungere alla diurna bontà. Le pian-  te ( come dicono e c ~Ptttagorici ) hanno co -  gnitione, ma Hupida , ft) quaft di huomo y  ilquale fubito fùeghato finte e non difier-  ne . Gli animali irrationah fentono , e di-  feernono , e nondimeno perche lo fplendo -  re della uera bellezza troppo fupera la loro  f acuità del conofiere 9 e fi ancora hanno de  bile perfettione . Solo l'huomo fa quelli  che habitano in terra e capace della bellezz  za , efiendo in lui ampli fimo grado di co-  gnittone 9 onde efio arnua a non piccolo gr a  do di perfettione . Ma nella natura ange-  lica ft contiene el fommo grado di perfeitone , offendo da Dio principio , (fogni  lume , in e (fa fitto infufo uno lume> Ugua-  le congiunge la cognittone uerifiima con la  uerifiima bellezza , e dalìacjuale la cogni -  itone è dertuata nell* alt re creature , come  dal Sole fontana d'ogni lume uifibilefe de-  riuato ogni altro lume nelle cofi corporali .  Chi dubita la bellezza fola rapprefentare  la diurna bontà t confideri il Sole effere bel-  hftmOydi tutte le cofe che fi tncontrono alti  occhi nofìri, uer amente occhio eterno del  mondo , come dice Orfeo , ih/uale gli anti-  chi Theo logi chiamorono figliuolo utfibile  di Dio 9 anzi diciamo effo effere nel mondo  come in facratifiimo Tempio merauiglto -  fifiima ftatua di Dio . Onde apprefio gli  Sggitij ne i Tempij di Minerua fi legge ua  fermo in lettere d'oro .Io sonocio  CHE £ , C I O CHE È STATO, C/0  che faràyil uelo mio non difìoptrfi alcuno ,   il fole il file futi frutto ch’io partorì di che ap-  pare il Sole bell forno , fi a le co fi uifibili  uer amente rapprefintare la diurna bontà,  come imagme di effa nel mondo.. Sfondo  adunque la bellezza qual di /opra e dime •  firato ,non è merauiglia effa prouocare im-  mo rapire a fi le nature conofienti , mafii-  mamente quelle che hanno amplfomogra  do di cognizione , c Anzi piu tofto diremo  ejjè hauere in fi mio ardentifiimo defide-  rio , per beneficio delquale non già rapite ,  ma fpontaneamente cercono e configmfio-  no la bellezza, cagione della loro per fetto-  ne. Quello defiderio non pofjede al tutto la  bellezza allaquale fi muoue , ne al tutto ne  è priuato , perche fi fufii al tutto pnua -  to della bellezza, non harebbe di effa alcu-  na cognttione , onde ne la potrebbe defide-  rare . 2 Spi figliamo defiderar do che noi  defideriamo come cofa buona f utile per    i 4 z P AT^EGl^lCO  noi , altrimenti mai defidereremmo mila .  Chi è colui che defiden il (ito male ( fi  già al tutto non è infinfitto ) , fi adunque x  noi fiamo priuatt della notiti a di co fa al-  cuna , non ci ejfindo noto , fi tal cofite t  come la pofiiamo defiderare come cofa buo  na ft) utile P er not • mn 6 dunque da du-  re che'l de fiderio della bellezza , al tutto dt  e JJa fia priuato . 7S[e ancora è da dire ta-  le defiderio pojfidere la plenitudine della  , bellezza , perche chi poffide non fi muo-  ue alla cofa quale lui pojfide , ma piu to-  fiola fruifce. Chi non conofce che la po-  tenzia delmuouerfi e data alle cofe create  per arriuare e configuire quel termino y che  tjfi non p affiggono 1 ilquale come hanno  pojfiduto fiibito ce ([ano dal mouerfu Onde  elmoto e connumerato da Filofifitra le co  fi imperfette . Ma colui che de fiderà fi  muoue in un certo modo a quello che efio   defidera ,    i    ALL* AAf07{£. i#j\   de fiderà , e pero non lo pofiiede y percbe fi.   10 poffidefii , farebbe uano ildefiderarlo 9i  godendolo finza interna filone 9 per laqual  cofa il defìderio della bellezza > è poflo in  mezo della pnmtione , e della pofiefiiont  di e[fa\ participando tutti dua lieflremi .  Quefto defiderto fi noi chiameremo amo-,  re > non faremo da h h uomini ne etiam da   11 dij meritamente riprefi , perche in ogni,  natura creata , o uuoi angelica , o uuoi ra-  tinale l'amore non e altro che uno arden- .   • » • 4 *   tifiimo defiderio di poffedere e di fruire la  bellezza > quanto a fi e pofiibde. Perla -  qual cofa, li antichi Theologi non collocaro-  no lo amore nel numero delle cofè diurne  come quelle che in fi hanno la plenitudine  della bellezza , ne ancora nel numero delle  co fi mortali , come quelle che in ueritàne  fono [fogliate , ma nel numero di quelle  che, delle mortali e delle diurne fono parti-    1    i44 ALL'AMORE.   dpi , parimente , come e la natura demo-  nica . Onde efit chiamorono lo amore non  Iddio , non mortale , ma grande demone ,  perche la natura demonica, pofta m mezg  fra gli huomini e li TDij quafì interprete ,  conduce a li Dij li prieghi e fàcrificij degli  huomtni,alh huominila uolontà e coman-  damenti de Ili Dij . Qie per altro mezo li  huomini,o melanti o dormienti fino m-  fpirati dalla diurna bontà , che per la na-  tura demonica . ‘"Parimente lo amore po-  fto in mezo della cognttione , e plenitudine  della bellezza , non filo prepara , e difio-  ne ottimamente alloinflufio della bellezc  , le cofi che ne fino priuate , atte a par-  ticiparla , ma ancora traduce della bellezr  za un lume, per ilquale effe fatte belle ,  configuirono la loro felicità , Quefìofigni-  ficorono li antichi Theologi quando difièno  lo amore efiere figliuolo di c Toro , e di Pe-  nìa gene-    ÀLVAMOXB. t+t  nia generato ne natali di Venere , e pero e fi  fere fittatore e cultore di ejfi . lmperochc  Venere figmfica la bellezza , Poro [tonifi-  ca, meato e uia , Penta lignifica indigene ta ,  e pouertà , E adunque generato lo amore  della indtgentia,come madre laquale è nel  la natura ,che ancora non ha participa-  tione di belle zia, ma ha bene una certa po-  tentia e prontitudtne adhauerla, £del  meato e uia alla bellezza, come padre, cioè  c imo influjfi ouuoirazp, ilquale proce-  de dalla bellezza , e conduce ad e (fi la na-  tura indigente . Onde l'amore uiene a par -  ticipare della tndtgentia,inquanto fi muo-  ue alla bellezza , e dello influjfi o uuoi ra -  zp , inquanto al tutto non e priuato della  cognittone di efia . Meritamente adunque  lo amore è detto fittatore , e cultore di V ?-  nere; imperoche lo amore fimpre figutta la  bellezza,* lei bellezza fimpre eccita la amo •     j ó P. A TfE G l'FJCO',  ye . Sarebbe lungo a dichiarare quello che  intendono li antichi Theologi quando du  cono effer due V mere t una figliuola del eie -  lo finzetmadre^ e però effer detta cclefte,.  laquale nacque de genitali del cielo cafra %  lo da Saturno fuo figliuolo /àbito che fu  nato. E da la fpuma del mare , oue efit  genitali caddero. L'altra figliuola di Cjio*  ue e di Dione , detta uulgaree comune. Et.  pero al pre/ente ba fiera dire fidamente co*,  me fino due Venerefiioè due bellezze* Mia  celefìe , l'altra uolgare , cofi effer dui amo -,  riyUno cele fi e fi altro uolgare. Lo amor ce  le fi e feguitare la bellezza celefte e diurna ,  e'iuolgar , la uolgare e comune . <£\da for-  fè non farà fuori di propofito , incomin-  ciando fi da uno altro principio dichiarare  m che modo fono diuerfe bellezza > e diuer-  fi amori , effendo fempre feguitata come è  detto ciafcuna bellezza, del Juo ; amore .  f ^l'ordine    rALL'AMO'RE.'H*   \ : '7S(e l' ordine delle cofi il primo e capotti  tutte e effi Dio infinita bontà, infinita firn  piletta y principio y mez.o , e fine d'ogni co-  fa y bene de bem y lume de lumi . TDopo Dio  ~ è lu natura angelica , laquale fi come è  la prima creatura che procede daTDiò ,  iCofi tiene il primo grado diperfettione tra  le cofi create . TDòpo l 'Angelo e la natura  rationale , laquale ancora è detta anima,  tanto meno perfetta dello angelo , quanto  è piu lontana dal prtmo/lSfondimanco ha  in fi tanto grado di perfezione , che ejja  pon filo intende la natura angelica , ma  ancora a fende al profondo abifio de la di  uina luce . Quefla produce e regge tutte le  cofi corporali , e con la fua prefentia dona  loro la ulta , ft) il moto . lmperocbe qua T  lunque uiue,in tanto urne, quanto dal' ani  ma riceue il pretiofi dono della ulta , dalla  quale effa e origine e fontana . Il quarto uogo tiene la natura corporale , lacuale al  tutto digenera dalle cofi diurne , perche in  ejfa nulla è di uero , nulla di certo , ma  ogni co/a imagmaria e uana fimile a l'om-  bra de cor picche apari/ce nel continuo fluf  fi dell acquaylaquale continuamente fi ge-  nera e fi corromperne mai (la ferma in  uno ejfire . L'ultima ne l'uniuerfi, è la ma  teria y nella natura della quale non e ordi-  ne o perfettione alcuna , molto piu uicina  al non ejfire y che a l'efier e. Adunque fi può  dire ejfire ne l'uniuerfi cinque gradi di co*  fiyCioe T)to y l' Angeloyl' animaci corpo , la  materia ydequah dua ettremi fino in mo-  do contrarijyche l’uno, cioè Dio è auttore,  e cagione di tutti t beni.L'altro y ctoè la ma  teria è cagione e auttore di tutti e mali . Id-  dio tanto eccede le cofi create , che e fio non  può ejfire pienaméte intefi da alcuna crea  tura . La materia ha in fi tanto difetto ,   che    ALL* AMORFE i\ i+p   che per fua natura, fi come fogge lo e (fere,  cofi ancora fogge la cognitione. Et per que-  fio ne la materia no è bellezza alcuna, an*  zi piu toflo u'e fimma deformità , perche  la bellez&a(come e detto)accompagna firn  pre la bontà, ne fi può trouar bellezza do* '*  ue non fiabontà',e noi hauiamo dichiara-  to nella materia non ejfire alcuno grado  di bene,efiendo la materia ejfo male, e prin  cipio d' ogni male . 5SS? ancora in Dio e bel-  lezza alcuna, imperoche Dio e fimma firn  plicità ,ela fimma (implicita non e capa-  ce di bellezza , ma caufit di ejfa, e fendo la  bellezza nelle cofi create . Onde in Dio e tan  ta perfettione ,che quando noi diciamo,  Dio è fapiente , Dio è uiuo , D io è gtufto  e bello , noi habbiamo a intendere in ‘Dio  non ejfire, o uita , o fapientia, ogiuflitia,  o bellezza, nel modo che uedtamo nelle co-  fi create, ma Dio ejfire cauja nelle crea-  . . > K tij    nò PAtyEGIKIdO-   ture , della fipientta , della uita,dtllagiu-  ftu ia, della bellezza, e però Dionifìo Ario-  pagitafikndore della Theo logia Ghriftta -  «rty dice nel libro de nomi diuim , tutti e  Homi che fino attribuiti a T)io , fgmfìca^  re dóni da lui nella natura angelica concefi •  fi. #(efla adunque la bellezza e fière nello  àngelo,nella anima j nella natura cor porti    k. JMa come efiafia in quefle tre nature ■-  per le fiquente fimilttudme fi potrà factU  mente ( come io 'Spero ) comprendere .   Fingi liner ua dtfiendere di Cielo in,  terra tra mortali, fingi una statua di ?ne*>  rauigliofi artifitio fatta a fimilit udtne co->  me quella di Ftdta, laquale facci la imagw  ite fid iti uno Specchio', chi uedefit quella  imagine nello Jpeccbio,non uedendo la fi a-'  tua -, di cui è effavnagme , fi merauiglia  rebbe affai della fia bellezza- Molto piu fi 1  merauigliarebbtfi ue defila Statua, ondc\.   quella imagme d erma sterno fcmdo in efia  la merauighofa mduftrta dello artefice\  <£Ma fi uedefit gli occhi , jf) il uo!to,e l y al  tro basito del corpo di Minerua uiua.qua  fi attonito tonfeffarebbe la fìat ua e la ima  gine nello fpecchio non e fiere degna di fti\  ma alcuna , la cui bellezza , haueua poco  manzi tanto commendato . ^Nondiman -  co direbbe e (fere tanto meglio la fatua ,  che la imagine nello fpecchio y quanto e  meno lontano da Alinerua uera » 'Sfa  milmentela prima , e uera bellezza è nel-  lo angelo , laquale è mi fura ffi) origine db  tutte l' altre bellezze 'L'anima ancora pofi  fiede la bellezza , non già per (ita natura,  ma per dono dello ^Angelo , come la cera*  ha lempronte dal figlilo , ffi) pero fi può-  dir piu tofìo e (fere uera fimilit udtne di bel-  lezza , che uera bellezza , efiendo ne l'an fa  ma, non per fua natura , ma per beneficio «   K ut)    isi PA^EGITUCO  d'altri II terze grado di bellezza * ttel cor*  po , neramente non fimtktudine , ma om-  bra dt bellezza , molto piu lontana dalla  bellezza dell 9 anima, che non e l'anima dal   laidi ft abile , nulla di certo ,ma ogni cofi e  ' fluffa e mutabile, e pero la bellezza cor por a  le, figurando la natura del corpo , è Jempre  di necefità me/colata con la deformità, fio  contrario, continuamente variando fi .   Fra tutti e corpi , il mondo partteipa  amplifimo grado di bellezz&,percbe tl tut-  to è fimpre piu per fetto che le parti. Im-  peroebe il tutto contiene e non è contenuto , .  Le parti fino contenute fjft non contengo-  no , f0 nejfuno può dubitare ogni altro cor-  po ejfire parte dello untuerfi/Dopo rimon-  do fino e corpi cele ft i , da quali fi può ha -  uer mam fe fio te f limonio della bellezza de   lecofi   Ti * •    lo z, Angelo . Imperoche nella natura del cor  po ( come rettamente dece Her adito ) nuL    f ALL' AMORE, iss  le cofi dittine , Olirà quefio grande nume -  ro de corpi , e quali alprefente faranno da  noi pretermefii . Solo diremo dello , buomo  ilquale contiene tanta perfezione e tanta  bellezza > che h antichi Fdofofi non hanno  dubitato chiamarlo mondo piccolo , come  quello che in fi piccolo loco come e il corpo  humano , ha congregate tutte le utrtu del  i mondo . èjfindo adunque la bellezza nello  angelo , nell'anima , nella natura corpo*  tale , noi chiameremo la bellezza dell'an-  gelo e dell’anima, Venere celefie e diurna .  Perche non può ejfire ueduta da altro oc -  chio che dello intelletto , cofa neramente  diurna . La bellezza del corpo chiamere-  mo Venere uolgare . Efiendo conofituta  per mezo de lo occhio corporale, per laqual  cofa ,fe ogni bellezza è accompagnata dal  fuo amore , e lo amore non e altro che uno  ardente defiderto di bellezza fjnrituakdi -    )    t    m .'&rA2$E-G Wmo   remo efifireamore cele fi e e diurno , g ; )ìl  dejìdeno della bellezza corporale efiere  amore uolgare e comune» Chi adunque non  conofce quanto fi ingannano quegli il cui  amore fi dirizzi alla bellezza corporale? fi  già non lufino per inftrumento per /altre  alla diurna bellezza, mi al prefinte dimet -  teremo le incommodità di che fono parteci-  pi gli huomini , per figuire l'amore uolga-  re, come co fa molto aliena dal propofito no u  firo. Solamente dimoftr eremo il maggior  dono che fia dato a gli huomini da Uio ,  cffere quello amore che li conduce a contem  piare la diurna bellezze , ft) pero tal ama-  tore e/fire eccellentifiimo, e qua fi un mira-  colo infi a gli altrt huomini . U anima no :  ilra benché fia piena di diumità , anzi ne-  ramente figliuola di T>io , nondimanco m >  tanto è occupata dal corpo, alla cura e reg-  gimento del quale naturalmente ì propo - .   • fia , che    r AL V~AMÒ\E. V/V   fia y che rifiu • delle uoltediuenta piu fi*  imitai tenebroso carcere dout e ■ indù fa ,  che allo amore d'onde procede. Et pero  ' U antichi Theologi chiamorono il corpo fi*  fulcro de làmina y che quafi l'anima fia  piu fimile alle cofi morte che alle itine, meli  tre che fta mi corpo ,per laquàl cofi dimen  ttcata della natura fua^è della bellezza di -  urna e delufi da grande , e uano numero  di falfi fogni y' per tutto quello Jpatló di  tempo che'l cieco ft) ignorante uolgo chia >  ma uita. E' Incordar fi della diurna bel*  léz^a poiché fi amo congiunti al corpo mor-  tale , non è facile a ogniuno y ma fino po*  chifitmi in chifia rima fio qualche fintilla  di diurno Jplendore y per laquale po fimo ef  fere eccitati à fi felice ricorranone . Que~  fli quando s'incontrono in qualche tmagU  ne della diurna bellezza > laquale piu ma -  nife fi amente che in altro loco 3 appare neh    r    «. \    is6 PAT^EGIXICO  corpo inumano , e maxime nel uo Ito, quan-  do e partecipe di prettanttjsima forma  in prima fono occupati da in [olita me -  r aut glia, me folata injìeme con horror e, di  poi alquanto afiicurati , la giudicono cofa  neramente diurna e degna , a cui fi conuen -  ga fare li facnfìcij e uoti , non altrimenti  che fi foglia fare alle ftatue de li Dei im-  mortali . Ma quando piu attentamen-  te riguardando in ejfa , riceuono per li  occhi lo influfio della bellezza , [abito per  tutto alterati, fidano parimente ft) ardo-  no. lmperoche in loro fi accende uno affet-  to , ilquale mirabilmente gli eccita, e lifol-  leua . Dipoi aggrauati dal pefo della in-  fettione corporale in baffi ro umano , non  altrimenti che fuole auenire a quegli ucce-  \ $ » ec j ua k P er troppo defiderio di uolare ,   \ hanno ardire di commettere inanzi al tem  [o alle giouani ale il pefo del corpo loro ,   ma non    ALL'AMORE. in   ma non effendo le penne ancora ha fi unti  a notare fono con ftr etti precipitare in ter-  ra y perlaqualcofain un mede fimo tem-  po agitati da dua contrarijfintonograuifi  fima moleftia , lacuale fubito fi corner te  inletitiache fiecchiatt di mono nel bellifii  mo mito , riceuono drento a l'anima , il  tanto defiderato fplendore . ^Ma quando  fiparati dal diurno Jpettaculo , mancono  della loro confueta e fi a , afflitti e dolenti  fi riuolgono continuamente nella memo-  ria , la imagine dello Jplendidifitmo uolto ,  onde sforzati dallo ardentifiimo de fiderio,  fimili alti infuriati non potendo ne la not-  te dormire , ne' l giorno in alcun luoco quie-  tar fi y per tutto difiorrono cercando di uede  re quello fpettaculofinza la cut ufi a con-  fumati dal dolore perirebbono, ilquale poi  che hanno ueduto e rtprefi il defiderato nu  tnmentojibtrati dalli acuti [ìimuli egra-    ( <    rff$ j?A^sai%ico   \ue ànguHte y fi fentono m tanto filettare  ~fipra le forzé loro confate , che dimenti-  . candofì de padri , de fratelli, de patrij  honori -dequali fi filettano. gloriare Amen-  tic andò fi ancora di fi mede fimi , fem-  ore penfam in che modo pofimo fruire il  \dmmfattaculo , come quegli che reputar  (fio ogni lor ualore , m quefia uita ffi} in  •quell 'altra hauere origine , ff) incremento  da lui , come ottimo medico delie humane  infirmiti . In prima dalla- bellezza d'un  corpo non filo particulare , ma ancora ca-  duco, falgono alla bellezza de corpi celefii,  e di tutto lumuerfo , Oue oltre alla luce di  che efii fino urna fontana utile cofi finfir  bili y contemplano una.fuauifitma harmo-  via caufaa da lordine e proporzione de  tnouimenti loro , per la qualcofiiyapcrta (  Mete conofiono il cielo, ejfire la hr a di Dio ,  come dicono . gli ant ichi ^Pit t hagorici , al   fano    T:   fuono ddlctcj naie tutte le cofe contenute da  lui mtr abilmente bullono , Uopo la bellez-  za de lo umuerfo truouono la bellezza rid-  i' anima . Imperoche ejjendo il corpo una.  fimilit udine de l'anima, ne ffuna partecipa  itone della diurna bontà può ejjcre in efjo +  lacuale non fia molto prima ft) in molto*  miglior modo nell'anima, ejjendo origine e  principio della natura corporale, anzi non  per altro la partictpattone della diurna bel  lezza e nel corpo , che per ilgrande domi  hio ft) imperio quale ha l'anima in affo .  Onde e Filofofi affermono quafì come coft  imponibile non ejjere eccellentijsime dote m  quegli, iquali fino dotati di piu egregia for-  ma che gli altri , come qua fi l'anima di co-  loro fia piu predante e piu diurna , la cui  forma del corpo uera fimiltt udine de l'ani  ina è piu bella , cofi di grado in grado prò •  cadendo , fubitofi difcuopre loro il prò fon»    160 ALL'AMORE.   do pelago della diurna bellezza nello fflen-  dor dellaquale nella prima giunta abagha  ti , pojjhno fico medefimi in quefta manie-  ra ragionare . Infino a qui balliamo piu  tofto una ombra ouero fimihtudine di bel-  lezza che nera bellezza - *?Maal pr e finte  o dolcifiimo amore , ilquale rtfialdi le co-  fi fredde jilluftr ile ofiure , dai uita alle  morte groppo hai filleuate l'ale delle menti  nofire , lequalt infiammafli alla chiar fil-  ma luce della diurna bellezza , e le penne  già rottegli fuptrchio amore delle cofi  mortali , non per fua natura , ma per tuo  beneficio nnnouate,hai e fp beatole noi Mo-  lando (òpra il cielo, guidati dal diurno furo  re fiamo ripieni di quelle merautghe,lequa  li mai ne occhio uide,ne orecchio udirne di -  fiefeno in cognitione di cuore alcuno. Onde  neramente pofiiamo efilamare , quefto e il  di che ha fatto il Signore , rallegriamoci   ffje/ul-    ALL* AMORE. i*r  ft) ejukiamo in effo. Quefta ì la uia retta ;  per laquale debba procedere il legittimo  amatore , ilquale quando comincia a con*  templare la diurna bellezza , fi può dire e fi  firc uicino alfine , oue ciaf una co fa creata  quietandoci acqui fi a la uera felicità, * pe-  rò qualunque riguarda la uera bellezza  con t occhio della mente , col quale filo può  ejftre ueduta,non producendo imagtne e fi  milit udine di uirtù , ma uere uirtù , fatto  a Dio amicOydimoftra chiaramente ihuo  mo efifere per beneficio dello amore ree etto-  culo della diuinnà , per laqual co fa qua-  lunque non ùede il uero amatore douere e fi  firetnfia glihuomint in grandifitmo pre-  gio , e mafitme appreffo della cofà amata %  non intende quanto le cofe diurne fino piu  eccellenti \e degne di piu ueneraimt che l y al  tre , ne alcuno impetra maggior gratti , e  riporta maggior doni da U T)ei , che la co*      U2 P/A^EGJ^taV .  fa amata, quando ardentif imamente ria*  mando èparata afitt omettere ogni per icn  lo in gratta del fuo amatore . Imperoche,  con lo amatore habitano gli T>ij, pero non  meno accettono l'offcruanttae lattenera-  ttone della cofa amata in uerfo l'amatore,  che e uotie fàcrifìcij fatti a fi. Onde in  quefta uita,{t) in quell' olir a, la ricompen -  fano di grandmimi premij . Ma quando,  la cofa amata ha in odio il fuo amatore f ;  cimenta ricetto di tanta mifiria e di tanta  infelicità ; che molto meglio li farebbe effe-,  re, o bruto animale, o tnfenfto faffi*    anzi piu tofto al tutto non efjere nata.nefi  fina cofa arreca maggiori incommodi a  gli h uomini che l'odio delle cofe diurne, dal-  le quali pende ogni bene , ogni mifura nello  untuerfo , perche efendo fondato in fu la  difimUitudme di effe , è nectffario che fa  accompagnato da tutti e mali : chi adun *   queha    XLVAMOKZ. m  que ha in odio lo amatore^ ejjendo. alieno t  rebelle dalla diurna bontà ft) amico delle  cofi contrarie , m prima fi fa firuo di  quelle per tur bacioni y lequalt arreca Jtco  l'imperio de jen fi , quando la ragione e  adormcntata , come fi a gufa delle pian-  te tenga il capo in terra , bauendo uolto e  ' piedi uerfio il cielo . Z }opo ne uiene un'alt r o  male y perche non conofiendo alcuna cofa  rettamente , pieno di falfi opinioni diuen -,  ta folto e bugiardo , non altrimenti che  auenga a quelli squali da continui fogni  beffati in mezp al fonno finfiono la lor ui-  ta.'Da quefie furie y mentre che e uiuo dor-  mendo , o ueghiando y fi gite da dire effo  mai ueghiare y rimordendolo la confeientia  imperturbato . Ma dopo la morte JubitQ  da minifiri'della diurna giuftifia menato  manzi al grande giudice ode l borendo gtUr  ditto, fi ejfire dato in potè fi à dicrudehfitmi demoni , dequali una parte lo affligge còl  rappreftntarli nella fantafìa ogni horribtle  fpecie dt paura . Vh' altra parte con intoL  ler abili pene corporali lo tormenta . Ma  J opra tutti e mali , dua fino grandmimi .  V uno e una certa mole fi ia interiore laqua  le procede dalla difeordia dell'anima in  fi medefima , (ìmile a quel dolore che ènei  corpo y quando per ladifiordta di tutti gli  humort pefiim amente è dftofto. L'altro  di gran lungha piu graue y effiaè diuinità  penetrante in ogni luoco , la prefintia della  quale per cagione della interiore diffenfìo-  neaneffunmodo può j apportare . Impe-  r oche yCome gli occhi cifpi perla prefintia  del lume fintono gran dolore i fimi fi   co fortano y cofi L'anima gtufta finte gaudio  e dolcezjtt,La ingiufia finte una moleftia  che ninte ogni moleftia , perla prefintia  della diuinità . Da quefti mah ancora    ALL'AMO'KE. ics  molto maggiori per uolontà diurna e afflit-  to chi ha in odio il (ito amatore , ilquale di-  uenta partecipe di altrettanti beni , fedi*  meffa ogni altra cura, filo penfi notte e  giorno efircitarfi in ogni ffecie di uirtu,ac-  cioche fatto fimile a lui, fia degno ricetto  di tanto lume. Quefte e fimih fino le laudi  o dtuinifitmo amore,che noi inuolti nelle te  nebre del cieco mondo di tepenfare e ragio •  nave pofiiamo . Alla cuigràdezga chi non  rende il debito honore,no conofie tutte le co  fi cofi diurne e celefii,come terrene, per tuo  benefìcio non filo effere create \ ma  ancora unir fi al fio creatore  in lui finalmente quie-   tarfi , piene v:.   ciafi li-  na fecondo la fia natura della gratia divina «     iS -     JLL MOLTO MUG%ìtìCO E S^O   OS SERVANO ISSIMO     BENEDETTO     uandifsimoM. Bac~  do mio ,che a colo-  ro , i quali di quella    prelente uita partati fono, fi porta fa-  re beneficio maggiore , che tenere  ùiua ? e frefca la loro memoria ; Per-       ii<*8   ciò che il cóli fare è fecóndo il pare-  re d alcuni poco meno., che rifufci-  targli , e fecondo alcuni altri di piu  perfetto giudicio , molto piu, dan-  doli loro non una uita fola , e quella  caduca , c mancheuole, ma molte, e  fempiterne,come altra uolta piu lun  gamente dichiareremo . Onde fra  tutti gli Scrittori antichi meritò per .  giudicio noftro grandilsima lode  Plutarco . E quanti crediamo noi ,  che fuflero in tutti i fecoli, e per tut-  ti i paeli huomini eccellenti fsi mi co-  li ne’ gouerni politici , come ne ma-  neggi dell’arme , e ne gli ftudii del-  le lettere , de’ quali permancamen- ■  to di Scrittori non li fi pure ,che  eglino non che altro, nafeeflerogia-  mai ?. La onde io ho A    fempre giu-  dicato gratiofo , e lodeuole uncio   P cr    i6 9   ì ..per coloro adoperarli , che le uite  fd icriuono di quegli huomini , iquali  pio o collazioni , o colle fcritture , o a  to. le lor Patrie , o all’altre Genti furo-  Hi no , o d’honore , o d utilità cagione,  ■ e accio , che gli Altri huomini in efsi  m rifguardando, e i loro o fatti , o detti  à imitando, pollano o la felicità huma   r na con Marta, o la beatitudine diui-  • na con Maria , o l’una e l’altra infie-  memente confeguire. A quello fine  piu, che peraltro rifpettomi poli  ( con animo di douere fe conceduto  mi fuffe comporne dell’altre ) a feri-  uere il meglio , e con piu chiarezza  c breuità , che io fapefsi , e potefsi ,  i • la uita di Mifer Francefco Cattani da  Diacceto , parendomi , che egli fof-  fe quali come uno fpecchio non lb-  lamente della uitaciuile, ma etian-    *70 - . *   dio , amzi molto piu della fpecofa^-  tiua , del quale io , fé bene il uidi nc  miei gioueriili anni piuuolte, non  Riebbi però, non che familiarità,© do  meftichezza, conofcenza nefluna ,  ima tutto quello, che io ho di lui fcrit  to,l’ho fcritto parte per relatione di  iiuomini graui, e degni di fede,iqua  4i domefticamente ^ e lungo tempo  con lui praticarono, non eiTendo,da  che egli di quefto Mondo parti , piu  che trentafette annipaffati;e parte  •mediante gli fcritti fuói , de quali  -me flato hberalifsimo M. Francefco  fuo nipote, giouane(còmefapete)  ,detà, ma di grauità,e di prudenza^  maturo, e di quella bontà, e dottri-  na , che piu opere da lui Chriftiana-  mente, come da huotno facro, eca-  nonico compofte , e di già mandate   in luce    I 7*   iti luce & aIfEccell.de! IlIuftrils.Sig*  Duca Padron noftro indritte, dimo  Arare podono^Laqual uita (qualun-  che li lia ) ho uoluto donare a Voi,£  che nel nome uoftro apparifca, non  tanto per lo eder Voi della nobilif-  Ama famiglia de Valori, iquali funu  no amati grandifsimamente, e ho-  norati daM. MarfilioFicini., econ*-  leguentemente dal Diacceto ; quan-  to perche Voi fete degno della No- '  biltà, e ne ritornate in luce il Valore  de uoftri Maggiori , daquali anco-  ra edere uerifsimo conofcereli può  quello, che da me fu detto di fopra,  pofcia, che Niccolo Auolo Voftro  huomo di tanta prudenza , e di coli  grande ftimafcride non menoco-  piofamente , che con ueritàla uita  del Magn. Lorenzo Vecchio de Me-    w 2   dici, e anco per non negare il uero ,  tenendomi io buono della fcambie-  uolebeniuolenza,euerilsima ami-  ftà noftra , m’è paruto di douerne  dare , come un teftimonio , affine ,  che li fappia,che li come Voi per uo  lira cortelia amate, e honorate me ,  coli io altreli per giufto debito amo,  & ofleruo Voi .     tCOMTOST^f D^£ VARCHI, B MANDATA A    ‘BACCIO VALORI.  fn. VITA DEL   primo , che ( disfatte per le parti guelfe,  e ghibelline ) Diacceto , hebbe in Firenze  i primi , e fòprani honor ideila Città , fi  chiamo Becco di Torre di (juidalotto , tl  quale fidette de' Tenori delt zArti , che  cofi s'appdlauano in quel tempo i Signori ,  tre uolte . La primardi mille dugento no -  nauta quattro , diece anni, dopo che cota-  le Jopremo <JMagi(ìrato per abbattere la  troppa potenza , e tener e. in fieno la infip-  portabile fuperbia de' grandi fu ordina-  to ; la feconda , nel mille dugento nou anta  otto ; la terza nel mille trecento cinque . Di  'Becco nacquero Porcello , e ^Mugnaio , o  neramente ^tignato , che cofi fatti nomi  fi poneuano anticamente nella Città di  Firenze ; tqualtamenduni furono non fi-  lo de ' Priori piu uolte , ma etiandio gon-  falonieri di giufiitta , ilquale era il piu al-  to grado, e piu {limato di quella Bfpublt-   ca y e    f     I-  )    ita   ca , e T* or cello oltraglt altri uffici], e ma - \  giftrati , riccuette nel mille trecento tren »  ta noue per lo comune di Firenze la terra ,  defila, e ne fu primo comme [fario  c/wwé fi legge ancora nell' zArme , che egli  fecondo ilcoftume dicotalt Fattori ui la -  yc/à . JD/ indignalo nacque il primo ‘Ta*  golo. T)el primo bagolo il primo Zanó-  i?u T)el primo Zanobi il fecondo ‘Tagolo.  f>i coftui, ilquale fu per la grandezza  delle qualità fue fatto con molti priuilegij  Conte da oAlfonfb 7{e di ‘Napoli, firife la  uita latinamente Ai. ‘Bartolomeo Font io,  huomo di ottimi coflumi , e nella fita età  letterato , ffi eloquente molto . Di Pagolo  nacque il fecondo Zanobi , ilquale fu pa-  dre di Francefeo.La cui Vita intendiamo  al prefente di douere feriuere Noi, fi per al  tre cagioni honeflifiime, e fi perche fi cono-  fea ancora a beneficio comune , che la uu    n  la contemplatiti a può in uno huomo filo  (il che non credono ) coll' attuta unitamen-  te congiugner fi, e lodeuolmente efercitarfi %  e di uero come egli non fi può negare s che  la contemplattua non fia la piu gioconda ,  e la piu degna di tutte l altre mte,cofi con -  fejjare fi dee y cbe lattina e alle città e alle  Comunanza de * popoli, come piu necefjaria  co fi etiandto piu utile . Dico dunque che di  JZanobijdi TP ugola Cattani da : Diacceto ,  e di mona Lionarda di Fracefio di Iacopo  Venturi , nacque in Firenze tra la piazzi  del grano, e* l canto agli cAlberti non lun -  ge dalla chic fa di San ‘Romeo, tanno della  (hrifhàna falute mille quattrocento fi fi  finta fii,il fedicefimo giorno di^ouem-  ' bre un figliuolo mafchio , alqualt , o per  rifare il fratello di Pagolo fio zArcauolo  paterno, ilquale s\ra morto ] enzA figliuo-  li > o per.rinouare il nome del fuo Aiuolo   materno %    C ATT A ^10,. m  materno , o piu prefto per l'una cagione, e  per l'altra uoìlero,che fi ponejfi nome Fra-  cefio.E perche egliinfino da (uoi piate*  neri anni daua prefagio di (ingoiare tnge*  gno , e di (pirito molto eleuato, uolle il pa-  dre ancora , che per fina Idiota fojje , che  egli fi dejfi non alla mercatura , cornei  pm fanno de' giouani Fiorentini , ma alle  lettere , dellccjuali tanto fidilettaua , e co-  tale profitto dentro ui faceua(che non uob  le,tjfindo rimafi ancora fanciullo finzjt  padre , e non molto agiato delle co fi c'ha-  uendo il padre gran parte difiipato delle  fue facultd) per coja , che gli fi diceffi con-  sentire mai d' abbandonarle. oyinzfi hauen  do egli,per ubbidire alla madre , deliaejua-  le fu fimpre offiruantifiimo , e Soddisfare  a parenti , non armando ancora aldicid  nouefimo anno.prefi per donna laLucre -  Ha di Cappone di "Bartolomeo Capponi , la   M    meno con efio fico a^Pifà, e quiui tanto  la tenne , che forniti i fuoi fludtj , e battu-  to di lei figliuoli , fi ne torno a Firenze, do -  ue in quel tempo fionua la fihcifiima Aca*  demta di Lorenzo uecchio de Atedici,nel-  la quale tnfieme con molti altri huommi  (Fogni lingua , e in tutte le faculta dottifi  fimi, fi ntruouaua ^Marfilio Ficim,   Canonico Fiorentino , tlquale oltra la fin-  ceritd de co fiumi , fu d'eccellenza d'inge-  gno , e di profondità di dottrine co fi gran-  de , che io per me non credo , che Firenze  habbia mai , e parmi dir poco, hauuto al-  cuno , defilale fi gh pofj'a non che preporre ,  agguagliare . Coflui effendo ( come ho det -  to ) Qmonico di J anta ^Maria del Fiore ,  haueua con incredibile s ìndio, e immorta-  le beneficio la Filofifia Platonica per mol  te centinaia d'anni piu lofio perduta , che  finarrita , come piu conforme alla religton  ;; _ • ; • Chrifiiana ,       Chrtfhana , che l'zArifiotelica non fola-  mente ritrovata , e rimeffa per la buona  ma , cofd uer amente piu tofìo diurna , che  humana , ma datole ancora credito , e ri-  putatone non pkciola. La onde Ad. Fran  cefo, tratto dada fama di quell'huomo fn  golarifimo(Jè pur huomo chiamare fi deb  be co fi alto , e nobile Spirito) e guidato dal-  la ‘Telatura , lacuale perche egli cjuedo fa-  cejfi, che egli fece, prodotto l'haueuajac-  coflo incontanente al Ficino , tlaualt ( co-  me gratifiimo del dono da Dio conceduto-  gli , e delle Jue proprie fatiche ) come nero  Filofofoyliberahfiimoyinfignaua , epubhca  mente , e privatamente a tutti coloro , che  d'apparare difiderauano ; e l'udì con tan-  ta ingordigia , che egli in non molto tempo  non pure Platonico , ma eccedentifiimo  T latonico divenne . Onde egli 3 fi bene m  uarij tempi, e luogi 3 diuerfi Dottori udito     iso  hàuea , confiejfia nondimeno tutto quello ,'  che fàpeua , hauerlo da <&iarfilto.  filo imparato , fi in molti altri luoghi , e fi  particolarmente nel proemio del libro, che  egli fece , e intitolo del H utero , cioè del  3ello, doue f duellando di lui dice quefie  parole proprie .   Dicam firn , nec unquam me pcenite^  bit , quoniam boni airi ejse duco , cui ma-  gna beneficia debeas ,eidem ipfaaccepta  referre, nosidipjum , quodfiumus,fìquid  Jumus ilio efie . Qoè in fintene . lo ne-   ramente il diro , ne mai farà , che io me  ne penta, ptrcioche iopenfo ejfiere cofa da  huomo da bene ilconfejjare da colui haue  re i benefici] grandi riceuuto , a cui tu ne  fii debitore ; *Noi tutto quello , che fiamo,  Je fiamo cofa alcuna , ejfiere da M* Mar -  fillio Ficini . / ; v   v £ dall'altro lato conofeendo M. Mar   fillio la    'M    s ■   - 1 : V    ì    C Jto  J ilio la grandezza dell ingegno y t /’ inchina-  ime dell'animo di lui alle co fi di Platone *  e ueggendo il profitto , che egli u'haucu*  dentro in picciol tempo fatto grandifiimo,  l'amaua affettuofifiimamente y e lodando v  lo eccefiiuamente y lo chtamaua non filo du  fiepolo y ma compagno , come fi può m  malti luoghi ueder e delle opere fue , doue  egli fa di lui mentione honoratifiima y e Jpe  t talmente nel Parmenide al capitolo ottan  taquattroefimo y neiquale fi leggono que-  fie parole formali .   Sed dum pulchritudinem hic diuinam  commemoro y commemorare fas eft Fransi  fium Dtacetum y dtle£itfiimum Compiuto -ntcum noftrum y de hac ipfa pulchrit udine  quotidte multaipulcherrimaq^firibentem,  quem Jane utrum ad c Platontcam fapien -  ttam natura y geniusc £ formauijfi uidetur y  leq uali fuonano co(ì .   < c M iij    I    i82 L  4 eZMentre cheto fornendone qui della  bellezza diurna , , giufta e pia coja e , <che  io faccia mentione di Francefilo da  Diacceto no/lro diletti /?imo compagnone  gli ftudij Platonici , tlquale di qucfla ftefi  fa bellezza firiue ogni giorno molte , e bel-  Ufiime cofi,enel aero egli pare, cheda ‘Fu-  tura , e il gemo fuo formato l'hauejfono ,  pèrche egli la fàpitnzp, di Platone in-  tendejfe,e imitaffe . \   ‘ Dellcquah còfe fi pub ageuolrnente ca-  ttare , prima quanto pojfaejfere dipana-  mento a una città , anz} a tutto 9 1 mondo    un huomo filo colla prudenza , e libera-  lità Jua ; poi quanto fia necefiarioa un  buono ingegno abbatter fi ad hauere , o fa-  perfi elegger e un buono precettore ; concio -  fia co/a , che fiCofimo de <JMediculuec-  chio , e di mano in mano i /uoi /ucce/fin, e  mafiimamente Lorenzo , non hauefiono  fauorito le lettere, e coloro, aiutati, icjualt  d'ejjire litterati defederanno, *fMar  fello non farebbe flato Ai. Aiarfiho ,e per  confeguenza il Diacceto , per tacere di tan  ti altri , non farebbe flato il Gbiacceto , e  confeguentemente Firenze , anzi tutto il  fiondo farebbe di (i chiaro lume conno -  fero, e fuo gran danno per fempre man-  cato . c tfefi merauigà alcuno , che io feri -  ua bora D. colD.fenz# f a ff tratto-  ne, e bora Cjhiacceto col G. colta forato-  ne y concio (ia che io cofi nella lingua latina  de ^Moderni, come nel uolgare Fiorentina  truoui feritto bora nell'un modo , e bora  nell'altro .feleua ancora Marfìho É  mentre y che egli ytrouandofi hoggimat oL  tra coltetà , leggeua a fuoi dfetpoh , dire 5  io me ne uo , ma fi bene mi parto , io ut  lafeio lo fiambio, intendendo di A4. Fran-  cefeo , Uguale fi chiamaua per fepr anoma   tiij    il r Pagonazgo : perche , mentre era gioita-  ne , fi tùie t (atta molto , e ufaua utfiire di  quel colore, ilqual cognome gli duro firn-  prò , mentre che uifje , a differenza diun  filo cugino carnale, ilquale haueua nome  'anch'egli francefco: era del mede (imo Gu-  fato ,e di una medefìma età , e faceua la  medefìma prò festone di FILOSOFO , e perche  nefhua di nero , fi gli diceua per difttn -  guerlo dal ‘Tagonazgp , JUd. Francefco  ‘Nero , raro dono de Cieli , che tnunmc-  defimo tempo , in una medefìma città , e  dima medefìma famiglia fiorirono due  cofi gran Filofofi , benché il Pagonazzp ,>  come auuiene ancora ne colori, molto fojfi  di maggior pregio, ertputatione , che Ane-  to non era . Ne fu ingannato ^Mar-   filio , ne inganno egli altrui , quando difi  fi, che lafeiaualo fiambio fuo , conciofia  cofit , che dopo la morte di lui  ■ o figuendo  1*S'  feguendo l'effempio , e calcando l'ormedi  cofi grande , e cortefe matjìro , e compa-  gno, oltra il fare di fi amoreuohfitma t.  mente a chtunche nel ricercala gratiofifiu  m amente copta , lefie molti anni , e molti  pubicamente nello fludw Fiorentino , con  trecento fiorini d'oro di prouifione per età-  fiuno anno , egli tiro fimpre mentre uijjè ,  non ottante , che egli negli ultimi tre anni  della Jua ulta per le cagioni , che poco ap-  pre/fi fediranno non uolejfi piu leggere. E  benché i Signori Tmetiant mofii dal grido  della fua fama lo fàcejfiro piu uolte in*  fi antemente ricercare per mezzo di À4on-  fignore l'f\Arciuefiouo di Cor fu , e del fy*  uerendifiimo Cardinale fprnaro,de' qua*  li egli era amictfiimo , che uolejfi andare 4  leggere nello ttudio di Tadoua , con gran*  difiimo /alano, egli nondimeno, che fi con •  tentaua delle Juef acuita, ancoraché mol*      te non fuffono,ed era lontano da ogni am-  binone, e grande amatore della quiete, non  uolle accettare mai partito nejjuno , per  . grande , e bonoreuole , che egli fojfe , e fi  < refio a uiuere tranquillamente nella fio  patria y e arrecare giouamento a Juot cit-  tadini. Quegh,cbe frequentauano la {cuo-  iame la cafi (uà , o come dtfiepoh , o come  amici , o come l'uno, e l'altro mfìeme, era-  no et ogni tempo molti y de quali non mi par.  rà fatica , ne fuori di propofito raccontar-  . ne alcuni de piu fìgnalati , iquah furono  quefti : P ter o Martelli: Giouanni forfii  fiAdouardo ( ^tacchinotti : ‘Piero Bernar *  di: riAndrca Rmuccim: Benedetto d'zAn-  . tonto (Quaker otti: Ftcino Ficini nipote di  ^Marfibo, Luca della Robbia: Ale fi  fandro.de Paz&fT ter firance fio ‘Por tino-  ri : ‘Palla Rufeellai , e Giouanni fio   fratello , che fu poi Caflellano di Caftel   fin? Agnolo    ! 1    ft . ài   m fini* Agnolo, e Cofimo lor nipote, nelquale   m ( ejfendofì egli morto ne /noi piu uer d'anni)   fc fecero la Città di Firenze , t le Mufi To-  ri ' y cane danno , e perdita me filmabile :Ftlip «   fu po Strozzi » e Lorenzo fio j rateilo : Luigi  or. ^Alamanni : Zanobi c Buondelmonte , la - ,  v. copo da D., chiamato tl D.  m no gioitane letterati fimo , e d'alto cuore :   u c , /intorno trucioli: ^Maeflro zAleffandro   ir da “Ripa : Filippo Carenti : M. Donato  Giannotti, e M 'Fiero Vettori, iqnah ho   0 poflo nell'ultimo, non perche eglino non fof   1 /èro de' primi , e de' piu dotti , ma perche  ancora uiuono amendue . c Ne uoglio tace *  re , che egli , tutto , che fofie fi grande Fu   i lofi fo, non filo zAcademico ma ettandio   ; J ^Peripatetico , oltra l'inteDigenza della lin-   gua co fi Cjreca,come Latina, non uolle mai  conuentarfì, giudicando , per quanto io  fimo, che tl Dottorarle fpettalmente      I    in FILOSOFIA a coloro , iquah la loro fetenza  0 uendere,o farne la moftra non uogliono ,  fia co fa finon ridicola , almeno foperchta .  E di ttero cotali ttficij , e preminenze, come  rifpofi già Traiano Imper udore a uno,  che gli dimandaua il prtutlegio di potere  come giureconfulto auuocare , e fare de  Configli , fi debbono piu tofio dare da chi  fi finte da ciò , che riceuere . Afa quello ,  che a me pare 9 e che douerrà,s'io non m'in  ganno , parere ancora a de gli altri piu  marauigliofo , e di maggior loda degno è ,  come egli, effendo tutto occupato non fila-,  mente nel leggere , e intertenere tanti cofi  amici, come dtfiepoli : ma ancora nelle  moke, e importanti faccende, cofi pubìi-  ce , come priuate , potefie tante opere com-  porre , e cofi perfette, quanto egli fice, del-  le quali to racconterò cofi alla rwfufa tut-  te quelle, che io ho parte ueduto,e parte da   coloro    i    V    ro. U9  coloro fintilo dire , che uedute l'hanno , le-  ' quali fino quefte tutte latinamente firme.  Vna'Parafrafì [opra tutti e quattro  i litri del Cielo d'zArifiotilejndritta aPa  pa Lione. ’ *   Tre litri intitolati de Pulchro a Palla,  e M. Cjiouanm T^ufiellai .   • Tre labri dimore a Pindaccio da 2 li*  cafili . . ' • v vA : H   : ‘Panegirico d'AmoreaCjìouami Cot  fi y ea Palla ‘Rpfiellai Una Parafiafi fipra i quattro libri  delle eJ Meteore d'zAriflotile y ma i tre ulth  mi non fi ritruouano .   Vna Parafrafi [opra gii otto libri del-  la Fifica d'oAri/lotile , laquale o non è in  pie y o chi l'ha la tiene guardata per fi.   Vna ‘Parafrafi fipra la Politica di  ‘ Platone , ma tanto breue y che fipuo chia-  mare piu tono prefatione % thè altro • ,    jpo   Vna r Parafiafi f opra il Dialogo di  Alatone chiamato ilTeage , onero della  Jàptenza .   Vna Parafiafi ne gli Amatori di Pia  ione y onero della FILOSOFIA. .   Vn coment o fipra il libro di ‘Plotino  dell' efiinz& dell'anima.   Vna dichiaratone fipra quei uerfidx  Boetio ytqnali cominciano.   Tu trtplicis medium natura cuntka  mouentem , a "Bernardo 'Rufiellai ..   o Alcune prefazioni [opra diuerfi ma-  terie.   ^Alcune epijlole a dluerfi amici molto  dotte y ne Ile quali fi dichiarano afidi dubbi  di Filofifia .   L'ultima fina compofitione fu un co*  mento yilquale egli a petttume di Monfigno  re M. Giulio de medici > che fu poi Papa  Clemente, fece [opra il CONVIVIO di Platone ;   w ipi  quali componimenti olir a latta*  rietà , e la profondità della dottrina , e  mafeimamente Platonica , e Tlotimana  pare a me , che due co fi fi pofjano , anzi fi  debbiano confederare , mofirantt ambedue  l'eccellenza , e perfettione dell'ingegno , e  gtuditio feto . La prima è, che egli usò nel  fuo comporre uno Hile,fe non Ciceroniano  del tutto , graue nondimeno , e filofoficb  molto , e tutto lontano da quelle laidezza >  e barbarie , collequali Jcrtueuano in quel  tempo y e feriuono ancora hoggidi per lo  piuì Filofofi latiniyfenza leggiadria >e gra-  tta neffema . 6 tanto è da marauigltarfi  piu y quanto ancora coloro , iquali fatua-  no profe filone di bene , ff) eloquentemen-  te fer luer e y dietro un co fi fatto mifitfo non  imitauano ( gran fatto ) nelle loro fcrit tu-  re la diuina candidezza , e purità di CICERONE y mao TlintOy o Valerio A4 afeimo } o altri tali non buoni c Autori della latinità ,  o almeno della uera , e finterà eloquenza  Fumana, lacuale manzi che Afonfignore  dietro 'Bembo , buomo piu toflo di -  nino , che bumano la dimofirajfi ,fi già*  ceua o fiono fciuta del tutto , o dijpregiata  in grandifiima parte p percioche colui, il-  quale piu Stortamente , e piu [curamene  te firiue cua , era e da fi Sieff , e dagli al-  tri piu facondo tenuto, e maggiormente  ammirato , come fi la principale uirtà co fi  dello firiuere,come delfauedare confi ftefie  inalerò, che nella chiarezza, o fifauel-  laffi, e finuefie da gii buomini ad altro  fine, che perejfire intefi. La ficondaè,  chi doue quafi tutti gli altri fi faceuano  beffe, o haueuano compafiione di chiunque  uolgarmente fcriueua , e haueano la lin-  gua Fiorentina per niente , egli quafi pre-  cedendo quello , che di lei mediante limedefimo BEMPO auuenire doueua , tradufje,  alcune delle fue opere y e piu fi dee credere 9  che egli tradotte n'harebbe fe piu lunga -  mente uiuuto foffe . Lequali fue opere fi  flampatcfi foffono y non ha dubbio , che la  fua fama fi farebbe y e allungatale allar-  gata molto piu , che ella forfè fatto non ha*  £d egli per configuenz et s' bar ebbe maggior  gloria , e piu chiaro grido , e in fimma piu  lunga anzi immortale uita y acquifiato.Le  quali pero fino di manierale elleno lun-  gamente Ilare nafiofi non poffono y e  Fr ance fio fuo Nipote , ilqualenon ha fi-  lamento il nome di lui , m'ha piu uolte co-  llantemente affermato y finonhauer cofa y  che piu lo prema ; e laquale egli , per fiod-  disfare alla pietà y e debito fuo , maggior-  mente difìderi y che di rinuemre fènon tut-  te y la maggior parte delle fritture dell duo  lo fuo per publicark * B allhora fi potrà      meglio cono far e dagli intendenti chente, t  quale fojjl d'ingegno, e la dottrina di cota-  U ,e cotanto lo uomo ; e Ji marauigheranno  infieme con effio meco della capacità del  fuo intelletto , e come un buomo filo potè (fi  cjfieretanto uniuerfikle, che m tutte le cosi,  nelle quah egli fi metteua , nufiijfie non di-  co raro y ma qua fi filo. Ecco : egli come che  fojfie amanttfiimo della quiete , e lungi da  ogni ambinone , e auaritia fatico nondi-  meno oltr a ogni credere non fidamente ne  gli ftudij delle buone lettere , e della fan -  tifiuna Filofifìa , come s'è ueduto,ma an-  cora nell anioni humane, e nelle bisigne socolari ( come fi uedrày di maniera, che  fi può ficuramente credere , e con ue-  tita dire , che egli di rado col corpo fi ripo'*-  fiafie y ma colla mente non mai y e fi bene  egli e da naturayefua uoluntà era più mi-  to a gli fiudij , e al contemplare, che alle   faccende , '    . I9S  faccende , e al negotiare, tutt amagli bisignaua fare, come si dice, della necefrità  uirtù yper laqupl co/a e neceffario di [ape-  re , che quando 'Pago lo fuozAuolo uenne  amorte , egli come co Iucche era flato firn*  prèy amictfrimo , e fautore della famiglia  de ^Medici , e conofceua la prudente la  potenza di Co fimo , e forfè la fortuna di  quella cafd , fece (come racconta il Fon *  no nella uita di luì)una bella diceria, nella  quale fra l' altre cofe auuertii figliuoli , e  comando loro , che amafrino fempre y eof  firuafrmo Cofrmo,e tutti i fuoi 'Difenden-  ti quanto fapeffiro , e poteffono il piu, e dal *  l'altro lato pregò fìrettifrimamente Cofi-  moycbe glidouefie piacere cfhauere loro ,  t tutti i fuoi Po fieri, per raccomandati , e  si coment affi di pigliare la protezione lo T  ro . E di qui nacque ( penfò io ) oltra le fut  fingolarifiime qualità 9 che non filamenti ? X ; jf    i9(f  r Papa Lione, Uguale fu Jòpra tutti gli  huomini grattfiimo , e libtrahfìimo , gli  porto fempre affettione ftraordmaria,e gli  fece molti fauori,e prefìnti di mn piccio-  lo, Prima e valuta, ma ancora tutti gt altri di quella famiglia ,e in ijfetialità tifar  dinaie, che fu poi c Tapa Clemente, colqua  le ( mentre , che egli reggeua Firenzi) pra-  ticano molto familiarmente, e conmeraui  gltofa dimefiichez&a . Quelle furono le ca-  gioni , che egli , ancora, che Fdofifo,e del-  la fitta di Platone prima entro, epoi non  fi ritiro dalle faccende civili, per non dir nulla , che hauendo egli molti figliuoìi(cò-  me diremo ) e non molte / acuità , non po-  teua,ne doutua fare altramente, e di quin  ci ancora auuenne, che nel dodici per la  guerra , e ficco di Prato , quando i Me-  dici ritornarono in Firenze, egli con alcuni  altri Cittadini , de' quali come amici delle   W Palle s'baueua fefpetto, e in Palazzo, dove era 'Piero Soderini gonfaloniere a ul-  ta ) fiftenuto . Ma non prima furono i  Siedici rimefii in Firenze, che douendofi  per co/e importantifiime creare uno c Am-  bafciadore per la Città a Mafmiano Im  peradore , fu tra tutti gli altri eletto  Francefco , benché poi per lo ejferjì affetta-  te , e accomodate le cosi in quel modo, che voleuano quei , che poteuano, non facendo  piu luogo d' ambafciadore, non ui fu man-  dato ne egli, ne altri * 6 nell amo mille ctn •  queceto diciannoue, e [fendo morto a quat-  , tro di faggio Lorenzo de Medici Duca  d ye Urbmo,e douendofigh fare filenni fiime,  e magnifiche eJfiquie,ancora,che non man  co chi bucherajfi dibattere l or adone , d  Cardinale firijje a Francefco, ilquale   fi ritrouaua in uilla, che fi trasfenjfi frit-  tamente a Firenze , e cofi la fece , e recito   iij    ip t - T I T A DSL f  egliil fittimogiorno , nelqualeficelebra-  nano nella Qoiefa di S. Lorenzp con pom-  pale honoranza incredibile , e fu tenuto  tojà rara , e degna d’ammiratione che in meno di tre giorni fujfi fatta da lui latina  mente e recitata alla prefenz, a d'infinita  moltitudine cotale oratone. *Nel medefi-  mo anno, hauendo prima hauuto i primi  honori,e magiflrati delta città, ejfindo fta  to e di Collegio, e de Signori Otto, e de Qt- j  pitam diparte (guelfa, fu fatto (gonfalo-  niere digiufì ma per lo filo Quartiere di Santa Croce nelmefi di gennaio , e di feb-  braio, e doue negli altri uficij s' era fatto co  no/cere per huomo non men giuflo, che pie - »  tofi , in cjuefto fi dtmoftro non men beni-  gno, chegraue,mguifa,che come l'uniuer -  fiale [e ne lodaua , cofii particolari ne dice-  uano bene , e quanto i parenti fi ne gloria*  nano, tanto gli amtct, e dtfiepoh Juoine  \ ^ prendeuano s   *JfH  Ut*  ck I  Ì0   (mà  m   4   m   \( 1  ir  ì   è C IM   prendeuano piacere, e contento marauiglio  fi . Onde auueniua,che coloro Squali 0 per  l'inuidia , che haueuano alla fitagrandezs  za, 0 per Iodio, che portavano alle fue uir -,  tà,harebbono uoluto morder lo, nonofaua*  no di farlo , temendo di non efjere creduti  "Dopo cotale degnità trouandofieglt hoggU  mai attempato, e [oprafatto dalle cure fa-  miliari, e forfè per potere 0 comporre mo-  ne opere, 0 riuedere le già compofte,nongU  parue di douer piu leggere in publico ; ma  non per quefto manco mai i alcuna ma-  niera di cortefia a niuno di colora , iquali  gli andauano tutto il giorno a cafa, 0 per  uicitarlo come amici,o per dimandarlo co  me fcolari,anzi fi tenne, che quefìa fujfe in  gran parte la cagione della fua ^ Morte :  lmperocht,non fi fintando egli bene, e non  uolendo mancare ne a parenti ne agli ami  ci, ne a Difiepoli, cadde in una infermità,   •K %    per la uiolenza dellaquale in poco piu et un  me fi, ancora , ckefuffi fiato finiamo e  molto regolato nelfuo uiuere,e con tutti gli  ordinamenti , e fagr amenti della (bufa  coftantemente, e Chrifiianamente moriva  gli diece d'aprile delmille cinquecento uen-  tidue , e fu alla Q loie fa di Santa (foce nel-  la fipoltura de fuoi maggiori femplicemen-  te, e finta alcuna popa fìraor dinar ta portato, Jotterrato. La firn morte difpiacque  molto fi generalmente a tutto Firenze, e fi  in ifpetie a coloro, iquali o baueuano lettere, o defiderauano d'bauerne, e mafiima -  mente di FILOSOFIA. Fu di fiatar a piu che  mezzana , non di molta carne , ma offuto forte , e nerboruto, eh pelo bruno, e Somma-  mente pelofi ; hauca la pelli biancha, e frefia molto . Cjli occhi neri non troppo gran-  di, le ciglia nere,e folte. La qual co fa lodi -  mofirauaa riguardanti anzi brufeo e bùr   bero ,    zor  hero y che non. E niente dimeno egli fi bene •  era grane , e fiueroy batte a pero con quella  feueritàyt granita una dolce e cortefi piace  uolez&a me/colato ylaqnale lo rendena gratiofiy e amabile. £ auuenga, cheegh,come  tutti gli altri huomini in qualunque o arte  o fetenza eccellentifiimiyfujje di natura ma  ninconico , e filetario 3 tutta uia, quando  coll' altre perfine fi rttrouaua, motteggia-  ua uolentieri non fittamente coglihuomtni  di lettere , ma ettandio co gli Idioti, e colle  donne medefime y tanto che non pareva piu  quel deffiy prendendofi fefla , e filazzp per  fi y e dandone altrui . Spiacemi , che ejfin-  do egli flato yper quanto ho udito dire y trat  tofiy e arguto molto, io non habbta potuto  nefiuno rmuergare de firn mottiyper farne  parte a coloro , cheque fi a ulta per alcuno  tempo leggeranno ffi mai nejjuno la legge-  rà. Era e come T* latonico, e come allievo del FICINO grandtfiimo, ma Jantifiimo ama >  dorè, e nell' opere, che egli firifie de amore , •  le quali furono molte , e molte dotte , Si ut-  de lui ejfere flato feruenttfiimo , anzi tutto  fuoco ; da queflo per auuentura piu , che v  , da altro fi può prendere nero figno,e certifi  fimo argomento della nobiltà ,e unicttà(fia mi lecito in una persona nuoua e unica) for  mare un vocabolo unico , e nuouo, dell' ani- ’  mo,e intelletto J uo,conciofia,che quanto al  cuna cofa è piu degnale piu perfetta , tanto  fenza dubitatione alcuna , e s'innamora  piu tofto , ft) arde uta maggiormente . Fu  catto beo, e religiofi in tutto il tempo , che  uijfe,e da cotali huomini douerebbono imparare, e prendere ejfempio coloro, iquabfi  fanno a crederei di non cffère,o di non do  uere e fiere tenuti filofofifi non di (pregiano  il culto diurno, e fi beffano di chi L'ojfirua,  quafi ghaltri uer amente non conofcano i quello, che uogliono moflrare falfamente  difapere efii, ocome fecofa alcuna piu a  filofefo conuemjfe, che conoscere e contemplare e configuentemente ammirare, e ri -  k uerire in quel modo, che fi può la Maeftà  di Dio , e l'eternità di tutte le cofi celefti .  tìebbe M.Francefio della moglie, laquale  non fenz& fua noia , e danno fi morì l'an-  no Mille cinque cento diciotto, efiendofi prt  ma morta la madre nel mille cinquecento  quattro , tredici figliuoà , fette mafihij, e  fet femine. La prima dellequah maritò a  Daniello di farlo Canigiani, laquale dopo molti anni nmafit uedoua rimarito a  Ruberto di Donato Acctaiuoli, huomo no -  bilifiimo , e d'ine fi imabile prudenza . La  feconda a Carlo di Meglio Pandolfini, tre  di loro fi uoltcro far ^tonache, delle qua-  li ne uiue ancora una molto uener abile,  degna di tanto padre ì laquale è [fino già tot   molti anni ) Hadefid del ^Munifiero del  Paradtfò. L'ultima maritarono poi gli  heredi Juoi a c Pierfrantefio di Ruberto de  7{tcci. I figliuoli furono Pandolfo', Agnolo : Dionigi : Theodoro : Stmone : Carlo : e  Cofimo . *Pandolfo fimorìhuomo fatto  eJJèndo duimuto dietro le vestigia paterne Filosofo eccellentissimo . e . Agnolo uiuente il padre , tlquale come amoreuole , efa-  uio non uolle contrapporfi, ne alla uolunta  del figliuolo , ne alla fpiratione dtuina,fi  rende Frate nella Religione di San Dome  nico , nel tomento di San sbarco, ihjuale  fiate Agnolo urne ancora , prouinciale nel  medesìmo ordine de predicatori, ‘Rekgiofi  di buona ulta , e d'ottima fama . Stmone  Carlo, e Cofimo fi morirono tutti e tre gio-  uanetti, tra gli fedici,e i diciott 9 anni,ciafiu  no, e tutti profitteuolmente , e con grande  Jperanz& fludiauano > La cofioro morte dolfi , come fi dee credere , ai&ii. trance-  fio lor padre, come a buomo, infinitamente, e tanto piu, che effindo egli amoreuolifi  fimo uerfi gli Urani, potemo pen/àre quel-  lo . che egli fujje uerfi i figliuoli, e cotali fi-  gliuoli, ma come a Ftlofifo ,fetppiendo,che  efiendo mortale , egli hauea coja mortale  generato , tomamente ut pofi fu piede, e come Cbrifiiano,non dubitandole ne una  foglia ancora fi muoua finza la voluntà  di Dio, rtprefi ogni cofit per lo miglior e. On  de fi agli Hiftorici fuffe quello conceduto,  che a i Poeti, e a gli oratori non e difdetto,  anzi mafiimamente richiefto , largbifiimo  campo harei qui diffamarmi lungbifiimo  tempo per le file lodi . Theodor o non men  bello d'affetto , che digrandifiima affet-  tatone , morì anch'egli dopo la morte del  padre , in Francia , tale, che di fette hoggi  non è uiuo al fico lo fenon TDionigi, ilquale  datofì dalla faagtouent udine, alla mere atura y hoggi e per la fa f faenza y e lealtà faa  in quel credito y e riputatane tra i più borre  uoh, e riputati mercatanti ì che fu il padre  tra i più chiari letterati \e tra i piu perfetti  filofififioftui di Madonna Maria figlino la di Martino di CjugUelmo Mar tini faa  dilettifiima moglie, ha undici figliuoli cin-  que fimine di due delle quali ha nipoti e fai  mafchiyiquali fono il 'Bruendo M.France  fio Qanomco di [anta Ltperata e Protono  tarioAppofìohco, della cui qualità hauemo  fauellato di jopra.Pandolfo ilquale di tuo  no Spirito y e fludtofi delle lettere no filo Cjre  che y eLatme y ma ancora Tofane fi truoua  hoggi in Rpma. Agnolo : Cjwuàbatifla, Bu-  ierto e Carlo Squali fino no pur uiui y e fini  tutti 3 ma in buono y e profpero fiato Jequah  cofi ho uoluto non fi fi troppo largamente,  otrvppo fiarfamente raccontare, perche le   CATTALO. felicità di queflo modo di qua, qualunque  cs4riflotile nell' Scica pare , che ne dubiti ,  pojfono nondimeno fecondo t Theologi chri  fiumi a co loro, che fino nell'altra uita,gio-  uare.Onde fecondo i Flofififì può , eficodo  i theologi fi dee credere che M. Francefio di Zanobi Qattani da Ghiacceto cittadino fiorentino, ueggendo infìno dal piu alto  cielo tanta# cofi chiara fuccefiione,figoda  infiemec olle figliuole# co figliuòli morti qui  e lafiù uiuijiwio quella feltafiima,{t) eter-  na beatitudine , che deono quegli huomini  dopo la morte goder e, tquah mentre che uif  fero cofi lodtuoh per la uita attiua come ho  nor àbili per la conteplativa, furono non me  no ottimi chriftianiyche dottissimi filosofì. Grice: “If these Italians, pretentious as some are, want to use more than one surname – their loss!” – Grice: “It was an excellent idea of  Diacceto to translate is grandfather’s Latin works (‘enarratio’) of Plato’s little dialogue on the unspeakable vice of the Greeks into ‘vulgar Florentine!” -- Franciscus Cathaneus. Franciscus Cataneus, Diacetius. Francesco de Cattani da Diacceto. M. Francesco Cattani da Diacceto. Francesco Cattani di Diacceto. Diacceto. Keywords: i tre libri d’amore, diacetius, amore, “la sequenza del corpo” “l’autorita del papa” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Diacceto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Diano: l’implicatura conversazionale dell’errante dalla ragione – emendato – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vibo Valentia). Filosofo italiano. Grice: “I love Diano, but Italians usually take him to be a bit too Hellenic; recall that a true Roman considers himself a Troian, i. e. an enemy of a Greek! But as a scholarship Midlands boy from Clifton to Corpus, I’m a Dianian!” Compie gli studi classici al Liceo Filangeri di Vibo Valentia, allora Monteleone Calabro. Rimane orfano di padre all'età di 8 anni e questo fu un evento che segnò la sua vita e molte delle sue scelte giovanili.  Si trasfere a Roma, dove si iscrive alla Facoltà di Lettere della Sapienza ove segue le lezioni di Festa e Rossi. Il suo progetto è di laurearsi con una tesi in Letteratura greca, ma la necessità di iniziare a lavorare lo spinge a scegliere una via più breve e si laurea con 110 e lode con una tesi su Leopardi, un poeta che amò subito e che lo accompagnò nel corso di tutta la sua vita.  Immediatamente inizia a insegnare letteratura latina e greca, dapprima come supplente e poi, di ruolo come vincitore di concorso a cattedra. La sua prima nomina è a Vibo Valentia, cui segue un periodo di alcuni anni a Viterbo e una breve parentesi al Liceo Vittorio Emanuele II di Napoli. Nella città partenopea frequenta la casa di Benedetto Croce, ma in seguito il giovane Carlo Diano si allontanerà decisamente dal gruppo dei crociani. Trasferito a Roma, dove insegna prima al Liceo Torquato Tasso e in seguito al Liceo Terenzio Mamiani. Sempre a Roma consegue la libera docenza. È fatto oggetto di inchieste ministeriali e pressioni per il suo rifiuto di iscriversi al Partito fascista, come chiedeva il suo ruolo di dipendente pubblico. Né mai si iscrisse. Su incarico del Ministero degli Esteri, è lettore presso le Lund, Copenaghen e Göteborg. Gli anni in Svezia e Danimarca non furono solo utili per apprendere alla perfezione lo svedese e il danese, ma segnarono un profondo cambiamento. Il contatto con l'ambiente scandinavo gli spalancò la visione della grande cultura liberale nord europea e l'amicizia di poeti, letterati e studiosi scandinavi, tra cui lo storico delle religioni Martin Persson Nilsson e lo scrittore ed esploratore Hedin, dei quali traduce anche alcune opere.  Al suo ritorno in Italia ricopre un incarico presso la Soprintendenza bibliografica di Roma ed è a Padova in qualità di Ispettore dell'istruzione classica presso il Ministero dell'Educazione Nazionale della Repubblica Sociale Italiana. Grazie a questo ruolo e obbedendo alla propria coscienza, all'insaputa di tutti, aiuta molte persone a mettersi in salvo dalla persecuzione fascista e nazista.  Ricopre gli incarichi di Papirologia, Grammatica latina, Storia della filosofia antica, Letteratura greca e Storia antica presso la Facoltà di Lettere dell'Bari. Vince il concorso alla cattedra di Letteratura greca ed è chiamato a Padova a ricoprire, presso la Facoltà di Lettere dell'Università, la cattedra che era stata di Valgimigli. A Padova rimarrà ininterrottamente fino alla sua morte. Più volte Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, fondò e diresse il Centro per la tradizione aristotelica nel Veneto.  Molte delle sue traduzioni dei tragici greci sono state messe in scena dalla Fondazione del Dramma Antico a Siracusa, al Teatro Olimpico di Vicenza, a Padova, portate in giro nei teatri italiani, interpretate da noti attori quali Zareschi, Ninchi, Pagliai. Grandi le sue traduzioni, per la ricerca filologica, la lettura rivoluzionaria e la bellezza dello stile in versi, fra le altre, dell'Alcesti, dell'Ippolito, dell'Elena, dei Sette a Tebe, dell'Edipo Re, del Dyskolos di Menandro. Cura, fra le altre cose, l'edizione di tutto il teatro greco per Sansoni e la traduzione dei Frammenti di Eraclito, volume della Fondazione Lorenzo Valla.  Insignito di numerose onorificenze (Valentia Aurea, Premio Nazionale dei Lincei, Medaglia d'oro della Città di Padova ecc.) e membro di numerosissime accademie in Italia, in Europa e in USA, ebbe profonde e durature amicizie tra gli altri con Quasimodo, Bettini, Eliade, Otto, Spirito, Argan, Berenson, Montano, Mazzarino, Bo, Kerényi, Nilsson,  Caccioppoli e molti altri fra i maggiori protagonisti della vita culturale e artistica. Tra i suoi allievi più noti troviamo il filosofo ed ex sindaco di Venezia Cacciari.  Per i suoi amplissimi studi e i suoi contributi originali su Epicuro è da tempo riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori e più autorevoli studiosi del filosofo di Samo.  Nei suoi scritti teorici, principalmente in Forma ed Evento e in Linee per una fenomenologia dell'arte, fonda un vero e proprio sistema filosofico in cui filologia, studi storici, filosofici, sociali, storia dell'arte e la storia delle religioni si integrano a creare un nuovo metodo di indagine. Fondamentale, a tale scopo, è la creazione delle due categorie fenomenologiche di "forma" ed "evento", che gli permettono non solo di esplorare l'intera civiltà greca, ma possono divenire strumento di analisi generale di una cultura.  Altre opere: “Commento a Leopardi”; “Commemorazione virgiliana. Dall'Idillio all'Epos” (Boll. Municip. Viterbo); “ Il titolo De Finibus Bonorum et Malorum” (FBO). “L'acqua del tempo” (Roma, Dante Alighieri); “Note epicuree, SIFC); “Questioni epicuree, RAL); “La psicologia di Epicuro, GFI); “Epicuri Ethica (edidit adnotationibus instr. C.D. Florentiae, in aedibus Sansonianis, “Lettere di Epicuro e dei suoi nuovamente o per la prima volta edite da C.D., Firenze, Sansoni); “Aristotele Metafisica, Libro XII. Bari); “La psicologia d'Epicuro e la teoria delle passioni, Firenze, Sansoni); “Lettere di Epicuro agli amici di Lampsaco, a Pitocle e a Mitre, SIFC); Voce Aristotele in Enciclopedia Cattolica); “Edipo figlio della Tyche. Commento all’Edipo Re di Sofocle, Dioniso); “Forma ed evento: principi per un'interpretazione del mondo greco” (Venezia, Neri Pozza); “Il mito dell'eterno ritorno, L'Approdo); “Il concetto della storia nella filosofia dei greci, in: Grande antologia filosofica, Milano, Marzorati); “La data della Syngraphé di Anassagora. Scritti in onore di Carlo Anti, Firenze); “Linee per una fenomenologia dell'arte” (Venezia, Neri Pozza); “La poetica dei Feaci. Memorie dell'Accademia Patavina); “Pagine dell'Iliade, Delta); “Note in margine al Dyskolos di Menandro” (Padova, Antenore); “Menandro, Dyskolos ovvero Il Selvatico, testo e traduzione, Padova, Antenore); “Martin P.Nilsson, Religiosità greca, (traduzione) Firenze, Sansoni); “Saggezza e poetica degli antichi”; “Orazio e l'epicureismo” (Atti Istituto Veneto); “La poetica di Epicuro, Rivista di Estetica); “La filosofia del piacere e la società degli amici, Boll. del Lions Club di Padova); “D'Annunzio e l'Ellade, in L'arte di Gabriele D'Annunzio, Atti del Convegno Int. di Studio); “L'uomo e l'evento nella tragedia attica, Siracusa, Dioniso); “Il contributo siceliota alla storia del pensiero greco, Palermo, Kokalos); “Euripide, Ippolito (traduzione e cura). Firenze, Sansoni); “Eschilo, I Sette a Tebe, Firenze, Sansoni); “Menandro, Dyskolos ovvero il Selvatico, Sansoni); “Meleagro, Epigrammi traduzione di C.D. (con una tavola di Tono Zancanaro) Vicenza, Neri Pozza); “Epikur und die Dichter: ein Dialog zur Poetik Epikurs, Bonn, Bouvier); “Saggezza e poetiche degli antichi, Venezia, Neri Pozza); “Gotthold Ephraim Lessing, Emilia Galotti, (traduzione) Milano, Scheiwiller); “Euripide, Alcesti (traduzione e cura) Milano, Neri Pozza); “Euripide, Elettra, (traduzione e cura), Urbino, Argalia Editore); Voci Eoicurus e Epicureanism per Enciclopedia Britannica); “Il teatro greco. Tutte le tragedie, C.D. Firenze, Sansoni); (di C.D. Saggio introduttivo. Traduzioni: Eschilo, I Sette a Tebe; Euripide, Alcesti, Ippolito, Eracle, Elettra, Elena, Le Fenicie, Oreste, Le Baccanti). Epicuro, Scritti morali, Trad. C. Diano, Padova, CLEUP); “Euripide, Medea, (traduzione e nota di C.D.) Padova, Liviana); “Aristofane, Lisistrata (traduzione e cura) Padova, Liviana); “Anassagora padre dell'umanesimo e la melete thanatou in L'Umanesimo e il problema della morte, Simposio Padova Bressanone); “Studi e saggi di filosofia antica, Padova, Antenore); “Scritti epicurei, Firenze, Leo Olschki); “La tragedia greca oggi, Nuova Antologia); “Limite azzurro, Milano, Scheiwiller); “Eraclito, Frammenti e testimonianze, (traduzione e cura) Milano, Fondazione Lorenzo Valla); “Epicuro, Scritti morali, Milano, BUR);  Platone, Il Simposio (traduzione e cura), Venezia, Marsilio); Il pensiero greco da Anassimandro agli stoici, Torino, Bollati Boringhieri, Introduzione di Massimo Cacciari.  e Lia Turtas. Introduzione Jacques Lezra. Curatele Platone, Ione, Roma, Dante Alighieri, M.T.Cicerone, De finibus bonorum et malorum, GFI, Omero, Iliade. Libro I, Firenze Bemporad, Platone, Dialoghi Convito, Fedro, Alcibiade I e II, Ipparco, Amanti, Teage, Carmide, Lachete, Liside, Bari, Laterza; Il teatro greco: tutte le tragedie, Firenze, Sansoni); “Eraclito, I frammenti e le testimonianze, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore); “Epicuro Giovanni Gentile Tragedia greca. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Carlo Diano, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Carlo Diano,.  Carlo Diano Forma y evento, Madrid, Circulos Bellas Artes (estratto traduz. spagnola)Brian Duignan, Carlo Diano, Epicureanism, in Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. D., nel sito "Il Ramo di Corallo", di D.. IL CONVITO. ATOLLODOllO E UN AMICO.  Apollpdóro. Credo di nonSmotto, P- 172  ispondere alla vostra no ues^ < . Galero, uno dei   Srm^STiTp.lWo.0 (1), o M -   Èd io mi fermai e aspettai. „i ie poc’anzi   ti di 'raccontarmi la    « “ - - ™  pensiero filosofico greco, fu tntt ^ ” C ; u raorto ad maestro, o, stando a  più fieli o devoti seguaci (l a Kliano, no ricopri o voleva   un aneddoto riferitoci da t>10tcl “ teUo - Quanto allo scherzo, dm   ricoprirne il cadavere col ' >r0I ’ ? “ t f, ò moUo discusso in ohe consista.   Apollodoro rileva nelle pardo doli arpico, . cominciato dal ehm-   Forse, oltreché nel tono nome Matteo o ohe tosso   marie Falere». < So un amico nostre. clm gr _ ^ ^ Vcllotrl \ anziché   nato a Vellotri noi comin^assimo col olila ar^ lnl uno scherzo, sol-rat -  ‘ Matteo ’, por farlo voltale, P  allusione a uualcunu delle suo uua-  tutto se col chiamarlo cosi si taccs ““ u 0 i luogo . Noi nou sappiamo.  Uhi. «he si solesse attribuire «gla al«tan rlpuUv ,iono o di elio genere:   se 1 Falerosl avessero unniche loi partlooi (Bonghl) . E none,   a ogni modo anche sonza^uesto loA^y^ mM , naro „ i marinai   mi paro, Impossibile olio, cssoni t . e u uca t 1L , la ciunlitìl di Valoroso   rìi^ol qu alcuno, formano un   emlecflfilllitbo. conversazione tra Agatone (1) e Socrate e Alcibiade (2)  e gb Xi, che allora presero parte al banchetto c che  discorsi intorno all’amore ri si fossero temiti. Me ne  accennò un tale che ne aveva udito da_Fenice di Filippo (3)  è aggiunse che anche tu ne eri informato; ma non seppe  dirmi nulla di preciso. Raccontamela tu dunque. Nes-  M mo più di te è tenuto a riferire i discorsi del tuo amico.  E prima di tutto, mi chiese, dimmi: a quella conversa¬  zione eri tu presente o no!   Ed io: Si vede bene che quel tale che te la raccontò  non ti deve aver raccontato nulla di preciso, se credi che  quella conversazione, di cui mi chiedi, abbia avuto luogo  così di recente, che anch’io avessi potuto assistervi.   Ed egli: Difatti lo credevo, rispose.   E come, dissi, Glaucone? (4). Non sai che da molti  anni Agatone non è più venuto tra noi; e che da quando  frequento assiduamente Socrate e mi studio di seguire  giorno per giorno ciò che egli dice o fa, non sono ancora  tre anni? Prima andavo errando a caso di qua e di là,  e pure illudendomi di fare qualcosa, ero il più infelice  degli uomini, non meno che non sia ora tu, perchè pen¬  savo che bisognasse occuparsi di qualunque altra cosa  piuttosto che di filosofìa.   Ed egli: Smetti di canzonare e dimmi quando ebbe  luogo quella conversazione.   Quando — e noi eravamo ancora dei ragazzi —  Agatone vinse il premio per la sua prima tragedia, nel    li) Agatone, Ilglio di TisAmeno, ora nativo di Atene, clic tra il -10!)  c il 1117 a. C. egli lasciò i»cr andare a vivere nella corte di Archelao di Mace¬  donia. il cui splendore lo attirava. Bollo, elegante e ricco, fu scolaro di  I ròdico e di Gorgia, dai riunii apprese Io siile protonaionoso e retorico ed  ebbe imimi"^^ di celebri»* per il successo del suo drama. intitolato  . , S ,, m0 : nel n " al ° ,,sclva dagli argomenti tradizionali e dalla via  c lr U tavn imEfa,l 1>r ? <l0OeSSOrl - ““ ** 11 “>P«tto Umusi muliebre   .oZir» a 7ì:^T a V" m V0,t0 bCT8UC "° al mm>i ™»'e.   contempi,rana. Nel Ilo aveva forse poco pii, di tronfanni.   ed u n, o d stilò lm ‘ tUB dW ° ! " Kli ò ta-PP- noto come generalo   Òvevu ,”t,!,.n„?ò ° ? n " e0 aVYennt0 11 Mochetti. («0 a. C.), egli   $ «n ^ potonzft pouuoa -   Altro ignoto, da non confondere con Glaucone, fratello di Platone.       , omo seguente a quello in cui egli coi suoi coreuti celebrò  fsacrifico ^^"nolti anni or sono, a quanto pare.  Ma^te’chi té la che ne parlò   ; &r-ra   tota», ote ri» “XeK «il» ™» « * *»   alla, conveisazioue, 1»« “ Tutta™, interroga,   amanti di feociatc a q 1 udifce da Aristodemo,   anche Socrate su qualcuna delle aveva riferito,   eda lui ebbi la conferma d#ò che 1 a L a   Perchè dunque non t afte apposta   via, che s’ha a percorrere lino alla citta,   per discorrere e per udire. di que i discorsi,   Così cammin facendo, rapo « impreparato;   sicché, come ho detto a prmcn|, nO|Soim V   c se volete che io li ripeta anche a voi, ecconn^   ricchi e dediti ai guadagni, , ' d : j ar   "Scesa e i^’f^nS'prSSmente anche voi   dai canto vostro penserete di me che sono' u ?.^Ton lò  e credo che voi crediate il vero; io pero di voi non   Sei sempre lo stesso, Apoilodoro: non fai che  dir male di te c degli altri, e ai tuoi «echi siamo, mi  pare, tutti degl’infelici, all’mhion di So f sodando da te. Perchè ti chiamino tenero (3), non so,    (1) Da questa indicazione si desume elio il banchetto avrebbe avuto  ,U0 %“ e ÌH—. anch’egli uno scolare di Scorato.   Cidatonoo, si faoova, sembra, notare per la sua smania c m   anche in corte abitudini di vita, come, per esempio, in quella d andar sempi   et) Tutti i testi, a cominciare dai piìi antichi, danno qui |j.a).axo;   • mollo • tenero ', lezione respinta dalla maggior l'arto degli editori, elle  hanno accolta invece la correzione |iavixó? ‘ pazzo \ ‘ turioso ’, occorrente    2 Piatone — Convito.         ir» eai soniDre cosi! «xccrbo  con tc  ma corto ncll ° ,[ U ' fuo rchè con Socrate,   stesso e con gli alt , dunqu e indiscutibile che,   se j^nso così^'di^mè e di^voi, io debba essere un pazzo   e un insensato? nena 0 ra di leticare   ,, r 1,™5» A Fa° SS» 4«* « “ “ “ bbl " , °   Hsrtósfssis-rr » £t   meglio che io mi pori « M .1 »*»*« .1,.  capo, come a me lo fece Aristodemo.   ,1 - Egli dunque mi disse (1) di avere incontrato  Socrate cbe usciva dal bagno e calzava delle pantofole  cosa che suol fare (2) di rado, e dovergli chiesto, dove   s'incamminasse cosi rimbellito. .   E l'altro: A cena da Agatone. Ieri mi sottrassi al  banchetto della vittoria, per paura della folla. Ma pro¬  misi che oggi non sarei mancato. E mi Ron fatto bello  appunto per presentarmi bello ad un bello. Ma tu, gli  dimandò, come ti senti disposto a venire a un banchetto  non invitato?    in parecchi cod«l. La lezione più antica, ripristinata dal Burnet, nonché  dallo Schoenc nella sua revisione dell’edizione dell’Hug, era già stata  difesa dal Ilfìckert, e con buone ragioni. Ciò che sappiamo dal Fedone, in cui Apollodoro c’ò dipinto come un carattere impressionabilissimo, clic passava facilmente dal riso al pianto c viceversa, e che  negli ultimi istanti di Socrate si abbandonò a così incompostc manifestazioni di doloro da provocare un richiamo del maestro, accenna, mi  pare, piuttosto a un uomo d’indole molle, che ad un furioso o pazzo. Nò  la risposta d*Apollodoro, nella quale h’ò voluto veder la conferma della  lezione |iotyiy.Ó£, ò una prova addirittura decisiva, giacché, osserva il  RUekert, non dici haec, ut éxplanelur caussa cognominis, sed indignantis  verbo, esse, conccdcntls, ni fit per indignalionem, atquc in maim augentis id  quod arnione diadi. Qui quii in rcprchciuliseet nimiam aeveritatem, hoc ipsum,  niininm ceso, arripicna, acerbe rcapondel: concedo, manifestimi est , me qui  uliter sentilim atquc vos, debcrc insanire atquc delirare. Da questo * disse ’ (IcpY)) dipendo nel testo tutta la narrazióne  d*Apollodoro, che nel greco ha la forma d’uria oratio obliqua.   (2) Qui nel testo c’è sTtoóei ‘ faceva’ in conformità dell’uso greco»  che adopera l’imperfetto per significare uno stato clic dura tuttora nel   -presente, àia poiché il racconto si suppone fatto, mentre Socrate è ancora  in vita, ho sostituito il presente all’imperfetto. Per me, rispose Aristodemo, sono ai tuoi ordini.   Ebbene, riprese, seguimi, affinchè, mutati 1 termini,  la si faccia finita col vecchio proverbio, mostrando cn  anche dei buoni ai conviti vanno non invita  i buoni. Omero però, se non mi sbaglio, non si conten  di farla finita con esso, ma volle anche fargli oltraggio,  perchè dopo d'averci rappresentato Agamennone come  singolarmente prode in guerra, e Menelao come un f ia ( * °  guerriero, al sacrifizio ed al banchetto, offerto < a  Agamennone, fa che intervenga non invitato Menelao,  un dammeno alla mensa d’un uomo che valeva di piu U fi   E l'altro nell’udir ciò: Ho paura anch’io, Socrate, di  non essere quel che tu dici, ma piuttosto, secondo Omero,  quel dappoco che va, non invitato, al banchetto d un  sapiente. Del resto, dacché vuoi condurmici, preparati a  giustificare la mia presenza, perchè io per me non diro  d’esserci andato senza invito, ma in vitato da te.   In due andando per' via (2), riprese, « consi¬  glieremo su quel che ci converrà di dire. Per ora  andiamo.   E scambiate queste parole, s’avviarono. Socrate cam¬  minava immerso in qualche pensiero, e rimaneva indietro;  e poiché egli si fermava ad attenderlo, gli disse d andai  pure innanzi. Giunto a casa d'Agatone trovò la poi tu,  spalancata, e lì, disse, gli capitò una cosa da ridere.    (1) C’ù nella risposta, ili Socrate un ginoco «li parole che non e ^pos¬  sibile rendere in italiano. 11 proverbio era. pare. BsAfflv sin Batta; taotv  aOxóuatot avallo! . dogi-inferiori ai conviti vanno non invitati i buoni-  O anello meglio . dei vili (o dei deboli) ai conviti vanno non invitati i torti ..  Sdorato, gtuòcando sulla somiglianza elle, a parto l’aceento, e'e tra aYaddW  •del Paoni ’ o ’A T <*W•AY'M-nm ‘ad Agatone' ri f.1 il proverbio in  modo che esso si presti a (Uro tanto . dei Inumi ai conviti vanno i buoni  non invitati -, quanto • da Agatone ai corniti vanno i buoni non invitati ».  E si noti elio anche II nomo ’Ay ec&MV corrispondo suppergiù a ‘ Oinobono '.  Quanto ad Omero poi Socrate, celiando, immagina cito il poeta nel tìngere*  (/(. Il 108) clic Menelao 4 flocco guerriero ’ vada non invitato alla mensa  d’un prode conto Agamennone, abbia voluto addirittura fare oltraggio (ti  proverbio, che egli, invertendone gli estremi, avrebbe implicitamente  (giacché al proverbio In Omero non s’accenna né punto né poco) rifuggiate  io quest "altra forma àralfiSv Èro Baita; taoiv aùti|iatoi Bs’Aoi • dei forti  ai conviti vanno non invitati i vili   (2) Allusione a un luogo omerico: cf. II. X ’224.Giacché gli si lece subì*. 'J ?^stateti a mema>ano  ione-e lo condusse dove g< 1 ’ Come Agatone lo   quasi sul punto di niet ^“ in buon punto   ^e: Oh! Aristodemo f *£’ y g£i per altro, rimet-  pcr cenare con noi. il  per rcai per invitarti senza   ZSJtì Sin Ma e»m} * »»» « hri biotto   Socrate? mi volsi indietro, ma non   •r in nessun luooo che Socrate mi seguisse, e dissi:   “ “S ,2 *•»*. a. lai q«i >11»»-   Ed hai fatto benone. Ma dov’è Socrate?   Un momento fa mi seguiva; ma ora dov è. Sono io   mire sorpreso di non vederlo.   Va subito a cercarlo, ragazzo, disse Agatone, e in¬  troducilo qui. E tu, Aristodemo, prendi posto a lato ad  Erissimaco (1).    IH. — E mentre un servo gli lavava i piedi, perchè  potesse sdraiarsi, un altro entrò dicendo: Questo Socrate  s’è ritratto nel vestibolo d una casa qui accanto, e sta  li fermo. Io l’ho chiamato, ma non ha intenzione d’entrare.   Strano!, disse Agatone; corri dunque a chiamarlo, e  non smettere, finché non si muova.   No, no. diceva d’aver soggiunto Aristodemo. Lascia¬  telo stare. Egli l’ha quest’abitudine. Certe volte si tira  da parte e riman fermo dove gli capita. Verrà ben presto,  ritengo. Voti lo disturbate; lasciatelo stare.   Facciamo pure cosi, se codesto è il tuo avviso, disse  Agatone. E voi, ragazzi, dateci da mangiare a noi altri,  e imbanditeci tutto quel elio vi pare. Non c’è nessuno  che vi sorvegli: è una bega che non mi son mai presa.  Fate conto che ci abbiate voi invitati a cena, me e questi  altri, e trattateci in modo da meritare i nostri elogi.   Dopo ciò,'diceva, si misero a desinare, ma Socrate  non compariva. Agatone aveva ordinato più volte che    fi) lirlssùuaco, figlio d'Aedmeno, ora, conio il padre, un modico litui  noto in Alene.    — 21    s’andasse a rilevarlo, ma egli non l’aveva permesso.  Finalmente, men tardi però che non fosse nelle sue. altitudini. ma tuttavia quando la cena era già a mezzo,  Socrate entrò. E Agatone, che occupava 1 ultimo posto,  per caso da solo: Vien qua, Socrate, disse; sdraiati  accanto a me, affinchè al tuo contatto m’avvantaggi  anch’io di quel pensiero sapiente di cui ti sei arricchito  nel vestibolo. Perchè gli è certo che 1 hai trovato e lo J  possiedi: chè- prima non ti saresti mosso.   Socrate si mise a sedere e rispose: Sarebbe, Agatone,  una gran bella cosa, se la sapienza fosse cosiffatt a, che  potesse scorrere dal più ripieno nel più vuoto di noi.  al solo toccarci a vicenda, come l’acqua nei bicehien,  che a traverso un fìl di lana scorre da uno più colmo in  un altro più vuoto! Se lo stesso avviene anche della  sapienza, son io che devo far gran conto d essere accanto  a te, giacché penso che, mercè tua, mi riempirò di molta .  e squisita sapienza. La mia non può essere che povera  cosa o anche di dubbio valore, come un sogno;, ma la  tua è luminosa e destinata ad un grande avvenire, dal  momento che da te, giovane ancora, ha sfolgorato poco  fa di così viva e chiara luce davanti agli occhi di piu  che trentamila Elleni.   Sei un gran canzonatore, Socrate, disse Agatone. Ma  di questa faccenda della sapienza discuteremo fra poco  tu ed io, e, ne prenderemo a giudice Dióniso (1), Per ora  pensa a mangiare.   IY. — Dopo di ciò, raccontava Aristodemo, Socrate si sdraiò, e finito che ebbero di cenare, lui e gli altri,  fecero lo libazioni, cantarono un inno in onore del dio,  adempirono tutte le pratiche di rito (2), e quindi si vol¬    ai Dióniso, il dio della poesia di'amatloa, por un poeta tragico era il  miglior giudico al quale potesse appellarsi.   (2) Questo cori inolilo orano: 1° i convitati bevono un sorso di vino  puro In onoro del ‘ dèmone buono [del buon genio]; 2° i servi sparecchiano;  3° o portano acqua ^crollò i convitati si lavino le inani una seconda volta  (la prima volta l’han fatto prima di mettersi a cona); 4° distribuiscono  ancora corone ed unguenti; 5° poi si fanno lo libazioni di vino temperato»  pi prima a Zeus Olimpio (o alla Sanità), la seconda agli Eroi, la terza a      • n \ oli ora fu il primo a prender la  s ero al bere. iei< c he regola terremo nel   parola e: Orsù, disse amie . , pel , me V1 c011 .   bere per aggravarci > « g ^h P rabtiso di ieri,  fesso che mi sente e CO sì forse la più parte   e h0 bisogno d un po^ Y P edete dunque come si possa   bere°con^la'maggior discrezione ^ossibUe^   «*>. 'U“, «   Acumeno. Ed ora non ho bisogno, che d udire come si  1 in f orz e per bere un. altro solo di voi, Agatone.   no davvero, non me la sento neppnr io, rispose   CO "¥a'nto meglio per noi, mi pare, disse Erisstamco per  me . per Aristodemo; per Fedro e per questi altri, se ma  cedete il campo voi che siete dei bevitori a tutta prova,  giacché noi siamo sempre debolissimi. Quanto a Sociat %  egli fa eccezione: si trova a posto in un caso e nell altro,  e gli sarà indifferente comunque si beva. Bacche, dunque,  nessuno dei presenti è disposto a bere rii molto, non vi  rincrescerà, spero, ch’io vi dica la verità a proposito  dell’ubriacarsi. Dalla pratica della medicina ho cavato  questa convinzione: che per gli uomini è dannoso 1 abuso  del vino: e di mia volontà non eccederei mai nel bere,  nè lo consiglierei ad un altro, soprattutto se si risente  ancora della sbornia del giorno prima.   Per me non c'è caso, prese a dire Fedro da Mirri¬  li unte (3); io lui l’abitudine di seguire i tuoi consigli,  specie quando parli di medicina; ina ora, se hanno giu¬  dizio, faranno così anche gli altri.    Zeus salvatore. I/ultiina tazza cho ai beveva a questo si diceva la ‘ por-  lotta *.; 0 spesso alle libazioni seguiva una musica di Munti c un bruciamento d’incensi; 7° con la prima libazione s’accompagnava il canto di un  inno religioso. (Da Bonghi). Doveva esscro un ammiratore di rotori e sofisti, ma è noto soprat¬  tutto come amante d’Agatonc*.   (2) Aristofane, è superfluo dirlo, è il famoso comediografo.   (3) Su Fodro v. la nota alla mia versione del Fedro.     jp£ijÌMpM      h'. Udito ciò, tutti convennero che non si dovesse far  del bere il passatempo di quella riunione, ma che ognuno  bevesse quanto e come gli accomodava.   y. _ Poiché è stata accolta la mia proposta, che   ognuno beva quanto gli accomoda, disse Erissimaco, c  che non ci sia nessun obbligo, ne faccio ancora un al inaurila di mandar via la suonatrice di flauto entrata dianzi,  perchè suoni per conto suo o, se vuole, per le donne cu  casa, e che noi oggi si passi il tempo a conversare fra no.   E voglio anche, se me lo permettete, proporvi U tema   discorsi. ìtì   Tutti consentirono e lo esortarono a farne fa. 1  posta. E comincerò, riprese Erissimaco, come la ^ e '  lanippe ’ di Euripide (1): Miei non son questi detti  che m’accingo a pronunziare, ma di Fedro qui pi  sente. Non passa occasione infatti eh egli non mi up •  indignato: «Ma Erissimaco, non è enorme, che mentre  poeti han cantato inni e peani in onore degli alto d ,  di Eros, un così antico e possente iddio, neppui u _  tanti poeti, che ci sono stati, abbia mai composto un  eloo-io’f E se poi vuoi guardare ai buoni sofisti, essi ha  Sto in prosa le lodi di Éracles e di altri, come quel  valentuomo di Predico (2)... E questo «ite, esorprendente; ma c’è di peggio. A me proprio una ^oha accadde  dibattermi in un libro d’un sapiente, m cui si facevano  sperticate lodi del sale pei vantaggi che reca, E puoi  vedere parecchie altre cose simili celebrate con lode. Spender tanta cura intorno a siffatti argomenti, e pii  Eros non esserci nessuno fin oggi, che abbia osato lai ne  un degno elogio: a tal punto è trascurato un cosi grande  Iddio- ) E in ciò’, secondo me, Fedro ha ben ragione.   10 dunque, oltre che desidero .li pagare il mio contributo  a costui e fargli cosa grata, ritengo che questo sia per  noi qui radunati proprio il momento .li adornai e di lodi   11 dio. E se così pare anche a voi, ecco trovato torse un  Cf. N.vuoic, Trita- Or. Fratjmm.' tramili. 181, 1>. a l.   (2) è „ueUo elio si trova riferito In sunto da Senofontei nei Momo-  rubili ’ 11 21, 1 sgg., o elio fu tradotto dal Loop®!! col tlt. ' I*.reale . buon argomento di conversazione. In sostanza io pro-  onlo che ciascuno ili noi. per turno a destra, dica le   Foladi Eros, come può meglio, e sia il primo ladro,  non Tolo perchè egli occupa il primo posto, ma anche  uerchè egli è il padre del discorso.   ^Nessuno, Erissimaco, disse Socrate, voterà contro la  proposta, Nè potrei certo oppormi» io, che dichiaro di non esser competente in altro che m cose  d’amore: nè vi si opporranno Agatone e Pausatila e  tanto meno Aristofane, la cui vita è tutta cosi profondamente devota a Dioniso ed Afrodite, o qualche  altro di quelli che vedo qui presenti. Senza dubbio,  la partita non è uguale per noi che siamo negli ultimi  posti: ma se quelli che ci precedono parleranno esaurientemente e bene, noi saremo sodisfatti. Dunque, con  buona fortuna, inauguri Fedro la serie dei discorsi e  pronunzi l'elogio di Eros. A queste parole anche gli altri fecero eco e npetet-  178 tero l'invito di Socrate. Ma di tutto ciò che ognuno disse,  nè Aristodemo si rammentava con precisione, nè io, dal  canto mio, di tutto quello che egli mi riferì. Vi dirò per  altro le cose più degne di ricordo e i discorsi, che mi  parvero tali, di ciascuno.  Come dunque dicevo, stando al racconto  d’Aristodemo, Ferirò fu il primo a parlare e cominciò suppergiù a questo modo: Eros è un grande iddio e ammi¬  rabile tra gli uomini e tra gli dei, oltreché per tante altre  ragioni, soprattutto per la sua origine. Perchè l’essere  tra gli antichi iddìi antichissimo è cagion d’onore, diceva, e ne abbiamo la prova. Difatti genitori di Eros nè  vi sono, nè si rammentano da verun prosatore o poeta ;  anzi Esiodo dice (1) che dapprima fu il caos,    ma dopo   Oea dall’ampio seno, saldissima, eterna di tutto  sede ed Eros ;    (1) Cf. Theog. 116 agg.  e con Esiodo s’accorda Acusilao (1) noU'afferniaro che  dopo il Caos si generassero questi due, Gea ed Eros.  E Parmenide dice della generazione che    infra gl’iddìi tutti Eros concepì per il primo. E così da molte parti si consente che Eros fu tra gli  antichi antichissimo. E perchè antichissimo, è cagione a  noi dei più grandi beni. Io infatti non so dire qual maggior  bene possa esservi per chi entri appena nell’età dell'adolescenza d’un amante buono, e per l’amante d’nn fan¬  ciullo amato. Giacche ciò che agli uomini deve servir di  guida per tutta la vita, se vogliono nobilmente vivere,  questo non valgono ad ispirarlo altrettanto bene nè la  comunanza di sangue, nè gli onori, nè la ricchezza, ne  alcun’altra cosa, quanto l’amore. E che è mai questo .  La vergogna per ciò che è brutto, l’ambizione per ciò  che ò bello, senza le quali nè ad uno Stato, nè ad un  privato è possibile operare grandi c nobili opere. Ebbene  io affermo che un uomo che ami, se fosse sorpreso in  atto di commettere qualcosa di brutto o di soffrirla da  un altro senza reagire per vigliaccheria, non s affligge¬  rebbe tanto ad esser visto nè da suo padre, nè dai com¬  pagni, nè da nessun altro, quanto dal suo diletto fanciullo.  Così del pari vediamo che anche 1 amato si vergogna  soprattutto degli amanti, ove sia sorpreso a commettere  qualcosa di brutto. Se dunque ci fosso modo d avere uno  Stato o un esercito composto damanti e damati, non  potrebbe esserci per la loro città miglior governo ì  costoro, perciocché «'asterrebbero da ogni cosa turpe e  gareggiherò di virtù fra loro (3); e combattendo gb    171» Acusilao d’Argo ora uu logografo contemporaneo delle guerre  persiane, autore di ' Genealogie \   (2) Questo Torso faceva parto del poema llspì cpoactofi Sulla  natura > del grande Hlosofo di Elea, fiorito tra la fino del vi e il principio  del v s. a. 0. Cf. Dirla, Forsokr. P P- 1U2. 13.Lottoralmento: So dunque si trovasse modo ohe oi fosso uno stato  O un esercito d’amnuti o d’amati, non potrebbero governar meglio la  propria citta, elio astenendosi da tutto lo cose brutte e gareggiando fra  loro eoe.  £ sLo non possa animare d’un divino coraggio cosi  da renderlo pari all'uomo più di sua natura vaio .roso>. E  QU el che Omero dice (1): avere un dio ispnato  l'ardire in taluni eroi, questo appunto per virtù propiia  Eros l’effettua negli amanti.    YII. _ Ed .infatti solo quelli che amano son pront i   a morire in cambio d’un altro; nè soltanto gli uomini,  ma anche le donne. E di questo ci offre, a noi Elioni,  una testimonianza bastevole la figliuola di Pelia, Alcéstide. che fu sola a voler dare la propria ruta in  cambio di quella del marito,, sebbene questi avesse e  padre e madre tuttora viventi. Ma costoro per virtù  d’amore ella li sopravanzo tanto nell affetto, da farli  apparire degli estranei al figliuolo e legati a lui unicamente  di nome. E per aver fatto ciò parve non solo agli uomini,  ina anche agli dei che avesse fatto cosa tanto bella, che  quantunque molti avesser compiuto molte belle azioni,  a ben pochi gli dei concessero questo premio, di richia¬  marne l'anima dall’Ade; ma quella di lei la richiamarono,  ammirati di ciò ch’ella aveva fatto; tanto altamente ono¬  rano anco gl’iddii un amore profondo e virtuoso! Invece  rimandarmi via dall’Ade a mani vuote Orfeo d’Eagro,  dopo (riavergli mostrato il fantasima della moglie, pei' la  quale egli 'era sceso laggiù, senza per altro dargli la donna,  perchè parve loro circi mancasse di coraggio, da quel  citaredo ch’egli era, e non gli bastasse l’animo d’affrontare per amore la morte, come Alcéstide, ma s’ingegnasse  da vivo di penetrare nell’Ade. E però lo punirono, fa -    (1) h un modo <11 dire elio ricorro più volto nei poemi muorici.  l.u devozione di questo, eroina verso 11 marito forma il soggetto  (Cuna tragedia d’Euripidc, intitolata appunto ‘ Alcéstide      dolo morire per mano di donne. Al contrario, onorarono Achille, il tiglio di Tétide, e gli assegnarono un posto  nell’isole dei beati, perchè, sebbene avvertito dalla madre  ohe sarebbe morto come .avesse ucciso Ettore, laddove.   ciò non avesse fatto, ritornato a casa, vi sarebbe  finito di vecchiezza; egli, bramoso di correre alla riscossa  dell’amante Patroclo e vendicarlo, osò non solo di morire  ner lui ma di soprammorire a lui estinto. Ond anche, gli >  dei compresi di viva ammirazione, gli concessero un  onore addirittura segnalato, (lacchè aveva mostrato di  tenere in così alto pregio l’amante. Ed Esclnlo vaneggia,  oliando afferma che Achille era l'amante di Patroclo (1).  Achille era più bello non solo di Patroclo, ma (li tutti  quanti gli altri eroi, ed era ancora imberbe, e per giunta  più movane di molto, come dice Omero. Gli e che in  realtà, se gli dei onorano singolarmente questa virtù  dell’amare, essi tuttavia ammirano e pregiano e ricompensano più largamente la devozione dell amato pei  l'amante, che non quella dell’amante per ornato  L’AMANTE infatti è qualcosa di più divino dell AMATO,  perchè posseduto dal dio. E perciò appunto gli dei onorarono Achille a preferenza d’Aleéstide, assegnandoci  un posto nell’isole dei beati..   Per conto mio, adunque, concludo che Eios e t a  gli dei il più antico, il più augusto, il piu capace di  rendere virtuosi e felici gli uomini, così in vita come m  morte. Questo a un dipresso, disse Aristodemo, il  discorso di Fedro. Altri ne seguirono (lei quali non si  rammentava bene e che omise, e passo al discorso di  Pansaaia, che parlò così: A me pare che non ci si sta pn>-  pitocon chiarezza il tema del discorso, quando se detto,  così senz’altro, di pronunziare 1 elogio di Eros. s.e Eios  non fosse che un solo, via, la cosa potrebbe andare, ( ìa  ecco, esso, non è un solo, e non essendo un solo, e più    (1) Accenno iul una traspaia perduta, intitolata ‘I Mirmldom ,  nella quale talune espressioni allettilo» d'Achille erano da alcun, mterpro-  tate conio qui si complaco d‘interpretarle I«edro. criusfo che si fissi in precedenza quale sabbia a lodare,  fo dmu e mi proverò a rimetter le cose a> posto, a due  aual è l’Eros che merita lode, c poi a   pronunziarne 'ì’elogio in maniera degna del mime. Tutti   infatti sappiamo che Afrodite non è senza Eros. Se VENERE fosse una sola, non ci sarebbe che un solo Eros;  rail poiché di Afroditi ce n’è due, due devono essere di  necessità anche gli Erotes. E come non sono due le dee.  L’ima è più antica, non ha madre, e figliuola d Ulano,  e però è detta Urania [o celeste]; l’altra è più giovane,  figliuola di Zeus e di Dione e la chiamiamo Pan demos   10 volgare]. Ne consegue perciò clic l'Eros, collabora-  lore di questa, si chiami a buon diritto Pandemos [o  volgare] e l'altro Uranio [o celeste]. E se giusto è elle  tutti gli dei si lodino, è pur necessario provarsi a dire  le qualità toccate in aorte a ciascuno dei due. Perché  d'ogni nostro atto può affermarsi questo: che esso di per sé non è nè hello uè brutto. Per esempio, ciò che ora  Tioi facciamo: bere, cantare, discorrere, nessuna di queste  cose è di per sè bella, ma nel fatto divien tale, secondo   11 modo come si fa. Fatta bene e rettamente diventa  bella; non rettamente, brutta. E così anche l’amare ed  Eros non è tutto bello e degno d’esser lodato, ma solo  quello clic nobilmente spinge ad amare. L’Eros quindi, collaboratore delTAfrodite vol¬  gare, è veramente volgare, ed opera come gli vien fatto; e  questo è l’Eros che amano gli uomini di animo basso,  fòsforo innanzi l utto amano non meno le donno che i fan¬  ciulli, e poi, pur di quelli che amano, i corpi a preferenza  delle anime, e poi ancora i meno intelligenti che possano,  giacché essi non mirano ad altro, che a sodisfarsi, non  importa se bellamente o no. Onde accade loro ili fare  come capita, nello stesso modo il bene e nello stesso  modo il contrario. Perocché quest/Eros trae anche ori¬  gine dalla dea elio è ben più giovane dell’altra e che  dal modo, onde fu generata, partecipa di femmina e di  maschio. L’altro invece é dell’Afrodite celeste, la quale  1,1 P r 'mo luogo non partecipa di femmina, ma solo di  maschio — ed è questo l’amore dei giovanetti _ e poi  intica pura (fogni lascivia.. Onde al MASCHIO  * pl '‘;! 8Ì volgono gl’ispirati da questo amore, perchè  ;UJP u io-ono quél che è per natura più forte e piu Intel-  f 11 :: ; -Ed anche nello stesso amor pei fanciulli è pos-   u • discernere quei che sono sinceramente mossi da  ' S nesto amore. Giacché essi non amano i fanciulli, se non  ? andò questi comincino a dar segni d’intelligenza, cioè  òn lo simulare sul volto della prima lanugine. Coloro  infatti 'che cominciano ad amare da quel momento, si  mostrali disposti, secondo me, a legarsi per tutta la vita  "Giovanotto AMATO e a viver con esso m comune, non  oi-r dopoché l'abbian tratto in inganno per averlo .sorpreso nella sua inesperienza giovanile, a ridersi di lui e  orrore ad altri amori. Converrebbe anzi che una le^ge  vietasse l’amare i fanciulli, affinchè un grande studio non  si spendesse in cosa d’esito incerto, perchè incerta e la  riuscita dei fanciulli, dove vada a riuscire, quanto a vizio  e virtù d’animo e di corpo. Questa legge, è vero, 1 buoni  se la impongono spontaneamente a sè medesimi; nondimeno sarebbe necessario che a ciò codesti amanti vogali fossero anche costretti, come, per quanto è possibile, li costringiamo ad astenersi daU'amare le donne di  libera condizione. Poiché sono essi appunto che hanno  anche disonorato l’amore, tanto che alcuni osali di dire  che è brutta cosa compiacere agli amanti. E dicon cosi,  perchè hanno dinanzi agli occhi costoro, e vedon di  questi il procedere intempestivo ed ingiusto, laddov e non  c’è cosa che, fatta con decoro e in conformità del costume. possa giustamente meritar biasimo.   E certo qual sia nelle altre città la norma (1) enea  l’amore, è facile intendere, chò il concetto ne è semplice.  Ma da noi e a Lacedemone essa è varia. Così nell'Elide,  tra’Beoti e dove non son punto esperti nel dire, e senz altio  ammesso come bello il compiacere agli amanti; e nes- Il testo lui fini la pacala vó|io? ‘ leggoelio compiendo cosi In  legge Boritta, la leggo in senso ristretto, corno l’oplnlou pubblica, la consuetudine, lu nonna, il costumo. Io l’ho tradotta di solito così, ma anello in  qualche caso, nel quale in questo disoorso di Pausania mi son valso della  parola ‘ legge * s’intende olio a questa parola va dato il significato più.  largo cho ha nel greco. im0 sia giovane o vecchio, oserebbe tacciarlo di  turpe affinché, credo, non incontrino difficoltà nel persuadentigiovani per via di ragionamenti metta come  sono al parlare. Per contro m molti luoghi della Ionia e  in altri paesi, soggetti ai barbari, la cosa e ritenuta  senz'altro quale una bruttura. Pei barbari, infatti, a  camion delle tirannidi, è brutto questo, non meli che lo  studio della sapienza e della GINNASTICA, perocché, credo,  non conviene ai governanti che allignino alti sensi nei  (invernati e si stringano indissolubili amicizie e intimità,  che, tra tanti altri, è il più meraviglioso effetto, che si  compiace di produrre l'amore. E ciò anche i nostri tiranni  sperimentaron col fatto, cliè l’amore di Aristogitone e  l'amicizia d'Annodio (1), divenuta salda, abbatterono la    loro signoria. E, così, dov’è considerata brutta cosa compiacere agli amanti, ciò si deve alla malizia dei legis¬  latori, alla prepotenza dei dominanti e alla viltà dei soggetti; e dove invece fu senz'alcuna eccezione considerata  come cosa bella, alla pigrizia d’animo di chi fece la legge.   Da noi al contrario la consuetudine è assai più bella,  sebbene, come ho detto, non sia, agevole penetrarne lo  spirito.Chi consideri infatti come sia opinion comune che allumare di soppiatto sia preferibile l’amare  palesemente e soprattutto i più generosi e i migliori, per  quanto mori leggiadri d’aspetto, e come per converso  l’amante abbia da tutti mirabile incoraggiamento ad  amare, non come chi faccia qualcosa di brutto, e sia  tenuto in gran conto chi conquista e deriso chi si lascia  sfuggire la preda, e come nel tentar di siffatte conquiste  i nostri costumi abbian concesso all’amante d’aver lode,  anche se l'accia cose sbalorditive e tali, che se uno osasse  farlo per correr dietro a qualunque altro oggetto e per conseguire qualunque altro scopo, aH’infuori di questo,  ne raccoglierebbe i maggiori biasimi se, ad esempio,  per ottener danari da qualcuno o un pubblico ufficio o  Ad Armodlo c Artotogitone, 1 famosi tirannicidi, l’opinione colmino  degli Ateniesi attribuiva la cacciata dei Plsistratldi.   Cd) Qui il lesto ha <ptXoooiplas ’ da parto della lllosolln ’. clic la maggior  l'arto dogli editori, compreso il Burnct, s’accordami u considerare corno  un aggiuuta arbitraria o orrore dei copiati. disiasi altro potere uno s ^J^ e Uc e   con gli amati gli amputi, ^ ^ menti e dormono  ° e <rano e supplicano eg ;. rosi delle servitù quali   Suanzi alle porte e serron ™ dal fare BÌ ffatte cose   nessun servo; ei saiebbe nnp^^ ^ ^ rin{accer eb-    ei    ' iurp n u Mi uni "li rinfaccereb-  e da amici e ila uenuci, cu fiU'^. )f) ammonirebbero e  bere adulazioni e aU ' a .nmnte che faccia tutte   arrossirebbero di ess - 11 fe permesso dal costume   queste cose s’accresce grazia, de> £attì oltre¬   di farle senza biasimo, ‘ ^ che almeno a quanto  modo belli. E quel eh è pmj gU dei perdonano   si dice, se anche „i eHt o amoroso, sosten-   di spergiurare perche ‘ e gU nomini han   "ono, non esiste (1). corae la legge di qui   fatto lecita ogni lieenz^ c * credere che nella   dice. Da questo lato, dunque, t (> l’amare e il   città nostra si stmii una P b . padrii preponendo  compiacere agli amanti. <1 p lascian discorrere con  dei pedagoghi agli amai , nedagogo, e eoe-   tanei e compagm h vitupera ,^ì vituperano n on son   qualcosa di simile, * ne upur biasimati dai pai  d'altronde nè trattenuti 11 "insto... chi badi per   anziani, come que che non “ be la s i ritenga qui   l'opposto a tutto ciò, p fecondo me, invece, la   la più brutta cosa del mondo. comc s ’è   cosa sta a questo nioi o. ^ J bella nè brutta;   detto in principio, noi 1 ge bruttamente.   I mpure stabile, come colui clic - co», «mw  stabile. Giacché insieme con lo sfiorire < ^   corpo , che egli amava, v asse no via a volo (2), eliso    (!) È un modo proverbiale olio negli scrittori greci ricorro sotto varie  formo.   (2) Reminiscenza omerica; cf. 71. n Tl« norando tanti discorsi e promesse. Ma chi ama l’indole  buona riman costante per la vita, come colui che s’è  isi attaccato a cosa stabile. E costoro appunto il nostro  costume vuol mettere a prova bene e bellamente, e che  agli uni si compiaccia, dagli altri si frigga. E però appunto  gli im i esorta a dar la caccia, gli altri a fuggire, istituendo  una gara e mettendo a prova di qual mai sorta sia  l’amante e di quale l’amato. E così, per questo motivo,  in primo luogo il lasciarsi accalappiare subito è ritenuto  brutto, affinchè ci sia di mezzo del tempo, il quale può,  sembra, metter bellamente a prova la maggior parte  delle cose; e poi l'essere accalappiato dal danaro e dalla  potenza politica è brutto, sia elle uno, maltrattato, si  avvilisca e non resista, sia che, beneficato di danari o  agevolato nelle faccende pubbliche, non disprezzi. Che  nessuna di tali cose par che sia nè ferma nè stabile; senza  due che non può neppur nascere da esse una generosa  amicizia. Sicché, secondo il nostro costume, una sola  via rimane, se all’amante deve bellamente compiacere  l’amato. È infatti legge per noi che, siccome per gli  amanti il servii’ volentieri qualunque servitù agli amati  non è, come s’è visto, nè adulazione nè vergogna, così  appunto anche un’altra servitù sola volontaria rimane  non vergognosa, e questa è quella che ha per oggetto la  virtù. Perocché presso di noi è ammesso che,  ove qualcuno voglia servire un altro, stimando di poter  divenire per via di quello migliore o in sapienza o in  qualsiasi altra parte di virtù, questa servitù volontaria  non è dal canto suo brutta, e non è nemmeno adulazione,  (inde conviene che queste due leggi convergano insieme  al medesimo segno, e quella che ha per oggetto l’AMORE dei fanciulli e quella che ha per oggetto l’amore della  sapienza e d’ogni altra virtù, se dovrà riuscire a bene il  compiacere dell’amato all’amante. Perchè, quando s'incontrino l’amante e l’amato, ciascuno recando la propria  ( gge, 1 uno che nel prestare qualsiasi servigio al giova-  nelio che gli ha compiaciuto, glielo presti secondo giu-  , K lzia ’ * altro che nel concedere qualsiasi favore a chi  o li nde sapiente e buono, glielo conceda secondo giu-s izia, e 1 uno, potente di senno e d’ogni altra virtù, n . i-altro bisognoso di educazione e d’ogni altra  1U ‘ ne acquisti; allora, queste leggi convergendo   S Tmedésimo segno, in questo caso soltanto accade che  nel So òhe l’amato compiaccia, all’amante-, m ogni  sia n0 B in questo caso anche il trovarsi ingannato  In è punto brutto; in tutti gli altri, si sia o no ingan-  i norta vergogna. B cosi, se qualcuno a un amante,  nat P r l ricco in vista della ricchezza avesse com-  st S e si trovasse poi ingannato e non ne cavasse  danari perchè l’amante s’è scoperto povero, non sarebbe  d '' ( ,ùesto men brutto, dappoiché un amato siffatto  P per quel ch’è in lui, che in vista del danaro   ri kz ‘ srjtfsc   ramante, divenir migliore, si '"ciò   nonostante^l’inganno^bello, perchèa^e qj^per ciò   SSfJS ^ H   fÌT5| l r^tSenté bello' compiacere per   "Sefò l’amore S&i   di gran pregio e l’amato a porre ogni   sono    TLSJL * «»• *£#   m’insegnano a lare di si , ‘ Vvist0 [. ine . Senoncliè   vuto. diceva Azistodemo pa aie ^stob m()tiv0 ,   costui, o per aver mangiato tiojjo P ^ [Uscor .   era stato coltoinetto a destra di lui. c’era il medico   iSSSXmA Eri»»», «.co» Vaio a lUro l sofisti c i rotori.   :i  subito di questo singhiozzo, o di parlare invece mia,  finche non mi sia cessato.   Ed Erissimaco: Ma farò runa cosa e l’altra, rispose.  Io parlerò ora per te. e quando ti sarà cessato il sin¬  ghiozzo, parlerai tu invece mia. E mentre io patio, se,  trattenendo a lungo il respiro, il singhiozzo vorrà andar¬  sene. < tanto di guadagnato >; se no, fa dei gargarismi  con l’acqua. Che se poi fosse addirittura ostinato, prendi  qualche cosa da solleticarti le narici e cerca di starnutire.  Basta che faccia così una o due volte, e cesserà per osti¬    nato che sia. .   Affrettati dunque a parlare, disse Aristofane; io seguirò i tuoi suggerimenti. Ed Erissinmco disse: Orbene, dal momento  che Pausante,, dopo d aver preso bene le mosse per il  ,K6 suo discorso, non l'ha compiuto a dovere, credo che a  me convenga di provarmi a completare il suo discorso.  Che Eros sia doppio, pare a me che egli abbia fatto benissimo a distinguere; però che esso non sia soltanto negli  animi umani rispetto alle belle persone, ma che abbia  molti altri obietti e sia' in altri, nei corpi di tutti gli  animali e nelle piante della terra e, per dirlo in una  parola, in lutti gli esseri, credo d'averlo imparato (bilia  medicina, dalla nostra arte, com’egli sia un dio grande  e meraviglioso, ed estenda il suo potere su tutte le cose  umane e divine. E eomincerò, partendo, dalla medicina,  anche per rendere omaggio all’arte. Infatti te natura dei  corpi ha questo doppio Eros, giacché la sanità del corpo  e la malattia sono, per consenso unanime, cosa diversa  e dissimile; e il dissimile desidera ed ama cose dissimili.  Altro, dunque, è l’amore che risiede nel sano, altro quello  che risiede nel malato. Ed appunto, come Pausante di¬  ceva or ora, clic è bello compiacere ai buoni tra gii uomini,  ma brutto ai dissoluti, così anche negli stessi corpi è  bello e, conviene compiacere a ciò che v'è di buono e di  sano in ciascun corpo — ed è ciò a cui si dà nome di  medicina — ma' brutto compiacere a ciò che v’è di  cattivo e di morbóso, e si deve negare a questo ogni  favore, se si vuol essere un medico esperto. Perchè la medicina, in sostanza, è la scienza delle TENDENZE AMOROSE DEL CORPO  a riempirsi e a vuotarsi; e ohi sa distin¬  guere in esse l’amor bello dal brutto, costui sarà il pili  acuto medico; e chi ù capace di produrre tal mutamento,  che i corpi acquistino l'mi amore in cambio dell'altro, e  in quelli, nei quali non sia amore e dovrebbe esserci,  sappia farlo nascere e da quelli nei quali sia e non  dovrebbe >, espellerlo, questi potrà esser davvero un  medico abile. Occorre infatti che egli possegga la capa  cita, di metter d’accordo gli elementi più avversi, esi¬  stenti nel corpo, e procurare che si amino l'un l'altro.   K avversissimi sono gli elementi affatto contrari, il freddo  e il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l’umido,  via  dicendo. TC perchè seppe.ispirare in essi amore e con¬  cordia, Àsclépio (1), il nostro capostipite, come affermano   i nostri poeti, ed io credo, fondò la nostra scienza, ha  medicina, dunque, dicevo, è governata tutta intera da  questo dio; e al pari di essa anche la ginnastica e l’agricol¬  tura. Quanto alla musica poi è chiarissimo a chiunque W  voglia appena riflettervi, che il caso è affatto identico,  c quest o forse volle dire anche Eraclito, sebbene egli non  lo esprima in forma perspicua. L'uno, egli dico, discor¬  dando con sè medesimo si accorda, come ar¬  monia d’arco c di lira (2). È difatti un vero assurdo  affermare clic l’armonia discordi o risulti da cose tuttora  discordi. Ma forse egli voleva appunto dir questo: che  essa nasce da cose per l’innanzi discordi, l’acuto e il  grave; ma che in seguito si sono accordate per opera del-  l’arte musicale, giacche non è in alcun modo possibile, clic  dall’acuto e dal grave, tuttora discordi, nasca armonia. Asciò pio o Esoulapìo ora un eroe-modico divenuto piti tardi un  ilio-modico. 1 suoi discendenti, gli Asolcpiadl. tra cui Krlssimaco pone se  medesimo, dovevano essere in origino limi gente congiunta da legami di  sangue, in cui era tradizionale la cognizione e la pratica della medicina.  1 j0 famiglie di Asclepindi più celebri orano Quelle di Cos, a cui apparteneva,  il grande lppoerate, e di ('nido. Ma in tempi più recenti tutti i medici,  compiacendosi di far risalire al <Uo la propria genealogia, presero indistintamente il nomo d’Asolopiadì.   (•>) (’f. DllCl-s, Vorqokr. V p. S7, .*>1.  „ ; n certo ino rio con¬  che è consonanza, e consonanz^ da cose discordanti,  senso, e U consenso non può ^ ^ discorda e non   tinche discordino; e d altra P Così, per esempio,   consente nOn può coautore ai ■ ^ da cose clic   anche il ritmo nas f ^^ consentirono poi. E in tutte  discordavano prima, ma ci dalla me dicma, qui e   queste cose il consenso, come 0 concor dia vicen-   ! osto dalla musica, che v ispm ‘ la scienza delle   devote. E però la — Soffia e’di ritmo. Nella *  tendenze amorose m tatto e dell armonia   composizione, considerata discernere le tendenze   e del ritmo non e punto dime oliando occorra   amorose, nè ,ulvi c'6 Mggg't’SflB. con gli  servirsi del ritmo e dell. c h e chiamiamo   uomini, o clic si compong cbe s’adoperino   ‘ melopea ’ [creazione musicale] - ° ™ t _ ed è ciò  acconciamente melodie • e metri gn  ® usioa i e ] — qui.  ohe vien detto ‘ slbi ie artefice. E qui   temati, e affinchè diventino pm costumati q^rni  lo sono ancora, Insogna compuie p^ros celeste,   volgare - e questo, a coloro, a cui si somministri, s ha da  sonnninistr .re con molta Cautela, affinché se ne colga il  piacere) 18 ma non ingeneri alcuna intemperata mm  nell’arte nostra vai molto sapersi giovale dei desideri  eccitati da una buona cucina in modo che, senza procurarsi una malattia, se ne goda il piacere. Cosi, dunque,  e nella musica e nella medicina e in tutte le altre cose,  umane e divine, si deve, per quanto si può, aver riguardo  a ciascuno di questi due Erotes, perche ci sono.    188 XIII. — Poiché anche la costituzione delle stagioni dell’anno è piena di tutti e due questi amori; e quando gli  elementi, dei quali dianzi parlavo, il caldo e il freddo, il  secco e Tumido, si trovino in una scambievole e ben regolata relazione d’amore e s’accordino e si temperino saggiamente, essi vengono apportatori d’nna buona annata e di buona salute, cosi agli uomini, corno agli altri ammali  e alle piante, e non soglion produrre alcun danno. .Ma  quando invece, l’Eros compagno dell’intemperanza prevalga nelle stagioni dell’anno, egli suol corrompere '•  danneggiare molte cose. E da tali cause derivano di  solito e pestilenze e tante altre malattie diverse e negli  animali e nelle piante. Infatti e le brinate e la grandine  e la ruggine dei cereali sono il frutto della sopercliieria  e della sregolatezza vicendevole di cosiffatte TENDENZE EROTICHE, la cui scienza rispetto al moto degli astri e  alle stagioni dell’anno prende nome di astronomia. Inolt re  tutti i sacrifizi e quei riti a cui presiede l'arte divinatoria — ossia la scambievole comunione tra gli dei e gl'  uomini — non vertono intorno ad altro, se non intorno  alla preservazione ed alla cura di Eros. Giacche ogni  forma d’empietà suol nascere, ove non si compiaccia all’Eros ordinato e non gli si renda onore e venerazione  in ogni cosa, ma si tenga in pregio quell altro, cosi nei  rapporti coi genitori, vivi e morti, come nei rapporti  con oli dei. Ed appunto osservare siffatti amon curarli è il compito della divinazione, e la divinazione  è a sua volta, operatrice d’amicizia tra gh elei e gu  uomini, perchè sa discernere, tra le inchnaziom ainc^se  deo-li uomini, quante tendano alla giustizia e alla pietà,  "l'osi ogni Eros ha un potere esteso e grande, anzi,  iu una parola, universale, ma quello che, e Pi'esso 'li noi  e presso gli dei, trova il proprio compimento nel buie  con temperanza e giustizia, questo ha il maggmr potere  e ci assicura ogni felicità, sicché si possa viveic in pace  fra noi ed essere anche amici di quelli che son ungimii   di noi, degli dei. . , ,   Porse, in questo elogio di Eros, anche io ho tralasciato molte cose, ma non l’ho fatto apposta. Se per  altro c’è qualcosa ch’io abbia omesso, tocca a te, A  stofane, di supplirvi. Ma se invece ti frulla per il capo  di elogiare altrimenti il dio, fa pure a tuo modo, che  anche il tuo singhiozzo è cessato. Leggo qui Iponas-     — 3S —    :3 P=   ^V5=Hf Bsfc = - s   S 8 Sf 3£ iV'l".-» •" t“ d '""   « caso che ti sfugga qualche cosa da lai   -f sawst.*#>r n ;" ’yffes   conto ch'io non abbia detto ciò che ho detto. E non  stare a farmi la guardia, perchè temo di tee> non g.  cose da far ridere — questa sarebbe una fortuna,  SpSaSl fleto mm H«». - ma Ufc te *•   1 " d Bravo. Aristofane! hai tirato il sasso e nascondi  la mano. Ma bada a’ casi tuoi e parla come chi lui da  render conto delle proprie parole. Quanto a me, se mi  pare, ti lascerò in pace. Comunque, caro Erissimaco, disse Aristofane.   io mi propongo di parlare in modo diverso da te e da  Pausania. Io penso che gii uomini non abbiali sentito  nè punto nè poco la potenza di Eros, perche, se la sentissero. gli dedicherebbero i maggiori tempi ed altari e  gli offrirebbero i maggiori sacrifizi, cosa che ora non  fanno per nulla, mentre è ciò clic si dovrebbe fare a  preferenza di tutto. Eros è infatti tra gli dei il più amico  degli uomini, perchè è il loro protettore e il medico di quei  mali, la cui guarigione sarebbe per il genere umano la  maggiore delle felicità, lo dunque mi studierò d’esporvi  la. potenza di lui, e voi ne sarete maestri agli altri. Ma,  innanzi tutto, occorre che impariate quale sia la natura  umana e le sue vicende non liete. Giacché la nostra nani Il tosto ilice: hai tirato il colpo e ora ricusi di svignartela, modo  proverbialo anch’esso.  tura non era un tempo la stessa (li oggi, ina tuli altra.   In origine c’eran tre sessi umani, non due, maschio <•  femmina soltanto, come ora, ma ce n era un terzo, clic  mrtecipava dell’uno e dell’altro e che, scomparso oggidì,  sopravvive appena nel nome. C’era allora un terzo sesso.,  l’andrògino, che di fatto e di nome aveva del maschio  e della femmina, e questo non esiste piu. fuorché nel  nome che suona un oltraggio. Inoltre ogni uomo aveva  una figura rotonda, dorso e fianchi tutt'intorno, quattro  braccia, gambe di numero pari alle braccia, su un collo  cilindrico due visi, perfettamente simili tra loro, un unica I-  testa su questi due rósi, posti l’uno in s|so con ramo  all’altro, quattro orecchie, doppie F (ta e ut l  resto come si può supporre da ciò che s e detto, i ari  minava anche ritto come ora, in qualunque direzion volesse- e quando si mettevano a correre, quei uost  progenitori, come i giocolieri che a gambe per aria an  delle capriole a ruota, essi, appoggiandosi sui loro otto  arti si muovevano rapidamente, tacendo la.ruota. I ^  poi eran tre e cosiffatti per questa ragione: «esso   maschile traeva origine dal sole il J!; rt eripà   e lrindrórino dalla luna, perche anche questa paitccipa  del itle e della terra. La loro figura dunque era rotonda  e cofano^ il modo di muoversi, appunto^perchi- «m,l  ai loro genitori. Avevano vigore e gagl ardia tel i 1   c„,o -o». a;   numi.   XV - A mesto p*H> « s» «#rt «#?  consiglio ,,, ciò che ^ « «" "Jggg;   Non sapevan risolversi ad uccido c * N i  la razza) fulminandoli, come i giganti, perche cosi saie -    ( 1 ) Oto «1 Eflolto orano i duo glovonissluil “^“^lonutoto'ùcr  llKliuoU di Aloco, olio dopo dover nca . (H ul)onl t,„ por opera di Erniosi  tredici mesi in uu gran vaso ali von i o. . all * 0sBa tentarono di dare la   . . .. “   essi Omero accenna in 11. V sgg.» Or. -„ero venuti a privarsi degli onori e dei sacriti/., umani;  ^potevano tollerare che ne facessero d og... sorta, B  analmente Zeus, dopo matura riflessione, disse: « C redo di  e -ovato la via. affinchè gli uomini continuino  "a esistere, ma, divenuti più deboli, smettano la loro  tracotanza. Segherò ». disse, « ciascun di loro m due, e  S mentre saranno pii. deboli, ci saranno ad un tempo  S utili, perchè diverranno più numerosi. E cammine¬  ranno ritti su due gambe. Chè, ove poi seguitino a inso¬  lentire e non vogliano starsene in pace, li segherò », disse,   , ili nuovo in due, cosicché cammineranno su una gamba  sola, a saltelloni (1). » Dette queste parole, venne segando  eli uomini in due, come quelli che tagliali le sorbe per  metterle in conserva, o quelli elio dividon le uova coi  capelli. E a misura clic ne segava uno, ordinava ad  Apollo di girargli la faccia e la metà del collo dalla parte  del taglio, acciocché l'uomo,' avendo sotto gli occhi il  proprio taglio, fosse più modesto; e medicargli le altre  ferite. B Apollo girava a ciascuno la faccia in senso  opposto, e tirando d’ogni parte la pelle verso quello ohe  ora chiamiamo ventre, come le borse a- nodo scorsoio,  lasciandovi appena una boccuccia, la legava nel mezzo  del ventre, in (pie! punto preciso che chiamano ombelico.   Itti Spianava poi tutte le altre grinze, che orati molte, e  rassettava le costole, servendosi d’uno strumento suppergiù simile a quello che adoperano i calzolai per spianare sulla forma le rughe del cuoio; ma ne lasciò poche  nel ventre e intorno all’ombelico, ricordo dell’antica pena.  Orbene, poiché la creatura umana fu divisa, in due, cia¬  scuna metà presa dal desiderio dell’altra, le andava incontro, e gittandole le braccia intorno e avviticchiandosi  scambievolmente, nella brama di rinsaldarsi in un unico  corpo, tnorivan di fame e d’inerzia, perchè l’una non  voleva far nulla senza dell’altra. B quando l’una delle    (I) Il greco ha àoxop.ià£<ms<; cho vuol dire propriamente ' saltumlo  sminuire' (àox4f). • I.'espressione 6 tolta ila un giuoco contadinesco del¬  l'Attica. 1 contadini dulia pollo dui hocco saorllloato a indulso facevano  un otre olio riempivano di vino o ungevano d’olio. Su di usso saltavano con  una sola gamba altornaUvamcnlo, o vinceva old sapova roggorvlsl. * (Unir). nielli moriva e l’altra sopravviveva, quella che soprav¬  viveva andava in cerca d'un'altra metà e le si avvin¬  ghiava, sia clic s’imbattesse nella metà d’una donna in-  IL quella appunto elle ora chiamiamo donna —  sia che nella metà d’un uomo; e così morivano. Mosso  pertanto a compassiono. Zeus no escogita un'altra: trasporta le loro pudende nella parte anteriore — lino a  quel momento anche queste le avevano avute al difuori,  c generavano e partorivano non tra loro, ma in terra,  come le cicale... gliele trasportò dunque così, sul davanti,  e per tal mezzo rese possibile la generazione fra loro, per  mezzo ilei MASCHIO nella femmina, con questo line, che  nell’amplesso, ove un maschio s’incontrasse in una femmina, generassero e si perpetuasse la specie; ma. ove  invece un maschio s’imbattesse in un maschio, provassero sazietà dello stare insieme e smettessero e si volgessero ad operare e attendessero agli altri doveri della  vita. Cosicché fin da quel momento l’amore vicendevole  è innato negli nomini: esso ci riconduce al nostro essere  primitivo, si sforza di fare di due creature una sola e di  risanare così la natura umana. O'imn di noi, in conclusione, è una con tre¬   mala d'uomo, in quanto che è tagliato come le sogliole,  è due di uno; c però cerca sempre la propria contromarca.  Quanti sono una fotta di quel sesso comune, che « loia  si diceva andrògino, annui le donne, e la maggmi p.  dogli adulteri soli nati da esso; e cosi pure le donne.  sU truggon per gli uomini, e le adultere provengo., da   , u eS e m.aL4 T»l* <!»* 1 ‘“'i   una fetta di donna, non corron dietro agli o, un uà  sono piuttosto inclinate alle donne; e ^ questo  appartengono le tribadi. Ma quanti sono una fe la li  maschio, danno la caccia al maschio; e 1 ! ut ' u ' ’ S01 " \ r)j  coni, fanciulli, conio parte d’un uiasciuo jpu o gli  uomini e godono a giacere e a starsene abbracciata con  gli uomini; e questi sono tra i fanciulli e tra po'anett  i migliori, perchè i piè v ' r '*' di hno na u . •  mancali di quelli clic li chiamano inipudent. ina uien  liscino. Perchè essi non lo fanno per impudenza, ma pei baldanza. per coraggio, per virilità d animo, giacché .si  attaccano a ciò che è simile a sé. Ed ecco vene ima prova  decisiva: costoro, a tempo debito, sono 1 soli che negano uomini davvero, adatti alla vita politica. E pervenuti all'età virile, mettono amore al fanciulli; e al  matrimonio e alla procreazione dei figliuoli non si vol¬  gono per inclinazione naturale, ma costretti dalla legge,  chi* anzi per conto loro soli ben contenti di viver sempre  gli uni con gli altri, da scapoli. Per ciò chi è così fatto,  diventa un amante di fanciulli o un amato, perche desi¬  dera sempre ciò che gli è congenere. E quando poi 1 amante  dei fanciulli e chiunque altro s’incontra in quella sua  propria metà d'un tempo, allora son presi d’un amicizia,  d'un intimità, d'un amore meraviglioso, senza volersi separare gli uni dagli altri, per così dire, nemmeno un  istante. E quelli che vivono insieme tutta la vita son  questi, che non saprebbero neppur dire che cosa vogliono  che avvenga loro all’uno per opera dell’altro, giacché  nessuno può credere che ciò che desiderano sia l'uso dei  piaceri amorosi, quasi che in questo debba cercarsi la  ragione per cui provano un così vivo diletto a stare insieme; ma è evidente che c’è qualche altra cosa che  l'anima di ciascun di loro desidera, qualche altra  cosa che non sa esprimere, ma che sente vagamente e a  cui accenna per vie coperte. E se ad essi nel momento,  in cui giacciono insieme, si presentasse Efesto coi suoi  strumenti alla mano e chiedesse loro. Che volete, o  uomini, che avvenga di voi. alFuno per opera dell’altro 1 ? »  e mentre e’ sono tuttora indecisi, soggiungesse: « Desi¬  derale voi, non è vero? soprattutto essere nello stessissimo luogo l’uno con l’altro in modo da non separarvi  mai né notte nè giorno? Ebbene, se è questo elio desiderate, io voglio rifondervi e riplasmarvi in un’unica  natura, sicché di due diventiate uno, e finché vivrete,  viviate tutti e due in comune, come un essere solo, e  anche da morti, laggiù nell’Ade, non siate, invece di due,  elle un morto solo... Guardate se è questo che amate e se  vi basta di conseguir questo... » a udir ciò sappiamo bene  che nessuno, proprio nessuno, risponderebbe di no, nò  mostrerebbe d'aver mai desiderato altro, ma crederebbe  103    nllit0 precisamente quello che egli desiderava da  tlavei i sentirsi unito e fuso con l’amato, e dive-   tanto ten i solo> e la ragione è appunto questa:    ot0 , eri in origine la nostra natura, e che eravamo  Cb teii 'Ebbene, al desiderio e alla caccia dell’intero si da   n ° U p,-ima "dunque, come dico, eravamo uno; ma ora per  , ..... nequizia siamo stati separati di casa dalla mano   ’ìV’rno còme gli Arcadi da quella dei Lacedemoni (1).   .... ’ ltra che a non essere ossequenti verso gli dei..   h . 'incontro a venir segati daccapo, e a dover an-  d.,re intorno come le figure scolpite a bassorilievo sulle  Se spaccati per il mezzo dei nasi, divenuti come dei  dirti’tagliati in due (2). Ma perciò conviene che ognuno  esorti ogni altro alla pietà verso gli dei, affinché si evitino  : m; di e si conseguano i beni, tenendo presente che Eros  è nostra guida e nostro duce. A lui nessuno vada conilo  __ c o-n va contro chiunque venga m uggia agli dei _  nerchè divenuti amici del dio e vivendo in buoni termini  con lui. troveremo e incontreremo ì nostri propri AMATI, il  ora capita a pochi. E non sospetti Erissimaco, mettendo  L caiSonatura ì mio discorso, che io alluda a Pausami,  cd Agatone — oliò forse anche essi sono di quelli, e tutti  c due maschi per natura - ma dico avendo di mira  tutti e uomini e donne, che m questo modo il genere  nostro troverebbe la sua felicità, se  all’amore, e ciascun di noi, ritornato nell antica natii a,  s’imbattesse nel proprio amato. E se poi qne  meglio, ne segue di necessità che di quanto oiaè  nostro potere, il meglio sia ciò che piu vi si avvmuia,  e ciò è rincontrarsi in un amato fatto secondo d piopno   “7" Aristofane accenna, secondo roplnUm.Mplfc £   del 3S5 a. C. Gli Spartani, vinta Mautinea in Alca, silaggi,   della città o la sciolsero, com’era precedutomene, ci sarebbe   Tenuto conto elio il banchetto avrebbe avuto’ “ wlt0j è n " u è impos-   qui un anacronismo. Ma rnUnsiouo non 6 do . .inlln storia   sibilo cho si accenni a qualche altro avvenimento ante,toro della   arcadica. . „ uim mota, conservata   l dadi talvolta si tagliavano in due, c ua.ci tessera, di ricoda duo persone legate da vincoli di ospitalità, seivna  noscimeuto por loro o per lo loro famìglio. che nel presente ^maggiori affidamenti   nel proprio; e per 1 prota jftà verso gli -lei,   ^ -i. ei render,   feUei e beati. v è p lu io discorso intorno   altri due, Agatone e Socrate.   XVII - Farò a modo tuo, disse Erissimaco. perchè  il tuo discorso l'ho ascoltato con piacere. E se non sapessi  che Socrate e Agatone sono addirittura dei maestri m  cose d’amore, avrei gran paura clie non doves ®.® 10 ,  vaisi a corto d’argomenti, tante cose si son dette e cosi  svariate. Tuttavia ho fiducia in loro.   1 E Socrate: Ah, sì, Erissimaco, perche tu te la sei  cavata egregiamente. Ma se fossi dove ora son io, o  meglio, dove sarò, quando Agatone avrà parlato da par  suo, temeresti anche di più. e saresti su tutte le spine,   còme son ora io. ,   Ammaliarmi (1) vuoi,- Socrate, disse Agatone, affinché  io mi turbi, immaginandomi che il teatro deva essere in  grande aspettazione, ch'io parli bene.   Mio caro, dovrei esser proprio uno smemorato, rispose  Socrate, se dopo di aver visto con quanto coraggio e con  quanta sufficenza salisti sul palco insieme con gli attori  e guardasti in faccia un teatro così affollato, in procinto di dare alla scena i tuoi componimenti (2),.senza    (1) * Vantarsi muove l’Invidia degli uomini; ma l’invidia ha il mal¬  occhio e può ammaliare e turbare senz’altro la persona Invidiata. Sonouohò  anche la lodo esagerata d’un altro (Socrato aveva lodato Agatone) può  suscitare contro costui l’invidia con tutto lo suo tristi conseguenze. (Hug). Da questo pasqo si concludo clic il poeta insieme col suol attori  prima della recita si presentava in forma solenne al pubblico. E sembra  del pari elio egli presentasse anche il Coro col suo corego. Questa ceri¬  monia, detta Ttpoaywv ‘ preludio ’ o ' preparazione al certame ’ drainatico.  .«s ’rr^zk »s«   f ”' iS *S Vuko <l<™« to P“™ '’* ™“ £Z?X~*. **? *T;   Sarei, Agatone, «pnrtese So bene elio a   se io pensassi di te sag gi, saresti più in   imbatterti m atan- la folla . Ma, bada, probabil-   pensiero per loio e 1 1 buon conto, lì anche   ne elici 1 ?   fi* So »»« avresti vergogno, ove « ,.eresse .11   fare qualcosa di male? Affatone, disse,   Ma Fedro, interrompendo: .Mio de i   se gli rispondi, Socrate noi > ^ < basta d’aver   resto, qualunque cosa *qui avven & * ^ )( q dovane.   :tis: «i? Jgs» -~f *n s* ss   avrà saldato il suo conto col dio, alloia   ''""“'"of'VSto; rispose «M e so,, qui pronto  . „’Z, "ó,, 5 monebe.it ,»i Mft. » >»,.vem,»e  spesso con Socrate.  Or dunque io vo’ in prima dire come io  deva dire, e poscia dire. Che tutti quelli, i quali han pal¬  late precedentemente, non hanno, parmi, encomiato  dio, bensì la felicità degli uomini Ivan messa m nlu  pei beni, de’ quali il dio 6 ad essi cagione. Ma qual sia    avveniva ncU’Odeon. teatro fatto costruirò da Pericle, e doveva, com’ò  ^supporre. attirare la curiositi! del gran pubblico, ohe «-interessava  così vivamente agli spettacoli teatrali. egli è il più giovane (legl’iddii. E una gran prova con  porge <*' medesimo fuggendo di fuga la vecchiezza. che  pure è così veloce: la ci raggiunge più presto che non  dovria! E questa Eros per natura la detesta e non le  si accosta nemmen da lungi. Egli sta e resta sempre coi  giovani, poiché ben dice l'antico adagio che sciupio  simile con simile s’accompagna (1). Ed io, pur  consentendo con Fedro in molte altre cose, in questo non  consento: che Eros sia più vecchio di Crono e di Già-  peto (2); affermo anzi ch'egli è tra’ numi il più giovane,  e sempre giovane; e le vecchie storie che Esiodo e Par¬  menide (3) ci ricantano dcgl’iddii, a’ tempi d Ananke,  [della Necessità] e non di Eros, risalgono, posto pure che  quelli ei contino il vero. Imperocché non ci sarieno state  né evirazioni, né ceppi, né tante altre violenze reciproche,  se Eros fosse stato tra loro; ma amicizia e paco, come ora,  dacché Eros regna sugli iddìi. Egli è dunque giovane, e  perdippiù delicato. E ci vorria un poeta quale Omero per  mettere in luce la delicatezza del dio. Omero infatti dice  che Ale è dea e delicata — e delicati almeno dovevano  essere i suoi piedi — dicendo egli di lei:   son delicati i piedi, oliò sovra il suolo non mai   muovesi, ma sul capo ella degli uomini incedo. MlK modo proverbialo e allusione ,i nn verso omorlco; cf. Od. XVII ì IS.  ( ") Ulro modo proverbiale per impennare alla nifi renn.l.i ....Hoi.n;.    Minare alla più remota antichità.  Mille abbia ipii in melile Agatone,     inc sembra che della delicatezza di lei una bella  ,-ovu sia che ella non cammina sul duro, ma sul tenero,  r -incile noi (li questa medesima prova ci varremo per  dimostrare di Eros circuii è delicato, dappoiché e' non  cammina sulla terra, nè sui cxanii, che non sono davvero  tèneri, ma in quel che vita di più tenero al mondo e  cammina e s’annida. Egli infatti e nei costumi e negli  mimi degl’iddìi e degli uomini pone sua stanza, e non  mica in tutti gli animi, ma ove mai s’imbatta iti qual-  cuno d'indole dura, se ne diparte; ma se tenero è, vi si  •umida. Or poiché adunque egli e co’ piedi e con ogni  parte del corpo tocca sempre quel che ve di più tenero  Jra le tenere cose, è giuocoforza che sia il piu delicato l. >  fri (d’iddii. Égli è così il più giovane e il più delicato-,  niu 1- per dippiù flessuoso di forma, che non gli sana  possibile insinuarsi dappertutto, nè penetrar tutta l’anima,  entrandovi la prima volta senza lasciarsi sorprendalo t  uscendone, se duro e’ fosse. Del suo aspetto proporzionato e flessuoso, argomento grande è 1 avvenenza che  Eros per confession di tutti in grado eccelso possiedi.  chè tra disavvenenza ed Eros è guerra sempre, ha leggiadria del colorito, il suo viver tra hon la sigillili.,  poiché in quel che fiorente non sia o sui n ’   o anima o qualsivoglia altra cosa, non risi, de L o . . a  ovunque sia un luogo e ben fiorito e fragranti, (pi 1  e risiede e rimane.  Della beltà, adunque, del dio e questo o  bastante e ancora molto sopmvanzat .na; seguiia^m  lei]., v i r tù di Eros mi eonvien dopo no dm. lai <   ' i . h ini che nè fa nò soffre ingiustizia, ni da   sano vanto (Il Pii CHI violenza.   Pio nè -1 dio nò da uomo nè ad uomo. Nè già p i ' «'li nzu   e so fre se qualcosa so.Vre - chè violenza noi tango, u   si concede a volente, le leggi, «fello Stato u D).   h-n elle è ('insto. E oltreché della giustizia c partecipa  della maggior temperanza. S’ammette infatti che lem-    in . Molatori» georgiana. evidóulomoilto una eluizioni'.    (Unir).   paranza sia il signoreggiar piaceri e desideri, e clic di  Eros verun piacere sia più potente. Or se meno potenti,  è ovvio che sien vinti da Eros, ed egli vinca; e vincendo  piaceri e desideri, Eros in sommo grado temperante esser  deve. E per fermo, quanto a coraggio, ad Eros neppur  Ares contrasta (1). poiché non Ares possiede Eros,  ma Eros Ares — amor di VENERE, come è fama — e  ehi possiede è più possente di chi è posseduto, e chi vince  l'iddio più valoroso di tutti gli altri, e’ dev’essere il più  valoroso di tutti.   Ho detto della giustizia, della temperanza, del co¬  raggio del dio; a dir mi rimane della sapienza, e per  quanto è possibile, m’ingegnerò di non fallire alla prova.  E in primo luogo, perchè dal canto mio anch’io renda  alla nostra arte omaggio, come alla sua Erissimaco, poeta  è l'iddio, sapiente così, da render anco gli altri poeti.  Ohè ognuno poeta diventa, quand’anche prima di  ogni Musa schivo, cui Eros tocchi. Della qual  virtù convienci usare a documento che Eros, a dir breve,  è poeta valente in qualsivoglia genere di creazione che  attenga alle Muse, dappoiché quel che non si ha o non  si sa. nemmeno ad altri non si può dare o insegnare.  E invero la creazion degli animali tutti chi niegherà che  sia sapienza di Eros, mercè la quale tutti gli animali e  nascono e si generano! E quanto alla pratica delle arti,  non sappiam noi forse che colui, al quale questo iddio  sia divenuto maestro, famoso diviene ed illustre; e chi  per converso da Eros non sia stato mai tocco, rimansi  oscuro! L’arti del saettare, del curare e del divinare  ritrova Apollo, scorto dal desiderio e dall’amore, sicché  anch’egli dir si può scolare d’Eros. E alle Muse fu maestro  dell’arte musicale, ad Efesto di quella dei metalli, ad  Atena del tessere, a Zeus di governar numi e mortali. Laonde anche nelle faccende degl’iddii si mise  ordine, poiché vi si fu generato Eros, amore evidente-    (Da uu verso del ‘Tlesto ’ di Sofocle; cf. Nauck, Tran. Or.  Fraomm.* framin.  Da un verso della ‘Stonoboa’ d’Eurlpido; cf. Naucic, Tran.  Or. Fraumm.* framm. 063 Verso giambico probabilmente d’un tragico.  meniti; di bellezza — che del brutto non è amore —  laddove per l’innanzi, come da principio ho detto, molte  e terribili cose, a quanto si narra, fra' numi awemano,  pr x c i ie vi regnava Ananlce. Ma dappoiché questo iddio  ebbe nascimento, dall’amore per le cose belle ogni bene  nrovenne e agli iddìi e agli uomini.   1 E così panni, Fedro, che Eros, essendo egli per il  minio bellissimo e ottimo, sia dipoi agli altri cagione di  Stri cosiffatti doni. Ed ei mi salta in mente di aggiunger  qualcosa in versi, dicendo che questi è colia il quale   ivice tra gli uomini reca, nell' ampio mare bonaccia  calma, riposo ai venti; nel duolo conforto di sonno.   Questi (Fogni sentimento ci vuota che ci strania, d ogai  sentimento ci empie che ci affratella; tali e tonti convegni  lri istituito per ravvicinarci, nelle solennità, ne con. n  sacìihzi facendosi nostra guida; di mitezza ispiratore di  rustichezza espulsore; prodigo di benevolenza, avaro  malevolenza; propizio, buono; spettabile ai sapienti, vene¬  rabile agl’iddii; segno d’invidia per chi noi possiede, cu*  Sosa di chi il possiede; di voluttà, di mollezza di del -  catezza, di grazie, di desio, di brama padre; cmant^dc  buoni non curante dei tristi; nei travagli, mu pin^n  nelle brame, nei discorsi timoniere, soldato, commilitone ( )   « xr„“fr!ito-VSlso * ...io .<*>   L, i» A « •>»«”. *" ir*-. — u "   si poteva, di misurata serietà temperato. Quando Agatone ebbe fluito, diceva.Ariate-  demo, lutti i presenti proruppero ni applausi, lasciai   ,n Vò * snidato' nò 'marinalo - equivalgono a iitlPiWQS d» 1 tosto,  a llanco il’un altro intendere che il giovane aveva discorso in maniera, degna-  di sé e del dio. Al che Socrate, volgendosi ad Erisslmaco:  O figliuolo d’Actìmeno, disse, ti pare che poco fa io te¬  messi d'un timore da non temere, o non fossi piuttosto  profeta, quando dicevo quel che dicevo poc’anzi: che  Agatone avrebbe parlato mirabilmente, ed io mi sarei  trovato in impaccio?   Per un verso, sì, rispose Erissimaco, lo riconosco, sei  stato profeta, che Agatone avrebbe parlato bene; ma  quanto a-1 tuo impaccio, via, non ci credo.   E come mai, beato uomo, riprese Socrate, non dovrei  trovarmi ìd impaccio io e chiunque altro sul punto di  parlare dopo la recita d’un discorso così bello e così varia  mente adorno? Certo non tutti i punti sono stati egual¬  mente stupendi; ma, nella chiusa chi di noi non è rimasto  addirittura intontito dalla bellezza delle parole e delle  frasi? Per me, considerato che non potrò dir nulla che s’avvicini appena per bellezza a ciò che egli ha detto, quasi  quasi per vergogna me ne sarei scappato, se avessi potuto.  Il suo discorso infatti mi ha richiamato alla mente GORGIA,  tanto che m’è occorso quel che dice Omero: ho temuto,  cioè, che alla fine Agatone nel discorrere non scaraventasse contro il mio discorso la testa di Gorgia (1), par¬  latore da far paura, e mi pietrificasse, ammutolendomi.  E mi sono accorto allora quanto ero stato ridicolo,  allorché avevo preso con voi l’impegno di fare a mia  volta l’elogio di Eros e dichiarato d’esser competente in  cose d’amore io, e lo vedo, che non so nemmeno come  s’ha da fare l’elogio d’una cosa qualunque. Giacché  io, nella mia dappocaggine, ritenevo che nell’elogio di  qualsiasi cosa non si dovesse dire che il vero e che  questo dovesse essere il fondo del discorso, salvo a sce¬  gliere Ira- le cose vere le più belle e metterle in mostra  nel miglior modo possibile. E presumevo assai di me  nella fiducia di parlar bene, convinto di saper la verità  sul modo di lodare qualsiasi cosa. Ma ora credo d’accor-    (1) Allusione a mi luogo dell” O di seca ’ (XI 032 sg.). Ulisse, sceso  nell’Ade, temo per un momento che Persofono non mandi contro di lui  la testa della Gòrgóne o Gorgo. Scherzo sulla somiglianza di nome tra Gorgo  e Gorgia, il famoso sofista.  germi che noti è questo il modo di lodar bene una cosa,  bensì l’attribuirle i maggiori e i più bei pregi possibili,  li abbia o no; se poi sono falsi, che importai Dev’essersi  infatti proposto, se non erro, che ciascun di noi finga di  pronunziare l’elogio d’Eros, non che lo pronunzi davvero.   E perciò appunto, credo, razzolando da ogni parte, avete  attribuito ogni pregio ad Eros e detto ch’egli è così e  così, e autore di tali e tanti beni, affinché appaia bellis- 199  simo ed ottimo, evidentemente a chi non sa — non  certo a chi sa — e cosi l’elogio assume un aspetto bello  e venerabile. Io, senza dubbio, ignoravo il modo di tesser  l'elogio, e, ignorandolo, presi impegno con voi che a mia  volta avrei anch’io lodato Eros. Ma la lingua promise,  la mente no. Dunque, addio elogio! Io non vi seguirò  su questa via — perchè non potrei — quésto è sicuro;  ma, comunque, la verità, se volete, ve la dirò, a modo  mio. senza gareggiare coi vostri discorsi, per non far  ridere a mie spese. Vedi, dunque, Ecdro, se mai anche  questa forma di discorso ti accomodi: sentir dire, la  verità intorno ad Eros con quelle parole e con quella  disposizione di frasi che mi verranno per le prime sulle  labbra.   Fedro e gli altri, raccontava Aristodemo, approvarono  che dicesse pure come gli pareva di dover dire, Uberamente. E allora, Socrate aggiunse, Fedro mio, permettimi di  rivolgere qualche interrogazioncella ad Agatone, affinchè,  ottenuto il suo assenso, io cominci a parlare.   Ma sì, rispose Fedro, te lo permetto; interroga pure.   E dopo ciò, continuava Aristodemo. Socrate cominciò  suppergiù a questo modo. Senza dubbio, mio caro Agatone, tu ti sei  aperta bene, secondo me, la via nel tuo discorso, dicendo  che ti conveniva prima mostrare quale è mai Eros, e  dopo lo opere di lui. E questo principio nr è piaciuto assai.  Orbene, via, poiché d’Eros, per tutto il resto, hai esposto  in forma bella e magnifica quale egli è, dimmi ancora    (1) Allusione ad un verso (612) famoso dell’Ippolito di Euripide. , mosto- se eoli è tale che sia amor di qualcuno, di;qualche  v r»,7u«i F bada* non domando se è di madre o   £ Bros è eros di madre o di padre D - ma fa conto,  come Te a-proposito d’un padre io ti chiedessi proprio  questoT s’egli è padre di qualcuno o no. A volemu  risponder bene, mi diresti certo, che d padre è padre  d'nn figlio o dima figlia. O no 1   Ma certo, disse Agatone.   E non diresti altrettanto della madre?   E Alatone consentì egualmente.   Ancora, soggiunse Socrate, qualche altra risposta,  affinchè tu veda meglio ciò che desidero. Se ti chiedessi,  per esempio: E dimmi: un fratello, ili quanto fratello,  è fratello di qualcuno, o no?   Ma sì, rispose. ,, „ „   È fratello, non è vero, d’un fratello o d una sorella.   Appunto, disse.   Via, provati a dirmi anche dell’amore: Eros e amore  di qualche cosa o di nulla?   Di qualche cosa, senza dubbio. Ebbene, questo ili che cosa tientelo dentro di te, ma  rammentatene, riprese Socrate. J?er ora dimmi soltanto,  se Eros, quello di cui è amore, lo desideri o no?    Ma si, rispose.   E ciò che egli desidera ed ama, lo desidera perche  lo ha o perchè non lo ha?   Perchè non lo ha, è naturale.   Rifletti, disse Socrate, se, più che naturale, non sia  addirittura necessario clic il desiderare sia un desiderare  ciò di cui si manca, o non desiderare, ove non si manchi. Poiché in epe)£ UVÓ£ ‘amor (li qualcuno’ o ‘di qualcosa’ il  •uve*? può aver valore tanto soggettivo, quanto oggottlvo Socrate chiarirà  con esempi che egli ha inteso darò a xtvó; il valore di genitivo oggettivo.  Ma siccome d’altro lato w Epitì£ xivòg potrebbe anche ossoro scambiato con  un genitivo d’origine (‘ Eros tìglio di qualcuno ’), Socrate vuole olirainaro  anche quest’altro equivoco. In sostanza egli, paro, vuol dir questo: Io ti domando, non già se Eros ò amato da qualcuno o ò figlio ili qualcuno, ma se  egli ama qualcuno o qualche cosa. Ma il luogo, non Tacilo, ò stato variamente discusso, e si può prestare audio a qualche altra Interpretazione. Io almeno, Agatone mio, credo fermamente che, .sia addirittura necessario. E tal   Anch'io, disse.   Va bene. E per conseguenza può mai esserci qualcuno  che voglia essere grande, mentre è grande, c forte,  mentre è forte 1 ?   Non è possibile, dopo le nostre premesse.   Non può infatti essere manchevole di queste doti chi    già le possiede.   È vero.   Perchè, se chi è forte volesse esser forte, seguito So¬  crate e veloce chi è veloce, e sano chi è sano... poiché  forse qualcuno potrebbe credere che queste qualità e tutte  le altre simili coloro che son tali e le hanno, desiderino  ancora quello stesse cose che già hanno, insisto su questo  punto, affinchè non si sia tratti in inganno... si u  rifletti, caro Agatone, costoro devono per necessita avere  in quel momento ciascuna delle qualità che hanno. 1  vogliano o no; e queste olii mai potrebbe desiderarle?  Ma allorché qualcuno dice: « Io. essendo sano, Aesid  di esser sano, ed essendo ricco, desidero d esser ricco; e  desidero appunto queste cose che ho->, noi gh possiamo  rispondere: « Tu, amico, possedendo ricchezze, salute c  forza desideri di possedere queste cose anche m a" 1 ®-  perchè in questo momento, che tu lo voglia o no tu le  hai. Guarda dunque, se, quando tu dici: Desidero le cose  presenti, tu non voglia dire altro che questo: D^deio  che le cose che ora ho mi sieno conservate anche  tempo avvenire. » E potrebbe egli negarlo?   Al che Agatone rispose assentendo. Orbene, seguitò Socrate, e questo non e appunto annue  quel che non ancora si ha sotto mano, nè si possiede:  il voler conservare e possedere anche nell avvenne  medesime cose?   Certamente, disse. E quindi costui ed ogni altro che desideri, di suit i.   ciò che non ha sotto mano e non possiede m quel mo¬  mento; e ciò che non ha, o che egli stesso non e e che gli  manca, questo è precisamente quello di cui è il desiderici  e l’amore? Niun dubbio, rispose. Suvvia dunque, disse Socrate, riassumiamo le nostre  conclusioni. Prima di tutto Eros è forse altro che amore  di certe cose, e poi amore di quelle cose, delle quali   soffra difetto?   Non è altro, rispose.   Di più ricordati di che cosa nel tuo discorso hai detto  che Eros fosse amore. Se vuoi, te lo rammenterò io.  Credo che tu abbia detto suppergiù cosi: che nelle fac¬  cende degli dei fu messo ordine mediante 1 amore del  bello, chè non può esserci amore del brutto. Non hai  detto suppergiù così?   Infatti, rispose Agatone, così ho detto.   E sta bene, amico mio, riprese Socrate. Ma se e cosi.  Eros non sarà altro che aurore di bellezza, non mai di  bruttezza?   Agatone rispose di sì.   O non s’è convenuto che quello di cui uno è manche¬  vole e che non ha, questo egli ama?   Certo, disse.   Dunque Eros è manchevole di bellezza e non l’ha? Necessariamente, rispose.   Ma dunque? Ciò che è manchevole di bellezza e non  possiede punto bellezza, dirai che è bello?   Ah, no!   E se è così, continuerai a sostenere che Eros è bello? E Agatone: Temo, Socrate, di non aver inteso nulla  di ciò che ho detto poc’anzi.   Eppure hai parlato splendidamente, Agatone mio.  Ma dimmi un’altra cosuccia: ciò che è buono, non  pare a te anche bello?   A me, sì.   Se per conseguenza Eros è manchevole di bel¬  lezza, e se bontà è bellezza, sarà anche manchevole  di bontà.   Per me, Socrate, non posso contradirti: sia puro come  tu dici.   Mio diletto Agatone, è la verità quella a cui non  puoi contradire, chè contradire a Socrate non è punto  diffìcile.  Ed ora lascerò in pace te, e vi riferirò su  VrnH li discorso che un giorno udii da una donna di Man-  tiuea Diotima (1), che in questo era sapiente, come in  tante' altre cose, e agli Ateniesi prima della peste suggerì  saer iflzi che ritardarono di dieci anni il male, e fu  "iella appunto che ammaestrò me pure in cose d’amore...  nuel discorso, dico, che ella mi tenne, procurerò di espor¬  celo movendo dai punti concordati tra me ed Aga¬  tone per conto mio, come posso. E bisogna natural¬  mente, Agatone, come tu hai aperto la via, chiarire per  mima cosa chi sia Eros e quale, e poi le opere di lui.   B mi pare che il modo più spiccio sia chiarirlo come  quella forestiera fece, interrogandomi. Suppergiù anche  io dicevo a lei delle cose simili a quelle che Agatone di¬  ceva a me poc’anzi: che Eros fosse un gran dio e fosse  amor di bellezza. Ma ella mi convinse del contrario con  quelle stesse ragioni con cui io ho convinto costui, dimostrandomi che secondo il mio discorso Eros non e nè   bello nè buono. , „   Ed io: Come dici, Diotima? Eros e dunque brutto e   ^ Ed ella: Parla, ti prego, con reverenza, disse. O credi  che quello che non è bello, debba necessariamente esser   brutto?   Senza dubbio. . . on2   E allora anche quello che non è sapiente sarà gn  Tante? E non t’avvedi che c’è qualcosa di mezzo tra  sapienza e ignoranza?   E che cosa? , .   L’opinar rettamente, anche senza poterne rende < -  gione, non sai, disse, che non è nè sapore — perchè ciò    È un personaggio; storino o addirittura fittalo» Il non esserci di  lei alcun ricordo o. per tacer d’altro, il nomo stesso, che vaio - onorata da  Zeus corno la patria Mantinoa, che paro alluda alla montica, a ”to divi¬  natoria escluderebbero la prima ipotesi. Ma, fu osservato, non potrebbe  esser IpTtóa in Atene alcuni anni prima della guerra del Peloponneso e  della pestilenza che afflisse la città, una sacerdotessa straulera <U molta  reputazione (comunque chiamata), che avesse suggerito agli Ateniesi del  sacrifizi o Intorno al oul nomo si fosse formata poi la leggenda, a cui accenna  Platone?  israr»jsìs. S£ opMm« ; un cbe .li mezzo t» «**»»» e . 6 „or,,»n.   Non Attingere dunque ciò die uon è bello ad esser  brutto nè ciò che non è buono ad esser cattivo. E cosi  aule Eros, poiché tu stesso convieni che non è ne buono  nè bello, non per questo devi credere che egli sia di neces-   shà brutto e cattivo, ma qualcosa di ^   Eppure, osservai, si conviene da tutti che egli   ^Da^tutti, vuoi dire, quelli che non sanno, o anche  quelli che sanno’?   Da tutti, senza eccezione, si capisce.   Ed ella, ridendo: E come mai, disse, Socrate, si po¬  trebbe convenire che egli sia un gran dio da quelli che  negan perfino che egli sia dio ?   E chi sono costoro? chiesi.   Uno sei .tu, rispose, ed una io.   Ed io: Ma come puoi affermar codesto?   Ed ella: Facilmente, rispose. Dimmi: non dici tu che  tutti gli dei sono beati e belli? O oseresti dire che qual¬  cuno degli dei non è nè bello nè beato?   Per Zeus, io no davvero, risposi.   E non chiami tu beati quelli che posseggono bontà  e bellezza?   Certamente.   E non hai ammesso che Eros, perchè manca di bontà  e di bellezza, desidera queste qualità, delle quali è man¬  chevole?   L’ho ammesso, è vero.   E come potrebbe essere un dio chi è privo di bellezza  e di bontà?   In nessun modo, mi pare.   Vedi dunque che tu pure ritieni che Eros non è un dio. E cosi, dissi, che. cosa mai sarebbe Eros?  Un mortale?   Nemmen per idea.     un    che di mezzo tra il    2C    Ma allora, che cosa f  ( ’oine nel caso precedente,  t „le e rimmortale.   peroni tatto rii, * »   qmloooo « «-» « 11 *> » “W*-   I F chiesi, qual è il suo poterei  l’essere interprete e messaggero dagli uomnu agli  , ó ? daS dei agh nomini, degli uni recando le preginole   II nvifizi degli altri gli ordini e le ricompense dei *a-   e Stando nel mezzo degli uni e degli altri, lo riempie  eri iz , • , | trovi collegato in sè medesimo. Atti a-   “i’o/lÌ 3 S l’arte «Mi .   7T?.r.Sfy.nir oi tacrifltì, alle WriHtah   Sol ™tl g e egei rapporto eri ogni colavo   e a E Cl chS 0 8U0 padre, chiesi, e cln sua mato ^   La storia è un po’ lunga, a   rartela. Quando nacque .Afrodite, * di Metia [Sa-   banchetto, e tra gli altri anche ì ^l ^ occo   gacia], Poh» [ Ac ^® to ^'°“ mend icare, come avviene   sr-V? èrt»*   buttato a dormire. Allena Pema, n . ge a gìacere   povertà d’avere un hglmo ° < • h,’ Q E p PV questo   accanto a lui e divenne n t tl S cV Afrodite, perchè   appunto egli è anche seguace e >n perc hè da natura   «ito e bello, come generalmente si crede, e an     V  ilzo, senzatetto, uso a dormire sulla nuda  coperte, dinanzi alle porte, a cielo aperto,  , _l.vll.i no ri «11 n ini covi Q    tendere insidie ai belli e ai buoni, coraggioso, temerario,  impetuoso, cacciatore terribile, sempre occupato a pre¬  parar lacciuoli, avido d’intendere, ricco d espedienti, de¬  dito a filosofare per tutta la vita, ciurmadore, mago e  solista insuperabile. E di sua natura non è nè immortalo  nè mortale, ma a volte, nello stesso giorno, germoglia  e vive, quando tutto gli va a vele gonfie; a volte muoie  e poi, data la natura del padre, rivive daccapo, e spreca  sempre tutto quel che guadagna, sicché non è mai ne  povero nè ricco, e d'altro lato tiene il mezzo tra la sapienza e l'ignoranza. E s’intende: degli dei nessuno lilo-  soleggia o desidera di divenir sapiente —- perchè è già  tale — e se e'è altri sapiente,. non filosofeggia nemmeno. Ma, d’altronde, neppur gl’ignoranti filosofeg¬  giano o desiderano di diventar sapienti. Giacché proprio  questo è il guaio dell’ignoranza: che chi non è nè  ammodo nè saggio s'illude d’essere un uomo che basti  a sè medesimo. E chi non crede d’esser manchevole  non desidera nemmen per sogno quello di cui non crede  di mancare.   E chi. Diotima, diss’io, son quelli che si volgono alla  filosofia, se non sono nè i sapienti nè gl’ignoranti?   Codesto, rispose, dovrebbe esser manifesto perfino ad  un ragazzo: son quelli che tengono il mezzo tra gli uni  e gli altri; e tra questi è anche Eros. Perchè la sapienza  è tra Io cose più belle, ed Eros è amore del bello, sicché  necessariamente Eros deve aspirare alla sapienza, deve  esser filosofo, e come filosofo tenere il mezzo tra sapiente  e ignorante. E anche questo gli vien dalla nascita, giacché  egli è di padre sapiente e ricco, ma di madre nò sapiente  nè ricca. Questa, mio caro Socrate, è la natura del d謠 mone. Che tu poi fi fossi immaginato Eros come te lo  eri immaginato, nessuna meraviglia: tu avevi creduto,  se non m'inganno, a giudicarne da quel che dici, che  Eros fosse l’amato, non l’amante, e però penso che Eros  fi paresse bellissimo, perchè difatti ciò che è degno di è il realmente bello, delicato, perfetto e tale da  aU '° rsi beato Ma l’amante ba tutt’altro aspetto, e pre¬  cisamente quello che t’ho ritratto. Ed io dissi: Sia pure, ospite; che infin dei   conti'' tu ragioni bene. Ma se Eros è tale, che utile reca   agU CodTsto, ? disse, Socrate, mi proverò d’insegnartelo fra  lin00 intanto Eros è tale e nato a questo modo, ed e  di bellezza, come tu dici. Ora se qualcuno ci do¬  mandasse: « Che cosa vuol dire, Socrate e Diotima, Eros  di bellezza? » O più chiaramente: Chi ama ama il bello,   e che ama?   Ed io: Possederlo, risposi.   Ma, soggiunse, la tua risposta chiama quest altra do¬  manda: Che' ci guadagna chi possiede il bello !   Io dissi di non saper veramente che cosa nspondcie,   così, su due piedi, a questa domanda.   Ma riprese, fa conto che qualcuno, mutando 1 ter  mini, sostituisse bene a bello, e ti chiedesse: «Orsù, bo¬  ccate, chi ama ama il bene; e che ama? »   Possederlo, risposi. E che ci guadagna chi possiede il bene!   Ecco M’d»™Tn,l« Pi« «-*.**. « »   finisce qui, mi pare.   E onesto 1 desiderio e questo amore credi tu che sia  comune a tutti gli uomini e che tutti vogliano possec ei  sempre il bene? O come dici?   Così è, risposi: comune a. tiitti tti diciam o   E perché mai dunque, Sociale, non ,i   che amano, se poi tutti amali lo stessotal uni diciamo che amano e d’altri no!   Me ne meraviglio anch’io, dissi. ,   No. non meravigliartene, soggiunse, pe ’ a   di aver preso a parte una delle specie d amore, diamo a   rme-sta il nome dell'intero, e la chiamiamo amore,  mentre per le altre ci serviamo di altri nomi.   Come sarebbe a dire? chiesi. Ecco per esempio: sai bene che pohsis, [ Iattura ,  poesia ’] implica molti significati, giacché ogni opera¬  zione, la quale faccia che una cosa dal non essere  passi all’essere è poièsis, sicché le produzioni, attinenti  a tutte le arti, sono aneh esse poièseis , e i loro produttori  tutti poiètai.   È vero. . ,   E tuttavia, disse, sai pure che non si chiamano poteteli, poeti. ma hanno altri nomi; e una particella sola, distaccata da tutta la poièsis , quella che ha per oggetto  la musica e le composizioni metriche, è chiamata col  nome delimiterò. Soltanto questa infatti prende nome  di poesia, e poeti quelli che posseggono questa par¬  ticella della poièsis.   È vero, dissi.   E così, dunque, anche dell amore. La _ somma n è  ogni desiderio del bene e delTesser felice, il massimo  e ingannevole amore d'ognuno. Ma di quelli che  vi si volgono per un’altra delle molte vie, o del guadagno  o della ginnastica o della filosofia, non si dice che amino,  nè son chiamati amanti, laddove coloro che tendono  a questa sola specie, e si consacrano ad essa, prendono  il nome del tutto, amoree amare e amanti.   Mi pare ohe tu dica il vero, risposi.   Eppure, seguitò, corre per le bocche un certo discorso:  che quelli i quali vanno in cerca della propria metà,  questi amano. Il mio discorso invece dice che 1 amore  non è nè della metà nè dell’intero, ove, amico mio, non  si creda di scorgere un bene, poiché gli uomini si lasciali  volentieri amputare e piedi e mani, sempre che paia ad  essi che le loro proprie membra non sieno più buone.  Giacché, secondo ine, non è il proprio quello che ciascuno ha caro, se pure non si chiami proprio il bene   Pare una citazione; ma la frano destò dot sospetti in parccclii in¬  terpreti, e fu addirittura considerata come un glossema dall’Hug o dal   Bonghi.   n male. Perchè io non vedo altra cosa che gli 206  uomini amino, all'infuori del bene. E tu?  r>,>v Zeus, e nemmeno io.   O dunque, possiamo affermare, così senz’altro, che  g li uomini amano il bene?   hTche?' r'iprès™non si deve anche soggiungere che essi  amano d’averlo con sè, il bene l   Tpcr dippiù, disse, non solo d’averlo, ma anche  d’averlo sempre?   Ssom Eque, concluse, l’amore è amore di aver   sempre il bene con sè.   Tu hai pienamente ragione, dissi. Poiché l'amore è questo sempre   per imparare appunto codeste . partorire nel   * - 4et*?-sstiS?*.   gli uomini, Socrate, concipn etòi i a . nostra   secondo l’anima; e, S 1 ' 11 ' < partorire nel brutto   natura desidera di paidon ; m. nU) infn fti del¬  udi può; nel hello, Mi 1 fj?,p°ff rtl „. E questa è cosa  l'uomo c della donna \ mor talo, questo è immortale:  divina, e nel vivente, ^ ora è impossibile che   il concepimento c' a h* ‘ disarmonico è il brutto   ciò avvenga nel disaiic m . q iuvooc n bello. Sicché  rispetto a tutto i cl ’ dea de ua nascita e della morte]  Bellezza è Mona 1 » ’ . t0 ed a Ua generazione].   b srasr? &«*» *'   diventa gaia, e nella sua letizia s’effonde e partorisce e  genera. Ma quando al contrario s’appressa al brutto, si  abbuia, e nella sua tristezza si contrae, si volge indietro,  si raggomitola e non genera; ma, trattenendo in sè il  feto, si sente male. Donde appunto nella creatura, gravida e già smaniante di desiderio, l’ansia grande per ciò  che è bello, giacché esso libera ehi lo possiede dalle gravi  doghe del parto. Perchè, Socrate, l’amore non è amore  del bello, come tu pensi.   Ma e di che allora?   Di generare e partorire nel bello.   E sia, dissi.   Mon c’è dubbio, riprese. Ma perchè poi della genera¬  zione? Perchè la generazione è un sempregenerato e  immortale nel mortale. Sicché da ciò che s’è convenuto  segue necessariamente che l’amore è desiderio d’immortalità nel bene, se è amore d’aver sempre il bene  con sè. E un’altra conseguenza necessaria di questo  ragionamento è che l’amore è anche amore dell’immortalità. Tutte queste cose ella m’insegnava ogni  volta che si ragionava d’amore. E un giorno mi chiese:  Che cosa mai, Socrate, credi tu che sia causa di codesto  amore e di codesto desiderio? O non senti che tenibile crisi  attraversino tutti gli animali, e terrestri e volatili, quando  senton desiderio di generare, ammalandosi tutti e struggendosi d’amore, prima, di mescolarsi insieme; poi, di  allevare la prole; e come sieno pronti per essa a combattere, i più deboli coi più forti, e a spender la propria vita  in difesa di quella e a soffrire essi la fame, pur di nutrire  i loro nati, e a fare qualunque altra cosa? Degli uomini,  tanto, si può credere che lo facciano per effetto d’un  ragionamento; ma e gli animali, che cosa può indurli a  questo prodigio d’amore? Sai dirmelo?   Ed io a risponder daccapo di non saperlo.   Ella ripigliò: E pensi, dunque, di poter divenire  esporto in cose d’amore, se non intendi questo?   Ma per questo appunto, Diotima, come dianzi di¬  cevo, vengo da te, perchè so d’aver bisogno di maestri.  Ala tu dimmene la cagione, e di queste e delle altre cose  relative all’amore.   Ebbene, se ritieni per fermo che 1 amore sia pei  tura amóre di quello di cui s’è convenuto più volte,  nn te ne meravigliare: Giacché qui si torna allo stesso  bscorso- la natura mortale cerca, per quanto può, di  essere sempre e immortale. E può esserlo soltanto per  està via per la generazione, cliè così lascia sempre  dono di sé qualcos’altro di nuovo in cambio del vecchio.  Poiché anche in quello spazio di tempo durante il quale  di ciascun animale si dice che è vivo e che e lo stesso...   „or esempio, d’un uomo, da bambino fino a che non  diventi vecchio, si dice che è il medesimo; eppure costui,  quantunque non conservi mai in sé stesso le stesse cose  tuttavia passa per essere il medesimo, pur rifacendosi  in parte incessantemente giovane, e m parte deperendo  e nei capelli e nelle carni e nelle ossa e nel sangue e  in tutto il corpo. E nonché per il corpo, ma anche per  l’anima, i modi, i costumi, le opinioni, i desideri, i piaceri i dolori, le paure, ciascuna di queste vane cose no  rimati punto la stessa in. ciascuno, ma talune nascono, dire periscono. E, quel che è ben piu sorprendente, non  si le cognizioni, altre nascono, altre periscono m noi e noi non siamo, nemmen rispetto alle cognizioni, semp  ghS, ma anche per ciascuna =   s’avvera lo stesso. Giacche ciò che si ^e meditare^  dice appunto della cognizione m quanto ^ ' ' 1 '   ticanza infatti è uscita di cognizione etemeMaage,   non con l’essere in tutto sempre lo stesso, come il <hvi ,  nuT col' 1 lasciare dopo di sé, in cambio di ciò che va via   , . nn ni cos’altro di nuovo che gli somiglia pei   e invecchia, qualcos altro | ocrat0) diss’ella,   ifmortaio partecipa dell’immortalità, sia corpo, sia checché  si voglia Ma l’immortale procede per altra via. Non  meravigliare dunque, se ogni essere per natura oncia i  proprio germoglio, giacché per desiderio d immortalità  siffatta cura ed amore s’ingenera in ogni creatura. All’udire questo ragionamento ne rimasi   sorpreso, è dissi: Sia pure, sapientissima Diotima; ma è  tìoì realmente così?   Ed ella, come i perfetti sofisti: Abbilo per fermissimo Socrate, rispose. Oliò, se vuoi guardare anche  all’amore degli uomini per la gloria, ove tu non tenga  presente ciò che ho detto, avresti motivo di meravigliarti  della loro stoltezza, riflettendo da quale ardore sien posseduti di divenir celebri e gloria procacciarsi ne’  secoli tutti immortale (2), e come perciò sieno  pronti a sfidare qualsiasi pericolo, anche più che per i  figli, e consumar sostanze e soffrire qualsiasi sofferenza  e far getto della propria vita. Poiché credi tu, disse, che  Alcéstide sarebbe morta in cambio di Admeto o Achille  soprammorto a Pàtroclo o Codro- vostro (3) premorto  per assicurare il regno ai figliuoli, se non avesser creduto  di lasciare quel ricordo di sé, che ora noi serbiamo di  loro'? Pi vuole ben altro! disse. Ma per conseguire virtù  immortale e siffatta fama gloriosa, tutti, a parer mio,  son pronti a qualsiasi cosa, e quanto migliori, tanto più,  perché amano l’immortale. Quelli dunque che son gra¬  vidi. disse, nel corpo, si volgono di preferenza alle donne,  e per questa via sono amorosi, procurandosi per mezzo  della generazione dei figliuoli, come pensano, immorta¬  lità, ricordo e beatitudine per tutto il tempo avvenire.   209 Coloro invece che son gravidi nell’anima... perchè, di¬  ceva, c’è pure di quelli che son gravidi nell’anima, ancor  più che nei corpi, di ciò che all’anima s’addice e di con¬  cepire e di partorire; e che cosa le s’addice? la saggezza  c le altre virtù; e di queste sono generatori i poeti tutti,  e degli artisti quanti son detti inventori. E tra le forme  di saggezza, disse, la più alta di gran lunga e la più bella    L’osservazione di Socrate ai riferisco al tono di sicurezza, por- dir  cosi, cattedratico e dogmatico clic assumo Diotima, la quale di qui in poi  abbandona la conversazione familiare per pronunziare un discorso lungo  c filato.    Dev’essere una citazione poetica. L’Hng osserva elio in questa  parte Diotima si compiace di versi o di forme poetiche.   Codro ò il leggendario re clic andò volontariamente incontro alla  morte per salvare l’Attica dalla invasione dorica.   che s’occupa degli ordinamenti politici e donic-  Ò - q !, cui si dà nome di prudenza e di giustizia. E allor-  S Ì 1C1 ™>i uualcuno di costoro per esser divino  sia da  1 1 gravido nell’anima, e giunta l’età desideri oramai   vtnrire e generare, anche costui, credo, ricerca premurósamente quel bello nel quale possa generare, giacche  'e 1 brutto non vorrà generar mai. E quindi egli gravido  r 4 si compiace dei bei corpi piu che dei bratti, e  °e s’incontri in un’anima bella e generosa c d indole  mona si compiace vivamente d’un tale insieme e con  e òo egli è subito largo di discorsi intorno alla virtù e su  miei che dev’essere l’uomo dabbene e sul tenore di vita  che questi deve proporsi; e si dà a educarlo Perche, ,  credo a contatto della bella persona e nei colloqui con  essa egli partorisce e genera quello di cui da gran tempo  e ra 'gravido, ricordandosi di lei, presente o lontano, e  la prole egli alleva in comune con quella, cosicché uonnn  siffatti mantengon tra loro una comunanza assa P  intima che non quella che avrebbero per mento dei  figliuoli, e un’amicizia assai più salda, dacché ^  in comune dei figli più belli e piu mimo potinoli   •per sè preferirèbbe d’aver piuttosto di sillatti h ^ . che quelli umani, guardando a Omero a Esu^ c  agli altri poeti insigni, invidioso dei nati_ l  lasciali di sè e che assicurano loro gioire ; uoi   immortale, perchè sono essi stessi inumatali, . •   disse, dei figliuoli come quelli che tediò Um 0  demone, salvatori di Lacedemone e,spù.c(  i-Eliade E da voi è anche onorato Soloiu pu lì   SmS«So o"«iÒff». ta’«ove..por  gli umani fin qui a nessuno. Sino a questo grado nei  Socrate forse avresti potuto iniziarti da b • Ma min  dottrinò perfette e contemplative, alle quali, ove si pio¬  li) Mantengo qui la lozione ilei oodd. 9-stos lov. ceda rettamente, quelle finora esposte servono di pre¬  parazione, non so se ne saresti capace, le le esporrò  dunque io, disse, e non trala scerò di metterci tutta la  mia buona volontà. E tu cerca di seguirmi, se ti riesce.  Perchè chi vuol incamminarsi per la via diritta a questa  impresa, deve da giovane andare verso i bei corpi, e  dapprima, se chi lo guida lo guida' dirittamente, amare  un sol colpo c generare in esso discorsi belli; e poi intendere che la bellezza in un qualunque corpo è sorella della  bellezza dim altro corpo; e se convien perseguire ciò ohe  è belio d'aspetto, sarebbe una grande stoltezza non sti¬  mare che una sola e identica sia la bellezza in tutti I CORPI. E inteso che abbia questo, divenire AMANTE di  tutti i boi corpi, e calmare quei suoi ardori per uno solo,  spregiandoli o tenendoli a vile. E in seguito reputare clic,  la bellezza delle anime sia di maggior pregio clic la bellezza del corpo, sicché, ove uno sia bello dell’animo,  quand’anche poco leggiadro, se ne contenti e Io ami e  ne prenda curii e partorisca e cerchi ragionamenti siffatti, che valgano a render migliori i giovani, affinchè  sia dipoi costretto a considerare il bello clic è nelle, isti¬  tuzioni e nelle leggi, e riconoscere che esfjo è tutto congenere a sè, e si persuada così che il hello corporeo non  è che piccola cosa. E dopo le istituzioni < In sua guida >  lo conduca più in alto, alle scienze, perché veda alla loro  volta la bellezza»delle scienze, e mirando all'ampia distesa del BELLO, non più, estasiandosi come uno schiavo,  davanti alla bellezza d'una singola cosa, d’un giovanetto  o (L’un UOMO o d’una istituzione sola, e servendo sia una  abietta o meschina persona; ma volto al gran mare  della bellezza, e contemplandolo, partorisca molti e belli  e magnifici ragionamenti e pensieri in un amore sconfi¬  nalo di sapienza, fino a che, in questo rinvigorito e cre¬  sciuto, non s’elevi alla visione di queU’unica scienza, che  è scienza di cosiffatta bellezza.   E ora, continuava, la di aguzzare rocchio della mente  quanto più puoi.Giacché colui che sia stalo  educato fin qui alle cose amorose, contemplando a grado  a grado e rettamente il bello, pervenuto al termine della  via d’amore scorgerà d’improvviso una bellezza di sua mumluìi   natura stupenda, e precisamente quella, Socrate, per la  quale si eran durati tutti i travagli precedenti, quella che  innanzi tutto è eterna, che non diviene e non perisce, non zi 1  cresce e non scema; e poi, che non è bella per un verso e  brutta per un altro, nè a volte si a volte no, nè bella  rispetto a una cosa e brutta rispetto ad un’altra, nè qui  bella e lì brutta, o bella per alcuni e brutta per altri. Ne,  per dìppiù, la bellezza prenderà ai suoi occhi la forma  come (li volto o di mano o d’alcunchè di corporeo, nè d’un  discorso o d’una scienza o di qualcosa che sia in un altro, in  un animale, poniamo, o in terra o in cielo o dove che sia;  ma gli apparirà qual è in sè, uniforme sempre a sè  medesima, e tutte le altre cose belle, partecipi (Vessa in  tal modo, che, mentre queste altre e divengono e periscono, essa non divien punto nè maggioro nè minore, e  non soffre nulla. E quando alcuno per aver rettamente  amato i fanciulli, sollevandosi dalle cose di quaggiù,  prenda a contemplare quella bellezza, allora può dirsi  che abbia quasi toccato la meta. Perchè questo appunto  è sulla via d’amore procedere o esser guidato dirittamente da un altro: muovendo dalle belle persone di quaggiù  ascendere via via sempre più in alto, attratto dalla bellezza di lassù, quasi montandovi per una scala, da un  bel corpo a- due, e da due a- tutti i bei CORPI, e da bei  corpi alle belle istituzioni e dalle istituzioni allo belle  scienze per finire dalle scienze a quella scienza che non  è scienza d’altro se non di quella bellezza appunto; e  pervenuto al termine, conosca quel che è il bello in se.   Questo, mio caro Socrate, se altro mai, diceva 1 ospite  di Mantinea, è il momento della vita degno per un uomo  d’esser vissuto, allorché egli può contemplare la bellezza in sè. Ed essa-, ove mai tu la veda., non ti parrà  comparabile nè con oro nè con vesti nè con quei bei  fanciulli e giovanetti, al cospetto dei quali rimani ora  sgomento e sei pronto, e tu e molti altri, guardando codesti vostri amati c standovi con loro, se fosse possibile,  sempre, a non mangiare nè bere, ma soltanto a eontem-  plarveli e starci insieme. E che sarebbe, diceva, se a  qualcuno riuscisse di vedere il bello in sè,' sclùetto, puro,  sincero, non infarcito di carni umane e di colori e di  tante altre vanità mortali, ma potesse scorgere la divina  bellezza in sè medesima, uniforme? Creiti tu che sia una vita da tenere a vile quella di chi possa guar¬  dare colà e contemplare con 1 intelletto quella bellezza e starsi con essa? O non pensi, disse, che quivi  soltanto, a lui che vede la bellezza con quello per cui  essa è visibile, verrà fatto di partorire, non immagini  di virtù, perchè non è in contatto con immagini, ma  virtù vera, perchè in contatto col vero; e che, avendo  generato e nutrito virtù vera, a lui solo è concesso di  divenir caro agli dei, ed anche, se altri mai iu tale al    mondo, immortale?   Eccovi, Fedro e voi altri, quel che diceva Diotima, e  io ne fui persuaso; e, persuaso, mi adopero a persuadere  anche gli altri che per procacciare alla natura umana  un tanto acquisto non si può facilmente trovare un  collaboratore più valido d’Eros. E perciò appunto af¬  fermo che ogni uomo ha l’obbligo di rendere onore  ad Eros, e io stesso onoro e coltivo in modo speciale  le discipline amorose e vi esorto gli altri; ed ora e  sempre, per quanto è in me, encomio la possanza e la    fortezza di Eros.   Questo discorso, Fedro, ritienilo detto come un elogio  d’Eros, se credi; se no, chiamalo pure come ti piacerà  di chiamarlo.  Poiché Socrate ebbe finito, tutti, raccontava  Aristodemo, gli rivolsero delle lodi, eccetto Aristofane,  che s’accingeva a dire nòti so che cosa, perchè Socrate,  nel parlare aveva alluso al discorso di lui, quando, a un  tratto, s’ode picchiare violentemente alla porta di strada  e insieme un gran chiasso, come d'i gente avvinazzata,  che usciva da un banchetto, e la voce d’una suonatrice  di flauto. Al che Agatone: Ragazzi, disse, andate a vedere; e se è qualcuno dei nostri, fatelo entrare; se no,  dite che s’è smesso di bere e stiamo già riposando. Ed,  ecco, un momento dopo, si sente noi vestibolo la voce   Alla lettera: con quello con cui si convieno (contemplarlo), cioè  v(p * con la monte d’Alcibiade, ubriaco fradicio, che strepitava: Pov’ò Agatone? Menatemi da Agatone! Entrò, sorretto dalla suo-  natrice e da alcuni dei suoi compagni, e si fermò sulla  soglia dell’uscio. Aveva il capo ricinto d'una folta corona  di edera e di viole e adorno d’una infinità di nastri.   E disse: Salute, amici! Vorrete compiacervi di dare un  posto per bere con voi a un ubriaco fradicio, o dobbiamo andar via subito dopo di aver incoronato Aga¬  tone, che è lo scopo per cui siamo qui? Ieri non mi riuscì  di venire, ma ora eccomi qui, col capo coperto di nastri,  per rieingerne dal mio il capo del più sapiente, del più  bello, lasciatemelo dire, tra gli uomini. Iriderete voi forse,  perchè sono ubriaco? Ebbene, ridete pure; ma io so di B3  dire la verità. Intanto ditemi senz’altro, se posso o no  entrare a queste condizioni. Siete pronti a bere con me,    o no?    Tutti in coro con alte grida gli risposero che entrasse    e si mettesse a giacere, e Agatone ve lo invitò. Egli venne    avanti condotto dai compagni, e poiché si veniva levando  que’ nastri per incoronarne l’ospite, non s’accorse di Socrate, che pure gli stava dinanzi agli occhi, ma si mise  a sedere accanto ad Agatone, tra questo e Socrate, il  quale, come l’aveva visto (2), s’ora tratto da parte. Sedu¬  tosi. abbracciò Agatone e gli cinse il capo.   È Agatone disse: Ragazzi, slacciate i sandali ad Alci-  biade, perchè possa sdraiarsi terzo fra noi.   Benissimo, disse Alcibiade; ma chi è questo nostro  terzo compagno? E ad un tempo, volgendo gli occhi, vide  Socrate, e vistolo diè un balzo, esclamando: Per Éraeles.  che roba è questa? Socrate qui? Àncora un agguato!  E hai preso questo posto per apparirmi, al solito, dinanzi,  dove meno me l’aspettavo? E ora, perchè sei qui? E  perchè poi ti sei messo a giacere proprio in questo posto?  Perchè non accanto ad Aristofane o a qualche altro, che  sia o voglia parere un burlone, ma tanto ti sei destreg-   i Alclbiado voniva coronato, pcrchò usciva da uu altro banchetto.  Le corono, elio solovano essero di foglio di mirto, di pioppo bianco o di  odora intrecciato con roso o In Atene a proferonza con violo, si distribui¬  vano dal servi, quando, finita la cena, si passava a boro. * (Hug).   (2) Leggo (1)£ éxetvov xctxstfiev secondo il pap. d’Osslrinco. g iato da venirti a sdraiare accanto al più bèllo di quanti   SOn °B q Soc" Agatone, disse, guarda un po’ di difendermi. perchè l'amore per me di costui non un dà poco  a fare Dacché presi ad amarlo, non son pm padrone di  guardare o discorrere con nessun altra bella persona  senza che costui, roso dalla gelosia o daU invicha, non  faccia cose dell’altro mondo, e mi copra d insulti, e per  poco non mi metta le mani addosso. Guarda che anche  ora non ne faccia qualcuna delle sue. Metti pace tra noi,  o, se cerca d’aecopparmi, aiutami, perche io ho una  paura matta dei suoi furori e delle sue smanie amorose.   Pace tra me e te? ribattè Alcibiade; non è possibile.  Ma di questo ti castigherò in qualche altra occasione.  Per ora, Agatone, rendimi un po’ di codesti nastri, perche ne ricinga il meraviglioso capo di costui qui, e non mi  accusi d’aver coronato te, e lui poi, che vince nei discorsi  tutti, e non solo ier l’altro, come te, ma sempre, non 1 ho  coronato. E così dicendo, prese alcuni nastri, ne cinse capo di Socrate e si mise a giacere. Dopo che si fu sdraiato, riprese: E che  amici? non siete in vena di bere? Io non posso permet¬  terlo; bisogna bere: è stato il nostro patto. Io scelgo a  re del bere, finché non avrete bevuto abbastanza, me  stesso. E Agatone faccia portare, se c’è, una gran tazza.  No, no, non occorre. Ragazzo, a me quel bigonciolò —  all s’eraaccorto che conteneva più di otto colili  —lo riempì  e bevve per il primo; poi ordinò clic si mescesse per So¬  crate, aggiungendo: Del resto, amici, con Socrate la mia  astuzia non attacca: si può farlo bere quanto si vuole,  non c’è caso che s’ubriachi.   Socrate, quando il ragazzo gli ebbe mesciuto, bevve.   Ma Erisslmaco disse: Che facciamo, Alcibiade? Tracanneremo così un bicchiere sull’altro senza intramezzarvi  nè un discorso nè un canto, proprio come degli assetati?   Tì Alcibiade: Erissimaco, eccellente figlio d’eccellente  e sennatissimo padre, salute! La eotile equivaleva a circa un quarto eli litro. E salute a te pure! rispose Erissimaco. Ma che dobbiamo fare!   Quel che tu ordini: a te bisogna obbedire,   Che certo un medico solo vai quanto molti uomini insieme.   Ordina dunque a tuo modo.   Ebbene, da’ retta, riprese Erissimaco. Prima della  tua venuta s’era fissato che ciascun di noi per turno a  destra pronunziasse un discorso, il meglio che si poteva,  su Eros, in elogio di questo dio. Tutti noialtri abbiamo  parlato. Tu che non hai parlato, ma hai bevuto, è giusto  che ne faccia imo tu pure. Dopo, imponi a Socrate quel  che ti piace, ed egli farà altrettanto per turno a destra  con gli altri.   Belle parole, Erissimaco! rispose Alcibiade. Ma non  ti pare che a mettere un ubriaco in gara di discorsi con  gente che ha la testa a posto, la partita non sia pari !   E dimmi pure, beato amico: ci credi tu a quel che Socrate  ha detto or ora di me? Non sai che è proprio il rovescio  di ciò che egli diceva? Giacche costui, se in presenza sua  mi permetterò di lodare un altro, dio o uomo che non  sia lui, non terrà a posto le mani.   Parla con più rispetto, disse Socrate. Per Poseidone, riprese Alcibiade; non contradirmi.   Sai bene che in presenza tua non potrei lodare nessun  altro.   E tu fa' come vuoi, ripigliò Erissimaco: loda So'crate. Come dici! Ti pare, Erissimaco, che convenga? Posso  dare addosso a quest’uomo e vendicarmi di lui sotto i  vostri occhi?   Ohe, giovanotto, che ti salta in niente? Con la scusa  di lodarmi vuoi mettermi alla berlina? O che vuoi fare? Dirò la verità. Guarda però di lasciarmela dire.   Ma, certo, la verità te la laseerò dire, anzi voglio che  tu la dica.   Son pronto, riprese Alcibiade. E tu fa’ così: se non  dico la verità, interrompimi e dammi una smentita, che  di proposito non dirò nessuna bugia. Ma se salterò di 21  palo in frasca, come la memoria mi suggerisce, non teue sorprendere, giacché non è facile per chi è neUgnie  condizioni enumerare per filo e per seguo tutti 1 tiatti  della tua originalità. Socrate, amici, comiucerò a lodarlo così,  per via di paragoni. Costui crederà forse ch’io voglia  farvi ridere alle sue spade; eppure il paragone mira a  rappresentarvelo qual è realmente, non a metterlo in  burla. Dico dunque ch’egli è similissimo a quei Sileni  esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artisti raf¬  figurano con zampogne o flauti in mano e che, aperti  in (lue, mostrano nell’interno immagini di dei (2). Ili dico  per dippiù che somiglia al satiro Marsia. li/ che tu  sia nell’aspetto simile a quelli, neanche tu, boera te,  oseresti metterlo in dubbio. Che poi somigli anche nel  resto, stanimi ora a sentire. Sei un gran canzonatore;  o no ? Se lo neghi, , presenterò dei testimoni. E un flau¬  tista, no? Anzi più meraviglioso di Marsia. Questi, è  vero?, molceva gli uòmini per via di strumenti con la  potenza della sua bocca, e anche oggi chi suona le com¬  posizioni di lui — perchè già quelle che Olimpo suonava  appartengono senz’altro a Marsia, che gliele aveva inse¬  gnate... e a buon conto le sonato di lui, o che le esegua  un abile flautista o una flautista dappoco, per essere  opera divina, valgono da sole a soggiogarci e farci sen¬  tire (fili prega gli dei e chi aspira ad essere iniziato. Ma  Il discorso, ohe Plutone la pronunziare ad Aloibiado, oltre ad essere  l’upplioozione pratica della toorlca bandita da Socrato, ohe ci ò cosi rappresentato domo l’amanto perfetto o il tipo vivente del filosofo, è assiri  probabilmente anche nn'ahilo o splendida difesa di costili contro lo maligno  insinuazioni d'nn sofista. Pollerato, cho in un ili,olio contro Socrate doveva  aver presentato sotto una luco tutt’altro olio favorevole lo relazioni d’AMICIZIA elio lutoroedovuno tra 11 maestro od Alclbiado. Questi Sileni orano, paro, una spedo d'armadi, riproducesti lo  fattozzo dei popolarissimi compagni di Dlóniso. e dovovano esseri, d’uno  certa capacita, so nell’intorno potevano contenoro parecchio statuette o  simulacri di numi. E 11 modo corno v'oeconna Aloibiado fa Intenderò ohe  dovessero essere assai noti o comuni !u Atene.Il satiro Murala, in origino un dio fluviale dell’Asia Minoro, inventore del flauto, flautista cccoUonte o maestro di Olimpo, a cui Alcibiade  accennerà fra poco, addò ad una gara musicalo Apollo olio suonava la cetra,  e, vinto dal dio, fu tratto fuori , della vagina dolio membra sue tu tu sei (li tanto superiore a lui, che senza bisogno di  strumenti con semplici parole ottieni questo medesimo  effetto. Difatti noi, quando udiamo qualche altro ora¬  tore sia pure eccellente, pronunziare degli altri discorsi,  non'ce ne interessiamo, per così dire, nè punto nè poco.   Ma ove qualcuno oda te o qualche altro, e sia pure il  più inetto parlatore, che riferisca le tue parole, o che le  oda una donna o un uomo o un giovanetto, no siamo  rapiti ed esaltati. Ed io, amici, se non temessi di pas¬  sare per ubriaco sino alle midolla, vi direi, e giurerei,  che sorta d’effetti ho risentito dallo parole di costui e  ne, risento tuttora. Giacche a me, quando le odo, ben  più che agl’invasati d’un fluoro coribantico, il cuore  ini balza nel petto e mi sgorgali le lagrime ai discorsi  di costui; e anche a moltissimi altri vedo che capita lo  stesso. A udir Pericle e altri oratori di grido dicevo tra  me e me: parlano benissimo; ma non risentivo nulla di  simile, nè la mia anima era messa a soqquadro, nè mi  attristavo di menare una vita da schiavo. Ma sotto i  discorsi di questo Marsia ch’è qui, ho provato spesso  l’impressione che non valesse la pena di vivere, vivendo come vivo. E questo, Socrate, non dirai che non sia  vero. E anche ora, non lo nego, ho coscienza che, a volergli prestare orecchio, non potrei resistere, ma risentirei  gli°stessi effetti. Giacché egli mi obbliga a confessare che,  con tante delìcenze che ho, trascuro ancora me stesso  per occuparmi delle faccende degli Ateniesi. E por a  viva forza, come dallo Sirene-, tappandomi gli orecchi,  mi sottraggo, fuggendo, per non invecchiare seduto  accanto a costui. E soto davanti a quest uomo ho provato quel sentimento, che nessuno sospetterebbe m me,  il sentimento della vergogna. Io, sì, ini vergogno soltanto  di costui. Perchè sento dentro di me di non potergli  contradiro, che non si debba fare quello a cui egli mi  esorta; ma poi, non appena m’allontano daini, ecco che  mi lascio vincere dalle lusinghe del favor popolare. I Gorlbntltl orano 1 sacerdoti della doa asiatica l’ibelu, elio o^si  'veneravano con nn colto orgiastico, nelle ani cerimonie erau presi da un  furore divino. Sicché lo evito e lo fuggo; e ogni volta che lo vedo, mi  vergogno d’aver# dato ragione. E spesso vedrei volen¬  tieri ch’egli non è più tra gli uomini; eppure, se ciò avve¬  rse, son certo che me ne dorrei assai dippiù, sicché di  quest’uomo non so addirittura che farmi.  Dunque, dalle sonate di costui, di questo   satiro qui, e io e molti altri abbiamo provato questi  effetti. Ora statemi a sentire com’egli e simile, anche pei  altri versi, a quelli a cui lo paragonavo, e come e meraviglioso il potere che possiede. Perche, siatene certi,  nessuno di voi lo conosce. Ma ve lo scoprirò io, dacché  mi ci son messo. Voi vedete che Socrate si strugge di  amore per i bei giovani, ed è sempre a loro dintorno,  e se ne mostra fuori di sé, e del resto ignora tutto e non  sa nulla. E non è da Sileno codesto? E come! Ma questa,  è l'apparenza, sotto cui s’è nascosto, come il Sileno scol¬  pito. Ma di dentro, aperto, indovinate voi, compagni  bevitori, di quanta temperanza è pieno? Sappiate che se  uno è bello, a lui non gliene importa nulla, ma lo disprezza,  quanto nessuno lo crederebbe; nè se è ricco, nè so ha  qualcuna di quelle dignità che costituiscono per la folla  il colmo della beatitudine. A tutti questi beni egli non  dà nessun valore, e nessuno a noi — ve lo dico io — e  passa tutta la vita a far dell’ironia e a scherzare alle  spalle degli altri. Ma quando fa sul serio ed è aperto,  non so se qualcuno ha visto i simulacri di dentro; ma io  li ho "visti una volta, e mi parvero così divini e aurei e  21? bellissimi e mirabili da dover fare senz’altro quel che  Socrate comanda. Infatti, credendolo preso davvero della  mia bellezza, stimai un guadagno e una fortuna meravigliosi che mi si offrisse il destro di far cosa grata a  Socrate e udire così tutto quello che egli sapeva, perchè  ero orgoglioso della mia bellezza, e in che modo! Con  questo in mente, mentre prima non ero solito di trovarmi  da solo a solo con lui, senza qualcuno che m’accompa¬  gnasse, d’allora in poi mandavo via il mio accompagna¬  tore e rimanevo solo con lui... giacché a voi devo dire  tutta la verità; ma voi state attenti, e se mentisco, tu,  Socrate, sbugiardami. Dunque, amici, rimanevo con  1ni solo a solo, e m’aspettavo eli egli mi tenesse subito  uel discorsi che un amante suol tenere con un amato  , rmattr’oeehi, e ne godevo. Eppure non avveniva nulla  m mesto: com’era solito, discorreva con me, e, trascorsa  tutta la giornata insieme, andava via. In seguito lo  invitai ad esercitarsi con me nella ginnastica e mi eserci¬  tavo con lui, illudendomi che così avrei raggiunto il mio  ‘ooo E infatti egli si esercitava e lottava con me, spesso  senz’alcun testimone. Ma che! non si faceva un passo.  Poiché nemmeno questa via spuntava, mi parve che con  nuest'uomo si dovesse venire ai ferri corti e non dargli  tregua dal momento che mi ci ero messo, ma vederci  chiaro in questa faccenda. Lo invitai così a cena con me,  tendendogli un tranello, proprio come un amante a un  amato. E sulle prime non volle neppure accettare; tuttavia, in capo a qualche tempo, s’arrese. Quando venne  la prima volta, finita la cena, volle andarsene, e pei  allora, vergognandomi, lo lasciai Ubero. Ma un alti a y >  fatto il mio 'piano, poiché si finì di cenare, Scorsi con  lui sino' a notte inoltrata; e quando egli voleva andai  via, col pretesto che- fosse tardi, lo costrinsi a rimanere  Egli riposava nel letto dove aveva cenato, accanto a  mio, e nella stanza non dormiva nessun altro ah infuori  di noi. Ein qui il racconto è tale, che si può faie in p  senza d’ognuno-, ma di qui in avanti non im sentireste  parlare, se in primo luogo, come dice il proverbio il i ino  e senza fanciulli e con fanciulli, non fossi veritiero, e poi nascondervi un tratto cosi superbo di   Socrate, ora 'che son qui per farine  un’ingiustizia. Ma c’è'di più: io sento ancora 1 effetto eli  prova chi è morso da una vipera. Porche, dicono,  ì’ha sofferto non vuol parlare del proprioa  ai morsicati, come i soli che sappiano « smn chsposri a  compatire tutto quello che egli e giunto a fare e dire  sotto la, sferza del dolore. Sicché io, morso da tintura  più dolorosa e nel punto più doloroso ni cui si possa   Da du^o luogo il provo.-t.io apparisco corno presente alla mente  il ’Aicibia.lo sotto lo ano formo, tra lo parecchie che so ne .-.coniano. .1.  oho £ ’ vi- e vorilA-, c olvo; xat *«ì8s C ™o   o fanciulli < sono > voritlorl ’.  esser morsi... ferito e morso nel cuore, e nell’anima, o  com’altro si voglia chiamare, dai discorsi filosofici che  son più cattivi d’una vipera, quando s’attaccano all’anima non ignobile d’un giovane, e gli fan dire e  fare qualsiasi cosa... E, del resto, in presenza d un Fedro,  d’un Agatone, d’un Erissimaco, d’un Pausania, d un  Aristodemo e d’un Aristofane... Socrate stesso a che- no¬  minarlo?... e txitti voi altri"? chè tutti siete posseduti dal  delirio e dal furore filosofico... e però tutti udrete, perchè  siete tutti in grado di compatire ciò ch’io feci allora e  vi dirò ora. Quanto a voi, servi, è se c’è altri pro¬  fano e rozzo, tiratevi delle porte ben grandi sui vostri  orecchi Poiché, dunque, amici, fu spenta la lucerna  e i servi andarono a dormire, mi parve che non fosse il  caso di ricorrere a raggiri con lui, ma di spiattellargli  francamente quel che sentivo. E, scotendolo, gli chiesi:  Socrate, dormi?   No, non dormo, rispose.   Ebbene, sai che cosa ho risoluto?   E che cosa? mi chiese.   Tu sei, ritengo, il solo degno d’esser mio amante,  e vedo che esiti a farmene parola. Ora io la penso cosi:  credo che sia una grande stoltezza da parte mia non  compiacerti e in questo e in altro, se hai bisogno delle  mie sostanze o dei miei amici. Per me, quello che soprattutto mi preme è di divenire quanto migliore io possa;  e in ciò, credo, non potrei trovare un collaboratore più  valente di te. Sicché a non compiacere ad un nomo  come te mi vergognerei ben più agli occhi delle persone  di senno, che non a compiacerlo, agli occhi dei molti  e sciocchi. Egli mi stette a sentire, e poi con quella  sottile ironia, che gli è propria od abituale, mi rispose:  Parto Alcibiade, tu risichi realmente di non essere un  dappoco, se mai è vero ciò che dici di me, e se c’è in  me un potere, per il quale tu possa divenir migliore. Tu avresti così scorto in me una bellezza irresistibile e La locuzione 6 tolta dal linguaggio del misteri.   ma molto superiore alla tua leggiadria. Cosicché,  scorgendola, tenti d’accomunarti con me e barat-  Mre beSa per bellezza, ti proponi di fare a mie spese  fca in (la ano tutt’altro che insignificante, anzi in lao„o   a-.o.!».™ 1. veri.» del teli» e  luisidi scambiare veramente ferro con oro (1). Ma, ~  beato- amico, rifletti meglio, se non t’inganni a partito  m conto mio. Bada: gli occhi della mente vanno diventando più acuti a misura che quelli del corpo per¬  dono del loro vigore, e tu sei ancora lontano da questo   momento. c iò, dissi: La mia idea è questa, e non   ho detto niente di diverso da quel che penso. Quanto  a te. considera quel che ti sembra il meglio nel tuo e nel   mio interesse. , Ma sì, ben detto! rispose. Difatti non mancherà tempo  per ripensarci e fare quel che ci parrà meglio nell inte¬  resse di tutt’e due, così in questa, come in ogm altra   faC Orario, dopo d’aver detto e udito queste parole e  avergli tirato quelle frecciate, lo credetti ferito. E levatomi dal mio posto e senza più dargli tempo di dir nulla,  gli gettai addosso il mio mantello, proprio questo qui  — era anche allora d’inverno — e nn rannicchiai sotto  la mantellina logora di costui, e gettate le braccia al  collo di quest’uomo veramente divino e meraviglioso, me  ne stetti a giacere accanto a lui l’intera notte. E nemmeno in questo, Socrate, dirai che mentisco. Ebbene  nonostante che io avessi fatto tutto questo, egli si mos r  di tanto superiore e tenne così a vile e sprezzò tanto la  mia bellezza e la vilipese a tal punto — eppure io credevo che qualcosa valesse, o giudici, perche voi ora siete  mudici della superbia di Socrate... ebbene ve lo giuro  per tutti gli dei e per tutte le dee, dopo d’aver dormito  accanto a Socrate l’intera notte, mi levai, nò piu uè meno,  che come se avessi dormito con mio padre o con un mio  fratello maggiore. Allusione al cambio dello anni tra Glauoo e Diomede: et.  sgR.  E dopo ciò, quale credete che fosse il mio  animo? Da un canto mi vedevo disprezzato, e dall'altro  ammiravo l'indole, la temperanza e la fortezza di costui,  che m’ero imbattuto iu un uomo tale, come non cre¬  devo mai di poter incontrare il simile per senno e per  forza d’animo. Cosicché non riuscivo nè ad adirarmi con  lui e rinunziare alla sua compagnia, nè a trovar la via  per attirarmelo. Ben.sapevo che al danaro egli era. da  ogni parte assai più invulnerabile che Aiace al ferro, e  solo mezzo, per cui credevo di poterlo prendere, m’era  sfuggito di mano. E così, a corto d’espedienti e asservito  da quest’uomo, come nessuno da nessun altro al mondo,  io gli giravo sempre dattorno.   Questi casi m'erano già seguiti, quando più tardi  facemmo insieme la campagna di Potidéa (1) ed eravamo  compagni di mensa. Ebbene, innanzi tutto, nelle fatiche  egli vinceva non solo me, ma anche tutti gli altri. Allorché,  220 in qualche luogo, come spesso capita in guerra, eravamo  costretti a patir la fame, gli altri, nel resistervi, appetto  a lui non valevano uno zero, mentre imi nei momenti  di scialo, era il solo che sapesse goderne, e senza esser  proclive al bere, quando v'era costretto, superava tutti,  e, cosa anche più sorprendente, non c’è nessuno che  abbia mai visto Socrate ubriaco. E di ciò penso che ne  avrete ben presto la prova. Quanto poi a sopportare il  freddo — e lassù i freddi sono terribili — faceva cose  inverosimili, e perfino a volte, mentre c’eran delle gelate da non si dire, e tutti o non mettevano il naso  fuori o si coprivano fino alla cima dei capelli e calza¬  vano scarpe e «'avvolgevano le gambe in feltri e pel¬  licce, costui, con un tempaccio di quella sorta, se n'u¬  sciva coperto della sua, mantellina abituale, e scalzo  camminava sul ghiaccio meglio degli altri calzati, e i  soldati lo guardava]) di traverso, perchè pensavano che  egli li disprezzasse.  Politica, colonia di'Corinto nella penisola ili Pallone, erti, albata  tlegli Ateniesi. Ma noi, con l'aiuto dei Corinti o di Perdlccn re ili  Macedonia, si ribellò, e non fu ridotta all'obbedienza, se non dopo una cam-  . rogna o un assedio E questi, non c’è che flire,    fatti.    Ma    quello -che poi fece e sostenne il fortissimo uomo (1)    ima volta, durante quella spedizione, mette conto  li-essere udito. Assorto in qualche pensiero stette in piedi  odo stesso posto a meditare sin dalle prime ore del  mattino, e poiché non ne veniva a capo, non si moveva,  ma rimaneva li fermo a meditare. Era già mezzodì, la  o-ente lo notava e diceva: rSocrate e li inchiodato a  Lunare da stamani per tempo. » Finalmente alcuni Ioni,  sopravvenuta la sera, dopo d'aver cenato — era d estate  — portaron fuori i loro pagliericci; e mentre si metteno a dormire al fresco, seguitavano a tenerlo d occino  per vedere, se ci fosse rimasto anche la notte. Ed egli  ci rimase fermo sino all’alba e allo spuntare del sole  poi fece la sua preghiera al sole e andò via.   Ora, se volete, nelle battaglie — perchè è giusto ren¬  dergli questo merito... quando avvenne quella battaglia,  in cui 1 generali dettero a me anche il premio del valore,  nessun altro mi trasse in salvo se non costui, clic non volle  abbandonarmi ferito, e salvò insieme e le mie armi e me  stesso. Ed io anche allora, Socrate, insistetti presso ì  generali, perchè il premio fosse attribuito a te, e in questo  non mi moverai rimprovero, nè dirai che mentisco, .a  poiché quelli, per riguardo alla mia condizione sociale,  volevano dare a me il premio, tu eri anche piu insistenti  dei generali, perchè l’avessi piuttosto io che tu. E ancora,  amici, degno di ammirazione fu il contegno di Socrate,  quando l’esercito si ritirò in fuga da Delio (2). Io cero  tra’ cavalieri, lui tra gli opliti. Nello scompiglio generale  egli S i ritirava insieme con Lachete (3). Io sopraggiungo,  e come li vedo, li esorto a farsi animo, e di coloro che non    il) È un verso omerico leggermente modificato; cf. Od. (2) La battaglia <11 Dello in Beozia, dove gli Ateniesi lurono sconfitti  dai Tolmuì, accadde noi 121 a. C. Era un bravo gonorate ateniese, di poco più vaccino di Scorato.  olio mori In battaglia nel US a. C. Da lui prose nomo uno doi dialoghi piatonici. Soli abbandonerò. E qui ammirai Socrate anche più che  a Potidea — giacché io stesso avevo meno paura, perchè  stavo a cavallo — in prima, di quanto egli fosse supe--  riore a Lachete per la padronanza di sè, e poi mi pareva  — mi servo delle tue parole, Aristofane — che egli cam¬  minasse lì come qui, con aria spavalda, gittando  gli occhi a destra e a sinistra (1), squadrando  calmo amici e nemici e mostrando chiaro a tutti, anche  di lontano, che se qualcuno lo avesse toccato, egli si  sarebbe difeso con la maggiore bravura. E così se n’anda via con gran sicurezza, egli e l’amico. Perchè quelli  che in guerra mostran questo contegno, quasi quasi non  li toccano neppure, ma danno addosso a chi scappa a  gambe levate.   ('erto, di Socrate ci sarebbero da lodare molti altri  lati, e non meno ammirevoli. Però d’altre qualità si può  forse dir lo stesso anche per altri, ma quel non essere  simile a nessun altro uomo, così tra gli antichi come tra’  presenti, questo è soprattutto ammirevole. Ad Achille,  per esempio, possiamo paragonar Bràsida (2) e qualche  altro, e Pericle a Nestore e ad Antenore  — e ce n’ò  parecchi — e così potremmo trovare dei confronti per  altri. Ma un uomo che sia stato per originalità come  costui, e lui e i suoi discorsi, nessuno non lo troverebbe  nemmeno a un dipresso, per quanto cercasse, nè tra i  presenti, nè tra gli antichi, a meno che non lo paragoni  a quelli che dicevo, a nessun uomo, ma ai Sileni e ai  Satiri, lui e i suoi discorsi. Giacché, a proposito, anche questo ho  dimenticato di dirvi da principio, che anche i suoi discorsi  sono in tutto simili ai Sileni che s’aprono. Infatti, se uno  volesse prestare orecchio ai discorsi di Socrate, gli par-    (1) Allusione al v. 362 delle ‘Nuvole’.  Brasida, morto in una famosa battaglia, nella quale inflisse uno terribile rotta affli Ateniesi presso Anflpoli,  colonia attica sullo Strimone in Tracia da lui tolta ai suoi fondatori, fu  uno dei più eroici e maffnanimi generali spartani.   Antenore, eroe troiano, che ai distingueva per la sua prudenza,  come per prudenza c valore si distingueva Nestore tra’ Greci. rebbero addirittura ridicoli a prima giunta; tali sono le  parole e le frasi di cui si rivestono, pelle di satiro burlone:  non discorre che d’asini da soma e di fabbri e di calzolai  e di conciapelli, e par che dica sempre le st-esse cose con  le stesse parole, sicché qualunque persona ignorante e  sciocca può ridere dei discorsi di lui. Ma chi per caso li 222  veda aperti e vi s’addentri, prima di tutto li troverà i soli  discorsi che entro di sé abbiano una mente, e poi divi¬  nissimi e pieni d’innumerevoli simulacri di virtù, ten¬  denti ad altissimi fini, o, per dir meglio, tendenti a tutto  quello a cui deve mirare chiunque voglia essere un uomo  veramente ammodo.   Questo, amici, è il mio elogio di Socrate. E d’altronde,  mescolandovi anche le accuse, v’ho detto in che egli mi  offese. Del resto egli non s’è condotto a questo modo  soltanto con me, ma e con Càrmide di Glaucone e  con Eutidemo di Diocle e con moltissimi altri, dei  quali si fingeva l’amante, e ne divenne piuttosto 1 amato.   E perciò appunto avverto anche te, Agatone, di noli  lasciarti abbindolare da. costui, ma, ammaestrato dai  nostri casi, sta’ in guardia e non imparare, secondo il  proverbio, come uno sciocco, a proprie spese. Quando Alcibiade finì di discorrere  tutti, al dire d’Aristodemo, scoppiarono in una grande  risata per la franchezza di lui, chè si mostrava tuttora  innamorato di Socrate. E Socrate osservò: Alcibiade, tu  non sei, mi pare, niente affatto ubriaco, altrimenti non  avresti potuto, rigirando con tanta abilità il tuo discorso,  nasconder lo scopo di tutto quello che hai detto, e che  hai poi accennato di straforo -in fine di esso, quasi che  non avessi parlato unicamente per questo: pei metter  Càrmide ora zio di Platone dal lato materno. Nel dialogo intito¬  lato da lui cl 6 dipinto corno bello dolio persona e d’animo aperto agli studi  filosofici. Aristocratico o partigiano doll’orìstocrazia, cadde nel. combat-  tlmonto ia seguito al quale fu rovesciato il governo del Trenta tiranni.   (2) Eutidemo di Diodo ora un giovano ammiratore di Socrato da non  confonderò col solista omonimo da cui s’intitola un dialogo platonico.   (3) Aeoonno ad un proverbio olio troviamo gu\ sotto varie forme in  Omero e in Esiodo.     male tra ine e Agatone, perchè ti sei fitto in mente che  io devo amare te e nessun altro, e Agatone dev essere  amato da te e da nessun altro. Ma ti sei tradito, e tutti  hanno visto a che mira codesto tuo (trama satiresco e  silenico. Senonchè, caro Agatone, procuriamo che egli  non se ue giovi punto, ma fa’ in modo che nessuno metta  male tra me e te.   E Agatone: Socrate, in fede mia, hai ben ragione, mi  pare. E lo argomento dal fatto ch’egli s’è venuto a sdraiare  in mezzo tra me e te per tenerci separati. Ma non ne  caverà nulla, anzi io verrò a sdraiarmi accanto a te.   Benissimo, rispose Socrate, vieni qui, alla mia destra.   O Zeus, disse Alcibiade, che mi tocca di soffrire da  quest’uomo! Vuol sempre e ad ogni costo sopraffarmi,  ila, se non altro, mirabile uomo, lascia che Agatone resti  almeno fra noi due. Impossibile, riprese Socrate. Tu hai lodato me, io,  a mia volta, devo lodare chi mi sta a destra. Se Agatone  si sdraierà dopo di te, non dovrà egli lodare nuovamente  me piuttosto che esser lodato da me? Ma via, non insiste, divino amico, e non invidiare a questo giovane  le lodi che voglio farne, perchè sono impaziente di tes¬  serne l’elogio.   Ahi! Ahi! Alcibiade, disse Agatone. Non c’è verso  che io resti qui; cambierò posto ad ogni modo per avere  le lodi di Socrate.   Ed eccoci alle solite! Dov’è Socrate, è impossibile  che un altro goda delle belle persone. Vedete ora che  pretesto opportuno e plausibile ha saputo trovare, perchè  Agatone vada a mettersi accanto a lui! A questo punto, dunque, Agatone si  levò per andare a sdraiarsi a lato a Socrate. Ma, ad un  tratto, ima numerosa brigata di nottambuli avvinazzati  giunse davanti alla porta-, e trovatala aperta, perchè  qualcuno era uscito, si cacciò nella sala e prese posto  a tavola. Allora il chiasso divenne incredibile, e tutti,  senz’alcuna regola, furon costretti a bere disperatamente.  Erissimaco, Fedro e qualche altro, diceva Aristodemo,  andarmi via; egli fu preso dal sonno, e rimase un gran     perché le notti eran lunghe, ne S1  tratto a do ’ . « oa nto dei galli. E destatosi,   *-*• " TJu .o „ se no er.no andnft  «de elio h U ‘ ^tofane e Socrate rimanevano au-  soltanto Agatone, AJq ^ ^ verg0 destra, da   coni desti , So ’ ora te discorreva con loro. Di che   una gran donassero, Aristofane non ricordava Costi > c qonneòchiare, e prima cadde addormen  cominciarci < ,, minutar del °iorno, Agatone.   iiiiSBESii   naia e «Topo, siiinmbrunire, tornò a casa a riposare.   uno dei   " aeiia oitu ° 8oelto   più tardi da Aristotele a sede della sua scuola.  rz„thvohro. Apologià, Crito, Phneilo (K. Bonghi) . .   l Mn t O i »e- 0 ; 0 I ? n ^ P 0 hnni sulla vita d, Platone .> 0 I»   '£..fed5sicr-.tè » n   " il Fellone • • • ent ,; r ii, curante H. Ottino 1 20   ® e “*^®ffTni CÌr ° ‘ An “ b “ i ‘ “ •" K,l ”. SI; . . > 2 40   Libri IV, V, ' 1 .> 0 75   Li ber > Al Jri rimedia), curante H. Ottino.> H Institut.o Cyrt^C P c 1 q uìi i h (prossima pubblio a zwnt).   - 11 Gerone, e cor» Colon0i ourlHÌt e E. De March. . ®   Sofocle* “Tt? ì>e Marchi).   1 S°Cchtnie?curante S.  Traduzioni di Autori Latini. V Enitalamio per le nozze ili 'fetide c l'eleo. Carme 1.X1V.   Catullo 0. v Ri ‘moento e traduzione poetica di 1. Gironi ... L. 1 20   'lesto latino, c.i J _ p 008ie scc lte voltate in prosa italiana, cor-   Catullo, libali»^ Vtoerzo i Se00 „da edizione. .  o0   redato di noto da/-.. „ uorro gallica e civile volg.,nauti da   CM ‘ te c-Ugoni SS bmg;.aifchc e sferiche per cura di G. Pinzi   _ commentari sulla guerra gallica ... .>   _ Commentari “ u R“XTett£e piti 'comunemente studiate negli istituti __  “""“•Soi."Traduzione di VzfcUhcorredata   ^TnSi’eJ'rivcdut’a'mi cmeUita suil’ediz. Tei.tiiicriuna da T. Gironi ( _   Dei Doveri (gli Uiìzi) .*.> ‘2 —   La Vecchiezza e l’Amicizia  a- x g Pollini . • • > 1 “  Scinione. Testo eversione pe cu Il «agito cU^o^iono T^to e g-   - L’orazione a difesa di T. A., a Capitani ; traduz. e noto di Z. Canni >   Cornelio N. - De vite degli eqooULnn C 1 t ^ ^ note storiche, lllolo-   Fedri). — Favole voltate in lingua la"™! .1 . s , edizione . . . • >   gicl.e, geografiche e mitologici e da Atm rm^ Q ^ . . . >   - Le favole nuovo recate in v( ;^ 1 (la o. L. Mabil:   Livio T. — La Storia romana, tradotta na .>   l,ibri I-H riveduti da T. Gironi.  da !.. Andreozzi. {In ristampa)- fji r0 „i. con note. >   1 Fasti; volgarizzamento poetico d. i. . , Ut    £ UMli; . • ‘ tro ; nionotu. 'lesto latino e traduzione   to^A.-Trin»mmu8V\T* , ; • ‘.V sia,«nini *.    "«uiBnao scoile; ioni»» w   Tibullo. Catullo e Properaio. a 0 . /   Vrtw.5-C? , S? , !h SSutS"., 1 . K«1J«   * «* Le imprese di AU-h-u» 1 poetico d. f. Girci,. e >   viratila p m 1,11 Buoolieu ; '•o'K,n,fAf“"' i r s ., lix | 0 n>- 1 ; fllnlnma 0 dhltterpi ih    rtó di' opere e ani   Lm-iiif. (tradotta da Caro) coti not' • n ftr bone  gariz/iuneuti di Virgilio, u cura «li * PARAVIA & C. Traduzioni di Autori Greci  Aaaertonle ed Anacreontiche. — Traduzione letterale con riguardo alla co-*   struzione-o brevi note per 01. Aurenghi: Edizióne espurgata L. 0.80  Demostene — Le tro Orazioni contro Filippo; traduzione letterale con ri- J._  guardo alla costruzione o note per Ol. Aurenghi Lo Olinticho; traduzione letterale italiana con riguardo alla costruzione   o note per 01. Auronghi.. .  Kschllo. — Le Eumenidi, dramma. Traduzione letterale con riguardo   alla costruzione 0 uote di 01. Aurenghi.> 1 60   Esiodo. — Le opere e i giorni. Traduzione di C. Mazzoni ( jìroasima pub¬  blicazione).   filala. — Eo Orazioni contro Eratostene c contro Agorato; traduzione lct-   teralo con riguardo alla costruzione e note poi 01. Aurenghi .  j j0 Orazioni: per un cittadino uccusuto di moueoligar-   chiche — Fer un invalido; traduzione letterale, coti riguardo alla co¬  struzione, e note di Ul. Aurenghi. Omero.Canto VI dellTliado; colloquio di Ettore e di Andromaca. Traduzione e noto per 01. Aurenghi.> 0 60   Iliade; canto I, La peste - L’ira. Trad. letterale e noto per 01. Auronghi > 0 60  Odissea ; canto I, Concilio degli Dei - Esortazione di Atena a Telemaco. Traduzione letterale e note per Ol. Auronghi .L’Odissea tradotta da Pimientonte, con note di X. Festa.> Platone. I dialoghi. Nuovo volgarizz. di GL Me ini, con argoiuonti e note:  Il Olitone, ossia dello azioni l in ristampo,). L’Eutitxom, ossia del Santo. Apologia di Socrate.> Fedone, OEsìa della immortalità dell’amiPft.>  Il r elione. Ubala uuiiu mimui imiia ucii ... Il Critone; traduzione letterale italiana con riguurdo alla costruzione    o noto per DI. Auronghi.Apologia di Socrate; traduzione letterale, italiana con riguardo alla costruzione e noto per 01. Aurenghi.v ..Fedro,Traduzione di Martini. Il Convito. Traduzione di Martini. Senofonte. Anabasi 0 spedizione di Ciro, traduzione di Aaibrosoli   Mollnori Mi —; Brani scelti di poemi omerici è dólPErieide nelle migliori   iitO/lllTt/ln! I Kt I  r. i\ » biuuufiiuin immilli! .. 1 Oi*j   “* Crestomazia degli autori grooi e latini nelle migliori traduz. italiane . > lo —;   Botiertl'G,  La eloquenza greca. Vita ili Pericle. Epitomo, nigonmuto © noto Vita di Usila. Apologia  prr l uccisione di Eratostonn, argomento e noto. Orazione contro Erntostono,  argomento © noto Orazioni» contro AvÀrnth nmninanfi. 1» nnit> — vii» ft’Tsn, AUMENTO. Carlo Alberto Diano. Carlo Diano. Diano. Keywords: errante dalla ragione, emendato, il segno della forma, il simposio ovvero dell’amore, Mario l’epicureo – homosocialite – forma, segno, convite, Orazio, Virgilio, filosofia roma antica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Diano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Dicante: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Grice e Dicerco: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), a Pythagorean.

 

Grice e Diconte: la setta di Caulonia -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Grice e Dima: la setta degl’ottimati -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico a Pythagorean.

 

Grice e Diocle la setta degl’ottimati -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotona). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean – one of those who left Italy when the Pythagorean communities there came under attack. According to Diogene Laerzio, a pupil of Filolao di Crotona and Eurito di Taranto.

 

Grice e Diocle – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). Filosofo italiano. Pythagorean. Giamblico.

 

Grice Diodoro: l’orto di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Gardener. He committed suicide in a state of contentment and with a clear conscience, according to Seneca.  

 

Grice e Diodoro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano. He writes a history of the world that largely survives. The Library of Hstory is a valuable source of information about the thought of antiquity. Ed. C. H. Oldfather. Diodoro Secolo. Diodoro.

 

Grice e Diodoro: rettorica filosofica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Suda, a philosopher and the son of Polio Valerio. He wrote on rhetoric. Diodoro Valerio. Diodoro.

 

Grice e Diodoto: il portico di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Member of the Porch, tutor of Cicerone. He lives in Cicerone’s house. He dies there and leaves Cicerone all his property.

 

Grice e Diogene: il portico a Roma – filosofa italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. One of a deputation to Roma – with Carneade and Critolao – before the Senate. Thanks to the lectures he gives during his Roman holiday, many Romans became interested in the Porch for the first time.

 

Grice e Dione: l’orto di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He appears to have been a follower of The Garden with whom Cicerone was acquainted but for hom he had little time or respect.

 

Grice e Dione: il principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Cristostomo – Cocceiano – Taught at Rome, became a philosopher thanks to the influence of Musonio Rufo. According to Flvio Filostrato, he was acquainted with Apollonio and Eufrate. One of his pupils was Favorino. He was banished from Italy by Domiziano.

 

Grice e Dione – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Philosopher. He was honoured by a statue in Rome.

 

Grice e Dione: all’isola – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. A friend of Plato for years. He had an erratic political career, sometimes seeking or managing to rule Syracuse either directly or through others, sometimes in exile. During one of his periods in exile he stayed at the Accademia. He was eventually assassinated.

 

Grice e Dionigi: l’implicatura conversazionale intorno al Cratilo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Barletta). Filosofo italiano. Grice: “I like Dionigi; for one, he wrote on Cratylo, which I love!” – Grice: “In Plato’s Cratylo there’s possibly all the vocabulary you need to understand Peirce! As if Plato foreshadows C. W. Morris!” -- “Postmodern Italians like Donigi, and they created a cocktail in his honour! His philosophising on Socrates philosophising with Cratilo on semeiosis proves Whiteheads’s dictum that all pragmatics is footnotes to Grice, and all Grice is footnotes to Plato!” Si laurea a Barletta. Il suo primo saggio, sotto Althuser, Bachelard. La "filosofia" come ostacolo epistemologico. Insegna Bologna. Centrale, nella sua riflessione, e Nietzsche (Il doppio cervello di Nietzsche), analizzato sia in chiave ermeneutica che logico-filosofica. Anche Bataille e un lucido bilancio di Marx ("L'uomo e l'architetto”). Il processo di ripensamento della sinistra italiana lo vide di nuovo impegnarsi in prima persona. Si accostò poi alla filosofia analitica e alla svolta "linguistica", vista come approfondimento della critica della metafisica. Le saggi si concentrano sull'ermeneutica ("Nichilismo ermeneutico”), sulla semiotica, segnatura, semantica antica (Nomi Forme Cose. Intorno il “Cratilo” di Platone) e soprattutto sul pensiero di Wittgenstein (Definite descriptions – descrivere -- La fatica di descrivere. Itinerario di Wittgenstein nel linguaggio della filosofia), del quale condivideva pienamente l'esigenza di ripensare il linguaggio (segnatura) come la "cosa stessa" della filosofia.  “Cocktail Dionigi” e un documentario contenente testimonianze di alcuni dei maggiori pensatori italiani su Dionigi, tra i quali Berardi, Bonaga, Picardi, Eco, Cacciari, Marramao.  Altre opere: Bachelard. La "filosofia" come ostacolo epistemologico, Il doppio cervello di Nietzsche, Bologna, Cappelli Editore, Nomi Forme Cose. Intorno al Cratilo di Platone, La fatica di descrivere. Itinerario di Wittgenstein nel linguaggio della filosofia: “Un filosofo tra Platone e il bar” – cf. Speranza, “Grice: un filosofo tra Aristotele e il pub”.  su ricerca.repubblica, Cocktail Dionigi.  The development of Plato’s “Cratilo”. Commentaries on the Cratilo nella filosofia romana antica. Cicerone e il Cratilo. Κρατύλος -- Sulla correttezza -- dei nomi. Personaggi: Socrate, Cratilo, Ermogene. Il Cratilo è un dialogo di Platone. In esso è trattato il problema del linguaggio, o meglio, della “correttezza” -- dei nomi o espressioni. Protagonisti del dialogo sono Socrate, Ermogene e Cratilo.  La maggior parte dei filosofi concorda sul fatto che venne scritto principalmente durante il cosiddetto periodo di mezzo di Platone. Incontro tra Socrate, Ermogene e Cratilo. Formulazione del problema e delle due tesi sulla ‘correttezza’ – corretto – lo corretto – di una espressione o nome. Socrate incontra Ermogene e Cratilo, che stanno discutendo attorno al problema del ‘corretto’di una espressione e viene messo a parte da Ermogene delle teorie di cui sono sostenitori. Cratilo afferma infatti che una espressione e “per natura” – physei -- ossia rispecchia realmente il reale; Ermogene crede invece che l’espressione e non naturale, ma arbitrario (lo naturale, physikos; l’arbitrario – thetikos --. deciso dall’uso e dalla convenzione.  Confutazione della tesi di Ermogene: Una espressione racchiude in sé qualcosa della cosa (il reale) a cui si riferisce. Socrate comincia a confutare la tesi di Ermogene, mostrando che una espressione non e solo convenzioni, ma anzi rappresentano un qualcosa della cosa o del reale a cui si riferiscono; contiene cioè una qualche caratteristica che la rende perfetta nell'adattarsi alla cosa descritta. Lo dimostra il fatto che esistono un discorso vero e un discorso falso. Poiché l’espressione (A, B) è parte del discorso (A e B, S e P), è evidente che l’espressione utilizzata nel discorso vero deve essere ‘corretta’. Quella usata nel discorso falso non lo e. Colui che ha deciso l’espressione, il legislatore, uomo sapiente (the master) ha infatti rivolto la sua attenzione all' ‘idea’ o concetto (implicatum) dell’espressione, adattandolo poi a questa o quella necessità descrittiva, adoperando sillabe e lettere differenti. Il legislatore crea una espressione solo corretta, basandosi proprio sulla natura della cosa, del reale.  Ha qui inizio una sezione etimologica. Vengono presi in considerazione l’espressione di dèi come “Tantalo” e “Giove” e viene parallelamente sviluppato un eguale ragionamento sull’espressione delle qualità dell'uomo, come l' “anima” o il “corpo”. In seguito si passa ad analizzare il ‘corretto” dell’espresione degli astri, dei fenomeni naturali. Il ragionamento si dilunga sulle qualità morali dell'uomo. Il corretto di una espressione si misura in base al corretto degli elementi che lo compongono, le fonemi Dopo questa disquisizione Socrate spiega ad Ermogene che l’espressione fino ad adesso analizzato e una espressione composta (complexus). Questa  caratteristica di essere un compost (complexus) la rende suscettibili di un'ulteriore indagine: quella degli elementi che lo compongono, come le fonemi. Le fonemi, o, più in generale, l’elemento morfo-sintattico che forma l’espressione (“Fido is hairy-coated”, Fido was hairy coated, Fido and Rex ARE hairy coated – l’espressione, deve infatti riprodurre l'essenza della cosa, del reale, giacché è al reale che si riferisce. Inizia qui l'analisi di alcune fonemi come rho e lambda. Cratilo si oppone a questa tesi di Socrate. Sostiene che una espressione è sempre giusta, corretta, propria, vera, perché è della stessa natura delle cose che descrive. Una sbagliatura non è una espressione. Socrate comincia a confutare la tesi di Cratilo. Non è possibile infatti dire che l’espressione e il reale a cui si riferisce siano la stessa cosa. L’espressione “Fido is hairy coated” e il fatto che Fido is hairy coated e proprio hanno qualcosa in comune, così come un ritratto di Alcebiade racchiude qualcosa d’Alcebiade che reproduce. Tuttavia non sono due cose uguali. Se si ammette questo fatto (e Cratilo, seppur poco convinto, lo fa) bisogna allora ammettere anche che esistono sbagliatura e l’espressione corretta, vera, giusta. Del resto un ritrattista può nelle intenzioni riprodurre Alcebiade e poi essere dissimile. Cratilo contesta ancora a Socrate il problema della conoscenza tramite il linguaggio. Se l’uomo conosce e apprende il reale attraverso l’espressione, è evidente che non potrebbe esistere nessuna conoscenza se l’espressione non fosse corretta, vera, giusta, propira, cioè se l’espressione non fossero della stessa natura delle cose. Socrate sostiene allora che un legislatore, all’adopere una espressione, non è detto che avesse un'opinione giusta corretta vera del reale. Il legislatore infatti non poté apprendere attraverso l’espressione, perché ancora non era stata inventata (cf. muon). È possibile allora che abbia fatto dell’errore e ciò è dimostrato dal fatto che una espressione puo non essere corretta, giusta, vera – atomo, anima, ecc. Esiste un modo migliore per conoscere: non attraverso l’espressione, ma attraverso il reale; solo il reale puo non essere contraddetto, mentre l’espressione si presta a molteplici interpretazioni. La possibilità di una conoscenza (opinione vera e giustificata) e del corretto dell’espressione risiede nella stabilità del reale. Poiché la natura è stabile, e rimane sempre uguale, allora è possibile denominarla con precisione. Cratilo si mostra poco convinto e alla fine si allontana da Socrate insieme ad Ermogene. Ermogene simboleggia la concezione sofistica del linguaggio. Per il sofista, a partire dal italico Protagora, se “l'uomo è misura di tutte le cose”, ogni tipo di espressione si adatta a seconda delle condizioni poste dall'uso. L’espressione “Fido is hairy-coated” è puramente arbitraria – convenzionale. E possibile che non c'è nulla in comune tra una espressione ed il reale (traspassa la fase iconica). Tuttavia l'uso comune fra il mittente e il recettore ha permesso quest'accettazione (arbitraria da parte del mittente) e si reputa ‘corretto’ spiegare che Fido è ‘hairy-coated (shaggy)’. Tuttavia ugualmente bene andrebbe l’espressione "scoiattolo" o "cicala" giacché non sussiste nessuna somiglianza tra l’espressione (“shaggy”) e il reale (hairy-coatedness).  Cratilo simboleggia invece la concezione naturale (pre-iconica) della communicazione. Esiste un'assoluta identità tra espressione e espressum, explicatura ed explicatum, implicatura ed implicatum, profferenza e profferito. L’espressione è vera sempre, perché racchiude in sé la stessa natura che pervade il reale segnato per il segno che e primariamente iconico. Ogni espressione è un “indizio” (index, traccia, segnale) di conoscenza, di una conoscenza meravigliosa, divina, quasi sacrale. Il segno è giusto perché il primo legislatore a segnare il segnato fu come un dèo che, essendo perfetto, assegna un segno (fa un segno – significa) perfetti al segnato. Una sbagliatura non e un segno; Non tutto e un segno --.  Platone fonda la sua concezione della communicazione sull'ontologia. Per Platone è immediatamente evidente che esista un segnato al di fuori del segno; è il segnato stesso a cui il segno si riferisce. Bisogna infatti che esista un segnato perché esista una segnabilita. Senza questo segnato, senza quest'essenza, rimarrebbe inutile segnare, giacché non si dovrebbe indicare “nulla” con il segno, perché non ci sarebbe nulla da indicare. Platone allora comincia dal Cratilo ad elaborare una teoria dell’idea immutabile: di un'essenza stabile nella natura, che rimanga uguale ed inalterata nel tempo e che renda valida la segnabilità. Più volte Platone fa riferimento alla figura del legislatore e a quella del dialettico. La figura del legislatore è la figura di colui che adopera il segno per riferirsi al segnato. Si utilizza il termine legislatore in senso molto ampio, intendendolo sia come uomo sia come divinità, secondo la concezione naturalistica di Cratilo. Tuttavia si è visto come Socrate alla fine dubiti della infallibilità del legislatore, poiché egli ha assegnato anche un segno errato. La figura del dialettico rappresenta invece la nuova concezione del linguaggio elaborata da Socrate. Secondo Cratilo non esiste altra conoscenza al di fuori del segno. Platone invece è convinto che la vera conoscenza sia al di là del segno, nell'essenza stessa del segnato. Se il legislatore è colui che crea il segno sulla sua opinione riferendosi alla natura del segnato, il dialettico conosce il segnato e in maniera approfondita e, di conseguenza, sa quale segno attribuire al segnato (H2O). Tale segno (H20) sarà per forza corretto. Genette, nell'opera Mimologie. Viaggio in Cratilia, parte dal discorso di Platone per argomentare l'idea di arbitrarietà del segno. Secondo questa tesi, sostenuta da Grice con il suo “Deutero-Esperanto” e il nuovo “High-Way Code”, il collegamento tra il segno e il segnato non ha necessita di essere naturale (“A segna che p” no implica “p”). Le idee sviluppate nel Cratilo, benché datate, storicamente sono state un importante punto di riferimento nello sviluppo della prammatica. Sulla base del Cratilo Licata ha ricostruito, nel saggio Teoria platonica del linguaggio. Prospettive sul concetto di verità (Il Melangolo), la concezione platonica della semantica, in base alla quale il segno avrebbero un legame naturale, una fondatezza essenziale, col loro segnatum.  Sedley, Plato's Cratylus, Cambridge. Bibliografia ̈ Ademollo, ‘The Cratylus of Plato. A Commentary’, Cambridge.. Gaetano Licata, Teoria platonica del linguaggio. Prospettive sul concetto di verità, Genova: Il Melangolo, Luigi Speranza, “Platone e il problema del linguaggio” seminario. Lettura e commentario di testi di filosofia antica. testo completo in italiano e lingua greco antico. Traduzione integrale del Cratilo su filosofico.net, su intratext.com. Il testo greco presso il Perseus Project, su perseus.tufts.edu. Sedley, Plato's Cratylus, in Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Bibliografia su Cratilo. Dialoghi di Platone I tetralogia Eutifrone Apologia di Socrate · Critone · FedonePlato-raphael.jpg  tetralogia Cratilo · Teeteto · Sofista · Politico III tetralogia Parmenide Filebo Simposio (o Convivio) Fedro tetralogia Alcibiade primo · Alcibiade secondo Ipparco Amanti V tetralogiaTeage · Carmide · Lachete · Liside VI tetralogia Eutidemo Protagora Gorgia Menone VII tetralogia Ippia maggiore Ippia minore Ione Menesseno VIII tetralogia Clitofonte La Repubblica Timeo Crizia IX tetralogia Minosse · Leggi · Epinomide · Lettere Opere spurie Definizioni Sulla giustizia Sulla virtù Demodoco Sisifo Erissia Assioco AlcioneEpigrammi. Linguistica Categorie: Dialoghi platonici CRATILO VEL DE RECTA NOMINVM RATIONE: TRANSLATVS FICINO (si veda) ad Petrum Medicem uirum clariſſimum. A MARSILIO ec HERMOGENES. CRATYLVS, SOCRATES. Is igitur sermonem nostrū et cum hoc Socrate conferamus: CRAT. Vo: Io equidem, si tibi uidetur. HER. Cratylus hic ô Socrates, rebus singulis ait natura inesse rectam nominis rationem, neqid esse nomen, quod quidã ex constitutione vocant, dum vocis suæ particulam quandā pronunciat, sed rectam rationem aliquam nominū & græcis et barbaris eandé omnibus innatam. Percontor itags ipsum, num revera Cratylus sit eius nomen. Ipfe fatetur. Socrati vero quod nomen, inquam: Socratesait.Nónne cæteris omnibus,inquã,id eft nomen quo quenquocamus.Illenõ tibi tamen ait Hermogenes nomen eſt,nec etiã ſi omnes homines teita uocarint. Dumýobfecro ut ſciſcitanti mihi quidnamdicat aperiat, nihil prorſus declarat, sed me ludens, simulatſeſe aliquid uerſareanimo,quali nõnihil hac de re intelligat,quod li uellet exprimere,cogeret meidipfumfateri,eadēý dicere quæ ipſe dicit. Quamobrem libenter ex te audirem, siqua ratione Cratyli uaticiniâ potes conījce se.libentius tamen fencentiam tuam denominum rectitudine,fiquidem tibiplacet,audi rem. soc. Hipponici fili Hermogenes,ueteriprouerbio fertur. Pulchra eſſe cognitü Prouerbia e difficilia.Atquiilla nominū notitia haud parua res eft.Equidem ſi ex Prodico illa quin quaginta drachmarum demonſtrationě iam olim audiffem, in cuius traditione etiã hæc inerant, ut ipſeteſtatur, nihil prohiberet quin tu ſtatim nominū rectitudiné intelligeres. cam porrò nun audiui, fed illamdrachmæunius duntaxat. Quare quid in his uerû ſit, neſcio,inueftigare autem tecum ſimul &cum Cratylo paratus ſum.Quodautem dicit ti bi noneſſe reuera nomen Hermogenes,quod à lucro dicitur, mordetteputo quaſi pecu niarum auidus ſis, & impos uoti. Verum,ut modo dicebam, diſficilia hæc cognicu ſunt. Oportet autem rationes utring in medium adducendo perquirere,utrum ita sit ut dicis ipse, an potius ut Cratylus ait. HER.Enimuero ô Socrates,licet frequenter cum hoc cær terisc permultis iam diſputauerim,nondum tamen perſuaderimihi poteft aliã eſſe no minisrectitudinem, conuentionemipfam conſenlionemě.Mihi quidē uidetur quod cungnomen quis cuig imponit, id eſſerectů.Acſi rurſus comutat,aliudó imponit, ni hilominus o primum, quod illi ſuccedit nomen rectấexiſtere, quemadmodüſeruis no mina cómutare solemus: nulli quippe rei natura nomē ineſſe,fed lege &uſu illorum qui fic uocare conſueuerunt.Quod quidem ſi aliter ſe habet,paratus ſum non à Cratylo tan tum,uerumetiã àquouis alio diſcere ac audire.soc.Forte'aliquid dicis Hermogenes: Conſideremusitap. quodcũq imponit quis cuinomen uocato, id illi nomen effe af feris:HER.Mihi ſane'ita uidetur. Soc. Et ſiue priuatus uocet, ſiue civitas. HER. Affero. soc. Quid vero si ipſerem aliqua vocem, veluti fi quem nunc hominem vocamus, ego “equum” nominē, quem'ue equum, hominē: publice quidem erit eidē homo nomen, pricatim “equus”, &priuatim rurſus homo, publice “equus”. Ita loqueris: HER.Ita uider.soc. Diciterum num aliquid nuncupes vera loqui, aliquid loquifalſa.HER. Equidem. Soc. Nónne illa quidem uera erit orario,hæcaūtoratio falſa: HER.Ita prorſus. So c.Illa uero Quæ oratio oratio quæ existentia dicit ut exiſtűt, vera est,quæ ut no exiſtűt, falsa: HER.Certe. soc. uera, quæ Est autem hoc,oratione,ea quæ ſunt, & quæ non ſunt,dicere?HER.Idipfum.soc. Ora- falfa cio quæ uera eſt,utrum tota quidem eft uera,partes non uerærher. Imò&partes ueræ. soc. Vtrữ partes magnæ ueræ,exiguæ uero particulæ fallæ,an ueræ ſunt omnes. HER. Omnes arbitror. soc.Habes orationispartem aliquã minorēnominer HER.Nequaç, Orationis hęceſ pars minima.so c. Et NOMEN quidē hoc pars orationis ueræ.H ER.Proculdubio. pars minio soc.Pars utiq uera,utais ipſe. HER.Vera.soc.Pars autem falfa.HER.Aio. soc. Licet ma eſt nos ergonomen uerű, & nomen falſum dicere, fiquidē & orationem.HER. Quid prohibet, men soc. Quod quis cuiq nomen esse ait,id & cuiq; nomen eft? HER. Idipſum. soc. An etiam quotcungquis nomina cuique tribuit,totidem erunt:ac etiam quandocuno tri buit HERM. Haud equidem habeo Socrates, aliquam præter hanc nominis rectitudinem am rerum ipſas effe dinens, ut uidelicetliceat mihi quidē alio rem uocare quodipfe impoſuinomine,tibiay tem alio quod tuimpoſuifti. Ita equidem in ciuitatibus uideo eorundem ppria quædam haberinomina, & Græcis ad alios Græcos, & Græcis ad Barbaros. soc. Animaduerta. Mus Hermogenes,utrum resipilaita se habere tibiuideantur, utpropria rerum apudu Sententia numquenq effentia fit, quemadmodum Protagoras tradidit: rerum omnium dicens ho Protagoræ minem effemenſuram, ita ut qualiamihiquæq uidentur,talia & mihiſint: item qualiad circa eflenti big& tibi talia. An potius quædam eſſe putes, quæ effentiæ ſuæ quandã habeant firmita rém.HER.QuandogóSocrates,dubitansad hæc deductusfum, quæ tradit Protagoras. Ita tamen effe haud fatis mihi perſuadeo.soc. Nunquid & ad hoc aliquando es dedu ctus, ut tibinequaquam uideretur aliquem eſſe hominem omnino malum: her. Non per louem.imò fæpenumero ita fum affectus,utexiſtimarem hominesnonnullosomni nomalos effe, & quidem plurimos.soc. Prorſus autem boninulliadhuc cibi ufi funt HER. Admodum pauci. soc. Viſi ergo ſunt aliqui.HER. Aliqui.soc. Quaratione hociudicaschac ne omnino quidem bonos eſſe,omnino prudêtes: prorſus vero prauos imprudentes omnino: HER.Mihi fane'ita uidetur.soc. Si Protagoras uera dixit, eſto hæcipfa ueritas,ut qualia quæą cuiq uidentur, talia ſint fieri'ne poteft,ut alij hominum prudentes ſint,imprudentes alí:HER.Nequaquam.soc.Atqui hæc, ut arbitror,tibi omnino uidentur,cum uidelicet prudentia quædam & imprudentia fic,Protagorā baud omnino uera loquipoffe.Neqenim alter altero reuera prudētiorerit,fi quæcuiquiden Sententia tur,cui uera erunt.HER.Ita eft.Atneqz Euthydemoaffentiris, utarbitror,dicenti om Euthydemi, nia omnibus eſſe ſimiliter ac ſemper.Nec enim ali boni, alí mali effent,fiſemper & æ nibuselle û que omnibus & uirtus ineffet & prauitas. HER. Vera loqueris. soc. Ergo fineqom. militer, ac nia omnibus inſunt ſemper ato ſimiliter,ne cuiq proprium unumquodq, cõſtat res femper quæ effentiam quandam firmam in fe habent,ne® quo ad nosneæ ànobis per imaginationem ſurſum deorfumą diſtractæ, fed fecundum feipras quoad ipsarum elfen tiam ut natura institutæ sunt permanentes. HER. Idem mihi quoq uidetur Ô Socrates. soc.Vtrum res ipsæ ita natura conſiſtunt, actiones autem illarum non ita, ſed aliter: an & actiones ipsæ similiter quædam rerum species ſunt: HER. Et ipfæ omnino. soc. Ergo actiones ipfæ secundum naturam ſuam, non ſecundum opinionem noftram fiunt. Quemadmodum finosrem quampiam diuidere ftatuamus,utrum ſic diuidēdares quæ que eft,utnos uolumus, & quo uolumus: an potius ſi unumquodqs diuidamus ſecun dum naturam qua diuidere & diuidioportet, item eo quo ſecundum naturam diuiſio fieri debet,diuidemus utiqrecte, & aliquid proficiemus,ac recte iftud agemus: Sinau tem præternaturam,aberrabimus,nihilg proficiemus? HER. Mihi quidem ita uidetur. soc.Atqueetiam ſicomburere aliquid aggrediamur,non fecundum omnem opinio nem comburereoporter,fed fecundum opinionem rectam. hæc autem eſt qua ratione naturaliter quode comburi debet atæ comburere,& quo debet. HER. Vera hæcfunt. soc.Nónne eadem decæteris ratio: HER. Eadem.Soc. Annon & dicere una quæ dam operationữeſt: HER.Eft plane.soc.Vtrum rectedicet, qui ut ſibi dicendum ui detur, ita dicitran potius qui ita dicit,utipſa rerum natura dicere diciç requiritiet fi quo natura exigit,eo & dicat,aliquid dicendo proficiet:ſin aliter,aberrabic:nihilós efficier. HER.Ita equidem utais,exiſtimo.soc.An non dicendipars quædam est NOMINARE: & quinominant, loquuntur quodamodo? HER.Omnino.soc. Et nominare actio quæ dam eft: quando quidem & dicere actio quædam circa res eft. HER. Prorſus. soc. A. Ationes autem nobis apparuerunthaud ad nos reſpicere, fed propriam quandam ſui ha bere naturam. Her. Est ita.so c.Nominandű itaq; ea ratione qua rerum ipsarum natu. ra nominare ac nominari poftulat, & quo poftulat, nõ autem PRO NOSTRÆ VOLVNTATIS ARBITRIO,liftandum est in his quæ dicta sunt. HER. Sic eſt.s o c. Ato ita aliquid per agemus, nominabimusý, aliter uero nequaquam. HER. Apparet. soc. Quod incidendum eſt, aliquo incidendű. HER. Aliquo.soc. Et quod texendữ, aliquo certe texendű, quodue perforandum,aliquo perforandū. HER. Plane. soc. ltem quod nominandũ, aliquo nominandum. HER. Sic oportet. soc. Quid illud, quo aliquid perforareoportet? HER. Terebrum. soc. Quid quo texere: HER. Radius pecteng. soc. Quid quo nomina. Reč HER. NOMEN. soc. Beneloqueris, ideog inſtrumentum aliquod nomen eft. HER Ert Eft. soc. Si quærerē quod inſtrumentū eſt radiuspectený, reſponderes quo teximus: HER.Non aliud.soc.Texentes uero quid facimus, an non fubtegmen & stamina confusa, radio diſcernimus. HER. Iſtuc ipſum.so c. Idem de terebro ac cęteris reſpondebis: HER. Idem. soc. Potes & circa NOMEN similiter declarare, quid facimusdum nomine Nomen, res ipso quod inſtrumentū eſt, aliquid NOMINAMVS (H. P. GRICE. “I name”). HER. Nequeo. soc. Nűquid docemus tias docen's inuicem aliquid, ac res ut sunt discernimus. HER.Nempe. soc. Nomen itaqrerű ſub di discernen Itantias docendi discernendig inſtrumentū eſt, ficut pecten & radius ipſe telę. HER. Sic diğinftru eft dicendű. soc. Radiusporrò textorių eſt inſtrumentū. HER. Quid nir'. SOCR.Texcor mentum icaç radio ac pectinerecte uterur, recte, inquā, ſecundű texendirationē. Ille uero quido cet, nomine Pombaur, & recte, recte uidelicet ſecundű docendi propriâ rationē: HER. Cer te.soc. Cuius artificis operebene Pombaurtextor, quando radio pectineś Pombaur: HER. Fabrilignari. soc. Quiſque'nelignarius faber,an potius quiartē habet? HER.Quiha. betartē.soc.Cuius item opere recte perforator Pombaur? HER.Aerarijfabri.soc. Num quiſqz eſt faberærariusè an potius quihabet artem: HER.Quiartē. soc. Ageergo,dic cuius opere ipſe doctorutatur,quotiesnomine uticur.HER.Neſcio.soc. Allignare & hocneſcis: quis nobis tradit nomina quibus utimur. Her. Ignoro & hoc. soc. Nónne lex tibi uidet nobis nomina statuisse HER. Videtur. soc. Ergo legislatoris Pomba opere doctor ,quádo nomine ipfo Pombaur. HER. Opinor. soc. Códitor legis quilibet tibi æque uidetur, an quiarte eſt præditus. HER. Arte præditus. soc. Quarenö cuiuſcunq uiri eſt Hermogenes NOMEN IMPONERE,uerũ cuiuſdam nominữautoris. hic autem etiam, ut videtur, NOMINVM INSTITVTOR, quirarior omni artifice inter homines reperit. HER. Apparet. Soc. Animaduerte obſecro, quô reſpiciens NOMINVM INSTITVTOR, NOMINA REBVS IMPONIT:imò ſuperiorű exempla dýjudica, quò reſpiciens faber radium pecteng cõficit. non nead tale aliquid quodad texendum natura fit aptum: HER. Prorſus. soc. Siin ipſo operera dius hic frangatur, utrum alium iterű fabricabit ad fracti iſtius imaginēžan potius ad ſpe ciem ipfam reſpiciet, ad cuius exemplar radium qui fractus eſt,fecerat: HER. Adipſam ut arbitror, speciem.soc. Nónneſpeciem ipfam merito ipſius radij rationé,ipſum pra dium maximenominabimus: HER.Opinor.soc. Siquãdo oportet cõficiendæ ueſtite nuiuelcraſſiori lineęſiue laneę,ſiue cuiuis alteriradiữ apparare, radios singulosoportet ſpeciem radīj ipſius habere:qualis uero cuiqznaturaliter eſt accómodatiſſimus,talem ad opus peragendű,ut natura poftulat,adhibere. HER.Oportet ſané.soc.Eadem de cætè ris inſtrumétis eftratio.Nam quod natura cui & congruit; instrumentũadinueniendum eſt,atq id illiattribuendű,ex quo efficitno qualecunq uult quifabricat, ſed quale natu ra ipſa exigit. Terebrum nam cuiæ accommodatum ſcire oportetin ferro perficere. HER. Patet. soc. Radium quinetiam singulis competentem in ligno. Her. Vera hæc ſunt.soc.Quippeipfa rationenature alius radius telæ alteri competit, & in alijs eodem modo.HER. Sane. soc. Oportet quoguir optime, ucillenominum inftitutor nomen Quomố no natura rebus ſingulis aptű in uocibus & fyllabis exprimat, ad idý reſpiciés quod ipſum minabit qui nomen eſt, ſingula nomina fingat,atque attribuat, li reuera nominum autor eſt futurus. recte nomi Quod ſinonñſdem ſyllabis quiſq nominum conditornomen exprimit,animaduerten dum eſt, quod neq fabriomnesærarñ eodem in ferro id faciunt, quoties eiuſdem gratia idem fabricant inftrumentum. Verum quatenus eandem ideam attribuunt, licet in alio, & alio ferro,eatenus recte ſe habet inſtrumentum,ſiuehic,fiue apud Barbaros fabricēt. Nónne; HER. Maxime. soc.Nónne & eodem modo cenſebis,donec inſtitutor no minum quiapud nos eſt, & qui apud Barbaros, nominis speciem cuim cõpetentem tria buunt,in quibuslibet fyllabis nihilo deteriorem efle unű altero in nominibus imponena dis: HER. Equidem. SOCR. Quis cogniturus eſt utrum conueniens radij species cui cunqueligno fitimpreſſar num faber qui efficit: an textor uſurus. HER. Probabile eft ô Socrates,magis eữ quieſt uſurus, cognoſcere.soc. Quis lyræ fabricatoris opereuti tur:nonne ille qui fabricantem inſtruere poteft, & opus recte'ne an cótra factâ fit,iudia care: HER. Omnino.soc.Quis ergo: HER.Cithariſta.soc.Quis autem opere ſtructo. ris nauiữ. HER. Gubernator.soc.Quis item nominữ conditoris operioptime præſides, bit, & expletû dijudicabit & apud Græcos & apud Barbaros: Nónne & quiuteſ: HER. Is certe.so c.Annõ is eſt qui interrogare ſçitç HER. Iſte. $ 0 c.Idem quog reſpondere, HER nabic zi HER. Nempe. SOC. Eum uero qui interrogare ſcit ato reſpondere, aliumuocas i diale Dialecticus nouit recte cticum: HER.Dialecticum profecto.socr. Fabri ita opuseſt temonem facere guber impofita no natore præcipiente,li bonus futuruseſt temo. HER. Apparet. soc. Nominum quoq au minarebus torisnomen, monentedialectico uiro, ſi modo recte ponenda ſunt nomina. HER. Vera ſint, necne hæc funt. Soc. Apparet ergo Hermogenes haud leue quiddam,utipfecenſes,nominis impoſitionem eſſe,neæ id effe imperitorum &quorumuis hominum opus.NempeCra tylus uėra loquitur,cum nomina dicit natura rebus competere, neg unum quemuis eſſa nominum autorem, sed illum duntaxat quiad nomen reſpicit, quod natura cuiq conue. nit, pofteag ſpeciem eâ literis ſyllabisq inſerere. Her. Neſcio Socrates qua ratione his quæ dixiſti,lit repugnandã: forte'uero non facile eſt ſubito fic perſuaderi. Videor autem mihi hâc in modumtibi potius aſſenſurus,fi oftenderis quam dicaseſſe natura rectano. minis rationem. soc. Equidem ô beate Hermogenes,adhucnullam dico, ferme'nama è memoria excidic quod dixerā suprà, meuidelicet hocignorare,uerum una tecum per quirere. Nunc aucem mihi &tibi limul inueftigantibus hoc duntaxat præter ſuperiora compertõeſt, rectitudinem aliquã natura nomen habere, nec quemlibetpoffenomen rebus accommodare.Nónne: her.Valde.soc.Conſiderandum reſtat, ſi noſſe deſide. ras, quænã ipſius ſit nominis rectitudo,id eftratio recta. Her. Deſidero equidem.soc. Animaduerte igitur. HER. Quauia inueſtigandâmones. soc. Rectissima estô amice, consideratio,ab his qui ſciūt hæc perquirere,oblatis pecunis, & gratöjs inſuper actis:hi uero ſophiſtæ ſunt, quibus frater tuus Callias multis erogatis pecunijs, ſapiês euafiffe ui detur. Poftquam uero in res paternas iusnon habes,reliquũ eſt fratrem ſupplex ores, ut te doceat nominâ rectitudinem quam à Protagora didicit. HER.Quàm abſurda hæcel Veritas no, ſet petitio Socrates, fi cum illam Protagoræ ueritatem nullomodo recipiã,ea quæ ex uc men ſcripci,ritate illa dicuntur,alicuius precí æſtimarē.soc.Acuero ſi tibi hæc non placent,ab Ho aut ironicũ mero cæterisý poetis est diſcendum. HER. Quid de nominibus, & ubi Homerus ô Socrates,tradic:so c.Paſimmulta, maximauero & pulcherrimaſuntilla,in quibus diftin guitcirca eadem quæ nomina homines, &quæ dö ipfi inducunt. Annoncenfes ipſum in his magnificum alíquid & mirandumde recta ratione nominữ tradere: Constat enim deos nominibus illis ad rectitudinem ipfam uti, quæ natura conſiſtunt. Annon putas: HER. Certe equidem fcio,fiqua dij uocant,recte eos admodum nominare. Verum quæ nam ista: Soc. An ignoras quod de Troiano flumine, quod ſingulari certamine ca Vul cano pugnauit, inquit: quod Xanthứdijuocant, uiriScamandrum.HER.Scio. SOCR. Annoncenſes magnificum quiddam cognitu eſſehoc,qua ratione rectius fit flumen il lud Xanthű, quam Scamandrâ nominare. Item fi uis, animaduerte &iftud, quod auem eandem dicit Chalcidem quidêa dřs, Cymindin uero ab hominibus nominari. Leuem cognitionem hanc putas, ut fciat quanto rectius fit eandem auem Chalcidem quam Cy mindin nuncupare, uel Batieam aros Myrinen, alias permulta &apud huncpoetam &apud alios talia: Verum iſtarữrerum inuentio acutius ingenium quam noſtrũ exigit. Scamandrius autē &Altyanax quid ſignificent,humano ingenio, utmihiuidetur, com prehendi,facile & percipi poteſt,quam rectitudinem eſſeHomerusuelit in his nomini bus quibus Hectoris filium nuncupat. Scis ea carmina quibusinfunt,quæ dico: HER. Omnino.soc. Vcrum iſtorum nominâ putasHomerum exiſtimaſſe conuenire magis puero, Aſtyanacta'ne,an Scamandriã: HER. Ignoro. soc. Sicautem conſidera:liquis te interrogaret, utrữ putes fapientiores rectius nomina rebus imponere, an minus ſapien. tes,reſponderes ucią ſapientiores.HER. Sic certe. soc.Vtrũmulieresin urbibus sapientiores eſſe tibi uidenč, an uiri: quantı ad genus attinet. HER. Viri.so c. Neſcisquod in quit Homerus, Hectoris filium a Troianis Altyanacta,a mulieribus Scamandriū nuncu patum: quandoquidem uiri illum Aſtynacta uocare conſueuerűt. Her. Videtur, soc. Nónne Homerus Troianos uiros fapientiores, quam mulieres eorũ exiſtimauit: HER. Arbitror equidem. SOCR. Aſtyanacta igiturrectius quàm Scamandrium nominatum - esse cenſuit, HER.Apparet.SOCR. Animaduertamusquam ipſe denominationishuius cauſam affert, Solus enim, inquit, ciuitatem ipſis cutatus eſt amplas mænia. Quapro prer decet, ut uidetur, protectoris filium nominare &svavaxta, id est regem urbis, urbis, inč,eius, quam pater ipſiusſeruauit;ut inquit Homerus. HER. Idem mihi quocuider: Soc.Quod aức hoc maxime;porrò &ipfe nondum fatisintelligo, ô Hermogenes. Tu vero percipis: HER. Nõ perlouem.soc.Arqui & Hectori ó boneuir,nomen ipfeHo meras impoſuit. HER. Quamobrem: soc.Quoniã mihi uidet id nomen Hector Aſtya sactieſſequamproximum: ferme'enim idem SIGNIFICANT, putanta Græciutraq hæcno mina regiaeffe. Cuiuſcunæ enim quis avaş, id eſt rex extitit,eiufdem eft & fxTue, id eſt poſtelfor.Conftat enim dominari illi,pofliderecſ, & habere.An forte'nihil tibidicere ui deor meg fallit opinio, quaHomeriſcientiam circa nominum rectitudinem, ceu per ue ftigia quædam attingere cöfidebam: HER. Nullo modo, ut arbitror. forte enim nonni hil actingis. SocR.Decet,utmihiuidetur, leonis filiū leonem ſimiliter nominare, equi filium equum haud certe dico, liquid tanquammonſtrum exequo nafcatur aliud quid dam quám equus: fed cuius generis ſecundum naturam eſt quod naſcitur, hoc dico.Sies nim bouis fecundum naturam filius equũ gignit,non uitulus qui naſcit, ſed pullus equi nus eſt nuncupándus.Et fi equus præter naturam gignit úitulum,non pullus equinus di cendus eſt hic,fed uitulus. Neqetiam ſi ex homine alia proles quam humana producit, quodnaſciturhomo uocari debet.Idemg eſt dearboribus,dešcæteris omnib. iudican dum.Probas hæc: HER.Probo equidem. soc.Obſerua me nequid defraudem. Eadem quippe ratione,fiquis exrege naſcitur, rex eſt nominandus: in alíis uero & alíjs ſyllabis idemlignificari,nihil intereſt, neck referc ſiue addatur litera aliqua,ſiue etiã ſubtrahatur, donec ESSENTIA REI SIGNIFICATÆ IN IPSO NOMINE dominacur.HER. Qui iſtucais:'soc. Nihil mirum nouum ue dico, uerű ita ut in elementis fieri cernis, ſcis enim quod elementora nomina dicimus,ipfa uero elementa nequaç, quacuor duntaxat exceptis.dicimus enim &utonów, o fixpou & whéya. Cæteris autem tam uocalibus quam non uocalibus alias addentes liceras,ut Båtte 4.7.c. nomina conſtituimus,atq;ita proferimus. Verum quo uſg elementi ipſius uim declarată inſerimus, conuenit nomen illud uocare ipſum quod nobis fignificet elementum, ut in Bizu apparet, ubi additis 8. 7.éc, nihil obftitit quin in tegro nomine natura elementiilliusoſtenderetur, cuiusnominum autor uoluit:uſquea deo ſcite literisnominadedit. Her. Vera mihi loqui uideris.soc.Nónne eadē derege ratio erit: Erit ex regerex, ex bonobonus, ex pulchro pulcher, &in cæteris omnibus fimiliter ex quolibet genere alterữ quiddam tale,niſi monſtrữ fiat, eademq dicendano: mina.Variare autem licet per fyllabas,ut uideantur homini rudi,quæ ſunteadem, eſſe di Gería. quemadmodữ pharmaca medicorũ coloribus &odoribusuariata ſæpe cã eadem fint,nobis diuerſa uidentur: Medico aūt uim pharmacorũ conſideranti eadem iudican tur,neß eum additamēta perturbant. Similiter forte qui eſt in nominibus eruditus, uim illorum conſiderat,neq; eius turbaſiudicium, liqua litera addita eſt, uel tranſmutata,uel dempta, uelin alijs literisac multis eadē uis nominisreperitur.Vteanomina quæ fuprà diximus, Altyanax &Hector, liceras omnino diuerſas,præter folum habent, idem ta menſignificant. Item quod &exémolis, id eſt,princeps ciuitatis dicitur, quam literarum communionẽ cum duobus ſuperioribushabet: Idem nihilominus infert. Multaq; ſunt alia, quæ nihil aliud quam regem SIGNIFICANT. Multa præterea ſunt, quæ exercitus du cem ſignificant,ut čys, worém cedoOMG,.Alia item quæ medicinæ profefforem declarant,ut ictportas, a xecik @ poro. Aliaó permulta reperiri poflunt,fyllabis & literis diſcordantia, ui autem SIGNIFICATIONIS penitus conſonantia. Sic ne & ipſe putas, an alia ter: HER. Sic certe.SOCR. His profecto quæ fecundum naturam fiunt, eadem tribu enda ſuntnomina.HER. Omnino. SOCR. Quoties uero præter naturam hominesali quifiunt in quadam fpecie monftri, uelut quum ex bono pioq uiroimpius generatur, quigenitus eft,non genitoris nomen ſortiri debet, ſed eius in quo ipfe eft generis:quem admodum ſuprà diximus, ſi equusbouisprolem generet,non equum eiusfilium,fedbo uem denominandum.HER. Siceſt. Socr. Homini igitur impio ex pio genito, non pa rentis, sed generis nomen attribuendum. HER. Vera hæc ſunt.soc.Neque igitur6tocosia Agy, id eft Deiamicum, nex uygoitzoy, id eſt Dei memorem, uel talem aliquem huiuſmo diuocarefilium talem decet, sed contraria SIGNIFICANTIBVS NOMINIBVS appellare, ſi modo recte nomina inſtituta effe debent.HER. Sic prorſusagendum ô Socrates. soc. Profe dio Oreſtinomen recte,o Hermogenes,uidetur impoſitum, fiue aliqua ſors illi nomen dedit, liue poeta quidā, ferinam cius naturã agreſtē &moncanã nomine eo SIGNIFICANS. HER.Sic apparet,Socrates.soc. Viderur &patri eius ſecundum naturam nomen esse. HER. Apparet.soc. Apparet utiq talis efTe Agamemnon,utſibi laborandũcenſeat,to lerandumý, &in ijs quædecreuit,per uirtutem perfeuerandã. Argumentũuerotoleran tiæ ſuæ apud Troiam tanto cum exercitu perduratio prębuit. Quod igitur mirabilisper feuerantia uir hic fuerit, nomen ſignificai Agamemnon, quali ayasos 967 oli ümrovlu. Fortè uero & Atreusrecte eft nominatus.Nexenim Chryfippi, & crudelitas aduerſus Thyeſten,noxiữ perniciofumo illum demonſtrant.Vnde cognominatio parumperde clinat, & clam innuit,ut non quibuslibet naturam huius uiri declarent:his autem qui no minum periti ſunt, ſatis Atrei ſignificatio pater. Dicitur enim ſecundum erogès, afeger's atypów, quaſiindomitus, inexorabilis, noxius contumeliofusq fuerit. Videtur & Pelopi nomen haudab re tributum. Hominem quippe quæ prope ſunt uidentem,nomen iſtud congrue significat. HER. Cur illi id conuenit: socR. Quoniam in Myrtilicæde, utfer tur, prouiderenihil potuit, nec eminus pſpicere quãta toti generi ex hoc calamitas im mineret. Quæ enim antepedeserant, &ad præsentia tantum respiciebat, hoc autem eſt prope aſpicere: quod & fecit, cum Hippodamiæ coniugium omniconatu inire conten dit. Vnde Pelopinomenawines, id eft,prope,& ontos, quodad uiſionem pertinet. Tan talo quinetiam nomen natura ipſa uidetur impofitum, ſi uera ſunt quæ circunferuntur. HER. Quænam iſta: soc. Quoduiuentiadhuc illi aduería plurima &grauia contige runt,tandemý patria eius omnis fubuerſa eſt. Defuncto præterea faxum in caput immi. net, ſors certe duriffima. hæcprorſuscum nomine congruar, perinde ac fi quis nomina re THION to you,id eft, inteliciſſimű uoluiffet, fed paulo locutus obſcurius, pro Talancato Tantalum poſuifler. Taleutiæ nomen fortuna eius aduerſa ipſorumore gentium præ buiſſe uidetur. Quinetiam patri eius loui recte nomen eſt indicum,nec tamen facileco. gnitu.Eftenim uelut oratio quædam louis nomen, quod quidcm bifaijā partientes,par tim una,partim altera parte utimur. Quidamfive, quidamdia, uocani. Quæpartes in unumcópofitæ, naturam dei ipſius oftendűt, quodmaxiinedebernomen efhcere por ſe. Nulla enim nobis cæterisomnibus uiuendimagis cauſa eſt, quam princeps, rexo omniữ. Quapropter decens nomen eſt hic Deus fortitus, per quem uita íemper uiuent bus omnibus ineſt.Sectum autem in duo eft unum, ut diccbam,nomen,in diæ uidelicet ata awa. Hinc Saturnifilium cum quis audiat, forte inſolentem contumelioſumópu tarit. Verű probabile eft,magnæ cuiuſdam intelligentię piolem louem elle. Quod enin Hóp - dicitur,non puerum ſignificat,ſed puritatem mentisipfius, & fynceram integria tem. Est aurem is opavo, id eft, cæli filius,ut fertur. Quippeafpectus ad ſupera merijo z pane uocatur, quafi opacz zecvw. Vnde affirmant,o Hermogenes, qui derebusiutli mibusagunt, puram mentem adeffe, & recevo, iure nomen impofitum.Siautem genealo giam deorum ab Hefiodo traditam mente tenerem, & quos horum progenitores indu. cic,recordarer,haudquaq ceſſarem oftendere tibérecte illis nomina infcripta fuiffe,quo ad huius fapicntie periculü facerem,liquid ipſa proficiat peragator, & an deficiatnecne, quæ mihi tam ſubito ignoro equidem unde nuper illuxit. HER. Profecto mitttiden som Ô Socrates iliareorum quinumine capitatur, protinus oracula fundere. soc. Reor equidem,ô Hermogenes,hanc in me ſapientiam ab Euclıyphrone Pantij filio emanalie. Illi fiquidem aſtiti a matutino affiduus,auresó porrexi. Patet igitur eum deo plenú non modo aures meas beata ſapientia impleuiſle, uerumetiam animum occupalle. Sic utico agendum arbitror, ut hodie quidem utamur ipfa, & reliqua quæ ad nomina pertinet, ini dagemus. Cras uero,fiin hoc conſenſerimus,excutiamuscam, expiemusý, aliquem par ſcrutati,ſiuefacerdotem, feu ſophiſtam qui purgare hæc ualeat. HER. Probo hæc maxi. me Socrates. libentiſſime nang quæ de nominibus reſtant, audirem. soc. Ira prorſus agendum. Vnde igitur potiffimum exordiendű iudicas,poftquam formulam quandam præfcripfimus,ut pernoſcamusſi etiã nomina nobis ipía teſtantur non caſu quodama. » ata fuiſſe,uerum rectitudinem aliquam continere: Nomina quidem heroum atq;homi / num nos forte deciperent. horum nang multa ſecundum cognomenta maiorum pofita) ſunt, & fæpe nequağ conueniüt, quemadmodã in principio diximus.Multa uero ex uo ') to homines nomina tribuunt,ut UtuXidmW, owciQ, Itópinoy, alia “ permulta.Talia itaq ) prætermittenda cenſeo.decens eñconſentaneumg maxime reperire nos quæ in rebus ſempio Lempiternis &naturæ ordine cõſtitutis recte ſunt poſita. Nam circa iſta in condendis no minibus ftuduiffe maxime decet.Forte'uero ipſorūnonnulla diuiniore quadam poten tač humanaſunt inſtituta. HER. Præclare mihi loqui uideris,ô Socrates. soc.Nonne pareſtabipfisdíjs incipere, rationemý inueſtigare qua bcos uocati ſunt: Her.Nempe, soc.Equidem ita conício.Videnturutiq mihi Græcorum priſci deos solos putaffe eos, quos etiam his temporibus Barbarorű plurimiarbitrantur, solem, luna, terrram, stellas, calum. Cum ergo hæc omnia perpetuo in cursu esse coſpicerent,ab hac natura moldatu få nominalle uidentur, deinde &alios animaduertêtes omneseodem nominenuncu pale. Habeoquod dico uerifimile aliquid, nec'ne  HER. Habetcerte. soc. Quid poft hac inucftigandum: Conſtat de dæmonibus heroibusø & hominibus quærendum eſſe, HER. Dedæmonibus primum. soc. Proculdubio Hermogenes.quidlibi uultdæmo. nun nomen animaduertenum aliquid dicam.HER.Dicmodo.soc.Scis'nequos Hes Liolus claipovas effe inquit, HER. Non.soc.Nec etiam, quod aureum genus hominum zitin principio extitiſſe? HER.Hoc equidem noui. Soc. Ait enim ex hocgenerepoſt przſentis uitæ fara fieri dæmones ſanctos,terreſtres,optimos,malorũ expullores,& cu licdes liominum.HCR. Quid cum: soc.Nempe arbitror uocare illum aureum genus; no ex auro conſtitutū, ſed bonum atos præclarum.quod inde conſcio, genus noftrum fereum eſſe dicit. HER. Vera narras. Soc. Annon putas ſiquis nunc ex noſtris bonus fc,aureihunc generis ab Heliodo æftimari? HER. Conſentaneum eſt.soc. Boni autem anj sprudentes: HER. Prudentes. $ o c.Idcirco,ut arbitror,eosdæmones præcipuenup cupat,quia fapiêtes d'ahuontsó erant.Et ex noſtraiſtud priſca lingua nomen exiſtit. Qua obrem &is, & cæteripoetæ permultipræclare loquuntur, quicunq aiunt uidelicet,poft quambonusaliquis uita functus eſt, maximam dignitatem præmiumý ſortitur,fic & dæ monſecundum ſapientiæ cognomentūIca & ipfe affero dæmuova, id eſt ſapientemom- nem efle hominem, quicung ſitbonus, eumó dæmonicum effe,id eſt felicem,uiuenten » acc defunctũ, recteý dæmonem nũcupari.HER Videor. mihi ô Socrates, in hoctecum s maxime conſentire. soc. newsautem quid lignificar: Id nequaſ inuentu difficile.paur lo enim heroumnomen ab originediſtac,indicans generationem illorum čre WTO manaſſe. HER.Qua rationeid ais: soc. Anignoras ſemideos heroas effe: HER. Quid tum: soc.Omnesutiq heroes uel ex amore deorũ erga mulieres humanas, uel amore uirorum erga deas ſuntgeniti.Prætereaſi hocfecundã priſcam Acticorum linguam con fideraueris, magis intelliges.reperies enim quòd pauliſper mutatū eſt nominis gratia ex UTO,undeſunt heroes geniti: quod'ueaut hincheroum nomen eſt ducium,aut ex eo quòd fapientes,rhetores fuerunc.facundi uidelicet, & ad interrogandữ diſſerendűó promptiflimi,ziedy Aang dicere eft:Quare,ut mododicebamus,Attica uoce heroes the tores quidam, & diſputatores & amatori uidentur. Vnderbetorum ſophiſtarum gee nusheroica prolesexiſtit. Verum nõ iſtud quidem difficile cognitu,imò illud obfcurű, quamob cauſam homines ävbewmoi nominantur. habesipfe quid afferas: HER.Vndeid habeābone uir: Quin ſi reperire quoquo modo poffim,nil cotendo, ex eo quòdtemo lius facilius“ quammereperturum ípero.so c.In Euthyphronis inſpiratione confider se mihiuideris.HER.Abſc dubio.soc. Ec merito quidem confidis.Nam belle nimium mihi nunc uideor cogitafle,ac periculü eſt niſi caueam, nehodie ſapiêtior quam deceat, uidear euafiffe. Attende ad ea quædicã. Hoc in primis circa nomina animaduertere de serves cet, quòd ſępe literas addimus, lepe ctiam demimus pro arbitrio,dum nominamus, & a cuta ſæpenumero transmutamus, ut cum dicimus dicíres: hoc ut pro uerbo nomen nor bis foret,alterum, inde excerpfimus, & pro acuta fyllaba media, grauem pronūciamus. Jn alijs quibuſdam literasinterſerimus,alia uero grauiora proferimus. HER. Vera refers. soc. Hoc & in ävegen O côtingit,utmihi quidem uidetur.Nam ex uerbo nomen con ftitutum eſt,uno a excepto,grauiorig fine effecto.HER. Quomodo iſtud ais 's o c. Itak" hominis nomen illud ſignificat, quod cætera quidem animalia quę uident,non confide rant,neq; animaduertunt,nec contemplantur: homoautem & uidet ſimul &contemu platur,animaduertito quod uider.Hincmerito solus ex omnibus animátibus homočvrse @puro eſt nuncupatus, qualiaabeau contemplans,quæ ön WT5, id est, uidit. Quid poft ce haqquæram:Anuidelicet quodlibenter perciperem HER: Maxime.SOC. Succede D teftas reſtatim ſuperioribusmihi uideturdeanima & corpore cõſideratio.Nam anima& cor pusaliquid hominis funt.HER.Sine cótrouerſia. soc. Conemurhæc quem ad modū  ſuperiora diſtinguere. Quærendum primodeanima putas, utrecte Luxá nominata fuerit deindede corpore: HER: Equidem.soc.Vtigitur ſubito exprimarn quod primumm. hinunc ſe offert,arbitror illos qui ſicanimāuocitarunt,hocpocillimum cogitaffe, quod » hæc quoties adest corpori, caula est illi uiuendi, reſpirandi,& refrigerandi uim exhibês: 9 & cum primūdelierit quodrefrigerat,diffoluitur corpus,& interit.Vnde fuxlu noni 21 naffeuidentur, quaſi awatúzov, reſpirando refrigerans.Atuero, si placet, fifte parumper. Videor mihi aliquid inspicere probabilius apud eos quiEuthyphronem ſequütur,nım iftud quidem aſpernarenf,ut arbitror, & durû quiddã eſſe cenferent. ſed uidean hoc ibi sit placiturű.HER. Dicmodo.soc. Quid aliud animatibiuidetur corpus continae, uehere, & utuiuat & gradiatur efficerer HER. Nil aliud.soc. Annon Anaxagoræ ce dis,rerum naturam omniẩmente quadam & anima exornari ſimul & contineri: HIR. Credo equidem.soc.Pareſt igitur eam potentia nominare quelw.quæ quan,naturan, oxa & xe, id eft uehit & continet.politius autem fuxó proferſ.HER. Siceſtomninoji detur & mihiiſtud artificiofius effe.soc. Eft profecto.Ridiculum aữc quia apparere, si ita ut pofitüfuit, nominaret. Quod uero pofthoc ſequiſ corpusnonne owua nücupis: HER.Certe.soc. Atquiuidełmihiin hocnominepauliſper ab origine declinari. nen. pe corpushoc animæ omua, sepulchrâ quidam eſſe tradunt:qualiipfa præſenti in tempo se ſic ſepulta:ac etiam quia animaper corpus omualvd,ſignificat quæcung ohelwa lign ficare poteſt.idcirco & rivec iure uocari. VidenturmihiprætereaOrpheiſectatores no mēhocobid potiſſimữpoſuiffe,q anima in corpore hoc delictorũ det pænas, & hocci: cũſepto uallo claudatur,uelut in carcere quodā,utolor ferueſ. Effeitac uolunthoc ita utnominat,animęoãu ce ſeruandigratia clauſtrữ, quoad debita quæQ expendar,neq literam aliquã adăciendam putant. HER.Dehis fatis dictum ô Socrates,arbitror. Veri denominibusaliquorû deorum poſſemus ne ita utdeloueactum eſt,conſiderare,fecun dum quam rectitudinēnomina lint impoſica: soc. Per Iouem nos quidē ſimentem ha beremus Hermogenes, precipuũrectitudinismodấarbitraremur,faceri nihil nos de dijs cognofcere,ne deipſis inquam, neq deipſorīnominibus quibus iplifeuocant. Con ſtar enim illos quidem ueris ſenominibusnuncupare. Secundâ uero recte DENOMINATIONIS modum exiſtimo, ut quem ad modülex in uotis ftatuit precarideos, quomodocung nominarihis placet,ita & nos ipfos uocemus,tanğ nihil aliud cognoſcētes.Recte não, utmihiuidetur,eft decretū.Quare, li uis,ad hanc inueſtigationēpergamus,primo quidē díjs præfati,nosnihilde iplis conſideraturos: neq; enim poſſe confidimus:fed de homini bus potius, qua potiſfim opinionecirca deosaffectinomina ipfis inſtituerunt. Hoceñ à diuina indignatione procul.HER.Modeſte loquiuideris ô Socrates, atqita prorfusa gendum.soc. Nónneà Vesta fecundum legem incipiendű. HER. Sicutim decet. soc. Quaratione éstav hanc nominatam dicemus HER. Per Iouem haud facile iftud inuen 9) tu.soc.VidenturprobeHermogenes PRIMI NOMINAM AVTORES non hebetes quidā fuisse, verum acuti fublimium rerum inveſtigatores HER. Quamobrem: soc. Talium quo rundam hominum inuentione nomina apparent impofita.ac ſi quisperegrinaconlide. retnomina, nihil ominus quod ſibiuult, unum quodq; reperiret.quemadmodőhocquod  nos días, eſſentiam nominamus, quidam golov nuncupant,alij wvia.Primo quidem ſecundum alterum nomen iſtorum, haud procula rationeuidetur rerum effentiam ésiav uocari. & quia nos quod efteffentiæ particeps ésiav uocamus,ex hocrecte éstæ poffet denominari. Superioresnoftriquondam šriav,tola uocabant.Quinetiã ſi quis facrorí ritusanimaduerterit, exiſtimabit ſic eosputaſſe quihæc poſuerűt.Etenim ante deosom nes Veltæ facra faceredecet eos, qui effentiam omnium Veſtam cognominarunt. Qui item wola nominarunt,hifermeſecundâ Heraclitum cenfuerüc fluere omnia femper, nihilo conſiſtere.Cauſam igitur & ipſorum originem ducem ipſum wow, quod impel lit.quaproptermerito ipſum wola impellentēcauſam nominari. Dehis hactenusitalic dictų,uelut ab ijs quinihil intelligunt.Poft Veftam aất, de Rheaato Saturno conſidera reconuenit, quanğ de Saturninomine in ſuperioribus diximus.Forte'uero nihildico. HER.Curnam ô Socrates: soc. O boneuir, ſapientiæ quoddam examen animaduer ti. HER. Quale iſtud: soc. Ridiculum dictu.habet tamen nonnihilprobabile. HER: Quid ais: & quo pacto probabile.so c.Infpicere mihi Heraclitum uideor, iã pridem ſa pienter nonnulla de Saturno Rhea tradentem, quæ & Homerus dixerat. HER. Quid iftud ais:'s o c.Ait enim Heraclitus fluere omnia,nihilo manere,rerum ipſarum pro - ce greflum amnis fluxuicomparás, haud fieri poffe inquit,utbis eandem in aquam temerou gas.HER.Vera hæcſunt.soc.An uidetur tibi ille ab Heraclito diſſentire, qui aliorum a deorum progenitoribus inſeruitRheam atą Saturnữ:Nunquid putas temere illum no mina iſtis impoſuiſſe.Quin & Homerus Oceanum deorum originem inſtituit, & The tyn genitricem.Idemouoluit,utarbitror, & Heſiodus.Aitpræterea Orpheus, Oceanű primum pulchrifluum cõiugium inchoaſſe, quicum Tethy germana ſeſua commiſcuit. Vide ő maximehæc inuicem cõfonant,omniağ in opinionē Heracliti redeunt. HER. Viderismihialiquid dicere Socrates. Tethyosautem nomēhaud fatis quid ſibiuelit, in telligo. soc.Hocutißidem fermeſignificar:quoniam fontis nomēeſt reconditů.Nam doctons & xlsus,id eſt ſcaturiens & tranſiliens, fontis imaginem præ ſe ferunt, ex utrif queuero hiſce nominibusnomen tudúceſt compoſitum. HER. Hoc quidem belliſi mum eſt ô Socrates.soc..Quid ni? Verum quid deinceps:Deloue profecto diximus. HER. Siceſt.soc.Fratres autem eius dicamusNeptunum atq Plutonē,nomeno aliud quo ipfum uocant.HER.Prorſus.soc. Videtur Neptunusab eo qui primum nomina uit,idcirco mooddãy uocatusfuiſſe, quia euntem ipſum marisnatura detinuit,nec pro, grediultra permitit,ſed qualiuincula pedibus ipfius iniecit.Maris ita principem rood @ væ uocauit, quaſi qosideouov, id eſt pedum uinculũ.& uero decoris gratia forte adie ctum fuit. Forſitan nő hoc fibiuult,fed pro ar, a primo fuit pofitum, quafi dicat mom sidós, id eftmultanofcens Deus,Fortaſſis ab eo quod dicitur códy, id eft quatere,okwu ideft quatiens eſtnominatus, cuiw & d fuitadiectū. Plutonem autem quali zašto, id eſt diuitiarī datorem dicimus, quoniam diuitiæ ex terræ uiſceribus eruuntur:& dxs uero multitudo interpretatur, quali addis, triſte tenebroſum'ue. Atæ hocnomen horrentes Plutonem uocitant.HER.Tuuerò quid fentis Socrates. soc. Videnturmihi homines circa potētiam Deiiftiusmultifariam errauiſſe,eumg exhorruiſſeſemper,cum minime deceat.Porrò quiſ ex hocpertimeſcit,quòd nemo poftquam defunctus eſt,hucredit, quod'ueanimanudata corpore, illucabit. Cæterum hęcomnia & regnum & nomen hư ius dei,eodem tenderemihiuidentur.HER.Quo pacto: soc. Dicam quod fentio. Dic age. Vtrữ horũualidiusuinculâ eft ad quoduis animal alicubidetinendű, neceſſitas'ne, an cupiditas? HER.Longeô Socrates,præſtat cupiditas.soc.Annõ plurimi,&dw quo tidie ſubterfugerent,niſi fortiſſimo uinculo eos quiillucdeſcendunt,uinciret: HER. Vi delicet. Soc. Quare cupiditate quadam eos,utuidetur,potius ő neceffitate deuincit, fi modouinculo nectitfortiſſimo.Her.Apparet.soc.Nónne rurſus multæ cupiditates funt HER.Multę.so c.Ergo uehemētiſlimaoñiữ cupiditate nectit eos, fimododebet inſolubilinodo conectere.HER. Certe.soc.Eft'neuehemētiorulla cupiditas, ş ea qua quiſcrafficitur,dum alicuius conſuetudine meliorem feuirūſperat euadere: HER.Nul..“ lamehercle Socrates.so C.Hacdecaufa dicendű Hermogenes, neminem hucillincuel lereuerti, nec etiã Syrenesipfas, imò & eas & cæterosomnes ſuauiſſimis Plutonis ora tionibusdemulceri.Éſtý,utratio hæcteſtat, deus is ſophiſta proculdubio diſertiſſimus & ingentia confert his quipenes ipſum habitãtbeneficia, qui uſ adeo diuitñs affatim abundat, ut tantanobis bona ſuppeditet,unde & Pluto eſt nuncupatus. Annõ philoſo. phitibiuidet officium, q nolithominibus corpora habentibus adhærere, sed tūc demữ admittateos, cũanimus illorum eft corporeis omnibusmalis cupidinibus* purgatus: Excogitauitnempehic deus hacratione fe animosmaxime detenturũ,ſi uirtutis eos aui ditate uinciret. Eosautem quiftupore & infania corporis ſuntinfecti,nepater quidem Plutonis Saturnus ipfe,fuis illis uinculis coercere ualeret,fecumý tenere. HER.Nonni hil loquiuiderisÔ Socrates. soc.Longeabeft Hermogenes utnomē& dos, quali cudes id eft trifte tenebroſum'uefit dictâ,imoab eò trahiturquod eft sid qvac, id eſt noſle omia pulchra.Ex hoc itaq deus ifteà nominữ conditore &dys eſt nấcupatus.HER.Quid præ terea dicimusde Cereris nomine, Iunonis“, Apollinis & Minervæ,Vulcanig & Martis,cæterorumýdeorum: soc. Ceres quidem dwuktor nuncupatur ab ipſa alimentorī largitione, quaſi didolæ pektyg,hoc est exhibensmáter. Kex uero, id eſt Iuno, quali fatá, id eft amabilis,propter amorem quo Iupiter in eam afficit.Forte'etiam ſublimeſpectans quihoc nomen inſtituit,aeram,spav denominauit, & obſcurelocutus est, ponensin fine principiữ quod quidem patebittibi,finomen illud frequenter pronüciaueris. DefélQKT say,id eſt Proſerpinam, & denómw nominare nõnulliuerent, propterea quòdillis ignota eſt nominum rectitudo. Enimuero permutantes degregóvlw ipsam considerant,graue id illis apparet. hocautēdeæ ipsius sapientia indicat. Sapientia utic eft quæ resfluentes attingit,& aſſequi poteft.Quamobrem gegéraqemerito dea hæcnominaretur,propter fapientiam, & Encolu, id eſt contacta, qepomlis, id elt eius quod fertur, ueltale aliquid, Quocirca adhæret illi ſapiens ipſe édes, quia ipſa talis eſt.Nunc autem nomen hocde. clinant,pluris facientes prolationis gratiam ueritatem, utqepiqastav nominēt. Idem quoq circa Apollinis nomen accidir. nam pleriq id nomen exhorrent, quasiterribile ali quid preſeferat.Annõ noſti:HER.Vera penitus loqueris.soc.Hocaūt,utarbitror,hu ius dei potentięmaxime cõuenit.HER. Quarationeso c.Conabor sententia meam ex primere.Nullű profecto nomen aliud unum quatuorhuiusdei potentijs reperiri conue nientius potuiſſet, quod & cöprehenderet omnes, & iplius quodammodo declaret musicam, uaticinium, medicinam, & sagittandi peritiam. HER. Aperias iam.Mirum quiddã nomen effe id ais.soc.Congrue quidem compoſitõeſt, conſonatý, utpote quod ad de um pertinet muſicum. Principio purgatio purificationesø & ſecundum medicinam,& ſecundum uaticinium,item quæ medicorum pharmacis peraguntur, ac uatum incanta tiones expiationes, lauacra, & afperſiones, unum hocintendunt, purum hominem & corpore & anima reddere. HER. Sic omnino. soc. Nónnedeus qui purgat, ipse erit aro aówn & Ösp núwy,id eft abluensa malis, solvens,q Apollo ipfe SIGNIFICAT? HER. Abſque Tubio.soc. Quatenusitap diluitata soluit, uttaliū medicus, åpnvwy merito nuncupa tur. Secunda vero divinationem uerumg &moww, id est simplex, quod idem eft, recte more Theſſalicorű nominarehunc poſſumus.hinempe omnes deum hunc ámró uocãt. Quatenusaấtási Boda wy, id eft ſemper iaculando arcu uehemens eft,ás Badawy dicipo teſt,hoc eſt,perpetuus iaculator. Secundữueromuſicam, dehoc eſt cogitandū quemad modum de eo quod dicit & nórolo & « xomis,id eftpediſſequus,comes, & uxor, in qui. bus& ur & in alijsmultis, idem quod ſimul ſignificat.Hic quoq && zónas ſignificant uerfionem quæ ſimul & unaperagitur, quam cöuerfionem dicamus.Ea in cælis eft,quæ per eos fit quos sónos uocamus:in cantu uero & quovia, quam dicimus ovuqwricw. Quia in his, uttraduntmuſicæ & aſtronomiæ periti,harmonia quadā ſimulomnia cõuertunt. Hicaấtdeusharmoniæ præfidet omonwy,id eft fimuluertenshæc omnia,& apuddeos & apud homines. Quemadmodum igitoorkeudoy & Oxóxosniv, id eft ſimuleuntem & ſimul iacentē,uocauimus anonovlov & KOITIY, o in ermutantes, ita Apollinem nomi navimuseum qui erat &Mortondy, altero a interiecto, quia æquiuo cũfuiſſetduro cum no mine.quod & his temporib. ſuſpicati pleriq, ex eo q non recteuim nominishuius ani maduertűt, perindehocmetuunt, ac si perniciem quandã fignificaret.Sed reueranomen hocomneshuiusdei uires cõplectitur, quemadmodūſupra diximus. Significat eſlim plicem,perpetuũiaculatorem, expiatorē & conuertentem. Muſarā uero & muſicæno men,ab eo quod dicitpães, id eft inquirere,indagatione & ftudio ſapientiæ tractõelt. agtá,id eſt Latona,à manſuetudine dicit,quia fic edereuwy, id eſt prompta & expofita & Tibens ad id quodpetit quiſqs exhibendű. Forte'uero ut peregriniuocãt:multinamga, tú nomināt, quod nomen tribuiſſe uident,quia non rigida illi mens,ſed mitis,ideo agli, quali neopress,id eftmos lenis & mitis ab illo cognominat. opruis, id est Diana, ex eo quòd aprejés, quali integra modeſtaciz sit propter uirginitatis electionē. Forſitā etiã qua fiageplisoge,id eft uirtutis conſciã, uocauit nominis inftitutor.Fortaffis etiã dicta eft'Ar temis,quafi apo u des Chocous,id eft quafiilla cõgreſſum oderit uiricum muliere.Vel enim propterhorâ aliquid,uel propteromnia huiuſmodinomen eſt inſtitutű. HER: Quidue ro dióvvoos & espositor's O.Magna petis Hipponici fili.Atqui eſtnominâ ratio his díjs inpoſitorâ gemina,ſeria uidelicet & iocoſa.Seriã quippe ab alñs quære,iocofam aứcni hil prohibetrecenſere. locoſi fanè & difunt: Dionyſuso eft didòs i ciroy id eſt uinida tor, qual tor, quafi nobivuosioco quodã cognominatus. Vinum autem merito uocari potest oto 18s quod efficiatut bibentes pleriq mentealienati, oisdocevouü exay, ideftmentem habe rele putent. DeVenere Hefiodorepugnarenon decet,ſed concedere propter ipfam ex dogo, hoc eſt ex ſpuma, generationē đopoditlw uocari.HER.Acuero Minerua, ô Socra tes,Vulcanūča & Martem,cum fis Atheniēlis,ſilentio nõ præteribis. soc.Haudquais decet.HER.Non certe.soc.Alterâ quidem eius nomen quamobrē ſit impofitũ, haud difficile dictu.HER.Quod: soc. Palladē eam uocamus.HER. Planè.soc. NOMEN hoc cenſendum eſt à faltatione in bello ductum fuiſſe.porro uelfefe,uel aliud à terra attolles re ſeu manibusaliquid efferre,dicimus cámay, & wameat,id eſt uibrare,agitare & agitari,& ſaltare, & ſaltationem perpeti.HER.Ablo controuerſia, Palladem hac ratione uocamus,acmerito.Her.Alterű eiusnomē quo pacto interpretaris: so c. állwaữ quæris: HER. Id ipsum. soc. Grauius hocamice: vident prisci å blwaw exiſtimare,quemad, modum hiquihis temporibusin Homeri interpretationibus ſunteruditi.Nam iftorum plurimi Homerữ exponuntåbwaw tano mentem cogitationemg finiſſe. Et qui nomi na inuenit,tale aliquid de illa fenfiffe uidetur,imò etiam altius eam extollēs,utDeimen tem induxit, perinde ac fi diceret sleovõu, hoc eftutens æ pro y externo quodam ritu, s uero & o detrahens,fortè'uero non ita, ſed IGavónas, id eft,utpote quæ diuina cogno ſcat,præ cæterisomnibus deoroli, id eſt diuina cognoſcentē, uocauit.Neqab re erit,li di xerimus uoluiſſe illũappellareeam klovólw, qualiipſa in more intelligentia fit. Ipſe poſt modữ,uel eciam pofteriores in pulchrius,ut uidebat,aliquid producendo,Athenean de nominarunt.HER.Quid de Vulcano quem aquusov nominãt: so'c. Quidais:Num ge neroſum ipſum páso- isogæ,id eſt luminispræfidem quæris? HER.Hâc quæliffe uideor. soc.Hic utcuiq patere poteft, quiso eft,& x ſibiuendicat.Vnde igas id est,lu minis preſes eſtdictus.HER. Apparet: niſitibiquoq modo adhucaliter uideaf.s o c.An neuideatur aliter de Marte, interroga.HER.Interrogo.soc.Siplacet,õpys, id eft Mars, dicitur fecundâ ãgger,id eſt maſculã, & av dogov,id eſt forte. Quinetiã fi uolueris ob na turam quandã aſperam, duram atq inuictã,immutabilemý, quod totumägøæby appella tur, ogy uocatum fuiffe, hoc quo & Deo penitusbellicoſo cõueniet. HER. Prorſus.Soči Deosiam mittamus per deos obsecro.Nãdehis diſſerere uereor.Adalia uero quecung uis,meprouoca,ut quales Euthyphronis equiſunt, noueris. HER.Faciam utpetis,ſi unű deme quæfiuero. meliquidē Cratylus Hermogenē eſſe negat. Inueſtigemus ita quid épus,id eft Mercurii nomen fignificet,ut fiquid ueri hicloquit,uideamus.soc. équis, id eſt Mercurius, adſermonē pertinere uidetur, quatenus égjelw rús eft,hoc eſt interpres & nuncius, furtiuús inloquendo ſeductor,ac uehemens concionator. Totum id circa fer monem uerfatur.profecto quemadmodum in fuperioribus diximus, kedy ſermonis eſt uſus.Sæpeuero dehocHomerusait £ukcal, id eft machinatuseſt. Ex utriſq igitur no. men huius dei componit,tum ex eo quod loquieſt,tum ex eo quodmachinari & exco gitare dicenda, perindeac ſi nominis autornobis præciperet: Pareſt, ô viri, ut deum illa quiaipfufukcal, id eſtloquimachinatus eſt, sipíulw uoceris. Nos aấtarbitratiſice legan tius eloqui, éguli uocamus. Quinetiam ies, ab eo quod apdu, id eſt loqui, nomen habet, propterea quod nuncia eſt. HER.Probemediusfidius Hermogenē elleme Cratylus ne gauilfe uidetur. Adorationis enim inventionem hebes ſum.Soc. Conſentaneâ quoc amice, wową biformem filium efle Mercurî.HER.Qua rationer'soc. Scis quòd fermo # aw,id eftomne ſignificat,circuitý & uoluit ſemper,eſtó geminus uerusuidelicetac falsus: HER. Equidem. soc. Annon id quod eſt in ſermoneuerum,leue eftatæ diuinâ, ſu praç in dñshabitans.Contrà quod falſum,infrà in hominữmultis,afperű ato tragicũ: Hincenim fabularum comenta & falfa & plurimacirca tragicam uitam reperiunt.HER. Sic eft omnino.soc.Merito igitur quiefttaw, id eft totâ nuncians, & æs monasy, id eſt femper uolutans,7 dezóros biformisMercurij filiusdiceret, ex ſuperioribus partibus lenis ac delicatus, ex inferioribus aſper atok hircinus.Eftg Panuelipſe ſermo,uel ſermo nis frater,fiquidem eſt Mercurij filius.Fratrem uero fratri limilem effe quid mirum: Ce terüiã o beate, ut & paulo ante rogabā, ſermonem dedñshunc abrumpamus. HER. Ta. les quidem deos,li uis,mittamuso Socrates,huiuſmodiuero quædam percurrere quid prohibet. Solem, lunam, ftellas,terram, ætherem,aerem,ignem, aquam, ver & annum: D soc. Multa funt acmagna quæ poftulas. Sicamen gratum tibi futurum eſt,obfequar. HER.Pergratum plane.soc. Quid primum poſcis: an utipſenarrabas in primis stov, id eft folem; HER.Profecto.soc.Manifeſtius id fore uidetur,li Dorico nomine quis uta tur. Dorici enim asoy uocant,ato ita uocatur ſecundữ &nizdv, id eſt ex eo quodcongre gat in unum homines,cum exoritur. Item ex eo quod circa terram &scina, id eſt ſemper reuoluitur.Præterea quia uariat circuitu ſuo quæ terra naſcuntur. Variareautem & duo. agy idem eft. HER. Quid uero de anlws, id eft luna,dicendum: soc.Nomen hocui detur Anaxagoram premere. HER.Cur.soc. Quoniam præ se aliquid fert antiquius, quod ille nuperdixit, quodlunaà fole lumen haurit.HER.Quo pactors o coenas idem eſt quod lumen; HER. Idem. SocR.Lumen hocperpetuo circa lumen voy & güvoy eſt id eſt nouum ac uetus,limodo Anaxagoriciuera loquuntur:nam circûluſtranseam con tinue renouatur, Vetusautem eſtmenſis præteritilumen. HER.Vtig. soc.Lunam qui dem odavalav mulcinominant. HER.Certe. soc. Quoniam uero lumen nouum acue tus ſemperhabet,merito uocarideberetadægurteoddam Nunc autem conciſo uocabulo ahavice uocatur. HER. Dithyrambicum nomen hoc eſt, ô Socrates. Verum uave, id eftmenſem:& äspe quomodo interpretaris. soc. Menſis quidem várs recteab vas. atroce, id eſtàminuendo, iure nuncuparetur. Astra uero & sectic, id eſt coruſcationis co gnomentum habent. « Soekautem quia au o ads avasosqe, ideft uiſum ad fe conuer. tit, ánæspon á dici deberet, nunc cõcinnioriuocabuloaspauinominal. Her.Vnde no men trahil mie & idap, id eft ignis & aqua:' Soc. Ambigo equidē,uideturg autMuſa meEuthyphronisdeſeruiſſe, authocarduum quiddam effe. Aduerte obſecro quò confu giam in omnibus quæcunq dubito. HER. Quonam: soc. Dicam tibi.ſcis ipſe qua ratio ne wüe nominat: HER.Non hercle.soc. Vide quid dehoc ſuſpicer.Reor equidêmul ta nomina Graecos a Barbaris, eos preſertim quiſub Barbaris ſunt, habuiſſe. HER. Quor ſum hæc.soc.Siquis rectam iſtorũ impoſitionem fecundum græcã uocem quærat,non ſecundum eam qua eſt nomen inuentũ nimirum ambiget. HER. Verifimile id quidem. soc. Vide itaç nenomen hoc quebarbaricum ſit.neo enim facile eft iſtud græcæ lin guæ accomodare, conſtataita hocPhrygios nominare parum quid declinantes, & ý. dwg & xuías,id eft canes, alia permulta. HER. Vera hæc sunt. soc. Ergo distrahereiſta nihil oportet, quandoquidem deipſis nihil dicere quiſquã poteſt.Quapropter nomina illa ignis & aquæ huncinmodum reñcio kázautēſic eft dictus Hermogenes, quia quæ circa terram ſunt, deed,id eſteleuat.uel quia aega, hoc eft ſemperfluit,uel quia eiusflu xu ſpiritusconcitatur. Poetæ quippe flamina aktasnuncupant.Forte igitur aer dicitur quali avocTócow, agzóſſow id eſt ſpiritus fluens, uel fluens flamen, dedica præterea fic exponendum arbitror, quoniã đa dicirca ãégæ pêwy, id eft ſemper currit circa aerem fluens, quocirca čeddeks dicipoteft.gæ autē, id eſt terra,planius fenſum exprimit,ſigara dicatur. yaa enim recte görkodea, id eltgenitrix dicipoteft,utait Homerus.Nãquod gazdan dicit, genitum in re,inquit. Quid reftat deinceps. HER. Ver & annus, ô Socra tes. soc. Spore quidē, id eftueris temporapriſca & Attica uoce dicendaſunt,ſi uis quod conueniens eſt, cognoſcere. Horæ nanquocant, quia ief80, id eſt terminant hyemem atçæftatem uentosca & fructus ex terra nafcentes. giveau tos aất & čnos, id eft annus,idem effe uidet. Quod eñ in lumen uiciſlim educit,quęcung naſcunifiunto exterra,ipſum in ſeipſo examinat & diſcernit,annus eft: & ut ſupra louis nomen diximus in duo ſectű, ab aliquibus Pavæ,ab alijs diæ uocari,ita & annữ quidam giardy yocant, quia in ſeipſo, quidā quia examinat.Integra uero ratio eft ipfum q in ſeipſo examinat.Vndeexo ratiõeunanominaduo ſelecta funt.quòd eñ limuldicit,co giairū étolov,id eft in ſeipſo examinās, diſtinctum dicitur griaunos, & £70s, id est annus. HER. Atuero Ô Socrates,iam longe pgrederis.soc.Longiusequidēin philoſophia uideor euagari. HER. Quinimò. soc.Forte'magis cöcedes. Her.Verum pofthancfpeciē libentiſlime contêplarer,qua rationerectenomina iſta præclara uirtutūſint impofira,ut ogórkas,id eft prudentia,cuir as, intelligentia, xacoou's, iuftitia, ac reliqua huius generisomnia.so c.Haud conte. mnendum genus nominū ſuſcitas,ô amice. Veruntamen poſto leoninā pellem ſum in dutus,haud deterreridecet,imò præclara ipfa,utais,nomina prudentiæ,intelligentię, cogitationis ſciêtiæ cæterorūphuiuſmodicõliderare.HER.Quin profecto prius deſiſtere nullo mododebemus.Soc. Ædepolnõmalemihide eo conijcere uideor, quod modo conſiderabam, antiquiflimos uidelicet illos nominữ autores, ut & fapientiâ noftrorum plurimis accidit,ob frequentem ipfam in rebus perueftigandis reuolutionem, præter ceteros in cerebri vertiginem incidiſſe:quo factum puto utres ipsæ proferri & vacillareil lis apparerēt.opinionis autem huius caufam.haud interiorem uertiginem,ſed exterior? cc ipfarum rerű circuitum arbitrātur:quas ita natura habere ſe putāt, ut nihil in eis firmum. ZE & ftabile fic,fed fluantomnesferanturo,& omnifariam agitentur, ſemperø gignantur.PC & defluant. Quod quidem in his nominibus, quæ nuncrelata ſunt, conſpicio. HERM.CC Quo pacto Socrates.soc. Haudaduertiſti superior nomina rebus qualidelatis, fluentibus, & iugigenerationetranslatis impofita fuiſſe: HERM.Nă ſatis percepi.soc.Prins cipio quod primûretulimus,ad aliquid huius generis attinet.HERM. Qualeiſtud: soc. apórnois,id eſt prudétia eft,qopás a govórous, id eſt lacionis & fluxus animaduerſio. Signi ficare quog poteſt,recipere övnou dopás,id eſt lationis utilitatê.Tádem circa ipfam agita tionem uerſatur. Quinetia liuis yvaus id eft cogitatio fignificat govis várnoip,id eft gene rationis cõliderationem.you cû quippecõſiderare eſt. voxois autem, id eft intellectio, eſt réov čois,id eft nouideſideriũ.nouas uero res eſſe,ſignificat eas fieri ſemper.atqß hoc deſi derare & aggredi animum indicat qui nomēillud inuenitvsotow. principio nang vósois, nõdicebatur,fed pro,duo se proferēda erant,ut rebois, quafivéov, id eſt noui toisappe. titio & aggreſſio.ow poowy,id eſttemperātia illius quodmodo diximus Opornotus, id eſt prudêtiæ, falus & conſeruatio eft. udtskun,id eſt ſcientia, ab eo quod inftar & fequit tra &tum eſt,quafi res fluentesſolas animus perſequatur, inſtetø & comitetur: at negexmo tra poſterior,neæ præcurſioneſicprior.Quare& interiecto shylew uocare decet ouisas tanquam fyllogiſmus,id eft ratiocinatio quædam eſſe uidetur.Cum autem owibrac dici tur,idem intelligiturac fi diceretur etiska. Nam oftendit cum rebusanimum congre dirogix, id eft fapiêtia, agitationis eft tactus.Obſcurius autem, & alieniushoc à nobis. Verum animaduertendữeſt in poetis, quoties uolunt aduentantem aliquem & irruen tem exprimere,ovulo.id eſt erupit,profiljjt,dicere.Quin & illuftricuidam apud Lacedæ. moniosuiro nomen erat oös,id eſt præpes.Sic enim Lacedæmones cõcitationis impe tum indicant. Qualiitaqomnia perferantur, huiusipſiusagitationis, quę eo quod oos di citur,ſignificatur,iniqw,id eft tactum perceptionem aſophia demonſtrat..yglóxid eſt bonum cuiufqsnaturæ « y« sóy,id eft mirabile, amabile,delectabile ſignificat.Enimuero poſtos fluuntomnia,partim celeritas, partim tarditas ineſt.Eft igiturnon omneuelox, fed ipſius aliquid « y « soy.Quod quidēayasov ipfius& yali nomine declaratur.ductoo uby, ideft iuſtitia,quod xaiov oubsou ideſt iuſti intelligentiam importet, facile conijcere pol fumus. Quid autem ipſum singu op fibi uelit, difficile cognitu.Videtur autem huculoa multis quod dictum eſt cocellum,reliquum uero dubium. Etenim quicung totum mobile arbitrantur, plurimum agitari ipſum exiſtimāt,per omnealiquid permanare quo fingula fiant, quod'ue tenuiſlimum fit & uelociſſimum.Nec enim per omniadiſcurrere polle,nifiadeo tenuelit ut nihil possit obliſterepenetráci,& adeo uelox, ut cæteris quafi ſtancibus utatur.Quoniam uero gubernatomnia, dlačov, id eſt diſcurrens & permanans, merito dinglov eft appellatū, x uno politioris prolationis gratia interiecto. Hactenus quod modo diximus, inter plurimosconftat hoceffe iuftum.Ego autem Hermogenes urpo te diſcēdideſiderio flagranshæc omnia perfcrutatus ſum,& in arcanis percepiquod hoc ipſum iuftum ſit, & cauſa.quo enim res ipfæ fiunt,hoc eſt caufa:proprieś ita uocariiſtud debere quiſpiam tradidit.Cum uero ab his iam auditis iftis nihilominus diligenter ex., quiro quid ipfum iuftum ſit, quando quidem ita fehabet, uideor iam ulterius quam decet exigere, & caueam,utdicitur,uallūý ſupergredi.Satis enim femperrogaſſeme & audiſ- Prouerbia fereſpondent,meg uolentes explere alius aliud afferre conantur,neo ultra coſentiunt. Quidam ait iuſtű hoc, folem effe.Solâ quippe folem diſcurrendo calefaciendog omnia gubernare. Cum uero hoc alacer cuiquam qualipræclarum audierim, refero, ftatim ille meridet, quærito nunquid exiftimem post solis occaſum iuftűnihil hominibus superef le: Percontanti itaq mihiquid ille fentiret,ipfum ait ignem iuftâ exiſtere.neqid cogni tu facile, quarealius,inquit,nõignem ipſum ſed ipſum potius innatum ignicalorē.Alius hæc omnia pro nihilo habet.eſſe enim iustamentem illâ quâ induxit Anaxagoras. Dominam certe illam fuapte natura,necalicuimixtam exornare omnia inquit, per omnia pe netrantem.Hic quidem ô amice in maiorē ambiguitaté fum prolapsus, quàm antea dum nihil deiuſtitia ſclſcicabar.Cæterű utredeamus ad id cuiusgratia diſputaus,nomēillicale propter hæc, quale diximus,eft tribucũ.her. Videris Ô Socrates, ex aliquo audiſſe hæc, nec ex tua officinaruditer deprompſiffe. soc. Quid alia: HERM. Non ita. soc. Atten de igitur; forte'nançsin reliquis te deciperem, quali quæ afferam non audierim.Poſtiu ftitiam quid reſtare avdgíay, id eft fortitudinēnondum peregimus.iniuſtitia faneobſtacu lum eiuseſt quoddilcurrit per omnia, dvd piæ in pugnauerfatur.pugna in rebus fi quidē fluunt nihilaliud fluxusipfe contrarius. Quapropter fi quis d ſubtraxerit ex nomine hocadipiæ,nomen quod reftat aveia, opusipſum declarat. constat planè quòd non flu xus cuiuſqz contrarius gom id eſt fluxus,fortitudo eft,fed oppoficus illi quipræter iuſtum ficfluxui.Neqzenim aliterfortitudo eſſet laudabilis. žeệw autem,ideft mas, & civip,uir à ſimili quodã ducâtoriginē,ſcilicet ab ävw gom,id eſt ſurſum fluxu.pusuero,id eſtmulier, quafi jová, id eſt fæcunda & generatrix,bãiv,id eft fæmina.cn? Begrãs, id eſt papilla dici tur,oxå saấcuideturHermogenes dici,quia retraçúc, ideft germinare pullulareg facit,ut irrigans ea quæ irrigantur.HERM.Sicapparet,ô Socrates.SOCR.Idride,id eſt uireſcere, adoleſcere, floreſcere, augmentum iuuenum repræſentat, quaſi uelox quiddam & fu bicum, quod innuitille quinomen conflauit ex leiv, id eſt currere, & &Ma, id eft faltare. Animaduertismeuelui extra curſum delatâ,poftquãplana ac peruia nactus ſum: Mul ta quoqz ſuperſunt quæ ad ſeria pertinere uident.HERM.Veraloqueris.soc. Quorữu num eft utuideamus quid de xuwid eſt ars importet. HERM. Prorſus.SOCR.Nonnehoc şuu vä, id eſt habitum mentis oſtendit, ſi z demitur,interſerifautêomediữ inter x & v,& interv & nézován: HERM. Aridenimiū Socrates & inculte. soc. Anignoras beateuir no mina uetera diſtracta iam effe,atq cõfuſa à ſermonis tragiciſtudioſis,elegantiæ gratia ad« dentibus & fubtrahentibus literas,ac partim tēporis diuturnitate, partim exornationis& ftudio undiq peruertēcibus ucecce in na rów,id eft fpeculo, abſurdű eft ipliusaddi “ tamentū: Talia certe,ut arbitror,faciâtquioris illecebras pluris æſtimantő ueritatem. Quamobré cũ multanominibus ipſis adiecerint,tãdem effecerűt, utnemoiam nominūdu fenfum animaduertat.Quemadmodãdum o qizæ,id eſtmõſtrum quoddã proferunt,cūcl oqiya pronunciare deberēt,ac cæteramulta. Profecto fidareturcuiş arbitratu ſuo & de mere& addere,magna utic eſſet licentia, & quodlibetnomē cuiæ rei unuſquiſq tribueu ret:HERM.Veranarras, so CR.Vera plane, ſed enim mediocritatem quandam aros decorum ſeruare te decet præsidem sapiętem.HERM.Outinam.soc.Atqui& ipſe,o Her mogenes, opto uerum ne exacta nimium diſcuſſione, uir felix, exquiras, neuim meam prorſus exhaurias.Afcendam quippead ſupradictorum apicen: posto post artem cõli. derauerimus Myjavlw,id eftmachinationéexcogitationemg ſolertem. Videtautem li gnificare idem quodmultum pertingere & aſcēdere.Componitur ergo ex his duobus, púxos, id eſtlonge & multum, & dvey,id eft aſcendere,penetrare,pertingere. Sedutmo. do dicebam, adſummam dictorum perueniendum eft, quærendum quid nomina iſta significant, opeta, id est uirtus, & xcxiæ,id eft prauitas.Alterum quidem nondum reperio, alterum patere uidetur.Nam ſuperioribusomnibus conſonar,nempetanquam eancom nia:Kards sok,id eſt male uadens:xariæ, id eft, prauitas erit. quarecum animamale adres ipfas accedet,communiter praua dicetur. proprie uero acmaximeprocedendihæcfa. culcas inoshiq,id eſt timiditate patet, quam nondum declarauimus. prætermiſimuse nim. Oportebatautem continuopoft fortitudinem ipfam inferre.Multa inſuper alia prę teriſſeuidemur. ddníc SIGNIFICAT durum animæ uinculum.domés enim uinculum eſt.nian uero forte quiddam durumg SIGNIFICAT quare timiditasuehemensacmaximum eſt ani mæ uinculum: quemadmodum & exeíc,id eſt defectus inopia, dubium,malum quiddã eſt,ac fummatim quodcuną progreſſus ipfius impedimentum,idé male progredi uide tur oſtendere,in ipſa uidelicetmotione impediri atą detineri. Quod cum animaſubit, prauitate plena dicit. Quod ſi illud prauitatis nomen talibus quibuſdam cõpecit,contra rium osti,id eſt uirtus ſignificabit.In primis quidē facilē agilemą progreffum, deinde folutum & expeditū animæ bonæ impetum effe oportet. Quamobréabloaz impedimēto obſtaculog és béov,id eſt ſemperfluens iure cognominari poffet adgfútn.fortè uero & αριτίω degerli uocatquis, quia litaliftas aép&TUTTys,id eftmaxime eligendæ. Verum colliſo uocabulo obetxdenominatur. Forſitan mefingere dices:ego autem aſſero, ſimodo no men illud prauitatis quod retuli,recte eſt inductum,recte quoc & iſtud uirtutis nomen induci.HERM.Arranów,id eftmalum,per quod in ſuperioribusmulta dixiſti, quid ſibi uult: so c.Extraneum quiddam per louem,ac inuétu difficile. Icaq ad hoc etiam machi namentum illud fuperiusafferam.HERM. Quid iſtud: SOCR. Barbaricum quiddam & hoc esse dicam.HERM. Probeloquiuideris. soc. Cæterum hæciam fi placet mittamus, nominauero iſta menon & degeóv, id eſt pulchrum & turpe, conſideremus. Quid degepon innuat, fatis mihipatere uidetur.Nempecum ſuperioribus conuenit. uidetur quinomi na ſtatuit, paſſim agitationis impedimentum uituperare.utecce,és igorri zion pouw, id eft femper impedientifluxum nomen dedit aegóggow. Nuncuero collidentes degsów appellant.HERM. Quid nonoy, id eſt pulchrum: soc.Hoc cognitu difficilius, quanquam ip ſum ita deducitur,utharmoniæ duntaxat & longitudinis gratia ipſum æ ſit productum. HERM.Quo pacto: soc. Nomen hoc cogitationis cognomentum quoddam esse videtur. HERM. Quiiſtud ais:'soc. Quam tu cauſam appellationis rei cuiuſ cenſes: an nó quod nominatribuit: Herm.Omnino.so c.Nónne causa hæc cogitatio est veldeorũ, vel hominum,uel amborum: HERM. Nempe.soc.Ergo xaréoa,ideft quoduocatres, & kxaóv,idem accogitatio ſunt.HERM.Apparet.soc. Quæcunq mens & cogitatio a gunt,laudanda ſunt:quæ non, uituperanda. HERM. Prorſus.soc. Quod medicinæ par. ticeps,medicinæ opera efficit:quod fabrilis artis,fabrilia.Tu vero quid fentis? HERM. Idem. soc.Pulchrum ita pulchra.HERM.Decet.so c.Eft autem hoc,ut diximus,cogi tatio. HERM. Maxime. soc. Nomen ita @ hoc naróv, id eſt pulchrum,merito erit pru dentiæ cognomentum,talia quædam agencis, qualia affirmantes pulchra eſſe,diligimus. HERM. Sicapparet.SOCR. Quid ultra generis huius reftat inveſtigandum: HER M. Quæ ad bonum & pulchrum ſpectant,conferentia uidelicet, utilia, conducibilia, emo lumenta,horum contraria. soc. Quid our popov,id eſt conferens ſit,ex ſuperioribus ip ſeinuenies. Nam nominis illius quodad ſcientiam attinet, germanum quiddam appa ret.Nihil enim præ ſe ferc aliud quam qopav,id eſt lationem animæ ſimul cum rebus, quæ ue hinc proueniunt,uocari orredoporre & ovu qopa, id eſt conferentia,ex eo quod fimul circumferuntur.Herm. Videtur.soc.Losdantov autem, id eft emolumentum: 7 koše dos, id eſt lucro.xopdos uero,li quisv prod nominihuic inferat, quod uult exprimit. Ná bonum alio quodam modo nominai. Quod enim omnibus xopavuutui, id eſt miſcetur diffuſum per omnia,hanc ipfam eiusuim fignificansnomen illud excogitauit pro vap ponens, ac Kopdo pronunciauit. HERM. Quid autem vorzask,id eft utile soc.Vides tur Ô Hermogenes,non ſicut cauponeshoc utuntur, idcirco Avantasy uocari, quia avesa a whece despaúx, id eſt ſumptusuitat & minuit:uerum quia cum velocissimum sit, res ftareno finit,neq permittit lationem réao-, id eft finem progreſſionis accipere atæ ceffare: ſed ſoluitfemper ab illa fugató,fi quis terminusfuperueniat, ipfamós indeſinentem immor talemg præbet.hac rationebonum avame18yuocatū arbitror.ipſum enim motionis aú ou do río, id eft foluens terminum,avandou uocari uidetur.coénomoy uero, id eſt con ducibileperegrinum nomēeſt, quo ſæpenumero Homerus eſt uſus. Eftauté hocaugen difaciendio cognomētum.Her.Quid de horâ contrarijs eſt dicendûrsoc. Quæ per negationem iſtorum dicuntur,tractarenequaquam oportet.HER.Quænã iſtar'sOc.co.uk gogov,kiw deres davandés, axopdes.HERM.Vera loqueris. soc. Sed Brabopov & yusão s, id eft noxium & damnofum. HERM. Certe.soc.Braboooy quidembacitou tou how effe dicit,id eſt quod uult& nav, id eſtimpedire & coercere:pšu id eft fluxum:hocautem passim uituperat:quodő uultanlay góp pouw, recte bonomopou appellaret. uerum ornatus gratia Brabopón arbitrornominatū. HERM.Varia tibifuboriâtur,ô Socrates,nomina.at quimihi uideris in pralentia, quali Palladiæ legispraeludiữ quoddã præcinuiſſe,dum no men Bracoitopöy pronunciares. so. Nõego in cauſa ſum Hermogenes,fed quinomēip ſum inſtituerunt.HERM. Vera loqueris. Verum Cauãdoquid: soc. Quid effe debeat {#ubades dicam Hermogenes: & uide uere loquar,quoties dico quod addētes ac de mētes literas lõge nominū ſenſum uariant,adeo ut ſæpe exiguâ quidmutantes, cótraria SIGNIFICATIONEM inducant quod apparethoc in nomine dear,id eſt opportunữ. uenithocnu permihiin mētem deeo quod di& urus ſum cogitanti.Recēs eſt profecto uoxnobispul chra illa,coegitý côtrarium ſonare nobis d'top & {mps&d ov, fenſum ipſum cõfundens.Ve tus autem quid nomen utrung uulc, explicat. HERM. Qui iftucais: soc.Dicam equi. dem.haud præteritmaiores noſtrosfrequentero & d utiſolitos,necrariusmulieres,quæ maximepriſcam uocem feruant.Nunc autem pro uelipfum & uelx adhibent, produe. ro (quali hæcmagnificentius quiddam ſonent. HERM. Quo pactorsoc. Vtecceuetu ftiſſimiuiriin op'a diem uocabant,pofteriores autem partim čuopov,partim su'épow,co cant. HERM.Vera hæc funt. soc.Scis igitur uetufto illo nomine tantum mentem eius quinomen impoſuit declarari.Nam ex eo quod imeipzory, id eſt deſiderantibus homini bus gratulantibus etenebris lumen emicuit,diem inopor cognominarunt. HERM.Ap paret.so c.Nunc autem illa tragicisdecantata quid ſibiuelit suopa,nequaquam intelli. gas.quanquam arbitrantur nõnullispopov dici,quod kuopa,id eftmāſueta quæg efficiat. HERM.Itamihi uidetur.soc.Neq te fugitueteres Puyóv,id eft iugum, dvozov uocauiſ fe.HERM.Planè.soc.Enimuero luzów nihil aperit. at d'voyou,divoiy dywylw,id eſt duori conductionem ligandi ſimul gratia,monftrat.Idemø eftdemultis alijs iudicandű.HER. Patet.soc.Eadem rationediopita pronunciatum cótrarium nominum omniâ quæ ad bonum ſpectant oſtendit.porro boniſpecies exiſtens,déondeouós,id eft uinculum quod dam & impedimētum proceſſionis effe uidet, tanquam Bag Bopo,id eftnoxij affine quid dam.HERM.Icamaximeapparet,ô Socrates.Soc.Verum nõſicin nomineueteri, quod ueriſimilius eſtrecte inſtitutum fuiffe, quàm noftrum. Nempe cum ſuperioribus bonis conſenties,fi pro 4,1 uetus reſtituas.Nec enim deby;ſed toy bonum illud ſignificat,quod ſemper nominūlaudat inuentor: Atą ita fecũipſenõdiſſidet, imòad idem ſpectat,d'ion, quali δίομ, ώφέλιμομ, λυσιτελών, κάρδιαλέον, αγαθόν, συμφόβου, εύπορου, ideft facile ad pro, greffum.uniuerſü hocdiuerlisnominib.innuit aliquid per omnia penetrās, omniaq pe rornans,idő ubiq laudatü: qd uero obftat & detinet, improbata. Quinetiã nominehoc {Butãds,liyeterű mored profpoſueris,apparebit tibinomen iſtud disutisè boy, id eft li ganti fiftentiç quod pergit,impofitum.unde & Musãdes cognominandum eſt.Herm. Quid ádura,númy, uslupia,uoluptas ſcilicet,dolor, cupiditas, Socrates, & huius generis reliqua: soc.Haudnimis obſcura mihi uidentur Hermogenes, šidbvi,id eſt uoluptas lir quidem actionis illiusnomen eſt, quæ adóvgay, id eſt utilitatem emolumentumo tendit duero adiectum facit,ut pro eo quod eſt sova,údova proferatur.Ajax, id eftdolor,à Stanús Gews,id eſtdiſſolutione corporis trahi uidetur.Nam in huiuſmodi paflione corpus diffol uitur.xvíc, id eſt triſtitia, quod impeditigio,id eft ire,demonftrat.& aguda, id eft crucia tus,peregrinum nomen uidetur,ab ängdvö dictum.éduig,id eft dolor & afflictio,ab güdlü Oews,id eft ingreſſionedoloris denominatur. HERM. Videtur.so Cårigoló, id eftmoe ror languor,lationis grauedinem tarditatemg ſignificat. ãxto enim onuselt.ioy uero pergens.xapod uero,id eſt lætitia gaudium,à diazúrews,id eft profuſione, & progias, id eft facilitate,poas, id eſt motionis animæ, dicitur. Tosalesid eſt delectatio,ab toptivs,id eft oblectamento ducitur. Topavoy autem à trom,id eft inſpiratione delectationis in animā Quaremerito uocaretur égaršv,id eſt inſpirans. Temporis autem interuallo ad Top Arvo deuentum eſt.cuqpoouis,id eſthilaritas & alacritas, quam ob cauſam dicatur,aſſignareni hil opus.Nam cuicp patet hocnomen trahiab eo quod dicitur eü, id eſt bene. oum @ opeally id eft unaſequi qualidicat animabeneres affequi.Vnde cu poporubs uocarideberet:ta men Bagooutlw appellamus. Sed neg difficile est assignare quid üsgutta, id eſtcupidi. tas ſibiuelit.Nomen quippehocuim tendentem in Ovuoy, id est animam & iram & fu rorem oftendit. Ovuós autem à lúoews& toews,id eft flagrantia, feruore,& impetu animę. proindeiupo,id eft fuauis & blandaperfuſio,dicitur,jm,id eſt fluxu animam uehemen ter alliciente.ex eo enim quodiulio ga,ideft incitatusrerumgappetens fluit,animam uehementerattrahitpropter impetum ſiue incitamērum fluxus.ab hac tota uiHimeros eſt nuncupatus.Præterea Pothos uocatur,id eſt deſiderium, quod fane præfentem fuaui tatem nõ reſpicit, quemadmodū iuepo,fed abfentem ardet. Vnde wale_diciturqualiá wóvrG,id eft abſentis cócupiſcentia.Idem ipſe in id quod gratñeſt animinixus,præ ſente co quod cupitur iuopo,abſente wólo denominatur. iews autem, id eſt amor, quia doga,id eft influit extrinſecus,neg propria eſt habēti gas,id eſt fluxio ilta,fed infuſa per oculos. Quapropterabcogar,id eſt influere,čopo, id eft influctio,amor ab antiquis no ftris appellabat,nam opro wutebantur.nuncautem épwsdicitur,wproo interpoſito. Ve. rum quid deinceps conſiderandum præcipis?HERM. dlófæ, id eft opinio, & talia quædã, undenomen habentisoc.déke,uel à diwa,id eſtperſecutione dicit, qua pergit & pro ſequituranima, conditionem rerum inueftigans:uelà tófo Borm,id eft arcus iactu. uides turautem hinc potiusdependere. oinois, id eft exiſtimatio,huic confonat. oftendit quip pecioiy,id eſt ingreſſum animæin unumquodß conſiderandum, oioy,id eſt quale fic:quê admodum & bons,id eft uoluntas a Borá,id eſt iactu dicitur: & Bóns, id eſt uelle, pro pter ipſum attingendinixum ſignificat etiamélis,id eſt cupere:& Bonbuch, id eſt cõſu lere. Omnia hæ copinionem fequentia,Boras ipfius, id eſt iactus & nixus imagines eſſe uidentur.quemadmodum contrarium, & boniæ, id eſt priuatio uoluntatis,defectusquidã conſequendiimpos apparet, quali non contendat, neq etiam quod intendit,uult, cupit, inueftigat,adipiſcatur.HERM.Frequentiora hæc congerere uideris, ô Socrates. Quare finis iam fic fauence deo. Volo tamen adhuc,ávéyxlu & Exšonoy,id eſt neceſſarium & uo luntarium declarari.Nempe ſuperioribusilta ſuccedunt.socRéxóozoy equidem eft si noy,id eſtcedensneg renitens, hoc fiquidem nomine declaratur zinoy lestorti, id eſt ces denseunti, quod'ue ex uoluntate perficitur. avayeccoy uero, id eſt neceſſarium & obfi ſtens,cum præter uoluntatem ſit,circa errorem infcitiam uerſabitur deſcribiturautem ex proceſſu ſecundum neceſſitatem, quoniam in uia aſpera denſa inceffum prohibent. Vndeavaysazov dictum eſt,quali per & yroscop,id eſt per uallē uadēs.Quouſ uero uiget robur,ne deſeramus. Quamobré interrogaamabo, ne deſiſtas. HERM. Ecce rogo quæ maxima ſunt & pulcherrima:« aksaa,id eft ueritatem, & fordo,id eftmendacium, & öy,id eft ens, & quareid quodehicagimus,övoua,id eft nomen, dicitur. SOCR. Quid vo casmaksa: HERM.Voco equidem inquirere.so c.Videtur nomen hoc ex sermone illo conflatum, quo dicicuröv, id eſt ens esse,cuiusnomen inquiſitio eſt. Quod clarius certe comprehendes in eo quod dicimus óvojasóy, id eſt nominandum. hic enim exprimitur nomen quid ſit, entisuidelicet inquiſitio. &ikbļa uero ficut & alia componiuider.Nam diuina entislatio, nomine hoc includitur, ankódæ, quaſi exiſtensOscarx,id eft diuina que dam uagatio.Foido- autem contrarium motionis. Rurſushic uſurpatur agitationis obstaculum, quod'ue ſiſtere cogit. Nam à reboudw, id eſt dormio dicitur. 4 uero adiectum ſenſum nominis occulicouuero & Xoia, id estens et essentia,cum & rx66ą, id eſtueritate, congruunt: fic apponatur.namrov, id elt uadens ſignificat.Atdrøv id eſt non ens,quidam nominant xxcov, id eſt non uadens. HERM. Hæcmihiuideris, 6 Socrares, fortiter admo dum discussisse. Verum si quiste perconteturquæ fitrecta iſtorum interpretatio, quæ di cuntur čov, id eſt uadens:géov,id eft fluens,doww,id eſt ligansac detinens, quid illi potiſſi. mum reſpondebimus: habes'ne: Socr. Habeo equidem.profecto nuper ſuccurrit no bis aliquid, cuiusreſponſione quicquam uideamur afferre. HERM. Quale iſtud: soc. Viquodminime cognoſcimus, barbaricum eſſe dicamus. fortè enim partim reuera talia ſunt: forte'uero partim, ac præſertim nomina prima,temporum confuſione infcru. “ tabilia.Etenim cum paflim uocabula diſtrahantur, nihilmirum eſſet ſi priſcalingua cum Ç noſtra collatanihilo à barbarica uoce differret. HERM.haud alienum eſtà ratione quod a dicis. Socr. Conſentanea quidem affero, non tamen idcirco certamen excuſationem uidetur admittere.Sed conemur hæc diſquirere, ato ita conſideremus: fiquis femper uerbailla per quænomen dicitur, quæreret,rurſus illa per quæ dicuntur uerba, ſciſci taretur, pergeretob ita perquirere, non'ne qui refpondet, defatigari tandem & renuere cogeretur: HERM. Mihiſane'uidetur. S O CR. Quando ita quireſponſum denegar, merito ceſſabit: An non poftquam ad nominailla peruenerit, quæ cæterorum ſunt& ſermonum & nominum elementarHæcutio fi elementa funt,ex alñsnominibus com pofita uiderinon debent.quemadmodum ſupra & yalóy,id eſt bonâ diximus, ex « y så, id eſtiucundo amabilio, & 805,id eftueloci compofitum.gooy rurſus ex alijs conftare di cemus,illağ ex alijs. ſed poftquam ad id peruenerimus quod ultra ex alíisnominibusno coſtituitur,merito nosad elementű perueniſfe dicemus,nec ulteriusbocin alia nomina, referendum. HERM. Scite mihiloquiuideris.soc. Annon ea de quibuspaulo ante in terrogabasnomina eleméta funt oportet rectam illorõrationem aliter quam reliquorum inueftigare. HER. Probabile id quidem.soc.Probabile certeHermogenes. Supe riora itaq omnia in hæcredacta uidentur:ac ſi ita ſe res habet, ut mihiuidetur, rurſusage hic unamecum conſidera, neforte delirem dum rectam primorum nominum rationem exponeretento. HERM. Dicmodo. ego nang pro viribus meditabor. soc. Arbitror equidem in hoc tecõſentire,unam efferectam & primi& ultiminominisrationem, nul lumğ illorum eo quod nomen est, ab alio diſcrepare. HERM. Maxime.so c.Etenim om 2 nium quæ ſuprà retulimusnominum recta ratio in hoc cõſticit, ut qualis quæ res litin 7) dicaretur.HERM. Proculdubio. soc. Hocutio non minus prioribus quam pofteriori. bus competere debet sinomina fucura sunt.HERM. Prorſus.so-c.Atquipoſteriora no. minaper priora hocefficere poterant.HERM. Apparet. soc. Primauero quibus alia nõ præcedunt, quo pacto quam maximeres ipsas nobisoftendēt, ſi nomina effe debet: Adhoc mihireſponde. ſiuoce & lingua caruillemus,uoluiffemusgres inuicem declara re,nonneperindeac nuncmuti, manibus capite & cæterismembris ſignificare tenta uiſſemus? HERM. Haud aliter Socrates, soc. Ergo supernữ quippiam ac leue demonftraturi, cælum uerſusmanum extuliffemus, ipſam rei naturam imitantes: inferiora uero & grauia deiectione quadã humiinnuillemus. quinetiã currentem equũuelaliud quic quam animalium indicaturi,corporum noftrorum geftus figuras ad illorum ſimilitudi nem quam proximequiſo finxiſſet. Herm. Neceſlariû quod ais eſſemihiuidetur.soc. Huncinmodűutarbitror his corporis partibus ostensum eſſet, corpore videlicet quod quifq monstrare voluerat imitante. Herm. Ita certe.soc. Postquá uero uoce, lingua, & ore declarare uoluimus, nónne ita demum per hæcoſtenſio fiet,li per ea circa quodli bet,facta fuerit imitatio: HERM.Neceſſarium puto. soc.Nomen itaq eſt, urapparet, imitatio uocis, qua quiſquis aliquid imitatur,per uocem imitat & nominat. HER.Idem mihi quoq uidetur.soc. Nondum tamen recte dictum existimo. HERM.Quamobrē: Soc. Quoniam hos ouiū & gallorum cæterorum animalium imitatores fateri cogere. murnominare eadem quæ imitantur.HERM.Vera loqueris. SOCR.Decereid cenſes: HERM. Nequaquam sed quænam ô Socrates imitatio nomen erit: s o c.Non talisimi. tatio qualis quæ permuſicam fit,quamuis uoce fiat,nec etiã eorundem quorum & mu. fica imitatio eſt,nec enim permuſicam imitationem nominare uidemur. Dico autê ſic: Adeſtrebusuox & figura colorø plurimus. HERM.Omnino.soc.Videturmihiſiquis hæcimitetur,neq circa imitationes iftas nominandifacultas cõfiftere. hæfiquidem ſunt partim muſica, partim uero pictura.jnonne.HERM. Plane. soc. Quid ad hoc: nonne essentia eſſe cuiq putas, quemadmodú colori & cæteris quæ ſuprà diximus: an nõ ineſt coloriacuocieſſentia quædam,& alijs omnibus quæcunc essendi appellationefundi. gna: HERM. Mihi quidem uidetur. soc. Siquis cuiuſą eſſentiam imitari literisfylla. biscß ualeret,nonne quid unumquodo fit declararet: HERM. Maximequidem. Soci Quem hunc eſſe dices: ſuperiores quidem partim muſicum,partim pictorem cognomi nabas,hũcuero quomodouocabis? HERM. Videturhicmihiô Socrates quem iamdiu quærimus nominandiautor. soc. Siuerum hoc eſt,conſiderandum iam denominibus illis quæ tu exigebas, pess, ideſt fluxu,igra,id eſt ire, géoews, id eſt detentione,utrumli teris ſyllabisą luis reuera effentiam imitantur,nec'ne.Herm.Prorſus. soc. Ageuidea musnunquid hæcſola primanominaſint,an fint & alia præterhæc. HER.Alia equidem arbitror. Soc. Consentaneum est cæterum quis diſtinguendimodusunde imitari incir pitimitator: Nónne quãdoquidem literis ac ſyllabis eſſentiæ fit IMITATIO, præſta tprimu elementa distinguere: quemadmodum qui rhytmis dant operam, elementorum primo uires diſtinguunt, deinde fyllabarum tanium, rhythmoscandem iprosaggrediuntur,pri usnequaquam. HERM. Vtiq.soc.Annon ita & nos primo oportet literas VOCALES distinguere, poftea reliquas ſecundum ſpecies, mutas & SEMI-VOCALES. Ita enim in his erudi ti uiri loquuntur.acrurſus uocales quidem,non tamen ſemiuocales, & ipſarű uocalium ſpecies inuicem differentes.  Etpoftquam bæcbene omnia diſcreuerimus,rurſus induce, renomina,conſiderareg ſi ſuntin quæ omnia referuntur, quemadmodum elementa,ex quibuscognoſcere licet& ipfa, & fi in ipſis ſpecies continentureodem modo ficutiner lementis. His omnibusdiligenter cogitatis,Icire oportet afferre secüdum fimilitudinem unumquodą, ſiueunum uniſit admouendum, ſeu mulcą inuicem commiſcenda:ceuph Storesctores similitudinem volentes exprimere, interdum purpureum duntaxat coloré adhi bent,interdum quemuis alium colorem, quandoq multoscômiſcent,ueluti cum imagi nem uiri quam ſimilimam effingere uolunt,uel aliud quiddãhuiuſmodi, quatenus ima goqueo certis coloribusindiget. haud ſecus & noselementa rebusaccomodabimus,& unum uni, quocunq egere maxime uideatur:oumbona “, id eſt coniecta conficiemus, quas ſyllabasuocant. Quas ubiiunxerimus, ex eisö nominauerba constituerimus, rur fusex nominibusac uerbismagnum iam quiddam & pulchrum & integrum conſtrue mus:& quemadmodum totum ipſum compoſitum pictura animal uocat, ita noscontes xtum huncintegrű; orationem uel nominandi peritia,uel rhetorica fábricatam,uel alia quauis quæ id efficiatarte.Imòno nos iſtudagemus.modūnamą loquendo tranſgref fus fum, quippe ueteres ita conflarunt,fi ita eſt conſtitutum. Nosautem oportet,fimodo artificiofe conſideraturiſumus,ipſa omnia fic diſtinguentes, fiue ut conuenit primano mina & pofteriora ſint poſita,ſiue non,ita excogitare.Aliter autem cõnectere uidendű eft ôamice Hermogenes,ne forte ſit error.Her. Forte per louem ô Socrates. soc.Nun quid ipfe cöfidis ita te posse diſtinguere:Ego enim mepoſſe diffido. HEŘ.Multo igitur magis ipſe diffido.soc.Dimittemus igitur?an uis utcun @ ualemus experiamur,et ſi pa rum quid horum noſſe poffumus,aggrediamur,ita tamen utfuprà,dis præfati:ucq illis ediximus,nihil nosueriintelligentes opiniones hominūdeillis conñcere:ita & nấcper gamusnobiſipſi ſimiliter prædicentes, quod fi quam optime diſtinguenda hæc fuiffent, uel ab alio quopiam,uela nobis,ſic certe diſtinguereoportuiſſet: nuncautem,ut fertur, puiribus ifta nostractare decebit.Admittishęc'uel quid ais.HER. Sic prorſusopinor. soc.Ridiculum uiſum iri ô Hermogenes, arbitror, quod res ipfæ imitatione per literas fyllabas a factamanifeſta fiát.Neceſſarium tamen:nec enim meliushochabemus quic quam,ad quod reſpicientes deueritate primorum nominū iudicemus:niſi forte quemad modum Tragiciquoties ambigunt, cõmentiris quibuſdam machinamentis ad deosco fugiunt,ita & nos ocyusrem expediamus,dicentes deos primanominapoſuiſſe, & idcir corecte inſtituta fuiſſe.nunquid potiſſimusnobis hic fermoran ille,quod ipſa a barbaris quibuſdam accepimus: Nobis quippe antiquiores ſuntbarbari,uelquòd ob uetuftatem ita ea diſcerninequeuntut & barbara: Tergiuerſationeshæ ſunt, & belliſſimæ quidem, illorum quicunq nolint derecta impoſitione primorum nominû reddere rationem. Ete nim quiſquis rectam primorā nominum rationem ignorat, ſequentium cognoſcerene quit.hæcporrò ex illis declaranda ſunt,illa autē is ignorat. quin potius neceffe eft fequê tium peritiam profitentem,multo prius & abfolutius antecedentia comprehendiffe,por feq oſtendere, aliter autem ſciredebet fe in fequentibus deliraturũ.an aliter ipſe confess HER.Haud aliter Socrates. soc. Quæ ego ſenſideprimis nominibus, inſolentia ridicu lag admodum eſſe mihiuidentur,eaç tecû, ſi uelis, comunicabo. Siquid uero tumelius inueneris,mecum & ipſe comunica. HER. Efficiam.fed diciam forti animo. soc.Princi pio ipſum g uelut inftrumentum omnismotuseſſe uidetur. Curautem motuslivrosap pelletur,non diximus.patet tamen quoditors, id eftitio eſſe uult.Non enim » quondam, fedeutebamur.principiữautē ab liay, id eſtire, quodperegrinum nomen eft,& igra,id eſtire ſignificat.Quare fi priſcum eiusnomen reperiatur in uocem noftram translatum, recte i'eois APPELLABITVR. Núc autem ab kiau nomineperegrino, & ipfiusy conmutatione, & vipſius interpofitione livyoisnuncupatur. Oportebat autem sidingoy uel any dicere. súčas,id eft ftatio,negatio ipfius iga, id eft ire eſle uult, ſed ornatuscaufa séas denomi natur.Elementū itaq ipſum qopportunűm motus inſtrumentum, ut modo dicebā,uiſum eſt nominum autori ad ipfam lationis fimilitudiné exprimendā: paflim itaggad motus expreſſionē utitur.In primo quidem ipſo jau & goñ, id eſtfluere, fluxuğ per literampla tioně imitatur,deinde in touw,id eft tremore,& baya aſpero.item in uerbis huiufmodi, kódy percutere,&gaver uulnerare, oʻúrdy trahere, @ gúndu frangere eneruareg, kopuerto siddy incidere,pêué du uacillare, irritare, & circumuerſare. Hæcomnia ut plurimâperp ad similitudinem motionis effingit. Mitto enim quod lingua in hac litera pronunciadamini meimmoratur, quin potius cocitatur. Quocirca ad iſtorũ expreſſione iplo s potiſſimữ uſus fuiffe uider. Vfus eft &, scilicetiota, ad tenuia quæ per omniamaximepenetran tia.idcirco igra & icadou, id eft ireprogredió per o imitatur. Quéadmodū per 4.0, quæ E literæ uehementioris fpiritus ſunt, talia quædam nominum autor exprimit, fuzeów frigt dum, (soy feruens, osoatare concuti, & communiter aconoy, concuſſionē quaffationem: quoties uehemens quippiam &fpiritu plenum imitari uult nominum inftitutor, tales utplurimum literas adhibet.Quinetiam ipſiusd cõpreſſionem aco, linguæ & uelut ha. rentis retractionem, peropportunã exiſtimaſſe uideturaduinculi&ftationis potentiâ exprimendam. Etquia in a proferendo maximelingua prolabitur, idcirco per hoc uelur ex fimilitudine quadam nominauit nga, id eſt lenia & órcdaerah labi, & noMūdeslie quidum,Ascrapov pingue, cætera huiuſmodi.Quiauero labentem linguam y remoratur eo interiecto formauityhioggoy lubricum, gauxudulce, yrādes uiſcoſum, luculentum. Animaduertens quo&ipfius v ſonum imoin gutture detineri, eo nominauit so výdby & te gutos, id eſtąd intus eſt,& quæ intrinfecusſunt, utres per literas repræſentarer.Ipſum uero w,meyer@,id eſt magno tribuit &ipſum % ukus,id eſt longitudini, quoniamma. gnäliteræ ſunt.in nomineautem spozzinoy, id eft rotundum,ipfo o indigens, o ut pluri mummiſcuit. Eadem ratione cętera ſecundum literas ac ſyllabas rebus ſingulis accom modare uidetur nominum autor,ſignữnomenoconſtitués,ex his deinde ſpecies iamre liquas per ſimilitudinem conſtituere. Hæc mihi Hermogenes recta uidetur effe nomina ratio, niſi quid aliud Cratylus hic afferat. H ER.Etenim ở Socrates, fæpemeturbat Craty lus hic, uc à principio dixi,dum eſſe quandã afferit rectam nominû rationem, quæ uero sit, non explicat, utdiſcernere nequeam utrum de induſtria, nec'ne adeòfit obſcurus. In præſentia igitur Ô Cratyle,coram Socrate dicas, utrum placeant ea tibi quæ Socrates de nominibuspredicat,an preclarius aliquid afferre poffis:quodfi potes,adducas in me dium, ut uel a Socrate diſcas,uel nos ambos erudias. CRAT. Videtur netibi Hermoge nes facile eſſe tam breui percipere quoduis atque docere,nedum rem tantam, quæ maxi mum quid demaximis æstimatur. HER. Non mihi per louem, quinimò ſcite loquutum Heliodum arbitror, quod operęprecium ſit paruum paruo addere.Quare fi quicquamli cet exiguum perficere uales,ne graueris, fed & Socratem istum iuua,& me insuper.de. bes enim.soc. Equidem ô Cratyle,nihil eorum quæ ſupra comemoraui; aſſererē.Nem peutcunq; uiſumeſt, cum Hermogenehocindagaui. quocirca aude fi quid melius ha bes, exprimere, tanquã ſim libenter,quod dixeris,ſuſcepturus.Neqz enimmirarer liquid tu hiſcehaberespræclarius. Videris porrò &ipfe talia quædã conſideraffe, &ab alijs di diciſſe. Siquid ergo præstantius dixeris, me interdiscipulos tuos circa rectam nominā rationem unum connumerato. CRAT. Certe mihi ô Socrates,utais, curæ hæc fuerunt,ac forte diſcipulum te efficerem.Vereortamen ne contrà omnino ſe res habeat.Conuenic mihi nuncidem erga te dicere, quodaduerſus Aiacem in ſacris Achilles inquit.Genero. Iliadosi fe,ait,Aiax Telamonie populorũ princeps, omnia mea ex ſententia protulifti.Ita cu quo queô Socrates, nostra exmente uaticinari uideris, fiue ab Euthyphrone fueris inſpira tus, ſiue Muſa quædam tibipridem inhærens nuncte protinus concitauerit. soc. O uir bone Cratyle, ego quoß fapientiam meam iampridem admiror,neq nimis confido.qua re examinãdum quid dicam, exiftimo.Namaſeipſo decipi grauiſſimum eſt.nimis enim 2 periculoſa res eft, quum ſeductorabeſt nunquam ſemperdeceptum proxime comita,  tur. Oportetitao superiora frequêter animaduertere, & utpoeta ille ait, ante illa retros conſpicere.Atqui &in præsenti videamus quid à nobis sit dictum. Rectam diximus no minis rationem, quæqualis quæqres fit, oftendit.Nunquid ſufficienter eſſe dictâ afferi mus: CRAT. Ego quidem aſſero.soc. Docendi igitur gratia nomina ipfa dicuntur: CRAT. Prorſus.soc. Annon & artem eſſe hancdicimus, & ipfius artifices: CRAT. Maxime. soc. Quos.CRAT. Quos à principio tu legum &nominum conditores co gnominabas.soc.Vtrum hanc artem ſimiliter atą alias ineſſe hominibus, an aliter arhi tramur:Idautem eft quoduolo.pictores quidam deteriores ſunt,quidam pręſtantiores? CRAT. Sunt.soc. Nónne præstantiores opera sua pulchriora faciunt, figuras uidelicet animalium: cætericontra: Aedificatoresquoq ſimiliter partim pulchriores, partim tur piores domos efficiūt: CRAT.Sic eſt.soc. Nónne et legum ipsarī autores partim opera suapulchriora, partim turpiora efficiunt: CRAT. Haud ampliusiftud admitto. soc. Non ergo leges aliæmeliores,deteriores aliæ tibiuidentur. CRAT. Non. soc. Nec etiã nomen utapparet, aliud melius, aliud deteriusimpoſitum arbitraris. CRAT. Negiſtud. soc.Ergo omnia nomina recte poſita ſunt. CRAT. Quecunqueuidelicet nominaſunr. soc.Quid de huius Hermogenisquod ſupra dictum eſt, nomine: Vtrum dicendű non effeilli iftud impoſitum,niſiquod équo geridews,id eft Mercurijgenerationis illicompe car: Animpoficum quidem, non tamen recte:CRAT.Nec impofitum eſſe ô Socrates, arbitror,fed uideri.eſſe autem alterius cuiusdā nomen, cui natura inest quæ nomine con cinetur.soc.Vtrum nequementicur quisquis Hermogenem eſſe eum dicit:Nec enim hoc eft dubitandum, quin eum dicatHermogenem eſſe,cum non fit.CRAT. Quaratig ne id ais: so c. Nunquid ex eo quod non datur dicere falſa,ſermo tuus conftat, & circa id uerſacur.permulci nempeô amice Cratyle, & nunc prædicant, & quondam aſſerue runt.CRAT.Quo pacto ó Socrates,dum dicit quis quod dicit quod non eſt dixerit; An non hoc eſt falla dicere,quæ nõ ſunt dicere: soc.Præclarior hic fermoamice,quam con dicio mea & ætas exigat.Attamen mihi dicas,utrum loqui falſa non poſſe aliquis tibi ui detur,fariautē pofle? CRAT.Neq fari.soc.Acetiam nec dicere,nec apppellare, falu tare: Quemadmodum liquis tibi obuiushoſpitalitatis iure manu te prehendens dicat Salue hoſpes Athenienſis, Šmicrionisfili Hermogenes. illeloqueretiſta,uel fari dicere tur,uel diceret,uel falutaret,appellaretę ita, non te quidem,ſed hunc Hermogenem,aut nullum: CRAT.Videtur mihi ô Socrates, incaſſum hæc iſte uociferare.so c.Šat habeo. utrū uera uociferat,qui ita clamat, an falſa: Anpartim uera, partim falſa: Namhoc quo queſufficiet.CRAT. Sonare huncego dicam feipfum fruſtra mouentem, ceu fiquis æra pulſer.soc.Animaduerte Cratyle,utrum quoquo modo conueniamus.Nõne aliud no men, aliud cuius nomen eſt,effe dicis: CRAT. Equidem. soc. Etnomen rei ipsius imita tionem quandam effe: CRAT.Maxime omniū. So c. Et picturas alio quodam modo re rumquarundam imitationes: CRAT. Certe.so c. Ageuero, force'ego quid dicas, non fa tis intelligo,tu autem forſitã recte loqueris.poffumus has imitationes utraſą & picturas & nomina rebus his quarű imitationes ſunt, attribuere,nec'ne: CRAT. Poſſumus. SOC. Adverte hocin primis,nunquid poffit aliquisuiri imaginē uiro, &mulieri mulieris tri buere, & in alijs eodem pacto: CRAT.Sic certe.soc.Num &contra,uiri imaginem mu lieri,& mulieris uiro: CRAT. Ethoc. soc. An utræquediſtributioneshuiuſmo directæ sunt: uelpotiusaltera,quæ cuiæ proprium fimileg attribuit: CRAT.Mihi quidem uide tur.SOC.Ne igitur ego actu cum ſimusamici, in uerbis pugnemus, aduerte quod dico. Talemego diſtributionem in imitationibus utriſqz tam nominibuső picturis rectã uo co. & in nominibus nõrectam modo, fedueram. Alteramuero diſsimilisipſius tributio nem illationem non rectam,& in nominibus præterea falſam. CRAT. Atuide ô Socra tes,nefortè in picturis duntaxat id contingere poſſit,ut quis male diſpertiat, in nomini bus autem minime,fed neceſſariū ſit recte femper adſcribere.soc.Quid ais: quo ab illo hoc differt: Nonefieri poteſt ut cuipiam uiro quis obuius dicat,hæctua figuraeſt, oſten datók illi forte'uiri illius figuram, forte'etiã mulieris: Oftendere,inquam,ſenſibus oculo rum offerre. CRAT.Certe.soc.Nónneiterum ut eidem factus obuiam dicat, nomen id tuum est. Imitatio quippe aliqua nomen est, quemadmodũ & figura. Dico autéita.Nón ne licebit illi dicere,nomen hoctuum eft: deinde in aurē idem infundere,fortè'eius imi tationem dicendo quod uir eſt,forte' uero fæminæ cuiuſdã generis humani imitationē, dicendo quod mulier: Non uidetur tibihoc aliquãdo fieripoffe: CRAT.Concedere ti bi uolo, o Socrates, licefto.soc. Recte facis amice.acſi id ita fe habet, controuerſia iam tolletur. Porrò si in his huius modi quædã partitio fit, alterâ uereloqui,alterữloqui falſa uocamus.Si hocaccidit, & poſſumus non recte nomina diſtribuere, & quænon propria funt cuic reddere,fimiliter in uerbis aberrare licebit.Sinautem uerba nominağ ita con gerere datur, necesse est et orationes similiter. Oratio quippe,utarbitror, eſt uerborum &nominum cõpoſitio. Quid ad iſta Cratyle: CRAT. Quod & tu.probe namg loqui ui deris.soc. Quinetiã si prima nomina ad literas ipſas quadã imitatione referimus, cótin. gere poteſt in his quemadmodã in picturis,in quibusaccidit ut congruas omnes figuras coloresg; adhibeamus.Item (ut non omnes,fed partim ſuperaddamus,partim ſubtraha mus,plura & pauciora exhibeamus. Nõne fieri hoc potest? CRAT. Proculdubio.so.. Quicóuenientia oſia tribuit,pulchras literas & imagines reddit. Quiuero addit,uel au fert,liceras quidem ac imagines &ipſe facit, fedmalas,CRAT. Nempe. soc. Qui autem per literas ac syllabas rerum eſſentiam imitatur,nónne eadem ratione fi comperētia om nia tribuit,pulchram imaginem efficit: Idautem nomen exiſtic.finautem in paucás defi, ciatuelexcedat,imago quidem efficietur, sed non pulchra: Quamobrem nomina quæ. dam beneinſtituta erunt, quædam contra.CRAT. Forte. soc.Forſican ergo nominum hicbonus erit artifex,illemalus.CRAT.Profecto.soc.Nónne huic nomen erat nomi numcõditor: CRAT.Plane.so c.Erititag in hocquemadmodū in cæteris artibus con. ditor nominum bonus unus,alius uero non bonus,limodo fuperiora illa inter noscon ftant. CRAT. Vera hæc funt. Verum cernis ô Socrates, quotiens has literas « & B & quoduis elementorű nominibus per artē grammaticamattribuimus, ſiquid auferimus, ueladdimus, uel etiam permutamus, quod nomen quidem ſcribimus;non tamen recte, imò uero id nullo modo fcribimus,quin potius ſtatim aliud quiddã eſt, cũ primum horű aliquid patitur.soc.Videndű Cratyle,ne force'minusrecte hoc pacto conſideremus. CRAT. Quo pacto:so c. Fortaſſis quæcune aliquo ex numero conſtare uel non cõsta reneceſſe eſt, id quod ais perpetiuntur, quemadmodūdecem, autquiuis alius numerus. Nam quilibet numerus quocûç additouel ablato, alius ſtatim efficitur. Fortè uero qua litatis cuiuslibet & imaginis haud eadēratio eſt, ſed diuerſa. Neg enim omnia imago ba bere debet quæcũą illud cuius imago eſt, li modoeſt imago futura. Animaduerte num aliquid dicam. Anduoquædam hęcerunt,Cratylus uidelicet, & ipfius imago, ſiquis deo rum nõmodo colorem tuum figuramß expreſſerit,ut pictores ſolent,ſed interiora quò que omnia fimilia tuis effecerit,mollitiem eandem, caloremý, motum,animā, fapientiā; &ut breui complectar,talia prorſus effinxerit omnia,qualia tibiinſunt: Varum, inquá, alterum iſtorum Cratylus erit,alterum Cratyli ipsius imago:AnCratyli potius gemini: CRAT.Cratyli ô Socrates, ut arbitror, duo.soc.Cernis amicealiam imaginis rationem eſſe quærendam, quàmillorum quæ paulo ante diximus ne cogendum effe liquiduel additum,uelablatum fuerit,ut non ampliusſit imago Annonſentis quantã deeſt ima ginibus, ut eadem habeantquæ & illa quorû imagines sunt: CRAT. Equidem.soc.Ri. diculum aliquid Cratyle exnominibus contingeret his quorum nomina ſunt, fi prorfus illis fimilia redderentur.Gemina quippe omniafierent, neutrumą illorūutrum effetpo tius dici poffet,res'ne ipſa annomen. CRAT. Vera loqueris. soc. Ingenueitaqz fatearis o uirgeneroſe,nominum aliud bene,aliud contra pofitum effe:nec cogas omnes literas continere,adeò ut penitus tale fit, quale & id cuius eft nomen:ſed mitte literá quoq mi nus congruam afferri quãdoq:ſi literam, &nomen ſimiliter in ſermone: ſi in fermoneno men,ſermonem inſuper nequaq connenientem rebus tribui, et rem ipsam nihilominus nominari diciç,quoad rei ipſiuscuius fermo eft figura,inſit: quemadmodü in elemento rum nominibus quæ nuper ego &Hermogenes comemorauimus,lirecordaris. CRAT. Recordor equidem,soc. Benehercle igitur quandocung hocinerit, quamvis non om nia conuenientia prorſus adſint, dicetur.bene quidem, cum omnia:male uero, cum pau ca.Diciitap ô beate,mittamus,nequemadmodû qui in Aegina noctu circumuagãtur, fero iter peragūt, ita &nos hoc pacto ad res ipfas reuera ſerius quàm deceat, perueniſſe uideamur,uelfalutem aliam quandã exquiras rectam nominis rationem,nec confitea. ris declarationem rei literis ac fyllabis facta,nomen effe.Porrò ſi ambo hæc dixeris, tibi ipfe conſtare &conſentire non poteris. CRAT. Viderismihi probeloqui ô Socrates.at que ita pono.soc. Poſtquam de his conſentimus, quod reſtat diſcutiamus.Si bene no men poſitum eſſe debet,oportere diximus literas fibi cõuenientes ineſſe. CRAT. Plane. soc.Conuenit autem ut literæ rerum fimiles inſint. CRAT. Omnino. soc. Quæigi tur recte ſunt poſica ita pofita ſunt.Siquid autem non recte poſitum eſt ut plurimum qui demex conuenientibus ſimilibusý literis conſtat, fi quidem imago eſt.habet auté & ali quidnon conueniens,propterquod non rectâ eſt,nerecte nomen eſt inſtitutű,Sic'ne an aliter dicimus:"CRAT.Nihileft ô Socrates, ut arbitror, contendendã: neq enim mihi placet,utņomen quidem eſſe dicatur,non tamērecte poſitű. soc.Vtrum hoc tibi non placet, quod noměreiipfius declaratio lit:CRAT. Placet.soc.At vero nomina partim ex primis constituta esse, partim esse primanon probedictâ putas:CRAT.Probe.soo Enimuero prima ſi quorundā declaraciones effe debent, habes'ne modû commodiore quo id fiat, qa li talia fiát,qualia illa funt quæ declarari volumus:Anmodus iſte pocius ei bipla. i  biplacet,qué Hermogenesalijý plurimi tradunt,quòd uidelicet nomina conuentiones quædam lint ijs qui ita coſtituerunt,acresipfa præcognouere,aliquid referentes:rectas nominis ratio in cõuentioneconſiſtat,nec interſit utrum quis ita utnunc ftatutű eſt de cernat, an contra:ut uideliceto, quod nunc o paruũuocatur, o magnum cognominetur, wuero quodmodow magnum, w paruum dicatur: Vter iftorum magis tibimodus pla cer: CRAT. Pręſtatomninoô Socrates,fimilitudine referre quod quis oftendere uult, quouis alio. soc. Scice loqueris. Nõneli nomen rei ſimile eſt,neceſſe eſt elemēra ex qui bus prima nomina cõponuntur,natura ipſa rebus eſſe fimilia: Sic autem dico: an aliquis quandox picturā iz ſupra diximus,rei cuiuſquã ſimilem effinxiſſet,niſi colores ipfi qui bus cõſtatimago, efTentnatura reiillius ſimiles quam pictoris ſtudium mitatur: Anno impoſſibile: CRAT.Impoſſibile plane. soc. Eadem rationenomina ipſanun alicuius fimilia fierent,niſi illa quibus nomina cõponuntur, limilitudinem aliquam haberent ea rum rerű, quarum nomina imitationes ſunt. Ea vero quibus conſtant nomina, elemen ta funt. CRAT. Sane. soc. lam tu ſermonis eiuseſto particeps,cuiusnuperHermoge nes.An rectediceretibi uili ſumus, quod ipſum plationi,motui,aſperitati congruit? CRAT.Rectemihi quidem.soc.Ipfum aūta leni & molli, accæteris quæ narrauimus: CRAT. Profecto.so c.Scis'ne quod idem,id eſt aſperitasipſa nobis quidē oxigpótys uo icatur, Eretrienſibus uero oxi spóryg: CRAT.Vting.soc. Vtrữambo hæclp& o, eidem fimilia uidentur,idemg oſtendűc tam illis per ipliuse determinacionē,quam nobis pero nouiſſimű,uel alteris noſtrum nihil referunt: CRAT. Vtriſą plane demonſtrant. soc. Vtrum quatenus fimilia ſuntp & o,uel quatenus diſſimilia: CRAT. Quatenus fimilia. soc. Nunquid penitus ſimilia ſunt,ad lacionē æque ſignificandā: quin & ipſum a inie ctum,cur non contrariū aſperitatis ipſius SIGNIFICAT. CRAT. Forte'non recte iniectữeſt ô Socrates, quamadmodūea quæ tu in ſuperioribus cum Hermogenehoc tractabas,dum &auferebas &inferebas literas ubimaximeoportebat. Acrecte mihi facere uidebaris. &nunc forte pro 1, s apponendű eſt.so.Probeloqueris. Quid uero nuncuc loqui nihil percipimus inuicé, quando quis orangón pronunciat: nec tu quidnuncego dicã, intelligis: CRAT.Intelligo equidem propter conſuetudiné. soc. Ouir lepidiſſime, cum confuetudinem dicis, quid aliud præter conuentionem dicere putas. An aliud conſuetu dinem uocas, quàm quodego cum id pronuncio,illud cogito,eu quoc quod ipſe cogítē percipis: Nonhocdicis: CRAT. Hoc ipsum. soc. S; id mepronunciante cognoscis, per mne tibi fit declaratio,ex diſſimili uidelicet eius quod ipſe cogitans profero: quãdoquide ipſum, diſſimile eft eius quo tu ordygótym, id eſt aſperitatem úocas. Si hoc ita ſe habet, profecto ipfe ad id teipfum aſſuefacis, & ex hac CONVENTIONE rectam tibi nominis ratio nem proponis,poſtộ tibi idem tã diſſimiles of ſimiles literæ repræſentãt propter ipfum conſuetudinis & conuentionis acceſſum. Sin autem CONSUETUDO CONVENTIO MINIME SIT. Haudadhuc recte dici poterit ſimilitudinē eſſe declarationem, imò cõſuetudinem dicere oportebar. Siquidē ex ſimilitudine & diſſimilitudine conſuetudo declarat, Hisaricco ceffis,ô Cratyle nempe ſilentiñ tuum pro cõceſſioneponam) neceſſe eſt conſuetudině cca aliquid CONVENTIONEM ģconcere, conferreġ ad eorû quæ ſentimus & loquimur expreſſio nem.Nam ſi uelis,optime uir,ad numerorũ conſiderationem defcendere, quo pactoſpe ras, adeò propria reperturű te nomina ut ſingulis numeris ſimile nomen attribuas, ſi no permiſeris cõcefſionem tuam, CONVENTIONEM AVCTORITATE aliquam circa nominū rationem habere. Mihi quidē et illud placet,ur nomina quoad fieri poteſt, rebus fimilia ſinta Coc Vereor tamen neforte, utdicebatHermogenes, tenuis quodãmodoſic iſtius ſimilitudi nis uſurpatio, cogamurg & oneroſa hacre, CONVENTIONE uidelicet uti, ad recta nominum rationem:quoniã tunc forte pro uiribus optime diceretur,cum uel omnino,uel maxima ex parte ſimilibus,id eſt cõuenientibus diceremus, turpiſſime uero cữ contrà. Hocautē poft hæc inſuper mihi dicas: quã nobis uim habētnomina, quid'ue pulchrâ perhec effi. cinobis afferimus. CRAT. Doceremihi quidē nomina uident,ô Socrates, idý fimplicia ter aſſerendű, quòd quiſquis nomina ſcit, & res itidē ſciat.so. Forte ô Cratyle,tale quid cuc dam dicis, q cũnouerit aliquisquale ſitnomē,eſt aūt tale qualis &res exiſtit, rem quoq ipſam agnoſcet, quandoquidē nominis eft res ſimilis. Arsaūtuna eadem eſt omniüin cor ter ſe ſimiliū. Hac ratione inductus dixiſſe uideris; quod quiſquis nomina cognoſcit, res ecc quoghi quoq ipfas agnoſcet. cRAT. Veraloqueris. soc.Age,uideamus quismodus docenda rum rerum iſte ſit,quem ipſenuncdicis, & utrum alius prætereaſit,hic tamen potior ha beatur, uel alius præcerhuncnullus. utrum iſtorum pocius arbitraris: CRAT. Hoccerte, quòd nullusuidelicet alius ſit,fed hic folus & optimus.soc.Vtrum uero & resipſas ita reperiri cēſes, ut quicung nomina reperit, ea quoq quorum nomina ſunt,inueniat: An quærendum potiusalium modum quendā,hunco diſcendű. CRAT.Maxime omniale cundum iſta huncipfum & quærendű & inueniendum. soc.Age,ita conſideremus, ô Cratyle: ſiquis dum res inueſtigat, nominaipſa ſequitur, rimatur; quale unãquodą uule elle,uides maximum decepcionis pericula ſubit:CRAT. Quo pacto: soc.Quoniam qui principio nomina poſuit, quales effe resopinatus est, talia quoq nomina,ut diceba mus, effinxit.Nonne itar CRAT.Ita prorſus. Soc.Siergo illenõrecteſenlit, & ut ſenlie inſtituit,nõne & nos fequentes eius ueftigia deceptos iri exiſtimasť CRAT.Haud ita elt imòneceffe ſciencem fuiffe illum quinomina poſuit.Aliter autem, ut iamdudâdicebam, nomina nequaſ effent. Euidentiſlimo autem argumento id eſſe tibipoteſt, haudà ueri tate aberrauiffe nominum autorē,quòd ſimale ſenſiſſet, nequaq libiita omnia conſona. rent.An non aduertiſti & ipfe, cum diceresomnia in idem tendere 'soc.Nihil ifta obo. ne Cratyle,ualet defenſio. Quid enim mirum eft, li primodeceptus nominâ institutor, se quentia rurſusad primum ui quadã traxit,& ipfi conſonare coegit:Quemadmodücirca figuras interdűexiguo quodam primo ignoto falſof exiſtente, reliqua deinceps multa Circa prin, inuicem conſonant. Debetenim quiſo circa rei cuiuſ principium ſtatuendű differere » cipium ſta, multa,diligentiſſime conliderare,utrum recte decernat,nec ne. quo quidem fufficiens tuendă diſ ter examinato,cætera iam principium fequidebent, Miror tamen,fi nomina libímet con i ſereremulta gruunt. Conſideremus iterum quæ ſupra retulimus. diximus profecto ita nomina effen. oportet tiam ſignificare qualiomnia currat,ferant & defluant. Ita'nelignificare cenſes? CRAT. Ita certe. & recte quidē. soc. Videamusitaqs ex illis aliqua repetentes. Principio nom hocwrshug,id eſt ſcientia ambiguum eſt,magis a SIGNIFICARE uidetur, quod istory,ideft fiftit in rebus animam, ĝ quod cum rebus pariter circumfertur:rectiusos eſſe uidetur, ut principium eiusutnuncüdishulu dicamus, per e ipſius eiectionem, & pro 4, 5 potius adijciamus. Deinde Bébajok, id eſt firmum dicitur, quoniam badoows & scotas, ideft firmamenti, et status potius quam lationis est imitation. Præterea igoelæ ad forte ſignifi cat quod isgor t powi, id eft ſiſtit fluxum, & ipſum nisov,id eſt credendum, isaw, id eſtfira mare omnino ſignificat.Quinetiã uykusid eſtmemoria,oftendit prorſus quod in anima nõagitatio eft,fedpovni,id eft quies,ſtabilise permanſio. Atquifiquis nomina ipſaobler ueta écueapariæ & ovuqoça,id eft error & cótingentia caſus,idem uidebuntinferre,quod owens & ufiskur, id est intelligentia at scientia, & cætera nomina quæ præclarisſunt rebus impoſita.ltem cualíc & cronacíc, id eſt inſcitia & intêperantia,proxima hisui dentur.icuclic quidē importareuidetur,&cket demi loves aegear, id est simul cum deo eun tis progreſſum. cronæriæ uero omnino quandam ipfarum rerum arodubiav,id eft perſe. cutionem atq cogreffum.At ita quæ rerum turpiſſimarű nominaeffe putamus,nomi num illorû quę circa pulcherrimaſunt, ſimillimauidebuntur.Arbitror & aliamultare periri poffe,fiquis ad hæc incumbat, ex quibus iterum iudicabit nominữautorêno cur rentes delataso res,imò ftabiles indicare. CRAT.Verūtamen multa o Socrates ſecundi agitationis SIGNIFICATIONEM uides illum conſtituiffe. soc. Quid agemusô Cratyle: Nun quid fuffragiorû calculorum inſtarnomina ipſa dinumerabimus: at ad hancnormă derecta ratione nominū iudicabimus,ut ea tandem uera ſint,quibus significationes plu rium nominum fuffragantur: CRAT.Haud decet. soc. Non certe amice. Sed his iam omiſſis,redeamus illuc unde digreffifumus. Dixiſtinuper, firecordaris, neceffariñelle, illűquinomina ſtatuit, prænouille ea quibus nomina tribuebat:perſtasadhuc in ſenten tia,nec'ne'CRAT. Adhuc.so c.Nunquid & illum quiprimanominapoſuit, nouiſicais dum poneret: CRAT. Nouiſſe.soc.Quibusex nominibus resueldidicerat,uel invene rat, quando necdâ primanomina fuerāt inftitutar cum dicta ſit impossibile esse resuelig vuenire, uel diſcere,niſi qualia nominaſint, didicerimus, uelipfinosinuenerimus. CRAT: Videris mihinonnihil ô Socrates, dicere. soc. Quo igitur PACTO dicemus eos ſcientes, nomina poſgillexuellegum et nominü conditores ante POSITIONEM cuiuslibet nominis extitille extitiffe, eosý res antea cognouiffe, fiquidem nõ aliter quam ex nominibus diſcires por finer"CRAT. Reor equidem Socratesueriſsimum eum effe fermonem quo diciturex.co cellentiorem quandam potentiam quam humanam primarebus nomina præbuiffe, quo neceffarium lit ut recte fuerint diſtributa. soc. Nunquid putas cótraria libijpfipofuif-cc ſe nominum autorē li dæmõ aliquis ueldeusextitit: an nihiltibi fupra dixiffe uidemur: CRAT.Forte'nondum alterum iftorum nomina erant. soc. Vtraigitur erantuir opti me; num quæ ad ftatum uerguntian quæ ad motum potius Neq enim, utmodo dixi mus,multitudineiudicabitur. CRAT.Sic decet Socrates.soc.Cum itaque diſſentiant contendanto de ueritate inuicem nomina, & tam hæcquàm illa uero propinquiora effe feafferant,cuiusadnormam dijudicabimus.Quò nos uertemus: Nec enimad alia no mina confugiemus, quia præterhæcnulla. Verum alia quædam præter nomina quæren da funt,quæ nobis oftendantabſque nominibus, utra iſtorum uera ſint, rerum uidelicet monſtrantia ueritatem. CRAT.Itamihiuidetur.soc.Si hæc uera ſunt Cratyle,  pof ſunt,utuidetur, res line nominibus percipi. CROT. Apparet. soc. Per quid potiſsi mum aliud fperas res ipfas percipere: Nónne per quod conſentaneum ac decenseft: pet mutuam illarum communionem, fcilicet fiquomodo inuicem cognatæ sunt, & perse ipsas maxime. Quod enim aliud eft ab illis, aliud quiddam non illas significat. CRAT. Vera loquiuideris. soc. Dicobſecro nonne iam fæpe conceſsimus,nomina quæ recte pofita funt, fimilia illorum eſſe quorum ſuntnomina,rerão imagineseffe: CRAT. Con ceſsimus planè.soc.Si ergo licet res per nomina diſcere, acetiam per ſeipfas, quæ præ ftantior erit lucidiorý perceptio:Num si ex imagine cogitetur et imago ipſa utrum re cteexpreſſa fit, & ueritas cuiushæc eftimago: Anpotiusfi ex ueritate tam ueritas ipſa. quàmipſius imago, nunquid decenter imago ad eam fueritinſtitucar CRAT. Siexueri tate.soc. Qua ratione res vel per doctrinam vel per inventione comprehendendęſint; iudicare, maioris quàm meum ac tuūſit, ingenñ opus esse uidetur. Sufficiat autem nunc internos conftitiffe quod non ex nominibus,immoex ſe ipſis potiusdifcendæ quæren dæg ſunt. ERAT. Sicapparet ô Socrates. soc. Animaduertamus & hocpræterea,në mulra hæcnomina in idem tendentia nosdecipiant, cũ quiilla impofuerunt, currere om nia semper flueresputauerint,ato ea cõſideratione poluerint:uidenturnempemihiita exiftimaffe:quorû camēopinio fi talis extitit,falſahabêda eſt.profecto illiuelut in quan dam delapfi uertiginem, & ipfi uacillant iactanturcs, & nosin eadem rapientes immer gunt. Cõlidera uir mirifice Cratyle quod ego sæpenumero fomnio, utrum dicendû est: esse aliquid ipſum pulchrum ac bonum,& unum quodas exiſtentium ita,nec ne.CRAT. Mihiquidem ô Socrates eſſe uidetur.so c.Illud igitur ipſum cõſideremus, non ſi uul cus quidam aut aliquid taliú pulchrum eſt, quippe hæc omnia fluunt:ſed ipſum pulchrữ dicimus, nonne ſemper tale quale eſt perfeuerat: CRAT. Neceſſe eſt.soc. Nunquid possibile eft ipſum recte denominare si ſemper fubterfugit, acprimo quid illud fic dein de quale ſit dicereruelneceſſariû eſt,dum loquimur aliudipſum ftatim fieri,iugitero dif fugere,nec tale amplius eſſe: CRAT. Neceflarium.soc. Quo pacto aliquid illud erit, quod nunquam eodem modo ſe habet: Sienim quandoq eodem modo fe habet, eo in tempore minime permutatur:fin autem ſemper eodémodo ſe habet;idemg exiſtit, quo modo tranfituelmouetur, cum ideam ſuam non deferat: CRAT. Nullo pacto: so ca Præterea ànullo cognosceretur. dum enim cognitura uis ipsum aggrederetur, aliud alie numosfieret.quare quid ſit aut quale cognoſcinõpoffet.nam cognitionulla ita réper cipit, utnullo modo fe habentem percipiat. CRAT. Eft ut ais.soc. Sed ne cognitio nem ipfam effe affirmandẫeſt ô Cratyle ſi deciduntomnia,nihilg permanet.Sienim co gnitio ex eo quod cognitio eſtnon decidit, permanebit semper, ac ſemper eritcognitio irautem cognitionis ſpeciesipſa diſcedit,ſimul & in aliam cognitionis fpeciem delabe tur,neæ cognitio erit.Quod fi perpetuomigrat, ſempernon erit cognitio. Aro hacra. tionenew quod.cogniturum eſt,nec quod cognoſcen lum,ſemper erit. Sinautem fem per eſt quod cognoſcit,eft quod cognoſcitur,eft pulchrű,eft & bonum, eſtý deniq exi. Itențium unűquod & quæ in præſentia dicimus,fluxus lationis ſimilia non uidentur.Vtrum uero hæcita ſint,an ut dicebantHeraclitiſectatores, alijg permulti,haud facile di ſcerni poteſt.Nec hominis ſanæmentis eft feipfum animumg luū nominibuscredere; & autorem nominum sapientem asseverare, atqz ita de ſeipſo rebus omnibus maleſen 9 ) tire,ut pPomba nihil integrum firmumą exiftere,ied omnia uelutfictilia fluere atg conci. v dere, &quemadmodum homines deſtillationibus capitisęgrotantes,fimiliter quoqres w ipsas affici iudicet, adeo ut deſtillatione et fluxu omnia comprehendantur. Forteộ Cratyle ita eſt,forteetiã aliter:forti animo &diligenti ſtudio inueftiganda res eſt.neqením fácile aſſentiendum.Iuuenis adhuces, arque tibi fufficitætas. Et liquid inveneris inda gando, mihi quog impartiri debes. CRAT. Nauabo operam Socrates. Ac certe {cito meetiam in præfentia non torpere,immocogitāti mihi et multa animo reuoluenti mul tomagis ita ut dicebas ipse, quam ut Heraclitus,res ſeſe habere uidentur.soc.Dein ceps amice poftquam redieris me docero. Nuncautemut conſtituiſti in agrum perge. Atqui & Hermogenes hicte comitabitur. CRAT. Fietutmones Socrates.Verum tu quoque iam de his cogita.  IL CRATILO  -- DELLA. RETTA INVENZIONE DE' NOMI. ERMOGENE -- CRATILO – SOCRATE. A vuoi tu ancora, che noi communichiamo il parlar  nostro con Socrate? c*. — Se il pare a te. ehm. O Socrate, Cratilo dice, che ai ritrova in qualunque  degli enti per natura la retta invenzione del nome, nè  aia nome quello, onde convenendo alcuni il chia-  mavano, mentre proferiscono certa particella della sua  Toce: ma sia naturalmente certa retta invenzione di  nomi la medesima in tutti e Greci e Barbari. Sicché io  Io addimando se daddovero sia Cratilo il nome di lui,  o nò: ma egli confessa esser questo il suo nome. Or Scrate dissi io, qual nome tiene egli? di Socrate disse:  non hanno tutti quel nome, col quale chiunque il  chiama da noi: nondimeno disse egli uon è il tuo nome Ermogene, nè se ancora tutti gli uomini ti CHIAMASSERO cosi. E mentre io lo addimando, e desidero  sapere, che cosa dica, non mi dichiara affatto niente:   ma beffandomi, simula di aver nell’ animo alcuna cosa, come egli intenda non so che d’intorno a questo, i!  che se volesse esprimer niartifVstnmfcnte, farebbe che  io confessassi, e dicessi lo stesse, che egli si dice. Laonde udirci da te volentieri, se in qualche maniera tu  potessi congetturare il vaticìnio di Cratilo. Anzi udirei  molto volentieri la tua opiuione intorno alla RETTA INVENZIONE DE NOMI, se ti fosse in grado, soc. — 0 Ermogene, figliuol di Jponico, è proverbio vecchio, che sia  malagevole da conoscer in qual guisa se ne stiano le  cose belle. Or la notizia de’ nomi non è picciola disciplina. In vero se io avessi udito già molto tempo  da Prodico quella ostentazione di cinquanta dramme,  nella cui dottrina ancora era questo, come egli ne  rende testimonianza; niuno impedimento sarebbe, che  tu non conoscessi incontinente la verità intorno alla  retta invenzione de’ nomi. Ma ora io non I’ . ho udita  ma si ben quella d’ una. dramma. Per la quale cosa;  non sò quello che d’ intorno a queslavi sia di vero: ma  sono prrsio ad investigar, inlteoie. con essd.tecoj.èfcon  Cratilo. In quanto poi dice, else tu non abbia' versi  mente nome Ermogene, io sospetto, che egli motteggì; perchè egli forse pensa, che tu sia -desideroso del-  lo acquisto de’ danari, e impoleule.seinjpre ad otieuer-  li: ma come ho detto poco, f», egli è difficile, «Ite ciò  si conosca. Or fa misticri, da tutte due le porli spoetando iu meszo le ragioni, che si investighi se sia cosi,  come tu di o piuttosto come dice Cratilo. e»m.— E pur  o Socrate, tuttoché spesso io abbia disputato già contostai, con altri molti tuttavia non ancora mi posso persuaderò, che altra ai.» la rotta invenzione del no-  me, phe lo assenso, e il consentimento; perciocché  a me pare, clic quel sia nome retto, il quale impone  chiunque a ciascheduno, e se di nuovo il mutasse, e  altro ne ponesse, non meno del primiero quello, che  Si trasportasse sarebbe nome retto, come siamo noi  soliti di cambiare i nomi a servi, non vi essendo per  jialura a ninna cosa il nome! ma per legge, e secon-  do la usanza di coloro, che furono soliti cosi chia-  marli. Il che se sia. altrimenti, io sono apparecchiate  .ad impararlo, o adirlo non solamente da Cratilo; ma  da qualunque altro, soc. O Ermogene peravvepto-  ra tu dì alcuna cosa: ma consideriamola. Quello che  porrà alcuno, con cui chiama qualunque cosa, sarà  egli, il nome di ciascuna cosa? ehm. A me pare,   soc. O se il privato, o la città il dicesse? uh. Lo assentisco. soc. Ma che, se io chiamassi qua-  lunque degli enti, come per esempio, se quello, che  al presente chiamiamo uomo, chiamassi cavallo, e uo-  mo quel, che cavallo: pubicamente sarà egli il nome  all' uomo, privatamente cavallo; e di nuovo privata-  mente uomo, cavai lo puiilicnmenle Parli così tu? erm.  — Tosi mi pare. soc. — Or mi dì questo. Chiami tu  alcuna cosa il dir il vero, e il Tabu? erm.— In vero  sì. soc. — Non lia quella vera orazione: ma quest*  orazione falsa? erm. Così affatto, soc.— Quei par-  lar poi, che die* le cose, che sono quali son esse ai    »    ìli   h rero: ma falso quello, che non come sono? n»,   — Cosi è. soc. — Adiviene egli questo, che col par-  lare si dicano le cose, che sono, e che non so-  no? ehm. — Si. soc. Il parlar che è vero mi di,  se è vero tutto, non vere le parti? ehm.— Nò: ma le  parti ancora, soc. -- Dimmi, le parti grandi saranno  vere: ma le picciole nò, oppur tutte? exm. — Io mi  stimo tutte, soc* Puoi tu dire altra parte piu pic-  ciola del sermone, che il nome? erm In modo nin-   no, essendo questa la minima parte, soc.— .Ed an-  cora si dice egli peravventura il nome parte della ve-  ra orazione? erm. - Senza dubbio, soc.— Veramente  parte vera, come è, tu di. erm.— Veramente, soc.—   E la parte del falso, non è ella falsa? erm. — Lo dico si. soc- — Dunque è lecito dir nome vero, e no-  me falso, se si dice ancora la orazione. erm. — In  che modo nò? soc. — Dunque quel nome, che chiun-  que dirà, che in alcun si ritrovi, sarà egli il nome  di ciascheduno? erm — Si. soc.— Peravventura quanti  nomi dice alcun, che abbia chiunque, tanti saranno  essi? e allora, quando egli li dice? erm, —Per certo,   o Sncrate: io non ho alcuna retta invenzione di no-   / t   me, fuor che questa, in modo, che non sia lecito a «  me con altro nome chiamar la cosa, che con quello,  che io ho imposto, nè a te con altro, che con quello,  elle le imponesti. Cosi per certo io veggo nella città, *  che si hanno alcuni propri nomi delle medesime co-  se, e fra Greci in verso ad altri Greci, « in verso a   i  Barbari, «oc. — Or rediamo o Ermogene, se pare a  te, che gli enti se ne stiano in questo modo; che ognun  di loro tenga la propria essenza, come diceva Prota-  gora, dicendo egli esser 1’ uomo misura di tutte le cose in modo, che quali qualunque cose mi paiono, tali  io le abbia; similmente quali tu, e tali le ti abbi; o  pensi piuttosto che siano alcune cose, le quali tenga-  no alcuna fermezza della sua essenza, eem. — Alcuna  volta, o Socrate, dubitando sono condotto a quello,  che dice Protagora: per tanto non mi persuado a ba-  stanza, che se ne stia egli cosi. soc. — Ma che? set  tu ancora alcuna volta condotto a questo, che non li  paia in modo niuno, che alcun nomo sia cattivo? erm.  — Per Giove nò; anzi spesse volte cosi sono disposto,  che io stimo, che alcuni uomini siano al tutto catti-  vi, e molti, soc. —Ma che? non ti è parso ancora,  che siano molti uomini buoni? erm. — Molto pochi,  soc. — Nondimeno pare a te vero? erm. — A me si.  soc. — In che modo poni tu questo? forse cosi, che i  molto buoni siano molto prudenti, e i rei al lutto  molto imprudenti? ebm. — In vero a me pare cosi,  soc. — Se Protagora diceva il vero, e se ò questa la  ventò, che quali qualunque cose pareranno a ciasche-  duno, tali siano; è egli possibile, che altri di noi sia-  no prudenti, altri imprudenti? ebm. —Per certo nò.  soc. — E come io penso ti pare ad ogni modo che  Protagora non possa al tutto parlar il vero, essendovi  «erta prudenza, e imprudenza, perciocché non sarebbe veramente l’uno dell’ altro piò prudente, se le   cose, che paiono a chiunque, le tenesse ciascheduno  per vere. IBM -Cosi è. Ma nè ed Eutidemo ' assenti-  sci, come io penso, che dice, che tutti abbiamo tutte le  cose similmente, e sempre, perchè cosi' non smeldio.  no altri buoni, nitri cattivi, se sempre, e pariménte  si ritrovasse in tulli e la virtù, e la malvagità! ehm;  —Tu palli il vero, soc.— Dunque se nè tutte le rose  si ritrovano sempre in tutti, e simiglmutcìiiente; uè  qualunque cosa è propria di ciascheduno, manifesto  è, rise siano le cose quelle, che tengono in su stesse  certa essenza ferma, uè sono in quanto a noi tirate  in diverse parli, nò da noi con la imaginazione e in  suso, o in giuso: ma stabili secondo se stesse in quan-  to alla loro essenza, come sono 'ordin. ite dalla natu-  ra. uu. — Cosi ini è avviso, elio se ue stia questo.   *oc Dunque mi di, se le còse se ne stanno si per u«-.   torà, ma non nella stessa guisa lu loro azioni o eziandio  esse azioni sono una certa specie degli enti? esm. Ani  cora esse ad ogni modo. soc.— Dunque le azioni sa   tonno secondo la natura loro, non secondo la nostra  opinione, come per esempio, se noi si mettessimo a  divider alcuno degli enti, forse sarebbe qualunque co-  sa d» dividersi ila noi come vorremmo, e coti che ci a„  gradissi.? o più tosto, se volessimo partire quafuo/pio  cosa secondo la natura, con cui fa mislieri che S‘ I 1 al f  lisca, e sia partita; parimente con cui secondo l«  tura ti dee fare il partiraento; invero la dividerei. *io« bene, e si farebbe «la noi alcun profitto, e questo  si operetébbe bene; ma se cóntro la natura travieremmo   nè si farebbe niente «la noi? erm Così mi pare. soc.   — E se ci mettessimo ancora àd ffhbrugiiir alcuna cosa:  non fa nilstieri, chieda sì ‘ablmigi secóndo Ogni opi-  nione: ma sibbene secondo la reità opinione/ Qué-  sta è poi quella, onde qualunque cosa naturdlòientc  è atta ad abbrugiarsi,' é di abbruciare, e con cui nai  turalmente ne era atta, erm — Queste cose son vere,  soc. — Non si ritrova la stessa maniera d’intorno al-  le altre cosi? ehm La medesima sì. soc— Anco-   ra il dire non è egli forse una certa delle azioni, ehm.  -r Certo si. soc. — Or dirà bene chi così dice, co-  irne li par di dire . 5 o piuttosto dii in colai guisa di-  ce, come ricerca la natura del dire, e che si dica?  e- se eziandio dicesse con cui ricerca la natura, in  dicendo farebbe alcun profitto, altrimenti 1 . travierebbe  egli, nè farebbe nulla? ehm. —In vero io stimo co-  sì, cometa di. soc.- Dunque il nominar "è particella di  dire; perciocché nominando si fanno i‘ ragionamenti;  erm Ad ogni modo. soc. — Dunque e il nomina-   re è 'certa azione, se ancora il dire era certa azione;  d' intorno alle cose? erm.-Così è. soc.— Or le azio-  ni ci par vero di non risguardar a noi: ma di tene.-  ré certa propria lor natura. ehm. - Così è. soc —  Sicché è da nominarsi in quella guisa, onde la natu-  ra delle cose ricerca di nominate, e che si nomini,  • con cui, ma uon secondo lo arbitrio deWolcr no- ’ ì   ) « (   atro, se ti ba a dire alcuna cosa concorde alle cosa  dette. Ed in colai guisa facessimo noi alcun guada»  gno, e nominaressimo: ma altrimenti nò? krm.— Co-  sì mi pare. soc. — Or dimmi ciò, cbe era da ta-  gliarti, diciamo noi cbe era da tagliarsi con alcuna  cosa? erm.— Con alcuna si. soc. —E ciò, cbe si  doveva tesser da tessersi con alcuna cosa? e ciò, che  era da forarsi, con alcuna cosa si dovea egli forare?  erm. — Al tutto. soc.—Sim il niente ciò, che nominar  si dovea, era da nominarsi con alcuna cosa? ibi*.—  Si- soc. —Ma che era quello, con cui f«cea mistieri,  che alcuna cosa si forasse? erm. — La trivella? soc.  — Che è quello, con cui fa mistieri, che si tessa?  erm. — La navicella, soc. — E che con cui si nomi-  ni? erm. —Il nome, soc.— Tu parli bene. Dunque  e il nome è certo stromento. ss**. — E’ si. soc. —  Dunque se io cercassi quale stromento è la navicella  • o non sarebbe d' esso quello, con cui si tesse? erm.  Così è. soc. — Or tessendo, che facciam noi? o non  separiamo la trama, e gli stami confasi? ehm.— Que-  sto stesso, soc. — Or potrai tu dir così della trivel-  la, e delle altre cose? erm. —Lo stesso, soc. —Puoi  • tu ancora dir similmente d* intorno al nome ciò, che   facciamo mentre col nome, che è stromento, nominia-  mo alcuna cosa? erm.— Nò il posso nò. soc.— For  se di compagnia insegniamo noi mente, c dividiamo  le cose, come sono? erm.— Per certo, soc. — Sicchò  il nome è certo stromento di insegnare, • divide» 1*  sostanza, come !a navicella della testura erm. — 1 lassi  a dire in colai guisa, soc — La navicella è ella stru-  mento acconcio al tesserei 1 ehm, — • In che modo nò.  soc. — Per la qual cosa il tessitore si vaierà bene  della navicella, dice bene, secondo la maniera del  tessere: ma chi insegna, egli si vaierà del nome, e  bene, dico bene secondo la maniera propria dello  insegnare, ehm.— Per certo, soc.— Dell’ opra di quale  artefice si vaierà bene il tessitore, quando si vaierà  della navicella? erm.— Di quella del legnaiuolo, soc.  — E egli chiunque legnaiuolo, o piuttosto chi tiene P  arte? erm. —Chi tiene l’arte, soc. — Similmente del-  l’ opera di cui il foratore si vaierebbe bene, quando  si valesse della trivella? erm.— Del maestro del me-  tallo. soc. — E forse chiunque maestro di metallo?  o chi tiene l’arte? erm. — Chi tiene l’arte, soc. — '  Stiano le cose cosi. Dell’opera di cui il dottor si vaie-  rebbe, qualora si servisse del nome? erm.— Nè ciò pos-  so dire io. soc. —Ancora non puoi tu dir questo.  Chi ci dà i nomi, dei quali ci serviamo? erm. — Per  certo nò, i soc. - Non pare a tè peravventura, che la  legge sia quella, che ci dà i nomi? erm. — Appari-  sce. soc.— Dunque il dottore si vaierà dell’ opra del  legislatore, quando del nome si vaierà, erm. - Io  penso si. soc.— Pare a te, che ognuno egualmente  sia facilor di leggi, o chi è dotato di arte, erm.—   Il dotalo delP arte. soc. — Si che o Erinngene non  è. ufficio di qualunque uomo lo imporre i nomi; ma di certo autor di nomi e costui è come apparisce ii  legislatore, il quale fra gli artefici si fa raro appresso  agli uomini, ehm. » Apparisce, soc.— Deh conside-  ra, ove riguardando il legislatore impone i nomi, e  * considera dalle cose antedette ove riguardando il le-  gnaiuolo fa la navicella? non ad una cosa tale, che  da natura sia al tesser acconcia? ehm. — Al tutto,  soc.— Ma che? se nell’ opera si rompesse la navicella,  mi di se fabbricherà egli un’ altra di nuovo alla somi-  glianza della rotta, o piuttosto alla specie risguarde*  rà, secondo il cui esempio avrà fatto la navicella,'  che si ruppe? erm. — Alla specie, come io stimo,  soc. — Dunque chiameressimo noi meritamente la spe-  cie la navicella? erm. — Io penso si. soc. — Se fa  mestieri alcuna volta, che si apparecchi la navicella  per fornir la veste, o qualunque altra cosa di filo,  e di lana sottile, o grossa, bisogno è, che tutte le  navicelle tengano la specie della navicella; e quale  naturalmente è a ciascheduna cosa accommodatissima,  tale si usi al fornir l’opera, come il ricerca la na-  tura, erm. — Iti vero fa mislieri. soc. — La medesi-  ma ragione è d’ intorno agli altri stromenti concios-  siachè è da ritrovarsi quale stromento si confaccia  per natura a qualunque cosa, ed è da darsi a lei,  con clii si fa ella, uon quale vuole chi fabbricai ma  quale è ella per natura. Perchè fa mistieri, come ap-  pare, che si sappia accommodar a qualunque cosa ciò,  die naturalmente acconcia al ferro, erm. — Cosi si. soc. — ‘Più- oltre nel legno la navicella confacevole  a ciascheduna. e*m. — Egli è vero. soe. — Percioc-  ché. secondo la ragione della natura altra navicella  si confà ad altra tela, e nell’ altre nella medesima  guisa, ehm* — Veramente, soc. —Fa mistieri ancora  -ottimo uomo, che il posìlor dei nomi proferisca un  nome per natura acconcio nelle voci, e nelle silla-  be a tutte le cose, e riguardando a quello stesso di  cui è nome, formi qualunque nome, e gli attribui-  sca, se daddovero dee esser positor proprio di nomi.  Che se non con le medesime sillabe qualunque po-  citor di nomi esprime il nome, fa mistieri, che noi  sappiamo, che nè tutti i fabri ciò fanno nel ferro per  la stessa ragione; qualora fabricauo il medesimo stro-  xnento: ma nondimeno in quanto gli attribuiscono la  stessa idea, in tanto se ne sta egli bene, tutto che  in altro e iu altro ferro; o qui si fabrichi egli, o fra  barbari non è egli cosi? ehm. -a. Si. soc. — Dunque  islimerai tu ancora nel medesimo modo finché il po-  sitor dei nomi, ebe è fra noi, e fra barbari concede  una specie di nome convenevole a qualunque cosa  in qualunque sillaba, che 1’ uno dell’ altro non sia  punto peggiore nell’ imporrei nomi. ehm.— In vero   si. sqc. — Chi è per conoscer se sia impresso in qua-  lunque legno una specie convenevole di navicella?  fpr&e il, legnaiuolo, che la fai o il tessitore, che se  ne dee servire? ehm. O Socrate, gli è verisimile,  die la conosca molto piu, chi se ne dee valere, soc.     — Dunque chi si servili dell’opera del Tacitar dell*  lira? non colui Torse, che benissimo saprà esser so*  prastante alla cosa Tatta, e conoscerà Tatta che sia, se  sia Tatta bene o no? ehm. — Al tutto, soc. — Chif  hm. « Il citarista, soc. — Chi poi dell'Opera di co-  loro, che Tanno le navi? erm.— Il governatore, soc.   — Chi eziandio benissimo sarà soprastante all’opra  del Tacitar delle leggi, e Tornita la giudicherà e qui,  e Tra barbari? non chi se ne dee servire? ehm.—  Cosi è, soc, *- O non è egli d* esso chi sa interro*  gare? ehm. — Costui si. soc, — Il medesimo che sa-  prà risponder ancora? ehm. — Si certo, soc. — Or  chiami tu altro che dialettico chi sa interrogar, e  rispondere? ehm. Non altro; ma lui. soc. —Siche  è Tattura di lignaiuolo il Tabbricar il timone esscn*  do soprastante il governatore, se è egli per dover  esser buono, ehm,— Apparisce, soc.— Ancora come  è avviso, è opra di positor di nomi il nome, cui è  soprastante 1’ uomo dialettico, se sono per doversi  por bene i nomi. ERM.-*Que$te cose son vere. soc.   — Dunque, a Erraogene, corre rischio, che non Ha  cosa lieve, come tu stimi, il por dei nomi, nè Tat-  tura d’ uomini bassi, e vulgari. Per certo Cratilo par-  la il vero, dicendo, che i nomi per natura siano nel-  le cose; nè sia chiunque autore di nomi: ma colui  solamente che risguarda al nome, che è in ognuno  per natura, e sia possente di por la specie di lui  nelle lettere, e nelle sillabe, ehm. — O Socrate, io non so in che modo sia da opporsi alle cose che  tu di: ma peravventura non è cosa agevole il per*  «cadérsi cosi allo improviso: ma mi è avviso, che io  ti sarei piuttosto per ubidire in questo modo, se di-  mostrassi quale da te si dica, esser la retta natura  del nome. soc. —In vero, o beato Ermogene, non di-  co alcuna: ma tu ti sei scordato di ciò, che io di-  ceva poco inuanzi, cioè, che io non la conosceva!  ma, che io la considererei insieme con esso teca.  Al presente poi questo solamente si è fatto chiaro  oltre alle antedette a me, e a te di compagnia in-  vestigando, che Certa retta invenzione per natura  tenga nome, nè chiunque sappia adattar bene esso  nome a qualunque cosa, non è egli così? rum. Grandemente, soc— Dunque rimane da Considerarsi  se tu desideri di conoscer quale sia la retta invenzione del nome, ehm. — In vero la desidero sapere,  soc. r- Dunque cobsidcra. erM.— In che modo adun-  que fa inistierì, che si consideri? soc.^O umico rot-  tissima. è la considerasione; ricercandosi questo da  coloro, che sanno con 1' offerir danari, e col il ren-  der loro grazie’ oppresso. Or d’essi sono i sofisti,  coi quali Calia tuo fratello pare, che sia riuscito sag-  gio, pagati molti danari, ma poiché non hai, che fare  nella robba patema, rimane, che tu supplichevole  preghi il fratello, che ti insegni la retta invenzione  di questétàll cose, che Protagora egli imparò, erm.  — O Socrate, quanta sconvenevole sarebbe questa dimanda, se non prestando aiuto alla verità di Pro*  tagora amassi le cose, che si dicono con tal verità,  quasi degne di alcuna considerazione, toc. — Ma se  a te non piacciono elle, si dee imparar da Omero,  e dagli altri poeti. erm. — O Socrate, e che è in  che luogo ne dice Omero dei nomi? soc. — Per tut-  to molte cose: ma grandissime e bellissime son quel-  le, onde distingue d’intorno a quei nomi, che in-  troducono gli uomini, e i Dei, o non istimi tu, che  egli d’ intorno a questi dica alcuna cosa magnifica,  e maravigliosa della retta maniera dei nomi? essen-  do manifesto, che i Dei chiamano rettamente quei,  che son nomi naturalmente, o no il pensi tu? ikm.  — In vero io so certo, se i Dei ne dicono alcuni,  che essi lr~cbiamano bene; ma quali di tu questi?  soc. — O non sai tu ciò, che si dice del fiume tro-  iano, che con vulcano combatte a singoiar battaglia,  il quale i Dei chiamano santo, gli uomini Scaman-  dro. ehm. — Il so. soc. — Che dunque? non istimi tu  certa cosa grave il conoscer in che modo sia meglio,  che si chiami quei fiume santo piuttosto, che Scarnan-  do? ma se vuoi considera questo, che il medesimo  dice dell’ uccello, che i Dei chiamano Calcidei ma  gli uomini Cimindi. Tu stimi vii disciplina il sapere  quanto sia meglio, che si chiami il medesimo uccello  Calcide, che Cimindi, o Bracia, e Mirine, e molti al-  tri tali, detti da questo poeta, e da altrui? ma le.  invenzioni di queste cose peravvenlura superano le forze nostre. Cii cbe poi signifìchioo Scamandrio, e  Astiane si può comprender, come mi pare da inge-  gno amano, e apprendersi agevolmente qual retta in-  venzione vuole Omero, che sia in questi nomi, co*  quali chiama il figliuolo di Ettore: perciocché tu cer-  tamente sai, ove si ritrovano questi versi, che io di- v   co. a**. — Ad ogni modo, soc, — Dimmi, pensi tu,  che di questi nomi stimi Omero che peravventura  pili convenisse Astianate al fanciullo, che Scamandrio?  vrm. — Io no il posso dire. soc. — Or in colai mo-  do considera, se alcuno ti addimantlasse, se tu pen-  sassi che i piò saggi ponessero i nomi meglio alle  cose, o i manco saggi, erm. —Chiaro è, che io ri-  sponderei i piò prudenti, soc.— Dimmi, se le don-  ne nelle città pare a te, che siano piò prudenti, o  gli uomini? per dir tutto il genere? erm.— Gli uo-  mini. soc. — Dunque tu sai, che dice Omero, che il  figliuolo di Ettore era chiamato da’ Troiani Astiaua.  te, dalle donne Scamandro, poiché gli uomini lo chia-  mavano Astianate. erm.— Apparisce, soc.- Dunque  eziandio stimava Omero, che gli uomini Troiani fos-  sero piò saggi, che le lor donne, erm. — Io lo sti-  mo. soc. - Dunque stimò, che egli si chiamasse, me-  glio Astianate, che Scamaudrio. ehm. - Apparisce,  soc Consideriamo qual cagione egli apporti di que-   sta denominazione, perchè dice egli, che solo difese  loro la città, e le ampie muraglie. Per la qual co-  sa, (come pare) conviene# che si chiami il figliuolo del Salvatore, cioè di colai, che il padre di lai sai*  va va, come disse Omero, erm. — A me pars soc.  — Per qual cagione? perciocché o Ermogene, nè io  lo intendo ancora bene: ma lo intendi tu? erm. —  Per Giove nò. soc.— O uomo da bene ancora Ome-  ro pose ad Ettore il nome. erm. — Perchè? soc. Perchè mi è avviso, che questo nome si assomigli ad  Astianate; e essi nomi si assomiglino a Greci: dimo-  strando quasi il medesimo, cioè che ambidue que-  sti nomi siano regali; perciocché di cui sarà al-  cuno re, dello stesso sia ancora possessore; essen-  do manifesto, che egli lo signoreggi, e possegga,  e abbia. O peravventura non pare a te, che io dica  niente? e m' inganna la opinione, onde mi confida-  va, come per certi vestigi, di toccare la opinione  di Omero d’ intorno la retta invenzione dei nomi?  erm. -* In modo niuno, come io penso: perchè^forse  tu tocchi alcuna cosa. soc. — Egli conviene, come  a me pare, che si chiami similmente leone il figliuol  del leone, il figliuol del cavallo cavallo; non dico, se  alcun’ altra cosa fuor che il cavallo (come mostro)  nasoesse dal cavallo: ma quel mi dico, del cui genere  secondo la natura è ciò, che nasce, se il cavallo na-  turale partorisse il figliuolo del bue vitello contro  natura, non sarebbe da chiamarsi poliedro: ma vitello,  nè eziaodio se dall'uomo altra prole si producesse,  che umana, ciò che nascesse si dovrebbe chiamar no*  aio. 11 medesimo è da giudicarsi degli alberi, e delle altre cole tutte, o non pare ancora a te? erm. — A  me par si. soc. — Tu dì bene-, perciocché guardati,  che io non ti inganni in alcun modo; conciosia, che  secondo la stessa , ragione eziandio se alcuna cosa na-  scesse da re, sarebbe da chiamarsi re, non importan-  do che si significhi lo stesso in queste, e in quelle  sillabe, o se vi si aggiugni alcuna lettera, o se an-  che la vi si levi; mentre la essenza della cosa dichia-  rata nel nome signoreggi./, erm — Come dì tu cote-  sto? soc. — Io non dico oiuna cosa meravigliosa, o  nuova: ma siccome tu sai, che diciamo i nomi degli  elementi: ma non essi elementi, eccettuatine sola-  mente quattro, cioè b N E fi ma «1 rimanente, co-  sì vocali, come mutoli, tu sai che aggiugnendovi al-  tre lettere, li proferiamo formando i nomi: ma iinchè  inferiamo la forza dichiarata dell’ elemento conviene,  che quel nome si chiami ciò, che egli si dichiara, nor-  me per esempio il B, vedi i che il T aggiunte non  impedì che con lo intero nome non si dimostrasse la  natura di quello elemento, di cui volle il positor del  nome, siffattamente non li è prestato fede di aver po-  sto bene i nomi alle lettere, erm.— Tu mi pari di  parlar il vero, soc.— Dunque fla la stessa ragion ancora  d’intorno al re. Perciocché sarò alcuna volta il re dal  re, il buono dal buono, dal bello il bello, e le altre cose  tutte similmente da qualunque genere certa altra pro-  genie, e sarebbono da dirsi gli stessi nomi, se non  ci facesse mostro. Egli è lecito, che in modo si variino per sillabe, che sia avviso all’ nomo rosse, che  le cose, che sono le stesse siano diverse tra loro, co-  sì come le medicine dei medici variate con colori,  •ed odori spesse volte essendo le medesime, pare a  noi, che siano diverse: ma dal medico considerata la  virtii loro, sono giudicate le stesse; nè il perturbano  le cose aggiunte. Similmente peravventura chi è eru-  dito d’intorno a nomi considera la virtii loro nè si  perturba il giudició di lui, se vi è aggiunta alcuna  lettera o trasmutata o levata, o se in altre, e motte  lettere si ritrova la stessa virtii del nome. Come quei  nomi, i quali di sopra abbiamo detto Astianate, e  Ettore hanno le lettere ad ogni modo diverse, fuorché  il sol T, non pertanto significano il medesimo... Mei  medesimo modo ciò che si dice prencipe di città,  qual communicanza di lettere tiene egli con li due  antedetti? nulladimeno significa il medesimo, e molti  altri vi sono, i quali nient’ altro significano, che il  re. Oltre ciò molti sono, che significano il capitano  dell’esercito, come altri ancora, che dichiarano il  professor dell^medecina. E si possono ritrovar mol-  ti altri discordanti nelle sillabe, e nellj lettere: ma  accordatisi al tutto nella virtù, del significare, par  egli che così sia, o pur nò? zrm.— Così certo, soc.  — Or a queste cose, che si fauno secondo la natura  sono da darsi gli stessi nomi, ehm. — Adognimodo,  soc. — Ma qualora alcuni uomini si fanno contro  la natura in certa specie mostri, come quando sì genera l’empio dall’ uomo buono, k pio; ohi è gene*  rato non dee sortire il nome del genitore- ma di quel  genere, nel quale ei si ritrova, come diami di cent-  rilo; se il cavallo generasse la prole del bue, non sa»  rebbe da chiamarsi il figliuolo di lui cavallo: ma bue*  mm.— C osi è. soc. -Dunque all’uomo empio generato dal  pio, bassi a dare il nome del genere. ehm.— Queste cose  sono vere, soc.— Dunque non conviene, che si chiami  un figbuol tale, amico di Dio nè ricordevole di Dio, nè  alcuna cosa siffatta: ina con ' nomi il contrario signi-  ficanti se pur i nomi deono conseguire la retta in-  venzione. sbm. — Cosi al tutto o Socrate è da farsi*  soc.— Come ancora Oreste, o Ermogene, corre rischio»  che sia ben messo, o se alcuna sorte H pose il no-  me, o alcun poeta; con quel nome significando la dì  lui natura ferina, selvaggia, e montana, erm. — Cosi  apparisce, o Socrate, soc. — Àncora è avviso, che il  parere di lui tenga il nome secondo la natura, erm.  — Apparisce, soc.— la vero tale appar egli, che sin   Agamennone, quale pare che si affatica, e sopporta»  imponendo fine alle cose, le quali parvero da termi-  narsi per la virtù. Argomento poi della sua toleranza  ne diede il durar sotto Troia con tanto esercito. Dun-  que che questo uomo sia stato buono nella perseve-  ranza, il nome di Agamennone lo significa. 1$ perav-  ventura eziandio Atreo se ne sta bene, conciosia, che  la uccisione di Crisipo, e la crudeltà intoruo a Tie-  sse sono tutte le cose daouosc, e perniciose in verso alla virtù, onde la denominazione del nome declina  un tantino, ed è gelata in modo, che non dichiari  .^chiunque la natura di questo nomo: ma cui som»  periti di nomi si mauifesta bastevolmente la signi-  ficazione di Atreo; perchè esso nome è posto bene  in- ogni luogo secondo 1* intrepido. Ancora pare che  il nome di Felope non sia dato a lui fuor di proposito, significando questo nome, che sia degno di que-  sta denominazione chi vede le cose dappresso, zbm.— •  In che modo? soc. — Come si dice nella morte di  Mirtillo contra di lui, che egli non abbia possuto pro-  veder niente, nè da lunge vedere di quanta calamità  fosse ripieno il genere tutto, riguardando alle cose,  che gli erano innanzi a piedi, e solamente alle pre-  senti. Ciò poi è il veder dappresso, il che ei fece  avendosi aiTaticato con ogni sforzo di accompagnarsi  in matrimonio con Ipodamia. Appresso penserebbe  ognuno, che il nome Tantalo li sia stato posto bene,  e secondo la natura, se sono vere le cose, che si rac-  contano di lui. erm. — Quali sono coteste? soc. —  Che a lui ancora vivente moltissime cose avverse, e  gravi avvennero, il fio delle quali si era, che tutta  la patria di lui si vogliesse sossopra. Più oltre, lui mor-  to gli sta sopra la testa un sasso, per certo, durissima  sorte. Tutte queste cose adognimodo si confauno col  nome, non altrimenti, che se alcun l’avesse volato  nominar pazientissimo: ma avendo parlato alquanto  oscuramente, abbia posto Tantalo per Talantato- In   c   vero pare, che un tal nome la fortuna di lui avversa  lì abbia dato col rumor della gente. Anzi che bene  si applicò ancora il nome a Giove padre; nondime»  no egli non è agevole da conoscersi» essendo «1 no» 1  me di Giove qual certa orazione, il quale in due par-  ti partendo, in parte si vagliamo d’nna, in parte del»  l’altra parte, chiamandola. alcuni altri, le quali per»  ti in uno poste, dimostrano la natura di Pio, il che  dee poter fare il nome massimamente; non avendo  noi, nè tutti gli altri niuna maggior cagione di viver,  che il prencipe, e re di tutti- Dunque avviene, che si  nomini bene in cotal guisa, essendo ‘Dio, per cui ca»  gioite il viver si ritrovi sempre in tutti i viventi. Es-  sendo poi uno il nome, è in dtfe parti partito, come  io dico. Questo poi essendo fìgliuol di Saturno clù  all’ improviso l'udisse penserebbe cosa insolente. M*  è ragionevole, ehesia prole Giove di certa grande in»  telligenza; perchè quello, che si dice non significa  fanciullo; ma purità, e incorruttibilità deliamente di  lui. Egli è poi, come si dice, figliuolo del cielo; con-  ciossiachè lo aspetto alle cose di sopra meritamente  sidee chiamare con questo nome, come all' alto ris-  guardi onde, o Ermogene, affermano coloro, che trat-  tano delle cose sublimi, cheavvegna una pura mente,  e a lui si ponga bene il nome del cielo. Or se io tenessi  a memoria la geneologia scritta da Esiodo: e mi ricor-  dassi quali egli introducesse i progenitori loro, in  niuu modo non cesserei di dimostrarti, che fossero scritti loro i nomi bene, finché facessi la provi» di  questa sapienza, se ella faccia alcun profitto, e alcu-  na cosa fornisca e se si dubiti, o nò, la quale io  non se certo, onde poco fa mi sia venuta cosi allo  ìmproviso. za»*— In vero, o Socrate, pare a me, che  t« alia similitudine di coloro, che sono da divinità  rapiti, mandi fuori oracoli. soc. O Ermogene, io  stimo, che. questa sapienza si cagionasse in me da Eu-  tifrone figliuolo di Panzio; poiché assiduo gli era in-  stami dal matutino, e li porgeva gli orecchi. Sicché  é manifesto, che egli pieno di Dio, non solamente  abbia ripieni di sapienza beota gli orecchi miei? ma  occupato t'animo ancora: io stimo veramente, che si  abbia a fare in cotal guisa. Che si vagliamo -oggi di  lei, e si investighi da noi il rimanente, che pertiene  a nomi: diman poi, se in ciò converremo, la manderemo fuori, e la mondaremo con diligenza, ricer-  cando alcun o sacerdote, ovver sofista, che sia buono  a purgar queste cose, bum.— O Socrate, io approvo  questo si, perchè molto volentieri udirei ciò, che ri-  mana d'iutorno a nomi. soc.— Al tutto si dee fare   cosi. Dunque ove giudichi tu principalmente, clic si  abbia ad incominciare; poiché abbiamo prescritta  Certa legge per conoscere, se eziandio gli stessi nomi  ci attestino, che non siano stati fatti a «uso: ma con-  tengano alcuna invenzione? i nomi dunque degli  croi* C degli uomini peravventura ci inganaereb-  bono, essendo molti di questi posti secondo le denominazioni de’ maggiori, e spesse volte non conven-  gono in modo niuno, come abbiamo detto nel principio. Molti nomi poi pongono gli uomini quasi pel*  voto, come e altri molti Per la qual cosa io stimo,  che siffatti siano da tralasciarsi: ma è cosa verisimì-  le si, che noi ritroviamo i nomi posti bene, e naturali intorno «Ile cose, che son sempre, convenendosi  mollo, che qui si abbia a cercare diligentemente la  maniera del por i nomi: ma peravventura alcuni dì  loro sono stati posti ancora da certa potenza più di-  vina, che umana. ehm.— 0 S ocrate, tn mi pari dì  parlar eccellentemente. soc.« Non è egli cosa con-  venevole lo iucominciar da Dei, considerando in qual  guisa sono stali chiamati i Dei bene con questo stes-  so nome? erm.-E verisimile. soc.-In vero cosi io so-  spetto; mi par certo, che i primi de’ Greci abbiano  pensato quei soli Dei, i quali eziandio sono stimati  in questi tempi da molti ,!«' barbari il sole, la luna,  la terra, le stelle, il cielo. Dunque quasi, che essi ve-  dessero tutte queste cose essere in un perpetuo corso,  da questa natura è avviso, che ic si abbiano nominate,*  poscia osservandone altri; le abbiano chiamate tutto  con lo stesso nome. Ciò, che io mi dico tiene egli al-  ®uua verisomigliauza, oppur nò? ««.-Appar molto,  soc — che si ha poscia ad investigare? ehm E ma-   nifesto, che si dee cercare de’ demoni, e degli eroi,»  degli uomini. $oc.- De’ demoni? o Ermogene, conside-  ra veramente se ti è avviso, che io ti dica alcuna cosa intorno a ciò. che si vuole inferire il nome de*  demoni, ehm.— DI pure. soc. — Sai tu dunque quali  si dica Esiodo, che siano i demoni? * km— Non inten-  do. soc.— Nè eziandio, che egli dica essere stato de-  gli uomini primieramente il genere dell' oro? erm.   — Solio sì. soc.— Or dice d’intorno a lui, poiché la  sorte coprì questo genere, che altri si chiamano demoni puri, terrestri, ottimi fuggatori di mali, e guar-  diani di uomini mortali, erm.— Che poi? soc. — Per  certo io stimo, che egli chiami genere d’ oro, non  fatto d’ oro: ma buono ed eccellente, e di ciò ne fo  la congettura, dicendo egli, che il genere nostro sia  del ferro, ehm.— Tu narri il vero, soc.— O non pensi  tu, se al presente alcun de’ nostri fosse buono, «he  egli si stimerebbe da Esiodo del genere dell'oro? erm.   — E cosa verisimile, soc- — Or sono alcun' altra cosa i   buoni, che prudenti? erm— Prudenti. soc Sì che   come io penso chiama quelli demoni principalmen-  te; perchè erano prudenti ed intelligenti, e pervenne  questo nome dalla nostra lingua antica. Perlaqualco-  sa ed egli, e qualunque altri poeti molti parlano be-  ne, che dicono, che poiché alcun buono si parte di  vita, prende in sorte grandissima dignità e premio, e  si fa demone secondo la denominazione della pru-  denza. Così mi affermò ancora, che sia ogni uomo pru-  dente, il qual è buono, e sia egli demonio, e vivendo, e morendo, e si chiami demone bene. erm.—  Mi pare o Socrate, che io consento d’intorno a questo con esso loco, soc.— Poi, SIGNIFICA egli? ciò non  è molto malagevole da considerarsi, essendo poco di*  stante il nome degli eroi, dimostrando che la gene-  razione loro sia derivata dall’ amore. erm. — In che  modo dì tu questo? soc.— O non sai tu, che sono se-,  midei gli eroi? erm.— Che dunque? soc. — In vero  tutti sono generali, avendo o Dei portato amore a  donna mortale, o mortali a Dea, oltre ciò se consi-  dererai queste secondo la vecchia lingua degli Ate-  niesi il saprai maggiormente; perciocché ti dichiare-  rà che si è mutato nn tantino per causa del nome,  onde so«o fatti gli eroi, o che egli significa gli eroi,  o perchè furono savi, e retori, e facondi, e al dispu-  tare acconci, essendo bastevoli allo interrogare. Sicché  quello, che poco fa noi dicevamo, dicendosi gli eroi  nella vece attica pare, che gli eroi siano atctmr relo-  ri, e che interrogano e amano; onde il genere degli  eroi si fa genere di retori e de' sofisti: ciò poi non è  malagevole da intendersi: ma più oscuro quello, per  qual cagione Si chiamino gli uomini gf$pcTrol’ P uo *  tu dire il perchè? ersi. Uomo dabbene dove avrei  io questo? anzi se io potessi ritrovare alcuna cosa,  uon 1’ affermerei, pensando, che tu meglio di me sa-  resti per ritrovarla, soc. — Egli mi è avviso, che tu ti  confidi nella ispirazione di Eutifrone. erm. — Senza  dubbio, soc.— E meritamente tu ti confidi; percioc-  ché troppo bellamente ini pare ora di aver pensato,  ed è pericolo (se io non mi guardassi) che no» pares-    ® e °gg>> c h® io fossi divenuto piti saggio, che non  si converrebbe. Or non considera ciò, che io dico;  perciocché conviene primieramente, che si consideri  questo intorno a nomi, che spesse volte aggiugniamo  lettere, e ne leviamo, nominandole fuori della nostra  inleuziope, e mutiamo le acutezze, come quando dicia-  roo Alì <p'lAo$. Da questo nome, affine egli ci servi  per lo verbo, caviamo poscia fuori l’uno I, e per la  sillaba del mezzo acuta pronunciamo la grave, in alcuni altri framettendo le lettere, e altre più gravi pro-  ferendone. erm — Tu riferisci il vero. soc. -.Questo   come a me pare adivietie ancora al nome degli uo-  mini; essendosi il nome formalo dal verbo, fuori,  che uno A, e fatto grave nel fine. srm. — Come di  tu questo? soc. — Cosi. Egli significa questo nome  o’ ivoSt cioè di nomo; perchè le'altre fiere non con-  siderano, nè osservano, nè contemplano alcuna delle  cose, che veggono: ma l’uomo incontinente, che vede  (e questo significa 1’ oTTùiTTs) e vede, e contempla, e  considera ciò, che ha veduto. Quindi meritamente l’  uomo solo di tutti gli animali è chiamato, consideran-  do ciò che vide. Che da te poscia addimanderò io?  quello peravyeutura, che io udirei volentieri? erm.   — Si. soc. — Dunque mi è avviso, che incontinente   succeda alle cose antedette la considerazione dell’ a-  nirua e il corpo alcuna cosa dell’ uomo. erm. —In   che modo nò? soc. — Ora sforziamoci di distinguere  ancora questo come le antedette, pensi tu, che iunanzi si. ql>bia a cercare dell’ Miima, come sia ella chia-  mala bene? poscia del corpo? erm.— In vero si. soci  —Dunque acciò io subitamente esprima quello,' che  ora mi si offerisce primieramente, io : stimo che Colo-i  ro, che' cosi chiamarono l’anima abbiano ciò pensato  principalmente, che questa quante Tolte è col corpo  si è-, cagione, che egli viva, dandoli la virtù del ri-  spirare, e rifrigerandolo; e come prima lo abhando-t  nera quello, che il refrigera, eglisi scioglie, e Sene  muore, onde pare, che 1’ abbiamo chiamata, quasi ri-  frigerante: rt»à se, ti aggrada fermati alquanto. Mi par  divedere alcuna cosa più di questa probabile presso  coloro, : i quali seguitano Eotifrooe; perciocché sprez-  zerebbono essi questa, come io penso, e la dimostrereb-  bono certa cosa molesta: ma vedi, se ciò ti sia per  dover piacere, erm. —Dì pure, soc.— Qual* alt+a cosa  pare a te, che contegno il corpo, e il guidi, e faccia,  che egli v;va, e vadi intorno* che 1? anima? eatu.ij-'  JNient’ altro? soc. — Ma che? non credi tu ad A nassa-'  gpra, che la natura di tutte le cose sia lo inieMetto,-  e l’anima che l’adorna e contiene?. > erm. — Così si.'  soc. — Dunque ben fia, che a quella potenza si applichi  questo nome (pvvgyjnj, cioè contenente la naturai ma  si può chiamare ancora ornatamente. ' erm. — Così è  ad ogni modo, e mi pare, che questo . sia di» quello'  più artificioso- soc.— E verameute, anzi par. certo co-  sa ridicolosa, se si nominasse, come le fan posto.: brw”  —Or, che dobbiamo dir api ciò, che segue? soc.— Tu dì del corpo? brm.-Sì. soc. — Questo a me pa-  re in molti modi, se alcun declinasse un tantino.  Perciò, che alcuni dicono, che egli sia all’anima se-  polcro, quasi ella sia sepellita in questo tempo pre*  sente, e anco perchè 1’ anima col messo del corpo  significa qualunque cose può significare per questa ca«  gione è chiamato ancora bene. Nondimeno mi Rav-  viso, che gli settatori di Orfeo abbiano posto questo  nome principalmente a questo fine; perchè l'anima iti  questo corpo dia la pena de’ delitti, e sia chiusa iti  questa siepe, e trincea affine servi imagine di prigio«  ne. Per la qual cosa vogliono, che sia questo cosi;  come è chiamato un chiostro per custodir l’ anima  fin, che purghi qualunque debiti; nè pensano, che vi  si abbia a tralasciar pure alcuna lettera, ehm — Or, O  Socrate, mi pare, che d’j intorno a questo si sia detto  bjBstevolmetite: ma de’ nomi de* Dei potressimo forse  noi considerare, come si è fatto di Giove, secondo  qual retta invenzione fossero posti i nomi loro? soc.   Per Giove sì, o Ermogónè; se noi avessimo intellet-  to sarebbe una maniera buonissima il confessare, che  iton conosciamo niuna cosa d’ intorno a' Dei, dico  nè d’ intorno ad essi, nè a’ nomi loro, co’ quali si  chiamano; manifesto essendo, che essi si chiamino coi  veri nomi: ma la seconda maniera della retta inten-  zione si è, che così come ordina la legge, che si pre-i  ghino i Dei ne’ voli comunque aggrada loro di esser  chiamati; così ancora noi li chiamiamo, quasi da noi non si conosca niun' altra cosa. Perchè si è deterrai. nato bène, come mi pare. Per la qual cosa, se ti pia-  ce, consideriamo quasi avendo detto innanzi a Dei,  che da' noi non sia per conoscersi niuna cosa d’ intorno a loro? ‘non confidandosi noi di esser possenti:  ma piò tosto- d' intorno agli uomini oon che opiniti-  ne principalmente intorno a Dei disposti posero lóro   i nomi; essendo .ciò lunge da riprensione. fi erm. O '   Socrate; egli è avviso, che tu parli modestamente, c  facciasi da noi in cotal guisa. .Dunque incominciamo  .alcuqg ,co$a da Veste. secondo le legge.- bum. —Cosi  veramente conviene, spc.a-t, Q ual cosa porrebbe dir  alcuno, che considerasse chi la si chiamò Veste? erm.   -Io pon penso per Giove, «bis ciò siaagevole do ri-  provarsi. som— O firnwgene buono. In vero par bene,  che i. prinp autori , de’, nomi non siano «tati certi grò*,  solqni; ma investigatori sottili di cose Sublimi. 11»   — Perchè? sac— Perchè , mi pare cheil por de' sto-  mi sia stato di . certi uomini siffatti, *' se d leu n consi-  derasse i nomi forestieri^; non tnanbo ritroverebbe  ciò, che qualunque significasse, come eziandio in qae-  sto, il qual noi chiamiamo essenza, alcuni sono,.' che  il chiamano altri di nuovo. Primieramente secondo   l’uno di questi nomi,, ,non ^ ovviso^ che si fofamrai   forte lontano dalia ragione la essenza delle Icose, e  perchè noi chiamiamo ciò, che è partecipe dS essenza;  per questo si potrebbe nominar Itene; perchè parte,  che ancora noi anticamente,, chiamavamo già  <   >?rÌ* o6(rf«fc- Appreso »e «leu* considerali* isàcrifieà,  stimerebbe, che; c^»l cqn|i derisero doloro, ( «bfc .li, &  posero;, perciocché è vcrisùniU iunanM-4-iWtt». • i-, I>«i^   che facessero i sacrifici a Veste chi denominarono la  essenza di tutte le cose.- ma quanti di;, nuovo ,la.fthia-  marono ùaiOCV, stimarono quasi di mlovo secondo E-  ratlito, che sempre scorressero tutte le cose, e Piente  •Don si fermasse. Danqoe la cagione, 'e la origine lo-  ro fosse, chi le spingesse. Sicché meritamente si chia-  mi la cagione, che spinge. D’ intorno 1 0 questi fin qui  siane detto in .colai guisa, come da coloro, Che' 'non  intendono piente. Dopo Veste con-vien, Che si Iconst-  deri di Rea e di Saturno,* tuttoché de! nome di Sa-  turno abbiamo detto di sopras-hiB forse, chef io noti  died nulla. EHM.-Perchè, o Socraté? soc.— O uomo  dabbene, ho considerato certo esime di' sapienzd.  erm.— -Q uale é eglit socv-Cosd'dS dirsi ridfirolosa niol-  -U>, fiondimene '«Urn®, che tenga ‘àfeuno probabil cosà.  k*m.>— Q uale n’-è dessa? soc.— Mi pàrvedere; che E-  • radilo già. molto nani chiaramente aldune cose sag-  gio, che si fecero nel tempo di Saturno e dì Rea, fe  quali eziandio si raccontavano da Omero, ehm.— ‘Co me- di tu cotestoì soc. — Eradito dice, che scorrano  tuttéalacose, e, non si fermi nulla; e assomigliandogli  -.enti al flusso d’ un- fiume, dice non esser possibile,  che nei medesimo, fiume tu possa entrar due volte.  ehm.— Q uesto A vero. soc. J— O ti par egli, che colui  da praclito dissentisca, il quale pose Rea e Saturno  Si <   IVa progenitori degli altri Dei? dimmi, pensi tn, che  egli abbia posto temerariamente i nomi ad ambi lorò  delle flussioni; come ancora Omero dice, che l’Oceano  sia la generaeione de' Dei, e la madre Tele; e il me-  desimo, come pare, volle ancora Esiodo. Oltre ciò db  ce Orfeo, che l’Oceano primo abbia dato incominciai  mento alle nozzi; che corrono bene, avendosi accom-  pagnato con Tele sua sorella. Dunque considera come  si confacciano insieme queste cose, e tendano tulli al-  la opinione di Eraclito, erm — O Socrate* pare a me  che tu dica alcuna cosai ma non intendo bastevolmente  ciò, che inferir si voglia il nomedi Tele, soc.— E non-  dimeno significa quasi questo stesso, che sia un nome  ricondito di fonte; perciocché quello, che corre, e sì  spinge è un simulacro di fonte, e d’ arnbidue questi  nomi è composto il nome erm.— O Socrate,   questo è bellissimo, soc.— In che modo nò? ina che   poscia? di Giove abbiamo detto veramente, ehm.   Così è. soc.— Or diciamo de’ fratelli di lui Nettuno,  e di Plutone e dell'altro nome, col quale è chiamato'  da loro. erm. — Al tutto, soc. — Egli è avviso, che Net-  tuno da chi primieramente il nominò, sia perciò sta.  to chiamato* Troa-g/ofiàlt, perchè mentre egli cambiava,   «1 ritenne la natura del mare, uè permise, che se ue  andasse più oltre: ma se li fe quasi legame a piedi.  Sicché chiamò Dio 7T0<retc/là>lùX, il prencipe di questa   virtù, come TTOff/c/lefffiolf OVTK, cioè legame di piedi:   ma l’E vi fu trasmesso forse per ornamento, ftla per-    »M   avventura non si vuote egli inferir quatto.- ma in vé-  ce di E si diceva primieramente «on due LL come se   dicesse fa ttoAAc bÌ</IÓto<tTov$*ov, ci °è* che qua»  si sia Dio coguitore di molte cose. Peravveotnra dal  ctteu, cioè dal movere fu nominato èa-g/ar, cioè mo.  venie, cui si aggiunse poi il P e il OeilD. Or il no»  me di Plutone fu nominato secondo il compartimento  delle ricchezze, cavandosi etle dalle viscere delta ter-  ra. Il nome poi ac/|»J, pare, chela moltitudine gliele  abbia dato quasi t ò AeuAtSt c ' 0 ^ cosa invisibile, e  di questo nome avendo onore il chiami Plutone. , eia.  — Or in che modo pare a te, o Socrate? soc. — A me  pare, che gli uomini in molti modi abbiano errato  intorno alla potenza di questo Dio, e lo abbiano avu-  to sempre in orrore, non convenendosi punto, teraen •  dolo chiunque; perchè morto una fiata sta sempre qui-  vi; e ancora, perchè l'anima del corpo spogliata cola  se ne vi ella. Alla perfine tutte queste cose, e il re-  gno, e il nome di questo Dio mi pare, ebe tendano  al medesimo, enti. — In che modo? soc.— Ti dirò ciò,  che mi pare. Perchè dimmi, qual di questi due è le-  game pili forte al tenere in qualsivoglia luogo qualunque animale, la necessiti forse, o il desiderio?  erm. — Di gran lunga, o Socrate, avanza il desiderio,  soc. — Pensi tu dunque, che molti non fuggirebbono  lo inferno; se egli non legasse coloro, che quivi di-  scendono con un fortissimo legame? srm.— C hiaro è.  soc.— Sì che li lega, come pare, con certo desiderio,  non con neoesiità, se pure li annoda co* legsmh  fortissimo, erm.— Apparisce, soc.— Sicché di: n«o?0  sono molli i desideri? «a*i.— -Molti si. • soó. -Dunque   li annoda colla grandissima cupidità, se pur li dee  contenere col grandissimo legame. <rm.— Per certo,  soc.— Or vi è «gl* alcuna cupidità maggiore* che quan-  do alcun con altrui accompagnatosi, pensi di dovere  esser uomo migliore per causo di l’uJP «aat. — O So-  crate, iti ninn modo per Giove, soc. — Forte per  questa cagione hassi a dire, o Ermogene, che nien di  colà se ne voglia' ritornar qni, nè iè stesse sirene,  anzi e esse, e gli altri tutti siano addolciti; cosi  belle parole sa formar lo inferno, eéttrt apparisce, ed  è questo Dio, come testifica questo parlare Sodala per-  fetto; e a colóro apporta gran benefidi, che abitano  presso lui, e dà loro cotanti beni; siffattamente i egli  di ricchezze abbondante in qael luogo, onde ancora  di quà ebbe il nome di Piatone, o non ti pere officio  di filosofo il non volersi accostare agli nomini, che  hanno i corpii ma il riceverli allora finalmente, quan-  do l’animo loro é purgato da tutti i mali, e da de-  sideri, che sono d’ intorno al corpo? per certo pensò  questo Dio di dover tener in questa maniera gli ani-  mi, se li legasse col desiderio della virtìit ma chi sono infetti da stupore e da pazzia di corpo, nè il pa-  dre Saturno sarebbe possente di raffrenarli con quei  suoi legami, e di tenerli seco. efcM.-O Socrate, pa-  re, che tu parli alcuna cosa. soc. — O Ermogene, è  forte lontano, che il nome sia quali imminato invisi-  bile, ansi ai cava dal conoscer tutte le cose belle.  Per la qual cosa -da ciò è questo Dio chiamato  idei facitore de’ nomi. erm. — Stiano lé cose cosi. Che  diciamo noi pili oltre del nome di Cerere, di Giuno-  ne, di ’ Apolline, e di Minerva, ’e di Vulcano, e di  Marte, e del rimanente de’ Dei? soc.— Cerere si chiama  Jt«T« -rnvc/lótr/l! rriff èj\a>if(is dal dopare gli alimenti,  crtte/loti<r<X d$ (isp, c '°* quella, che dà quasi, madrq:  ma Spx, Cioè Giunone, come gp«r*TlC>. c ‘°,è certa  amata, così come si racconta, che Giove amata l’ebbe.  Ancora risguardqqdo all’alto peravveulura chi ordini)  questo nome, denomino l’aere e parlò oscurar   mente, ponendo ci principio nel fine, il che ti si farà  manifesto, se spesso pronuncierai quel nome di Pro-  serpina, ed enroAAtav temono alcuni 'per quello di no-  minare, che è ignota: loro la retta invenzione de’ np;  mi: perciocché mutando considerano la <pgp(j-£<pótfW,  e ciò loro par cosa grave. Ciò poi dimostrai c h®  Dea sia sapienza. In vero la sapienza fìa quella, che  tocca, e palpa le cose, che scorrono, e lepuòcopse;  guire. Per la qual cosa Qepé'lTCUpX, questa Dea meri-  tamente si chiamerebbe per la sapienza, toccamente  di quello, che scorre, o alcuna tal cosa. E però lo  inferno, essendo sapiente è congiunto con lei per es-  ser. ella siffatta. Ma ora schivano questo nome, stiman-  do più la grazia del proferimento, chq la verità: in  modo, che la nominino (pepp&QXTyxi- M medesime    Digitized by Google    >3U   ancora adìviene intorno al nome dì A polline, avendo  molti in orrore questo nome, come porti seco alcuna  terrihil cosa, o no il conosci tu? ehm.— Il Conosco  ai, e tu di il vero. soc. -Ma ciò, come mi è avviso,  è posto benissimo rispetto alla potenea di Dio. erm.   In che modo? soc. — Sforzerommi di esprimere il   mio parere, in vero non si avrebbe possuto ritrovare  un’ altro nome solo più convenevole -alle quattro po-  tenze, di Dio, di maniera, che le tenesse tutte, e in  un certo modo dichiarasse la musica, il vaticinio, la   1 I T u ' ' ,   medicina, e 1’ arte del saettare. Or di, per-   chè mi è avviso, chp,tu dica un nome strano,, soc. —  Anzi egli è conveuevolmente addattato; essendo Dio  musico; perciocché la purgagioue primieramente, e  le mondazioni, che si fanno colla medicina, e col  vaticinio; ancora le cose, che si torniscono col-  le medicine ’ de’ medici, e gli incauti degli indovi-  ni, C le purificazioni, i lavacri, egli spargimenti pos-  sono questo solo, cioè di. rendere 1’ uomo puro, e  del corpo e deU’aniina; non è egli cosi? erm. — Cosi  ad ogni modo, soc.— Dunque sarà colui il Dio, il qual  purga e lava chi libera da mali siffatti, ehm.— Senza  dubbio, soc — Per la qual cosa in quanto lava, e libera come medico di tali inali; è meritamente chiamato liberatore. Ma secondo la indovinazione, e il vero, e  il semplice, essendo una stessa cosa il possiamo ancora nominar bene secondo il costume de’ Tessali. Per   l *   certo tutti costoro chiamauo questo Dio , semplice: ma perehè sempre imbroca il sogno con l'arte del saettare,  sempre percuote-, si può dire perpetuo percotente. Se-  condo la musica poi, si ha a pensar di costui come  di chi si dice, che segue alcuno; e della moglie, perchè 1 ’ A dimostra, come in altri molti luoghi il con-  giuogimento, e qui ancora significa 1 * accompagnamen-  to delle conversazione, e intorno o cieli, i quali chia-  miamo «7 TÓAovff, « SIGNIFICA eziandio 1 * armonia, che  è nel canto, la qual ai chiama concordanza. Perchè  d’intorno a queste cose, come dicono i periti di mn-  •sica e di astronomia, si rivoglie egli con Certa armonia.    •Questo Dio poi è soprastante all’armonia volgendo insie-  me tutte queste cose, e appresso agli uomini, e~a'ppresso  V Dei. Dunque così come T J y o^oa/Afii/Sor, Kffì opó-  JtO<T«V, 0, °® va insieme, e chi giace nello stesso let-  to abbiamo chiamato «kuAovSov, X ai SttOITtY, ca-  blando l’ O nell’ A, così quello abbiamo chiamato  ■Apollo, il quale era o’fXOTTCÀàv, frammesso l’altro L:    perchè sarebbe stato equivoco col duro nome. Il che  ancora a questi tempi avendo sospettato alcuni • per  quello che non considerano bene la virtù del nome,  così il temono, come significasse certa corruzione. Ma  daddovero questo nome abbraccia- tutte le virtù di  questo Dio, come di sopra detto abbiamo; conciossia,  che il significa semplice, perpetuo, ‘ percotente, lavatore, e insieme conversante. Il nome poi delle mu-  se • della musica i cavato da quello ebe si dice  h (   c '°® cercare i come è avviso, e co* la inve-  stigazione, e con lo studio della sapienza. Latona si  dice dall* mansnetndine dèlia Dea, perchè sia pronta;  ed esposta, e presta al dar ciò, che chiunque ricerca.  Ma peravventura, come chiamano i peregrini perchè  molti nominano il qual nome pare che lì sia   stato dato, perchè non abbia ella la mente rigida: ma,  mite, perciò si denomini qiwaì Aitò» ì$6$,   cioè costume piacevole e mite $prt[ìl(, cioè Diana  per quello che s ‘ a quasi integra, e modesta   per lo desiderio della virginità, ancora lo institutore  del nome la chiamò peravventura quasi òlfSTÌi iffTO p«tj  cioè chi conosce virtù eziandio è detta forse SpTeyttS,  quasi £; TÓV «fyoTOV TOt OtVcApài «’»7V-   I ctiKi, cioè che ella abbia avuto' quasi in odio il congiungimento dell’uomo colla donna essendosi ordina-  to il nome,'o per alcuna di queste 1 cose, 0 per tutte  di siffatta sorte, erm.— Ma che Airfrtfd'O? g'(pp o</IÌTt   cioè di Dioniso e Venerei soc. — O figlinolo di Iponi-  co, tu addimandi gran cose. Or è doppia la maniera  de* nomi imposti a questi Dei, 1* una seria, 1* altra  giocosa. Dunque da certi nitri ricerca fa seria: ma la  giocosa niuna cosa vieta, che non si racconti: percioc-  ché sono ancora i Dei de’ giuochi amatori, e sarò uno  Al'orvtrog i J\l<Aoùs to'» ODO», cioè Dioniso mini-  atratore divino, quasi cognominato' JU<A\jtvv<roS, nel giuoco. Ma ti può meritamente chiamar vino; perché  faccia, che molti, i quali beono essendo alienati di  mente, pensino di avere intelletto qh al&S^xl VOÙV   »v«<» tò» TTt*óv3fi>v roti : ttoAAoÙs,   d’onde meritamente si può chiamar obi pensa avere  intelletto. D’ intorno a Venere non è cosa degna, che  si contradica ad Esiodo: ma si conceda, che si chiami  &QfO<AiTH TSt T«V «iJ>poù 7 évetrw, ci°é per la  generazione della spama. MM.-Or, o Socrate, non  trapasserai sotto silenzio Minerva, e Vulcano, e Marte  essendo ateniese, soc.— Non conviene itKolcun mo-  do. ehm.— Per certo nò. soc. — Egli non è malagevo-  le da dirsi, perché sia posto l’uno de’ nomi di lei.  Kit».— Quale? soc.— Per certo noi là chiamiamo Palla-  de. ehm.— Si certo. sac^-Or istimando noi, che 1»  sia posto questo nome dal saltar fra le arme, lo sti-  meremo bene, come io penso, perciocché lo inalzar  se stesso, o altra cosa in alto, o da terra, o colle ma-  ni il diciamo TróAAetif, e thxAAe adii, Xfid àpX B ^*. vi v   XK< c ‘°® cr °ll are » e crollarsi, e saltare, e   patire il salto, ehm.-— Così è. soc — 'Dunque in colai  guisa la chiamano Pallade. ehm.— E meritamente; ma  1’ altro suo nome, in, che modo lo di tu. soc.— Cer-  chi tu tÒ . À9NV&? ( ehm.— Questo stesso, soc.— Que-  sto è piu difficile, o amico, pare che gli antichi sti-  mino £$ come costoro, che a questi tempi sona   dotti d’intorno ad Omero. Perciocché di costoro mal-    Digitized by Google     ) 39 <    ti interpretando il poeta dicono, che òt$tlVoiV «-  TOV yovv, Kx\ JÌIXVOIXV TTSTTOIHkÌvÓCI, abbia fatto  la stessa mente e il discorso, e chi fece i nomi pare,  che abbia considerato alcuna cosa tale d* intorno a  lei: anzi ancora dall’ alto innalzandola, la introduce  come intelligenza di Dio, qnasi dica, che questa sìa  5eovÓo, cioè quella, che intende Dio, valendosi dell*  X in luogo del y secondo certo rito forestiero; levan-  done appresso lo j e il ma peravventura nè a que-    sto modo: ma come, che ella diversamente dagli altri  intenda le cose divine la chiamò ^eoto'nif, cioè inten-  dente le cose diyine. Uè fìa fuori di proposito se di.  remo, che egli 1’ abbia voluta chiamare rf$oVÓtf  quasi essa sia intelligeuza d’ intorno a costumi. Egli  dopo, o coloro ancora, che vennero poscia come era  avviso tirandola nel meglio, come credettero la de-  nominarono Atene, ehm.— Che di Yulcauo, il quale è  nominato ÌQxHnotf in che modo dì tu? soc.— Ocer-  ehi tu il generoso intelligente di lume? ehm. — Cosi  mi e avviso, soc.— Costui come può esser manifesto   a ciascuno è tpoÙffT Off, e si attribuisse lo onde è   * . t . v i   detto £ Qxi$TQS- ehm.— Apparisce se eziandio non   ti paresse pra altrimenti, soc.y- Ma acciò non mi paia  cosi addimanda di Marte. ERM.-Addimand,o. soq,  —Se li piace KfltTOt TP Xf>ps, y, cioè Alarle, si dice se-  coudo il maschio è «MpetOtfjiCioè forte. Più «lire sft    Digitized by Google     ) 4 » (   la vorrai, che egli aia stato chiamato per certa aspra  natura, dura, e invita, e immutabile, la qual si chiama  ttppXTOI, questo ad ogni modo convenirli al Dio guer-  riero. xrm. — A d ogni modo. soc. — Deh per li Dei  lasciamo oggimai i Dei, temendo io di disputar di lo-  ro: ma proponimi qualunque altre cose tu vuoi, af-  fine tu conosca quali siano i cavalli di Eutifrone.  un. — Farollo addiinandandoti ancora una cosa di  Mercurio poiché Cratilo nega, che io sia Ermogene,  sicché tentiamo di considerar ciò che significhi éppw$,  cioè il nome di Mercurio: affine conosciamo, se egli  dica alcuna cosa. soc. — E nondimeno g’pgyg, cioè Mer-  curio pare che sia intorno al sermone in quanto è  i/tfmete, Iteti sryeAof, noi) tò nhu'juKÓne, k«ì  to xTxrnXoi s’r ih * <?» x*ì tò ciipopxaTinòv,   cioè interprete e nuncio, e ha nel parlare lo ingannar  furtivamente, e versa nella piazza. Tutto questo tratta-  to versa intorno alla virth del parlare. Per certo come  abbiamo detto dianzi yò etpeil, ® usanza di parlare.*  ma spesse volte dice Omero di costui e’p scorro ,  cioè machinò egli. Dunque d’ ambidue si compone il  nome di questo Dio, si di quello, che è parlare, sì di  ciò cbe è il ntachinare e 1’ investigar le cose da do-  versi dire, così come 1’ autor del nome ci ordinasse.  O nomini, è cosa decente, che voi chiamiate quel Dio,  il quale ha machinalo il parlare: ma noi al presente  it chiamiamo gpjiìy, pensando di abbellire il nome: anzi, e ipi$ pare che sia chiamata da sip$u per quello,  che era messaggera, erm.— Per Giove pare, che Cratilo abbia negato bene, che io non sia Ermogene, es-  sendo io grossolano alla invenzione del parlare, soc.  t- 0 amico, egli è ancora verisimile, che ir fax figliuol  di Mercurio. sia di due forme, erm. - In che modo?  soc.— Tu sai, che il sermone significa il tutto, e at-  tornia, e versa sempre, ed è doppio, cioè, vero e fal-  so. erm.— In vero sì. soc. — Dunque la verità di lui  è cosa piana e divina: e di sopra abita fra Dei: ma la  falsità al basso fra la turba degli uomini, ed è aspra  e tragica: perciocché qui si ritrovano molte favole e  falsità intorno la vita tragica, erm. — Così è ad ogni  modo, soc.— Meritamente adunque egli, che significa  il tutto, e sempre versa, sarà di due forme figliuolo  di Mercurio nelle parti di sopra molle, e delicato, nel-  le inferiori aspro, e caprino, ed è pane, o il Sermo-  ne, fratello di sermone, poi che è figliuolo di Mercu*  /rio. Non è poi maraviglia che il fratello sia al fratello  somigliante. Alla perfine, o beato, dipartiamoci da’ Dei,  il che io poco fa diceva, erm —  O Socrate da questi  tali sì, se il piace a te: ma quale impedimento ti tie-  ne, che non racconti di questi altri? cioè del sole,  della luna, delle stelle, della terra, del cielo, dell'ae-  re, del fuoco, dell’acqua, della stagione, e dell’anno?  soc. — Sono molte, e grandi le cose, che tu mi comandi; non per lauto dovendoti esser ciò grato, ti ubidirò.   (   ikm — Per cerio tu mi Tarai cola graia. »oc. — Che  chiedi tu prima? o vuoi tu forse, come hai detto, che  discorriamo dei soie. erm. — Invero si, soc.— Questo  è avviso, che potrebbe esser più chiaro, se alcun si  valesse del nome Dorico, chiamandolo i Dorici et\Ì0i  ed in cotal guisa è chiamato secondo xktÌ TO à\i-  £s/V e li TOCvyópoòs XìlSp ÓttoIs, C1 °è per quello, che  riduce gli uomini insieme quando nasce : ancora  Kfltl "TÙ TTepì tW «et EtAitv, per quello ched’  intorno alla terra si rivoglie sempre. Piu oltre perchè  varia col suo giro le cose, che nascono nella terra, il  variar poi, è lo stesso, erm. — Ma che si dee dire  d» <reÀÌvt)J, della luna? soc. — Pare, che questo  nome premi Anassagora, erm.— Perchè? soc.— Perchè  dimostro alcuna cosa vecchia, il che egli poco fa di»  ceva traendo la luna il lume dal sole, erm.— In che  modo? soc.— Il c-e’A CCS, P er cer to, e la luce è lo stesso*  erri.— E’ si. soc.— Questo lume perpetuamente è d’ in-  torno alla luna y£ov, hx'i BVVOf, cioè nuovo e vecchio,  se pure gli settatori di Anassagora parlano il vero,  conciossia che attorniandola di continuo la rinova: ma  vecchio è egli il lume del mese passalo? brm.— Vera-  mente. soc.— Molti chiamano la luna o-sAxtCclxt,   erm.— Per certo sì. soc Ma perchè tiene sempre il   lume nuovo, e il vecchio, meritamente si dovrebbe  chiamare <rgAA*eyveo«6t«. Ora poi spezzato il vocabolo si chiama <rgA<m tot. tMt.— O Socrate, questo  nome è ditirambico: ma come interpreti tu T< j r  Cioè il mese, e T * forpx, cioè le stetle? soc.-ll  mese si chiamerebbe bene yg/j, T0 ^ ynuoìfBxu  cioè dal sminuirsi: ma pare, che le stelle abbiano la  denominazione di òffTfflnr?S , cioè del folgore :  «TTfMnri poi, perchè a se rivoglie gli occhi si do-  vrebbe dire aTpoì’Jtì: ma ora con vocabolo più ao-  concio si chiama ònTTpentì. erm.— Onde ne cava.il  nome "jrSp, nxì TÒ ic/l&p, cioè il fuoco e l’acqua?  •oc.— Dubito veramente del fuoco, e corre rischio, o  che la musa di Eutifrone mi abbia abbandonato, ossia  questo cosa difficilissima. Dunque considera qual «na-  chinazione io introduca, d' intorno a tutte siffatte co-  se, nelle quali io dubito, erm.— Quale? soc.— Dirpl?  loti. Perchè rispondimi, potresti tu dirmi, perchè si  chiami fuoco, erm.— Per Giove nò. soc.— Considera  ciò, che io sospetti d'intorno a questo: in vero io sti-  mo, che molti Greci abbiano avuto molti nomi da'  Barbari, massimamente coloro, che sono a* Barbari  •oggetti, erm.— A che queste cose? soc. — Se alcun  cercasse secondo la voce greca la retta imposizione  di questi, non secondo quella, dalla quale ha origine  il nome, sai tu com’ egli dubiterebbe? erm.— Verisi-  1 mente si. soc — Sicché vedi che questo nome * 7 ^,   non sia alcun nome barbaro, non essendo agevole lo   accommodarlo alla lingua greca, e manifesto è, che   declinando alquanto, i Frigi lo nominino incoiai guisa,   TÒ vJìtof K«ì T«£ KÓKX? KtÒ »   cioè l’acqua, ei cani, e altri molti nomi. ehm. —  Questo sì è vero, soc.- Dunque non fa raistieri, che  si usi violenza a quelle cose, poiché d’ intorno ad  esse non potrebbe alcuno dirne niente. Sicché in que-  sto modo io rifiuto quei nomi di fuoco, e d’acqua: ma  lo c('ip, cioè 1* oere è cosl dell °» 0 Errao B ene » l ,erchè   crfpsi T« «TTÒ T*S ci0è S0lleva Ci6 ’ Cbe è d ’ ia *  torno alla terra, o perché scorre sempre, o perché si  genera lo spirito col flusso di lui, conciossiachè chia-  mano » poeti tHrxs, gli «Pi» - '!'- Dunque si dice aere  peravventura, quasi *7TI(ev(iflCTÓppoi/V , «STOppov» ,  cioè corso di spirito. Ma del cci$epeC >° sospetto in  questa tal guisa, perchè sfóttei, cioè sempre scorre,  scorrendo intorno all* aria, perciò meritamente si può  chiamar fatfripo 7* <Aa cioè la terra maggiormen-  te significarebbe ciò che si vuole se alcun la nominasse  7«?«V, perchè •ysvl/VITeipflC S1 P u ° cbiamar bene »  cioè genitrice, come dice Omero. Conciossiachè ciò  che si dice yeyiwi, diss’egli 7S76V?<r3*i, c,oè l ’  esser fatto, ehm. — Si stiano le cose cosl. soc. — Che  ci rimane dopo questo? erm. — Le stagioni, e l’anno,  o Socrate, soc.— upxi, cioè le stagioni, sono da dirsi colla voce vecchia, e Ateniese, se tu vuoi conoscer  quello, che è convenevole, essendo elle ore .upctt, c '°è  perchè determinano il verno, e là state, e i venti, e  i tempi, per li fruiti, che nascono dalla terra, e de-  terminando esse, meritamente ore si chiameranno.  ilici t/TOff po«* e sTO?> cioè l’anno pare che sia lo  atesso; perciocché quel che a vicenda manda in luce  qualunque cose nascono e si fanno, e le essamina ia  se stesso, e discerne è l’anno, e come di sopra di-  cemmo, che ’l nome di Giove era segato in due, e si  chiamava d’alcuni « d’altri a/# cosi ancora chia-  mano qui l’anno altri evi flfUTÒy, perchè in se stesso,   . ^ ■ f ^   altri ajoS, perchè essaraina. Ma ia ragione intera è,  che chi .esamina se stesso, si chiami ia due maniere  essendo uno dj modo che da un parlar solo si fac-  ciano dpepomi,eVl «t/TÒ», e bT-OSì cioè anno, ehm —  O Socrate, tu te ne vai luoge oggimai. soc.-In vero mi  è avviso di far progresso nella sapienza, ebm.— Ansi  si. soc. — Per avventura il concederai maggiormente,  xaw.— Hor dopo questa specie Volentieri contemplerei,  in che rpodo questi nomi eccellenti di virili siano po-  sti bene, come (ppóvn<ris, cioè la prudenza anwdcns,  la intelligenza, JitKCltOffvvì 1* giusti®!», e il rimanente  di queste sorte, soc.— O amico, tu susciti una sorte  di nomi da non dispreizarsi; tua nondimeno, poiché  mi sono vestito della pelle del Icope, noa conviene,    M<5 ( .   che io mi spaventi, anzi consideri, come è avviso, i no*  mi della prudenza, della intelligenza, della opinione,   della scienza, e delle altre cose siffatte. EnM.— -Non   dobbiamo veramente cessar innanzi in modo veruno,  soc.— Nondimeno per cane non mi è avviso di far mala  congettura d’intorno a quello, che al presente io ho  considerato, cioè che questi antichi autori di nomi,  come adivien ancora a molti de’ nostri savi, siano ca-  duti fra gli altri nella vertigine dell’intelletto per la  frequente rivoluzione nell’iuvestigar, come se ne stiano  gli enti, e poscia pari loro, che le cose vadino intorno,  c si portino da ogni modo. La cagiou poi di questa  opinione stiman essi non la passione interna, che è  presso loro: ma, che esse se ne stiano così per na*  tura, e in loro non vi sia niente di fermo, e istabi-  le; ma scorrino tutte, e siano portate, essendo ripiene  sempre d’ogni portamento, e generazione, e ciò mi  dico considerando tutti i nomi, che ora si son detti,  kbm — I n che modo di tu, o Socrate? non hai consi*  derato per avventura essersi posti i nomi pòco fa dct*  ti alle cose, che quasi si portano, e fluiscano, e si  facciano, erm. — Non li appresi bastevolmente.' soc —  Primierameute ciò che abbiamo riferito dinanzi ap-  partiene ad alcuna cosa di questa sorte, ehm. — Quale  è cotesto? soc.— E £ <ppóvw<r/J, c *°è prudenza, es-  sendo ella (popi? xotf poi? vÓltO'lt?, c *°è intelligenza di  portamento, e di flusso. Ancora si potrebbe imaginare, che significasse o»»<m <P0fXÌ, c ‘ oè nlI1 ‘ tà d: P or '‘  lamento; nondimeno versa ella intorno alla agitazione.   Anzi se vuoi *7»a(X» cioè la opinione significa al   tutto 701»? (TX6 i4»IF KOCÌ l/àima'ir, cioè considerazio-  ne di genitura; essendo lo stesso il i/apit e <rK 0 Trei»,  cioè il considerare: ma se vuoi lo stesso g’ V0»<rU,  cioè la intelligenza è tov 160 U Ciri?, cioè de** 4 ! 0 '  rio di cosa nuova; che poi siano gli enti nuovi, si-  gnifica, che essi ai faccian sempre, e dimostra, che  ciò desideri, e prenda a far l’animo, chi pose quel no-  me f 0 Hri$ : perchè da principio non si diceva vonaif:  ma erano da proferirsi due in vece di g come quasi  Veoe <r IH, cioè appetito di cosa’ nuova: tracppotri/VU, cioè  la temperanza è salute, e conservazione di quello, che  ora abbiamo considerato, tppovtreaf, cioè della pru-  denza: gTriffTItfi», cioè 1® scienza è tratta da ciò, che  insta e segue, quasi segditi, e insti, e accompagni I'  animo le cose sole, che scorrono, nè per dimora sia  ultimo, nè primo col corpo correr innanzi. Sicché fa mi-  stieri fraroettendo 1 ’ g, si nomini eTr/ffTHfiEVDV, cioè  prudenza: (ri/VKa’/f d* nuovo cosi parerebbe esser sil-  logismo, ciò certo discorso. Ma conciossia, che si dica  < rvtìevxt si intende lo stesso: come se si dicesse  8 Tr/ffT«ff 3 (XI, perchè il dice che concorra   l’animo colle cose, aotpl'a, cioè ,a sapienza significa popvf e<pct i rye<r9c(l, ctoi i* toccar il portatnento.  Ciò poi è egli pih oscuro e istrano: ma da’ detti de*  poeti ci abbiamo ad arricordare qualora vogliono e-  sprimere alcuno, che si avvicini, o se ne venga coti  empito, dicono ga-t/,9», cioè usci con empito, anzi fra  Lacedemoni ancora sol/?, cioè veloce era il nome di  certo uomo illustre, significando in colai guisa i La*  cedemoni 1’ empito veloce. Dunque la sapienza significa  TKUTHS T*9 cpopocs e’TTOCtpUf, cioè tatto di questo  portamento ; quasi siano portati gli enti : e pure  TO «7«3oV, cioè il bene di tutta la natura significa  Tffl ccyxtncò, c *°è *1 mirabile, perciocché scorrendo  li enti vi si ritrova in loro la prestezza e la dimo-  ra. Dunque non è ogni cosa veloce: ma di lei alcuna  cosa xyocaTOVt *1 4 ua * ^ ene s * dichiara col nome dell’   «7«<ttov, «/IntaioffW*, eTr», c '°è * a S ,ustiz * a possia-  mo fare agevolmente congettura, che sia tosto questo  nome 7-5 tou c/ltK0t'/o!/ffl/V6ff8l,.cioè nella intelligenza del giusto: ma è malagevole da conoscersi quel  che è giusto, parendo fine a certo termine, che sia  ciò conceduto da molti: ma si dubiti poscia. Perchè  chiunque stima, che sia in moto il tutto sospetta, che  la maggior parte di lui sia certa cosa tale, la qual  non sia altro, che capire; e per tutto questo sia alcu-  na cosa, che scorra, con cui si facciano tutte le cose  che si fanno, e sia ella velocissima e tenuissima, per-      ) 4M   eh è non potrebbe altrimenti discorrer per tatto L’en-  te, se tenuissima non fosse, in guisa, che niente in  penetrando le possa far resistenza, e velocissima in  modo, che se ne serva delle altre cose quasi stabili.  Dunque perchè ella governa c/luoi/, cioè discorrendo  per tutte le altre cose, meritamente è addimandata  c/I/kociov framesso uno y per causa di più leggiadro  proferimento. Fin qui ciò, che dicevamo poco fa, si  confessa da molti, che sia il giusto. Or io, o Ermogene, ardendo di desiderio d’ imparare, ho tutte que-  ste cose investigato sccretamentc, quasi questo sia il  giusto e la cagione; essendo quella la causa, per la  quale si fa alcuna cosa, e si disse da alcuno, che in  colai guisa si debba chiamarla. Ma tutto che io abbia  udito questo, tuttavia ritorno ad addimandare. Dun-  que, o ottimo, che è il giusto, poiché se ne sta egli  cosi? a me par già di ricercar piu oltre di quello,  che si conviene, e salir fuori della fossa; perciocché  dicono che io a sufficienza ho addimandato e udito:  e in volendomi empire sì sforzano di dir chi una, e  chi un’ altra cosa, nè convengono più oltre. Altri  dice, che questo giusto si è il sole, poi che egli di-  scorrendo sopra la terra, e riscaldandola governa il  tutto. Ma quando io riferisco questo ad alcuno, quasi  io mi abbia udito cosa eccellente, incontinente egli  mi ride, e ricerca se io stimi dopo il tramontar del   sole avauzar agli uomini niente di giusto. Sicché pregradolo, che di nuovo dica ciò, che sia il giusto, di*   ce, che è il fuoco: nè questo è agevole da conoscer-  si: altri poi dice non il fuoco: ma pii» tosto il calore innato nel fuoco: altri di queste tutte se ne ride:  ma dice, che il giusto sia quella mente, la quale Anossagora introduce. Per certo, dice egli, che ella sia  imperatrice, c adorni tutte le cose; penetrando ella  per tutte, nè mescolandosi con alcuna cosa. Qui, o  amico, sono sdrucciolato in ambiguità maggiore, che  prima, mentre io procurava di saper qual fosse il  giusto. Dunque alla fine pare, che QUESTO NOME SIA POSTO per queste cagioni a quello, d’ intorno al quale  noi consideravamo. erm.- 0 Socrate egli è avviso che  tu abbia udito questo da qualcheduno, nè cavatolo  rozzamente dalla tua officina, soc. — Ma che dell al-  tre? ERM.-Non molto, nò. soc. - Dunque attendi:  perchè forse io ti ingannerei d’ intorno alle altre co-  se, quasi io le riferisca, non avendole udite. Che ri-  mane dopo la giustizia? non ancora come stimo ab-  biamo raccontato eivJìplxV, c *°è f° rlezza » p erc ‘ oc *  chè la ingiustizia è lo impedimento di ciò, che dis-  corre: ma 1’ et\iJ\pix dimostra quasi, che si nomini nel  combattimento. Ma che il combattimento sia nell’ente  s’ egli scorre, non è altro, che il contrario flusso.  Per la qual cosa se alcun leverà via il J\ da questo   nome av «/lp/<«, » nome che rimane * V P lX dÌChlara  1* opera stessa. Dunque è manifesto, che non a qualun-  c   que io», cioè flusso, il- contrario flusso èforhaxa: ma  'quel flusso Che corre oltre il dovere; perchè bon al-  trimenti sarebbe lodévole la fortezza. Or pò affli*   cioè il maschio, e S XV» f, ci ° ò l ’ uom ? lrae l ’ 0ti ‘  gine da certa cosa somigliante p j iva pó», c,oe  dal flusso di sopra. Ma <p UV », cioè la donna, mi par  che voglia esser *yoV») cioè genitura: po yxf  poi cioè Temine pare, che sia stato detto da $»AÌ£,  cioè dalla mammella. B egli poi avviso, o Ermogene,  che $n\n «« dica, perchè fa pgS«A6tr<XI, c,oè B ene ‘  rare e pullulare come quelle coie che si irrigano?  xkm.— Còsi apparisce, o Socrate, soc. — E pure p o 5otA—  Xciv cioè il germogliare mi par, che rassomigli it    crescer de’ giovani, facendosi esso veloce, e alt im-  proviso; il che accennò colui, che formò il nome   cavò T0\i reìv, cioè di < Sorrere e «AAso-3«i, c ‘ oè  di saltare, consideri tu, che io sono portato come  fuori del corso, poiché ho ritrovato piana e agevole  la via? eziandio rimangono molle cose, le quali paio-  no pertenere al serio? ehm.— Tu di il vero. soc.   Di cui una, si è, che vediamo ciò, che si voglia si-  gnificare cioè l’arte, erm .— Ad ogni modo.   soc. — Non si dimostra egli é^tVfOV, . l’ abito della men-  te quasi ej^ovo», cioè avente mente, se si levi il p,  e si fraraetti 1’ o fra il e il y, e f ra '* » e il *?    >**\L  è**»— Troppo aridamente, o Oberate, ed incivilmente. 1  •oc t-r-Q non sai tn, uomo beato, che i nomi, i quali  prim|erjqjentf furono posti, siano stati celati, da cip  tragicamente li vogliono narrare; aggiugnendo essi per  eleganza, e levandone via lettere, e parte per lun-  ghezza tempo, ® parte per desiderio di ’ ornamento  'rivoltandoli" ■ da tutte le parti , come per esempio  tV TcS Hpctfaipa, c,oi nello specchio, non parola  te disconvenevole che si siaframesso il pa? per certo  tali cose fanno, come io stimo, chi prezzano, pih *  vezzi della bocèa, che la verità, per la qual cosa fra*  mettendo molte cose a’ primi nomi, alla fine fanno,  che niun uomo intenda ciò, che si voglia il nome,   come mentre proferiscono T»y aai'y’yce, cioè certo   li i ; .-i • » f'iitij n sì . T ' *17   mostro, dovendosi pronunciare <r<t>/'yot, e "tolte altre   ' ! "!.• T I, .   sose. ZBM,— ciò, o Socrate se ne sta veramente cosi,  soc.— Ma se si concedesse di nuovo ad ognuno secon-  do il suo volere di aggingnere e levare a’ borni, gran-  de in vero sarebbe la licenza: e chiunque darebbe  qualunque nome a ciascheduna cosa, za»*.— Tu narri  il vero; ma si conviene, come io penso, che da tè  presidente savio, si servi certa mediocrità e decoro.  irm.— I o il vorrei si. soc.— E ancora io, o Ermo’gene,  il desidero con esso téco: ma no il nctìncarè, ò Uòmo  félice, coi» troppo eSsata investigazione, affine non  annichili al tutto k virtù mia: perciocché io me ne  vengo alla cimjt delle cose antedette, poiché dopo 1  J-*! •-    )53X   arte avremo considerato |iSJ<^«rÌT, cioè la machinazio-<  ne, perchè P 8re ■ me. Che Sia segno f oj)   ecw7l, cioè delio aseender rooho*, perfchè' significo  flttOf, cioè lunghezza, vrpo? T<#TroXv, Cioè appresso  al molto. Dunque il nome ^l|^flCy»,.conje egli si com ; -  pone da questi due k«Ì TOÙ àtUÌI, :cìoè di   lunghezza, e ascesa. Ma come ora diceva, 4 da perve-  nirsi alla cima della cose dette, e da ceròarai ciò, che  significhino questi nomi «psT*, cioè virtù,- e netti Oli  cioè vizio: .ora V uno nou il ritrovo ancorai l’altro  par manifesto, confacendosi eoa tutte le cose ante*  dette, perciocché quasi scorrano le cose ciò che fìa  KftK£>£ iti, cioè è scorre malamente > sari nati i/ct,  cioè vizio. Ed il proceder malamente che si fa nell’  anima inverso alle cose, ritiene massimamente la de-  nominazione del vizio; ma il hxkù)$ (Si'XI, cioè il prò*  cèdere malamente ciò, che egli si sia, pare a me che  si dichiari ancora nel nome t/fgiA/oe, cioè nella timi-  dità, la qual non ancora abbiamo dichiarato; aveodo*  la noi tralasciata; facendo mistieri che la si conside-  rasse dopo la fortezza. Appresso ci è avviso di aver  tralasciato molte altre cose. Dunque it«/ls l A/«x signi-  fica il forte legame dell* animai perciocché 7 -$ Aistf  è certa forza. Si che J\ei\ix, cioè la timidità è il gran-  dissimo legame dell'anima, così come ancora j xitopix.    Digitized by Google     )>S4C   cioè il dubbio è male,, e , sommariamente qualunque  impedimento del. progresso. Questo dunque pare, che  dimostri x,Ò K*k5s ì«»*», cioè l’ andar male senza mo-  versi, e con impedimento; la proprietà quando l’anima tiene si riempie di vizio, che $e quel nome di malvagità compatisse ad alcune cose siffatte, il contrario  significherà virtlt. Primieramente SIGNIFICANDO abbondanza, e poscia che il flusso dell' anima buona sia  sempre sciolto. Perlaqualcosa quello- che è senza re-  tto tiono e impedimento xò CÌ<r%B T6>£ Itati ÌKfl»Aw-  /eoa, cioè che sempre scorre ha avuto, come è  avviso, questa denomufazióne. Si che stà bene, che alcun lo chiami À&ippé frtf, 4°*** 8em lj re fluente. Ma  peravvèntura lo può chiamar alcuno oupgx&y, quasi,  che qtiesto abito sia da elèggersi massimamente. Ora  Spezzalo il vocabolo si chiama «psT». D *rai lu forse,  che io finga: ma io mi affermo, che se pur quel nome  dì viziò, che io ho riferito è introdotto bene, che an-  cor bene si introduca questo nome di virtù, erm —   Ma che si vuole T Ó KfltRf, cioè >* raa,e i P er *° quandi  sopra hai detto molte cosef soc. — Certa cosa strana  per Giove, e malagevole da ritrovarsi. Si che ancora a  questo io apporterò quella machinazione. ehm. — Qual   macbina'zionef soc Il dire, che questo ancora sia   certa cosa barbara. ERM.-EgH è avviso, che tn parli  bene. soc. -Alla fine lasciamo oggimai questi da parte, se il ti piace: ma tentiamo d* sedere In die modo  se ne stiano bene ragionevolmente questi nomi TÒ   K*A<fr, >t«ì TO edxpoi, cioè di bello e di turpé. Or  ciò, che significa oiìc^pat m > par manifesto, per  certo egli conviene con gli antedetti: perciocché mi  è avviso, che chi ha posto i nomi biadimi ciò, che iro-  pedhce e ritiene dal corso gli enti* e ora pose il nome  ocel TW povv a ciò, che sempre impedis*.   se il flusso ocsiaryoppovt. Ma ora «pezzato il nome,  lo chiamano cthry^p 0». Che si vuole il’ kccAov,   cioè’ il bello?* soc. — Ciò è via pih malagevole da co-  noscersi, dicendosi che questo solamente per causa di  armonia, e di lunghezza sia derivato, donde sì trasse.  érm. — In che modo? soc. — Questo nome pare, che sia   certa denominazione di discorso. ' erm. Come di tu   questo? soc. — Qual cosa stirai tu, che sia stata causa  della DENOMINAZIONE di qualnuqne degli enti? o non   ciò, che diede i nomi? erm.— Ad ogni modo, soc   Dunque questo sarò discorso o dei Dei, o degli uomi-  ni, o di ambidue. erm.— Per certo si. soc. — Dunque  70 KKÀOV» ret Trp«7(jiflCTflf, cioè quello, che chiama  le cose, e xò k«AÒ? sono lo stesso, che discorso.  erm.— Apparisce, soc. — Dunque qualunque cose fa di  nuovo la meote, e il discorso sono degne di. lodi.- ma  quelle, che no, sono da biasimarsi. erm.— Ad ogni   modo. soc. -Dunque ciò, che è alto al medicare fa    > 56 (   le opre della medicina, ciò che è atto all’ arte del  legnaiuolo quelle, che sono proprie di lei: ma tu co-  me >1 potresti dire? ehm.— Cosi. soc. — Si, che ezian-  dìo il bello, le cose belle? ehm.— Fa certo mistieri.   soc Poscia è questo egli il discorso, come diciamo   noi? erm. — Si certo, soc. — Si che questo nome di  bello, meritamente fa la denominazione della pruden-  za operante certe cose siffatte, le quali abbracciamo,  dicendole belle, erm.— Cosi apparisce. soCi-Quale   altra cosa ..oltre al genere di lei rimane da investi-  garsi? e*m. — Quelle che riguardano al buono e al  bello, cioè quelle, che conferiscono, e sono utili e ci  giovano, e ci sono di guadagno, e le contrarie a que-  ste. soc.-Ciò, che sia quello che conferisce, tu il ritroverai considerandolo dalle cose antedette, parcndj»  certo germano di quel nome, che peritene alla scienza , non dimostrando egli niun’ altra cosa , che  7HV Ò(piX(pQp XV TUS flBfCt T6IV '7rpOC'yjiffTOV,   cioè il portamento dell' anima insieme colle cose,  e quelle che quinci provengono sono chiamale  < pjpoVTK K«( ffl jpupopX, cioè giovevoli per quello,  che sono insieme portate intorno. e»m— Apparisce.   soc.-Il K <xp</l*XeoV poi. ci° è *l ueUo che dà * l gUad8 '  gno *jrà toDksHovS, cioòdal guadagno: ma M pJ\oS  esprime ciò, che vuole, se inserisse alcuno in questo  nome il V per lo J\ nominando il buono in certo altro   modo: perchè K gppftlWT«l, cioè si mescola scorreudo    \       in. tutte le cose li POSE IL NOME, SIGNIFICANDO questa  sua virtù; fraroeltendo il J[ per lo y t il proferì xèpcAo£.  jsBM.-Che poi il Av<tìàeAov», cioè l’utile? soc.—  Pare, o Ermogene, che non si ragliano di questo, co.  me i mercatanti, perciò sia chiamato e «¥ X'JTCùAÌm,  - perchè schivi, e isminuisca tÓ XVxAu^X, cioè le  spese: ma perchè essendo velocissimo non lassa, che  Je cose si fermino, nè permette che il portamento ri-  cevi TSÀOJ, c '°è il fine del progresso, nè si fermi e  cessi.* ma se alcun ternane si imponesse, Io svorreb-  be sempre da lui, e il. renderebbe incessabile e im-  mortale, in colai guisa io stimo, che il buono sia   chiamato Al/fflTeAotio», perchè ha chiamato -j-q 7*15  .* Il ,* - ' . ''VI < .   (popis Avo» TO T6À0S, cioè quello, che scioglie il   fine del portamento, à^eAipo» P°'i cioè *1 giovevole  è nome forestiero, di cui Omero spesse fiate si serve.  Ma questa denominazione è dello accrescere, e del fa-  re. erm. — Che si ha a dire de’ conlrarii loro? soc. — -  non fa in verun modo mistieri, che di quelli si trai-  ti che si dicono per la negazione di questi. erm   Quali sono d’essi, soc.- A<ri[Upopov *i*ì XV 6 )<p sAÓj,  ucci ÌAvafreAs$. srm— T u parli il vero. soc. —   'AAAx fiAxjÌBpoi kxi ^Kp/atc/llS, cioè >1 nocivo, e  il dannoso . erm, — Per certo . ■ soc. — Ed il  fiAxfiepov, dice sia t 0 fhAxvyov TO» poD, cioè    ) 58 (   quello che nuoce si corso, t* J\g jSAatT'yOI, TO  jSot/ÀOfievoV cnrrei», cioè quello, che vuole impedire.  e cnTTBIV Reti c/leTlf, c '°è impedire, e il legare  di nuovo significa lo stesso, e questo biasima per tutto.  Dunque ciò, che vuole ecmeil K«ì cAell’ T 0 £>6v  Aofteroi I ttntTBlV po0\ l si chiamerebbe bene fiovXonr-  TepOV, nia P er ornamento io stimo, che sia stato no-  minato /JActjSspoV. — O Socrate, vari nomi se ti   vanno nascendo di sotto via, e mi pare al presente,  che tu abbia cantato innanzi certa quasi ricercata del-  la legge di Pallade, mentre proferivi il nome jJot )-   .1   AaTTTepoJ/V. soc.-,0 Ermogene, io non sono cagio-  ne. - ma chi posero il nome, ehm,— Tu di il vero: ma  che sarà poi il £uji/£c/|ef, c '°è dannoso? soc. —  Vedi, o Ermogeue, ciò, che debba essere  e vedi quahto daddovero io parli, qualora io dico,  che aggiugnendo essi, o ^minuendo le lettere, alterano  dì gran lungo il senso de’ nomi» in modo, che cam-  biando certa picciol cosa facciano alcuna volta, che SIGNIFICHINO COSE CONTRARIE, il che. apparisce in questo  nome Jisovjl, cioè opportuno. Ciò poco fa in pen-  sando quello, che io sono per dire, mi e venuto in  mente. In vero noi abbiamo nuova quella voce bella,  e ci sforzò a suonare il contrario TO c/l/o» K*ì TÒ  confondendo il senso ma certo nome vecchio      f    i s 9 (   dichiara quello, che ai voglia, e i‘« no e allro  me. eem. — Come di t„ cotesto? soc—Dirolloli, tu sai  che , magg.on nostri erano aoliti di vaierai molto del  I e del A, e maggiormente le donne, le qu.fi mmn . t   tengono si la voce vecchia, ma ora in vece del , vii  aggiungono ovver I* g o 1* ma in luogo del J il o  come queste suonino alcuna cosa più magnificamente.   che modof soc.— Come per esempio gli uo -  rntm antichissimi eh, amavano T| ; y .   cioè il giorno: ma altri poscia il chiamano é^ p J t  e » presenti ^ epxr , erm.— E gli è vero. soc.-Dun-’  qne tu sai, che con quel vecchio nome si dichiara so.  la mente la mente di colui, che pose il nome; percioc-  ché eh, amarono il giorno S(lepxv> perchè da|Ic ^   bre s, faceva il lume agli «omini «*/   povìjlt , Che ,1 desideravano , e si allegravano .   IZ “, AP / arÌSCe * S0C ' ~ Ma ° ra in ”0* ninno  non intenderesti , q ue , , cbe voglia   «..tato nelle tragedie, benché stimano alcuni, che si  d,c * Wépct, perchè faccia egli qualunque cose ,u{ po(  cioè mansuete, ehm. - Così mi pare. soc. - Nè ti  * occulto, che abbiano chiamato i vecchi ^ 1070 *  cioè ,1 giogo t,yQ Vt ' erm — Per cert0( soo _ Ma ye   raraeme T0 ' tyyfo aoa dimostra niente: ma j 0V70t     ) fio (   dimostra s'neK# T»? J\oaeu$ 65 *m «7^7*»,*'   cioè il conducimento di due per causa di legare, e lo  stesso si dee giudicar di molti altri, erm. — E mani-  festo. soc. —Nel medesimo modo il to J\&ov cosi pro-  ferito dimostra il contrario di tulli i domi; che ris-   guardano si bene; perchè certo essendo il idea.   • *   del bene, pare che sia c/ÌSO'piOf, cioè legame e impe-  dimento del progresso » come certa cosa germana  TO jSÀKjSspOÙ, cioè al nocivo. erw: — Ó Socrate,  cqs'i appar si. soc. — Ma non già incoiai guisa nel no-  me vecchio, il quale è yerisinaile, che meglio sia; sta-,  to ordinato del nostro, per certo tu coovenirai coj  beni antedetti, se per lo g renderai lo / t come anti-r   ' 4   camente si diceva; non significando c/|èov : ma J\lói  quel bene, il quale è sempre lodato; dall/ inventore  dei nomi; e in siffatta maniera non discorda egli eoa  seco, anzi pare che sia lo stesso t/Isoy, KCtì (à   ftov, kx'i A.t/<r/ TeAow, it«ì nepo'ltfAsuv, K«ì uyx-  0OV, K*ì <rviUpspov, K x) BV-KOpor Tutto questo uni-  verso significa con diversi nomi alcuna cosa, che ador-  na, e penetra per tutto, e questo è lodato: ma biasi-  malo ciò, clic ritiene e lega. Anzi se in questo nome  porrai secondo la usanza dei vecchi il J\   per lo £ ti parerà egli posto giti JlovVTl TO ÌOV,  cioè a chi lega, e ferma ciò, che cantina, onde auco-    Digitized by Google    ) 6 . (   ra è do 1 nominar»! J \iynSJ\s(. «tto.-Che, o Socrate  «dèi \wnn,£'jn8vyilXI, cioè del piacere, del do-  lore, e della cupidità, e del rimanente di cotal sorte?  'soc. — O Ermogene, non mi paiono troppo oscuri; per-  ciocché a’c/lov», cioè il piacere ha questo nome, dimo-  strando quella azione, la quale tende alla ov*cr/V,  Cioè «dia 'utilità: ma il J\ aggiunto fa, che in vece di  tjuello, che è|,op» si proferisca Dc/bA.», ryv7r#, cioè il  dolort pare che si nomini da^^At/ireaff to? <r&'ft«T0W  cioè dallo scioglimento del corpo; dissòlvendosi egfi   con cosi fatta passione, e xVÌX cioè * a tristezza è quella,   ■ , , ■ /   che impedisce 7o teVXl, cioè l’andare A^ye e/l£i>v, cioè  il cruciato par nome forestièro detto da oc^yeiVOV' oJlvì/n  poi, cioè il dolore, e FaSlitione si denomina da e Vc/lu—  &BCo$ THS Al/TT»?, c! °è dall’ entrar del dolore, erm.  —Apparisce, soc.— a ‘yJtiJlÒV, cioè il dispiacere chiaro  è ad ognuno che e assomigliato il nome alla gra-  vezza del portamento, ma ^ctpx cioè l’allegrezza, e la  letizia par, che sia chiamata da J\ loc^vireus, c '°è dall*  facilità evTTOpixs cioè del movimento dell’anima. Si  cava T } p'M St cioè il diletto da Tg/>4.t?, cioè dal di-  lettevole; maT-gp^j^ydaTÒ rspJWoy da JìtXTÌS  £pr\-e&)$, cioè dalla inspirazione del diletto  aell’auinia. Sicché meritamente si chiamerebbe tpTrrovi,     ' ) (   cioè inspirante; ma dal progresso del tempo il è di-  venuto a t«/>TTV 0». Per q ual cagione si dica  cioè l’allegrezza e vigoria non è bisogno renderne conto, essendo manifesto a chiunque trarsi questo nome  da efò, che si dice èv TOÌS TrpxypLXXI TtV  ffvp Hpepsa<pXI, cioè perchè l’anima si porti bene con  le cose, onde si dovrebbe chiamare et/tpEfOtrufl, nom-  dimeno l’appelliamo tvtppotTOVIV. Egli non- ,è poscia • •  difficile d’assegnar ciò che si voglia i'juSvpHX, cioè  il desiderio, conciossiache questo nome dimostri la for-  za tendènte Bnr ) T jy et/fxòv, cioè all’ira; ma $^9' cnrò  TI? Bvaeus, *xì leaeas, cioè dal furore, e dall’  ardore dell’anima, ipepoS e/)è poi cioè il desiderio fu  chiamato rÒ [ia\t<rTX sAkovtj t*V oj-t/jc.»» pò, cioè  dal flusso, che tira l’anima massimamente, perchè da  quello che ìepieVOS pel, cioè incitato' corre, e desi-  dera le cose e tira in colai guisa grandemente l’anima,  J\lX TtV etri r TtS pois, P er lo empito, ovver incitamento del corso. Da tutta questa forza è chiamato "ipLBpoS,  Oltre ciò è chiamato -j^oBos, cioè desiderio; perchè ve.  raraenle non risguarda la soavità presente come fytg/JOl/,  ma di quella vede che altrove si trova, ed è assente,  pnjle si dice ttoSos, '* quale quando è presente ciò  che si desidera si chiama 'ipitpos, «sente votQS, sptaS,  poi cioè l’amore: perchè eitrp$i 6%a$6V, c '°è influisce  dal di fuori nè è proprio questo pon f cioè corso di chi  il tiene: ma per gli occhi infuso. Sicché si chiamava  l’amore dagli ontichi nostri da gg-pg??, cioè dall’in-   fluire tapo$, Cl0 ^ in rt uen * a » valendosi doì dell’ o per  Ma ora si dice gpaj per lo cambiamento del o nel &  Or che ordini tu, che si consideri di poi? erm.—  J\o%X, c ' 0 ^ * a °P* n ' one > e certe altre si fatte cose,   onde hanno esse i nomi? soc.*-Si dice J\o£oc, o da  cioè dall’investigazione, con la qual ca-  mbia, e segue l’anima investigando la coudizion delle  cose, o da -j-jy TO^OU JèohìSt cioè da ^° scoccar del-  l’arco: ma quinci pare più tosto, che dipenda, | omeri J,  cioè la stimazione a ciò consona, assomigliandosi all*  entrar dell’anima in qualunque cosa, il qual dichiara  ciò che sia qualunque degli enti, cosi come e jgot/A*,  cioè lo volontà si dice da »l*Ho scoccare,   • TO £0VÀE<r8*<, cioè a volere P er ,0 sr °"° del   toccamento, significa ancora $<f>lecr$ttl, c,oè ll desi '   derare, e j?ovAst/«<rS«l, cioè 11 con8Ì 8 1,,re ’ Tulte t l ue *  «te cose seguenti la opinione pare che siano simula-  ci T«J jgoÀ»5 del ,iro ’ come '* conlrario » «jSowAi*,  cioè il scoccar a falli apparisce certo, difetto impo-  tente *1 percuoter, come non abbia tocco il segno, nè  conseguito ciò che voleva, e di cui si consigliavo, e     mr   desiderava. zrm;-P6fc, chè tto metti- insieme questi  nomi più frequenti, si che ornai facciasi fine favorendoci Dio. Oltre di questo desidero, che mi sia dichia-  rato ciò che sia oCVXV.il, e 6X0U<r(0V cioè la necessità^  e il volontario? soc. — Or to' gKOi/fftOV, cioè il vo-  lontario TO 61 K 0 V, K«ì ft« ocrf ITl/TTOt/V, Cl °è chi ced^  nè contrasta, ma ubidisce a chi camma sarà dichia-  rato con questo nome, che si fa secondo il volere. Ma  TO av«7K«tOV cioè il necessario, e il rimanente essendo  fuori della volontà verserà intorno allo errore, e alla  ignoranza, è assomigliato t5 K 0 !T ÒtTot Sc'/VH TCopstOC,  cioè al camino, che è nelle valli, perchè essendo esse  malagevoli, e aspere a passarsi, e dense (V^stTOt/ JeVflft,  ritengono dal caulinare. Quindi dunque fu peravventurà  chiamato avcc'yxcclov cioè necessario assomigliato al cam-  mino che si fa per valle. Ma fin che abbiamo possanza  non ci manchiamo sicché ne ancora tu non voler cessare:  ma interrogami. ebm. — Ora io addimando quelli, che   son grandissimi, e bellissimi tdv T6 Oi\^^BlXV, c ‘° &   >- • • > l   la verità e t 0 cioè la bugia, e to oy, c,oe   l’ente, e 0V0fi« cioè il nome di cui ora trattiamo, per-  chè tenga questo nome. soc. — Chiamami tu pcc! ecrBxt,  alcuna cosa? ebm.— In vero chiamo lo investigar^,- soc.  — Egli è avviso, che questo nome sia generato da quel  sermone, onde si dice esser oy, cioè l’ente, di cui il nome è investigaiipnfc, il che, pii»,, chìqramat^ con^-  prend erai. Per cert,o In quello che, noi; t}icjwò TOtì voj Utr    O-TOl/, cioè nominato esprimendosi qui ciò, che sia no*  •® es ‘ <x\nBelX pòi cioè la verità pare che sì eorapongi   ancora come gli altri, perciocché il 'portaménto ‘cfivi-   . a-ji' •»!*.?    no   «n,    > dell’ente par che si dica con questo nome QÒpx,   w«>; i.i ri ■ ’ r i otatf ;oq[ no«' r ft. r ql«   essendo quasi flst« Oliffflt «A», c,oe certa > div,na    in' ,n t>. et «MI    scorreria: ma il >J,sV(/|o5, c ‘°è bugia, £  al portamento. Perciooehèdi nnovo si disprèggi* quello,  che vien’ ritenuto, e costretto; a star quieto* ed è asso»    migliàio T<) f ? K*9*v^óy<rl, cioè ai * hi dòrmonoi uid  lo 4, aggiuntò occhila il senso del nome, ov pòi e 0 t/tì" ioti   cioè l’ente, e la essenza si confanno con «Aot/^st, c '°^   ó! .. ,1. 1 1 tip II .10105 5 ; ‘"Iti»   eoi vero, gettando via il / perchè significa iptfp ( C'oè   lo andante, e di nuovo' tq 6K0V il wn C*U e » come il    nominato alcuni oi/Ktov> cioè che 'non va. sart.— Q  Socrate, mi è avviso, che rimilo fortemente' tu abbi»  ventilato questi nomi: 'ma se alesili) li addiniandassè  di questi t# tOV, TO p’eOV,KO U Tft (Httl/V tosse U   retta loro interpretazione, che principalipenle 1» ris*  ponti eremo noi ? i 1 tieni tu forse? soc. — Teugolo certo.  In vero poco fa .tei sovvenire un non. so che, coir la  cui risposta pare a noi di risponder alcuna cosa, san»  — Qualej è cotesto? soc.— Che diciamo, chesia Barbarei  ciò, che non conoSeijdno,- perchè forse sono daddovc-     >«(   re io parte tali, e malagevoli da ritrovarsi i nomi pfi-  mieri per. l’antichità; perciocché «torcendosi i nomi  per tatto, non sarebbe maraviglia niuna, «e la voce an-  tica colla nostra pareggiata non fosse niente differen-  te dalla voce Barbara, erm. — Non e fuor di proposito  ciò, che tu db soc.— Dunque io apporto cose veri-  simili, non per tanto perciò pare, che la contesa am-  metta la scasa: ma sforziamoci di investigarli, e con-  sideriamo in colai guisa, se alcun sempre cercasse quei  verbi, per li quali si dice il nomò, e di nuovo pro-  curasse di saper quelli, per li quali si dicono i ver-  bi, nè ciò facendo cessasse, forse non sarebbe egli ne-,  eessario, che alla fine si stancasse il. rispondente? brm.  — À me par si. soc. Dunque quando cesserà merita-  mente colui, il qual nega la risposta? o non quando  a quei nomi pervenirà, i quali sono quasi elementi del  rimanente, cioè de’ sermoni e de’ nomi? in vero se in  colai guisa ne stan' essi, non dee parer piò, che d’al-  tri nomi siano composti, come per esempio abbiamo  detto poco fa che to otyxS OV, cioè d bene fosse com-  posto da ecyxtTTOv, cioè del mirabile, e $ov, tì °à  del veloce 3eOV P°* cioè il veloce, diremo noi che co-  sti d’altri, e essi da altri: ma se alcuna volta a quello  perveniremo, che più oltra non si forma d’altri nomi,  meritamente diremo noi di esser pervenuti allo elemen-  to, nè piò oltre faccia mistieri, che’l riferiamo ad al-  tri nomi, bum.—' T u mi parj di parlar bene, soc.— O  non sono quei nomi elementi» i quali tu ora addì-  mandi? e fa egli bisogno che altrimenti si consideri la  retta interpretazione? sbm.— Ciò è verisimile, soc. — Ve-  risimile certo, o Ermogene. Per la qual cosa tutti gli  antedetti pare, che siano a questi ascesi, e se ciò se  ne sta cosi come mi pare, or di nuovo considera con  esso meco afline per avventura non impazzisca, mentre tento di dichiarare la retta inlenzion dei primi no-  mi. zbm. Di pure, perciocché io vi penserò secondo  il potere, soc. Io stimo veramente, che in questo tu  assentisca, che una sia la retta invenzione di qualun-  que nome, e del primo, e dell’ultimo e niun di loro  in quanto nome discordi dall’altro, ehm.— Si. soc. — E  nondimeno la retta invenzione de’ nomi, i quali poco  fa riferito abbiamo, voleva esser certa tale, che dichia-  rasse, quale si fosse qualunque degli enti, ehm.— Senza  dubbio, soc.— Questo veramente non dee convenir  manco o primieri, che agli ultimi, se sono per dover  esser nomi, ebm.— Al tutto, soc. — Ma gli ultimi nomi, come è avviso, potevano fornir questo per li pri-  mieri. ebm. — Apparisce, soc. — Stiano le cose jcosì.  Or i primi, a quali altri ancora sottoposti non sono,  in che modo secondo ’I possibile, ci dichiareranno gli  enti, se deono esser nomi? rispondimi a questo. Se non  avessimo voce, nè lingua, e avessimo voluto dichiarar  Vicendevolmente le cose, non avremmo tentato noi co-  si, come i muli al presente, di significarle colle mani,  coll* tetta, e col rimanente del corpo? ibm.- Non al-   i ;> i iiit k ' ci : •»  !>«M   Ili menti, o Socrate, soc. — Ma, come io penso, se volessi ni o dimostrar il supremo, e il lieve inalzeremo le  •mani in. verso al cielo, la stessa natura delle cose imitando: ma se le inferiori, c gravi le rivoglieremo alla  terra; pia oltre dovendo dimostrare un cavai corrente;  o alcun altro animale, tu sai, che da noi si sarebbe fin-  to i gesti de’ corpi nostri, e le figure quanto più presso  alla loro somiglianza. erm.— Ciò, che tu dì mi pare  necessario, soc. — la questo modo, com’io penso, con  lo imitar il corpo, si sarebbe con queste parti di cor-  po dimostrato quello, che chiunque avesse voluto di-  mostrare. erm. —Così certo, soc. — Ma poiché voglia-  mo dimostrar colla lingua, e colla bocca, nou si fa cosj  finalmente la dimostrazione da queste se per esse d’in-  torno a qualunque cosa si fa la imitazione? erm. — Io  penso necessario, soc. — Sicché, come apparisce, è il  nome imitazione di voce di quella cosa, la qual imita, e nomina chi imita con la voce, erm — Il mede-  simo mi pare ancora si sia detto bene, erm — Perchè?  soc.— Perchè saremmo costretti a confessare, ohe ques-  ti imitatori di pecore, e di galli, e d’altri animali no-  minassero le stesse cose, de’quali si imitano. *hm.-—  Tu pnrli il vero, soc.— Non pare a te, che stia ben  questo? erm. — A menò: ma o Socrate; qual’ imitazione  sia il nome? soc.— Non tal imitazione, qual è quella che  si fa per la masica tutto che si faccia colla voce: nè  delle stesse ancora delle quali la musica eziandio è  imitazione; non dicendo noi, conio è avviso, la imi ta-  llone per la musica. Ma così mi dico, li trova egli iti quaizfnqtre cosavoce, *v figura, e in motte color an-  cora? twm^kd wgnf modo.'- SOC. — Dunque se alcuno  queste imitasse, intorno a queste imitazioni non si ri  Irorarebhe io facoltÒdel nominare, essendo altre d’esse  la musica, 1 altre lo dipintura; non è egftì 1 cosi? va*».  — Veramtfhte. soc, — Che a questo? non pensi ta, che  qualunque coso tenga còsi la essenza, come if Colore,  e le altre cose, che abbiamo detto dianri? o hon si  ritrova egli* ntìl colore, e nello vóce certa essenza e in  qualunque altre cose, che so n degne della denominazio-  né dell’essere? ehm.— A me parsi, soc. — Che duh"  que è se alcun fosse possente di imitar con lettere, e  con sillabe la essenza di qualonqdé còsa; non dichia*  rerebbe egli ciò, che fosse qualunque 'Cosa, o pur nò.   soc.— Qual diresti tu, che potesse far questo?  tu gii antedetti' parte chiamavi' mùsici, parte dipintori:'  ma costui, come il Chiamerai tu? "e»w\— Mi par, o So-  crate, che egli sia l’autore del nominare 1 , ’ ! il quale già  molto cerchiamo, soc. — Se questo ò vero, ò-òggimni  da cònbiderarsi d’intorno à quei nomi, che 1 ; tu ricer-  cavi pouj, c ioò del flusso, levai dell’andare, a-^e<reo£  della retenzionc, se daddovero imitino la essenza, ovver  nò colle lellere, e colle sillabe loro, ras:.— Al tutto,  sóc. — Or vediamo se questi soli sono i nomi primie-  ri, o ne siano ancora altri molti, In vero io sti-   mo degli altri, soc.— E cosa verosimile. Allo perfine,  qual maniera sia della divisione, onde incomincia ad imitare, chi imita, non giova egli primieramente, eh*  » distinguano gli dementi; poiché si fa la imitazione  dell’essenza con lettere, e con sillabe? come chi si  maneggiano d’intorno a ritmi, distinguono primiera-  mente la virtù degli elementi, poscia le sillabe e in  colai guisa, se ne vengon essi alla considerazione de'  ritmi, e non prima, ehm. — Così è. soc. — Onon fa pri-  mieramente mistieri, che ancora noi distinguiamo le lettere vocali, dopo il rimanente secondo le specie, cioè  le mutole, e quelle, che non rendon suono? parlando-  ne iu colai guisa gli uomini eruditi, e di nuòvo le  non vocali: nondimeno non al tutto senza suono? e le  specie vicendevolmente differenti delle vocali: e poi-  ché avremo ben diviso tutti questi enti: di nuovo fa mistieri ebe popiamo i nomi, consideriamo se sono quelli,  ne’ quali si riferiscono tutte le cose come elementi, da'  quali eziandio lecito è, che essi si veggano e se si;  contengano in loro nel medesimo modo le specie, come negli elementi. Considerale bene queste cose tutte,'  fa mestieri, che si sappia apportare qualunque di loro,  secondo la somiglianza; n se una aduna sia daappor-.  tarsi, o molte da mescolarsi, come i dipintori in va-  lendo assomigliare alcuna volta applicano il color pur-  pureo solamente, altra volta qualunque-altro. colore, al-  tra volta ne raescolauo molti, conta quando vogliono  figurare la imagine somigliantissima all’uomo, o al-  tra siffatta cosa in quanto ciascuna imagine ha bisogno  di ogni colore, non altrimenti ancora uoi accommoderemo gli elementi alle cose, e l’uno all’uno, ove ps-  rosse, che facesse bisogno, fornendo Ta cioè I SEGNI, i quali son detti sillabe. Le quali poiché avremo congiunte di compagnia, e di loro formati I NOMI E I VERBI i nomi, di nuovo fabricberemo de’ nomi e verbi cer-  ta gran cosa, e bella, e intiera. E così come si ft li  con la dipintura l'animale, così qui chiameremo orazione  fabricata, o colla perizia del nominare, o colla retlorica,  o con qualunque arte, che ciò si faccia, anzi non faremo  questo avendo noi in parlando trasgredito la misura pet*  ciocché i vecchi cosi composero, come si è ordinato.'  Ma fa a noi mistieri, che investighiamo tutti questi in  cotal gnisa, se pur siamo per considerarli artificiosaroeo-  l«, distinguendoli così, o se siano posti i primi nomi  come conviene, e gli ultimi, ovver nò: ma lo annodarli  al rimanente è da vedersi o Ermogene amico, che per  avventura, non sia errore, nè secondo il dovere, zaii -  Peravveutnra si per Giove, o Socrate, soc.- Che don-  que ti confidi tu di te stesso di poterli distinguer in  questa maniera? perchè io mi diffido potere, ehm— lo  mi diffido molto piò. soc.-— Dunque li dobbiamo lasciar  noi? o vuoi tu, che comunque siamo possenti faccia-  mo esperienza, e incominciamo se si possa da noi conoscer certo poco di queste cose, dicendo davanti a*  Dei così, come poco fa abbia lor detto, che noi non  conoscendo nulla di vero, congetturiamo le opinioni  degl, uomini d’intoriv, ad essi: cosi al presente ancora seguitiamo, predicendo parimente a noi stessi, che     ) r*'C   •« fosse atil cosa chfe si distinguessero o d’alcun altro*  ** noi, cosi sarebbe mistieri, che si dividessero: ma  .ya» come si dice, converrà, che noi trattiamo que*  sto, secondo il potere, ti par egli posi, o come di tu?  erm.— C osi forte mi pare, soc.— O Ermogene, io sti-  mo, che sarebbe per parer cosa ridicolosa, che le cose  •i facessero manifeste con la imitazione fatta per le let-  tere, e per le sillabe; nondimeno necessario è, non a-  vendo noi niente di questo miglioro, al qual riferen-  do giudicassimo d’intorno alla verità d e> noroj primieri,  se peravventura, come i tragici, qualora dubitano ri-  corrono alle machinazioni innalzando i Dei, cosi an-  cora noi non, ci . espedissinv* tosto questo dicendo; che  da’ Dei siano posti * primi nomi, perciò siano stati or-  dinati be«e. Duuqne questo parlare sarà egli ottimo  presso noi, Oiquello che gli abbiamo ricevuti da alcuni  barbari, essendo i barbari di noi .più antichi, o per  la vecchiezza non li possiamo discernere cosi come i  nomi barbari ancora. Questi sono schermi, o leggiadri  al di chiunque non vogliono render la diffinizione della  imppaiaiono retta de’ primi nomi: perciocché chiunque  non tiene la retta diffinizione de'prirui nomi, non può  conoscer i seguenti. Questi per certo sono da dichia-  rarsi da quelli,, de’ quali non è alcuno, che ne sappia  nulla. Anzi chiaro è, che chi fa professione della pe-  rizia de* seguenti, abbia compreso gli antecedenti inolio  prima, e perfeltissimamente li possa dimostrare, ma  altrimenti dee sapere, che egli sia per prender errore   ne’ seguenti; c siimi tu in ultra guisa? ehm.— N on al-  trimenti, o Socrate, soc.— Le cose dunque, che io sento  d’intorno a' primi nomi mi è avviso, che sinno cose  ingiuriose, e ridicplose, e se vorrqi con esso teco le  conferirò: ma se tu ritroverai cosa migliore, eziaudio  tu Con esso meco la' comruunicherai. erm.— Farollo;  ma dì oggimai con fidanza; soc.— Dunque, primiera-  mente jl p pare a me, che sia come stromento del  movimento tutto: ma perchè tenga questo nome non  l’abbiamo detto: ma .phiaro è, che vuol esser (eirtS",    cioè andata; perchè non si valevamo noi, per lo- adie-  tro del jj- ma dell' 8) egli significa il principio {la it/str.    cioè t'andare, il qual è nóme forestièro; è egli' lo f e yJj :   ‘il j r r . v ' . r   cioè lo atiflarè.- Sicchè^sè 41 prifnt? nóme* di luì si ri-  trovasse iraspaptalb nella voce nostra, bene Ye-rtC si    chiamerebbe.' Ora poi chi' K/6/V nome fòre-   stiero, e dal riiutaniento del « e' dal frammettersi il   * , , ‘   y si chiama Ma faceva bi so gii oidio qi dices-   , • !•' • ' ir. t>-| ii -, j —   se k ieiveei?, ovver eitr/j, * c/|s <xrxais, c,oè *° stare   h ;•«..» . ;, v "T A'vumsori'.moi . !   vuol esser negativa di temi, cioè dell’audare: ma per   'fiiijs qfeoa •••unric yi. H   causa di oruainento si , chiama Di >080^0 il p   elémento, parve come ora diceva* opportuno stromento  del moto all'autore de’ nomi per esprimer la somiglianza del, portamento perla qual.cqsa'uso il p pec tutto    alia espressione del movimento.- Primieramente T £   6 Cr.     ) 74 (   p e 6 1 V K«ì poti, cioè ne Ho scorrere, e nel flusso imita  il portamento per la lettera p poscia nella voce •jrpoy.n  cioè tremore, e nel Ypxyjs.1, cioè nell’aspero, ancora  nelle parole di colai sorte ^poveiV >1 percuoter, Spxvsiy  il romper fpln$iy il tirare SpvTTT&lV rompere, xeji«T t?   tagliare in pezzi pspjSeiy, vacillare, tutti questi  per lo pili figura per lo p conciOssiache, io la lingua  nel proferir questa lettera non ritarda niente, anzi pili  tosto si commove. Sicché egli è avviso, che si abbia  servito del p principalmente alla espressione di que-  ste cose. Eziandio in tutte le cose tenui penetranti  massimamente per tutto si ba servito del t; laonde  imita per lo / jofapjCI, KCc'l 70 UcBx, cio « l’andare, e  il far progresso, come ancora per lo q e ^ e e £  le quali lettere sono di spirito pili veemente. Cose si  fatte ci esprime l’ autor del nome, come per esem-  pi 0 TO 1° C08a fredda yo ( 90V , la bogliente,   70 <rele<r9xi, i 1 commoversi, e al tutto <rej<r{iov, cioè  la commozione; e qualora l’ordinatore de’ nomi vuol  imitare alcuna cosa spiritosa per lo pili impone let-  tere si fatte. Oltre ciò la strettezza del </| del y, e  il tirar in dietro della lingua come attaccata, pare che  sia estimata molto opportuna alio esprimer la potenza  del legame, e dello stare, e perchè nel proferir il ^o-  KiaBxmt y.x\ia'7ct ÌVKÙ77X, sdrucciola la lingua  massimamente, perciò con questo come da certa somi-  glianza nominò TfltTfiAfi tot * e cose piacevoli, e «TOUTO  «A/<r0#/veiV lo sdrucciolare, e T0 \nrxpov «1 grasso  H«< TO KoAAà^le?, cioè quello che ha virtù di con-  glutinare, e le altre cose di sì fatta sorte. Ma perchè  il «y ritarda la lingua, che se ne scorre, imitò to   V A/o-J^.o» >1 lubrico, T0 «yA^KU *' doIce tt*ì J^Aottà-   cAbs, e il viscoso. Di nuovo avvedendosi dell’interno suono del p con lui nominò to 6»dlov, K«tì TO 6VT0J,  cioè le cose interne, qnasi assomigliando le opre alle  lettere- poi diede ja fts'yotAw, cioè al grande e  t£ p*K6l, c *°è “Ha lunghezza perchè sono lettere gran-  di: ma ffTpq'y'yuA^ c *°ù rotondo, avendo egli biso-  gno dell’ o, per lo più nel nome lo mesoolò. E nella  stessa guisa 1’ autor del nome pare, che si sforzi di ac-  commodar a qualunque ente segno, e pome secondo  le lettere, e le sillabe, e da questi poscia comporre il '  rimanente delle specie secondo la somiglianza. O Ermogene, mi pare che questa sia la retta interpretazio-  ne de’ nomi, se non apportasse Cratilo alcun’altra co-  sa. ehm. — E pure, o Socrate, spesse volte mi trava-  glia Cratilo, come ho detto da principio, mentre af-  ferma, che vi sia alcuna retta interpretazione di no-  mi: ma nondimeno quale ella si sia non la dice chia-  ramente in guisa, che io non possa conoscere se egli  volontariamente lo faccia, o pur nò; cosi ne parla sem-   6 *     ) 7 6 (   prc d'intorno ad essi. Dunque, o Cratilo, dimmi ora  alla presenza di Socrate, se ti piace il modo, con cui  egli ne parla d’intorno a’ nomi,' o Se tu puoi dire io  altra miglior guisa, il che se puoi il dirai a line, che  o da Socrate tu impari, o ammaestri nmhidue noi. ca.  — Ma che, o Ermogeuc? ti par egli ogevol cosa rap-  prender in cosi poco tempo, c lo insegnare qualun-  que cosa noti che una cotanta; la qual d’intorno alle  grandissime è stimata certa grandissima cosa?’ ersi.—  Per Giove nò, anzi io stimo, che Esiodo abbia par-  lato bene, che utile sia l’aggiuguer il poco al poco.  Sicché se tu sei possente al fornire alcuna cosa se ben  picciola, no il ricusare: ma giova a Socrate, ed a me  appresso, dovendolo tu fare, soc.— In vero, o Crati-  lo, nè io stesso affermerei niuna di quelle cose, le  quali dianzi ho raccontato. Ma iu quel modo, che mi  parve ho ciò considerato con Ermogene. Laonde prendi ardir in esprimere, se hai alcuna cosa migliore, co-  me io sia per ricever volentieri ciò, che dirai: non-  dimeno nè mi meraviglierei se tu potessi dire alcuna  cosa di queste migliore, parendo a me, che tu abbia  considerato siffatte cose, e imparatele da altrui. Duo-  , que se da te si dirà alcnna cosa eccellente; mi an-  novererai fra tuoi scolari intorno alla retta investigazione de' nomi, cr.— Per certo, o Socrate, questo  tu di, mi fu a cuore, e ptravvenlura ti farei scolare,  nondimeno dubito, che la cosa se ne stia incontrario  ad ogni modo, perchè mi sovvieue di dir in certa ma-    Digitized by Go     5 > 77 (   niera lo stesso in verso a te che disse Achille ne’ sacrifici in verso od Aiace. O Aiace, nato di Giove, fi-  gliuolo di Telamone, re di popoli, tu hai proferito  tutte le cose secondo il mio parere. Ancora tu, o So-  crate, pare che indovini secondo la mente nostra, o  essendo tu inspirato da Eulifrone, o ritrovandosi in  te alcun’ altra musa, il che ti era ceialo innanzi, soc.  — O Grati lo, uomo dabbene, ancora io ammiro già  molto la mia sapienza, nè mi confidi troppo. Sicché  . io stimo che sia da considerarsi da nuovo ciò clic  io mi dica, essendo gravissima cosa lo ingannarsi da  se stesso; perchè come non fia cosa grave, quando  non è poco lontano: ma sempre presente chi è per  ^ingannare? sicché fa mislieri, come è avviso, voglicr-  si spesso alle .cose antedette, e come dice il poeta,  tentar di guardar innanzi, e indietro parimente. Or  al presente vediamo ancora ciò che si è detto. Ab-  biamo detto retta int» rpetrazione di nome ciò, che  dimostra quale sia la cosa. Mi dì, dobbiamo dir noi,  che qitesto si sia detto bastevolmente? in vero io l 'af-  fermo. soc — Dunque si dicono i nomi percausa d’insegnare? eh.— Al lutto. , soc.— Dunque dobbiamo dir noi,  che questa ancora sia arte, e mietici di le.? er.^Sì.  soc. Quali? cn— Quelli che da principio tu chiamavi  facitori di nomi. soc. — Mi di, possiamo dir noi, che  questa arte sia negli uomini parimente come le al-  tre, o altrimenti? questo è poi quello, che io voglio     I    dire. Sono egli alcuni dipintori peggiori, altri piti  eccellenti? ce. — Sono il. soc. — Non fanno gli ec-  cellenti 1’ opere loro più belle, cioè gli animali? in-  contrario gli altri? ancora i muratori fan essi pari-  mente le case parte più belle, parte più turpi? ca.  — Cosi è. soc.— Gli autori eziandio delle leggi non  fanno essi l’ opere loro parte più belle, parte più  turpi? ce. — Questo non mi par no. soc.— Dunque  non pare a te, che altre leggi siano migliori, altre  peggiori? ca. — Per certo nò. soc. — Nè anco come  apparisce stimi, che altro nome sia posto migliore,  altro peggiore, cr.— Nè questo, soc.— Dunque tutti  i nomi sono posti bene. cr. — Quanti sono nomi,  soe. — Che del nome di Ermogene che si è detto di  sopra? come dobbiamo dir noi, che a lui non sia po-  sto nome, se non, cheli compatisca spfiov'yGVEO'EflJ,  cioè, che sia della generazione di Mercurio? o che  sia posto: ma non bene? cr. — O Socrate, non mi è  avviso, che ancora gli sia stato posto: ma paia si:  ma che sia d’altrui questo nome, dì cui è la natura ancora, che significa il nome. soc.-Dimmi, non  mentisce chiunque dice, che egli non si diea Ermo-  gene non essendo da dubitarsi, che egli non si dica Er-  mogene non essendo, cr— In che modo di tu questo?  soc. — Forse perchè non è lecito al tutto il dir il  falso? e si suol SIGNIFICAR poi questo il tuo sermone?   perciocché, o amico Cratilo, sono alcnni ancora, che  il dicono al presente, e il dicevano già. ca.— Per-  ché, in che modo, o Socrate, mentre dice alcuno  ciò, che dice, dirà egli quello, che non è? o non è  egli il dire il falso,, dicendo le cose, che non sono?  ,soc.-0 amico,questo parlar è più eccellente di qnelche  ricerca la condizione, e età mia; nondimeno dimmi  se paia a te; che alena non possa parlar il falso: ma  il possa dir sì. ca. — Nè dire, soc—  Nè ancora dir-  lo, nè chiamarlo? come se alcuno fattosi incontro  prendendoti per la mano iosegoo di ospitalità dices-  se, Dio ti salvi, o Ospite Ateniese Ermogeoe figliuol  di Smicrione; parlerebbe egli questo, o si direbbe che  parlasse; a direbbe questo, o saluterebbe in colai gui-  sa non te:, ma Erraogene, o ninno? ca*— O Socrate,  mi pare che costui gridi, ciò in vano, soc. — Que-  sto mi basta, dimmi grida il vero chi cosi grida, o  il falso? o parte il vero, parte il falso? perciocché  basterà eziandio questo. ca. — Io direi, che questo   tale strepitasse, indarno movendo se stesso, come se  alcun battesse i rami. soc. — Considera, o Cratilo, se  in alcun modo conveniamo, non diresti tu forse; che  sia altra cosa il nome, altra quello, di cui è il no-  me? cr.— Veramente. soc. — Dunque confessi tu, che  ’1 nome sia certa imitazione della cosa? ca. — Sopra il  tutto, toc —Dunque e le dipinture in certo altro modo  dì tu, che siano imitazioni di alcune cose? ca.— Per  certo sì. soc.— Or dimmi, perciocché forse i» non  .   intendo, quel, che tu di.- ma tu peravventura parli  bene; polressiroo noi dispartire,, e portare ambedue  queste imitazioni, e dipinture, e quei nomi alle co-  se, di cui sono imitazioni, o nò? cr.~ Possiamo si . 1  soc.— Or. questo considera primieramente, se potesse'  alcuno attribuire la imngi.ne dell'uomo all'uomo, e alla  donna quella della donna, e le altre nel medesimo  modo? cr. —Così certo, soc. — Dunque iu contra-  rio ancora la imagine dell’uomo alla donna, e della  donna all’uomo? cu. L- E questo, soc. — Or ambe-  due questi compartimenti son forse elli, retti? ovver^  l’un di essi? cn. — L'uno dì. soc. — Quello pen-  so io, il qual dà il proprio, C simile a ciascheduno.  cb, — A me par sì. soc. — Dunque acciò tu e io es-  sendo amici, non contendiamo nelle parole, conside-  ra ciò, che io djco. Io chiamo retto ( compartimento  una cosa siffatta in ambedue le imitazioni e negli ani-  mali, e nei nomi: ma ne* marni non solo, retto: ma  vero. Ma l’altro conducimento, e portamento dal dis-  simile non retto, e appresso falso ne’ nomi. cr.—O So-  crate redi che ciò peravventura possa solamente ca-  der nelle dipinture, che alcuno compartisca male:  ma non nei nomi: ma sia necessario che sia sempre  bene. soc. — In che modo di tu? d’intorno a che è  questo da quelle differente? non è egli forse possibi-  le, che nd alcun uomo fallósi alcun incontro dica, questa è tua figura, e peravventura a lui dimostri la  figura di lui peravventura anche di donna. Dico essfcr il dimostrare 1* offerire a sensi degli òcchi.' c».’  <*- Per certo. : soc. Ma che? di nuoto’ fattosi all»  stesso incontra dica, questo è il tuo nóme, essendo  il nome certa imitazione, cosi come la Figura; ma  dico in colai guisa. Forse non fia lecito a Ini di di-  re questo è il tuo nome? poscia infondergli il medesimo nelle orecchie, peravventura dicendo la imita-  zione di lui, che egli è uomo, e forse la imitazione  di- alcun genere umano dicendo, che è donna? non  pare a te: che ciò sia possibile, e si possa fare al-  cuna tolta? cr. — Te il voglio conceder, o Socrate,’  e così sia. soc. — O amico, tu fai bene, se ciò se  ne sta in cotal guisa, perciocché al presente non fa’  mistieri, che d’ intorno a questo si contrasti. Dunque  sequivi,si ritrova on certo tal compartimento; l’ uno  chiamiamo parlar il'vero, l’altro parlar il falso, e se  questo così se rie slà egli, ed è lecito, che non si  conipartnno i nomi bene, nè si rendano a qualunque  i propri: ma alcuna fiata quelli sì, che non sono  propri; sia lecito parimente, che si l'accia questo neU  le parole. Ma se possiamo poner i verbi e i no-  mi in cotal guisa, necessario è, che similmente si  póbgano ancora le orazioni, essendo esse, come io  penso componimento di .questi, o come di tu, o Cra-  tilo? cr. — Così parendomi, che tu dica bene. soc.  — Dunque se assomigliamo i primi nomi alle lettere  con certa imitazione, pnò avvenire d’ intorno a que-  sti come nelle dipinture, che si diano confacevolt   tatti ì colori, e le figure: e medesimamente non li  aggiungiamo tutti; ma parte, e parte ne leviamo, a  Li dimostriamo, e più , e manco, non è egli possibil  questo? cr. — Possibile sì. soc. — Dunque chi tutte  le cose rende concordanti, rende le lettere belle, e  le imagini: ma chi ne leva,, o ne aggiugne fa egli  lettere ancora, e imagini: ma cattive, cr. — Per cer-  to. soc. — Ma che? chi imita poi la essenza delle  cose per lettere, e per sillabe, non fa egli forse la  imagine bella secondo la stessa ragione, se convene-  voli rende tutte le cose? questo poi è il nome: ma  se mancasse poco, o vi aggiugnesse alcuna volta, si  farebbe egli la imagine: ma nou bella? sicché alcu-  ni nomi saranno ordinati bene, altri in contrario? cr.  «. Peravventura. soc. -—Dunque fia questi peravven-  tura buon artefice de’ nomi, quegli cattivo? cr. — Veramente. soc. —Orerà costui facitor de’ nomi. cr.  — Veramente, soc. — Dunque per Giove, fia forse  in questo come nelle altre arti, che sia un buon fa-  citor di nomi, l’altro cattivo, se pur fra noi conve-  niamo nelle cose antedette, ca. — Questo è vero: ma  vedi tu, o Socrate, qualora diamo queste lettere 1’ x  o il fi, e qualunque elemento a’ nomi con l’arte della  grammatica, se li leviamo alcuna cosa, o li aggiugniamo, o eziandio mutiamo, che da noi si scrive il  nome, nondimeno non bene: anzi egli non si scrive  affatto.- ma incontinente è cosa diversa, se li adiviene alcuna di queste cose. soc. * E da vederti, o Cratilo»  che peravventura non consideriamo bene, in cotal gai*  sa considerandolo, cn.— Iti che modo? soe.— PeraV-  ventura quantunque cose, le quali necessario è, Che  siano, o non siano da alcun numero ciò patirebbo-  no, che tu di come il dieci, o qualunque altro nu-  mero, che tu vuoit che se tu ne levassi alcuna cosa,  o la aggiugnessi, incontinente si farebbe diversa: ma  non è questa peravventura la retta maniera di alcuna  qualità, nè di tutta la imagine insieme: ma il contrario; nè al tutto bisogna, che la imagine tenga itt  se qaalunqne cose lien quello, di cui è imagine, sé  pure è per dover esser imagine, e considera se io dico alcuna cosa. Saranno forse queste due cose, cioè  Cratilo, e la imagine di lui, se alcun de’ Dei non sola*  mente esprimerà il tuo colore, e la figura, come so-  gliono i dipintori: ma farà eziandio tutti gli interiori  somiglianti a’ tuoi: la stessa tenerezza, é il calore, il  moto, 1* anima, la prudenza, e per abbracciar in po-  che parole, tali affatto farà tutte le cose, quali in tè  sodo? dimmi questa tal cosa forse sarà ella Cratilo»  è la imagine di Cratilo? o due Cratili? CB.—Due Cra-  tili, o Socrate, come io penso. soc. — Vedi tu, o  amico, che è da cercarsi altra retta maniera di ima*  gine, che di quelle cose, che abbiamo poco fa det-  te? nè si abbia a sforzare-, se alcuna cosa si aggiuguesse, òri levasse, che prh imagine non siti? 0 boa  ti avvedi tu quanto manchi aHe imaginì, che ‘tenga-    ) m   do te stesse cose, che ha quello, di cui sono imft*  gini? ,ca. — Veramente, soc. — O Cratilo, nvvenirebbe da’, nomi alcuna cosa ridicolosa d’intorno a que-  ste cose, di cui sono nomi; se si rendessero loro  somiglianti al tutto, perciocché si fnrebbono doppie  tutte le cose, nè si potrebbe dir qual fosse l'una,  o l’ altra di toro, forse la cosa, o il nome* cr. Tu parli il vero. soc. — Dunque, o uomo generoso,  con fidanza permetti, che altro de’ nomi sia posto be-  ne, altro nò; nè voler far forza, che egli abbia tutte  le lettere,, acciò sia tale, quale è quello ancora di cui  è nome: ma permetti, che porti una lettera manco  confacevole, e se lettera, parimente è uomo nell’ora-  zione, e se nome, che si porti eziandio appresso nel  parlar sermone non confacevole alle cose, e niente  manco si nomini la cosa, e si dica finché si ritrovi  la figura di ciò, di cui è il sermone, come ne’ nomi  degli elementi, se tu li ricordi, quello che poco fa  io, e Ermogene dicevamo, ca. — la vero mi lo ri-  cordo. soc Dunque bene; perciocché quando vi   farà questo, benché non si ritrovino tutte le cose  coufacevoli; nondimeno si dirà ben la cusa quando  saranno tutte: ina inale quando poche. Sicché per?  mettiamo, o beato, che si dica, acciò come coloro,  che iu Egina vanno vagando di notte forniscono tardi il viaggio,, così paia, che iu questo modo noi per-  veniamo alle cose piò lardi da buon senuo del do-  vere; o ricerca alcun altra retta maniera d’ intorno al nome; nè confessar tu, che sia nome la dichiaratone della cosa fatta con lettere, c con sìllabe: per-  chè, se queste due cose dirai, tu non potrai accorda-  re, e convenir con te stessei. ex. — O Socrate, tu  pari di parlar bene, é cosi io assentisco, soc. - Poi-  ché d’intorno a questo Convenimmo si ventiti da noi  il rimanente. Se dee esser il nome posto bene, di-  ciamo far mistieri, che si ritrovino lettere a lui de-  centi. ce — Per certo, soc. — Convien poi, che let-  tere siano simili alle cose, cm —"Sì. sOc. — Dunque  quelli nomi, che sono posti bene, cosi son posti:  ina se alcuno non « posto bene, perawentura per lo  piu sarà di lettere convenienti, e somiglianti, se do-  veri esser iniagine; terrà poi ancora alcuna cosa noci  convenevole, per la quale non sarà buona, nè fatte  bene: diciamo noi in cotal guisa, ovver altrimenti!  ***■ ” ® Socrate, io penso; che non faccia mistieri,  che contendiamo, non mi piacendo, -che si dica esser  nome, nondimeno non posto beile.- soc.J- Forse non-'  piace a te, che il nome aia -dichiarazione di 'cosa!  CJt — Mi pisce sì.' suo. —Ma' pensi tu', che non W sia  detto bene. Che parte siano i nomi de’ primi compo-  sti, e parte siano i primi?' cu. — A me sì. - soc—Or  se deooo esser I PRIMI SIGNIFICAZIONI di alcune cose,  hai tu forse più commoda maniera, onde si 'faccia  questo, che se si facessero tali, quali son quelle, coi  se, le quali vogliamo, che si dichiarino? o piultosttf  ti piace, questa maniera, la quale è detta da Erbo*     1    ) 86 (   gene, e da altri molti, cioè, che i nomi siano certi  componimenti, e dichiarino a chi composero le cose,  e le conobbero innanzi, e ne sia questa la retta ma-  niera del nome, cioè il componimento, nè imporli,  se componga alcuno cosi, come si è oro composto,   0 incontrario? cioè come l ’ o picciolo, il quale ora o  picciolo si addimanda, si nominasse o grande: ma l’& f  che al presente si dice o grande, si dicesse o pie •  ciolo? qual di queste due maniere piace a tef ca.—  Adognimodo, o Socrate, importo, che alcun dichiari  con somiglianza ciè, che vuole dimostrare: ma non  con qualsivoglia cosa, soc, — Tu parli bene. Dunque non è egli necessario, essendo il nome simile al-  la cosa, che gli elementi, dei quali si compongono   1 primi nomi, per lor natura siano alle cose somiglianti? ma così dico, o si sarebbe fatto da altri la  dipintura alcuna volta, la quale dianzi abbiamo det-  to simile ad alcuno degli enti: se i colori, di cui si  fa la iraagine non fossero per natura somiglianti a  quella cosa , la quale è imitata dallo studio del di»  pintore? « è egli impossibile? ca — Impossibile certo,  soc. ~ Nel medesimo modo non si farebbouo i nomi  somiglianti mai ad alcuna cosa, se quello, di cui  si compone i nomi non tenesse alcuna somigliànzà di  quelle cose, di cni sono i nomi imitazioni. Quello  poi, 'di cui si compongono i nomi, sono gli elemen-  ti. cr.-* Veramente, soc. Oggimai fatti partecipe di  quei sermone, del quale ne è partecipe Ermogene pòco fa. Or dimmi, ti è egli avviso, che noi diciamó  bene. Che il p coovehisse al portamento, al moto e  alla asprezza, o non bene? CR.-Bene sii soc. — Ma  A piano, e a! molle, e alle altre cose da noi nar-  rate? cr — V eramente. soc — Sai tu dunque che Io   P : chiama da noi   ffKÀ*pOTl£;   ma da Eretriesi <rKAty>0T«£?. CR--Corto si. *oc.—  Dimmi , se questi due p e+ paiono somiglianti allo  stesso, e dimostrano il medesimo cosi loro per la de-  terminazione del p f come a noi per lo ultimo   o non significa niente agli noi di noi? cr -Anzi il  significa agli uni e agli altri, boc — Forse in quonto  sono somiglianti il p e il o in quanto dissomigliane  ti? ca— In quanto somiglianti, soc.— Dunque ìn quan-  to sono simili in ogni luogo? CR.-Peravventura al SIGNIFICARE almeno il portamento, soc. 0 il \ frames-   so ancora dimostra egli il contrario dell' asperità?  CR—Peravventura, o Socrate, non è framesso bene, co-  me quelle cose, le quali tu trattavi dianzi con Ermogene, mentre e levavi via, e ponevi le lettere ove  massimamente facea mislieri. E tu mi parevi dì far bene, e ora hassi a por forse il p per lo soc. — Tu   parli bene: ma che? al presente quando alcuno prò-  nuncia <rKÀ»/>oif, come dicevamo, non ci intendiamo  tranci? nè sai tu ciò, che io al presente mi dica?  cr,- 0 amicissimo, per usanza lo so veramente, soc.    ) 88 (   Quando tu dì usanza, pensi tu dir cosa diversa dal  componimento? chiami tu altro usanza, che quando   10 pronunciando questo, e considerando quello, tu co-  nosci, che io considero; non dì tu questo? cr. — Que-  sto stesso, 'soc. — Dunque se tu conoscessi questo pronunciandolo io, li si fa per me la dichiarazione, cr.   —Così è. soc. — Cioè dal dissimile ili quello, che io  pensando proferisco, poi che è dissimile il \ a quello, che tu chiami <rn?iHp OTUTflC, cioè asprezza, e se  ciò se ne sta così, che altro ha egli se non, che tu I   con te stesso sii convenuto? e ti si fa egli la retta  tnaniera del componimento? poiché cosile simili, come le dissimili lettere li dimostrano lo stesso , conseguendo lat usanza , e il componimento ma se  la usanza nou fosse componimento, nou si potrebbe, dir bene ancora, che la somiglianza fosse dichiarazio  ne: ma usanza; poiché, come pare, la dichiara colla similitudine, e con la dissomiglianza. Ma, o Cratilo poiché noi concediamo questo ( couciossiachè, IO PONGO IL TUO SILENZIO PER CONCESSIONE) è necessario, che la  usanza, e il componimento appartenga alla dichiarazione di quello, che considerando diciamo, perciocché, se tu ottimo uomo volessi discender alla cousiderazione de 1 ' numeri; donde penseresti tu di poter apportare nomi somiglianti a qualunque numero, se non  permettessi, che la concessione c componimento tuo  tenesse alcuna autorità intorno alla retta maniera do'    nomi? eziandio mi piace, che i nomi in quanto è pos-  sibile, siano simigliatiti alle cose; dubito nondimeno,  che peravventura, come diceva Ermogene, sia in c^rto  snodo lubrica la usurpazione di questa somiglianza, e  siamo sforzati a valersi ancora di questa cosa trava  gliosa, cioè del componimento d’intorno alta retta ma-  niera de’norai: percbè secondo il potere peravventura  si direbbe allora bene, quando si dicesse o con tutti,  o similmente con la maggior parte, cioè con conve-  nevoli: ma sozzamente quando in contrario. Or ciò ap-  presso a questo dimmi, qual forza tengano appressa  noi i nomi o qual cosa beilo affermiamo, che si faccia da noi col mezzo loro? cb.—O Socrate, pare a me,  che insegnino i nomi, e ciò sia molto semplice, cioè  che chiunque sa i nomi, eziandio sappia le cose. soc.  — O Cratilo, tu peravventura dì alcuna cosa siffatta,  che quando conoscerò alcuno quale sia il nome (essendo egli tale, quale ancora si ritrova la cosa ) eziandio  conoscerò la cosa, poiché è la cosa somigliante al  nome; essendo un’arte, e la stessa di tutte le cose tra  loro somiglianti* Da questa ragione indotto pare, che  tu abbia detto, che chiunque conosce i nomi, ancora  conoscerò le cose stesse, cr. — Tu parli il vero, soc. Or vediamo qual sia questa maniera della dottrina degli enti, la quale ora tu dì, e se piu oltre ve ne sia  d’altra, nondimeno sia questa tenuta migliore; o fuor  di lei, non ve ne sia niun’altra, in qual di questi due  snodi pensi tu? ex.— Cosi io stimo, che nou ve oc   6 Cr.    sia d’altra; ma questa sola, e ottima- soc. -Ma dimmi  se questa stessa sia la invenzione degli enti, che chi  ba ritrovato i itomi, abbia ritrovato ancora le cose, «li   cui sono i nomi? o faccia ni isti eri, che .altra maniera   ' •„ r c   si cerchi, e si ritrovi; e questa si impari?, ca. — Sopra  tutte le cose è da cercarsi questa maniera, e ritrovarsi,  soc. — Or, o Cratilo consideriamo si, se a!cun mentre  investiga la cose segue i nomi, considerando quale  dee esser ciascheduno. Consideri tu forse, che non  sia piccini il pericolo di non restar ingannato? cu. —  in che mi'do? soc.— Perché chi da principio pose i  nomi quali stimò egli, che fossero le cose, eziandio  tali nomi pose, come diciamo, non è egli cosi? ca.  — Cosi affatto, soc. — Dunque se egli non pensò bene:  ma li pose quali lisi stimò, che pensi Ju, che sia per  avvenir a noi, che lo seguitiamo? altro forse, che di re-  star ingannali? cn.— O Socrate, chi sà, che questo non  se ne stia cosi: ma sia necessario, che' quegli. sia Stato  scientifico, che pose i nomi, altrimenti come un pezzo fa diceva, non sarchbono nomi. Questo poi ti può  esser di evidentissimo argomento, che non traviò dalla  verità l’au(o e del nome? che se avesse avuto rea opi-  nione, in moilo niuno tutte le co e non si accorderei)-  bono in colai guisa appresso di lui o non considera-  vi ancora tu quando dicevi; che tolti i oomi tendes-  sero nello stesso? soc.— O buon Cratilo, non vai niente  questa difesa, perchè non è cosa sconvenevole, se da  .principio ingannalo ['ordinatore de* naini, tirò di uuq-    ’) s« f   ^0 » seguenti nbini con ceria fona si primo, e I*  sforzò ad accordarsi seco, come intorno alle figure, ritrovandosi alcuna volta la prima figura ignota e falsa,   I* • . . . . 1 : •   le rimanenti poscia essendo molte conviene, che insteme Si accordino; conciossiachè ciascheduno dèe dispu-  tar molte cose' intorno al determinare il principio  di (]ualunque!tCOsa, e considerar diligenlissimainente se  il principio è supposto bene o nò, il che bastevo) men-  te esaminato, le altre cose ornai lo deono seguire. Nondimeno mi maraviglio, se i nomi couvegnano con loro  stessi. Perciocché considereremo da capo le cose di-  nanzi da noi narrate, come, che i pomi ci significhino  la essenza, quàsi che l'universo vada, si porli e scorra.  Stimi tu fórse, che èssi significhino in cotal guisa, o  altrimenti.!^ cr.-— Cosi sì, e il significan bene. soc. —  Sicché consideriamo se assumendo alcuna cosa da loro.  Primieramente questo nome CTIffTtlftdt, c ‘°*“ di scien-  za, come é egli ambiguo, e pare, che più tosto signi-  fichi, 0T / larniTìv etri tùìs Trptryftoctri rnv   cioè che ferma l'animo nostro nelle cose, che  sia egli portato intorno con esse, ed è meglio, che di-  ciamo il principio di lui, come ora, che gettando l’g   dir TriffTtljiltV, ma frammettiamo in vece del g il /. Pos-  cia il jSsjSa/GV, cioè il fermo; perchè è imitazione fix-  o-eas Ttvog, hoc) (TTCUreas, c»°è di certo stabilimen  to, e state, che del portamento. Più oltre g’ tO’TOpt*    Digitized by Google     ) 9» I   Significa per certo questo, che ciò, che  poti» le 1 ™* ‘l corso e TOTTWTO», c*òè quello che sf  ha a credere, significa ad ogni modo tffTXV, c *°è «l  fermare. Poscia) j xytiym, cioè la memoria dimostra certo  ad ognuno, che è nell'anima poM, c '°è fermezza: me  non agitazione: come per esempio, se alcuno rolesse  seguire i nomi 0 apiXpTix, ttfltt « ffV[I(pOpX, c * oè 1 ®  errore, e la calamiti; parerebbe di inferire lo stesso,  che si riferisce -jr» e-vvsirej sa) 6Trt<rT»ft», cioè *“  intelligenza, e la scienza, e gli altri nomi, che posti  sono alle cose serie. Ancora £ ec^x 3 ix, xaì rf XKOfiKfflX,  cioè la ignoranza, e la intemperanza paiono simili a  questi; perciocché £ xpixBtX pare, che sia 7-01/ x^ixBsu  tOVTOS TTOpelx, cioè il progresso di chi se ne va in-  sieme con Dio: ma cctLOXxrix P are •* tulto certa «KOÀov-  glg' cioè conseguenza alle cose. Ed in colai guisa  quei, che noi pensiamo nomi t^i sozzissime cose pareranno somigliantissimi a quelli nomi, che sono in-  torno alle cose bellissime, eziandio stimo, che si po-  trebhono ritrovare d’altri molti, se a ciò alcun atten-  desse; onde penserebbe di nuovo, che l’autor de’ no-  mi significasse non cose correnti, e portate: ma per-  manenti. cb. Nondimeno o Socrate tu vedi, che la  maggior parte de* nomi significavano in quel modo,  «oc.— Che è dunque questo 0 Cratilo: annovereremo    \   forse ì nomi qual suffragi, e sassettif e consisterli ?»  questo la retta maniera, cioè quat di queste due gui-  se de' nomi paia di SIGNIFICAR pili, e questa sia la vera*   Non convien nò. soc. — O amico in modo miuno.   ÌOr qui' lasciamoli:' ma consideriamo, se in cotal guisa  ci assentissi, •ovver nò. Dimmi non confessavamo noi  poco la, die -coloro, che ponevano i nomi nel Te città  GrCche, e Barbane fossero ■positori de* 1 nomi, é Ifarte,  che ciò poteva ftossC de' nomi postricé? cr — Al tutto  slr «oc.— Or dimmi tu, chi pose i primi nomi, "cono*  scevan essi Ié còse, 1 cui ponevano i nómi, o non le conoscevaSo? 10 c*>. — Io penso, '0 Socrate, che Ie^etìno 1 -  scesseroi s oc;— Per certo, o amidó Crétìlo, non essèit*  do essi ignorami; cir.— Non rtìi 2 5 sdt.-iR'itòd   niamo di nuoi-o colà, Ondò si '^ipàrtimriro. Perciò posto fa dicesti-, se tu li raccordi'; èli® era tìeeessario,' che  «hi poneva' i’WóWii conOSctìsè'Ié^'cbse/'cui 'tl penevai  dimmi pare à- tu ancóra' ; cosV; hòP 'cit.4-Eziatf*   diO si; "stìd.'— ‘PeTavventura dllu'J'che chi pose i 'priì  ini nómi, cbuoscendòH 'H ponessé. '■ cA.- Conoseèndòlk  soci— .Da’ quàlì homi ' avrebbe egli'imparato, o ritrova-  to le cose,- ! sé Otti a fossero ancora 'pósti i primi no-  mi! e di nhdVo'tfibiamD nóij èhè sià’ Còsa impossibi-  le di ritrovar lé' èòSéj o impararle altrimenti, che imparando i nhiéi/’ ò per noi quàlì siWo 1 ritrovandola  CR.— O SOcràte,’fnf è avviso, che lÓ~dìcà alcuna cosa,  toc-— Duriqóe io che ‘modo ‘dirémo''%iòi che essi sa-  pendo abbiano posto ? ‘nomi! ossiatro dati facitari dd’     )&<   Domi insanii che si ponesse qualunque nome, e abbia!  solessi conosciate, le cote innaoti, nou potendosi) «Ile  «llmnenli imparare, che co’ oprm? c«.— In vero: io pen-  so, Soc Fate, che questa sia_ verissime ragiono, d’iniorjse  questo, che certa .potenza maggior dell utnaud sia stata  qneHa, che pn»e,^pri#»i homi ;fl!e cote, 4t maniera die  aia necessario, chiosai tfi pestiano bm»f.3,»«c.-4.Posc»a  penti tu, che Fautpr de’ nptni li* abbia ppsli contras  ri a se stesso, o se fu egli alcun dtnipoe p Dio? o  pare fi r te, che di sopra da noi nop ,^;jgi»(deUo,aicn>  te? ca. — Ma chi sa, che gli altri j nqmj; non fossero  di questi, soc. — Quali d* questi due p , ottimo uomo  e^ano. es s > forse di quelli* che, si rifulgono olio sta?  Io? o di quelli pi u,. tosto, che al mpviinputfe? [ilrciocchè  nou ancora si giudicheranno colla moltitudine seaon r  do , quello chq poco^a abbianao ^ttos ; ,^tf^CÌ0si con»-  yjenfj p ^oprate. i u ^o«i e:dV   cendo parje di essi .e^er siglili ajlfl. 1 .flfr   fermando di so sa il^ medepi 6 &P ' ’.'U ‘ <d i r   torniremo noi?, ©, a chop^vfln^d^ -pgvfthè fcerlp #4  allri nomi, da .qufstft <K»n;flSftr^rqgjq^»jjii^#r   jepdpup. d’oltrg ma ( c^iarp g 8 »,qfe4 'WW   HO fi. Cerca rp, perle, altpp c«tSf,^C.,^i 0 9hiM r W n 9 TO%-  nifeste ^enaft^qiRijop. ci ^mustrer^ngp ^^Ojit*;, de-  gli epti^cjoè qapLdt questi due, , <y*.,-n-Coj.  si . mi .parer, Mfij-gp C‘V- 0 -i9f* l lKj c .3Bfia«lé ^.coy  tf( guisa.pqssiappo,, comp pa^iip^arj^ gli enti _5.eBXf  «pmL. «h-rApjptfjjcp. sof.T^P^r- mezzo di qual t)r      tra cola pensi tu principalihénte, che ih possami * tip*  prender cose, è forse per mezzo di alcun’ altra, che  per quella, che è convenevole, e giustissima per U  Vicendevole tomunicanza loro, Cioè se in qualche modo sono insieme in parentela congiunte, e per toro  stesse msssimàtneute? perciocché quello, che è diver*  ib da lord divèrsa cosa significa non quelle. cu.*- A -  me pare, che tu dVil vero. ioc.-'-Deh d\, non abbia^  tìio noi conceduto già molte volte, che siano : i nohàiy  i quali Spn posti bene ‘similissimi a quelle‘‘Cose, d'i cup  Son nomi*, e imagini loèo? ’ Cr. -< Per certo l'abbiamo  conceduto, soc.— Dunque se lecito; è di imparar le'  Cose per li nomi,i e' per loro-stésse ancora, qual sa-'  rebbe apprensione ‘più eccellente, e più chiara: Corse'  se dell’imiigine si imparasse, esprimendone ella 'beilo'  la verità di oui è ella imagine, o più. 'tosto dalla ve^  rilà còsi ella, eome la imagine di 1 lei, se essa fosse  fatta Convenevolmente? ‘ Cri— Mi par ' necessario dalla  verità- 1 Sòc.— Egli Rppar fattura d’ingegno maggiore'  del mio e del tuo, il giudicare in che modo siano da comprendersi le cose, o per dottrina, o per invenaione. Basterà poi al presente, che siamo fra noi- convnuti, che elle non siano da impararsi,’ ie da cercarsi/ i  da' nomi: ma per loro stesse più tosilo.;' er.-i*Cos«i «p*v  perisce, o Socrate, sóc.— Appressò- considenaino/anco- ■«  ri' questo, acciochè questi molti nomi nello stesso/ tercw!  denti ‘boa ci ingannino, avendo pensato, ehi si posero,/  •he Mute le cose corressero scazp(é, e . socrressi.ro, ci       I    Ì9 «f   «on quella considerazione «tendali polli, parendome, che essi abbiano pensato in colai guisa. Ma se a  caso, non se ne starebbe egli eoa). In vero essi quasi  sdrucciolati in certa vertigine vacillano, e ai travaglia,  no, e nello .stesso tirando noi, ci alludano. Perchè considera, o Cratilo, uomo maraviglioso, che io spesse voi*  te sogno, se è da dirsi, clic sia alcuna cosa il bello, e  il buono, e Cosi qualunque degli enti, oppur uò? ca. O Socrate a me par si. aoc.— Dunque consideriamo  questo, se alcun viso, o alcuna delle cose silTalte sia  bella, parendo, che scorrino tutte: ina quello, ebe di-,  ciomo bello non persevera sempre tale, qu.de è egli?,  c*.— Necessario è. soc. — Dunque è possibil forse, cha,  egli si denomini bene, se (ugge sempre, e primieramen-  te si dica ciò, che egli sia, poscia quale sia? o neces-  sario è mentre parliamo, che egli si faccia altro incon-  tinente, e si fugga, nè più sia tale? cr.— Egli è necessario. SOC,— In che modo sia quello alcuna cosa;  che non se ne sta mai nella stessa maniera? percioc-,.  cbè se alcuna volta se ne sta nello stesso mod'>, chia-  ro è, che non si muta niente in qui 1 tempo, «die «c  do sta cosi: ma se slà sempre uella stessa guisa, ed è  il medesimo, in che maniera si potrebbe mutare, o mo-  ver non diseostaudosi punto dalla sua idea? cr.— tu  modo ninno, soc. Più oltre uè alcuno si conoscereb-  be facendosi altro e diverso incontinente, che se no ;  vico quello, che l’ idee conoscere. Sicché non si po-  trebbe conoscer più, che, < quale si sia, o come si ritrovai*®, ♦ per certo niiina c<jgoÌRÙ)taat$anosce 1* co*  sa, la quii conosce, non stendo ella;inalcuo modo»  cu.— figli è coese tei dii i socy7rMe,nè.onAOW* 0 CraltlPià  verisimiln che sùdice c©gi»iaioDe,,8e si nantanp tulle le  cose, -e «ente^sù-ffetow-iChèise la cognizione ppo ca«  desse da quello, onde è cognizione, si f cr m erebbe SCO* 1 *  pre,* e sarebbe sempre qognixione. Ma;se essa Specie anr  Cora di cognizione 'Si' dipartisse, in altea^pecie passe*  rebbe -insieme ilicognitionenè cogniaìone starebbe» che  sta' pdrileteamewtfe si 1 mutai non sia sempre cognizione»  d di ^aéSta' ragiorte,; no® 'sarài eli# nè ciò», che» & per  cò'dtfscel^i ttè fciè, éh« è r -per" dovérsi poposoere: ma se  ditèmprè'queito che conosce, >ed è qoelio ohe si co*  no sa e, «d è il bello, ed anche il buono, ed èoquàl*iB4  qnc degli enti, non mi pare che ciò che diciamo al  presente sia simile al flusso ed al portamento. Or se  questo se ne slà egli cosi, o come dicevano i settatori  di Eraclito, e altri molti non si può discerner agevol*  mente, non è ol^jtrid’qaaqèirfbf, jhp intelletto fidar  se stesso, e l’animo suo a’ nomi e raffermar sapiente  l’ootore del nome; e in colai guisa dispreggiar se stes-  so e gli enti, quasi, che niuna cosa sia vera: ma scor-  rano, e cadano tutte, conHMewfcne; e qual gli uomi-  ni malati delle distillazioni della testa giudichi, che  iimilmeule si dispongano le cose stesse in modo, che  si tengano tutte dallo scorrimento, o dal flusso. Peravventura, o Cratilo, egli è cosi peravventura è altrimenti  ancora. Dunque egli si dee investigar questo con aui-    Mo fòrte, e heriefaron dovendoti ammetter ^erolmen-  te: perciocché ancora tu sei giovane, e ti à beetetole  la età, e se ritroverai alcuna cosa iti investigante), ezian-  dio la dei compartire con esso meco. ca.— O Socrate, io vi attenderò e saprai certo, che ancor io al presente non sto senza considerazione; anzi in pensando,,  e in rivolgendomi molte cose per l’animo, pere a me,  che se ne stieno elle maggiormente in quel modo, che.  come Eraclito' diceva, soc.— Da qui innanzi o amico  poiché sarai ritornato, mi insegnerai: ma qra come sei.  apparecchiato vattene al campo; perchè ancora Ermogene ti accompagnerà, ci.— -Si farà, o Socrate, come,  tu ammonisci.' ma d’intorno a quello aforzati ancora  tu di considerare. Roberto Dionigi. Dionigi. Keywords: in torno al cratilo, ermeneutica, svolta linguistica, cratilo, linguaggio, la forma del linguaggio, forma logica. Nietzsche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dionigi” – The Swimming-Pool Library. Dionigi.

 

Grice e Dionisio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Mentioned by Cicerone was a philosopher of the Porch who liked to quote poetry when he was teaching. Grice: “So do I: never seek to tell thy love – for love its own pleasure – the four corners.

 

Grice e Dionisio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A slave of Tito Pomponio Attico before being set free. Atticus and Cicerone often referred to him in their correspondence. He was evidently a man of learning who had studied philosophy.

 

Grice e Dionisio: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. The ruler of Siracusa, the nephew of Dion of Siracusa. Interested in philosophy, he invited Plato to his court, but Plato’s attempts to put his political ideas into practice were thwarted. Dionisio is eventually deposed and went into exile. Dionisio.

 

Grice e Dionisodoro: l’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Accademy. Flavio Mecio Severo Dionisodoro. Dionisodoro.

 

Grice e Diofane – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A tutor in philosophy and acquaintance of Plotino. He teaches that pupils should submit completely to their tutors, including sexually. Plotino was shocked by this, and asked Porfirio to come up with an argument to use against D. on this matter. Diofane.

 

Grice e Dionneto: il principe filosofo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He was Antonino’s tutor, who first fired the future emperor with enthusiasm for philosophy. Antonino says that he learned from hin not to be distracted by trivia, to take a sceptical attitude towards those who claim to be able to work magic, and to avoid cock fighting. Dionneto.

 

Grice e Dioscoro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. D. or Dioscuro studies philosophy in Rome. He writes a letter to Agustino seeking to discuss a number of philosophical issues. Agostino replies at length, arguing that the issues are of no real importance. Dioscoro.

 

Grice e Disertori: l’implicatura conversazionale della tensione dell’arco e il volo della freccia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trento). Filosofo italiano. Grice: “I like Disertori; especially his ‘studi platonici’ on the archer, and, ‘under the sky (or is it heaven – ‘cielo’ is a trick) of Saturn!” Frequenta il Ginnasio liceo Prati. Si iscrive poi a Firenze e quindi si trasferisce a Genova, dove si laurea con “Fisio-patologia del sistema nervoso centrale”. Si trasferisce a Milano e si specializza in neurologia e psichiatria con Besta. Torna a Trento, dove esercita la libera professione: la carriera pubblica e ospedaliera gli era preclusa in quanto privo della tessera del Partito Nazionale Fascista.  Antifascista da sempre, negli anni quaranta partecipa attivamente alla Resistenza, incontrando fra gli altri Reale, Pacciardi, Battisti, Bacchi, e Manci. -- è costretto a riparare in Svizzera. Finita la guerra ritorna in Italia e, a Trento, diventa primario nel reparto di neurologia dell'ospedale Santa Chiara e docente sia di neurologia e psichiatria a Padova, sia di socio-psichiatria e criminologia a Trento.  Pubblica più di 300 saggi di filosofia.  Per tutto il secondo dopoguerra si occupa attivamente di politica, ricoprendo la carica di presidente regionale del Partito Repubblicano. Diventa inoltre presidente della Croce Rossa.Altre opere: “Il libro della vita”; “Trattato delle nevrosi”; “De anima”; “Trattato di psichiatria e socio-psichiatria”; “Sfida al secolo, La collezione si trova già chiaramente ordinata e organizzata dal Disertori stesso, con un ricco carteggio con scienziati, personalità politiche e del mondo della cultura, documenti sull'attività scientifica e pubblicazioni; cronache e materiali raccolti durante i viaggi; recensioni alle sue opere e materiali di ricerche scientifiche.  Coppola, Passerini, Zandonati.  SIUSA.  G. Coppola, A. Passerini e G. Zandonati, Un secolo di vita degli Agiati. “Sotto il segno dell'uomo” D. Atti del convegno di studio, Trento, Palazzo Geremia, Pensiero e opera letteraria di D., Manfrini, Calliano (TN), L. Menapace et al., Note biografiche, R. Bacchi et al., Biografia, Accademia del Buonconsiglio, Trento,  Raccolta di scritti di D.   (con documentazione)  Studi scientifici del periodo svizzero  Fascicolo, carte 131, opuscoli 10  3 Raccolta di articoli e scritti di D. rilegati in volume denominata "Zibaldino" "Saggi nel cassetto" Fotocopie rilegate in 3 volumi di scritti inediti di D. "Il libro della vita"  Traduzione in inglese di alcuni capitoli de "Il libro della vita" ad opera di Nicola Lubimov. Contiene anche: alcune lettere a D. di Lubimov relative al lavoro di traduzione Fascicolo, carte 360  32    6 Scritti di D. rilegati in volumi  Minute dattiloscritte rilegate in volume. - "Scritti vari  "Scritti vari  "Scritti vari vol. "Scritti vari ; contiene anche carte sciolte  "Trattato di psichiatria"  [Minuta dattiloscritta e a stampa con ampie correzioni e integrazioni del "Trattato di psichiatria e socio-psichiatria", scritto con Marcella Piazza e pubblicato a Padova: Liviana, Bozze a stampa con correzioni dell'edizione in spagnolo, Buenos Aires: Libreria El Ateneo.  Raccolta di scritti, discorsi, relazioni ed appunti di Disertori riguardanti argomenti vari  Recensioni e documentazione relativa agli scritti di D. Unità archivistiche 30 Contenuto Raccolta di recensioni a opere di D. 1 "Gandhi"  Recensioni relative all'opera "Gandhi: pensiero ed azione" (Trento: Disertori, "Saggio di fisiologia del liquido cerebro-spinale"  Estratti e recensioni relativi al "Saggio di fisiologia del liquido cerebro-spinale" (Roma: Pozzi); "Encefalite"   Recensioni e articoli di giornale relativi ad alcune pubblicazioni di Disertori sull'encefalite Fascicolo, "Liquor" Recensioni relative a "Saggio di fisiologia del liquido cerebro-spinale" (Roma: Pozzi,"Sulla biologia dell'isterismo"  Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi a "Sulla biologia dell'isterismo" (Reggio Emilia: Poligrafica reggiana,  "Il libro della vita"   Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi a "Il libro della vita" (Verona: Mondadori, "Trattato delle nevrosi"  Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi al "Trattato delle nevrosi" (Torino: Edizioni scientifiche Einaudi, "Itinerari pitagorici" Recensioni e documentazione varia relativa all'opera "Itinerari pitagorici" (Trento: TEMI,  "Parapscicologia e ipnosi"  Estratti di riviste e articoli di giornale riguardanti la parapsicologia e l'ipnosi Fascicolo, "De anima"  Recensioni e ritagli di giornale relativi al "De anima: saggio sulla psicologia teoretica" (Milano: Edizioni di Comunità, "Mazzini filosofo"  Recensioni e ritagli di giornale relativi a "Mazzini filosofo: nel centenario dell'Unità" (Trento: TEMI) Fascicolo, carte  "Trattato di psichiatria" Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi al "Trattato di psichiatria e socio-psichiatria" (Padova: Liviana) di D. e Marcella Piazza "Pellegrinaggio in Egitto"  Recensioni e documentazione varia relativa all'opera "Pellegrinaggio in Egitto" (Venezia: Pozza,  "Timeo"   Recensioni dell'opera "Il messaggio del Timeo" (Padova: "Esperienza dell'India"  Recensioni relative a "Esperienza dell'India" (Vicenza: Pozza, "Personalità caratteropatiche"  Estratti di riviste e recensioni relative alla pubblicazione di "Le personalità caratteropatiche submorbose e tetratologiche"; con Marcella Piazza (Padova: Liviana, "Cronaca di un safari"  Recensioni relative a "Cronaca di un safari" (Venezia: Pozza, "La montagna di Vishnu" Estratti, recensioni e articoli relativi a "La montagna di Vishnu: taccuini di viaggio nel sud-est asiatico e nell'Uganda" (Vicenza: Pozza,  "La sfinge olmeca"  Recensioni relative a "La sfinge olmeca: note di viaggio in Messico e Guatemala" (Vicenza: Pozza,  "Trattato di psichiatria e socio-psichiatria"   Estratti di riviste, recensioni e documentazione varia relativa a "Trattato di psichiatria e socio-psichiatria", scritto con Piazza (Padova: Liviana; Contiene anche: dispense del Convegno nazionale di psichiatria sociale (Bologna, "Parkinson" Recensioni relative a "Fisiopatologia e terapia del morbo di Parkinson e dei parkinsonismi: contributo teorico ed esperinza con l- dopa" (Padova: Liviana, "La via delle perle"  Documentazione varia, tra cui alcune lettere, relativa a "La via delle perle: note di viaggio in Birmania, Borneo, Giappone, Cina esterna, golfo del Siam" (Vicenza: Pozza,  "Sfida al secolo" Recensioni e articoli di giornale relativi a "Sfida al secolo: la natura, l'uomo, il tessitore" (Padova: Liviana; Trento: TEMI) Fascicolo, "La stagione dell'infanzia"  Estratti, recensioni e articoli di giornale relativi al contributo "La stagione dell'infanzia" (Forlì: Cooperativa industrie grafiche)  "Luci d'autunno"  Recensioni relative a "Luci d'autunno: diari, taccuini di viaggio, saggi, poesie" (Trento: TEMI). Contiene anche  lettere di Piccoli e Demarchi "Il monolito dei fulmini" Recensioni relative all'opera "Il monolito dei fulmini: (note di viaggio in Sud America)" (Vicenza: Pozza, Contiene anche lettere di Prò e Condini; La tensione dell'arco"  Recensioni relative all'opera "La tensione dell'arco e il volo delle frecce" (Abano Terme: Piovan). Contiene anche: lettera con recensione di Capasso "Poesie"   Recensioni di poesie di D. "L'ombra eleusina" Recensioni relative all'opera "L'ombra eleusina: studi su l'arte e la cosmovisione di Annunzio" (Abano Terme: Piovan) Contiene anche: 2 lettere a Disertori di Lidia Ratti e della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani  "Sotto il cielo di Saturno"  Recensioni relative a "Sotto il cielo di Saturno" (Trento: TEMI). Contiene anche: 1 lettera a Di. Di Graffer Documentazione raccolta a fini di studio e relativa all'attività accademica , (con documentazione)  Unità archivistiche 13 Contenuto Dispense relative a studi, scritti e ritagli di giornale  1 Documentazione varia relativa al Movimento Federalista Europeo  "Cronaca su conferenze"  Appunti di Disertori per conferenze e articoli su argomenti vari; "Psichiatria sociale"  Dispense di psichiatria sociale relative a problematiche socio-economiche  "Criminalità" Dispense relative a criminalità, obiezione di coscienza, diserzione "Riabilitazione"  Dispense riguardanti terapie di riabilitazione Fascicolo, carte  "Stupefacenti, leggi"  Testi di leggi riguardanti gli stupefacenti Fascicolo. Dispense e documentazione varia relative all'attività accademica.  La documentazione è relativa ad esami e tesi di laurea. Contiene anche: alcune lettere di studenti a Disertori riguardanti le tesi di laurea. Fascicolo, carte  Relazione di Disertori e Marcella Piazza  circa Copie della relazione presentata al seminario di neuropsichiatria, psicologia e filosofia a San Miguel de Tucuman (Argentina) Attività in Sudamerica Raccolta di scritti di Pincherle   "Lavori neurologici"  Estratti di riviste e dispense relativi a studi di neurologia; Contributi vari relativi a terapie farmacologiche e note informative di case farmaceutiche  Miscellanea   (con documentazione dal 1904) Contiene anche: autografi di Annunzio inviati a Rovetta; scritti di Marcello D. e ritagli stampa con anche articoli sulla scomparsa del padre Marcello; manoscritto "Elementi di fisica per le classi inferiori delle scuole medie", compilato dai professori Vittorio Magnago e Arcadio Emmert Fascicolo, carte 150, volume 1 Beppino Disertori. Giuseppe Disertori. Disertori. Keywords: la tensione dell’arco e il volo della freccia, libro della vita (why do we live?), il messagio di Timeo, itinerari pitagorici, pitagora e aligheri – tensione dell’arco, volo – eraclito – platone – politeia di Platone – Grice on Plato’s Republic – plato carmide e la medicina – dell’anima – psicologia teoretica -- sul segno dell’uomo, de anima. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Disertori” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Dòdaro – il convito, ossia, tracce di un discorso amoroso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bari). Filosofo italiano. Grice: “Dòdaro is an interesting one – totally cryptic of course! It is as if he were Nowell-Smith, Austin, and Donne, combined into one! Recall Nowell-Smith’s challenge to Austin: “Donne is incomprehensible,” “He surely ain’t!”  Costretto a riparare a Turi per sfuggire ai bombardamenti. A Bari si legò a Maglione, Castellano, Piccinni e, assieme allo zio Silvio, prendeva parte agli incontri artistici e letterari del caffè-pasticceria Il Sottano (in quegli anni frequentato da Moro, Albertazzi, Scotellaro, Bodini, Calò ecc.), fondato da Scaturchio, e agli incontri di Laterza e del circolo La Scaletta di Matera. Nello stesso periodo conobbe Nazariantz, il quale rappresentò per Dòdaro una sorta di guida, fu lui, infatti, a introdurlo per la prima volta agli incontri del Sottano dove ebbe modo di stringere amicizia con Bodini, Calò, Scotellaro. Abbandonò presto Bari, tentando una prima fuga a Parigi, città in cui sarebbe tornato a vivere altre volte, prima di tornare a Bari per poi trasferirsi a Lecce. Altre tappe, prima del trasferimento a Lecce, furono Milano e Bologna. Divenne allievo di Morandi, presso l'accademia, infatti, prime espressioni della sua attività artistica furono la pittura, praticata per una manciata di anni, e il teatro, poi diluito nelle successive esperienze poetiche e narrative. Come pittore produsse alcuni quadri in cui all'informale materico univa le combustioni, applicate, di fatto: Verri riporta in suo intervento: arriva con la novità dei colori "bruciati". Di questo ciclo di opere faceva parte "Svergognato incantesimo di barca", che gli valse, successivamente, la segnalazione presso il premio "Il maggio di Bari". Prima del trasferimento a Lecce, lavora presso l'ufficio stampa della Fiera del Levante, a stretto contatto con Fiore, figlio di Tommaso, venendo influenzato dal meridionalismo. Sempre nel clima della Fiera del levante, strinse un ottimo legame con Tot. Al suo arrivo a Lecce riallacciò i rapporti con Bodini e Calò, oltre che con Suppressa, conosciuto in occasione del premio Il Maggio di Bari, entrò, inoltre, in contatto con quelli che sarebbero stati poi suoi amici e compagni artistici: Durante, Massari, Candia, Pagano. Ebbe frequentazioni con Bene e strinse importanti sodalizi amicali e letterari con Verri, Gelli, Caruso, il quale, in corrispondenze private, ebbe modo di rinominare la loro amicizia e collaborazione come il "sodalizio Caruso-D.". A Leccesi rese protagonista, con Candia, di un grande falò in cui i due bruciarono tutti i quadri realizzati fino a quel momento. Per quanto riguarda l'opera pittorica  "Svergognato incantesimo di barca", insieme a pochi altri, si salvò dal falò perché all'epoca custodito presso la casa dello zio Silvio. Dopo questo iniziale periodo di ricerca e sperimentazione, abbandona la scena artistica per circa vent'anni, anni in cui si dedicò allo studio intenso nel tentativo di scoprire il perché del linguaggio, rompendo il silenzio con la fondazione del Movimento di Arte Genetica con sede a Lecce, Genova e Toronto. Con tale movimento, rintracci l’origine dell’italiano o romano nel battito materno ascoltato in età fetale, teorizzando il romano o italiano come una congiunzione volta a rifondare la dualità dell’essere umano non un regressus ad uterum, bensì la coppia, la dualità, ovvero la dimensione originaria della comunione con l’altro e come lutto, annodandolo alla mancanza di Lacan. Il movimento si doterà di due riviste: “Ghen”, giornale modulare ideato da D. con sede a Lecce, e “Ghen Res Extensa Ligu” con sede a Genova e diretta da Mignani. L’idea del modulo come unità di misura sarà alla base della struttura modulare di “Ghen” oltre che della concezione dello spazio, mutuata sempre dagli studi sulla dimensione pre-natale, fino a sfociare nel manifesto "Incliniamo l’orizzonte”. L’italiano o il romano diventa una congiunzione, una dichiarazione onomatopeica in cui si alimentava il trionfo del lutto e la mancanza. L’orizzonte diventa orizzonte mediale: poesie per i treni, per gli altoparlanti e più in là romanzi in tre cartelle, romanzi su cartolina, collane spaginate, poesie e poesie visive da proiettare per le strade, poesie per internet, net.poetry, narrazioni su leaflet, romanzi da muro-narrativa concreta, romanzi di cento parole da pubblicare in store, nelle vetrine dei negozi. Al Movimento di Arte Genetica aderirono, o ruotarono attorno alle sue riviste e attività, un numero considerevole di autori provenienti dalle sperimentazioni poetiche e poetico-visive, performative, sonore, plastiche: Miccini, Marras, Mignani, Fontana, Munari, Fiore, Dramis, Perfetti, Pagano, Gelli, Noci, Greco, Lorenzo, Marocco, Massari, Miglietta, Center of Art and Communication (Toronto), Giorgio Barberi Squarotti, Toshiaki Minemura, Xerra, Sicoli, Souza, Alternativa Zero, Experimental Art Foundation (South Australia), Block Cor (Amsterdam), Genetet-Morel, Lepage, Martini, Valentini, Restany, Etlinger, Caruso, Verri, Miglietta, Nigro ecc.  Con la nascita del movimento di Arte Genetica, avvia una personale riflessione sull'oggetto-libro e le sue modalità fruitive, avviava il progetto "Archivio degli operatori pugliesi", per una catalogazione degli operatori estetici e culturali. Crea e anima «il centro di ricerca  (strutturato, nel nome, sulle coordinate della Classificazione Decimale Dewey, ad indicare i percorsi di ricerca: filosofia, linguistica, arte, letteratura), ospitato dalla Libreria Adriatica di Lecce, e con il quale coinvolge numerosi operatori del territorio (docenti universitari, il gruppo Gramma, il Centro ricerche estetiche fondato a Novoli da Greco e Lorenzo, il gruppo Oistros di Durante e Santoro, gli autori del gruppo di Arte Genetica da lui fondato ecc). Ha diretto la casa editrice Conte di Lecce, ha fondato a Lecce, il movimento letterario New PageNarrativa in store. La sua attività letteraria ed editoriale è  stata caratterizzata da uno spiccato senso per la formazione di gruppi e la ricerca di autori da lanciare, rappresentando sul territorio pugliese un autentico volano per operazioni di ampio respiro che andavano spesso a coinvolgere autori del panorama letterario internazionale. Idea e dirige una mole notevole di collane editoriali volte al rinnovamento dell’oggetto-libro, fra queste: «Scritture» (Parabita, Il Laboratorio), «Spagine. Scritture infinite» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) scritture di ricerca formato poster, spaginate, «Compact Type. Nuova narrativa» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) ovvero romanzi in tre cartelle, «Diapoesitive. Scritture per gli schermi» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) scritture di ricerca da proiettare, «Mail Fiction» (Caprarica di Lecce, Pensionante de' Saraceni) romanzi su cartolina, «Wall Word» (Lecce, Conte Editore,)tradotta in giapponese ed esposta all’Hokkaido Museum of Literature di Sappororomanzi da muro, ovvero collana di narrativa concreta, «International Mail Stories» (Lecce, Conte Editore), «Internet Poetry» (Lecce, Conte Editore) una delle primissime esperienze italiane di net poetry, «Walkman Fiction. Romanzi da ascoltare» (Lecce, Argo), «E 800 European Literature», in 5 lingue (Lecce, Conte Editore), «Pieghe narrative» (Lecce, Conte Editore), «Pieghe poetiche» (Lecce, Conte Editore), «Pieghe della memoria» (Lecce, Conte Editore), «Foglie nude» (Doria di Cassano Jonio), «Locandine letterarie» (Lecce, Il Raggio Verde), «Romanzi nudi» (Lecce) in unico esemplare, «Carte letterarie» (Lecce, Astragali), Mail Theatre (Lecce, Astragali), «New Page. Narrativa in store», (Lecce) narrativa breve, poi anche poesia e teatro, in cento parole, collana che guarda alla comunicazione pubblicitaria con i testi applicati su crowner, pannelli cartonati in uso nella comunicazione pubblicitaria, ed esposti in store, nelle vetrine dei negozi.  Nell'ambito della poesia verbo-visiva e del libro-oggetto, è presente in numerose manifestazioni di «Nuova scrittura»: Ma il vero scandalo è la poesia. Un salto di codice, Ferrara, Ipermedia; Attorno a noi poeti in gruppo, Strudà (Lecce), Ospedale psichiatrico; Dentro fuori luogo, Casarano, Palazzo D'Elia; Centro internazionale Brera, Documenti di gestione alternativa. Appunti sulla Puglia, Milano, Chiesa San Corpoforo; Artigianare '81, Lecce; Cercare Bodini, Bari / Lecce, Ab origine, Martina Franca; Parola fra spazio e suono. Situazione italiana, Viareggio; Le brache di Gutenberg, Caruso, Visco, Livorno; Far libro. Libri e pagine d' artsta in Italia, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Il segno della parola e la parola del segno, Milano, Mercato del sale, Breton et le poeme-objet, Ugo Carrega, Milano, Mercato del sale, Le porte di Sibari, Sibari, Visibile Language. Numero speciale sulla poesia visuale. Sezione Italia, E. Minarelli, USA; Cartoline d'artista, Livorno, Belforte, Terra del fuoco. Intersezioni per Adriano Spatola, QuartoNapoli, La parola dipinta. Rassegna di poesia visuale, Belluno, Comune di Gallarate Civica galleria d'arte moderna. Casa d'EuropaSede di Gallarate, Pagine e dintorni, Libri d' artis ta, Gallarate,L. Pignotti, “La poesia visiva”, L'immaginazione (Lecce), S-covando l'uovo, Firenze, Terra del fuoco, QuartoNapoli, Musei Civici di Mantova, Poesia totale. Dal colpo di dadi alla Poesia visuale. Mantova, Sarenco, Palazzo della Ragione, Archivio libri d' artista. Laboratorio, G. Gini e F. Fedi, Milano, È presente in Musei, Biblioteche, Archivi. Tra i più importanti: Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze“Libri e pagine d'artis ta”con l’opera Mar/e amniotico, 1983; Galleria d’arte moderna di Gallarate, con le opere Mourning Processes. The word, e Processi di lutto. Notizen: dis; Museo S. Castromediano di Lecce, con l'opera Matram psicofisica, Archivio Sackner, Miami Beach, e Archivio Della Grazia di nuova scrittura, Milano, con varie opere; Hokkaido Museum of Literature, con la collane “Wall Word”, nteramente tradotta in giapponese; Imago mundi-Visual poetry in Europe (Fondazione Benetton, ) ecc.  Altre opere: Dichiarazione onomatopeica (Lecce); Progetto negativo (Lecce,); Disianza Congiuntiva (Livorno); Disperate Professore (Parabita); dis/adriatico (Caprarica di Lecce); Tracce di un discorso amoroso (Caprarica di Lecce); Compact Type. Nuova narrative Con Verri, (Caprarica di Lecc); Sconcetti di luna (Caprarica di Lecce); Mail Fiction. Free Lances Con A. Verri(Caprarica di Lecce); Navigli (Caprarica di Lecce); Void Fiction (Sibari,); Street Stories (Lecce)tradotto in giapponese(SapporoJapan); Parole morte. Dead Words (Lecce); L’addio alle scene (Lecce); Antonio Verri. Schegge del contestocon M. Nocera (Lecce); 18 i titoli pubblicati su leaflets (Lecce), 16 «Pieghe narrative» e 2 «Pieghe poetiche»: “Pieghe narrative”: Vento, vento, I colombi della clausura, Il figlio dell'anima, La Balilla, Graziato, Il monumento, Dove volano i gabbiani, La mimosa, Ricordanze zigane, Franco, Cocker, All'ombra del grande vecchio, Reparto «P», Il tradimento, 27 marzo, L'esame. “Pieghe poetiche”: Rosa virginale, Il solista; Dichiarazione d'innocenza (Lecce); 7 i «Romanzi nudi», titoli in unico esemplare (Lecce, Dis, Era d’autunno, Il falò, L’Objet trouvé, Silenzi, Why, Ballata migrante, Uscita in marasma (Lecce); Di viole. D’incanti. Astragali teatro (Lecce ); New Page: In un bosco di frammenti (Lecce), La parola tramava (Lecce); Le prime notti stellate (Lecce) interrogatorio violento (Lecce, ) I suoi ramaggi (Lecce, ). Grigiori dell’anima (lecce, ), Di un solstizio d’amore (Lecce, ), Maria la magliaia (Lecce, ), Teresa. L’Altrove, (Lecce, ), La mer. Ma mère (Lecce, ), Una notte senza stelle (Lecce). Le distese di grano, (Lecce), Gastronomia da asporto (Lecce), Una sua lettera (Lecce), Trincee matricali (Lecce), Compagno d’accademia (Lecce). Tra i gabbiani (Lecce), Cioccolatini di Chicago (Lecce), Cantata duale (Lecce). La tromba dell’altrove (Lecce), Il nipote violoncellista (Lecce); ‘Operatori culturali contemporanei in Puglia. Archivio storico divulgativo, Lecce); “Ambivalenze genetiche”, Ghen (Lecce) ora in “Genetic Ambivalencie”, Art Communication Edition, Toronto-Canada) “Links”, Ghen (Lecce), “Il complesso di Edipo e quello di Caino”, Quotidiano (Lecce); “I processi di lutto. La Weltanschauung ghenica” in, La parola tra spazio e suono. Situazione italiana, Viareggio, “Codice yem: le origini del linguaggio, ovvero la rifondazione della coppia”, Ghen (Lecce) (ora in Regione Puglia, Creatività e linguaggio. Atti del Convegno, Maglie); “Dis-astro”, in A. Massari, Dis-astro. Loos, Lecce, “L’area inter-media”, in F. Gelli, Transitional Objects. Mutter Fixerung, Lecce; “Ipotesi interpretativa del fenomeno droga, formulata da una coscienza che opera nella poetica. Della scissione. Della prevenzione” in Tossico-dipendenza: progetto di lotta per gli anni ’80Centro studi giuridici M. Di Pietro. Convegno. Lecce; “Mater externata”, in L. Caruso, Mater: poesia. Madre e signora dell’acqua, Lecce; “Lontananze genetiche. Ad cantus enclitico”, in Manifesto mostra gruppo Ghen, Milano; Progetto negativo, Galatina (ora in Ab origine. Presenze pugliesi nell’arte contemporanea, Roma-Bari); “La letterarietà di Caruso”, in E. Giannì, Poiesis: Ricerca poetica in Italia, Arezzo; “La poesia totale di Spatola. Il convegno di Celle Ligure”, On Board, Lecce; “Wall Word: parole da muro, romanzo da muro”, in F.S. Dòdaro, Street stories, Lecce; “Dodici haiku. Dodici punti di rilevamento”, in E. Coriano, A tre deserti dall’ultimo sorriso meccanico. Three deserts from the shadow of the last mechanical smile, Lecce; “Una pagina diversa, up to date”, in Pieghe narrative, Lecce; Schede d'arte contemporanea. Implicatura e Mappatura schedografica degli Autori contemporanei, Lecce; “L’ampliamento della flessione”, in Archivio libri d’artista. Laboratorio 66, Milano; “Le anime narranti di Alberto Tallone”, in Tallone. Manuale tipografico, Alpigiano (Torino), New Page (Lecce); L'ortografia è morta. L'apparato pausativo, in New Page (Lecce). Francesco Aprile, Già così tenera di folla, in Intrecci, Napoli, Oèdipus,  Edoardo, un cavaliere senza terra, su bit. Antonio Verri, Edoardo, Un cavaliere senza terra, su bit.  Francesco Aprile, Poesia qualepoesia/06: Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce, su Puglia libre, Testi di teoria letteraria/editoriale, su utsanga.  Archivio di nuova scrittura, su verbo visual virtuale.org.  Cantata duale, Imago mundi-Visual poetry in Europe, su imagomundiart.com.  Antonio Verri, Una stupenda generazione, SudPuglia, Antonio Verri, Edoardo, un cavaliere senza terra, SudPuglia, Aprile, Già così tenera di folla, Napoli, Oèdipus,  Francesco Aprile, La parola intermediale: lineamenti di un itinerario pugliese, in Aprile F.-Caggiula C., La parola inter-mediale: un itinerario pugliese, Cavallino, Biblioteca Rizzo,  Aprile, Fra parola e new media, in Aprile F.-Caggiula C., La parola intermediale: un itinerario pugliese (atti del convegno), Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo,  Cristo Caggiula, Intersezioni asemiche nel movimento di Arte Genetica, in Aprile F.-Caggiula C., La parola intermediale: un itinerario pugliese, Cavallino, Biblioteca Rizzo,  Visual poetry: A short anthology, in utsanga, L'ortografia è morta. L'apparato pausativo, in utsanga, Testi di teoria letteraria/editoriale,  Codice Yem, le origini del linguaggio: ovvero la rifondazione della coppia, in utsanga, Letterarietà di Caruso, in utsanga, La poesia totale di Spatola/Il convegno di Celle Ligure, in utsanga Francesco Aprile, Il rapporto Dòdaro-Verri attraverso la critica, in utsanga Francesco Aprile, Dal modulo all'internet poetry, in utsanga, Aprile, L’Arte Genetica, in utsanga, Aprile, New Page: Narrativa, Poesia, Teatro, Scavi in store, in utsanga, Aprile, New Page: la poiesi come approccio etnografico, Cavallino, Biblioteca Gino Rizzo, Aprile, New Page, collana di critica letteraria, Sondrio, Edizioni CFR,  Intervista a Vincenzo Lagalla, Francesco Aprile, in utsanga Lamberto Pignotti, Introduzione, L'addio alle scene, Lecce, Argo,ora in utsanga Lamberto Pignotti, Rebus, iper-rebus. Parole da vedere, immagini da leggere, in utsanga, Caruso, Frammento, in utsanga Julien Blaine, Omaggio alla "O" in Francesco Saverio Dòdaro, in utsanga Ruggero Maggi, Dedica, utsanga Alessandro Laporta, cercarlo dove non appare, in utsanga, Mignani, Ghen against again. Risarcimento dei supporti o della signatura dei segni, in utsanga Egidio Marullo, F. S. Dòdaro. L'ultimo mentore, in utsanga  Omaggio, in utsanga  Cantata plurale, materiali 01, Caprarica di Lecce, Utsanga.  AP01-L0T30R0   g lift rhe mi domandate, U-»   [U quello che « svista, mi   Inon son pre molto ch’io mi   trovavo a risali   Filerò, in città-, ed ecco, . j.^^-jania da   staimi riaonosctoo J d.=«o ^ ^ H,,e-   ’ 1 fu/rirt™ 't-irràT ,t   punto poco fa, che ^ guita tra Agatone   contarmi la conversazione seg  e Socrate e Alcibiade ® ‘j discorsi, sai, di  allora parte al convito ^S)> ^ perché me gli  Amore; o che vi si disse C ^ ggntiti da Fe-  rapportati un altro che g detto che   nice, figliuol di Filippo (7)>    B  Convito    li conoscevi anche tu. Ora, egli non nii  dir nulla di chiaro. Sicché ridimmeli tu  tu sei proprio quello a cui si conviene rifèr’'''^  discorsi deir amico tuo. E per prima cosa, '  mi — domandò — a quella conversazione t-r; Ed io gli risposi : — Si vede davvero, che di¬  te ne ha fatto il racconto, non t’ha rapporta/'  nulla di chiaro, se tu credi che la conversazióne  della quale mi chiedi, sia succeduta da poco  tanto che io ci avessi potuto essere. ’   Ma si.   0 come mai, Glaucone, — dissi io ; — o non  lo sai, che sono anni parecchi che Agatone non è  più tornato qui? Mentre da quando io ho dimesti¬  chezza con Socrate,' e ho fatto mia cura di sapere  giorno per giorno ciò ch’egli fa o dice, non  sono ancora passati tre anni: Prima giravo a  caso di qua e di là, e immaginandomi di far  qualcosa, ero l’uomo più misero del mondo,  non meno di te ora che credi di dover fare qua¬  lunque altra cosa piuttosto che filosofare.   E lui — Non celiare, — disse: ma dimmi:  quando ebbe luogo quella conversazione?   Ed io Mentre eravamo ancora ragazzi —  risposi quando Agatone vinse per la prima  solta nella gara della tragedia, il giorno dopo  e ie egli e i coristi celebrarono il sacrifizio di  ringraziamento (8).   Un gran pezzo, dunque, si vede. Ma chi  'Socrate stesso?   B niVff-' ^ ~> “ 1“cl medesimo che a Fe-  un certo Aristodemo, Cidateneo, un omet-    73    29   !h“”"   ^ adatta a a‘s _   in t^'^'' ’ „ ai auei discorsi, C   ““'?'cosi »»'!»”■“> ''"'“rircipio, "O" P"?.   f. com« 'i'“''° "' ’^" t nUssario che io h   siccità’ Se duirque ta ^, >50 quanto   alla sprovvista. Cli 'O.! fuor di misura; ment q gente   1 discorsi, e in ispecie a e, me. e   ; acca e d’affari, e 1. ne ru ,   1 sento compassione ,,uUa. E forse,   pare di far qualcosa 1 gtimate me uno sfor-   c>»-.-"*jtrc-cdi«e il vero-, ,e  lunato; e credo, c ^-«do ma lo so.   non die io di voi non lo credo, ni   amico dici   Sei sempre lo stesso, Apollodor ^   sempre male e di te nic esimo ^^iseri, da  par propriamente, die tu £ di dove   :ratciii fuori, conlinciando * • io   ti sia venuto il soptamm ^osi   dnvvero ; ma cer       50    Convito    ne’ discorsi; aspro con te e coa-1! .   .... fu-    con Socrate. " ‘“'o fuorci,(, ^   APOLLODORO   E Già s’intende, carissimo; perchè ia  e di me e di voi, sono furioso e deUro^*”  AMICO   Non mette conto, Apollodoro, qugsj-  ora di ciò; però, quello di cui t’abbjan°”'"-‘^  chiesto, fòlio e non altrimenti, ma raccontac'i T  discorsi si fecero.     II  APOLLODORO   Furon su per giù di questo tenore. Ma piut¬  tosto (9) mi proverò a raccontarvi ogni cosa dal  principio, come quello fece a me.   Egli, dunque, mi raccontò, d’essersi incontrato  con Socrate, lavato (io), e anche calzato, cosa  che a Socrate non succedeva spesso (ii); e  d avergli domandato dove s’avviasse così rim¬  bellito; e quello gli rispondesse: A cena da Aga-  Olle. oiche ieri a’ sacrifizi del ringraziamento  0 scansai, per paura della gente; ma gli pro-   son ^   d» un bello Ma'em'   è il tur, r- disse, —che sentimento   tato? (12) mudare a una cena non invi-   ^d m — disse ..* .   vuoi. '•sposi: Quello che tu   perchè noi’si mm? fiFtese — anche   proverbio, sicché dica che      buono P^r guerriero, C   ”? aue«o '»■=“" ,otetò il ré*'»'"^ ^he io, Socrate, cor presentarmi,   f»"''“£i,.» “"’= “Tcinvuó di un ,a-   ‘r;.«ona di P““.““°,ó- Guarda tu d,e m. D  uomo, non mvi^ ^hì;, quanto a  *0^,6 rveici non inviuro, bensì   italo da te. __ ^^nsuUerem V »»   ,::t:;tdi'ci6 “he .«=0,0 , dire, su, an-    III   Scambiate che si furono queste  narono. ' Ora, Socrate ^soenava,   siero, fermandosi per istrada, ^ ® che   gli ordinava di andar pure innanzi. trovò   quando fu giunto alla casa di Aga o ,   aperta la porta, e gli venne”incontro   caso ridicolo (i6). Perchè gh ^   Un ragazzo e lo condusse dove e »     32 . Convito i   giacere, e ii colse, che stavano per nf-  cenare (17). E appena Agatone T j   disse : O Aristodemo, tu arrivi in punt°°^ '"'sto  nare, s’intende, insieme con noi.  venuto per qualche altra cosa, rimettila  Anche ieri t’ho cercato per invitarti ^  m’ò riuscito di vederti in nessun luogo (ìst  come mai non ci conduci Socrate? '   Ed io — disse — mi voltai addietro e non • •  in nessun luogo Socrate che mi seguisse; Si  risposi che io ero venuto appunto con Socrate  invitato qui a cena da lui. Hai fatto bene — ripigliò Agatone, ~  lui dov’ è ?   Dianzi, egli era per entrare dietro a me - 0  dov’è? Son tutto stupito.   Ragazzo, o non t’affretti a guardare,—riprese  Agatone — e non ci meni qui Socrate? e tu, Ari¬  stodemo, dice, sdraiati accanto a Erissimaco,    E, mentre il ragazzo gli lavava i piedi (19),  perchè si mettesse a giacere, un altro dei ragazzi,  raccontava, tornò annunziando, che questo So¬  crate, ritiratosi nel vestibolo della casia accanto,  se ne stava li fermo, e per quanto lui lo chia¬  masse, non era voluto entrare (20).   0 che strana cosa tu dicil — disse Aga¬  tone. 0, dunque, non lo chiami da capo (21)  e non seguiti?      Ma nientaffatto  lasciatelo stare.    — riferiva d’aver detto; —anzi  Perchè lui ha quest’usanza-;             33    D    dovunque si trovi,   ..•'‘“‘ira («"’" Ja las»»“'° ripresa   1» "’fs"-» » 1 dStènoùUsi. iP»:   ■“ M» "'’ÈbbePe.«Sf he vói volete, gi»e*“   tg»'°"'=7urittura ?rleervi-, il dte io «on   siedili fate COMO   ìSSU’’^’ . epoi mai • invitati da voi,   'C’ppe»” *'T *S°ve 11- eSble»" a l°to'-   ìttateci iti ssi principiarono a   c, raccontava, ess p ^„atone pm   ^ m Socrate "°^X'"socrate, ma Aristo-   è 'r^ór óhft.ie.ilopo «hmd»S‘“   .oaonlope™'* ,„a ,emte; s era   tanto lungo, con ^ Aratone- si.   che a mezzo della . Qua, So¬  piva solo a giacere ti ^   e _ disse idea sapiente, che   vXlo; giacchi. ^   ?::róhtóvó.a,euti-ip™'"'““"”   " mosso. ^ S.,rebbe pur bene, — dis-  • Socrate sede, e — Sa V  -Agatone , se la saptcì .   rete dal più P''™ t ,ei Wechtol l’«‘l“i'r  tdo ci tocchiamo; come p,u   „„ filo di latta, scotte ^ P'“ ^ j rosi, io  0 (,4). Chi, se 1'“'’= “*: forchi di molta  ;o molto lo starti a ’ ^jj,|,j,pito da te.  Ila sapienza io sarò, pcn sarebbe   tti, la mia, quando j. siccome un so-   -hina c disputabile, g'^c rigoglio la   mentre ò splcmhda e pien, ^   1., ITONE, Voi. /-Vt    Convito   tua, che da te ancor giovine ha sf„i  COSI gran Juce ed ha brillato diana^'® co  pm d. trentantila Elleni per testiSo?'*   Tu sei un impertinente, Socrat ^’ 5 ). ‘  Agatone; —se non che questa dell^. f'^Ose .  quistione che decideremo anch’essr  qui a poco (26), prendendo Dioniso^”  ce (27); ora, per prima cosa, mettif^'^'^   “ a cena.  Dopo ciò, raccontava, Socrate si mettessi-  giacere ; e quando lui e gli altri ebber finito a -  cenare, facessero le libarioui, e cantato l’innò  all Iddio, e compita ogni altra cerimonia ('28') si  voltassero al bere; ma qui Pausania principisi  a parlare in questo tenore:   Bene sta, amici — disse — come faremo a  bere fi p,u a comodo? Io vi so dire in ve-  ità che mi sento molto aggravato dal bere di   cri.*' "POSO, e cosi,   vate ’ ’ g'^^chò jeri ci era-   bere •! in che modo potremmo   bere fi pm a comodo.   bene rispose : — Di ciò tu dici certo   nel bere"“''"'^. ‘comodità   •li jeri ' vocile io sono degli annaffiati   ^euiiieno ^^“tito Erissimaco figliuolo di   uùa cfsf ~ bene davvero;   si sente in fnr,,'”* ‘f°gna sapere da voi, come  per bere Agatone?     c    neanclie io   ^rispos^^' ^   f““^oC.„.„--rep«‘'>®Sre’p«   (tra» per me e po ne   una . ^„3tra, P .entissrmt ne   rci''’^ • se v°' ’ ' } • ntianto a nor > „   ci alto. perche, q^t^n ^i m   t strac"'''Socrate e aU’altra,   :>:rradatto ^'7:,n."to, delP-i,  si chiamerà dunque,   li arante^ o 1 altra. • g-i senta vogha   ? a eh nessuno tie’fcse^   Olfo vi.», ? r*= sia vai.™- ^   * ° aire la medicina La ta«o   %5lS'3sri-"   giorno innanzi. j^pse Fedro   acanto a me, " di obbedirti,   prendendola parola   massime, in . ;';^bediranno anche gh altri,   medicina; ma ora ti odo  se si consigliano bene. unti di non   Sentite queste della lor rm-   fare dell’ubriacarsi il ^ piacere ( 29 )’   nionc, ma di bere cos   VI   ^ poiché s’e   Or bene, - ripigliai ^'"'^^'"Jo^.pole, e non a  deciso che ciascuno beva q _ pp’ altri   sia nulla di forzato, fo dopo proposta; cd è che si congedi la son •  trata or ora; lei suoni per conto suo"^''®  piace, alle donne di dentro, e noi si n’ °  il nostro tempo a conversare. E su qn^p  getti, se siete contenti, ve lo proporrei•’   AI che tutti diceva acconsentissero c 1°'  tasserò a fare la sua proposta; sicché Eriss'  riprendesse: II principio del mio disco^r!  conforme alla Menalippe di Euripide (30) • h >  non è mia, bensì di questo Fedro qui, la /  che son per dire. Fedro, di fatti, se'ne lag  sempre meco. Non è intollerabile, dice, 0 Eris''  siraaco, che ad altri Dii si sian composti da’ poeti  inni e peani (31), e all’Amore, che è cosi antico  e cotanto Iddio, nessun poeta mai, di tanti che  B ce n’è stati, abbia composto un elogio; aiui  se vuoi guardie a quei bravi sofisti, scrivano’  si, gli elogi di Ercole e di altri eroi in prosa  per esempio l’eccellentissimo Prodico (32); è  questa è anche meno da stupire, ma io stesso mi  sono g.à imbattuto in un libro d’un sapien-  l’mTfA’ lodato soprammodo per   c drpcV simili cose tu ne ve-   conto 'Tiolte.(33). Fare un cosi gran   al mond ^ l’Amore, nessun uomo   <i“esto inneggiarlo fino a   così! (ir') n ' Uu tanto Iddio trascurato   «n ragione ’ Fhk^   ^'PPosgio (36) e\l'l"’-'°   „ P‘*'’e, che nelli „ ^ ^ ‘ e insieme mi   ''°1 che siamo occasione s’addica, a   . se pare eli l’ecidio. Sic-   =>nchca voi, c’intratterremo   Erissi"'^‘'°;rLrto l^on ti direi di  ó»®.ri»' Ù™^™ì di niente   sostengo di «ot j, Agatone c   ® ,U amore U?-» .-^„fone.    t,e sostengo u. . . ^gaiuL^v- -   ^ '°’ fi di cose di Vende, Aristofane,   ! e neanche, /,8), nè alcun altro E   Mutto Dioniso e A to 1 ^^unque la par¬  afa io vedo qui. f Jo l'ultimo   CsiaP-VP-ritrimi avranno detto    ,.tiPlU Clic . Ug auDiuiiw   ;’n.« rie peri P« iranno detto   nsto- se non che, _ , Su via, con   bbastanz» oa (S)’   ,uona fortuna C39;> P   'Amore. . assentirono tutti, e fe-   A ciò anche gh Però, di tutte   cero lo stesso invito di Aristodemo si ri-   le cose che omscun > „,ia, di   cordava appuntino, t° P_^ P^^   tutte quelle che npet* _ ' ehe a me parve   di memoria e i discorsi d quelli c  fossero tali, un per uno (.qOA    178    VII   discorso di FEDRO   , a-,co raccontava che   E per il primo, come dm ,   Fedro cominciasse a un n maravighoso tra   grande Iddio fosse l’Amore, e mar        3 ® • r*   Convito   gli uomini e tra d;:   7 '“   B 1 essere tra i più antichi T la- g’AMORE ni vi sono, ni si citano j, ''S'"itotì di  nè prosatore nè poeta; Està  prima fosse il Caos, dice,    nni I ^ terra   Dal largo petto, d'ogni cosa sede'  In eterno sicura e Amor.    Afferma, che dopo il Caos queste dn.  nascessero, Terra e Amore. Pannenide  che la Generazione Pnraissimo l’Amor di tuttiquanti  Iddìi pensò.  con Esiodo s’accorda Acusileo ; da tante   i'chiss°“''''"'- antichissimo.   Antichissimo, poi, com’egli è. ci è causa dei   nulfa^dr ’Op eli certo, non so   di un appena giovine giovi più   diunorr”!-^^' ^ all’amante   viro di tri ^^PPoichè ciò che deve ser-   '’ene Qiip f * intera vita a chi sia per viverla  la ricchezza” Parentela, nè gli onori, nè   benencll’nn* ^ "'ont altro può insinuarlo cosi  tiuesto? La'”° come l’Amore. Ora, che è egli  'azione nei brutti, l’emu-   * nè privato qualità nè    C‘tlà nè privato • ' v—*.. «u,. ijuam.i *>   c belle Opere pui S^ado di compiere grandi  i o ' ac è tróv affermo che un uomo   ^ *°"crarla da ^ qualche brutta cosa  ti senza difendersi per vi    hcri«.''° ^ dagU amici nc n^c-   che egli soprattutto da E   li^ ,/da ^i-U’amato, che ^ Q^to   vediamo neh , d esser   feria' Pantano, n.i Sechi:, se aie«   > ‘" vi »'*   '(•«f ts. P"*» Ji »"»>•;.   iiez^a esercito si c P modo di reg   T^’non ci i-orc di quello di co-   n uS»‘“‘‘"tre I Sauendo gli   11 ” ' i;c=r;bbcro, s.o pe, dire,   li accanto a„ ^mjni tutti quanti ( 44 )-  Idre in ponW S'' esser sdsro disertsre   i,è un nonio che * ’/.e'» lo ammetterebbe   Vsr» » * he eWrrrrriue nitro i   1.,,. persoir» "direbbe morire più volre^   ; prima che questo, ^ in un pencolo   I serro, «bbnmlo"«r^„"„” „ ehe   aon dargli ajuto, no .^g^be d’un divino   l’Amore di per se P di pm va-   spirito di virtù da che Omero B   lorosa indole (46). E, coraggio m   dice (47), nvere un Idd P^ ^p,,ato   taluni croi, questo 1 An  da lui negli amanti.   Vili   fi sono disposti a  E si, che soli . 8 " “"Xe uomini, r"»”*'’  morire per sli-^i"?''^'’testimonianza, quanto  le donne. E di ciò ( 4 ^) ‘ ,-,inla di Pelio, che  basta, agli Elleui Alceste Sglmola  C sola consenti a morire per il marito s  pure aveva padre e madre; i quali essa, pe°f  d’amore, tanto superò nell’affetto da farl-°*^^‘^  rere estranei al figliuolo, e non appartenen  lui che per il nome. E per aver compiuto a ^  st’atto, parve n’avesse compiuto un cosi bei['  agli uomini e agli Dei, che, avendo pur niohi  compiuto molti e belli atti, ad assai ben pochi det  tero gli Dei quest’onore, di ricondurne quassù  l’aninia daH’Inferno, ma la sua la ricondussero  D compiaciuti dell’atto suo. Tanto anche gli Dg;  pregiano sopra ogni altra l’osservanza e la virtù  di Amore (49). Invece, Orfeo, figliuolo di lagro,  lo rimandarono via dall’inferno a mani vuote  mostrandogli un fantasma della donna per la  quale era disceso, anziché dargli questa stessa,  poiché, come un citaredo che era, s’era chiarito  di animo molle, e gli era mancato l’ardire di  morire di amore come Alceste, anzi s’era ingegnato d’entrare vivo nell’inferno. Sicché per  questo gl’inflissero una pena, e lo fecero mo-  E rirc per mano di donne (50); in quella vece  Achille, figliuolo di Tetide, onorarono e man¬  darono alle isole de’ beati; perché egli, sa¬  puto dalla madre, che, se avesse ucciso Ettore,  sarebbe morto, dove, non uccidendolo, avrebbe,  tornato a casa, finito vecchio i suoi giorni (52),  80 osò prescegliere, andando in ajuto a Patroclo  amante suo e traendone vendetta, non solo mo¬  rire per lui, ma soprammorire(53) ^ lui già uscito   * causa gli Dei, soprammodo   anci essi compiaciuti di lui, l’onorarono partico-  rmente, perchè egli aveva tenuto in cosi gran       Conv‘‘<’ racconta fia-   Bd Escbf "^\„,ante di   i o^di Patrono era  te?'®? col d>*’‘=’ non solo -j^n.   :!^àoi^^\fdcgy^ ^ZXo^to, come dice   %eUe> giovi»® ^Lhe‘-llE>cio»o’'^”°   :> “ AMARE ; per6   0""°‘n arato >1“““ „uage dell’amante, an   :.3"‘ ''“mv *0 a f   r»“''”ri 17) E P« “? Setok de’beati.   - » S^te^idS   ret ato e in morte W).   Di questo tenore /“ùssero termi altri ehe  „. , dopo im ei li saltando recr-   ,sìrieordav.gran ta m. ’.j^„,l, dicesse,  a il discorso di t'ausa    oisoonsQ m    DlSCUi<e2>v   \ e ci si sin   lon bene, o Eetoo- ^ P-'J,èssere  ,osto il soggetto f ^ i,re Amore. Foi  plicemcnte invitati ad elog^^^^^e bene , ma  %e l’Amore fosse uno^^^ ,gU uno,   0, e’ non è uno. or ,    n    lSi    Convito   coiivieii meglio dire prima qual^ i •  amndi io „,i sforzerà a corregge^  cloanrc quale Aurore bisogna lodare P-i»;  ,n erodo degno dell'Iddio. Perche ,m’,f‘“"•d.  che Afrodite non è senza Amore PP'=''^o  fosse una, uno sarebbe Amore-  due C6o), anche due è necessità che ^  siano ( 60 . E come non son due le De ?  più antica e senza madre, figliuola di Ciel„  appunto nominiamo celeste - l’altra  da Giove e Dione, che appuntò chiamTainr^l  gare (62). Quindi, è necessario, l’Amore J  deU’una, chiamarlo a buona ragione volcrare ^1°  leste l’altro. ^   Ora, gli Dei si devono bensì lodare tutti (6A-  pure, ci si deve provare a dire le qualità sortite  da ciascuno dei due. Imperocché (64) ogni  azione ha questa natura; di per sè nè buona è  ne cattiva. Ciò per esempio che noi facciamo  o il bere 0 il cantare o il discorrere, son cose  di cui buona non è per sè stessa nessuna; ma  ne -tra, per il modo com’è fatta, riesce tale;  perche fatta bene e rettamente diventa buona,   così appunto l’amare  im ^ buono c degno d’elogio;   quello che bene incita ad amare (65).    L’Amore,  veracemente   •icello con cui    ^ veracenii  quello CC   IL    X   adunque dell’Afrodite volgare è  vo gare, e opera a caso; ed esso è  amano gli uomini abbietti. Amano      cUc i S'O'.   iricoo 1*^ ^ piuttosto I   costo^°''%i che più stoUa-   c P‘='^ ^àrdavtdo che a sod-  o non ng^'^^'^Xintenù. Onde   Dtr' i,e P°^^°\orc, se V occasione,   sen'-"'’"'^ ,cUo di cn' ' il contra-   fa"”®’ //>! ^Perocché es ^p\\’altra, e   p.<-   oca ( 67 ) „„iH nascita sua celeste da   contro >’A'".“'%Tfe«,mto, .00   ■"“t'p * "“"tési" 0 poi   cruna e „,aschio (68) > P appunto si rivol   5°"'"'° li lascivia ( 69 ) •• prediligendo   "““dtscl.io 8Vispi.“^Tme8'lo «lofo   , fc per natura pw forte  iigenaa. ^ ^l'^^^^rnte riconoscere jelh   ‘T afooo® i,c“oaiotcn- 1>   t®""' “Scindono gii “'"“?„'lata.'>r>-   “ Sfitto,SO«g.-J»;jSrrro««»   pcchò q»o»i. frisoUtto 0 ot»«   ad amare, sono P““""„„„,e l’intera '.to.  col tancinllo e vvere n co orto   e non gii,dopo «'f»;»;” “óra di senno ,0.  come giovine, co P uotsi di corsa  prendersi beffe di 1». = 'ol ,,,o, fan   altro. Vi dovrebbe ““'' "on fosse i" «“ *   cMli non si amino r afffncbl n^^,,^ ^ a   cosa spesa di mo ta cuta^ P .poanto a ' "0   fine dei tandnlli dove 6»“ ’ ora. >   e virtù d’animo e d. corpo         Convito   mettono essi questa legge a sè  proprio volere; se non che bi‘sogneS‘ lor  cotesti amanti volgari, come appunta  ,82 il pm che per noi si possa, a non .  libere (73). Chò essi son quelli  volto l’amore in vituperio, tanto che tal  dire che turpe cosa sia il gratificare T  ti C74). E dicon così, avendo l’occhio V  di cui vedono l’intempestività (75) ed  poiché, di certo, nessun atto compiuto ordin  mente e conforme alla legge potrebbe co.rrT  gione arrecare biasimo.   E appunto la legge, che governa  1 amore nelle altre città, è Exdle ad intendersi    poiché nei! concetto uno solo ; ma qui varia. Dappoiché nell’Elide e nella Beozia e    dove non sanno ragionare, unica legge è questa  che é bene gratificare gli amanti, e nessuno^  nè giovine nè vecchio, direbbe che sia male ; af¬  finchè, credo, non abbiano a durar fatica a per¬  suadere i giovani con ragioni, inabili come'sono  ^ ragionare (79) ; invece, in molti luoghi di Ionia,  c m molti altri è riputata cosa turpe, tra quelli  lutti che son soggetti a’ barbari (80). Di fatti,  Ira 1 arbari, per ragione delle tirannidi, si reputa  ^ turpe questo, e così ancora ogni studio di sapienza e di GINNASTICA. Poiché quivi, m’im-  giova a chi governa, che si gene-  o alterigie grandi nè amicizie   d’offnt g^giiarde, quello che, non meno  prattuttn l’Amore so-   ’^sperienzrfirr^^^' ii^parato per   ini anche di qui; chò l’amore di       45   ^ -.rnona- Cosi dove   disciolse la lor sig ^^^^fjcare gli  salda, di cosa sia il g ^,.^,,c7.^a   r SSo delUsoverchlena   jiriaa^'’ ' l’hanno effemminatezza dei   dei quella vece, dov^_ a   sia in ^n«n V.cposto hanno (84)-   "fo di quelli che cosi dispo^ p.,   bella, e com   XI   I,uperocchè (85) chi   nJii bello r amare aper ottimi,   :s„!esop„«»«o>£frs C 80 -. e   ancorché sieno pm cabile incoraggia-   "altra parte, chi -a nqualcosa   mento da tutti,un innamo-   dibrutto; c che il co brutto, e la   rato par bello, non cO q lode,   legge ha dato licenza a chi j quah,   ;?ndo sia per conquistar^ ;«^\,„que altra   chi osasse fare per correr raccoglierebbe   ca da '“'dfppoUtó, s= P“ ''^   i maggiori biasimi,-•• , q q averne u   di cavar denaro a qualc^'^J^ ^solvesse   fido (90) o un altro g^Jo I 9 amati, 1   a fare quello che g > un  quali nelle lor richieste ‘ dormite sulle   implorazioni e giuramenti C 9 i)   ), e servono "" '   servo tollererebbe serv,v   ^ dagli ann-ci e’daC,'''  sua adulazione e abL ‘^“elli vJ  monendolo e arr^ ^“'^'ezione fq.x '“Petatid!   f-- «li cosrreT"'' “«*= .?«>-   «li i- P=rn.«„ Sr,^   «me a q„dIo che effetti L '   ^«to. E il pii, tecribile“"r'"“ '"“S  a meno dice )a geme, s„,o J,,? “”' 'l«, co».   gli_ Dei perdonano, se trasgredisci  poiché giuramento Afrodisio i   f^. CosihannoefhDefri,°"""°"«‘-   licenza accordato a chi ama ogni   legge di qui. Da questo lato   terrebbe, che nella citf\ nn«t* ’• ' ““*1“®’ “«o n-   e l’amore7- ‘'"''«simo   e amore e il mostrarsi amici agli amanti. Ma   Jlh VV’ P^dri, preponendo peda-   S g I 3 gh amati, non permettono che di¬  scorrano cogli amanti (98), e i coetanei e gli  amici (99) \ itnperano quando vedano succedere  qualcosa di simile, e i vecchi, d’altronde, non  inter icono cotesti censori, nè Ji biasimano, come  se non dicessero giusto, uno, che per opposto  ^ardi^ a tutto ciò, stimerebbe che qui una simile  cosa si reputi bruttissima. Ebbene, la cosa, credo  IO, sta così ; non è a mi solo modo ; eh’ è ciò  e ie s è appunto detto in principio, eh’essa non  sia bella nè brutta; ma fatta bellamente bella,  ruttaniente brutta (100). Ora, bruttamente è,  belT^ ° gratifichi un malvagio e in malo modo;  niodo^'^'^p'^* quando un uomo probo e in probo  malvagio è quell’amante volgare, che      Convi‘0 „on   L» i « r<‘>'"^^' „;, la »ìia. P»''"'^ * '   1*** • /Ilfscors* f fprmo Ip IpfTffC    l>    ' nresto, perchè s'   L' r esser preso p crrutinitore, *   truuo 1 esse p scruti   tempo — Aprp da denari e ua- P   l ' òl il lasciarsi prendere da s, sgo-   ;;Ucii è brutto, sia eh (loa) non   menti e non resista, s^ e par   disprezzi. senza dire che da   cJ sia nè ferma nè stabile, s .^^Ha   i «sauna nobile “rbellan.entc deve   leiTge nostra una sola y Dappoiché a noi   Saio gratificale "n.i d   questa è la legge; ^'f°"^^Vrervitù verso l’amato   servire spontanei qualunq ^^ulazione, cosi   s’è concluso, che non ,està non vitupe-   un’ altra servitù sola spon * oggetto-   rcvole, quella che ha la v'rtn p  Chò appunto ò ammesso n  quando uno si risolva a niH ^ ‘ii noi ,  perchè egli creda di diventa^r^m" ài',''-   di lui o in sapienza o in qualun ^   virtù (104), questa servitù spontanea no"   pur essa brutta, nè sia piaggeria ?• ?" "«P-   queste due leggi, - quelf ch^ regf/?   « dei fanciulli e quella che regge Pai  sapienza e di ogni altra virtù (foj) IT4  correre al medesimo, chi voglia che to™^?'  Il compiacere l’amato all’amante. Chè qual?  insieme s’incontrino l’amante e l’amato, ree nt  ciascuno la sua legge - quello che qualunque  servizio egli renda agli amati che lolompTc!  ciono, giustamente lo renda, questo, che a chi  sapiente lo faccia e buono, qualunque ufficio egli  presti, giustamente lo presti (106), e l’uno, po¬  tente d’intelligenza e d’ogni altra virtù, ne dia,  a tro manchevole in coltura e in ogni altra sapienza, ne acquisti, — allora si, queste due  concorrendo in uno, egli accade, e sol-  tamo cosi, che bello sia il compiacere l’amato  all amante, ma in altro caso no. In questo, persino il trovarsi ingannato non è punto  85 • ùi ogni altro, o che tu sia ingannato 0   ^,0. ti porta bruttura. Perchè, se uno che a\-  ricco avesse per ragion di ricchezza  perto*i?'"'^°’ ^™vasse deluso per essersi sco-  n^en brutto^-^'^^ Povero, non perciò gli sarebbe  ’ perchè un siffatto uomo dà a di-    B    I anin .0 suo. a>ep«   perché buono c P .j„y;ore egU stesso,   diluì diventare   Lll’»'"'^ ' poi deluso, P bello l’ÌBga’^’^°’   anche questi da a divede^_^^^ ^   I,£t«0 V P™"“ “ ^T'r^   ''^.1 diventare mighore 5 ^-^.^ontro, e la   ‘ • ter chicchessia; e quest . bello per   *'. ?ella cosa di tutte. Cosi,   £ di virtù comptacere ^ Celeste,   I '"Questi ù r Autore della D   1 di gran pregio alla \ amante   ' ài .Uri»"-»"   sopra dì st q“»"“ ' volgare. E qaesK   sono dell’ultra Deu.d ^ all’improvviso   sono, 0 Fedro, le ’ ^ er la mia parte.   intorno all’a\more IO t arreco p   „ aiacchè i sapienti   Fatto pausa assonanze - avrebbe   m’insegnano a fare di q a. ^ere Aristofane;   dovuto, disse Aristodemo discorre ^  se non che gli era o per _ p ^  altra causa venuto il • ^aco il medico: --   di parlare, sicché disse ^ ^^i — O EriS’si-   questi giaceva nel letto op cessare (m)   maco, il dover tuo e ^naié   il singhiozzo, o di P^^' Erissimaco rispose;  non mi sia cessato „..rché parlerò m   E io farò tutteddue le cose, l ^   Platone, Voi. ì X-     so    Convito      n'» ™cc, c  sato, in vece mia, p „pi , SP'onao li .  guarda se il f P» che ì« jg r«.   nendo ,1 fiato per „„ peaaetto .t”S'   E gargarismi coll’acqua. Se "o. fa'^   lascia vincere, e   letichi il naso e starnutisci ; e quando ®ol-   qiiesto una volta o due, ti cesserà   molto forte. _ O parla d„„,re   Stofane — io farò così. ^n- Ed Erissimaco principiò a dire : — Dunque,  siccome Pausania, prese bene le mosse del di-  i86 scorso suo, non l’ba compiuto a dovere, mi par  necessario che io mi deva provare a metter la  fine al discorso. Di fatti, che l’Amore sia duplice,  pare a me si sia distinto bene; però, eh’esso  non risieda soltanto negli animi umani nè abbia  soltanto i belli per oggetto, ma molti altri siano  gli oggetti suoi, e risieda anche altrove, nei corpi,  cioè, di tutti quanti gli animali, e nelle piante  della terra, e per dir cosi, in ogni cosa che  viva, a me pare averlo appreso dalla medicina,  1 arte nostra, come grande e maraviglioso Iddio  egli sia, c a tutto si distenda e per le umane e  le divine cose(ii2). E comincierò a dire dalla  medicina, anche per fare onore all’arte. La  natura dei corpi ha il duplice amore aneli’essa,  cd è questo: il sano nel corpo e l’ammalato       Convito 5 *   .-no per consenso di tutti, cosa diversa e dissi-  rnile- e il dissimile desidera ed ama cose dissi¬  di i • sicché altro è l’amore che ha sede nel sano.   -Itrò t quello che nell’ammalato. Siccome,  dunque, secondo ha detto or ora Pausama e  bene gratificare i buoni tra gli uomini, male i  Snaiosi; e cosi anche ne’corpi é bene grati¬  ficare quanto v’é di buono e di sano in ciascun  Spo e si deve, - e questo fe ciò che si chiama  arte medica - e invece male il gratificare quanto  v’é di cattivo e di morboso, e gli si ^^«ve far   brS 0 amore, questi è l’uomo sopra tutu inten¬  derne d medicina. E chi sa farli mutare, in modo  dm in ricambio di un amore si acquisti J  • Mi; ;n cui l’amore non sia, ma bi-  tro, e in farcelo nascere, o, quando   sogni generarlo. , -uesti sarebbe davvero   un valente artenc • i,- ip rose che vi sono   di "f7^°^n-unaanù l’altra nemicissime, e la -nnnste il freddo   0 „ «U»™»»'» ,   = 'vi» vi. «-sr aX «   tra tali „„asti(ii7) PO^ti ed   pio, secondo la   L credo, dico io, è   T ,.a\rco.«» r=   gìnnaSca O'ii e l’agricoltura. La musica poi.      Convito'   per poco che ci si badi, si vede chi.  stesso tenore, come forse anche p ’deiu  .87 dire;chè, quanto alle parole, egh^n ”  me bene. Giacché dice che l’uno  si accorda con sé, come armonia  lira. Ora, é grande assurdità 17 ° «i'  un’armonia discordi n rieri,,: j. “"’c, che    B    discordanti.    tuttora    derivi da cose tu  Se non che forse voleva dir  sto, eh’essa nasca dall’ acuto e grave discordi;  priiTiii e dopo consenzienti per opera dell* *  musicale; ché, certo, armonia non nascerebb"^  dall’acuto e grave discordanti tuttora; ché ar¬  monia é consonanza, e consonanza é un con¬  senso; ora, consenso è impossibile che provenga  da cose discordanti, finché discordano; e quello  d’altra parte, che discorda e non consente, è  impossibile che armonizzi : appunto come il ritmo  nasce dal veloce e dal lento, discordanti da prima  e poi consenzienti. In tutte queste cose é la mu¬  sica quella che mette il consenso, come in quelle  altre la medicina, generandovi un amore e concordia vicendevole. Sicché la musica, alla sua  volta, é scienza dell’amoroso nell’armonia enei  ritmo. E nella composizione stessa dell’ar¬  monia e del ritmo non è punto difficile discernere  l’amoroso, né costì v’è il duplice amore :  ma quando bisogni usare del ritmo e dell’armonia  cogli uomini, sia componendo, — che e  quello che chiamano niclopea — sia usando ret¬  tamente di melodie e metri composti ciò che s’é detto educniione — qui  c é la difficoltà e c’ é bisogno di buono artefice.  Poiché torna da capo lo stesso discorso, che gl>      Convito   fine che diventino più  uomini J non son tali in tutto,   perbene quelli che « tenerlo caro, e   bisogna_ gffceleste, l’amore della ce- E   invece quello di Polimnia leste Musa Ci 7 j> jj deve amministrar con   t il volgare, n qnm ci col<»a bensì   cautela a chi 3’, ?n-eneti punu incon-   11 nostrale gran cosa l’usar   tinenza, i-ome nei -scinte dall’arte della   rettamente nè colga il piacere   .cucina, per modo e nella musica   : dJsrdS’1=“-™-'^ “   X.IV   ^'^enl^l^X'ddu^qtes\e indura-^  JlTrquando le co^   caldo e il freddo, coll’altra, e for-   in un «'ontempéranza sapiente.  nVmo un’armonia e una coma ^   vengono apporta ne ^ pinate, e   agli uoniiiu c ‘ «nrln in quella vece   non fanno punto diventa il più fo«e   rumore infetto di molte cose c fa   nelle stagioni dell ann ^ jogUono esser generate  danno. Di lam» P malattie diverse   d. ..di cagiom. d."<>, “ le piade; c 1»  tanto negli aiiiniali c _gù« miscono dal   brinato = 1= '';„"„*Labpr0PP  V accesso e disordine risp  amorose, la cui scienza de'  jielle stagioni degli anni si' c1h;‘ as^i ^   Di pu. ancora, ci sacrili.! tutti e  presiede I arte divinatoria, p  ® a cui  vicendevole comunione degli dei'èoar'a  non hanno altro oggetto, se non Pose.  risanamento di Amore. Chè “ >'   suol generarsi, quando uno non grati£  ordinato, e onora e venera in ogni suo  questo, ma l’altro, si rispetto  o VIVI 0 morti, si rispetto agli Dei; dove aT  punto è commesso all’arte divinatoria di vigilare  gli amori e sanare; sicché, da capo, 1>arie  divinatoria è operatrice di amicizia tra gli Dj!  c gli uomini mediante la scienza di quali tra le  propensioni amorose di questi tendono al le¬  cito (155) e quali all’empietà.   Cosi molteplice e grande, anzi, in breve, una  universale potenza ha ogni Amore; però la mag¬  gior potenza la possiede, si presso noi e si presso  gli Dei, quello la cui sodisfazione è nel bene ac¬  compagnato di sapienza e giustizia (135) ; esso  appresta ogni felicità, e ci mette in grado di  convivere gli uni cogli altri e diventare anche  amici agli Dei, migliori di noi. Ora, ancor  io (136) forse nel lodare Amore tralascio molte  cose, non però di proposito. Ma se ho trala¬  sciato qualcosa, spetta a te, Aristofane, di sup¬  plire; o se tu hai in mente d’elogiare l’Iddio in  qualche altro modo, e tu 1’ elogia ; ché ti é anche  cessato il singhiozzo.   Q.UÌ, Aristofane, presa la parola, cominciò)  raccontava, a dire: Si, è appunto cessato, non  file io ali abbia applicato lo star-   : richiedi iili roihoti e ptent, quii l   tr ;Ó Lrnu.0 . Pd"» ‘ ’W'”   ho dppliccto lo su,™».   “ «c nW - g«»“p » 1“"“ d"'   ';“';'i "™“rl sV 'per cominci»™ » P»*'" >“ '   Tu burli, man ^ ^j^ella al discorso tuo,   ’^ioTcX Vdire' qualcosa di ridicolo, mentre ^   avresti potuto parlare bene,   E Aristofane, ridendo, "P istare   Erissimaco, e sia per non   a farmi che me n esca   SI stanno per . che sarebbe un gua-   rg“o to’S;.™ »>i» «'“»   _ e or» cedi di f“p 'dj ('»>  r:.:o„rpdrrr.rm-.p».Mn.»»d  stare.  Discorso di Aristofake   cominciò a dire  E in vero, ménte di discorrere in   Aristofane — lO q^jella che tu e   una maniera diversa ^ pare che gh   Pansini» «die fitto. pottor»   uomini non abbiano pu      Convito   di Amore, chè. se l’avessero con,„  mnakato in onorsuo i maggiori '""fcbbcf,  e celebrato i maggiori sacd£i, noS  che di tutto questo non gli si fa  SI dovrebbe fare più che altra cosa /   D Perchè è, tra gli Dei, il più amico dcel  essendo soccorritore loro, e medico di ^  dalla cui guarigione deriverebbe la felicur  giore al genere umano. Io, adunque, mi sCf^ .  a dimostrarvi la potenza di lui, e voi ne sarct  maestri agli altri. Ma vi bisogna per prima cosi  intendere la natura umana, e i casi di essa. Ab  antico, di fatti, la natura nostra non era quella  medesima d’ora, bensì diversa. Chè da prima  E erano tre i sessi umani, non due, come ora, ma¬  schio e femmina; ma vi se ne aggiungeva un  terzo, partecipante di tutteddue questi, del quale  resta oggi il nome, ma esso stesso è scomparso.  Allora, di fatti, v’era e la specie e il nome  uomo-donna che partecipava di tutteddue, ma¬  schio e femmina ; ora non ne resta che il nome  a vituperio. Di poi, l’intera figura di ciascuna persona era rotonda, colle spalle e  i fianchi tutt’intorno, e di mani n’aveva quat¬  tro, c gambe quante le mani, e sul collo tondo  due visi, simili da ogni parte ; su ciascuno poi  de’ due visi posti 1’ uno di rincontro all’ altro una  ‘90 sola testa, e quattro orecchi, e due mem¬  bri, e il rimanente, quale da ciò si può con¬  getturare. Camminava poi si ritto, come ora,  per il verso che voleva, e si quando si metteva  a correre, reggendosi sulle sue otto membra  andava via lesto facendo la rota, a modo di    57   Convito   quelli che, \MssT,'’poi.«=^"° ^   s"’ "Xchè il Maschio fu in origine pro-   tre e siffatti, p , della terra, e il terzo   genie del sole, ^ ^^eddue, della luna, giac¬  che partecipava “ d’i quello e di que-   sta)- "^^gVianza co’loro progenitori,   cammino, per ® ® terribili per forza e per   Sicché in principio grandi e assalirono   gli Dei.    XVI   r .litri Dei si consultarono  Sicché Giove e g i ^ stavano   che cosa occorresse loro^dj   in dubbio ; che nc a fulminarla   nt di farne J“"P^""^^^bhero scomparsi insieme  come t celebrati dagli uomim; e   gli onori, e 1 ‘ imoerversare. Infine,   „ea„d,= volevano If “f 'X" ,4 _ E' mi pa-  Giove si formò a fané. uomini esi-   re — disse — avere un LholffU?). cessino  stano e insieme, P"ra - disse - H spar-   dalla petulanza. Giacdr   tirò ciascuno m dtie, ^ noi per-   ranno pib deboli, e mstenmj^diritti  ché cresciuti di nunier^ , . ^j^e conti-   sopra due gambe. Ght P    Convito    58   luiino a imperversare, e non vogliano stare  quilli, e io, — disse, — li segherò da capo**'''  due, sicché cammineranno sopra una gamba s 7  saltellando (148). E detto questo, tagliò gli ° ®  mini per il mezzo, come quelli che tagliano ]  sorbe per salarle 0 quelli che tagliati le povj  E col capello (149): e a quelli che tagliava, co¬  mandava ad Apollo (150) di girargli il viso, c  metà del collo dalla parte del taglio, peròhù  r uomo, guardando il taglio fatto di lui, si con¬  ducesse con pili misura; il resto lo medicasse.   E Apollo girò il viso, c col tirare da ogni parte  la pelle verso il ventre, come si chiama ora, vi  fece, a modo delle borse a nodo scorsoio, una  sola bocca, c la legò nel mezzo del ventre,  tgi quello che si dice ora l’ombelico. E le altre  grinze — ve n’ era rimaste tante — le spianò, e  rassettò le costole, servendosi di un istrumento,  su per giù come quello dei calzolai nello spianare  sulla forma le grinze delle pelli, e ne lasciò al¬  cune poche, nel ventre e nell’ombelico, per ricordo dell’antica jattura. Or bene, quando la  creatura umana fu tagliata per il mezzo, ciascuna  metà desiderando l’altra le si faceva incon-  gittandole attorno le braccia, e av¬  viticchiandosi runa all’altra, poiché si strugge-  H vano di risaldarsi, morivano di fame e d’ogni  altra sorta d’ozio per non voler fare nulla l’unO  senza dell’altro. E ogni volta che una delle  metà morisse, e l’altra sopravvivesse, la soprav¬  vissuta ne ricercava un’altra c le si avviticchiava)  0 che s’imbattesse in una metà d’una intera  onna, — quella ^i^g chiamiamo donna    Mio,. Giove,   „„ «omo; 0 “   ° I o '' ^ «li* • oerchc sino   avendo»® oonip pudende, pej   "°rfn terra, come le che me-   Sin^e, così sul negli nlm,   diante quelle la femmina (i 5 S)   niediame .tll’abbraccio. se un uomo   con questo fine, eh onerasse, e la specie   s> imbatteva J^ttesse maschio con   esistesse, e se im ^^are insieme,   maschio, venisse 1°’'° ^ a operare.epren-   e smettessero, e si rnolg dulia vita.    D   1 \\ Tini è un contrasse"   Ciascuno, dunque, come le   gno d’un uomo, ulte eia-   sogliole (157); uno due. S inten   scuno cerca il contrassegno insieme   uomini che sono come un taglio di qu  che allora si chiamava i(omo-ioM«a, son ‘  di donne e i piti degli adulteri da questo sess   son proveiiun; e così q^- "sesso    , Convito   6o   sono taglio di donna, le non badano di molto  a^Ii uomini queste, ma hanno piuttosto il cuore  alle donne ed il sesso loro è quello da cui prò.  vengono le tribadi, aitanti poi sono taglio di  maschio, vanno dietro al masclùo ; e sinché sono  ftnciulli, come particelle che sono di maschio,  amano gli uomini e si compiacciono di giacere  - con questi e tenerli abbracciati, e son costoro  ’ i migliori fanciulli e giovinetti, chè non v’è  nature più virili di loro. E v’é chi afferma,  che questi sieno degli svergognati! bugiardi;  non è già per svergognatezza che cosi fanno,  ma per ispirito di ,baldanza e virilità e ma-  sciiiezza, appetendo il simile a sé. Una gran prova  n’è questa; soltanto costoro fatti giovani rie¬  scono uomini da attendere agli affari pub¬  blici E diventati maturi, mettono amore ai fan-  li ciulli, c di nozze o di far figliuoli non si danno  pensiero di per loro, ma la legge ve li costrin¬  ge (160); quanto ad essi, son contenti di vivere  gli uni cogli altri senza ammogliarsi. Sicché un  siffatto uomo diventa addirittura amante (i i)  di fanciulli od amato, appetendo sempre nei due  casi quello che gli è congenere. Ora, poi, quando   C un amante di fanciulli, o chiunque altro s ini   colla sua propria metà di prima, allora è una  maraviglia come si struggano di amicizia e m  trinsichezza ed amore, tanto da non volere, per  cosi dire, separarsi gli uni dagli altri neancie  per un minuto. E questi son coloro, che riman  gono insieme l’intera vita, e non saprebbero  neppur dire, che cosa mai vogliono che per opera  dell’uno succeda all’altro. Giacché non pn'"'     t Siòn” r-   insien''® . .v, ciascuno dei esprimere,   Lm"^ralcos’ altro, cbe tjo ^ ^-ee   ‘^’ 'Tl nrc%ti"‘="^°/' eoel’instr'if^''""   „ia ha £ se Elesto, cogl   in cnimm sopra di > {. rnai,   niano, si domandasse ^ ’ onera del-   I.icceda all’altro? ^ ^ ^^^^^dasse da   incerti della risposta, ^.^^nrel’uno   nello stessissimo luogo n nt notte -   potervi lasciare l’un liqnefarvi e eoa-   chè se desiderate ° nhe siete, diven-   ^ilarvi insieme, ,n   tiate uno, e sinché > morti,   comune come uno " \i,m invece di due   anche laggiù nei reg ^^^^^date. se è questo   morti uno solo (i6 ^^ddisfatti, quando lo   che ’ inmo bene, che, sentito ciò,   nessuno, proprio nessun darebbe di avere   strerebbe di volere altro, . ^ desiderava pure  propriamente sentito qu ,j, ^to diventare   da un penzo, unito e fuso coll ^to   di due uno. E la causa nò questa, cne   , nostra natura era si   desiderio, adunque, e all.   d;\ nome amore. eravamo uno;   E prima d’ora, come dico,   i ora, poi, per la malizia nostra, sia  paniti di casa dalla mano di Dio, come i-  Arcadi da quella dei Lacedemoni. Sicchfc^ '  cogli Dii non ci si conduce come si conviene*^  v’è da temere, che si possa essere segati da capo’  e si vada attorno, come le figure delineate dj  rilievo sulle tombe (164), tagliate per il me^o  dei nasi, diventati a modo di dadi cotisunti. Anzi  per questa cagione bisogna che ogni uomo esorti  B ogni altro a condursi piamente verso gli Dei,  perchè alcune si sfuggano, altre si conseguano  delle cose, a cui Amore è guida e capitano. A  cui nessuno faccia nulla in contrario ; — e fa in  contrario chi s’inimica gli Dei ( 165 ) — giacché  diventati amici dell’Iddio e rimpaciati con lui,  ci succederà di ritrovare- e incontrare i propri  amati nostri, il che ora accade a pochi. Ed  Erissimaco non mi s’immagini, per canzonare  il mio discorso, che io parlo di Pausania e di  C Agatone; forse, anche loro sono di quelli, e  tutteddue maschi da natura ; se non che io parlo  di tutti, e uomini e donne; chè così la stirpe  nostra diventerebbe felice, se dessimo perfezione  all’amore, e ciascuno s’incontrasse nel proprio  suo amato, tornando nell’antica natura. E se  l’ottimo 6 questo, è necessario, che di quanto  è oggi in poter nostro, ottimo sia quello che  più vi si avvicina. E ciò è il ritrovare un amato,  fatto secondo il proprio cuore.   ^ Del che, se s’inneggia autore un Iddio, Amo¬  re è quello a cui a ragione spetterebbe l’inno.  Amore che ci è di moltissimo giovamento nel  presente, poiché ci riconduce nel proprio, e ci dà le  maggiori speranze per l’avvenire, — se però noi  ,i .-.età v=W sii   a»   Só-'r-'   xvin   j» il mio discorso   • tr.rno ad Amore, di'crs ^ ^ canzonatura, t   ‘„%c p-»g*;». "r, ‘=’’' '“ir-   .„d,c a pari»"" ° P'""-""   quelli che rimangono P ^ Socrate,   rimangono, di fatti, § , _ raccontava che   Ma io taro a tuo n»do^ j,, ,1 „o   rispondesse Enssimaco ^P ^^p^ss,   discorso sono valenti in cose   che Socrate e A^a dovessero es-   d’amore, temerei g'"^" ^-ose oramai si   sere impacciati a ’ ‘ ^ro fiducia,   son dette e cosi perchè   E Socrate rispose; dóve sono «94   tu te la sei quando avrà discorso   ,ira..uraro, perché io mi turbi, °   che il teatro sia in grande aspettazion  me, che io debba discorrer bene. Sarei d^avvero uno smemorato, Agatone,  soggiunse Socrate, — se, avendo visto 1  raggio e Palterczza con cui tu sali su pa^ co  insieme cogli attori, e guardi in accia ^  gran teatro, quando tu devi rappresentare 1    64 Convito   componimenti, e non ti mostri sgomento  un poco, ora credessi, che tu ti debba  a cagione di questi pochi che siamo   Ma che ! — riprese Agatone — non mi cred  Socrate, cosi pieno del teatro, da ignorare ne  che a un uomo di mente fanno più paura n  persone di senno che molte senza (169).   Certo, Agatone, non farei bene, — ripigliù So  crate, — se pensassi di te nulla men che gentile  Anzi io so bene, che se tu t’imbattessi in-persone  che tu reputassi sapienti, ne saresti in maggior  pensiero che della folla. Ma, bada, che noi non  si sia già di quelle; perchè noi ed eravamo in  teatro e facevamo parte della folla. Però, se tu  t’imbattessi in altri sapienti davvero, ne sentiresti  tu rossore, quando tu credessi di fare qualcosa  di brutto? (170) o come l’intendi?   Dici il vero — rispose l’altro.   E della folla tu non ti vergogneresti, se tu  credessi di fare qualcosa di brutto?   Dove Fedro, raccontava, interloquendo— Caro  Agatone mio, — dicesse — quando tu risponda  a Socrate, non gl’importerà più nulla di nulla,  di quello che qui succeda comunque succeda,  purché abbia soltanto con chi conversare lui, spe¬  cie con un bell’ omo. Ora, Socrate io lo sento  conversare volentieri ; ma a me è necessario aver  cura dell’elogio di Amore, e riscuotere da  ciascun di voi il suo discorso. Dopo sodisfatto  ddio ciascuno conversi poi quanto vuole.   Ma tu parli bene, Fedro, — disse Agatone —  c niente m impedisce di parlare ; non mancherà  poi occasione di conversare con Socrate.   ‘.v«mponÌ!n,tntt,    Convito    > c non li mostri   ‘T pocoi ohi credessi, chr f.® r®"*®     ,, ^<^“^chc:t;Td:vTiÉ^   cagione di questi pochi che l- ^ ^WÈÉ  iS^. . •MucheJ—rbrese Agatont’'    Socrate, cOS\ rneno del teatro, da'i'!" '  f^. -cheuun nòmo di munte.(anno p®, '   itrn> ''.ihr rt» \ ^ P'I Jf      m Futdjo che: molte-   -ci Jo. A.-atc-uc, nonfiiiti htne, - nv'l ,>   -.MJ.S - se p*s«*«I di :c nalla uicn chè£ - t  so bc«^ , cho se tu l’imbattessi-   • fe?:tB r.epntf. -i rapanti, ne Sare.sti inV,.’-1  r^’ero che deiia folla. M.s, bada- die  .UU fiJ, d! c, parchi noi cl  tuati-0 e fflceaamo parte della folla. Petò,fc.,r» ^  •t’iaib.ittcssì M :iln-it;.»p{cnti davvero-, nc scw.h»-  tu t-o$.sore, quando in crcdtssi di -fare quaì.   -li brullo? (170) o come rintendi?   rtk'ci 11 Tcro — rispose Taltro. . il   - • j- . .in f>>}lii tu non ti vergognerusti, t* •* ti  i di f.)ro qualcosa d! brutta? »   4 -’’ l odro, raccontava, inierioquetido->~‘  <S^’j^'t‘UO, -- dicesse — quando tu ris;-  V v^:Tàfé. jpon priuaporteri più nulla^ji '   • f iUo che ani succeda coinunqyu .^ucc '•M  ,-i.!: «hb abbia s-^tanto con.chi convcrj.at5glui5^sj^^'   • ::;con un bairomo. Ora, Sgcirate/lo  converj^ret'oitn litri ; ma a me è jiccessarww^^  «tra ik'ir elogia di'Amore (tyt) ^ erlscuoicr  -ciascun di voi il suo disco^-'; .C>opc?»C^*^  l'Iddio clascuuci conversi poi qyaj 4 l?   J Ma in p,i. li bene,.Fedro,   c niente m’impedìsfc di parlarci nph-manv: ,  poi occasione di cons*etsare cori .Socrate. ’          Convito    65    95    „ ni AGVrONE   Discorso   o’ priwa ha? discorso   T’c'ct 72 > P^'^°""^’%arabbiano l’ldd\o   poi dire Cn ^ non ,. .. ^o dei beni,   pvand gli uomini nup\e essendo i   --“"'Chiusi l’Iddio; r/ntsuno l’ba   di n tutti cotesti beni   ^%*ure, d’ogGi lode go quale di   quali cose E cosi è g^Jf egli   u discorso sia 075; ^ • stesso quale eg   bello, egli ^^/osiff^to. D P^ ge d   più giovine degli Dei, g foggu di   'quesm suo tratto eg smsso, P ,e,oce b   fuga la vecchiaia, P dovere ci arrii   almeno assai pih pres p aver a   a’ fianchi. Ora, P neanche di lontano,   iu odio e non le si acco , ^ ^ ^^^6) ; -b   E sempre co’ giovani usa e « sempre   bene sta 1’ antica "oute»- . consen   col simile s’accompagna ( questa non   ziente con phio in   conscio, che lui g-   c di lapeto O?»)- 5   Platone, Voi. hX.  *       66    Convito    C vanissimo tra gl’ Iddii c gio\  gli antichi fatti intorno agh  Parmenide dicono (179), esse     di Necessità, e non di Amore, se pur  sero il vero; chò non si sarebbero viste ‘  tazioni e legamenti vicendevoli ed altri  violenti atti, se Amore fosse stato tra lor^b^’ ®  amicizia e pace, come ora, dal di che  sopra i Numi regna. Dunque giovine eguT  P e oltreché giovine, delicato (180): solo un poetà  gli fa difetto quale Omero, che mostri la deli¬  catezza di lui. Ché Omero afferma, che Dea  Ate sia e delicata, almeno delicati sieno i piedi  di lei, poetando:   I piè di lei son delicati; e il suolo  Non tocca; dei mortali ella sui capi  Cammina.   Ora, è buono argomento a mostrare la deli¬  catezza sua, ch’ella non sul duro cammini, ma  E sul tenero. E lo stesso useremo noi argo¬  mento a provare di Amore che delicato egli è.  Che nè cammina sul suolo, nè sui crani i quali  punto teneri non sono, ma nelle più tenere cose  e cammina e dimora. Perocché nelle indoli e ne¬  gli animi degli Dei e degli uomini la dimora pone,  e nè in tutti gli animi del pari, ma dove in uno  s’imbatta d’indole dura, va via; dove di tenera,  vi s’accasa. Poiché egli, dunque, e co’piedi e  con ogni sua parte è a contatto delle più tenere  g(5 tra le tenere cose, è necessario che delicatis¬  simo sia. Sicché giovanissimo è e delicatissimo,  e di giunta fluido di forma. Ché non sarebbe     6 ?    B    Co’ivilo ^ neU’en-   U»»' («!?'. C»«o *« s»p» o^.   iorf“"”“ , M«, ‘l“‘''?Si AmP« pos*'"''’   ,jvveoen='^ „nso di ^ guerra sempre.   .!•" °«P»“ “ T Wer. d=irM» "*   chè f del colore, “ ad anima e   ctó.a So.e o cta   ' K' I soggetto la Amore; e dove   f ner£, non s’accoppa A ,   Todoroso loco sia, 1» P   fiorito c ou  perniane-   j iiMddio e basta sin   Orbene, della 0'“““‘‘Jella vlrtì d’A»ore   qui e molto resta a g U principalts-   conviensi dopo quella P ^ offesa nt   sinio è. cito Amore ^ ^,84>   di Dio o a Dto nc * -tUre eo'U stesso, s  Perché nfc per violenza non tocca ^   qualcosa patisce; - eh ^ volontario   i; in tutti il servigio ' ^ jj^ reme (t 5) >   assente a volente, h legSh , giustizia,   affermano che giusto sm- ^ ^i^sinaa. Peroc;  è provvisto di temperanza ora^^ ^ ^esidern  chè si consente che vince P^^^^ non   sia temperanza, e che p gè sono da me ,   v’abbia piacere «essuno- O questi   è forza che sien soverchiati    68    Convito    soverchi : ma se piaceri e desidp  t.(. E quanto a coraggio adr^°P^^tut   pure Are contrasta » (187). Chi « n«(,  Amore, ma Amore Are possied^'^am^  Afrodite, secondo è fama (188) • or ’l • di  tiene in poter suo il posseduto é  più coraggioso d’ogni altro, debbe esli  certo il più coraggioso di tutti (189)^'?®5'  della giustizia e temperanza e coraggio dS'r?  d.o s’è toto; resta ddk sapiens,; ;   SI può, bisogna provarsi a non ometterla (looT  E da prima, perchè io per la mia parte lodi l’LÌ  nostra, come Erissimaco la sua, poeta è l’Iddio  sapiente per modo che rende tale altrui; al¬  meno diventa poeta, « ancorché pria fosse di Mm  privo » (191), quello cui tocchi Amore. Il qual  suo tratto ci si addice usare a testimonianza che  Amore, in somma, è artista buono in ogni crea¬  zione che attiene alle Muse (192); dappoiché le  cose, che uno o non ha o non sa, non mai le da¬  rebbe ad altri, nè le insegnerebbe ad alcuno.  Oltreché la creazione degli animali tutti, chi vorrà  contradire, che non sia sapienza d’Amore, quella  per cui opera gli animali tutti e nascono e cresco¬  no? Ma nel magistero delle arti, non sappiamo,  che quello di cui questo Iddio si sia fatto maestro,  rinomato è riescito ed illustre; quello, cui Amore  toccato non abbia, oscuro è rimasto? L’arti del  saettare e del sanare e del divinare Apollo (193)  trovò, guidato da desiderio e da amore (194) >  sicché anche questi discepolo saria d’Amore, c  le Muse ne appresero musica, ed Efesto l’arte        69    « Zi‘^^ ’ le cose dCo' amore, s m   c ' • onpoirto 1 _ • ft-i genererò, vive   d'.C ''chfe^rn brutte..^   ’‘jf di bellez5-a. priircipro ^ o-   ;ndc> ,„„onzi, _An SI narra (,19    ai bellez^-'*'’ — , principro u- --   »"«•  inna®'. si ^ ;   terribili eventi, -t^ecessità % «   i“nsi s» ^   ;«/»« ts -s"'   Vantare Amore, es-   o Fedro, a \ ^ e ottimo, dipoi   1 sr:   Ji*"'" ,. ., mar cairn»,‘‘='"'““   „ ai,caco, . »s> D   attesti <i’0B”i „ empie che cl at-   vttOta, e d'ogni mgunate degli tttt.   tmelia, egli. ’S"ttnSsero, aeUe «e   cogli altri instttttl che s, «o ,gli m. ezaa   „ei coti, nel saenfien g, benevolenza   • inspira, selvatichezza sband .^^^i^ordioso ai   largo, di “lenabile,   buoni (zoo), a sapm ^ custodito d   bile-, invidiato da chi n F . dilettosa,   na’rlcco, di re»').'’»'*''';,"'?»   grazie, di brama, i ^ ; m trav g >   tore dei beni, timoniere,   ' paure, in pencoli, m ^°^tore ottmm, di   I marinaro, commilitone     7 ° Convito   quanti gli Dii c uomini adorm  bellissimo e ottimo, che ad ogni'?,?"'’  seguire innepiando e prendendo pa??  canzone, eh egli, molcendo ]’intellel  gli Dn e degli uomini, canta (203) ‘«'ti   auesto discorso, dice, o Fedrh sia  parte offerto in voto all’Iddio, dove di s^T  dove di misurata seriet.^, in quanto ir,  perato. ’    .XXI   198 duando ebbe finito Agatone, tutti, disse Ari¬  stodemo gli astanti esclamassero, che il giovi-  netto avesse discorso in maniera degna e di sé  e dell’Iddio. Sicché Socrate, volto ad Erissi-  maco, dicesse : O figliuol d’Acumeno, ti par egli  che un timore da non intimorire m’intimorisse  poco fa (205) e non fossi invece profeta nel dire  quello che io ho detto dianzi, che Agatone avrebbe  parlato mirabilmente ed io mi sarei trovato nel¬  l’imbarazzo ?   DeU’una cosa — rispondesse Erissimaco — mi  pare che tu l’abbia indovinata, che Agatone par-  B lerebbe bene; ma che tu ti troveresti imbaraz¬  zato, non lo credo.   E come, beat’uomo — ripigliasse Socrate —  non mi troverei imbarazzato cosi io come chiun¬  que altro, che dovesse prendere la parola dopo la  recita di un cosi bello e svariato discorso ? E il  rimanente non ò stato altrettanto maraviglioso;  tua sulla fine, quella tanta leggiadria di vocaboli       ' ® __ me.    di clràdo di dir nulla,   scndr'^- non sarò “ ^^^i^zza, per poco   - s> ^-’Cia ^lla vergogna, se C   sono t'^g? Vaiscorso m’ha rrchu-  100’’'*= \ia. Giacchi-_ occorso   1 caso d’ Omero (ao/b (;ìo8)   Agatone lanciasse^ e nu fa-   GORGIA, E ho capito   >»''X s.»->^r:“'?dS” "^  “    1 stato davvero ndmo , q p^^te   rSHiSSi    che    D    Sa";=S==S   lualunQue cosa. biso'^ni dire il '   ì, _ m’immaginavo, che o   "ila cosa, quale si s-^nto; pd, scelto del   ; che questo fosse 11 ^ia acconcio   vero il meglio, «pot ° ^ ,He avrei di   E presumevo gran c del ino   scorso bene, ^^^ 200 ). Invece, si vede d  di lodare ogni cosa ^ era gì-   cose V’ha “1 VVt 'nenzognere, età cosa^^a    mila. Giaccnc s - f. , ‘ v Amore, o  dascuno di noi paia di lo razzolando a   che lo lodi, n »1'P““° X cono ed A« °  .  ogni patte, e tale, e aotote i   c affermate eh egli        :rj.r   ^"T™' “"n b=|,.S”i-l.£-    M» io noncoò»c;:o'rn,“H''“* '   chè non lo conoscevo, mi so°no"i!°''"'®’P !"   r°I ?ì»*» “"''io all, M “,S” V   3 (zio),   questo modo; non nma    chè la lingua ha promeslò” la  Adunque, addio elogio; che ì„  odare a questo modo ; non potrei. plT"""  lete, il vero, si, non ricuso di dirlo di nr^®'  e non rispetto ai discorsi vostri perché  S. rida dietro. Ora, tu, o Fedr^'^guarj™f  discorso COSI ti fa prò ; sentir dire il vero di Amore  c n quei vocaboli e quella giacitura di senteme  che mi verrà per prima alla bocca.   E a questo, raccontava, Fedro e gli altri Pili-  virassero a parlar pure nel modo, che a lui pa¬  resse di dover fare.    Ebbene, Fedro — Socrate riprendesse — per¬  mettimi anche, che io faccia qualche piccola inter¬  rogazione ad Agatone, affinchè prima io mi abbia  C alcune concessioni da lui, e poi, così, discorra.   Ma si, lo permetto; — rispondesse Fedro —  interroga pure. Dopo di che oramai Socrate  avesse cominciato, su per giù, di qui.    XXII   Di certo, Agatone caro, tu ti sei introdotto  bene, m’è parso, nel tuo discorso col dire che  prima bisogni mostrare quale egli è, l’Amore, poi     E    7 ^   . . „vi va a gen'O  . Q^^^sto in ogni altra   ,re Ji . via, esposto qnaW   HS»- °'S’e.WB"’'^“Teg'''“^''’'‘"'r? D  up questo • t- ^8 ^ nulla ^ D   f»'*. L>»' di q0»'*“ “ *d,c o di »«   ma ad’a^f jj padre e cgir P. ondere a dolere.   fp^rfi' °   5““ t ma'drd del pat>’   • ^ . p anche a questo. ^ jjspondinti    Assentiss ^ . y^^sse gallo ciò   I Or bene, -- tu intenda me„   poche altre cose^ P ^^^.«dassi : O   'r;srid^c;.-o.t-e,,o,.tr   'qualcuno o no? Rispondesse, c   D’un fratello oDicesse di si. __ domandasse   dis^SSSaSrsulVatttore.^^  Di^qualcosI ciottissimo- .^„gesse So-   tanto questo. 1  lo desidera o “O ^   Di certo — r'sp'^  Ora, desidera egli e ai  sesso della cosa che desidera"^ j.  sedendola? ^ nr,-,-.    ama;,    'aoti    Pos.    B V    D    Non possedendola, par naturale  Guarda-riprendesse Socrate  natura e, non sia necessario, che  dera desideri ciò di cui è manchevoI ^  desidena dirittura, quando non ne l "“''o   role. Tu non puoi, Agatone, immagi„are“’'‘'’^*’'-  5 aia necessario a mw • ^ Quanto    grande,    es-    paia necessario a me; o a te pare?   E anche a me — dicesse.   Dici bene : vorrebbe forse chi è  ser grande, o forte chi è forte?   Impossibile, dietro l’intesa.   Perchè, appunto, non sarebbe-manchevole di  tali qualità chi le ha.   Dici il vero.   Percliè, se uno che è già forte, volesse esser  forte — ripigliasse Socrate, — e veloce uno eh’è  veloce, e sano uno eh’è sano... giacché qual¬  cuno potrebbe credere, che queste e simili qua¬  lità, quelli che son tali e le hanno, desiderano  quelle stesse che hanno; sicché questo io lo dico,  peichè non ci lasci trarre in inganno — or bene,  costoro, Agatone, se tu la intendi, devono pure  avere nel presente ciascuna delle qualità che  hanno, o le vogliano, o no, e queste, oh citi mai  le desidererebbe?. Però, quando uno di¬  cesse : Io che son sano, voglio anche esser  sano; ed io che son ricco, voglio anche esser  ricco, c desidero appunto queste cose che ho, —  noi gli risponderemmo — Tu, amico, che possiedi  ricchezza e sanità e forza, vuoi possederle anche        7 >   o »   tu le l’^'- .,,,o qtiello eh e   ^JpSesse ' V untare   ^ ^ O non t in proi^“’ Z   che non si ^ ancora t P^ aò   l^!^ il inantenerntt pe r  ksic^®’ j presente?   '‘*‘0° «no -- *'’°“‘'Tchi«nque altro il 1 “»'' ^  E questi, Lello che non tiene   desUeri tuttavia, desi  J „on ha e   t mano e al cui h manchevole.   ”.e egli d i desiderio e Vamotc-   ‘n”Sr- -tSse. ^ ,„cr.te-ri.ssu-   ^LLvia.-coimlnd-Socm^^  mianio quello d. OT poi, di co   in primo luogo, e u  di cui patisca difetto   Si - affermasse. ^ ^^ente, Jt che   Ora, per ^etto che l’Amore sia.   tu nel tuo discorso hai „,ente im   Anzi, se vuoi, te giù questo; che   Tu hai detto, credo ,assetto per via d   agli Dei le cose ^ ^i bruttezza non   amore di bellezza-, g‘a detto su p   potrebb’ essere amore.   giù cosi? rispondesse Agatone-   Si che l’ho detto - risp   par]: da galantuomo .  e, — ora, se è rnci ,>^ 4 )    Socrate; — ora e» "““*0 (^214)   Acconsentisse. “   ' «on s’è rimasti d’arr« a   CIÒ di cui è in difetto, e che “«0 am   Si - dicesse. >ia?   É in difetto, dunque, di bellezza a  non l’ha? ^aiore, ^   Necessariamente — affermasse  Che dunque? quello che è in difetto di 1,,  lezza, e non possiede bellezza per ness^ì^"'  oh lo dici tu bello? ^ ^sunmodo^   No davvero.   Ebbene convieni tu ancora, che Amore sia  bello, s’egh è cosi?   E Agatone — Risico, — dicesse - 0 Socrate,  di non avere inteso nulla di ciò che ho dettò  dianzi.    Eppure hai squisitamente parlato, Agatone -  C Socrate ripigliasse. — Ma dimmi ancora una pic¬  cola cosa: il bono a te non pare anche bello?   A me si.   Se, adunque, Amore difetta di bellezza e se  bontà è bellezza, anche di bontà, dunque, esso  difetterebbe?   Io — rispondesse — non saprei come con¬  tradirti; sicché sia pure come tu dici.   Alla verità, amato Agatone — concludesse —  ^ tu non puoi contradire; chè a Socrate non i  punto difficile.     77    Convito      e U discorso in- ^   « io giorno d» Dio-   £ ora „ r-he sentii nn ^ ^    ,rno iteXe cose, e una   ^ " Tdeila peste, fece, col  àP“^''\gli Ateniesi, pt'ttj ^tardasse loro di  olia agli _ .ricrifizio. cbe la_n^e m    quella appunto cit ^ g, eh’essa  jgcianni,qu ^ ^ discorso, outi fra   ose d’antore, punti cou   tenne, lo, roverò a ripetervel ,   p Agatone, nu P c g’intende, Ag   "' e il «#> *' “impano la via. teogo»   “ .1 modo che tu hai ape   VTcorrere chi l’Amore J facile £   fcriiua discor ^ che P .   ?! lco.,amo si. quello,^»   -t°iroono,e,io-og»^'^=„,es.^  Tma Agaldno a me, *'^"“"Èlei,   cose che ora Ag bellezza. _   f'"'do me'còlle stesse ragioni con cui^t^^^^   sSo cosmi, «., ne   n°d^o. come l'inmo^“;r=   tinta; ò brutto, adunque, ^.^p^tto? ”   D lei-'' o°-“/;Sp ciré non s.a belio,   rese — o credi, clte 4 brutto?   Icbba necessariamente esser   Certissimo.  O anche quello che  rante? o non senti, che  tra sapienza e ignoranza    Coni     E che mai?   L’opinar rettamente e senz’essere •  di dar ragione, non sai — dice — V"  sapere; poiché come sarebbe mai coV^-"°'‘  naie la scienza? E neanche é ignoranz'"''"®'  che apporsi al vero, come mai sarebbe  ranza? L’opinione retta è appunto cosi'®,?'  cosa di mezzo tra intendere e ignorare ’   Dici il vero — risposi io.   B Non forzare, dunque, ciò che non è bello a  esser brutto, o ciò che non è buono, cattivo. E !  così anche l’Amore, poiché tu stesso convieni  che non é buono né bello, non credere per ciò  che deva essere brutto e cattivo, ma una cosa  di mezzo — dice — tra questi.   Eppure, — diss’io — si conviene da tutti, che  é un grande Iddio.   Da tutti quelli, intendi tu, che non sanno o  da quelli che sanno?   Da tutti quanti a dirittura.   E lei ridendo — O come, Socrate, — disse —  converrebbero che è un Iddio grande coloro, i  0 quali dicono ch’egli non è neanche un Iddio?   Chi costoro? — dissi io.   Uno tu — rispose — e uno io.   E io domandai : Come mai dici tu questo ?   E lei — Facilmente — rispose : perchè, dimmi ;  tutti gli Dei non dici tu die sono felici (216)?   O che ardiresti tu dire, che alcuno degli Dei non  sia felice?  io no " possiedono   'A'„ oo»v.n»to, *= »   Di non to’ desidera, appunto,   «a'^" ,4 e boto"''   eoo « "““t in dite»»’   0 come   ‘Tni^ r^nt:” oto aneto » A»-   To'^aedi un Dio?    . dissi    .sarebbe maiVa^more?    Che, dunque,  tortale?   r*f;“'''ltpto''e-un eto di metto  Come prima V   "" rti!«to,Dio.i’’»>^ inno B   il demoniaco e un   il mortale. - diss’^-   E quale possanza ^gU ^ei   D’intetpmte '.«““f oni, degU um,"  nomini, agli uomn ^ n^^jjjjii, deg’^  smettendo preghi ^^rrifizh . . pgr   mandi e rieambii de. a fb ,,„i, nenipm pe   t nel meato tra gl’ n    20 *^    Convito   modo che il tutto resti colleentr.  simo. Attraverso di lui pasfa “'r? I   na tutta quanta e quella de’ sacS" '   saenfizu c le iniziazioni. Dio non si ^ ì   uomo; però ogni conversazione e coll  Dei cogli uomini, sia desti, sia addormì°  per mezzo del demoniaco che la si fa p‘> ^ i   che è sapiente in simili cose, è uomo d ^ ^   chi è sapiente in ogni altra cosa o dUrr'^'°'  mestiere, ò un manuale. ^    urte 0 (li   0^a,di questi demoni   , 1 Amore è un    , 1 ~ ^ CS^i   ò suo padre - dissi io - e chi suà    ve ne son molti e diversi :   E chi  madre ?   É lunghetta — risposi — a narrare; pure te   10 dirò. Quando nacque Afrodite, gli Dei cele¬  brarono un banchetto, e v’era cogli altri Poro   11 figliuolo di Meti (218). Quando ebber cenato,  ecco che arriva Penia per accattare, perchè era  luogo di scialo; e girava attorno alle porte. Ora,  Poro briaco di nettare, — chè il vino non c’era    peranche, — era entrato nell’orto di Giove, e vi  s’era, sopraffatto dal sonno,-addormentato; sic-  C chè Penia, macchinando per la miseria sua di  avere un figliuolo da Poro, gli si mette a giacere  accanto e concepisce Amore. Ed è per questo che  l’Amore diventò seguace e ministro di Afrodite,  perchè fu concepito nel giorno natalizio di lei,  e insieme è di sua natura amante del bello, poi¬  ché anche Afrodite è bella. Perciò come fi¬  gliuolo di Poro c di Penia, l’Amore s’ebbe  questa sorte ; prima eh’ egli è sempre povero, c  tutt altro che delicato c belio, come i più cre¬  dono, anzi duro, e squallido e scalzo, e senza     8i    D    10 +    . dormendo avanù   |°«* r nò oi   i-sofist* ’ ^ e\io stesso g' mudre e p   Inta ^ada bene del padre,   '“T rVa" »-   Ìe<l»»"“ ?‘Sero Aii«>'''"‘"“ Chi h t*'"’   « ''‘®"°”ret=“° e -- “.“ ^TXìSn:   ““Se.' tr“fi-   "S>s;=.»“»sri'S-“‘‘°   Sf'“ :.,.eh..o.e.-   0„ _ disse - ^ V»e -li ‘ ole-   „„ raBSs». q»e ^ apP»'» ^jd't»"»'!”’   um e altri, e d q cose pmbell ^rio   clic Amore sla filosofo, Convito   egli sia un che di mezzo tra sapiente e •  rante. E di ciò gli ò causa anche la  sua; perchè lui viene, si, da padre sapiente'*^'’!?  molti ripieghi, ma da madre non sapiente e se  ripieghi. Questa, dunque, è, amico SocrateT  natura del demone; e l’aver tu ritenuto  Amore fosse quello che tu hai detto, è stata una  C svista da non doverne fare le maraviglie.  credevi, come a me pare congetturando dalle  tue parole, che Amore fosse l’amato, non gii  l’amante. Perciò, credo io, l’Amore ti appariva  bellissimo. Chè di fatti l’oggetto dell’ amore è  il veramente bello e il delicato e il perfetto e  il beato ; invece, quello che ama, presenta un’ altra  idea, quale l’ho discorsa.   Ed io ripigliai — Sia pur così, forestiera: chè  tu parli bene. Ma se è tale l’Amore, di che  uso è agli uomini?   D Q.uesto, Socrate — rispose — mi sforzerò d’in¬  segnartelo ora. Dunque è tale l’Amore, e nato  a questo modo, ed è, come tu dici, amore di  bellezza. Ora, se uno ci domandasse — O So¬  crate e Diotima, che è egli mai l’Amore di bel¬  lezza? Ma lo dirò più chiaro cosi: — Chi ama  la bellezza, che ama egli mai?   Ed io risposi — Che la diventi sua.   La risposta — dice — desidera quest’ altra in¬  terrogazione : Qjuello, a cui la bellezza diventa  sua, che n’avrà egli?      io   A rispondo'' 1' uundo, si sei- ^   i. 8'*'“ f p sé '«'*! S bello e li down-   '.rd;iééoo>d,'“rs«"^“'’*'““   . Socrate, su.   diventi suo ^ Snti suo, che n’avrà   ,.,,nriparpihage- aos   3 sarà felice. ^ ^ possesso del bene   ' Di fatti. -- dtsse domandare   son feli<^'‘ ' vuole esser felice; an«   Trite ^bbia qui termine.   "^'’dIcì la rquesto amore, credi   Ora, questa vo uomini, e eh   ? -noTav t "empfe il bene? o come  tutti desiderino di avi.   dici tu? , rnmune a tutti.   Cosi - dissi to __ ^-jsse lei — non dt-   0 perchè mai, Socrate lo   clamo che tutti diciamo che amano   stesso e sempre, ma di alcuni   e di altri no? ._anche io.   Me ne maraviglio -- dissi ^ noi.   Ma non te ne maravig i i^ chiamiamo   sceverando una specie e .^ig q nome t   col nome del tutto, ass g nomi.   amore; e per le altre usiamo al   Come che? - poUsis (aai) Come questo. Tu sa atto eh   cosa di molto comples causa che una cosa qualunque passi dal n  sere all’essere, è poiesis; sicché le operazic^"^  pendenti da qualsiasi arte sono poieseis  operatori poieiai tutti. ’   Dici il vero.    Eppure, tu lo sai — dissé, — non si chiamano  tutti poietai, ma hanno nomi diversi; e una par  tirella della poiesis sceverata da tutte le altre  quella che ha per oggetto la musica e i metri’  si domanda sola col nome dell’intero: giacchi  questa sola .si cloiama poiesis, e poieiai quelli che  possiedono questa particella.   Dici il vero — diss’ io.   Ora è appunto cosi dell’ amore ; la somma n’ è  ogni desiderio del bene e dell’esser felice;  ma quelli che vi si avviano per un’altra delle  molte vie, del guadagnare, poniamo, o dell’eser¬  citarsi in ginnastica o del filosofare, non si dice  che amino nè che sieno amanti; invece, quelli  che mirano a una sua specie, e a questa pongono  il cuore, prendono il nome dell’intero, amóre e  amare e amanti.   Risichi — diss’io — di dire il vero.   E v’é — disse — un certo discorso, che quelli  amino i quali cercano la metà di sé stessi;  ma il discorso mio dice, che l’amore non sia nè  della metà nè dell’intero, quando, amico mio,  non si trovi essere un bene; dappoiché gli uomim  si tagliano volentieri e mani e piedi, quando le  membra lor proprie le credano malandate. Giac¬  ché non è il proprio, credo io, quello che ciascun  uomo ha caro, se già uno non chiami pròprio  il bene, altrui il male ; comecché non sia altro      iciò no-'nspos“°-   te P»'    20&    <”'r'di iri - S*pu6 di» s'”'P'‘'   dtól- j„e aggl»«8«« -   ‘'sTiv. aSS'ffSdd - di   £ non . sempre ^   Verissimo —   x:^v   I Ora, poiché l’amore^ ^fo^zo^^dT^chi'vi corre  I riprese lei —. la cura chiame-   • dietro, in che modo e m q ^o sai   rcbbe amore? che opera e mai q   tu dire? . ^isgi — taato, o Diotima,   Non t’ammirerei- di« ^.   per la tua sapienza, m- « q  parare appunto questo. ^ . l’opera é par-   Ma te lo dirò io -- tisp j-ome   torire nel bello, nei rispetti   deir anima. l’indovino; che mai   Ci vuole — diss io   vuoi tu dire? hlon ‘^°™P^^“-egherò pih chiaro.   Ma io-disse lei -telo spiega        D    207    86 ^   Convito   Oh uomini — disse — tutf  corpo e nell’anima, e  la natura nostra ha desiderio di" """ '''*   partorire nel brutto non può 0   E cosa divina è questa - e^in’ siO   tale, questo è inmtomi;, il co»"”* .'2;  rare Ora. l’uno e l’al„„ j  succedano nel disarmonico. E il *'*’'•« cht  monico da tutto quanto il divino  bello. Sicché Bellezza é Moira ed’Flir°"Ì.^'‘^  alla generazione. Perciò, quando la?  pregna s’ accosta al bello, diventa ilare  gioia sdilinquisce e partorisce e genera i qu? !  invece al brutto, si rannuvola e per il dolore •  raggomitola (229), e si raggrinza e non genera'  ma, poiché vieta al feto d’uscire, se ne sente  male e qui appunto è la causa che la creatura  pregna e già smaniante è presa da ansietà molta  alla vista del bello, perchè questo libera da gran  doglia chi lo possiede. Giacché Socrate, — dis¬  se l’amore non è del bello, come tu credi.   Ma e che?   Della generazione e del parto nel bello.   Sia pure — diss’io.   Certissimo — rispose lei — ; ma 0 perchè della  generazione ? Perchè la generazione è un gene’  rato sempiterno, e, per mortale, immortale,  Però, dietro quello che s’ è convenuto, è neceS’  sario che dell’immortalità l’amore senta si desi  derio, ma accompagnato dal bene, s’esso èamotf  dell’ aver seco il bene sempre. Sicché, conformi  a questo discorso, è necessario, che l’amore anchi  dell immortalità sia amore.  ,pnti dunque, mi dava  . nesti insegnami’’ ’ J A,more;  nfS S,i. o Socrate.   '8”' "ia mi ‘>»®”taesto .mote e iel deM-  : sia causa di 0 ° violenta disposi-   it'*, O non „• jllorchè deside-   *'"1 enttano gU ““.t “'ti q».»» i «olaf''. ^   S8rlS’m«reomotosamenm^“;'   ifcoSattere i per proprio   . . p si a venir meno aeiw qualun-   quealtro atto? ^ facciano per virtù di   “';'“''’-o' S # animali, qoale d c   raziocinio, o g rnsi? Lo sai tu dire ^  struggersi d’amor saprei.   Ed io da capo diss ^ ^ai di-   in cose dimore, se non mteod,   J'^'^^Ma^ppunto per J^j 2 so''chrho bisogno  or ora, io vengo da te, peretóso ^   di maestri. Ma dimmela m  e di tutt’ altro nelle cos amor   Ebbene, se tu credi eh P ^ pib vohe»   sia di quello che abbiamo c ^^.^a il »   non te ne ^ale cerca essere, P   L discorso, la natura m ‘gitale -  quanto può, sempre può solo per questa via, per la via dell    razione (232), perchè lascia sempre un n'^”'^'  invece del vecchio ; giacché anche nel tratt'o°'^°  tempo che ciascun animale si dice vivere e  rare il medesimo, come, per esempio uno T  fanciullo insino a che sia diventato vecchio t  detto il medesimo ; però è cliiamato il  desimo, quantunque non conservi mai b st ig  stesse cose, ma parte si rifaccia sempre giovine    parte alcune cose le perda e nei capelli c nella,  carne e nelle ossa e nel sangue e in tutto quanto  il corpo. E non solo nel corpo ; ma anche nel-  l’anima il tratto, i costumi, opinioni, desiderii,  piaceri, dolori, paure, tutte le disposizioni siffatte  non sono mai presenti le stesse in ciascuno, ma  quale nasce e quale muore. E, cosa più bizzarra  ancora, le cognizioni non solo alcune nascono  c altre muoiono, e non siamo mai neppur rispetto  alle cognizioni i medesimi, ma anche ogni sin¬  gola cognizione è soggetta allo stesso. Giacché  quello che si dice meditare, ha luogo perchè la  cognizione va via; dimenticanza, di fatti, è di¬  partita della cognizione : meditazione, invece,  ingenerando una cognizione nuova in luogo di  quella che se n’è ita (233), salva la cognizione  tanto da parere la stessa. Chè a questo modo  tutto il mortale si salva, non col restare sempre  in tutto e per tutto lo stesso, come il divino,  ma col lasciare quello che se ne va e invecchia,  qualcos’ altro nuovo, quale esso era. Con questo mezzo o Socrate — dice — il mortale par¬  tecipa della immortalità, così il corpo come ogni  altra cosa: impossibile in altro modo.,  „»r n.»'* 08 “  r,o • siacchè per   .8» xxvn   me nc   . ««ito q»““ *!“I!°;dio-s»pi“-   dubi»^*^’ . j^.dare all’ amor stupore,   “ •'?irfagio'^‘'''°^^”'''^°-h aie io ho  uoiuim» . ^ niente ci i>j.jnore del di-  o come si struggono d amor  concependo ccn^^ e di  ventare rin ‘ ^ eterno,   lasciar di se g ^gnl pericolo   e son pronti per e consumar le so-   norto a PATROCLO « ^f^no, se non avessero  figliuoli per salvar loro il reg  creduto, die _   una immorta ppuiito conser-   • a; loro, come apF _anzi>   rimasta memoria ^j^vvero — ’   viamo noi oraf i  io credo.    >>   per imniortal virtù         Convito   e per siffatta «gloriosa fama,, ,   cosa, tanto più, quanto mieiin   sono dell’immortale innamorar pS   Ora quelli — disse —, che so ^   poralmente, si voltano piuttosto" allff^  diventano amorosi a questo modo e   diante la generazione dei figliuoli, ’ ^   « Immortai vita, insin che il tem,^ ^   « Procurando », ^urì,    secondo credono,  e felice e ricordata;   i pregni invece nell’anima... giacché vi sonopu,  quelli — dice — , che concepiscono nelle anime  anche più che nei corpi, le cose che all’anima  s addice e concepire e partorire. E oh! che le  SI addice? La sapienza e ogni altra virtù, cose  appunto di cui sono generatori i poeti tutti, e  quanti v ha artisti che si dicono inventivi: però  d ogni intendere — dice — il maggiore e il più  bello è quello il cui oggetto sono gli ordini delle  città e delle case, a cui si dà nome di temperanza  e di giustizia. E quando poi uno, essendo  divino, sia da giovine pregno di tali cose nel-  1 anima, e, giunta l’età, desideri oramai di par¬  torire e di generare, cerca, credo io, anche lui,  girando attorno, il bello in cui generare ; giacché  uel brutto non genererà mai. Sicché, come pre¬  gno eh’ egli è, si compiace de’ corpi belli piut¬  tosto che de’ brutti; e quando s’incontri in una  Della anima e generosa e di buona natura, si  compiace, e di molto, dell’insieme, e subito con , honda in „ ^he studii prò- ^   ersona poomo buon venuto   ^ette a educarlo.^ ^„„,ersando con   della beila ^15 di cui era   ^ntan° credo, e gener   {Ìa.pa^^;\cnin> " ^'^to insieme con quella,   %< e alleva il ^ggior comunanza   jU^^^’:,rcbe una molto gVi um   "’f figlinoi' (ai?)- ! poicbt in pm   cbe e amicir-ia prn accomunati.   '‘ immortali ftgbn®^’ " ^ lui nascessero   nTe avrebbe caro .^ando e a D    chet:   0 se ti piace, ".f " ^.^eutone, salvatori d ^   I lasciò Licurgo m L 1 EUade. ^   I tcedemone, 0, per Solone per la g^n   ! E presso di voi °"°;Xi valenti uomini in altri  ' aione delle leggi, ed altr ^ . ^^^.bari,   luoghi parecchi, e tra g^^f/^.ueratori di virtù  autori di molte e belle «per , ^ furono   si.   eretti per via di tali 5  umani sinora a nessuno. E ,ta qui, qu““ A”"' cui   i.. coi torso, So««“.’!''y„ìtivo (oi® “  k; ma in quello P"'' queste, quando uno procede bene  IO non so se tu saresti capace. Te  dunque, io — dice, — e ci metterò tuttrirb*®"*’  voglia ; e tu provati a tenermi dietro, se ti •  Giacché — dice — chi vuol mettersi per la  via a simile impresa, deve cominciare da gì  ad andare incontro ai bei corpi; e da  quando chi lo guida, lo guidi rettamente, ama'r*'*’  uno di quelli (2J9), e quivi generare bei pensieri^  e di poi intendere, che il bello di qualunque  corpo è fratello con quello di un altro corpo-  e se bisogna andare in cerca di ciò eh’è bello  in genere (240), sarebbe una stolteaza grande  non riputare una e medesima la bellezza su tutti i  corpi; e quando abbia inteso questo, renderlo AMATORE di tutti i corpi belli, e rallentargli quello  struggersi violento per uno solo, facendoglielo  sprezzare e tenere a vile; e di poi reputare la  bellezza nelle anime più preziosa di quella nei  corpi, di maniera che, se anche uno, ben fatto di  animo, abbia del rimanente poca venustà (241),  egli se ne contenti e lo arai e n’abbia cura e  partorisca pensieri e ne cerchi di tali, che fac¬  ciano migliori i giovani; affinchè da capo e’sia  costretto a contemplare il bello negrinstituti e  nelle leggi, e vedere com’esso è tutto connatu¬  rato con se medesimo; c dopo gli instituti  lo meni alle scienze perchè di novo veda la bel¬  lezza delle scienze ; e guardando ormai a un bello  già copioso, non sia, servendo al bello in una  singola cosa come domestico, un’abbietta e me¬  schina persona, che s’attacca alla bellezza d’un  fanciulletto 0 d’un uomo o d’un instituto unico.   dclbcUoccontcm-   . - discorsi e ma   rivo''° “'torist^^ filosofia infinita, smo   k>' CV' >VTeS»cWto,n<.n;.s»’-ga  fcf.a J- *e SU sc.c« *   r^‘'’';Su -'SS. E gù, E   •. ctato educsito sin qui   alle cose Qgpetti, pressoch   srs* “"ss “qSii» “pp””®’. °   • rrp<;ce nfe scema, e a y e ora no,   tncii cresce u^i-»i-tn ne or*^ j.   verso e per e brutto in un JJ   nt bello in un ”spu«o g neanche il bello   qua bello e qua brutto come un   si presenterà alla sua . p ^tecipa il corpo,   visS 0 mani o nient’ altro cm par   neppure come un discorso ^ ^.^,erso, m u^ ^   c eppure come m qual ^ ,ieio o m   animale, per esempio, uniforme s   altro, ma esso stesso di P belle tutte   stesso in sempiterno, e che   partecipanti di esso pe periscono, ess   queste altre si generano uà patisce   diventa punto maggior  nulla. Sicché, quando uno, per aver am  fanciulli nel buon modo, risalendo dallp .. *   quaggiù cominci a vedere cotesto bello all  si può dire che tocchi la meta. Giacchi  sto è nelle cose di amore procedere o essT^'  condotto bene da altri ; movendo da’belli sensu^  di quaggiù salire sempre sempre attratto dal bello  di lassù, montando come per gradini, da uno a  due e da due a tutti i bei corpi e dai bei corpi  ai begl’ instituti e dai begl’ instituti alle belle di¬  scipline, e dalle discipline terminare in quella    disciplina, che di altro non è disciplina se non  appunto di quel bello ; e conosca terminando ciò  che ò per sè bello (244). Questo, se altro mai, —  disse l’ospite di Mantinea, — è il punto della  vita, degno che l’uomo ci viva, contemplando  il bello in sè; il quale, quando tu una volta lo  veda, non ti parrà da metterlo nè con oro, nè  con veste, nè con bei fanciulli e con giovanetti,  che vedendo tu ora sei tutto sgomento, e sei  pronto, e tu ed altri molti, se possibile fosse,  guardandoli, questi amati vostri, e vivendo sem¬  pre con loro, a non mangiare nè bere, ma solo  contemplarli e stare insieme. O che cosa —  dice — pensiamo, che debba essere, se uno abbia  la sorte di vedere il bello per sè, sincero, puro,  inmisto, e non già ripieno di carne umana e di  colori e d’altra molta inezia mortale, ma possa  riguardare esso il divino bello di per sè uni¬  forme? (245) O credi tu, — dice — che sia spre¬  gevole la vita dell’uomo che guardi colà, e quello  contempli sempre e stia insieme con esso? O  non intendi — dice —, che quivi soltanto, ri-       9>   con coi C   il W'“> "" „“n immagini di »«<,  li non vp.ra.    , Kiio con * a .W,   ..aa'»'" ' li parto*" ” " ma vitti vera,  tocc^^ una virtù vera e   ncca il ^di diventare amico di   ““ ^   ^'riisse aVf anche gli ^1“*»   r 70 di persuader *_ potrebbe da nessuno  siffatto non si p   ""TC aiuto all’ umana u«umj^.   Moro. '"'"‘‘'•«“'“J’l'onoro io atasso (a4«).   uomo onori Auu°" esercito soprattutto e   c nelle cose di am^ ^ ^^.omio la   v’esorto gh ^e a tutto mio pot«e.   potenza discorso tu ritienilo C   Or bene, o ,d Amore’, se no.   detto, se ti piace, m ^^^ba.   e tu dagli quel nome, che  Finito ch’ebbe   raccontava, lodassero , parlando aveva   a dire qualcosa, perch jq ecco all'im-   alluso al discorso di lui- q sentire   provviso la porta del au yseiù da^ un   un gran rumore come i ^ una flautista,  banchetto, e si ode ^ '^^ „g 22 Ì, non andate  Sicché Agatone dicesse. o entrare se   a vedere? e se è uno di casa  no, dite, che nbbiamo finito di ber  • E di li a poco si udì nellS,,,! ci   :0 frarlirìn    urlando    SI riposa   di Alcibiade briaco fradicio, che  domandava dove è Agatone, e ordinav^'j  tasserò da Agatone. Sicché la flautista  reggeva e alcuni altri della compagnia^ j  tarono da loro ; e, coronato di una coróna f  di edera e viole e tutto coperto il capo dì  infinità di nastri (248), lo fermarono sulla po''*'*  ed egli disse: Amici, vi saluto; un uomo, bria*’  proprio fradicio, lo pigliereste con voi a bere 0  ce ne dobbiamo andar via, dopo avere soltanto  coronato Agatone, eh’ è quello per cui siamo ve¬  nuti ? Giacché -io — dice — jeri non ci potetti  essere, ma vengo oggi, coi nastri in capo, perché  dal mio capo quello del più sapiente e deh più  bello io ne recinga. Forse, riderete di me  perché son briaco? Ombè, io, quand’anche voi  ridiate, pure so bene che dico il vero. Ma dite  su, a questi patti entro o no? Beverete 0 no  con me? E qui tutti strepitarono e gridarono  che entrasse e si sdrajasse, e Agatone ve lo in¬  vitò: ed egli, condotto dalla sua gente, venne;  e, poiché a un tempo si levava di capo i nastri  come per incoronarne altri, non s’accorse di So¬  crate, che pure gli stava davanti agli occhi, ma  si messe a sedere accanto ad Agatone in mezzo  tra Socrate e questo ; — giacché Socrate s’era  tirato da parte per fargli posto: — c cosi  sedutoglisi accanto fece riverenza ad Agatone  e lo coronò. E Agatone qui disse : Ragazzi, le¬  vate le scarpe ad Alcibiade, perchè si metta a  giacere in terzo con noi. Sicuro — rispose Alci-     compagno no jo’   .uj è questo te Socrate, e al   •e- - voltato»' f ^   &"<r6 "" Dunque, da capo   L«'°. ii! 5°““'“ Tkf”' '» P““’ “”"l   Pi qui sdtaU'^®.^,improvviso dove meno   '"'ffpoi ti sei messo a g^ace^   ^P''lcaJto ad Ma tanto hai   a«o o qua dentro. _ uarda   luauti sono q Agatone — disse, ^&   E Socrate, cerchi: l’amore che to P   . nii vieni in aiuto ; P un affar   fili è diventato per m , m-   :;rDifatti, dal tempo <^e m   *or..o '»i. “"„rp«-a D   ”' dTco”o«“re Ln o-,»no V sto  nessuna, ne di c invidioso fa cos   qui ingelosito di ^ "“"J.peri, e poco manca  strabiliare e mi copr Addosso. Guarda,   che non mi metta le m^n  dunque, che non faccia un d  ,na metti pace tra ° ^el furore di costui   lenza, difendimi tu, perd è addirittura   e del suo innamoram -pigliò Alcibiade:   Pace fra te e me ^ jto io ti g^»«'  no davvero. Se non ehejer p,,te   girerò poi; ora, Agatone questa testa qui   L nnstri, P»cM .0 «e J   maravìglìosa di ’ oronaw 'e. nien«*=   pioverà, che io 1'“ “f ji,cofii, noi sol¬  ete viiiee tuni gli 7   Platone, Vo/-    9 ^ Convito   tanto dianzi, come tu, ma sempre   renato. ’ ho   E qui, prese i nastri, ne cinse So  mise a giacere.   E quando si fu sdraiato: Su via, amici  disse — a noi ; mi sembrate gente che non T  ancora bevuto; questo non va, bisogna bere; cllè  cosi è l’accordo nostro. Or bene, io scelgo a  re del bere, insino a che voi abbiate bevuto ab¬  bastanza, me stesso. Agatone porti, se  v’è, un gran tazzone. O piuttosto non occorre-  porta qua, ragazzo, quel bigonciolo vedendo che conteneva più di otto cetili. E  riempitolo, tirò giù tutto prima lui; poi, ordinò,  che si mescesse a Socrate, e insieme disse: Con  Socrate, amici, l’invenzione non mi giova a nulla;  questi può bere quanto uno vuole, e non v’è  caso che si ubriachi mai. E Socrate, quando il  ragazzo gli ebbe mesciuto, bevve. Qui Erissima-  co, — Che modo è questo — disse —, Alcibiade ?  cosi nè discorriamo di nulla sul bicchiere, nè  c’intoniamo un canto; oh! berremo proprio come  assetati ? E Alcibiade di rimando : O Erissi-  maco, ottimo figliuolo di ottimo e sapientissimo  padre, salute. E anche io a te — rispose Eris-  simaco; — ma che s’ha egli a fare? Il piacer  tuo ; giacché ti si deve obbedire.   Un medico vai solo uomini molti ( 253 );   1   sicché comanda ciò che tu vuoi.     t)    „ • a   tS»aS» 'TSsfAS:: °»   ‘T .Coe ’l‘»”‘> Ti Tjo che «»»   fu W» So»»"-»""”*'   parli bene; però bad , non hanno   di fronte a discorsi ^ aguale. E insieme,  bevuto, può non esser p S gocrate ha   b-ruomo. appunto «>«   addosso. , __ disse Socrate?   Ti vuoi chetare Alcibiade -, non   Affé di Posidone - "P‘P^ f non v’ è   ci metter bocca; che io in faccia a te, no   nessuno al mondo che o crei.   Ebbene, tu fa’ cosi, — riprese i.   se tu vuoi, loda de_? S’ha a fare.   Come dici -ripetè Alcibiade ^   Erissimaco ? Che io dia *   lo gastighi davanti a ^ che hai tu   O tu — interruppe Socrate • ^   per il capo? Mi loderai per canzo  farai?    r\ir<S W vprn. Convito   An^i, il vero Io permetto, e t!  dirlo. *1 comando d-   Son pronto — disse Alcibiade - • ’   Se io dico qualcosa di non vero ^osl   a mezzo, se vuoi, e di che quella 6  giacché di proposito bugie non ne .“Sia;   = '5 però le cose io le dico, secondo mi c. .  in mente l’una dall’altra, non ti stup°*’’’'““°  non è punto facile, a un uomo in quesm  lo spiegare alla lesta e per ordine roriginar°à   B    c    Socrate, amici, io mi proverò a lodarlo cosi  per via d’immagini. E forse questi crederà, che  io lo canzoni; ma l’immagine in verità avrà per  suo motivo il vero, non lo scherzo. Io dico  dunque ch’egli è somigliantissimo a cotesti (254)  Sileni esposti negli studii degli scultori, che gli  artisti fanno con zampogna o flauti in mano;i  quali aperti in due mostrano aver dentro imma¬  gini di Dii. E dico per giunta, ch’egli s’assomigli  a Marsia il Satiro. E, che tu sia di aspetto simile  a questi (255), neanche tu, Socrate, ne faresti  questione (256) ; ma come tu somigli anche nel  resto, sentilo ora. Sei tu petulante o no? Ché,  quando tu non lo confessi, presenterò testimoni.  Ma non flautista forse? Anzi molto più niira-  bile (257); l’altro, di fatti, attraeva gli uòmini  colla potenza, sì, della sua bocca, ma attraverso  istrumenti, e anche ora, chi suona le cose di  ui, giacché quelle che Olimpo sonava, io le      D    lOI   Convito   . o di Marsia, .f^eseguisca un buon   , cenate di quello, o fi ^ causa,   Si ““   uno si »»'* l’S ’ta'bisogno degli Di'   ;^ono, f\u gli vai tanto innanzi,   d’iniziazioni. ^«ieni quel medesimo   che senza istrumen . c y Almeno, noi,   S.0 =0» f““ “« uii™- Ti   quando si ode discorrer^ ^i   dicitore anche nulla, vi so dire, a   un altro, non ne impor te, o un altro   nessuno; • gè anche chi li reciu   che reciti i discorsi tuo , ^na   sia proprio un uomo a P^ ^ restiamo sba-  d„„L d ua uomo o se non   lorditi 0 '"“““V,, per briaco, vi rac-   velessi passare addinttur p   cornerei con giumme»»; fpoSsento tuttora,  risentito dai suoi   Che, quando ><= '’SÌ'"'“ ^   XìltnSmi àendo Pericle e altri buoni   parlatori, io ero anima mi   ma non provavo nulla di sim ,   “siTer^nrTa’i “r^esto Marsia gui  mMtanno pib volte fatto tale   renili, non sacrate, tu non dirai ai6   nel mio stato. E ciò, o S , , mscienza   che non sia vero. E   che, se volessi prestare sforza   ma mi seguirebbe il medesimo. a convenire, che, con tanti mancamenti ,  trascuro me, e attendo agli aflfari  Sicché io, turandomi le orecchie si  Sirene, mi fo forza (261) e fuggo vir°'”^  invecchiare seduto accanto a costui  quest’uomo m’ò seguito quello che nessuno    ere-    derebbe di me, vergognarsi di uno. Io di  solo mi vergogno. Giacché sento dentro    di non poter contradire, che non bisogni far  quello a che lui mi esorta; ma poi, appena io mi  son staccato da lui, ecco, la voga dell’aura po  polare mi vince. Sicché io lo scanso e lo fuggo-  e quando lo vedo, mi vergogno di ciò che si t  caduto d’accordo. E tante volte io vedrei vo¬  lentieri che non fosse più tra gli uomini; ma  d’altra parte, se ciò accadesse, so bene che me  ne rincrescerebbe assai più, per modo che di que¬  st’uomo io non so che mi fare.     Dunque, dalle sonate tanto io che molti altri  abbiamo provato tali effetti, da questo satiro. Il  resto, sentite da me, com’egli è simile a quelli  a cui l’ho raffigurato, e la potenza ch’egli ha,  come sia maravigliosa. Perché siate ben persuasi  che nessun di voi lo conosce ; ma ve lo scoprirò  D io, giacché ho cominciato. Voi vedete che So¬  crate ha tenerezza pei belli, c gira loro sempre  d intorno e n’ è tutto fuori di sé come mostra  la sua figura (262); e non è da Sileno cotesto?  Eccome 1 Giacché e’se l’é avvolta per di fuori’     "“'"ù Sto» scolpi»; »»   B 8 “'» ''°' o>‘‘“s"r-   . %A rhe son levai'- «ì^rp e noi altri   Ma quapi»   canzonare la ^ ^ erto, io non so se   si mette sul seno ed t • p jo gl*   qualcuno ha visto t s'rnulaar^^^„ ^   ho visti una volta, doversi far m   aurei e bellissimi e m ^;,enendo   tutto 50 della mia bellezza,   che sul seno si fo^s^ ^ inaspettato c una mia  lo giudicai un guada S P . modo,   ,„„„„a "«"tS,.; d' «pptendera .«.o ci 6  : compiacendo Socrate ore   i che costui sapeva, già ^ Sicché, con   ! ne tenevo non vi so <\ solito di   ' CS4) " ursenza uno accompagna-   d- allora io P». ^,o^.a B   toro e me no “i™,“ ' ° bone attenti, e se   dire tutta f sbàttimi. Adunque, io   mentisco, tu, bocrate, ^   me ne stavo, amici, ^ meco nei di¬  devo eh’ egli sarebbe su i o * amato   scorsi che un innamorato questo non   a quattr’occhi, e ne 8° 5^0^52 meco come   ne fu nulla, proprio nu s , .era solito, e dopo, passata cou me tutta nata, se n’andò. Di poi lo .  ginnastica (265); troverò quivi il bL" ^   ' ;->g-avo. Ebbene fece ginnasdcrt ’'"’«’-  lottò spesse volte, senza che ci fo«  nessuno. E che s’ha a dire? No  un passo avanti. Poiché non venivo"  nessuna di queste vie, mi parve cheV*^^^'^'^  dovesse assalirlo alla gagliarda, e una voir°u‘  nn ci ero messo, non smettere, ma  oramai che affare é questo. Sicché lo inlv  a cenare meco, tendendogli un agguato propri!  come un innamorato all’ amato. E neanche 0 •  diede retta subito; pure col tempo s’arrese. Ora  la prima volta eh’e’ci venne, volle, finito dì  cenare, andar via. E per quella volta io ebbi  vergogna e lo lasciai andare; ma la seconda,  fatto il mio piano, dopo che ebbe cenato, con¬  versai con lui molto avanti nella notte, e sic¬  come voleva andar via, col pretesto che fosse  tardi, lo forzai a rimanere. Ora egli si mise a  riposare sul letto vicino al mio, su cui aveva ce¬  nato, e nella stanza non v’ erano altri a dormire,  fuori di noi. E, sin qui, è un discorso da potersi  fare a chiunque (266) ; ma di qui avanti non mi  sentireste parlare, se, prima, dice il proverbio,  il vino non fosse veritiero coi fanciulli e senza  1 fanciulli (267) : e poi mi pare ingiusto, una  volta che mi son messo a far l’elogio di So¬  crate, di nascondere un suo superbissimo atto.  E per di più l’effetto del morso della vipera ha  luogo anche in me. Giacché raccontano, che la  persona che l’ha provato, non vuol dire com’ egh‘  k stato, se non a’morsicati, poiché questi soli    Convito _ j   -inno e compatiranno, 'siccht i   -r. £ o-» ->    105  do-   ite"‘^^^‘‘”s°to'’fare e dire doloroso   (jorso fl P potesse essere   fTX ‘'“°"®.°e'-e'morso da discorsi  ‘ me gli s‘ ^ ' no neggio d’una vipera,   ffamio operare Agatoni, Ens-   ,rte vedendomt davmi Aristofam-   simachi, Pausami, ^nsto ^^^jj^inarlo, _e   Socrate stesso, che ^ e dal delirio   tanti altri? (268) Che sen.   della filosofia siete m voi    B    xxxiv   Poiché, dunque, amici, p^^ve^ che io   ; i ragazzi furono usciti, a P  lon dovessi pigliarla larga con ^jgsi;   libera quello ^^tto - quello rispo-   Socrate, dormi? ^ Che cosa?-   se - Sai tu che cosa ho ^ciso   disse. A me — diss to » „ g ti vedo esitare  innamorato «ùo degno ' questa di-   a farmene parola. tJr , grande il   sposizione-, io ritengo . g y’è altro che   non compiacerti anche melò e se  ti faccia bisogno della sostane-, „  amici miei. A me nulla è di . ° deei:   quanto diventare il migliore che iT'' ''‘"4  CIÒ io credo, che nessuno mi sìa aium à   di te. Ora, a non compiacere un  tua fatta io mi vergognerei assai più dav °  persone di senno, che non davanti alla ge  stolidi a compiacerlo (270). — E lui^ .  ebbe ascoltato, con aperta ironia, e proL°io'’"  è solito, rispose: — O caro Alcibiade rTw  m realtà di essere un uomo non dappoco  : cade che sieno vere le cose che tu dici di’  v’è in me una potenza per cui tu potresti diven¬  tare migliore ; una infinita bellezza tu avresti  scorto in me, e superiore di molto alla venustà  eh’ è attorno a te. Sicché se tu, avendola vista,  tenti di accomunarti con me e barattare bellezza  con bellezza, non è piccolo il vantaggio che tu  pensi di prendere sopra di me, anzi in cambio  dell apparenza tu cerchi di acquistare la realtà  del bello, e pensi di barattare davvero « oro con  ferro » (271). Ma, beat’uomo, guarda meglio;  che io non sia nulla e tu t’inganni. Appunto, la  vista della mente comincia a vedere acuto, quanto  quella degli occhi prende a scemare del vigor  suo; ora tu sei ancora lontano da questo. — E  io, sentito ciò — Quanto a me — ripigliai —, le  mie disposizioni son quelle, nè se n’ è detto nulla  diversamente di come penso : decidi poi tu come  tu credi meglio per te e per me. — Ma di ciò —  riprese tu dici bene ; sicché a suo tempo ci  consiglieremo insieme e faremo quello che ci  parrà il meglio cosi in questa, come in ogni    107   Convito cpntite e   „ _ Ora io. P'' “'lomTsaW'.'’*®   loi”' “reaovo aver lanca» ni la-   fi'"' /'“Vr“iu. 5o réti C   Latori' P‘“jJ era <1 ly™ le mairi   alvino   (attorno a q ^ cosi l’m^era no • £b-   ffrtrbtare aire,   ::tiot-r:it:'t'rpt   venustà mia e la P __ ^ giudici ( 273 )  che valesse qualcosa fJ / x\o di Socrate —  chè voi siete affidigli Dn. affé delle   giacché sappiate, che 1 , dormito con   Dee, mi levai da ^ avessi dormito   Socrate, “ to maggiore.   I con mio padre 0 coi   xxxv   Ora i^oPO f  *'par;»   ; rr lataft e la -e^po-a ' U co^»   di lai, io che m'ero “"rX;°,„ai, goanto  come non credevo ?orcr }^conn^. l^^^niera che   a saviezza e fortezza d’animo? Dima   10 non sapevo, come ad » neanche vedevo   I rinunziare alla sua compag ’ . ^ conoscevo ^   11 modo di conciliarmelo. invulnerabile   bene, che al denaro egli mezzo   da ogni parte che Aiace al ferro (274), e    1   io8   'invito   con cui solo credevo che si  ni era sfuggito di mano. SiLSf P^end  zato, e fatto schiavo da quest’uo'° ’‘nbaf“‘  mai nessuno da nessun altrui- <:ome   casi m-aran ,„.i seguì»   cenimo tuttedduela compagna f'   quivi fummo compagni di mensa   cominciare, non solo nel durar ‘le  mi vinceva, ma in ogni altra cosa  ogni volta che - son casi che succedonot'’^““-  ra - intercettati in alcun posto, eravamo os^oT-  a rimanere senza cibo, gli altri, quanto Tre?  stervi, non valevano un ette. E d’altra narto •  banehetti , non c’ era chi sapesse goderne Se ®  lui, cosi 111 tutto il resto, come anche nel bere-  e non ci ha gusto —, s’ei v’era costretto, vinceva  tutti (276); e quello che è più maravighoso,  Socrate briaco non c’ è uomo al mondo che l’ab¬  bia visto mai. E del resto mi pare che di ciò  s avrà la prova subito. Q.uanto poi a resistere  al freddo e là gl’inverni sono terribili (277) —  fece cose mirabili in tanti altri casi, e una volta,  essendo gelato come peggio non si può, e tutti  o non uscendo fuori, o, se pure, coperti tanto  da fare stupire, e calzati e coi piedi rinvoltati in  feltri e pelli di pecora, ecco lui, con un tempo  di quella sorta, se n’esce con un mantello come  quello che soleva portare anche prima, e scalzo  camminava per il ghiaccio meglio che gli altt*  calzati. I soldati lo sogguardavano come uno  che li sprezzasse.    CoiifVÌ‘°    109    D    " 'tee e tollerò l’uom forte   or che merita di sentirlo. Ve-   „ giorno all’esercrto^ m un   r un pensiero stett   r! iJettendo,epof ;;teri E   Csniesse. nta ^ /nomini se n’accor-   g;; maravigliati ^l^'^^tuminando qualcosa.   ente dall’t^lba J r^g), - poicltè era se-   finirla' alcuni Joni (,27 J __ era   » io--'   a’estate — 1 \nsieroe per spiare, se lui sa   all'aria fresca, e si, in ^ ghette   •ebbe stato ritto ^ non si fu levato   ritto, sino a che non ^ ^ j^ra al sole (279)»   il sole; di poi, fatta la preg. baua-   se n’andò via. E ’ - giusto che gh si   glie-giacche questo men^^ ,   renda -, quando accadd ^ „es-   generali dettero la_ palma PP^^^ nou   sun altro uomo '"i salvò ^   volle abbandonarmi ferito. '50 Socrate,  c le armi c me. E j». S»»"“ ’ si desse la  sin d’allora dichiarai a g rimp^vero   palma a te, e di ciò tu n avendo i gene-   e non dirai che io «tentisco- e co¬  vali riguardo al mio gta facesti premura   lendo dare la palma a endessi io e non   anche piò dei generali che i* F          no    tu. Ancora, amici, valse  templar Socrate, quando ]  in fuga da Delio (281); g  sente a cavallo, lui da f  sbaragliati già tutti, egl     Lachete, e io m’imbatto per li à   esorto subito a star di buon animo  loro di non abbandonarli. Or hf’no  crate mi dette più bello spettacolo che in p   dea — giacché quanto a me stavo meno in pa?'  per essere a cavallo — prima, in ciò ch’egb  perava di molto Lachete, quanto all’essere p«-  B sente a sè; poi a me pareva, o Aristofane,-  sai, la tua frase — che anche li egli camminasse  come qui, « in sussiego e guardando di scan-  cio » (282), sbirciando tranquillo, e lasciando scorgere a tutti, persin da molto lontano, che,  se uno lo toccherà, e’ farà difesa ben gagliarda  quest’ uomo. Perciò se ne andava via sicuro e  lui e l’altro; giacche quelli che in guerra mo¬  strano questa disposizione, non li toccano, sto  per dire, neppure; invece quelli che fuggono  C alla dirotta, questi sì, gl’inseguono. Ora, di molte altre cose e mirabili uno potrebbe lodare Socrate, però in altre parti si po¬  trebbe forse dire lo stesso anche di altri, ma quel  non essere simile a nessuno nò tra gli antichi  nò tra i presenti, questo a me par degno di ogni  maraviglia. Giacché Brasida (283) e altri uno se  li potrebbe figurare come fu Achille; e come  D d’altronde e Pericle, così Nestore e Antenore; t ve ne sono diversi ; e gli altri uno se  li potrebbe figurare del pari (285) ; ma uno fatto    in    originalità, e lui e i suoi    f ;tono. P“/““ ‘S ù.   r‘*'^"‘Jbe’ neppn^® a meno che non si as-   ^ -^non a nessun uomo, ma    ;22    . vho tralasciato sinora-, che   Glacchèquesto to somigliantissitni a. E   nche i discorsi di 1 volesse   Sileni che s’aprono. prima gli pat'   jS.«p ‘ ‘r'” tts^òl p»°'p ' >'   rebbero da ridere, tal propriamente di   I So»i 1“„S i “t   Satiro petulante, p sempre   e calzolai e ’ ^^lodo, sicché ogni per-   stesse cose nello smss ^^.^aerebbe   sona inesperw e priva 3,   beffa dei suoi discon . rima   le vede aperti (286) e p j^^nno   lì „ov«à i soli .<!?'“' in sè «pia   poi dmn®n» ' „.i,o an«   di simulacri di Virtù, conviene meditare   con mira a tutto per bene,   a chi voglia essere una p lodo   Queste, o amici, son . quelle di   Socrate; e in <^he egli m’ha   cui lo biasimo, v ho questo sol- B   offeso. E, in fede nnn.non ^^^^.^ne   tanto a me, ma anche ^ ^ tantissimi   e ad Eutidemo di Diocle (28?^  altri, ai quali lui dando ad intendere di v 1  essere ramante, se n’è fatto l’amato in camk-'^  d’amante. È appunto quello che dico anche*°  te, Agatone; non ti lasciare ingannare da lup  ma ammaestrato da’ casi nostri, tienti in guardia*  e non imparare, secondo il proverbio, come un  ragazzo (288), a tue spese. Quando Alcibiade ebbe finito di parlare, si  fece, raccontava, un gran ridere della franchezza  con cui egli si dava a divedere tuttora inna¬  morato di Socrate. E Socrate — O Alcibiade —  disse—,tu non sei per niente briaco, mi pare;  altrimenti non ti saresti provato, rigirando il di¬  scorso con tanta finezza (289), ad occultare la  causa per cui hai detto tutte queste cose ; e l’hai  messo poi come di passaggio, in fine, quasi non  D avessi detto ogni cosa per metter male fra me e  Agatone, giacché, a parer tuo, io devo amar te  e nessun altro, e Agatone deve esser amato da  te, e da nessun altro al mondo. Ma ti sei fatto  capire; chè cotesto tuo dramma satirico e Silenico s’è scoperto. Ma, caro Agatone, ch’egli  non ne profitti punto; anzi, fa proposito, che  te e me non ci separi nessuno. E Agatone ri¬  spose: Certo, o Socrate, tu risichi di dire il  E vero: e lo argomento anche da questo ch’egli  s’è messo a giacere fra te e me, appunto per  separarci. Or bene, egli non ne profitterà niente  affatto; anzi, ecco, mi levo e mi metto a giacere    __   — disse Alcibiade , q proposto   Jm’ba a dare lascia,   to"'" Iffarnii in wtto. Ma se ^   d' lomo che Agatone si lodato   niirabd u^'!: Socrate    u capo nie, in uomo, lascia   ria me? (^9°^ ^ ’ onesto giovinetto che sia   re e non invidiare ^ f^pto desiderio di   lodato da me; chè . y, -soggiunse Agatone -, no^ mai. di mutar posto,   risoluto, ora P" siamo alle sohte   esser lodato da g^^ate, b mtpos-   rispose Alcibiade , P belle per   sibila a chiunque altro di g persuasivo   sene. E »«' «»« p^cUi «stm »   ha trovato e con clie u  giaccia vicino a lui   xxxi^   1 Agatone, dunque   dar a sdraiarsi accanto S ^ue   .ir improvviso s i, uscita di uno, si   [ porte; e trovatele aper P ^ ^ g,^eerc,   l fecero avanti m ver . ^i a bere vino   I c tutto andò sossopra e SI tu o ^   B Platone, Voi. IX.      quello che dicessero, Aristodemo dichiarasse?  non ricordarsene nel resto; poiché non v’aveS    D assistito da principio, e sonnecchiava ; ma la som?  ma, diceva, era, che Socrate li costringeva a  convenire, che appartenga allo stesso uomo il  saper fare tragedia e commedia, e chi per virtù  d’arte (291) sia autor tragico, sia anche comico;  del che costretti a consentire, senza seguire gran  fatto, prendessero sonno, e prima si fosse ad¬  dormentato Aristofane, poi, a giorno fatto, Aga¬  tone. Quanto a Socrate, dopo averli messi a  dormire, si levasse e se ne andasse via, e  lui, com’era solito, lo seguisse; e andato al  Liceo, lavatosi, vi si trattenesse come al¬  tre volte, il rimanente della giornata, e trat¬  tenutosi cosi, andasse poi la sera a riposare  a casa. Francesco Saverio Dòdaro. Dodaro. Keywords: tracce di un discorso amoroso, mappatura, signature, segnatura, cantata duale, cantata plurale, cantata duale, origine del romano, edipo, caino, mancanza di Lanca, communicazione inter-mediale, communicazione inter-mediale e luto, immagine e segno, senso, sensibilia, visibilia, Freud, Jakobson, Levi-Strauss, Magritte, “silenzo silenzo silenzo silenzo” Catullo poema rima ritmo batto cuore figlio madre padre orale genitale ma-ma etymology of ‘altro’ – Hegel on conscience of ego and conscience of alter, Sartre on ‘nous’ and love affair – infinito – lingua a codice – codice come ripetizione – ripetizione dei suoni del cuore – ontogenesi ripete filogenesi – commune, vacuum del ventre della madre, etimologia di termine chiave, fonema, unita etica, unita emica, Speranza, Schultz, unita emica come classe di unita etica – criterio: un accordo o codice di relevanza – l’intenzione del mittente. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dòdaro” – The Swimming-Pool Library. Dodaro.

 

Grice e Dolabella: l’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.Publio A follower of the philosophy of the Garden, and the son-in-law of Cicerone. The achieved the distinction of being pronounced a public enemy by the Roman Senate. He ordered one of his soldiers to kill him. Publio Cornelio Dolabella. Dolabella.

 

Grice e Dommazio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A  philosopher, known only from a surviving bust. Dogmatius. Dommatio. Dommazio.

 

Grice e Donà – sessualità – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “Well, Donà has philosophised on almost anything – I drank wine; he philosophises on it – ‘bacchiana,’ he calls it – he has also philosophised on ‘eros’ for which he uses the very Italian idea of ‘sesso.’ – And he has also punned with ‘di-segnare’ – ‘di-segno’ – In sum, a genius!” Si laurea a Venezia sotto Severino, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Venezia, iniziai a pubblicare diversi saggi per riviste e volumi collettanei, partecipando, lungo il corso degli anni ottanta, a diversi convegni e seminari in varie città italiane. A partire dalla fine degli anni ottanta, collabora con Cacciari presso la cattedra di Estetica a Venezia e coordina per alcuni anni i seminari dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Venezia. Sempre a partire dalla fine degli anni ottanta, inizia la sua collaborazione con la rivista di architettura Anfione-Zeto, della quale dirige ancora oggi la rubrica Theorein. In quegli stessi anni, fonda, con Cacciari e Gasparotti, la rivista Paradosso. Negli anni novanta, invece, ha insegnato Estetica presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia. Attualmente insegna Metafisica e Ontologia dell'arte presso la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È inoltre curatore, sempre con Gasparotti e Cacciari, dell'opera postuma del filosofo Emo. Dirige per la casa editrice AlboVersorio le collane "Libri da Ascoltare" e "Anime in dettaglio" ed è membro del comitato scientifico del festival La Festa della Filosofia. Ha scritto diversi saggi e articoli per riviste, settimanali e quotidiani di vario genere. Collabora con il settimanale "L'Espresso".  Attività musicale In qualità di musicista, dopo aver esordito, ancor giovane, con Giorgio Gaslini e con Enrico Rava, forma un suo gruppo: i Jazz Forms, di cui è leader. In seguito sviluppa il suo linguaggio trasformando l'idioma ancora bop dei primi anni in una scrittura più articolata in cui entrano in gioco elementi tratti dalla musica rock e da molte esperienze etniche maturate nel frattempo con diversi gruppi musicali. Si esibisce in diverse città italiane con un sestetto, in cui ad accompagnarlo sono una chitarra, una batteria, un basso, delle percussioni e una tastiera. Nasce così il D.  Sextet. Suona con musicisti che sarebbero diventati protagonisti della scena musicale italiana. Suona in jam session anche con alcuni padri storici del jazz, come Dizzy Gillespie, Marion Brown, Dexter Gordon e Kenny Drew. Riprende a suonare professionalmente e forma un nuovo gruppo: il Massimo Donà Quintet, con il quale si esibisce in Italia e all'estero. Il quintetto diventa quindi un quartetto; che è la formazione con cui Donà suona da almeno tre anni. A tutt'oggi il nostro ha all'attivo ben sette CD incisi con suoi gruppi. La sua etichetta di riferimento è sempre la "Caligola Records", il cui responsabile artistico è Claudio Donà, fratello di Massimo e importante critico musicale jazz.  Altre opere: “Il 'bello, o di un accadimento. Il destino dell'opera d'arte” (Helvetia, Venezia); “Le forme del fare” (Liguori, Napoli); “Sull'assoluto (Per una reinterpretazione dell'idealismo Hegeliano” (Einaudi, Torino); “Aporia del fondamento” (La Città del Sole, Napoli); “Fenomenologia del negative” (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli); “Arte, tragedia, tecnica” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “L' Uno, i molti: Rosmini-Hegel un dialogo filosofico” (Città Nuova, Roma); “Aporie platoniche. Saggio sul ‘Parmenide’” (Città Nuova, Roma); “Filosofia del vino” (Bompiani, Milano); Magia e filosofia (Bompiani, Milano); Joseph Beuys. La vera mimesi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano); Sulla negazione, Bompiani, Milano); Serenità: una passione che libera, Bompiani, Milano); La libertà oltre il male” (Città Nuova, Roma); Il volto di Dio, la carne dell'uomo, con Piero Coda, AlboVerosio, Milano); Dell'arte in una certa direzione” (Supernova, Venezia); “Filosofia della musica, Bompiani); Il mistero dell'esistere: arte, verità e insignificanza nella riflessione teorica di Magritte” (Mimesis, Milano); L'essere di Dio. Trascendenza e temporalità” (AlboVersorio, Milano); Dio-Trinità. Tra filosofi e teologi” (Bompiani, Milano); Arte e filosofia” (Bompiani, Milano); “L'anima del vino. Ahmbè, Bompiani, Milano); “Non uccidere” (AlboVersorio, Milano); L'aporia del fondamento, Mimesis, Milano), “I ritmi della creazione” (Bompiani, Milano); La "Resurrezione" di Piero della Francesca, Mimesis, Milano); Il tempo della verità, Mimesis, Milano; Non avrai altro Dio al di fuori di me” (AlboVersorio, Milano); “Il conciliabile e L'inconciliabile. Restauro Casa D'Arte Futurista Depero” (Mimesis, Milano-Udine  PANTA decalogo” (Bompiani, Milano); Filosofia. Un'avventura senza fine, Bompiani, Milano); Comandamenti. Santificare la festa” (il Mulino, Bologna  Abitare la soglia. Cinema e filosofia, Mimesis, Milano-Udine); “Eros e tragedia, AlboVersorio, Milano); “Il vino e il mondo intorno. Dialoghi all'ombra della vite” (Aliberti Editore, Reggio Emilia  Figure d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger” (AlboVersorio, Milano); “Le verità della natura, AlboVersorio, Milano”; “Filosofia dell'errore” – errore vero, la verita come errore relative – “Le forme dell'inciampo, Bompiani, Milano); “Parmenide. Dell'essere e del nulla” (AlboVersorio, Milano); “Eroticamente: per una filosofia della sessualità” (il prato, Saonara (Padova)  Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi, Bompiani, Milano); “Pensare la Trinità. Filosofia europea e orizzonte trinitario” (Città Nuova, Roma  Erranze (Alfredo Gatto), AlboVersorio, Milano); L'angelo musicante. Caravaggio e la musica” (Mimesis Edizioni, Milano-Udine); “Parole sonanti. Filosofia e forme dell'immaginazione” (Moretti & Vitali, Bergamo  J. Wolfgang Goethe, Urpflanze. La pianta originaria; Albo Versorio, Milano); La terra e il sacro. Il tempo della verità, Luca Taddio, Mimesis, Milano); Teomorfica. Sistema di estetica” (Bompiani, Milano); “Sovranità del bene. Dalla fiducia alla fede, tra misura e dismisura, Orthotes, Salerno); “Senso e origine della domanda filosofica, Mimesis, Milano-Udine); “La filosofia di Miles Davis. Inno all'irrisolutezza” (Mimesis, Milano-Udine); “Dire l'anima. Sulla natura della conoscenza” (Rosenberg & Sellier, Torino); “Tutto per nulla. La filosofia di William Shakespeare” (Bompiani, Milano); “Pensieri bacchici. Vino tra filosofia, letteratura, arte e politica” (Edizioni Saletta dell'Uva, Caserta); “In Principio. Philosophia sive Theologia. Meditazioni teologiche e trinitarie, Mimesis, Milano-Udine); “Di un'ingannevole bellezza. Le "cose" dell'arte” (Bompiani-Giunti, Milano); “La filosofia dei Beatles” (Mimesis, Milano-Udine); “Un pensiero sublime: saggi su Gentile” (Inschibboleth, Roma); “Dell'acqua” (La nave di Teseo, Milano); “Essere e divenire: riflessioni sull'incontraddittorietà a partire da Fichte” (Mimesis, Milano-Udine); “Di qua, di là. Ariosto e la filosofia dell'Orlando Furioso” (La nave di Teseo, Milano); “Miracolo naturale. Leonardo e la Vergine delle rocce” (Mimesis, Milano); "Arte e Accademia", in Agalma; New Rhapsody in blue, Caligola Records; For miles and miles, Caligola Records; Spritz, Caligola Records; “Cose dell'altro mondo. Bi Sol Mi Fa Re, Caligola Records); Ahmbè, Caligola Records; Big Bum, Caligola Records; Il santo che vola. San Giuseppe da Copertino come un aerostato nelle mani di Dio, Caligola Records  Iperboliche distanze. Le parole di Andrea Emo, Caligola Records. Il mistero della bellezza svelato da Massimo Donà. Intervista Alberto Nutricati, in L'Anima Fa Arte Blog e Rivista di Psicologia Video-intervista sul mistero dell'esistenza, su asia. "Arte e Accademia", in Agalma, Wikipedia Ricerca Mascolinità assieme di qualità, caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi, comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è costruita socialmente e culturalmente, anche se alcuni comportamenti considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente influenzati. Fino a che punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o socialmente è oggetto di dibattito. Il genere maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico maschile,[5][6] poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche maschili.   Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse culture e periodi storici. Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità, forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività. Il machismo è una forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un disprezzo per le conseguenze e la responsabilità.[12]  Il suo opposto può esser espresso dal termine effeminatezza. Uno dei sinonimi maggiormente usati per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo.  Contesti storici e culturali                             Modifica L'interpretazione ed il riconoscimento della mascolinità variano all'interno dei diversi contesti storici e culturali. Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme[14]; la figura del dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità nel XIX secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per gli standard moderni[15].  Le norme tradizionali maschili, così come vengono descritte nel libro del Dr. Ronald F. Levant intitolato "Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni accenno di femminilità, non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato il sesso dall'amore, perseguire il successo e raggiungere uno status sociale più elevato, l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto maschio)[16]. Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti appartenere di diritto al genere maschile[17].  Lo studio accademico della mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, con corsi universitari che si occupano della mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti[18]. Questo ha portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di costruzione sociale del genere[19].  Natura ed educazioneModifica  Competizione sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della mascolinità che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni.  La ricerca sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale specifico per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata "Fattore di trascrizione SOX9"[20] la quale aumenta l'ormone antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione.  Vi è ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto fondamentale della mascolinità[21].  Altri invece suggeriscono che, mentre la mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a radersi[22].  Mascolinità egemonicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Maschilismo.  Esempio di maschio poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la maniera principale per gli uomini di acquistare onore e rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia assumendone al contempo anche il comando e la leadership[23]. Raewyn Connell ha etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare: "Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne"[24].  Il Dr. Joseph Pleck sostiene che una gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità, distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo per finta"[25]. Kimmel[26] promuove questo concetto, aggiungendo però anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile.  CriticheModifica Si tratta di un argomento dibattuto la questione se i concetti di mascolinità seguiti storicamente debbano ancora continuare ad essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la società d'oggi ha in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli uomini per femminilizzarsi.  Le immagini di ragazzi e giovani uomini presentati nei mass media possono portare alla persistenza di concetti nocivi alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i media non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa, soprattutto nella pubblicità[27].  Scholar Peter Jackson scrive che le forme dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi, attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed eterosessualità obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro, le presunte maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo "[28].   Il lavoro meccanico in fabbrica è associato con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni, sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi[29][30].  La crisi è anche stata spesso attribuita alle politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del proprio sesso d'appartenenza[31].  Altri vedono il mercato del lavoro in costante evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di entrare in questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al contempo la necessità e domanda di forza fisica[32].  Tendenze contemporaneeModifica  L'operaio edile, esempio moderno di mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo definitivo.  Secondo un documento presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi... Uomini e donne possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi disturbi alimentari"[33].  Sia gli uomini che le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di moda potrebbero essere psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di fisico femminile e maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo (dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia riversa). Terminologia I concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità. Constance L. Shehan, Gale Researcher Guide for: The Continuing Significance of Gender, Gale, Cengage Learning, .google. com/books/about/ Masculinity_and_ Femininity_in_ the_MMPI_2 l?id=5 KLPlmr9T7MC&q=%22 what+masculinity+and+ femininity+are%22books. google.c om/ books/ about/ GenderNature_and_Nurture.html?id=R6OPAgAAQBAJ&q=%22biology+contributes %22+%22 masculinity+ and+femininity%22about/The_Sociology_of_Gender.html?id=SOTqz UeqmN MC&q=%22+ biological+or+genetic+contributions%22 ^ Joan Ferrante, Sociology: A Global Perspective, 7th,  Belmont, CA, Thomson Wadsworth, What do we mean by 'sex' and 'gender'?, su who.int, World Health Organizationbooks .google.com/books? id=jWj5OBvTh1IC&q=%22 meanings+of+man hood+vary%22/ sk.sagepub. com/ books/ theorizing- masculinities/n7larchive.org/details/ femininitymascul 0000unse/page/ 67SxhBdqejg YC&pg=PA157co.uk/books?id=-RxIUDYIuiIC&pg=PT24 8britannica. com / E  Bchecked/topic/ 1381820/ machismo ^ Roget’s II: The New Thesaurus, 3rd. ed., Houghton Mifflin,Treherne, The Warrior's Beauty: The Masculine Body and Self-Identity in Bronze-Age Europe, Journal of European Archaeology Vol. 3, Iss. 1, 1995. ^ Todd Reeser, Masculinities in Theory: An Introduction, John Wiley and Sons, 2010, pp. 1-3, ISBN 1-4443-5853-7. ^ Ronald F. 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Voci correlateModifica Androgino Bromance Bushidō Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) Collegamenti esterniModifica The Men's Bibliography, bibliografia completa sulla mascolinità. Boyhood Studies, bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali storici della mascolinità applicati agli uomini moderni. The ManKind Project of Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity, accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile. Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità. Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di antropologia Ultima modifica 1 mese fa di Aslog Murivel Effeminatezza termine  Michael Messner (sociologo) sociologo statunitense  Privilegio maschile privilegio sociale degli individui maschi derivante solamente dal loro sesso. Massimo Donà. Dona. Keywords: sessualità, eroticamente, per una filosofia della sessualità. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donà” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Donatelli: l’implicatura conversazionale dell’esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Donatelli – his titles can be too expansive, like the one about ‘philosophy and common experience,’ as a subtitle, which incorporates the all too controversial notion of experience simpliciter!” L’etica, la sua storia e le problematiche contemporanee sono al centro dei suoi interessi. Studia a Roma, dove ha conseguito la laurea e il dottorato. Insegna alla Luiss Guido Carli. Insegna a Roma. La sua ricerca spazia dalla ricognizione dei classici dell’etica alla filosofia morale contemporanea. Si occupa della riflessione sulla vita umana, in bioetica e nel pensiero teoretico e politico, e del pensiero ambientale. Nel dibattito bio-etico ha difeso una concezione laica delle istituzioni. La sua proposta si situa nella filosofia di ispirazione wittgensteiniana (Cavell, Diamond, Murdoch) che fa incontrare con i temi del pensiero democratico e perfezionista nella scia della filosofia di Mill. Dirige la rivista Iride. Filosofia e discussione pubblica (il Mulino). È membro di numerosi comitati, tra cui del comitato scientifico di Bioetica. Rivista Interdiscliplinare ed Etica & Politica. Altre opere: “Filosofia morale. Fondamenti, metodi, sfide pratiche” (Milano, Le Monnier,  Il lato ordinario della vita. Filosofia ed esperienza comune” (Bologna, il Mulino,  Etica. I classici, le teorie e le linee evolutive, Torino, Einaudi); “Quando giudichiamo morale un’azione?” (Roma-Bari, Laterza); Decidere della propria vita, Roma-Bari, Laterza); “La vita umana in prima persona duale” (Roma-Bari, Laterza); “Manuale di etica ambientale” (Firenze, Le Lettere); “James Conant e Cora Diamond, Rileggere Wittgenstein, Roma, Carocci); “Mill, Roma-Bari, Laterza); “Virtù” (Roma, Carocci); Immaginazione e la vita morale, Roma, Carocci); La filosofia morale, Roma-Bari, Laterza); Wittgenstein e l’etica, Roma-Bari, Laterza);Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni” Milano, LED,I destini dell'etica  Bioetica e progresso morale dell'Italia, su ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.  Bioetica Consulta di bioetica   The Italic branch consists of Latin on the one  hand and of the Urabrian-Samnitic dialects, on the other.   Latin, with which the little known dialect Sf Falerivwas  closely related, is known to us from about 300 B. C. onwards.  So long as the language was confined to Latium, there existed  no dialectical differences of any importance. The contrast bet-  ween the popular and the literary language, which had already  arisen at the beginning of the archaic period of literature (from  Li vius Andronicus to Cicero), became still sharper in the classical  period, and the further development of the former is almost  entirely lost to our observation until the Middle Ages, when  the popular Latin of the various provinces of the Roman  empire meets us in a form more or less changed and with a  rich development of dialects (Romance languages: Portuguese,  Spanish, Catalanian, Provencal, French, Italian, Raetoromanic  and Roumanian)*). We shall only consider the development of the Latin of,  antiquity.   Cp. Corssen Uber Aussprache, Vocalismus und Betonung  der lateinischen Sprache, 2 vols., Leipzig Kuhner Ausfiihrliche Grammatik der lateinischen  Sprache, Hannover, Stolz and Schmalz Lateinische Grammatik, in Iw. Muller’s Handbuch  der klass. Altertumsw. IThe Umbrian-Samnitic dialects are known to a certain  extent through inscriptions, which for the most part belong to  the last centuries before our era , and through words quoted  by Roman writers. We are best acquainted with Umbrian  (Breal Les tables Eugubines, Paris Biichelor Umbrica,  Bonn) and Oscan (Zvotaieff Sylloge inscriptionum Oscarum,  Petersburg- Leipzig). Of the Volscian, Picentine* Sabine, 1) Cp.* Budinszky Die Ausbreitung der lat. Sprache uber Italicn  und die Provinzen des rSmisohen Reiches, Berlin 1881, Cirober in the  Archiv fur lat. Lexikographie g KeUio;^Aequiculau , Yestinian, Marsian, Pelignian and Marrucinian  dialects we have only very scanty remains (Zvetaieff Inscriptiones Italiae Mediae dialecticae, Leipzig). All *tliese  dialects were ^forced •into the background at an early period by  the ifitrusion of Latin. The Sabines, who received citizenship., seem to have been the first to become romanised.  The s^west to give way was Oscan, which in the mountains  did not perhaps become fully extinct for centuries after the  Christian era.   Cp. further Bruppacher Osk. Lautlehre, Zurich 1869,  Endoris Yersuch einer Formenlehro der osk. Sprache, Zurich  187L Piergiorgio Donatelli. Donatelli. Keywords: esperienza, let’s cooperate (cooperiamo), let’s make the strongest utterance; let’s trust each other; let’s be relevant (siamo relevanti), let’s be perspicuous (siamo perspicui), prima persona, prima persona duale – noi – nostro – numero nel verbo greco: singolare, duale, plurale, Mill,  virtu, Conant, ambi, both – the dual – Both conversationalists must cooperate towards a mutual goal. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donatelli” – The Swimming-Pool Library. Donatelli.

 

Grice e Donati: l’implicatura conversazionale del fra – filosofia italiana – Luigi Speranza (Budrio). Filosofo italiano. Grice: “I like Donati; most of what he says is very basic, and he says it from what he thinks is a scientific perspective – but then he writes about morality and you start to wonder – anyhow, his central concept is that of reflexitvity, which he multiplies into goal-centred, rule-centred, means-centred, and value-centred – Since my oeuvre dwells on rellexivity I feel a lot of affection for Donati and his approach!” Nella sua filosofia occupano una posizione centrale la tematica epistemologica inerente alla ri-fondazione della ‘sociologia filosofica’, re-interpretata alla luce della "svolta relazionale”. Su tali basi, vengono svolte l'analisi del concetto di ‘cittadinanza’, del fenomeno associativo della società civile e della politiche di welfare state nelle società altamente differenziate; l'analisi del ruolo dell’istituzione sociale che emergono dai processi di morfo-genesi sociale, in particolare nelle sfere di terzo settore; l'apertura di una nuova prospettiva negli studi sul capitale sociale e sui processi di “riflessività” in rapporto alla legittimazione di nuove forme di democrazia deliberativa. L'elaborazione di una ‘sociologia filosofica relazionale' è andata di pari passo con la fondazione filosofica di un nuovo e più generale ‘paradigma relazionale' che si pone come superamento della contrapposizione fra realismo e costruttivismo, fra l’individualismo o intersoggetivismo metodologico e olismo o collettivismo metodologico. Questa prospettiva porta alla elaborazione di nuovi concetti come quelli di “critica della ragione relazionale” e bene relazionali, come soluzioni rispettivamente dei problemi inerenti a idiosincrasie culturale e alla mercificazione del welfare nelle società.  L'etichetta "sociologia filosofia relazionale" viene usata, oltre che da D., da vari filosofi. Emirbayer ha scritto un ‘Manifesto di sociologia relazionale' elaborato in maniera del tutto indipendente rispetto a D. Crossley usa la medesima etichetta. Alcuni studiosi assimilano la sociologia relazionale alla network analysis (Crossley, Mische ), altri tracciano delle differenze fra questi due modi di intendere l'analisi della società (D., Terenzi, Tronca). Indipendentemente dalla filosofia di Donati, esistono gruppi e reti di sociologia relazionale in vari paesi, tra cui il Canada (si veda il sito della Canadian Sociological Association,, l'Australia (si veda il sito della Australian Sociological Association,). In Italia, gli filosofi vicini a Donati si riconoscono nel network Relational Studies in Sociology,). Donati ha prodotto numerosi saggi di carattere teorico ed empirico. Propone una teoria generale per l'analisi della società: la “sociologia filosofica relazionale”. Insegna a Bologna, direttore del Centro Studi di Politica Sociale e Sociologia Sanitaria). Presidente dell'Associazione Italiana di Sociologia. Direttore dell'Osservatorio Nazionale sulla Famiglia. Ha fatto parte del comitato scientifico di Biennale Democrazia. Fondatore e Direttore della Rivista “Sociologia e politiche sociali”, editore FrancoAngeli. Membro del Comitato Scientifico della Rivista "Sociologia", Istituto Luigi Sturzo, Roma. Ha ricevuto il riconoscimento dell'ONU come membro esperto distinto nel corso dell'Anno Internazionale della Famiglia. Premio Capri San Michele per  "Pensiero sociale cristiano e società post-moderna" (Ave, Roma). Premio San Benedetto per la promozione della Vita e della Famiglia in Europa. Attraverso la sua filosofia, Donati mostra con specifiche indagini empiriche in che modo la società possa essere conosciuta e interpretata come una semplice “relazione sociale” diadica -- e non come un prodotto culturale. La sociologia relazionale (o teoria relazionale della società) viene per la prima volta esplicitata con “Introduzione alla sociologia relazionale”. Questa “Introduzione” è nata come una sorta di “Manifesto della sociologia relazionale”, anche se da allora pochi se ne sono accorti. I punti essenziali di quel Manifesto sono varie. La sociologia relazionale consiste nell'osservare che una società, ovvero qualsiasi fenomeno o formazione sociale (la famiglia, una impresa o società commerciale, una associazione, una società nazionale), la società globale, non è né una idea (o una rappresentazione o una realtà mentale soggetiva) né una cosa materiale (o biologica o fisica in senso lato), ma è una relazione sociale – una intersoggetivita. L’intersoggetivo è né un “sistema”, più o meno pre-ordinato o sovrastante i singoli fatti o fenomeni, né un prodotto di una azione soggetiva, ma un altro ordine di realtà. L’intersoggetivo è relazione. L’interosggetivo è fatto di una relazioni fra un soggetto S1 e un soggetto S2, che distinguono la forma e i contenuti di ogni concreta e specifica “diada. L’intersoggetivo – la relazione intersoggetiva -- deve essere concepito non come una realtà accidentale, secondaria o derivata dall’altre entità: il soggetto S1 e il soggetto S2), bensì come un levello ontologico differente sui generis, appunto, ‘l’intersoggetivo’. Affermare che “la società è relazione” può sembrare quasi ovvio, ma non lo è affatto ove l'affermazione sia intesa come presupposizione epistemologica generale e quindi si abbia coscienza delle enormi implicazioni che da essa derivano. Ogni filosofo parlano dell’intersoggetivo della relazione di una diada fra soggeto S1 e soggetto S2 (Aristotele: ogni uomo e politico, Marx, Durkheim, Weber, Simmel, Parsons, Luhman, Grice), ma quasi nessuno ha compiuto l'operazione che viene proposta dalla sociologia relazionale: partire dal presupposto che “all'inizio c'è la relazione”, ossia che ogni realtà sociale emerge da un contesto di relazioni e genera un contesto di relazioni essendo essa stessa ‘relazione sociale'. Ciò non significa in alcun modo aderire ad un punto di vista di relativismo. Si tratta esattamente del contrario: la sociologia relazionale si fonda su una ontologia dell’intersoggetivo relazionale, e dunque su una ontologia dell’intersoggetivo della relazione che vede nella relazioni il costitutivo di ogni realtà sociale seconda la loro propria natura. La sociologia relazionale e una forma del relazionismo filosofico. Per l’intersoggetivo (la relazione) intende l’intersoggetivo nel spazio-tempo, dell'inter-umano, ossia ciò che sta fra un soggetto agente S1 e un soggetto agente S2 chi collaborano, o cooperano. e checome tale costituisce il loro orientarsi e agire reciproco (o riflessivo, al modo di Grice), per distinzione da ciò che sta nel singolo attore individualo o collettivo considerati come poli o termini della relazione. Questa «realtà dell’intersoggetivo – che Donati chiama ‘il fra’ -- fatta insieme di due soggetti che collaboron, è la sfera in cui vengono definite sia la distanza sia l'integrazione dei due soggetti che stanno in società: dipende da questo ‘fra’ – fra tu e me -- (la relazione sociale in cui le due soggetti si trovano) se, in che forma, misura e qualità le due soggetti può distaccarsi o coinvolgersi rispetto agli altri soggetti più o meno prossimi, alle istituzioni e in generale rispetto alle dinamiche della vita sociale. La teoria relazionale della società ha elaborato nuovi concetti che sono stati utilizzati non solo da filosofi, ma anche in altri campi, come il diritto, la legislazione sociale, l'economia. I concetti originali elaborati da Donati sono varie. Il concetto di ‘privato sociale’ e applicato in molte leggi dello Stato italiano. Il concetto di ‘cittadinanza societaria è stato utilizzato dal Consiglio di Stato (Sezione consultiva per gli atti normativi, Adunanza, N. della Sezione: in importanti deliberazioni. Il concetto di ‘beni relazionali’ è stato ripreso in campo economico da filosofi come Zamagni e Bruni. Il concetto di un ‘servizio relazionale’ è stato ripreso nella legislazione regionale e nazionale in Italia, anche in relazione alla buona pratica nelle politiche familiari analizzate con le ricerche svolte per l'Osservatorio nazionale sulla famiglia. Il concetto di ‘lavoro relazionale’ e il concetto di ‘contratto relazionale’ sono importanti. Il concetto di ‘welfare relazionale’ e usanto in buona pratica nei servizi alle famiglie (utilizzato dal Centro studi Erickson). Il concetto di ‘differenziazione relazionale’ si applica in particolare alla problematica della conciliazione fra lavoro e famiglia. Il concetto di una critica della ‘ragione relazionale’ e dato come una possibile soluzione ai problemi dei conflitto. Il concetto di capitale sociale come relazione sociale con una ridefinizione degli studi sociologici si applica nel capitale sociale. Il concetto di "riflessività relazionale" si applica per superare il concetto puramente soggettivo di riflessività come mera riflessione interiore. Il concetto di "genoma sociale della famiglia" s’applica nella evoluzione. Ha affrontato una serie di tematiche di ricerca il cui sviluppo è ancora in corso. La prima e più estesa riguarda la tematica della sociologia della famiglia. Si vedano I saggi di Donati, Lineamenti di sociologia della famiglia. Un approccio relazionale all'indagine sociologica, Carocci, Roma, Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari). Si vedano anche i Rapporti Cisf sulla famiglia in Italia, per gli aspetti applicativi: Sociologia delle politiche familiari, Carocci, Roma, è il più recenteDonati "La famiglia. Il genoma che fa vivere la società", Soveria Mannelli, Rubbettino. Un'altra tematica è quella della salute: si veda Donati  Manuale di sociologia sanitaria” (La Nuova Italia Scientifica, Roma); Sui giovani e le generazioni nella società dell'indifferenza etica: “Giovani e generazioni. Quando si cresce in una società eticamente neutral” (il Mulino, Bologna); Sul cittadinanza e welfare: La cittadinanza societaria, Laterza, Roma- Bari); Sul welfare state e le politiche sociali, “Risposte alla crisi dello Stato sociale” (Franco Angeli, Milano); “Lo Stato sociale in Italia: bilanci e prospettive” (Mondadori, Milano); “Sul privato sociale o terzo settore e la società civile: Sociologia del terzo settore” (Carocci, Roma); sulla società civile: “La società civile in Italia, Mondadori, Milano; Generare “il civile”: nuove esperienze nella società italiana, il Mulino, Bologna); Il privato sociale che emerge: realtà e dilemmi, il Mulino, Bologna, Sul lavoro: Il lavoro che emerge, Bollati Boringhieri, Torino); I rapporti fra sociologia relazionale e pensiero sociale cristiano: Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Editrice Ave, Roma, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli. Sul capitale sociale: Donati, Terzo settore e valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e attori, FrancoAngeli, Milano, D., I. Colozzi, Capitale sociale delle famiglie e processi di socializzazione. Un confronto fra scuole statali e di privato sociale (FrancoAngeli, Milano). Attraverso queste saggi, la sociologia relazionale ha sviluppato un nuovo quadro teorico e ne ha dimostrato la validità sia sul piano della ricerca empirica, sia sul piano delle applicazioni concrete (in termini di legislazione e di programmi di intervento sociale). La conoscenza sociologica che la sociologia relazionale intende perseguire non rifiuta a priori nessuna teoria, né vuole “unificare” tutte le teorie sotto un'unica bandiera, ma tutte le prende in considerazione e le valuta per mettere in evidenza quelle verità, anche parziali, che ciascuna di esse contiene. Tuttavia, perché di solito una teoria offre una visione limitata, se non riduttiva della realtà, la sociologia relazionale è in grado di inserire ogni teoria in un quadro concettuale più ampio, nel quale ritrovare le verità parziali ad un livello più elevato, coerente e consistente di conoscenza della realtà sociale. Terenzi, Percorsi di sociologia relazionale, FrancoAngeli, Milano,.  Luigi Tronca, Sociologia relazionale e social networks analysis. Analisi delle strutture sociali, FrancoAngeli, Milano.Enzo Paci, Dall'esistenzialismo al relazionismo, D'Anna, Messina-Firenze. Per un nuovo welfare locale “family friendly”: la sfida delle politiche relazionali, in Osservatorio nazionale sulla famiglia, Famiglie e politiche di welfare in Italia: interventi e pratiche.  I, il Mulino, Bologna, Politiche sociali e servizi sociali di fronte al modello sociale europeo: lo scenario del “welfare relazionale”, in C. Corposanto, L. Fazzi, Il servizio sociale in un'epoca di cambiamento: scenari, nodi e prospettive, Edizioni Eiss, Roma, Quale conciliazione tra famiglia e lavoro? La prospettiva relazionale, in Donati, Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, La valorizzazione del capitale sociale in Italia: luoghi e attori Donati, I. Colozzi, FrancoAngeli, Milano, Altre opere: “L'enigma della relazione” Mimesis, Milano); “La famiglia. Il genoma che fa vivere la società” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Sociologia della riflessività. Come si entra nel dopo-moderno, il Mulino, Bologna); “I beni relazionali. Che cosa sono e quali effetti producono (Bollati Boringhieri, Torino); “La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli); “Teoria relazionale della società: i concetti di base, FrancoAngeli, Milano); “La società dell'umano, Marietti, Genova-Milano); “Il capitale sociale degli italiani. Le radici familiari, comunitarie e associative del civismo” (FrancoAngeli, Milano); “Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune, Laterza, Roma-Bari); “Manuale di sociologia della famiglia, Laterza, Roma-Bari); “Sociologia delle politiche familiari, Carocci, Roma); “Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna, Bollati Boringhieri, Torino); “La cittadinanza societaria” (Laterza, Roma-Bari); Teoria relazionale della società, FrancoAngeli, Milano, 1991 La famiglia come relazione sociale, FrancoAngeli, Milano, La famiglia nella società relazionale. Nuove reti e nuove regole, FrancoAngeli, Milano); “Introduzione alla sociologia relazionale, FrancoAngeli, Milano); “Risposte alla crisi dello Stato sociale. Le nuove politiche sociali in prospettiva sociologica, FrancoAngeli, Milano); “Famiglia e politiche sociali. La morfogenesi familiare in prospettiva sociologica, Angeli, Milano); “Pubblico e privato: fine di una alternativa?” (Cappelli, Bologna).  Der Dual ist ein Numerus, der sich in indogermanischen wie nicht-indogermanischen Sprachen findet. Die indogermanistisch zentralen Sprachen Altgriechisch und Altindisch haben diesen Numerus in allen flektierenden Wortarten; andere Sprachen haben ihn nur in einer Wortart. Die Minderheitensprachen Ober- und Niedersorbisch pflegen den Dual bis heute. Auch im Bairischen gibt es noch formale Dualrelikte.  Das Buch bietet eine Darstellung der einzelsprachlichen Dualsysteme in der Indogermania und Rekonstruktionen der Dualsysteme der Zwischengrundsprachen und des Ur-Indogermanischen. Neben dem genealogischen Vergleich wird auch der typologische Vergleich mit Dualsystemen anderer Sprachgruppen wie etwa Finno-Ugrisch, Semitisch und Bantu angestellt. Der Leser gewinnt so einen Überblick über die Entwicklung einer typologisch markierten grammatischen Kategorie und einen Einblick in die kognitiven Prozesse, die zum Werden und Schwinden des Duals im Wandel der Sprachen führen.  Rezensionen "" Salvatore Scarlata in: Kratylos, Pinault in: Bulletin de la Société de Linguistique de Paris, Pierce in: Journal of Historical Linguistics, Bohumil Vykypel in: Linguistica Brunensia,  http://hdl.handle.net"" Remo Bracchi in: Salesianum, Lühr in: Germanistik, Heft, Duale (linguistica) numero grammaticale Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento grammatica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Il duale in linguistica è una delle possibili realizzazioni della categoria morfologica del numero grammaticaleche può essere espressa tanto nel nome (sostantivo e aggettivo) quanto nel pronome e nel verbo. Benché sia meno diffuso di singolare e plurale, il duale è presente in molte lingue del mondo.  Esso è presente nelle più antiche lingue indoeuropee, come il sanscrito o il greco antico, nel lituano, nello sloveno moderno, nel friulano e anche nelle lingue semitiche, come l'arabo - che ne fa tuttora uso nelle sue varietà moderne, sia pure limitatamente al nome - l'ebraico e nell'egizio.  Il duale è frequente per indicare parti doppie del corpo, per esempio le mani, le narici, le gambe, ma nelle lingue che lo possiedono non è raro il suo uso anche per indicare oggetti a coppie o semplicemente coppie di oggetti o persone casuali: due persone, due anni, ecc. ("duale occasionale").  Mentre in francese, in tedesco, in italiano o in spagnolo, tutte lingue che non presentano la forma duale se non per tracce come per esempio in italiano ambo, si è soliti anteporre al sostantivo plurale l'aggettivo numerale che ne indica la quantità esatta (due uova, due amici, ecc.), nelle lingue che posseggono il duale questo può bastare per indicare una quantità pari a due. Per esempio in arabo sanah "(un) anno", sanatayn "(due) anni".  La mu'allaqa di Imru l-Qays, una delle più famose poesie arabe, esordisce con un imperativo duale: Qifâ, nabki... "fermatevi (voi due) e piangiamo...", riferimento al fatto che il poeta si rivolgeva a due suoi compagni.  Bibliografia Modifica Albert Cuny, Le nombre duel en grec, Paris, Librairie C. Klincksieck, 1906 Charles Fontinoy, Le duel dans les langues sémitiques, Paris, Les Belles Lettres, 1969. Marco Molinelli, Il numero duale nel greco antico, Roma, Fritz, Der Dual im Indogermanischen, Heidelberg, Carl Winter, 2Grammatica Morfologia (linguistica)   Portale Linguistica: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di linguistica Salvatore Talia Numero (linguistica) categoria grammaticale  Grammatica lituana regole della lingua lituana  Articoli del greco antico Wikipedia Il contenuto. Grice: “In my seminars I explained explicitly that we would be dealing only with conversational DYADS!” Grice: “This was my nod to the Old Latin dual!” – Grice: “Austin used to say that no distinction is too fine, or too nice. The origin of the Latin fifth declension out of the dual number – We can provide an EXPLANATION of the appearance of the Latin fifth declension (e stems) as a result of the LOSS of an earlier dual inflection, whose main feature is the suffix jk (full grade ej) . The dual character of the Latin -ies (series) forms can be demonstrated on the basis of their ‘semantic’ development. The dual number in the Indo-European languages. The most ancient Indo-European languages had three number categories: the singular, the dual, and the plural. In the Indo-European languages, the dual number was typically used for NATURAL PAIRS (‘oculi’, the ‘same’, two hands), sometimes also for an accidental or artificially arranged pair (‘two men’ (andre), two horses pulling one carriage, two oxen in one yoke), and possibly for two objects of the SAME kind (two fires, two lime trees). Elliptical usage of the dual is also attested, ‘two fathers’, as when Homer refers to ‘Ayax and his brother’ or Latin ‘octo, ‘eight’, originally, or literally, two sets of four finger-tipes Wackernagel, Campanile, Malzahn, Clackson). The degree of preservation and PRODUCTIVITY of the dual in the Indo-European languages differ considerably. Traces of the dual in Latin. The dual number as a separate CATEGORY was presumably lost by Latin and the other Italic languages already in the pre-historic period (Buck). Lat. ‘duo,’ ‘two’ < IE duwo < PIE duwo-hj (Tagliavini). Lat. ‘okto’ ‘eight’ < IE okto, ‘8’ < PIE hkekto-h0. Lat. viginti, ‘twenty’ (< IE wiknti < PIE dwi-dknt-ih), literally, ‘two tens.’ A few Latin forms – ambo, duo -- have a specific inflexion which may be the result of the transformation of the dual form within a declension. Thus we have masc. nom. ‘ambo’ , duo; gen. ‘amborum’, duorum; dative-ablative ‘ambobus’, duobus; and acc. ambos/ambo, duos/duo. Lat. masc. ‘ambo’. The inflection of ‘ambo’ and ‘duo’ keeps the original dual ending in the nominative. It does not show the dual ending in the other four cases – where it adops the regular PLURAL ending. Here we have a case of an ADAPTATION (SUBSTITUTION_of the dual inflection by the plural inflection. Traces of the dual number in Latin are restricted to ‘ambo’ , ‘both’, and the numerals (‘duo, octo, viginti) – while some have traced other dual forms in declesions – Danielsson). The question of a dual form, e. g. ‘Pomplio,’ (Lat. Pompilio, nom. du. ‘two of the Pompilius family’), attested in epigraph CIL I 30: M. C. POMPLIO NO. F. DEDRON HERCOLE = ‘Marcus and Gaius Pompilius, the sons of Novious, gave (this) to Hercules.’ The interpretation of the form POMPLIO as dual may be implicatural rather than semantic. The form POMPLIO need not be a dual form  -- it may be just the nominative singular with the final s by custom omitted when there is a formal agreement with the second prae-nomen, though belonging to both. Dual endings in the Indo-European languages. In proto-Indo-European hl forms the basic dual ending, which may have a strong form (ehl or hle) in animate nouns. It is assumed that the numeral ‘two’ has the form ‘duwo-ehl’ (literally, ‘two persons, or animals’), which later develops into the masculine form. IE ‘duwo, m. Latin for some time kept the dual ending -e (PIE ejl). The loss of the dual causes the proto-Latin forms ending in -e (once dual forms) to generate a separate group: a fifth declension. From a variant dual ending -e, the -e- would have to have formed in the oblique cases. The genitive dual ending in Indo-European is -es (PIE ejls gen. du). Both a dual inflection with -e (gen. du. -es) and -e (gen. du. -es) would have ensured the stabilization of the feature -e- after the loss of the dual number in the Italic languages. The cause of the loss of the dual number in Latin. Most probably, the loss of the dual as a separate CATEGORY takes place within the a- stem and the -o- stem declensions. In the nominal paradigm, a specifically Latin innovation causes a change in the infection system. This innovation is the loss of the old plural ending -os, which are well attested in the other Italic languages, along with the adaptation of the enings of the PRO-nominal system -oi -- whence Latin ‘-i.’ – cf. nom. sg. m. -os > -us. Nom. du. M. -o (ambo, octo, duo). The PLURALISATION of the dual in the -o- stem declension  happens largely without a problem – providing you keep a Griceian ‘eye’ – Cf. ‘pater,’ father. nom. sg. m. pater; nom. du. m. ‘patere’. nom. pl. m. ‘pateres’. As Austin pointed out to me, the loss of the dual in the Indo-European languages suchas Latin did not happen solely via the good old pluralisattion of the dual form, but also by way of a ‘singularisation’: i. e. the dual inflection is re-fomed into the SINGULAR inflection. This way of the elimination of the dual number is very much attested in Latin, in all the forms ending in -ies, for example. Then we have the dual forms of the Lat. viginti type. The Latin cardinal number ‘viginti,’ ‘twenty,’ is a remnant of the dual number. ‘Viginti’ represents the IE archetype wiknti nom. acc. du. ‘twenty’, from PIE dwihl-dknt-ihl, literally, ‘two tens’. Since, unlike ‘duo,’ it represents a numeral higher than 4 – and all Latin numerals from ‘quattuor’ up to ‘mille’ did not decline --, ‘viginti’ simply keeps the shape of the nominative dual. Some dual forms with no singular form underwent a singularization (or sometimes a collectivization). As a result of such an adaptation, the dual is re-constructed morphologically, and re-interpreted pragmatically via implicature. This singularization (but sometimes collectivization) of a dual form creates the need to establish a declension. The literally DUAL character of some Latin expressions ending in -ies may be explained through a detailed pragmatic calculation. Pierpaolo Donati. Donati. Keywords: il fra, relazionalismo, internal conversation, l’intersoggetivo, realta fra, il fra, fra tu e io, intersoggetivismo metodologico, communicazione come realta fra, implicatura, reflessivita, reciprocita. Ambidue. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Donati” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Dondi: l’implicatura conversazionale -- l’astrario – iter romanorum – colonna giulia – la colonna del circo neroniano di Buschetto -- petrarca – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Chioggia). Filosofo. Grice:  “I like Dondi and I like a watch chain!” Figlio di Jacopo, studia filosofia a Padova. Insegna a Padova. Si trasferì a Pavia. Dopo un periodo a Firenze, vi ritorna come filosofo di corte dei Visconti. Insegna a Pavia.  Scrittore di rime, amico e corrispondente di Petrarca, fu anche tra i pionieri dell'archeologia. In occasione di un viaggio a Roma, descrisse e misura monumenti classici, copiò iscrizioni e trascrisse i dati rilevati nel suo ‘'Iter Romanorum'’.  La sua fama è legata soprattutto all'astrario da lui progettato a Padova e costruito a Pavia, dove, era conservato, nel castello di Pavia, presso la biblioteca Visconteo-Sforzesca.  L'astrario è un orologio astronomico che mostra l'ora, il calendario annuale, il movimento dei pianeti, del Sole e della Luna. Per ogni giorno sono indicati l'ora dell'alba e del tramonto alla latitudine di Padova, la "lettera domenicale" che determina la successione dei giorni della settimana e il nome dei santi e la data delle feste fisse della Chiesa. L'orologio astronomico (o astrario) di D. è andato distrutto, ma è ben conosciuto perché il suo ideatore ne dette una particolareggiata descrizione nel saggio “Astrarium”, trasmesso da due manoscritti. Si tratta di un congegno mosso da pesi, di piccole dimensioni (alto circa 85 cm, largo circa 70), racchiuso in un involucro a base eptagonale. Grazie ad una serie di ingranaggi l'astrario riproduce i moti del Sole, della Luna e dei cinque pianeti. Esso indicava anche la durata delle ore di luce alla latitudine di Padova. Come misuratore del tempo esso, oltre all'ora, indicava (forse per la prima volta tra gli orologi meccanici) anche i minuti, a gruppi di dieci. La presenza di trattati di astrologia nella biblioteca di D. fa sospettare che la progettazione sia stata influenzata da astrologi antichi. L'orologio astronomico che si può tuttora ammirare sulla Torre dell'Orologio, Padova, in Piazza dei Signori, è una copia non dell'astrario di D., ma dell'orologio costruito dal padre Jacopo. Secondo la tradizione sarebbe stato D. ad introdurre a Padovala gallina col ciuffo, oggi nota come gallina padovana. In realtà, il giornalista padovano Franco Holzer in una sua ricerca ha potuto stabilire che non vi è documentazione alcuna che attesti che D. abbia mai avuto contatti con la Polonia o che l'abbia mai visitata. A lui è dedicata una delle statue che adornano il Prato della Valle, a Padova. Il Circolo Numismatico Patavino gli ha dedicato una medaglia commemorativa opera dello scultore bellunese Massimo Facchin. Ai D. è dedicata la ballata iniziale di Mausoleum. Siebenunddreißig Balladen aus der Geschichte des Fortschritts del poeta tedesco Hans Magnus Enzensberger. Altre opere: Rime, Daniele, Neri Pozza, Vicenza); “Astrarium, E. Poulle, CISST);  Opera omnia D., corpus pubblicato sotto la direzione di Emmanuel Poulle. Padova. Andrea Albini, Op. La Biblioteca Visconteo Sforzesca, su collezioni. Musei civici.pavia. Andrea Albini, L'astrario di D., su Museoscienza. Ricerche d'Archivio riguardanti la famiglia D. Di Franco Holzer.Albini, Machina Mundi. L'orologio astronomico di D., Create Space, Astrario, Gabriele D. Università degli studi di Padova. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Replica in scala 1/2 dell'Astrario, su clock maker. Replica in scala ¼, su pendoleria. com. (D i Cjiovauui Odo ndi òalf'Otcfcgto, TTtedico eli ^Padova,  e Dei uiouumeutv antichi da fui «animati a ctonia,   e di afcuui »ceitti inediti def medesimo. rt  A FILIPPO SCHIASSI CAHOMCO MILLA CHIESA MAGGIORE DI BOLOCRA, E PROFESSORE DI archeologia bella criverbitì.   JL u non ignori certamente , o amatissimo Schiassi,  cum io faccia di le gran cubitale per la somma erudi-  zione archeologica che possedi , e per la forbitezza dello  scrivere latino , nella quale con pochi vai distinto ; e come poi io non sia ad alcuno secondo nell'osservanza ed  amore verso di te per le doti singolari dell'animo tuo.  In verità io ho sempre desiderato mi fosse pòrta occasione di farti noto pubicamente questo mio volere ; ma  quella mi fallì maisempre, o, a meglio dire, non ebbi  mai ardimento di abbracciarla, parendomi da non do-  versi indirizzare a te cose che non fossero parlo d'in-  gegni maturi, fra' quali per fermo non è da riporsi il  mio. Tuttavolta altre ragioni m'inducono ora a prendere  contrario divisamento . Il perchè, in arra di rispetto e di  benivoglienza, ho deliberalo di spedirti questa Lettera intorno a D., e publicarla intitolata al tuo  nome ; indotto anche da ciò , che in essa circa V obelisco  vaticano , della cui traslazione tu di fresco con scienza  e perizia ne hai scritto . ho io allegate alcune cose , dalle  quali appare essere ora per la prima volta manifesto  come il medesimo nel medio -evo sia stato atterrato , e  non guari appresso di bel nuovo ristabilito, non altri-  menti come sono di comune consentimento i più accreditati scrittori delle cose passale: de’ quali in ispezialità  qual sia il giudizio da tenersi tu puoi decidere. Io in-  tanto a te sottometto di tallo cuore e senza cerimonie  la mia opinione , qualunque ella siasi: ritieni poi , che  con animo a tc per intiero affezionatissimo mi dispongo  a ciò fare. V enezia  v>die Petrarca abbia scritto di D. suo amico non meno con verità die con magnificenza, essere egli stalo d'ingegno sì sublime e po-  tente, che ito sarebbe alle stelle, se rattenulo non lo avesse lo studio della Medicina,Jo capiranno coloro spe-  cialmente, i quali siano a giorno come il medesimo  siasi reso distintamente celebre nelle scienze mediche, FILOSOFICHE ed astronomiche ; c, di più, conosca-  no come in altre discipline, a dir vero non comuni,  fosse egli oltre l’ usato erudito. Peritissimo ancora  in scienza morale, nella cognizione dei monumenti  antichi, e nel linguaggio delle Muse italiane : le quali  cose, come disse Celso in altra occasione, quantunque  non costituiscano il Medico, tuttavolta lo rendono più  atto alla Medicina, e fanno sì che abbia a  primeggiare fra i dotti del suo tempo.   Ed in vero, che non si possa lare un pieno uso  della Medicina nella maggior parte delle malatie del  corpo, se quelle dell’animo del pari non si curino, è  chiaro di già abbastanza per concorde dottrina degli  antichi e recenti filosofi, suffragata dalla sperienza.  Intorno a ciò sono manifesti i sentimenti di Aristotele, d’ Ippocrate, di Galeno, e di altri ; come pur anco Lettera III. a Francesco Sancse.data in  luce a Venezia. ne fanno chiara prova quelle cose che sopra lo slesso  argomento ci hanno lasciato in appresso uomini sa-  pientissimi. Che poi da un’accurata osservazione degl’antichi monumenti, e dalla lettura delle iscrizioni ne ven-  gano singolari ajuti onde conoscere più diffusamente  l’ arte medica, ce lo dimostrano le Opere dei valenti  in quella, cioè di Girolamo Mercuriale intorno alla  ginnastica, il quale trattò anche del sito più salubre  alla costruzione delle fabbriche e circa gli strumenti  chirurgici ; di Giannantonio Sicco e di Andrea Baccio  intorno ai bagni termali ; di Bartolini sopra l’ antico puerperio : ai quali libri se ne  potrebbero facilmente aggiungere altri di tal fetta,  cioè di Bellonio, Gioberti, Cagnato, Reinesio, Rodio, Patino, Sponio, Trillerò, Ilundertmarki, Cocchi, e altri;cosicché niuno deve  maravigliarsi del progetto di Tomaso Bartolini nel  comporre l’ Opera intitolata Antichità necessarie ad un  Medico, del cui apparecchio, in appresso incenerito  dalle fiamme , lo stesso autore ne diede breve com-  pendio in una Dissertazione stampata in Hafnia sopra l’incendio della biblioteca. Le moltissime sue lodi, scritte in prosa ed in ver-  so, ci fanno ampia testimonianza che lo studio della  poesia giova a meraviglia per fecondare e ricreare  l’ ingegno, per aggiungere fregio alla lingua ed allo  stile, e per fare acquisto di altre doti richieste ad un  uomo di lettere ; nè vi sarà al certo chi ignori che i Medici versati nella medesima n’ andrebbero stimati  da più che gli altri, e si leggerebbero con più di di-  letto le Opere loro. Noi conosciamo ancora che gli  stessi scrittori dell’arte medica, distinti fra gli antichi, Ippocrate ed Areteo, succhiarono da Omero il  loro bello ; il primo de’ quali fu detto da Eroziano  uomo omerico quanto allo stile (Glossar . Hippocr. Praef.  pag. 7, edit. Lips.); e Trillerò fa vedere che al  secondo giovò d’ assai la lettura dello stesso autore  ( Opuscula medico - philologica, Tom. 1. pag. xxi): il che  chiaro apparisce parimente di Galeno e di altri. Eccellente si è la cura posta da Bartolini nel  trattare che fece di questo argomento nella Dissertazione intorno ai Medici-poeti, publicata in Hafnia; ed ora se ne potrebbe formare un sog-  getto con assai più di splendore. Sono poi da tenersi  in gran conto quelle cose che furono scritte da Fracastoro, uomo grande nell’ una e nell’ altra  facoltà, a Girolamo Amalteo, medico non meno che  poeta celebre del suo tempo; cioè andare di gran  lunga errati coloro i quali avessero per niente la  poesia, e la stimassero cosa incompatibile colla Medicina: che anzi dichiara apertamente con Andrea  Navagerio, essere inetti a toccare il fondo di ogni  scienza, o a gustare appieno le bellezze di qualsiasi  arte meccanica, coloro i quali andassero privi e man-  canti di vena poetica (Fracast. Opera edita Corniti). D. per coltivare l’ animo in questi studj, indotto dall’ esempio ed  intrinsichezza del Petrarca, il quale nei medesimi  avea tocco l’ apogèo della gloria, consegnò allo scritto monumenti non dubj di questo studio, commettendoli  ai posteri; ma quelli inediti, ed appena conosciuti in  un codice cartaceo di quella età, posseduto un tempo  dallo stesso autore, toccò per avventura a me solo di  vederli presso Papafava, figlio d’Albertino,  fregiato della primaria nobiltà fra i Padovani e Patrizio Veneto, il quale mi onorava di singolare cortesia;  nel qual codice io stesso ho letti gli scritti inediti del  Dondi senz’ altro giudizio od altro ordine, da quello  in fuori con cui qui li riporto.   Vi sono nel codice Lettere intorno a diversi  argomenti, scritte dal Dondi a varie persone ; cioè :  Al Petrarca. Si protesta tornargli a grande  vantaggio 1’ amicizia di lui, per arricchirsi a perfe-  zione della morale filosofia ; il che osserva essere assai conforme all’ insegnamento di Seneca nella Let-  tera <08 a Lucilio intorno al conversare co’ filosofi.  Nel dipartirmi da te (scrive egli) ne riporto ogni giorno  frutti novelli , e alla tua presenza mi si ricrea V animo  d' insolita gioja. A Giovanni dall’Aquila fisico (Padova). Annunzia e mostra allo cordoglio per  la morte del Petrarca, d’ improviso avvenuta la notte  antecedente.   « E morto un personaggio unico, a dir vero, ed  » ammirabile tra i pochi di ogni età; ma a’ nostri  » giorni il solo, a mio giudizio, che v’abbia su tutta  » la terra, e da non potersi trovare in qualsivoglia  » parte di essa: uomo da essere ricordalo e tenuto a  » venerazione da tutti i secoli. Fatale disgrazia e la-  » grimevolc a tutto il genere umano, ma assai più amara a buon diritto all’ Italia , della quale non  » senza gran merito egli n’ era amante perduto, e in  » ogni circostanza partigiano caldissimo ; sopra tulli  per altro a me e a te, ai quali era legato con nodo  » strettissimo d’ amore e di singolare benevolenza.  » Mancò un uomo senza dubio grande, ottimo, soavis-  » simo, amantissimo di noi ; ma non per altro cessò  » del tutto, poiché anzi diede principio a vita migliore, richiamato dall’ esiglio alla patria : se vero è  » che gli offici di questa vita mortale, la Religione di continuo venerata e studiosamente coltivata, l’opera  » assidua agli sludj unicamente onesti e lodati, dieno  « fidanza di alcun premio nella vita a venire. » A Leniaco, uomo di singolare  ingegno. Ad Argentino (Arsendino) da Forlì, e a Pa-  ganino da Sala padovano, Dottori in legge.  A Guglielmo Ravenna, fisico.  A Geminiano, fisico del Marchese Cesa.   f*. A Gasparo (Broaspina) di Verona....  c Hai pòrto materia, nella quale mi ricordo di  » essere stato titubante aneli’ io, mentre scorreva la  »> Lettera a Lucilio di quell’ eccellente e tutto nerbo  » Anneo, maestro mio e tuo, e di tutti i buoni amici  » in generale. » A Gasparo, che lo dimandava di quelle  cose che Seneca scrisse nella settima Lettera a Luci-  lio sopra gli spettacoli dei Romani, gli dà spiegazio-  ne abbastanza chiara, come portavano quei tempi  sì riguardo alla materia, come pur anco alle parole;  vi adoperò eziandio dell’arte critica a motivo delle  scorrezioni del testo, per colpa in gran parte della ignoranza degli amanuensi, e dell*' audacia di coloro  che vi posero mano alla emendazione.   9. A Bartolomeo Mazio di Verona, fisico egregio. A Petrarca (Padova) Una lunga Lettera circa il metodo di vita  da seguirsi dal Petrarca, la quale i precettori del Seminario di Padova avendo ricevuta da me, che la  trascrissi dal codice soprallegato, non dal Marciano,  come porta l’edizione, aggiuntane un’altra del Pe-  trarca al Dondi, fu da loro data alle stampe. A Lombardo Serico, cittadino padovano.  Al frate Guglielmo da Cremona, teologo. Fa  vedere gl’ ingegni degli antichi di gran lunga supe-  riori ai moderni sì in fatto di lettere, come ne fa  chiara testimonianza il Petrarca, non meno che ri-  guardo alle opere famose delle arti più belle, col-  l’esempio alle mani di un insigne scultore soprafatto  di ammirazione alla vista di monumenti antichi. A Leniaco, cittadino veronese.  A Cremona, maestro nelle arti liberali. Ad un suo intimo amico, uomo singolare ed  egregio.  A Caselle, cittadino padovano.  Aromatario.  A Paganino da Sala, Dottore in legge e  uomo di milizia. Con queste si congratula della di-  gnità di Cavallicre conferita di fresco a Paganino;  così per altro, che ne fa di molto più stima dell’onore  ottenuto dall’ alloro in Diritto civile, dal quale egli  traeva di già vantaggio e lode.  A Nicolò Alessi, Protonotario e Vice-Cancelliere del Signore di Padova.   21. 22. Ad Andreolo Arisio Cremonese. Biasima  e si fa beffe della scarsezza che v’ è nelle biblioteche  di Francia dei libri specialmente di Filosofìa morale,  di cui era tenuto a giorno per lettere di Arisio cola  dimorante.   23. Al frate Guglielmo, Vescovo di Pavia.   24. Ad Albertino Salso, precettore di Fisica.   25. A Giacobino Angarano di Vicenza. Data in  luce in uno all’ Opera del Pondi intorno alle Fonti  calde nel Territorio padovano, al Maestro Giacomo  Vicentino, fra i Trattati di vari autori circa i Bagni,  stampati a Venezia Panno   2C. Ai Professori direttori di Medicina e delle  Arti nello Studio di Padova. Fa loro avere un libro  da lui composto, del quale dà contezza con queste  parole: » Ricevete un Trattatello che vi darà per  » ispiegato P ordine oscuro di Galeno nella distinzione  » delle disposizioni dei corpi umani, il quale ei ri*  » strinse con brevità nel libro di Microtegno, asse-  n gnandovene le reali differenze fra quelle, tranne  » poche che vollero accennare sin qua di volo altri  » espositori, ma in molte colle relative differenze. Al maestro Guidoni (di Bagnolo) in Venezia,  nomo egregio, fornito di molto sapere e virtù. Padova, Cappelli, cittadino cremonese.   Intorno a Pasquino, Cancelliere di Giovanni Ga-  leazzo Visconti Principe di Milano, ne fece parola  Pietro Lazerio nelle Miscellanee cavate dai libri manoscrilti nel Collegio Romano dei Gesuiti. Pasquino avea fatto richiesta delle Lettere  scritte dal Dondi a diversi ; e Dondi si argomenta a  tutt’ uomo per dissuaderlo che quelle Lettere non  erano tali che meritassero a pezza le sue dimande.  Poscia scrive molle cose circa i rotti costumi degli  uomini del suo tempo, degne alla scorza di un va-  lente filosofo.   Queste Lettere sono piene a ribocco di sentenze  morali, siccome quelle che furono composte da un au-  tore che metteva ogni cura nel leggere le Opere di  Seneca, e ne avea anche dilucidate le di lui Lettere a  Lucilio, con annotazioni allegate circa alle medesime  da Gasparino Barzizio nel suo Commentario, da me  veduto scritto a mano.   Di qual desiderio ardesse il Dondi di vedere mo-  numenti antichi, ne fa aperta testimonianza il viaggio  di lui a Roma, ad unico oggetto di venire in pieno  conoscimento dell’antico e nuovo stato della città. Del  qual viaggio non rimane alcuna traccia dalla publica  autorità confermata ; tuttavolta ho letto io stesso nel  codice manoscritto, di cui feci menzione di sopra, le  annotazioni dello stesso D. intorno ai principali  monumenti dell’ antichità nel viaggio e nella dimora  che fece a Roma, esaminati, credo  io, da lui appassionatamente ; delle quali annotazioni  ei fa fede così dal principio : « Ilo riportato queste cose scritte in lettere quando fui reduce da Roma. «   Non è prezzo dell’opera il rescrivere qui le anno-  tazioni del D., nelle quali v’hanno anche difetti  di scritturazione, potendosi avere alla mano scrittori famosi per molto sapere, i quali ci hanno chiarito dei  medesimi monumenti con mollo più «li accuratezza e  dovizia. Ci piace di riportare qui sotto la prima sol-  tanto, la quale versa circa l’ obelisco valicano, poi-  ché mollo è stimala per singolare novità, facendoci  vedere un distico da nessuno, per quanto io sappia,  riportato, c del quale importa se ne faccia ricerca.  Quella poi suona così :   In Roma   La colonna Giulia a quattro lati, che si eleva di  costa a S. Pietro, ha di grossezza presso l’ estremità  di mezzo, lunghesso ciascun lato, otto piedi all’ in-  circa ; di altezza poi, secondo un buon calcolo, ascen-  de a 00 piedi, ossia a dieci pertiche. Ma un prete ac-  casalo lì vicino affermò che un tale l’aveva misurata  con uno strumento ad ombra , e la trovò di braccia. Martino nella Cronaca dice che la sua lun-  ghezza va a un dipresso a 120 piedi; ed Eutropio  afferma la stessa cosa. Svetonio poi dice eh’ è di pie-  tra di Numidia. E vi sono poi ne’ suoi due lati lettere  incise di tal maniera:   Divo Cnesari Divi Julii F Augusto Ti Cacsari Divi Augusti F Augusto  Sacrimi. Intorno alle antichità romane sogliono premettere  alcune cose più memorabili di Martino Polacco, Cronicista  dei Pontefici e degl’imperatori, specialmente nei codici ma-  noscritti. Quelle poi che trovansi aggiunte come tratte da  Eutropio e da Svetonio, falsamente vengono loro attribuite. ir» Al di sopra della mela di questa colonna Giulia  vi sono scolpili questi due versi:   Ingenio Buzeta tuo bis quinque puellae  Appositi s manibus itane erexere columnam. Plinio {Hi storia Nat..), e Svetonio (nella Vita di  Claudio) dimostrano apertamente che l’in-  signe obelisco sia stalo trasportato dall’Egitto a Ro-  ma per comando di Cajo Caligola ; e in séguito, mes-  sa a fondo da Claudio nella costruzione del porto di  Ostia la nave su cui era stato trasportato, la più me-  ravigliosa di quante mai si fossero vedute solcar ma-  ri, il medesimo sia stato collocalo nel circo di Ne-  rone ; ned è da entrare in forse che il medesimo, fre-  giato di quella cospicua iscrizione ne’ due lati, non  sia quello stesso che sempre fu tenuto per l’obelisco  vaticano. Di questo attestano tutti gli scrittori più  accreditati, che non sia mai stato mosso da dove per  la prima volta fu inalzato, nè in alcun tempo atter-  rato, fino a tanto che, volendolo Sisto V. Pont. Massimo, trasportato dal luogo, dove pri-  ma era posto, mediante un congegno di macchine ma-  ravigliose di Domenico Fontana del contado di Campo  Novocomese, nella piazza di S. Pietro, dove al giorno  d’oggi si trova. Di tanto unanimemente ne stanno  mallevadori in particolar modo Angelo Decembrio,  Poggio Fiorentino, Mafeo Vegio, Francesco Alberiino,  Pietro Angelio Bargeo, Onofrio Panvinio, Bartolomeo  Marliano, Filippo Pigafelta, Palladio, Gamuccio, Mercato, Nardinio, Kirhero, Fontana , Bellorio, Fontana, Bonanno,  Bandinio, Milizia, Cancellieri, Winckelmanno, Fea, Zoega; l’ultimo dei quali, che  ci diede un’ Opera perfettissima sopra gli obelischi,  impressa a Roma, come a nome di tutti  gli altri scrisse di quello con facondia. Questo dei romani obelischi il solo superstite alle  » rovine della città, si tenne in piedi nel Circo vati-  » cano fino a tanto che l’architetto Domenico Fontana, per comando di Sisto V. Pontefice Massimo, lo  » trasferì nella piazza di S. Pietro. Quindi non è da  prestarsi credenza a Ciampinio, a Molineto, a Vitlorellio, a Ficoronio, a Marangonio, a Guattanio, e a  pochi altri, i quali affermarono che il medesimo era  di già abbattuto e steso al suolo allorché si fece la  sua traslocazione sotto il Pontefice Sisto V. Tuttavia, giudice e testimonio D., ora ci si  para innanzi all’ impensata il distico da tempo scol-  pito sopra l’ obelisco, dal quale non fuori di propo-  sito n’ è lecito far congettura eh’ esso avesse incon-  trata cogli altri la stessa sorte, e poscia nel medesi-  mo sito, dove dapprima era posto, sia stato di bel  nuovo inalzato ; ovvero, se non fu ritrovato intiera-  mente abbattuto e steso a terra, fosse almeno così  piegato, che il suo inalzamcnto si avesse a tenere in  conto non altrimenti che di fatto assai meraviglioso,  e da tramandarsi con lode alla memoria dei posteri  per mezzo d’ un monumento cospicuo cesellalo a Roma ; al quale in séguito, come sarà a vedersi dalle  cose che qui sotto si diranno, se ne aggiunse un altro di simile a Pisa. Per verità, tostochè lesesi questo  distico, ci ricorre alla memoria quel tetrastico sopra  quella grandissima mole di marmo, tradotta per mare  ed inalzata il secolo XI. dalle mani di dieci fanciulle,  per il sommo ingegno del chiarissimo architetto Bu-  scheto; il quale tetrastico si vede scolpito nel medesimo tempo sopra il di lui sepolcro, che fronteggia il  tempio maggiore di Pisa, e parla così :   Quod vix mille boum possent juga junctn movere ,  Et < fuod, vix poluil per mare ferve ralis,   Busketi iiisu, quod crat mirabile vini ,   Dena puellarum turba levabai onus.   Del qual tetrastico, siccome è noto, furono fatte  tante e così scipite interpretazioni, che il fatto delle  dieci fanciulle si spacciò per una favola ; quasi che  quelle parole non si potessero applicare all’ inalzamene della gran mole, portato a termine per opera  di Buscheto con tale perfezione, che dieci donzelle  colle sole loro mani sarebbero state da tanto a quel-  l’ impresa, e che a loro in certa guisa sembrasse do-  versi attribuire la grande erezione. Pare che P opinione popolare abbia condotto in errore tutti coloro  che di questo fatto hanno discorso per iscritto ; cioè  che il contenuto in quei quattro versi accennasse alle  macchine costrutte da Buscheto nella fabbrica del  tempio pisano ; perchè il medesimo, ma in altri versi,  vi si leggeva in lode di Buscheto sulla facciata di  quel tempio. Per quanto poi si  sa, nessuno avrebbe sospettato se sia da intendersi lo  stesso intorno al lavoro eseguito in Roma. Se non che quelli che giudicano imparzialmente  de’ fatti, e sono di parere che P obelisco nel medio-  evo sia stato atterralo, e poco dopo novamente inal-  zato da Buschelo, sembra ciò possano fare senza taccia di errore, se specialmente considerino che tutti  quegli aggiunti, rappresentati ab antico colle stesse  parole intorno al trasporto dell’ obelisco sopra una  nave d’ una meravigliosa grandezza, e la maniera  stessa adoperata nel suo secondo inalzamento, acqui-  stano insieme chiarezza e fede ; altrimenti non veggo  quello che se ne possa dire di vex*o e di ragionevole  su questo fatto. Che P obelisco sia stato fermo in pie-  di almeno sino all’anno -1053 presso la Cappella della  Basilica Vaticana, nel qual luogo sino dal principio  era stato posto , è chiaro dalla Bolla di papa Leo-  ne IX., per Li quale viene confermato il fondo ai Ca-  nonici della Basilica medesima, nel cui terzo lato (dis-  se) corre un'altra via dall'aguglia che si nomina Sepol-  cro di Giulio Cesare ; colla qual denominazione sol-  tanto apparisce sia stato in uso nel medio-evo d’ indi-  carsi questo monumento ( Collezione delle Bolle della  Basilica Vaticana di Roma, i 747, Tomo I. pag. 25).  Dagli anni succedenti a quel medesimo secolo fino al  1084 tennero dietro quei lagrimevoli tempi, ne’ quali  per la discordia di Enrico IV. e Gregorio VII., che  tra loro si combattevano, toccò a Roma di patire  moltissime calamità, nonché assedj, incendj, smantel-  lamenti e distruzioni di fabbriche anche in quella  parte che si chiamava Città Leonina, in cui stava  l’obelisco: le quali cose tulle noi leggiamo testimo-  niate publicanienle da scrittori di quell’età, c di già  scritte da storici accurati d’ Italia di tempo posterio-  re nei loro divulgati lavori, senza che mai ne accada  per avventura di vedere da essi fatta alcuna menzione  dell’ obelisco ; onde sorge qualche probabilità, che  ad esso pure sia toccata in quel tempo la medesima  disgrazia d’essere rovesciato. Questo certamente cade  ora in taglio di osservare, che niuno di quelli de’quali  abbiamo gli scritti circa le antichità di Roma, o di  quelli de’ quali abbiamo le collezioni da gran tempo  date in luce delle antiche iscrizioni, ha fatto mai cen-  no del distico intorno a Buscheto; non pure eccet-  tuato lo stesso Petrarca, che sappiamo aver egli stu-  diosamente esaminato gli antichi monumenti, e del-  l’ obelisco aver fatto parola soltanto secondo la voce  del popolo ( Epislolae familiares , Lib. VI. Ep. XI. pa-  gina 199, edit. Genev.). Noi pertanto andiamo  debitori al Dondi, siccome a quello che forse primo  di tutti ci diede una giusta conoscenza del tetrastico  pisano, e la notizia della mole insigne ultimamente  alzata in Roma, la quale è di moltissimo vantaggio  per far conoscere la storia delle arti meccaniche del  medio- evo in Italia : soggetto di un voluminoso ed  utilissimo scritto.   Un silenzio così durevole ed universale non può  essere di certo a molti senza ammirazione ; ma ove  essi considerino che l’ obelisco di bel nuovo inalzato  era stato a cielo scoperto bersaglio delle ingiurie dei  tempi per il giro di quasi tre secoli avanti il Dondi, e  che mostrava quel distico a lettere sfuggevoli, sebbene ab antico scolpite, difficili alla lettura per la  sconvenienza del sito, talché siasi preso Buzeta per  Buscheto ; e che finalmente nel secolo XV. le medesi-  me erano del tutto scomparse, non avranno più luogo  sì fatte meraviglie. Senza dubio Angelo Decembri o  11011’ Opera ripiena di scelta erudizione e poco conosciuta, scritta circa la metà di quel tempo, intitolata  hibri selle di polizia letteraria , c data ai tipi in Augusta, ce lo rappresenta tanto ridotto a mal termine, che non dee fare  stupore sia esso sfuggito a’ curiosi indagatori degli an-  tichi monumenti, ed abbia indottoVeronese  a parlare in tal foggia: « Quel lato eh’ è posto a Mez-  » zogiorno viene corroso ogni dì più dai continui va-  » pori dell’ Austro e dalle procelle ; e i geometri e gM  » architetti tutti del nostro tempo ne trovarono tanto  » di logoro, che ritengono sia scemato da imo a som-  » mo quasi duecento libre. » E il Bembo nel Dialogo ad Ercole Strozio intorno la zan-  zara di Virgilio e le favole di Terenzio, impresso la  prima volta a Venezia l’ anno 1 530 con altre sue Ope-  rette, mette in bocca a Barbaro Ermolao questi delti :  « Appena si può descrivere a parole la grave colpa  » che hanno i Romani per quell’ obelisco vaticano,  » i quali, quasi invidiando che sopravivesse una qual-  » che opera alla nostra età, cui lunghezza di anni o  » durata di tempo non valesse a distruggere, adoperarono sì che fosse quasi tolto alla publica vista per  » mezzo di ammonticchiati rottami e murate easu-  » pole. »   Ma che il Dondi si abbia procurato colle osserva-  zioni sulle romane antichità cognizioni per dare a  buon diritto lodi secondo le azioni, n’ è prova la Letlera diciottesima a Paganino Sala, decoralo poco in-  nanzi della dignità di Cavalliere : nella quale difende  che la scienza delle leggi è da tenersi in maggiore  estimazione che l’arte militare, scrivendo: « Che il  » Senato e il popolo romano avessero operato secondo questo parere di CICERONE, lo attestano alcune fac-  » ciate, le quali sino al giorno d’ oggi si conservano nella città scolpite in marmo, alcune delle quali,  *) nè m’ inganna la mia memoria, ho lette io stesso,  » dove vengono anteposti in ordine di scrittura gl’uomini famosi in pace per consiglio a quelli che  » travagliarono nella guerra. A’ piedi della rupcTar-  » péa si conserva uno splendido arco trionfale di  » marmo, che tiene inscritti due grandi uomini, vale  » a dire Lucio Settimio e Marco Aurelio, sopra cui  « dopo una lunga serie si offrono a lettera alcune  » cose in proposito, le quali, tienle a mente, sono  » queste: Ob rem publicam restitulam itnperiuinque  » populi romani propagatimi insignibus virlutibus eorum  » domi forisque. Ecco preferirsi il publico interesse  » consolidato per senno alla conquista dell’imperio,  » e i grandi in pace a’ grandi in guerra, quantunque  » senza dubio l’ una e l’ altra sia cosa gloriosa. Così  » il titolo di Dottore avuto per scienza in Diritto civile, colla quale si amministrano bene in pace i  » publici affari, si giudica doversi anteporre al titolo  » di Condoiliere d'eserciti , colle armi de' quali si gover-  ni nano le cose al di fuori. » Posciachè il Dondi ebbe  osservate le rovine della romana antichità, nella Let-  tera duodecima al frate Guglielmo da Cremona ne  scriveva in tal modo : « Quantunque poche ne sieno    » rimaste delle opere degli antichi ingegni, pure se  » alcune qua e là se ne conservano, vengono ricerca-  » te, esaminate, e tenute in gran pregio dagli appas-  » sionati in tal genere; e se vorrai mettere a para-  » gone queste dei giorni nostri con quelle, ti sarà  » chiaro come gli autori di quelle sieno stati più av-  » vantaggiati dalla natura e dall’ ingegno, e più dotti  » nel magistero dell’arte. Parlo di edifizj antichi, di  » statue, di sculture, e d’altre cose di simil fatta,  » alcune delle quali, con diligenza osservate dagli artelici di questa età, li fanno dare nelle meraviglie.»  Nella qual Lettera stessa, dopo di avere trattato dif-  fusamente sulla eccellenza degli antichi, aggiunse anche le seguenti cose, spettanti allo studio degli anti-  clii monumenti : « Io avrei credulo che tu ti avessi  » occupato con piacere a leggere di quando in quan-  » do scritti di tale specie, o almeno alcuni dei principali tra essi, ed in quelli ne avessi considerato in  > molte parti, non senza stupore, i costumi e le azioni dei tempi andati : perchè se vorrai con giustizia  » raffrontare quelli con questi che di presente cono-  » sciamo, sarai costretto a confessare che la giustizia,  » il valore, la temperanza e la prudenza hanno avuto  » certamente un seggio luminoso nei loro animi, e  » dall’ impulso di quelle virtù si hanno procacciato  » alcun che di magnifico a gran lunga superiore alle  » più larghe mercedi. Del resto, prova di ciò sono  » quelle cose che, ordinate una volta per onorare  » gloriose intraprese, durano ancora nella città di  » Roma. Conciossiachè sebbene molle e delle più pre-  » ziose ne abbia mandalo a male il tempo, e di alcune   » sieno mostrate soltanto le rovine, che ci presen-  ti tano alcune tracce di ciò che per lo innanzi erano;  » tuttavia quelle poche e a meraviglia stupende che  ne restano, sono più che bastanti onde fare testi-  » monianza che coloro i quali le decretarono, non  » poteano essere che dotati di somma virtù, e che co-  « loro a’ quali venivano dedicate ad eterna ed onore- vole ricordanza doveano avere operato gesta ma-  » gnanime e strepitose. Voglio dire statue che, fuse  » in bronzo o scolpite in marmo, durarono fino al  » giorno d’ oggi ; e mollissimi pezzi sflagellati a tor-  li ra, ed archi trionfali di pietra di gran lavoro, e co-  li lonne storiate di memorabili imprese, ed altre cose  » moltissime di tal genere, messe alla vista di tutti  » onde onorare personaggi illustri o per avere sta-  li bilita la pace, o scampata la patria da sovrastante  » pericolo, o disteso il dominio sulle vinte nazioni.  » E siccome mi sovviene eli’ io vi leggeva con molto  » mio compiacimento, così voglio sperare che tu pu-  lì re, passandovi sopra qualche fiala, le avrai con-  » siderale, e fatto sovr’ esse alcun segno di meravi-  » glia, ed avrai detto per avventura teco stesso : Que-  ll ste per fermo sono prova d’ uomini grandi. »   Resta che a fornire l’ elogio del Dondi io lo di-  mostri anche amante dello studio poetico, onde sia  manifesto com’ egli abbia occupato un luogo cospicuo  fra i Medici del suo tempo. Anche i meno esperti di  tali cose sapranno che delle sue composizioni italiane  una sola ne fu data alle stampe, indirizzata al Pe-  trarca, la quale con altre dello stesso autore suolsi  vedere congiunta, e ne fu fatta memoria nel Dizionario degli Academici Fiorentini della Crusca. Ma nel  codice manoscritto, di cui sul principio ho fatta menzione, se ne leggono quaranta del genere di quelle  che con vulgare vocabolo è invalso chiamare Sonetti. Queste trattano di varj argomenti, e specialmen-  te dell’ amore alla virtù, della malvagità dei costumi  del suo tempo , della lode e del biasimo di alcuni  Principi allora regnanti, di città vedute nel suo viag-  gio per Roma, di risposte ad amici; e di amorose as-  sai poche, ben diversamente da quello che portava il  suo secolo.   Le poesie volgari du D. furono scritte a Petrarca, e a quelli amatori delle Mu-  se che a lui erano legati in istrelta amicizia ; cioè a  Gasparo Broaspitia veronese, a Francesco Vanozzi,  a Melchiore e Benedetto parimente veronesi, a Bar-  tolomeo Pace padovano, al frate Guglielmo da Cremona, a Giovanni di Venezia suo condiscepolo, a  Campo, e Castellione Aretino.  D. visitando la tomba del Petrarca in Arquà  scrisse forse il primo di tutti su tale argomento una  composizione, imitato poscia da uomini dotti d’ogni  nazione e d° ogni tempo ; cosicché coll’ andare degli  anni io ho raccolto versi in gran copia sopra questo  soggetto, i quali potrebbero uscire in luce con gene-  rale approvazione.   La poesia usata dal Dondi non è sempre sciolta e  facile; tuttavia è fornita di gravità e di eleganza: gli  piaque di framischiare sovente versi latini ai volgari,  come sappiamo su IP esempio degli antichi poeti es-  sersi usalo fare da alcuni moderai con vano sforzo. Nella sua giovinezza atlendeva con piacere a verseggiare, come scrive a Guglielmo da Cremona:   Già nella vaga elade de’ prim’anni   Mi piaque udir e dir talvolta in rima,   Benché con grosso stile e rude lima:   Poi che l’alma vestir di miglior panni   Mi piaque più, perch’io conobbi i danni  Dei persi di, lasciai la via di prima.   Prendendo quel che piu prezzo si stima  Con maggior cura e studiosi affanni.   I codici scritti a penna assai di rado ci offrono  versi del Dondi, ed io ne ho veduti se non pochissimi  in due soltanto: uno de’ quali trovasi nella Biblioteca  del Seminario di Padova, un tempo posseduto dal  Facciolati ; l’ altro squarcialo, e mal difeso dalle in-  giurie dei tempi, fu da me rinvenuto poco fa nell’ul-  tima stanza della Basilica di S. Marco in Venezia, e  portato nella Biblioteca regia : il perchè non dee pa-  rere fuori di ragione eli’ io ponga qui appiedi di que-  sta Lettera, come per saggio, sei componimenti volgari  di esso Dondi.   Da tutto il fin qui detto risulta, che presso i giu-  sti estimatori degl’ingegni il Dondi andò fornito di  tanta e sì svariata dottrina, che v’ ha onde tenerlo del  tutto eccellente fra i pochi periti in Medicina del suo  secolo, e che perciò non ho gettato inutilmente il tempo e la fatica nel farlo riconoscere per tale. Venezia,  Se’l veder torto del vostro Giovanni Mira la region terrestre ed ima.  La gente ricercando in ogni clima,  Ebrei, Latini, Greci ed Alemanni,   Regni comuni, e sudditi a’ tiranni ;   Al mal son pronti, e per quel si sublima,  Spenta è virtù, e la fortuna opima  Col vizio sta su gloriosi scanni. Ito è il tempo che fu col buon Augusto,  Rari son quei che per virtù guadagna;  Astuzia e frodo regna con bugia. A cui dunque direm del calle angusto, Per qual si va con la virtù compagna?  Degno è del mal così lagnarsi pria. Oli puzza abbominabil di costumi! Oli maledetti dì di nostra etade!   Oli gente umana senza umanitade!   Più che senza splendor oscuri fumi!   Convien che ’l mondo in breve si consumi.  Poiché giustizia ed innocenza cade;   E sol quell’arte e studio par che aggrade.  Per qual l’un l’altro offenda, inganni e schiumi.   Qual’ cieli infortunati, qual’ figure.   Qual’ mimiche stelle o gravi segni  In ogni nostro ben or s’è disperso?   Quanto beate fur più le nature   Nell’imperio d’ Augusto, quando ingegni, Virtute e pace ebbe l’Universo! Cantra insolenliam Fenetorum inferentium  guarani Amino Paduae.     Se la gran Babilonia fu superba,   Troja, Cartago, e la mirabil Roma,   Che ancor si vede, e quell’ altre si noma.  Ma dove sletler pria stan selve ed erba;  E se altra possa fu mai tanto acerba  A metter sopra altrui gravosa soma.  Tutte san già quant’ogni orgoglio doma  Al fin colei clic a sè vendetta serba.   Però qualunque è maggior signoria  Dovrebbe rifrenar con più misura  Fraterna di giustizia sua potenza;   Di aver con suoi minor consorte pia.   Non arrogante, ingiuriosa e dura,   E temer sopra sè dal Ciel sentenza.  Cum visitasset sejiulchrum Domini Fraudici PelrarcUae  in A rquada. Ilei sommo cielo con eterna vita  Gode P alma felice tua, Petrarca ;  Quindi di sodo sasso in nobil’ arca  La terrena caduca parte uscita.   La fama del tuo nome già gradita  Sonando va con gloriosa barca,   Di vera lode e d’ogni pregio carca,  Per l’Universo in ogni canto udita.   Nelle scritte sentenze tue si vede  La gentilezza dell’ingegno divo,   E qual sii stato in cattolica fede. Forò chi anco t’ama non è privo  Ancor di te; c chi morto li crede  Erra, ch’or vivi e sempre sarai vivo. Y. Joannes ile Domiti socio et eoiuliscipulo tuo Joanni de  Fenetiis studenti in Medicina, qui tcripseral eidem  quondam tmlgares rhythmos.  Le tue parole mi par belle tanto,   E sì bene ordinate tutte quante.   Qual se dette le avesse o Guido o Dante,  Ovvero esaminate in ogni canto.   Però quando fra me mi penso alquanto,  Parmi che tu non sei molto distante  Da color che tu imiti, buon rimante,   E che han vestito di quell’arte il manto.   Ond’io ti prego che scrivi talvolta,   Sì che svegli il mio piccol ingegno,   Per te sottratto dalla turba stolta.   Onor ti renderò, che sei ben degno.   Più che’l fanciul al maestro ch’ascolta.  Guardando a te col balestriere <0 al segno.   (t) Così il codice.  Dica contra chi vuol: il saper vale   Più che il folle ardimento, cd ogni schiera  Produrrà a torto quantunque sua fiera:  Per ragion giusta, dee terminar male.   E chi per van conforto d’altrui sale  Oltra quel che convien a sua maniera.  Degno è che non governi ben bandiera,  Nè ben cavalchi alcun sotto sue ale.   Adunque imprenda pria quei che non sanno,  E non ardisca saltar di leggieri ;   Contra s’alza a baldezza di vesciche.   Chè chi è corrente ha più volle le fiche,  E scaccomato in mezzo il tavolieri,   Sì ch’ei riporta la vergogna e ’l danno..tK*rCP odiatene di »oti 3oo esemplati.   BUSCHETO di Isa Belli Barsali - Dizionario Biografico degli Italiani - Pubblicità BUSCHETO (Busketus, Buschetto, Boschetto). - Si ignorano l'origine e gli estremi biografici di questo architetto attivo a Pisa tra il terzo venticinquennio del sec. XI e i primi del XII. Compare in due soli documenti certi, del 2 dic. 1104e del 2apr. 1110 (pubblicati dal Pecchiai), e come operarius di S. Maria. Fu l'ideatore del progetto della cattedrale pisana e come tale infatti è ricordato ed esaltato, nel paragone con Ulisse e con Dedalo, nell'iscrizione che si legge sulla sua tomba collocata nella prima arcata a sinistra della attuale facciata (trasferitavi da quella primitiva): "Non habet exemplum niveo de marmore templum. / Quod fit Busketi prorsus ab ingenio". Una più tarda iscrizione elogiativa aggiunta sul sarcofago in occasione del trasferimento della tomba dalla vecchia alla nuova facciata (al tempo cioè dell'architetto di quest'ultima, Rainaldo) esalta del B. soprattutto le capacità tecniche: "Quod vix mille boum possent iuga iuncta movere / Et quod vix potuit per mare ferre ratis / Busketi nisu quod erat mirabile visu / Dena puellarum turba levabat onus". Accenti assai simili aveva un'epigrafe romana, ora scomparsa, trascritta da G. Dondi (1375), che celebrava un "Buzeta" per aver nuovamente eretto l'obelisco nel circo neroniano: "Ingenio Buzeta tuo bis quinque puellae / appositis manibus hanc erexere columnam". Questa somiglianza di tono nelle due epigrafi, pisana e romana, indusse il Morelli a proporre l'identificazione di "Buzeta" con Buscheto.  Non risulta certo che sia da identificare con il B. che compare nel 1076 e 1078 in due atti della canonica del duomo di Pistoia (L. Chiappelli, Storia di Pistoia..., Pistoia). Per altre ipotesi (B. del fu Giovanni giudice dei signori di Ripafratta, Monini, pp. 10-14), basate su documenti presunti (10 febbr. 1100 e 1105) o per documenti (Pecchiai, p. 20) poinon rintracciati, si veda Scalia (pp. 514 s.).  I lavori della cattedrale pisana, iniziati nel 1063 al tempo del vescovo Guido da Pavia, proseguirono, sostenuti da donazioni, tra cui quelle di Enrico IV e della contessa Matilde, per tutto il secolo XI e i primi decenni del secolo seguente. Papa Gelasio II nel 1118 consacrava la cattedrale, forse non ancora del tutto compiuta. Dopo questa data, l'edificio venne ampliato con il prolungamento a ovest del corpo longitudinale della chiesa, di circa quindici metri, che portò di conseguenza alla costruzione dell'attuale facciata (per il Sanpaolesi nel secondo quarto del sec. XII. Per le fondazioni della prima facciata si veda Bacci, 1917).  L'individuazione, ovviamente fondamentale, dell'attività di B. nella parte più antica del duomo, ha avuto un lungo iter critico. Alla luce degli studi recenti è da credere che il B. progettasse e iniziasse la costruzione in età ancor giovane, proseguendone poi la fabbrica fino al primo decennio del sec. XII.  Molte ipotesi sono state avanzate sui tempi e i modi della fabbrica del duomo durante la direzione di Buscheto (Dehio-von Bezold; Salmi, 1938;Sanpaolesi). Una documentazione indiretta aiuta solo parzialmente. Accettando l'ipotesi del Burger (1953), che l'epigrafe con data 1085 murata sulla porta della pieve nuova di S. Maria del Giudice (Lucca) vada riferita al completamento dell'abside di questa chiesa - anteriore stilisticamente alla sua facciata - il1085verrebbe ad essere anno ante quem per il completamento di una parte dei lavori al duomo pisano attribuibili a B., dato il rapporto esistente tra il duomo di Pisa e l'abside della pieve nuova di S. Maria del Giudice: la chiesa del contado lucchese sarebbe anche il più antico edificio derivato dalla cattedrale pisana.  I forti pilastri interni all'incrocio del transetto delineano le dimensioni della cupola e autorizzano a ritenere che B. progettasse anche questa parte (Sanpaolesi), anche se poi è possibile che i lavori si protraessero. La cupola originaria - poggiante su un tamburo con monofore ad archetto e su trombe coniche venute in luce durante i restauri del secondo dopoguerra - indica rapporti con l'architettura del Mediterraneo orientale e della Sicilia.  Un problema aperto è quello della forma della facciata di B., forse già compiuta nel 1118 quando fu consacrata la chiesa, certo già esistente quando nella chiesa fu tenuto un concilio, e disfatta probabilmente dopo la costruzione della nuova. Ipotesi ricostruttive possono trovare appoggio nell'esame analitico e comparativo di alcune facciate di chiese pisane (S. Frediano di Pisa, la pieve di Calci già aperta al culto nel 1111, la pieve di Vicopisano) e lucchesi (le due pievi di S. Maria del Giudice), tutte in contatto con la cattedrale pisana. Queste facciate mostrano una ricorrente tipologia ad archi ciechi su due ordini, che si presenta in logico e armonioso rapporto con quella soluzione ad archi ciechi che compare nei fianchi del duomo di Pisa.  Il linguaggio di B. non è certo riconducibile ad una tradizione locale, ed è estremamente colto. Accettando l'ipotesi di identificazione con il "Buzeta" dell'iscrizione romana, il soggiorno a Roma illuminerebbe sul sottofondo classico della sua cultura: l'impianto dell'edificio e i grandi colonnati basilicali, i capitelli foggiati ad imitazione dell'antico, la quasi completa assenza di decorazioni figurate rivelano infatti la conoscenza e lo studio delle opere romane; è significativo che anche il neoclassico Milizia ne notasse "le proporzioni del tutto non... spregevoli" e la "sodezza". Nello stesso tempo B. è a conoscenza dell'architettura lombarda e dell'architettura orientale, dalla bizantina all'araba. Contatti e rapporti culturali sono d'altronde superati in una unitaria visione di grande respiro, che fa di B. uno dei massimi architetti dei secoli XI e XII.  La cattedrale pisana è capostipite del romanico pisano. All'opera di B. e del suo continuatore Rainaldo si rifece non solo la generazione a loro più vicina, ma una folta scuola, estesasi nella Lucchesia, nel territorio fiorentino, e nelle zone politicamente o commercialmente in rapporto con Pisa (in Sardegna e in Puglia), scuola che ne mantenne alcuni tratti essenziali, pur modificandosi nel tempo e nei diversi centri.  Fonti e Bibl.: B. Maragone, Annales pisani, in Rerum Italic. Script., 2 ediz., VI, 2, a cura di M. Lupo Gentile, pp. 1 ss.; R. Sardo, Cronaca pisana, a cura di O. Banti, Roma,  D., ITER ROMANVM, in CODICE TOPOGRAFICO DELLA CITTA DI ROMA, a cura di R. Valentini-G. Zucchetti, IV, Roma, Milizia, Mem. degli architetti antichi e moderni, Parma 1781, p. 112; A. Da Morrona, Pisa illustrata, Pisa, Morelli, Operette, II, Venezia 1820, pp. 285 ss.; R. Grassi, Descriz. Stor.-artistica di Pisa, Pisa 1836, Parte storica, p. 124; Parte artistica, pp. 22 ss.; G. Rohault de Fleury, Les monuments de Pise au Moyen Age, Paris, Rossi, Inscriptiones christianae Urbis Romae, I, Romae, Dehio-G. von Bezold, Die kirchliche Baukunst des Abendlandes, I, Stuttgart, Monini, B. pisano, Pisa 1890; P. Schubring, Pisa, Leipzig Venturi, Storia dell'arte italiana, III, Milano 1903, pp. 835 ss.; J. B. Supino, Arte pisana, Firenze, Pecchiai, L'opera della Primaziale pisana, Pisa, Papini, Pisa, I, Roma, La costr. del duomo di Pisa, in L'Arte, Bacci, Le fondaz. della facciata del sec. XI nel duomo di Pisa, in Il Marzocco, Tronci, Il duomo di Pisa, a cura di P. Bacci, Pisa 1922; M. Hauttmann, Die Kunst des frühen Mittelalters,Berlin, Salmi, L'architettura romanica in Toscana, Milano-Roma, Toesca, Il Medioevo, I, Torino, Guyer, Der Dom zu Pisa und das Rätsel seiner Entstehung, in Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, Salmi, La genesi del duomo di Pisa, in Boll. d'arte, Thümmler, Die Baukunst des XI. Jh.s in Italien, in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte, Ragghianti, Architettura lucchese e architettura pisana, in Critica d'arte,  Burger, L'architettura romanica in Lucchesia e i suoi rapporti con Pisa, in Atti del Seminario di storia dell'arte, Pisa-Viareggio, Sanpaolesi, La facciata della cattedrale di Pisa, in Riv. dell'Ist. d'archeol. e storia dell'arte, Il restauro delle strutture della cupola della cattedrale di Pisa,in Boll. d'arte, Burger, Osservazioni sulla storia della costruzione del duomo di Pisa, in Critica d'arte,VIII (1961), pp. 28 ss.; R. Barsotti, B. e Rainaldo, in Cattedrale di Pisa (catal. della mostra), Pisa, Delogu, Pistoia e la Sardegna nell'architettura romanica, in I Convegnointernaz. di storia e arte,Pistoia Scalia, Ancora intorno all'epigrafe sulla fondazione del duomo pisano, in A G. Ermini, Spoleto, Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, V, p. 289, s.v. Busketus. Wikipedia Ricerca Circo di Nerone Circo scomparso della Roma antica Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento siti archeologici d'Italia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Circo di Nerone (o Vaticano) Sito archeologico Roma Nero Circus.jpg Ricostruzione del Circo di Nerone in un disegno di Pietro Santi Bartoli Civiltà Civiltà romana UtilizzoCirco Localizzazione StatoCittà del Vaticano Mappa di localizzazione  Il circo di Nerone era un impianto per spettacoli dell'antica Roma lungo 540 metri e largo circa 100, che sorgeva nel luogo dove oggi si trova la basilica di San Pietro in Vaticano, in una valle che correva da dove si trova la parte sinistra della basilica fino quasi ad arrivare al Tevere. L'area dei Carceres, da dove partivano le bighe, era situata nel punto dal quale la Via del Sant'Uffizio lascia piazza Pio XI, mentre quella del lato curvo va rintracciata qualche decina di metri dopo l'abside della basilica di San Pietro.  StoriaModifica L'opera, iniziata da Caligola e completata da Nerone, era stata costruita all'interno della villa di Agrippina Maggiore, villa che alla morte della madre di Caligola passò in eredità a Nerone.  Nel circo privato dell'imperatore si tenevano corse di cavalli, bighe e quadrighe, molto popolari a Roma, tanto che in alcune occasioni l'imperatore, che normalmente vi assisteva solo con la sua corte, fece aprire le porte del circo al popolo romano. È probabile che l'impianto non dovesse contenere più di 20.000 spettatori.  Qui ebbero luogo, forse per la vicinanza all'adiacente necropoli, alcune esecuzioni dei cristiani giudicati colpevoli di aver causato il grande incendio di Roma. Nerone, secondo Tacito, aggiunse lo scherno al supplizio. Come avvolgere gli uomini con pelli di animali perché fossero dilaniate dai cani, o inchiodarli alle croci, o destinarli al rogo come fiaccole, che illuminassero l'oscurità al termine del giorno. Nerone aveva offerto i suoi giardini per lo spettacolo, e vi aveva organizzato giochi circensi, mescolandosi alla folla in abito d'auriga o guidando un carro da corsa. In tal modo si aveva pietà di quei condannati, benché colpevoli e meritevoli del supplizio, perché venivano sacrificati non per l'utilità pubblica ma per la crudeltà di uno solo.[1]  Il circo fu abbandonato già verso la metà del II secolo d.C. e l'area fu suddivisa e assegnata in concessione ai privati per la costruzione di tombe appartenenti alla necropoli. Tuttavia pare che fino al 1450 ne sopravvivessero ancora molti resti, distrutti con la costruzione della nuova basilica vaticana.  L'obelisco, che era posto al centro della spina del circo, era stato per volere di Caligola trasportato fin qui da Eliopoli, dove si trovava nel Forum Iulii. Qui rimase fino a che  papa Sisto V lo fece spostare al centro di Piazza San Pietro.   L'area dove sorgeva anticamente il Circo di Nerone. Publio Cornelio Tacito, ''Annales, Basilica di San Pietro in Vaticano Via Cornelia Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su circo di Nerone. Portale Antica Roma   Portale Architettura   Portale Roma Necropoli vaticana Ager Vaticanus Via Cornelia Strada romana antica  Wikipedia Il contenutoGrice: “I thought it was a good idea of the Anglo-Normans to retain the Anglo-Saxon idea of ‘time’ (as stretch – a rather English root – cf. German ‘zeit,’ our ‘tide’ --, and borrow from Latin, ‘tempus’, which gives us ‘temporary’, as I use in my ‘Personal Identity,’but also ‘tense’ – This tense is better than by vice/vyse, since vice and vyse are both cognate with violence. But tense and tense are not. One is cognate with Latin tension. The other is just a mispronounciation of Fremch ‘temps,’ Latin/Roman ‘tempus’ – So as Cicero would have it, it’s ‘tempus’ we should care about!” -- Giovanni Dondi dall’Orologio. Giovanni De Dondi. Dondi. Keywords: l’astrarium, Leibniz’s Law, time-relative identity, total temporary state (Grice: “I’m thinking of Hitler”); Wiggins, Myro, The Grice-Myro Theory of Identity, sameness and substance, Mellor, filosofia del tempo, Prior, Creswell, Mellor – logica cronologica, ‘tense logic’ ‘tense implicature’ -- “iter romanorum”. Refs: Luigi Speranza, “Grice e Dondi” – The Swimming-Pool Library. Dondi.

 

Grice e Dorfles: l’implicatura conversazionale  del kitsch – filosofia italiana  – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Grice: “Must say my favourite Dorfles is his ‘artificio e natura,’ on the doryphoros!”. Nato a Trieste nell'allora Austria-Ungheria da padre goriziano di origine ebraica e madre genovese, si laurea a Trieste. Si dedica allo studio della pittura, dell'estetica e in generale delle arti. La conoscenza dell'antroposofia di Steiner, acquisita grazie alla partecipazione a un ciclo di conferenze a Dornach, orienta la sua arte pittorica verso il misticismo, denotando una vicinanza più ai temi dominanti dell'area mitteleuropea che a quelli propri della pittura italiana coeva. Isegna a Milano, Cagliari e Trieste. Fonda il Movimento per l’Arte Concreta (vs. arte astratta). del quale contribuì a precisare le posizioni attraverso una prolifica produzione di articoli, saggi e manifesti artistici. Prende parte a numerose mostre in Italia e all'estero: espone i suoi dipinti alla Libreria Salto di Milano e in numerose collettive, tra le quali la mostra alla Galleria Bompiani di Milano, l'esposizione itinerante, e la grande mostra "Esperimenti di sintesi delle arti", svoltasi nella Galleria del Fiore di Milano. Risulta componente di una sezione italiana del gruppo ESPACE. Diede il suo contributo alla realizzazione dell'Associazione per il Disegno Industriale. Si dedica quindi in maniera pressoché esclusiva all'attività critica. Con la personale presso lo Studio Marconi di Milano, torna a rendere pubblica la propria produzione pittorica. L'arte non prescinde dal tempo per esprimere semplicemente lo spirito della Storia universale, bensì è connessa al ruolo delle mode e a tutti gli ambiti del gusto. Considerevole è stato il suo contributo allo sviluppo dell'estetica italiana, a partire dal Discorso tecnico delle arti, cui hanno fatto seguito tra gli altri Il divenire delle arti e Nuovi riti, nuovi miti. Nelle sue indagini critiche sull'arte contemporanea si è sovente soffermato ad analizzare l'aspetto socio-antropologico del fenomeno estetico e culturale, facendo ricorso anche agli strumenti della linguistica. È autore di numerose monografie su artisti di varie epoche (Bosch, Dürer, Feininger, Wols, Scialoja). Pubblicato due volumi dedicati all'architettura (Barocco nell'architettura moderna, L'architettura moderna) e un famoso saggio sul disegno industriale (Il disegno industriale e la sua estetica). è il primo a vedere tendenze barocche nell'arte moderna (il concetto di neobarocco sarà poi concettualizzato da Calabrese) riferendole all'architettura moderna in: Barocco nell'architettura moderna. Contribuisce al Manifesto dell'antilibro, presentato ad Acquasanta, in cui esprime la valenza artistica e comunicativa dell'editoria di qualità e il ruolo del lettore come artista. A Genova si occupa anche del lavoro di Costa. Partecipa alla presentazione del libro Materia Immateriale, biografia di Costa, Miriam Cristaldi, di cui Dorfles ha scritto la prefazione. L'editore Castelvecchi ha pubblicato Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, in cui analizza come la scoria massmediatica ha soppiantato le attività culturali; Conformisti e Fatti e Fattoidi. Pubblica un inedito d'eccezione, “Arte e comunicazione”, in cui mette la teoria alla prova con alcune applicazioni concrete particolarmente rilevanti e problematiche come il cinema, la fotografia, l'architettura.  è uscito Irritazioni: un'analisi del costume contemporaneo, uscito nella collana Le navi dell'editore Castelvecchi. Con la sua ironia ha raccolto le prove della sua inconciliabilità con i tempi che corrono. Nel saggio c'è una critica sarcastica e corrosiva all'attuale iperconsumismo. NComunicarte Edizioni, pubblica 99+1 risposte di Dorfles nella collana Carte Comuni. Un'intervista "lunga un secolo" con la quale il critico ripercorre la sua vita e alcuni incontri d'eccezione: da ISvevo a Warhol, da Castelli a Fini. La Triennale di Milano ospita la mostra "Vitriol, disegni" Aldo Colonetti e Luigi Sansone; V. I. T. R. I. O. L.  è un simbolo alchemico, acronimo del motto rosa-crociano “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem”. Assieme ad artisti e autori come Anceschi, Enrico Baj, Marchesi, Mulas e Niccolai, partecipa al numero quattordici di BAU..  Muor e a Milano, nella sua casa di piazzale Lavater. Zio di Piero Dorfles, critico letterario della trasmissione televisiva Per un pugno di libri (il padre di Piero, Giorgio, era fratello di Gillo).  Tra i riconoscimenti ricevuti: Compasso d'oro dell'Associazione per il Design Industriale, Medaglia d'oro della Triennale, Premio della critica internazionale di Girona, Franklin J. Matchette Prize for Aesthetics. È stato insignito dell'Ambrogino d'oro dalla città di Milano, del Grifo d'Oro di Genova e del San Giusto d'Oro di Trieste.  È stato Accademico onorario di Brera e Albertina di Torino, membro dell'Accademia del Disegno di Città del Messico, Fellow della World Academy of Art and Science, dottore honoris causa del Politecnico di Milano e dell'Università Autonoma di Città del Messico. Palermo gli conferì la laurea honoris causa in Architettura. Ricevette dall'Cagliari la laurea honoris causa in Lingue moderne.  Onorificenze Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana nastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, Di iniziativa del Presidente della Repubblica» Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte. Altre opere: “Barocco nell'architettura moderna” (Studi monografici d'architettura, Libreria Editrice Politecnica Tamburini, illustrazioni); “Discorso tecnico delle arti, Collana Saggi di varia umanità, Pisa, Nistri-Lischi,Il pensiero dell'arte, Milano, Marinotti); “L'architettura moderna, Collana serie sapere tutto, Milano, Garzanti); “Le oscillazioni del gusto e l'arte moderna” (Forma e vita, Milano, Lerici); “Il divenire delle arti, Collana Saggi, Torino, Einaudi, ed. accresciuta, Torino, Einaudi; Collana Reprints Einaudi, Bompiani); “Ultime tendenze nell'arte”, Collana UEF, Milano, Feltrinelli); XXVII ed., UEF, Milano, Feltrinelli); “Simbolo, comunicazione, consume” (Torino, Einaudi, Il disegno industriale e la sua estetica, Bologna, Cappelli, Kitsch e cultura, in Aut Aut, Nuovi riti, nuovi miti” (Torino, Einaudi, Milano, Skira, L'estetica del mito (da Vico a Wittgenstein), Milano, Mursia, Kitsch: antologia del cattivo gusto, Milano, Gabriele Mazzotta Editore); “Artificio e natura” (Torino, Einaudi); Milano, Skira, Le oscillazioni del gusto. L'arte d'oggi tra tecnocrazia e consumismo, Torino, Einaudi, Milano, Skira, “Senso e insensatezza nell'arte d'oggi, ellegi edizioni, L'architettura moderna. Le origini dell'architettura contemporanea; I quattro grandi: Wright, Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe); Dall'espressionismo all'organicismo razionalizzato, dall'ornamented modern al brutalismo, ai più avveniristici tentativi attuali, I Garzanti, Milano, Garzanti, Dal significato alle scelte, Torino, Einaudi, Massimo Carboni, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi, Il divenire della critica, Collana Saggi, Torino, Einaudi); “Le buone maniere, Milano, Mondadori, Mode & Modi, Collana Antologie e saggi, Milano, Mazzotta, II ed. riveduta, Mazzotta, Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione di serie” (Torino, Einaudi, L'intervallo perduto, Collana Saggi, Torino, Einaudi, Milano, Skira, I fatti loro. Dal costume alle arti e viceversa, Milano, Feltrinelli, Architettura ambigue. Dal Neobarocco al Postmoderno, Bari, Dedalo, La moda della moda, Collana I turbamenti dell'arte, Genova, Edizioni Costa & Nolan, La (nuova) moda della moda), Costa & Nolan, Elogio della disarmonia: arte e vita tra logico e mitico” (Milano, Garzanti, Milano, Skira, Itinerario estetico, Milano, Studio Tesi, Itinerario estetico. Simbolo mito metafora, Luca Cesari, Bologna, Editrice Compositori); “Il feticcio quotidiano” (Milano, Feltrinelli, Massimo Carboni, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi, Intervista come auto-presentazione, con VII tavole di Giulio Paolini, Collana Scritti dall'arte, Tema Celeste Edizioni, Preferenze critiche. Uno sguardo sull'arte visiva contemporanea, Bari, Dedalo, Design: percorsi e trascorsi” (Design e comunicazione, Bologna, Lupetti, Fulvio Carmagnola, Lupetti, Conformisti, Roma, Donzelli, Fatti e fattoidi. Gli pseudo-eventi nell'arte e nella società, Vicenza, Neri Pozza, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Irritazioni. Un'analisi del costume contemporaneo, Collana Attraverso lo specchio, Luni, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Scritti di Architettura, L. Tedeschi, Milano, Mendrisio Academy Press, Flavia Puppo, Dorfles e dintorni, Milano, Archinto, Lacerti della memoria. Taccuini intermittenti, Bologna, Editrice Compositori, L'artista e il fotografo, Verso l'Arte, Conformisti. La morte dell'autenticità, Massimo Carboni, Roma, Castelvecchi, Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, Collana I Timoni, Roma, Castelvecchi); “Arte e comunicazione: comunicazione e struttura nell'analisi di alcuni linguaggi artistici” (Milano, Mondadori Education, Inviato alla Biennale, A. De Simone, Milano, Scheiwiller, 99+1 risposte, Lorenzo Michelli, Trieste, Comunicarte Edizioni, Movimento Arte Concreta, Luigi Sansone e N. Ossanna Cavadini, Milano, Mazzotta, Poesie, Campanotto Editore, L'ascensore senza specchio, Quaderni di prosa e di invenzione, Milano, Edizioni Henry Beyle, Kitsch: oggi il kitsch, Aldo Colonetti et al., Bologna, Editrice Compositori, Arte con sentimento. Conversazione, Marco Meneguzzo, Collana Polaroid, Milano, Medusa Edizioni, Essere nel tempo, Achille Bonito Oliva, Milano, Skira, Gli artisti che ho incontrato, Luigi Sansone, Milano, Skira, La logica dell'approssimazione, nell'arte e nella vita, Aldo Colonnetti, Silvana, Estetica senza dialettica. Scritti, al, Luca Cesari,Milano, Bompiani, Paesaggi e personaggi, Rotelli, Milano, Bompiani, La mia America, Sansone, Milano, Skira; "Interviene Gillo Dorfles", in alterlinus "Calligaro: parole e immagini", in Preferenze critiche, Dedalo, "Né moduli, né rimedi", in Agalma,  "Disarmonia, asimmetria, wabi, sabi", in Agalma,  "Feticcio", in Agalma,  "Barozzi", in Da Duchamp agli Happening. Il Mondo di Pannunzio e altri scritti, Campanotto Editore, Traduzioni Rudolf Arnheim, “Arte e percezione visive” (Milano, Feltrinelli, Arnheim, Guernica. Genesi di un dipinto, Milano, Feltrinelli); Addio a D. «La mia vita infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone», su corriere. Cazzullo: la mia vita infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone, Corriere della sera, 1 il Redazione, Novità formali e riesumazioni di precedenti esempi, il contemporaneo è un linguaggio nuovo di un sapere condiviso, QM, su quid magazine, biografia sul sito delle Edizioni Il Bulino, Galliano Mazzon, Mostra antologia: Civico Padiglione d'Arte Moderna, MMilano, Civico Padiglione d'Arte Moderna, Mostra antologia di Galliano Mazzon: Civico Padiglione d'Arte Moderna, Milano, Luciano Caramel, Arte in Italia, su Dioguardi Gianfranco, Processo edilizio e progetto: vecchi attori alla ricerca di nuovi ruoli, Milano: Franco Angeli, Studi organizzativi. Fascicolo, Corriere della Sera, Cfr. la raccolta degli scritti raccolti in Architetture Ambigue: Dal Neobarocco al Postmoderno, Dedalo, Bari Di Giovanni Marilisa, Il corpo, nuova forma: la “body art”; Cheiron: materiali e strumenti di aggiornamento storiografico. Lecta web, arte e comunicazione. Vitriol Triennale, Sussidiaria: GPS/GaPSle Forbici di Manitù (BAU14). Celeste Prize BAU 14 Gnoli, D. il rivoluzionario critico d'arte, La Repubblica,  Bucci, Morto, critico poliedrico. Corriere della Sera, Addio ad Alma D., signora di cultura, Il Piccolo, Sito web del Quirinale: dettaglio decorato., su Quirinale, dettaglio decorato., su Quirinale, Intervista su conoscenza.rai. Mandelli, Capire l'arte contemporanea su youtube.com D., «Mi sveglio, lavoro. Amo il vino», in Corriere della Sera, Cazzullo,  la mia vita infinita da Francesco Giuseppe agli smartphone, in Corriere della Sera.  Natura insieme degli esseri viventi e inanimati considerato nella sua forma complessiva Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento scienza è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Per natura si intende l'universo considerato nella totalità dei fenomeni e delle forze che in esso si manifestano, da quelli del mondo fisico a quelli della vita in generale.   Paesaggio naturale Storia del concetto Natura (filosofia). Il termine deriva dal latino Natura e letteralmente significa "ciò che sta per nascere": a sua volta deriva dalla traduzione latina della parola greca physis  Il concetto di natura come una totalità che va a comprendere anche l'universo fisico è una delle molte estensioni del concetto originale; sin dalle prime applicazioni di base della parola φύσις da parte dei filosofi presocratici, esso è entrato sempre più nell'uso corrente[1].  Questa concezione è stata riaffermata con l'avvento del moderno metodo scientifico negli ultimi secoli.  Natura e ambienteModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ambiente (biologia).  I boschi fanno parte del gruppo della Natura. La "natura" può riferirsi alla sfera generale delle piantee degli animali, ai processi associati ad oggetti inanimati, al modo in cui determinati tipi di forme esistono ed ai cambiamenti spontanei come i fenomeni meteorologici o geologici della Terra, la materia e l'energia di cui tutte queste realtà sono composte. Viene inteso come ambiente naturale il deserto, la fauna selvatica, le rocce, i boschi, le spiagge, i mari e gli oceani, e in generale quelle cose che non sono state sostanzialmente modificate dall'intervento umano, o che persistono nonostante l'intervento dello stesso. Ad esempio, i manufatti e le trasformazioni umane in genere non sono considerati parte della natura, venendo preferibilmente qualificati come una natura più complessa.  Più in generale, la natura comprende i seguenti contesti e dimensioni della realtà:  TerraModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Terra. Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento ecologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. La Terra è il luogo primigenio degli esseri umani, che ospita la vita come da noi concepita e conosciuta. Sulla sua superficie si trova acqua in tutti e tre gli stati (solido, liquido e gassoso) e un'atmosfera composta in prevalenza da azoto e ossigeno che, insieme al campo magnetico che avvolge il pianeta, protegge la Terra dai raggi cosmici e dalle radiazioni solari.  La sua formazione è datata a circa 4,54 miliardi di annifa.[3]  VitaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vita. PianteModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Piante. Le piante (Plantae Haeckel, 1866) sono organismi unio pluricellulari, che comprendono tutti i vegetali, soggetti a nascita, crescita, riproduzione e decesso.[4]  AnimaliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Animali. Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento ecologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Gli animali comprendono in totale più di 1.800.000 specie di organismi classificati, presenti sulla Terra dal periodo ediacarano. Il numero di specie via via scoperte è in costante crescita, e alcune stime portano fino a 40 volte di più la numerosità accertata. Delle 1,5 milioni di specie animali attuali, 900 000 sono appartenenti solo alla classe degli Insetti.[6]  Ecosistemi Ecosistemi.  Una tempesta. Gli ecosistemi sono costituiti da una o più comunità di organismi viventi (animali e vegetali), e da elementi non viventi (abiotici), che interagiscono tra loro; una comunità è a sua volta l'insieme di più popolazioni, costituite ognuna da organismi della stessa specie. L'insieme delle popolazioni, cioè la comunità, interagisce dunque con la componente abiotica formando l'ecosistema, nel quale si vengono a creare delle interazioni reciproche in un equilibrio dinamicocontrollato da uno o più meccanismi fisico-chimici di retroazione (detti anche "feedback").  Carl Troll, dall'esame di alcune serie storiche di foro aeree, notò che gli ecosistemi mostravano una tendenza ad aggregarsi in configurazioni unitarie (denominate principalmente Macchie, Isole e Corridoi). Ricordando la dizione di Alexander von Humboldt, Troll chiamò tali formazioni "paesaggi".  Ipotesi GaiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ipotesi Gaia. L'ipotesi Gaia è la teoria, inizialmente avanzata da James Lovelock nel 1969, ma già anticipata da Giovanni Keplero nel diciassettesimo secolo, secondo la quale tutti gli esseri viventi sulla Terra contribuirebbero a comporre un vasto ed unico organismo (chiamato Gaia, dal nome della dea greca), capace di autoregolarsi nei suoi vari elementi per favorire a sua volta le condizioni generali della vita.  Naturale e artificialeModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Natura e artificio. Il concetto più tradizionale della natura, che può essere usato ancora oggi, implica una distinzione tra naturale ed artificiale: con "artificiale" si intende cioè che è stato creato dall'opera o da una mente umana. A seconda del contesto, il termine "naturale" potrebbe anche essere distinto dall'innaturale, dal soprannaturale e dall'artefatto.[7]   Bottega dello scultore, miniatura del XV secolo che raffigura l'opera umana di modifica degli elementi e degli arredi naturali Le difficoltà nella definizione stessa della naturacomportano un'ambiguità nel rapporto tra uomo e natura.[8] Alle volte il concetto è usato in senso derivato per riferirsi a quelle zone create dall'uomo, ma dove grande spazio è riservato alle popolazioni vegetali e animali. Si può parlare ad esempio della natura di una foresta, anche se coltivata e sfruttata da secoli. In tal caso ci si riferisce a una modalità di gestire l'ambiente da parte degli umani, piuttosto che all'assenza di intervento umano.  L'idea di natura è stata rielaborata dalla cultura urbanache ha formulato la mitica nozione di barbarie per definire tutto quanto si pone al di fuori della civiltà. Il fatto che il termine «selvaggio» venga usato da un lato come sinonimo di «naturale», dall'altro per denotare certi atti come particolarmente violenti o efferati, mette in evidenzia una certa tendenza ideologica, piuttosto inconsapevole, a considerare parte della natura come estranea alla culturadominante, come qualcosa di primitivo se non di malevolo.[9] Paradossalmente accade anche che, in altri contesti, la parola «naturale» possa venire usata nel linguaggio corrente come sinonimo di «normale», «legittimo» o «logico», come la fonte cioè dei principi più retti dell'uomo civilizzato.[10]  Lo sviluppo della scienza e della tecnologia negli ultimi due secoli è stato a sua volta in gran parte accompagnato da una certa contrapposizione ideologica tra uomo e natura; la conoscenza viene generalmente considerata uno strumento di dominio della natura piuttosto che un mezzo per vivere in armonia con essa. L'epoca moderna ha visto d'altra parte lo sviluppo della teoria della legge naturale, che pone in risalto i diritti dell'uomo, il quale sarebbe stato dotato dalla natura di prerogative inalienabili; in tale contesto si fa riferimento ad una natura umana senza implicare necessariamente l'appartenenza ad una natura ancestrale.[11]  Tutela della naturaModifica  Lo sfruttamento del suolo e il problema dello smaltimento dei rifiuti procede di pari passo con la crescente urbanizzazione. La crescente industrializzazione ed urbanizzazione del pianeta ha posto il problema della conservazione della natura in forme nuove e sempre più urgenti. Agli ambienti naturali si sono andati via via sostituendo paesaggi artificiali, che oltre a distruggerne l'amenità, ne hanno alterato la loro peculiare storia ecologica. Sin dalla preistoria l'uomo è intervenuto a modificare il paesaggio naturale, attraverso disboscamenti e l'introduzione di colture e animali di importazione, con grave danno per la flora e la fauna locali, oltre che di quelle non addomesticabili. Ma è stato soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale che l'umanità si è dotata di mezzi molto più invasivi, che deturpano gli ambienti fino a provocarne spesso la desertificazione.[2]  Fra le principali cause della distruzione della natura vi sono:  inquinamento, ed emissioni di gas serra; sfruttamento delle risorse naturali, deforestazione, agricoltura intensiva con uso di pesticidi, pescamassiccia; estinzione di numerose specie viventi; ignoranza dell'ambiente biofisico, mancanza di cultura ecologica. Alle alterazioni della natura ha contribuito inoltre la crescita esponenziale della popolazione umana, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo.[2]  Con la ricerca scientifica si riesce soltanto a rimediare per lo più parzialmente ai danni, cercando di razionalizzare lo sfruttamento del suolo, arginare la diffusione dei parassiti e limitare l'inquinamento. Per il resto, la lenta crescita di consapevolezza dell'importanza di tutelare la natura nei paesi industrializzati ha portato a provvedimenti come l'istituzione dei parchi naturali, sin dal XIX secolo.[2]  Dopo la seconda guerra mondiale sono sorte alcune organizzazioni internazionali per la difesa della natura come l'IUCN, il WWF, l'UNESCO, l'UNEP. Dagli anni ottanta le varie nazioni del pianeta hanno iniziato a partecipare a delle conferenze su scala globale per trattare soprattutto dei problemi del clima, con risultati di scarsa efficacia.Ducarme e Denis Couvet, What does 'nature' mean?, in Palgrave Communications, vol. 6, n. 14, Springer Nature, Natura, su treccani.i Newman, Age of the Earth, in U.S. Geological Survey's Geologic Time, Pianta, su treccani Baccetti B. et al, Trattato Italiano di Zoologia nsect Species, su infoplease.com. URL consultato il 27 dicembre 2018 (archiviato il 3 ottobre 2012). ^ John Rawls, Lezioni di storia della filosofia morale, cap. 3, Feltrinelli, Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Feltrinelli, 2000, p. 169 e segg. ^ Franco Brevini, L'invenzione della natura selvaggia. Storia di un'idea dal XVIII secolo a oggi, Bollati Boringhieri, Pollo, La morale della natura, cap. 4, Laterza, 2008 ^ Sergio Belardinelli, La normalità e l'eccezione: il ritorno della natura nella cultura contemporanea, Rubbettino, 2002. Voci correlateModifica Ambiente naturale Ecologia Filosofia della natura Ipotesi Gaia Natura (filosofia) Naturalismo Scienze naturali natura, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata natura, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Natura, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere riguardanti Natura, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Natura, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton. Ducarme e Denis Couvet, What does 'nature' mean?, in Palgrave Communications, Springer  Portale Ecologia e ambiente   Portale Scienza e tecnica Ecosistema porzione di biosfera delimitata naturalmente  Ecologia branca della biologia che studia le interazioni tra gli organismi e il loro ambiente  Ecosistema terrestre Madre Natura personificazione della natura Lingua Segui. Madre Natura è la personificazione della natura.   Joseph Werner,  Diana di Efeso come allegoria della Natura, 1680 circa CaratteristicheModifica  Madre Natura, figura dal trattato Atalanta Fugiens (XVII secolo) Essa (a volte conosciuta come Madre Terra) è la comune personificazione della natura focalizzata intorno agli aspetti di donatrice di vita e di nutrimento, incarnandoli nella figura materna. Immagini di donnerappresentanti madre natura, o la madre terra, sono senza tempo.   In età preistorica le dee erano venerate per la loro associazione con la fertilità, la fecondità e l'abbondanza agricola. Le sacerdotesse mantenevano il dominio di vari aspetti religiosi delle civiltà Inca, Algonchina, Assira, Babilonese, Slava, Germanica, Romana, Greca, Indiana e Irochese per millenni prima dell'inizio delle religioni patriarcali.  Talvolta viene indicata come la sposa di Padre Tempo. Grande Madre Gea Tellus Mati Zemlya Pachamama Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Madre Natura.Teteoinnan dea azteca della guarigione, e dei bagni di vapore.  Madre Russia personificazione nazionale della Russia  Padre Tempo personificazione del tempo. Gillo Dorfles. Angelo Eugenio Dorfles. Dorfles. Keywords: filosofia del kitsch, “Artificio e Natura, natura, artificio, communicazione, mito, simbolo, segno, linguaggio, interpretazione, semiotica, disarmonia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dorfles” – The Swimming-Pool Library. Dorfles.

 

Grice e Doria: l’implicatura conversazionale --  filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice: “I love Doria: a nobleman who should be sailing off Portofino, is writing a ‘progetto di metafisica’ after discussing the ‘filosofia degl’antichi’ – you HAVE to love him! Plus, he philosophised WHILE sailing!” Figlio di Giacomo e Maria Cecilia Spinola, appartenente alla nobile casata dei Doria Lamba dalla quale provennero ben quattro dogi della repubblica di Genova, ha un'infanzia travagliata segnata a cinque anni dalla morte del padre. L'uscita dalla famiglia delle tre sorelle lo fa rimanere solo con la madre che influenza negativamente il suo carattere melanconico ma vivace, il suo desiderio di virtù e Gloria. La madre, che egli accusa esser stata de' miei errori la prima e principal cagione, si era disinteressata del figlio limitandosi ad affidarne l'educazione a filosofi bigotti che lo fano crescere con la paura delle malattie e della morte, che gli viene indicata dai suoi educatori gesuiti come un positivo castigo all’uomino re. Divenne quindi vivace e grazioso nelle conversazioni affabile con tutti, facile e condiscendente con gli amici e allo stesso tempo pieno di sé e fatuo divenendo un Petit Maitre disinvolo e alla moda, e prende per idea di virtù vera ed esistenta ogni vanità e molte volte prende con l’idea di virtù il vizio ancora! Pieno di sé e fatuo. Compì con la madre il “grand tour” – Firenze, Capri, Girgentu -- dei ‘viri’ ben nato dal quale ne usce libero dall’inibizione religiosa, ma con un nuovo abito di un anima viziosa, la quale lo fa mirare come idea di virtù la rilassatezza nel senso, la prepotenza con i deboli e la vendetta. Tornato a Genova, la trovò bombardata dal mare dalle navi di Luigi XIV. In quell'occasione conosce il conte di Melgar che l’avvia nell’arte militare e lo introduce nel giro del patriziato mondano. Innamoratosi fortemente di una meritevole donna che muore poco tempo dopo, cadde in depressione e per distrarsi dal dolore riprese i suoi dispendiosi viaggi. Ridotto in ristrettezze economiche si reca a Napoli per recuperare certi suoi crediti ma dove lottare per districarsi dalla palude di leggi e cavillose procedure al punto che si mise a studiare filosofia con un certo profitto per ottenere dal tribunale quanto gli spetta.  La sua fama di spadaccino gli fa guadagnare la simpatia del patriziato napoletano che ritiene massime di cavagliero che fusse atto di disonore e di vergogna il non punire un uomo a sé inferiore quando si ha da quello qualche offesa ricevuto, e che il perdonare generosamente fusse vergogna. Ma poscia era massima d'estrema vergogna il non chiamare a duello un nobile a sé uguale quando da quello si era qualche offesa ricevuta. Si diede quindi a duellare per qualsiasi puntiglio cavalleresco tanto da essere messo in prigione aumentando così la sua fama di duellista e vendicativo presso la nobiltà locale. Comincia a disgustarsi di questa sua vita fatua e falsa trasformandosi in filosofo metafisico ed entrando nella cerchia degli intellettuali cartesiani e gassendisti che caddero sotto l'attacco della Chiesa preoccupata che il loro sensismo approdasse a un conclamato materialismo. La posizione della Chiesa fu esplicitata dal grande processo contro gl’ateisti, quegli intellettuali che si erano illusi di poter modernizzare la dottrina cattolica.  Si schierò con questi frequentando il salotto filosofico Caravita che si era già battuto contro l'Inquisizione e che era divenuto il centro di diffusione della filosofia cartesiana. Qui D. ha modo di conoscere il protetto di Caravita, quel VICO (si veda) che scriverà del genovese che «fu il primo con cui poté cominciare a ragionar di metafisica nella quale si intravedevano «lumi sfolgoranti di platonica divinità. Per organizzarsi contro le polemiche dei tradizionalisti, sostenuti dalla Chiesa cattolica, il Caravita pensò di fondare un'associazione di intellettuali modernisti che, dopo diverse difficoltà, finalmente vide la luce col nome di Accademia Palatina e che annoverava fra i 18 soci fondatori anche Doria che pronunzia in quella sede lezioni concernenti la teoria politica (Sopra la vita di Claudio imperadore) dove sostene la superiorità della nobiltà per virtù e non per nascita, e dove contestava la base valoriale dell'aristocrazia fondata sull'uso delle armi (Dell'arte militare, Del conduttor degl'eserciti, Del governatore di piazza, Della scherma). La guerra, scriveva D., non e un privilegio della nobiltà di spada ma un'attività che richiede l'applicazione di una tecnica e il comando affidato a ufficiali competenti nel dirigere l'animo umano (Il capitano filosofo, Napoli)  Pubblica la Vita civile e l'educazione del principe, criticata da alcuni per alcuni fraintendimenti sul pensiero di Cartesio. Non ha inteso il Cartesio, o  ad arte ne tronca o perverte il senso. Critica la politica di Tacito e Machiavelli sostenendo che questa va basata non sopra l'idea degli uomini quali sono ma sulla virtù, il giusto e l'onesto». Lo Stato anda guidato, come dettava l'insegnamento platonico, dal filosofo facendosi così sostenitore, secondo le nuove idee riformatrici che cominciavano a circolare in Europa, di un assolutismo moderato nel Regno di Napoli. Doria cominciò ad interessarsi a temi scientifici mandando alle stampe le sue Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili e de' corpi insensibili (Augusta) e una Giunta d iM. Doria al suo libro del Moto e della Meccanica. Opere queste, dove si critica il metodo di GALILEI (si veda) e si mette in discussione la distinzione cartesiana fra res extensa e res cogitans in nome del principio neo-platonico dell'Uno immateriale, che non ebbero il successo sperato e vennero anzi aspramente criticate da più parti. Divenne un personaggio ambito da nobili e femmes savantes che lo invitavano nei loro circoli culturali dove riceve numerosi attestati di stima. Per ricambiare le nobili dame, sue discepole, pubblica i Ragionamenti ne' quali si dimostra la donna, in quasi tutte le virtù più grandi, non essere all'uomo inferior. La donna ha gli stessi diritti naturali dell’uomo e puo governare e fondare grandi imperi ma non e adatte fisiologicamente a formulare leggi per le quali occorre una sapienza storica e filosofica. Cartesio infatti aveva errato nel credere che Dio avesse dato a tutti eguale abilità per intender le scienze, mentre iddio non ha ugualmente a tutti gli uomini distribuito e perciò vediamo che molti non son capaci nelle scienze. Quindi la donna che egli ammirava moltissimo e che lo ricambiavano con tante lodi, deve tuttavia accontentarsi di poter dirigere lo stato ma non puo essere legislatrice. Un rapporto questo con l'altro sesso che rimase problematico per Doria che non volle mai sposarsi ritenendo il matrimonio una legge dura che non trova precisa corrispondenza nella teologia. Si considera ormai un filosofo metafisico e mattematico che adottando il platonismo ha pressoché distrutto li saggi di filosofia di Locke ed in parte ancora la filosofia di Cartesio. Compiva un capovolgimento delle sue convinzioni moderniste passando nel campo degli antichi quando il suo Nuovo metodo geometrico (Augusta) e i Dialoghi ne' quali s'insegna l'arte di esaminare una dimostrazione geometrica, e di dedurre dalla geometria sintetica la conoscenza del vero e del falso (Amsterdam), furono aspramente criticati da parte della rivista Acta eruditorum. Ancora più aspre le contestazioni ricevute a Napoli che gli costarono un sonetto denigratorio che così recitava. Di rispondere a te nessun si sogna /de' nostri, e strano è assai che Lipsia mandi/ risposta a un uom che 'l matto ognun lo noma.  Illustrazione alla recensione pubblicata sugli Acta Eruditorum al Capitano filosofo. Gl’Oziosi, dove profuse tutte le sue energie nel criticare i moderni, seguaci del pensiero filosofico di Locke, dell'Accademia delle scienze di Celestino Galiani che aveva detto di lui «il Doria ha ristampato tutte in un corpo le sue coglionerie. Con l'avvento del re riformista Carlo III di Borbone nel Regno di Napoli, si trova completamente isolato col suo platonismo pratticabil che continua a difendere scrivendo “Il Politico alla moda”. Si rendeva ormai conto di come fosse irrealizzabile il suo ideale di un governo ad opera del concetto di “sovrano virtuoso” e di “filosofe legislatore.” Il magistrato, il capitano, il sacerdote e tutti gli ordini che governano hanno diviso la filosofia dalla politica per unire alla politica la sola prattica; ormai i principi scriveva vogliono governare lo stato colla politica del mercadante, e non con la politica del filosofo. Constatava come vi fosse ormai una generale crisi dei valori perché in questo nostro tempo si corre dietro solamente alla perniciosa filosofia di Locke e di Newton e si pratica solamente la politica mercantile. Completamente ignorato dall'ambiente intellettuale, D. malato e in difficoltà economiche muore indicando nel suo testamento la volontà che fosse pubblicata a spese di un suo cugino, a saldo di un debito da questi contratto, l'opera “Idea di una perfetta repubblica”. Quando il saggio e infine edito fu condannato dai revisori ad essere bruciato per il suo contenuto contro Dio, la religione e la monarchia. In realtà contesta il celibato ecclesiastico, l'indissolubilità del matrimonio, la castita, l'eternità delle pene inflitte ai dannati e l'ideologia etico-politica dei gesuiti.  Il governo perfetto doveva essere a imitazione di quello della Roma repubblicana, perché posto il governo in mano agli uomini, è forza che sia moderato da un magistrato ordinato alla difesa del popolo contro la tirannia. Gli unici a esecrare il rogo del saggio furono proprio i giuristi napoletani difendendo i libri di quel savio e cordato vecchio di D., di cui s'infama la venerata memoria. E al centro del saggio “La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli”. Si argumenta che il governo nell'azione di depredazione del Regno di Napoli ha spogliato i loro sudditi della virtù e della ricchezza, introducendo al posto loro ignoranza, infamia, divisione e infelicità. Altra azione, che si rivelerà in seguito disastrosa per la società napoletana e in genere per il Mezzogiorno, fu lo smantellamento dei rapporti inter-personali di fiducia tra le diverse classi, necessari per lo sviluppo dei commerci e dell'iniziativa privata e l'introduzione di una cultura dell'onore attraverso l'infoltimento dei ranghi nobiliari, il rafforzamento dell'Inquisizione, l'inasprimento della segretezza dell'attività di governo, l'incremento delle cerimonie religiose e di devozione ritualizzata, l'aumento della diseguaglianza davanti alla legge e infine l'indebolimento apertamente perseguito del rapporto armonioso che si era creato in passato tra i diversi ordini del Regno: tutto ciò al fine di scoraggiare, minando la fede pubblica, l'ascesa di una classe imprenditoriale-commerciale che avanzasse i propri diritti e rompesse l'equilibrio dei poteri tra la corte e il patriziato locale che gli spagnoli intendevano mantenere. Tutti questi fattori, lesivi di quel rapporto di fiducia tra le classi necessario per l'avvio e il consolidamento dell'attività di co-operazione e di intrapresa economica, non tarderanno a produrre effetti duraturi sulla società meridionale, non solo a livello mentale-culturale, e di converso a livello economico, costituendo uno dei fattori prodromici dell'arretratezza socio-economico-culturale del Mezzogiorno d'Italia.  Altre opere: “Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili, e de' corpi insensibili, In Augusta [i.e. Napoli?, Daniello Hopper); “Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili, e de' corpi insensibili. Giunta, In Augusta [i.e. Napoli?, Daniello Hopper; Dialoghi, Amsterdam, Esercitazioni geometriche, In Pariggi, Duplicationis cubi demonstration” (Venezia); “Discorso apologetico” (Venezia); “Soluzione del problema della trisezione dell'angolo” (Venezia); “Vita civile” (Napoli, Angelo Vocola. Pierluigi Rovito, Dizionario Biografico degli Italiani.  “L’arte di conoscer se stesso, in De Fabrizio, Manoscritti napoletani. Autobiografia, in Cristofolini, Opere filosofiche, R. Ajello, Diritto ed economia, Vita civile, ed. Augusta, S. Rotta in Politici ed economisti del primo Settecento. Dal Muratori al Cesarotti, V, Milano-Napoli, L'arte di conoscere se stesso. Eugenio Di Rienzo, GALIANI, Celestino in Dizionario Biografico degli Italiani, V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, Manoscritti, La Politica mercantile, Manoscritti, Idea di una perfetta repubblica  "accorato"  Ajello. Segnatamente: Del commercio del Regno di Napoli, in E. Vidal, Il pensiero civile di Paolo Mattia Doria negli scritti inediti, Istituto di Filosofia del diritto dell'Roma; Della vita civile, Torino; Massime del governo spagnolo di Napoli, V. Conti, Guida, Napoli Contenuto nel volume miscellaneo Diego Gambetta, Le strategie della fiducia, Einaudi, Torino, D. Gambetta, Pierluigi Rovito, «DORIA, Paolo Mattia», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roberto Scazzieri, Il Contributo italiano alla storia del Pensiero Economia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Giulia Belgioioso, Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. E. Vidal, Il pensiero civile di D. negli scritti inediti, Istituto di Filosofia del diritto dell'Roma. Fondatore di Roma e primo re de' romani. Romolo fu il primo re de’ romani e padre della romana republica. Uomo primieramente d’ardentissimo animo e per le armi grande. E così fatto certamente l'aveva disposto la fortuna a quello che dovea seguire. Per  la cui opera, in tratante minaccie di vicini , di spinose montagnie surgesse il fondamento dello’mperio che dovea crescere infino al cielo. Perchè  non si potea porre sicuramente tanta  grandezza in debole fondamento. Sì  gran cosa richiedea terra salda e duca  d’alto animo. E così e, che dove  prima a pena e assai erba per lo armento d’Ercole, e dove prima a pena solea essere assai fronde per le capre di Faustulo, in quello luogo puose la fortezza di tutte le terre e  la somma signoria delli uomini. Dunque costui CON REMO SUO FRATELLO (e  insieme con Rea Silvia, la quale e chiamata Ilia, madre senza dubio)  creduto o fitto FIGLIUOLO DI MARTE, incontanente com’elio nacque prova la  crudeltà di Amulio, re dell’albani , e  non solamente contro alla madre, ma  eziandio contro a sé e CONTRO AL SUO FRATELLO. Dal quale Amulio e comandato eh' ellino fossero gittati NEL TEVERE. E a caso elli sono liberati, o che fosse per divina provedenzia, la  qual cosa è lecito di credere dello  imperio che dovea essere sì grande, quella provedenzia apparecchiante non  sperato cominciamenlo alle grandissime cose. Soperchiando il fiume a  caso le ripe e non potendosi andare  a quello, furono gittati quelli fanciulli presso alla ripa; e, partendosi li famigliari del re, i quali li avevano gittati, rimasono salvi. A questo luogo,  TRATTA DAL PIANTO DI QUESTI FANCIULLI,  venne una lupa (o eh' ella fosse vera o ch'ella fosse cosa finta, dell'una  e dell' altra è nominanza), e , com’ella avesse compassione, venne a questo luogo, del cui latte elli sono nutricati , traendo con li labri il latte delle tette della detta fiera, infino che furono trovati da Faustulo pastore del re, il quale di sopra avemo nominato, e la lupa similmente,  essendo discresciuto il fiume; e in fino agli anni della pubertà coli' amore  del padre sono nutricati. Ma allora  più di dì in dì il suo vigore si mostrava e per effetto diventava Famoso. Già sono cari da ogni parte e ampiamente sono terribili, ogni cosa ardivano; già il suo notricatore, per le  opere informato, comincia a fermarsi in quella openione ch'egli aveva  pensalo, cioè quelli essere figliuoli  del re. Questo celato per alcuno tempò, finalmente apparve: preso Remo da' famigli del re e datogli pena, per  consolare la ingiuria fu dato a NUMITORE suo avolo per parte di madre,  nel cui terreno tramendue i frategli  avevano fatte correrie. Il quale veduto, non mosso ad ira, com'è usanza, per l' ingiuria ricevuta, ma mosso verso di quello con una nascosa dolciezza, e udito ch'elli sono due, considerato da l'una parte l'etade di quelli,  da l'altra l'aspetto nobile e non di pastori, vennegli a memoria i suoi  nipoti; e , dimandando pianamente  delle circostanzie, trova poco  meno che costui e l' uno de' suoi  nipoti, e di questo non dubita. Però  elio il tene in più libertà, e non  come preso ma come suo , come veramente elio e. E questa e più  diritta via a distruzione del re, perchè manifestato a Romolo non solamente la condizione del presente stato  del fratello, ma la nazione di tramendue nascosta infino a quello tempo;  ammonendoli colui, ch'e tenuto padre, ch'elli non sono suoi figliuoli  ma sono di schiatta reale; e, spostali  per ordine l’ingiuria di quegli e con  questa l’ingiuria di suo avolo e di  sua madre, fatto Romolo più animoso , conosciuto il fatto , dispuosesi non  solamente a LIBERARE IL FRATELLO, ma  vendicare sé e '1 fratello e l'avolo e  la madre, non manifestamente perchè  era dispari in possanza , ma pianamente mandati alcuni giovani di qua e di là, i quali si trovassono a una ora nella casa del re. Così disposti gl’agguati, e a tempo accorrendo Remo, corsono contra Amulio, il quale non  si guarda e non pensa sì fatto  pericolo. Morto Amulio, NUMITORE fratello di quello, e innanzi cacciato da  lui, fu ristituito nel regno, essendo  allegro, non meno per la condizione  de'trovati nipoti, che per avere acquistato il nonne sperato regnio. Da poi,  perchè elli erano di grande animo, e '1 regno di suo avolo gli paree picciolo, lassano Alba all'avolo. E, amando il luogo della sua puerizia ovvero  del suo pericolo, procurarono di fondare nuova terra in quello luogo. E  così, per buono agurio, edificarono  aspera e, acciò ch'io dica più propriamente, pastorale casa in SUL MONTE PALATINO. E fu posto alla terra il nome di Romolo solamente, essendo vinto il fratello nello agurio: il quale  nome e temuto poi al mondo da li  popoli e dai re. Poi, o che tra quelli fosse nata discordia, o che fosse perchè egli avesse dispregiato il comandamento del fratello, Remo, avendo  passato il nuovo muro, E MORTO. O  che e per cupidità della signoria, o per rigore di giustizia, la credenza  è varia nelle cose antiche. Romolo,  avendo presa la signoria, ordina sacrifici della patria e forestieri, e prende  abito di re e ornamenti, e ordina  XII littori, e compone la legge.  Solo a fermezza del popolo e fondamento di pace e di concordia tre cose  sommamente li pare di provedere :  il consiglio , e io accrescere della cominciata città, e la durabilità; perchè era in picciola terra pochi abitatori. E per questo gli e speranza  di brevissimo tempo, mancando la  cagione del generare de' figliuoli. Dunque primieramente furono eletti C  antichi al Senato, chiamando questo  ordine dalla etade, perchè il nome  de' padri e detto dallo amore e da la  cura della republica. Secondo, intra  due boschi fu posto uno tempio chiamano asilo -- i greci il chiamano santo -- il quale stando aperto, grande  turba incontanente venne di vicini  paesi; la terza cosa parea che si dove fare con matrimoni -- perchè soli  i maschi non poteano durare se non  una etade -- ; la qual cosa , perchè e negata da' vicini superbamente e vituperosamente, si fa per forza e per  ingegnio. Perchè in questo mezzo,  non mostrando l'ira e il dolore d'essere rifiutato, il re apparecchiò di fare solenni giuochi a Nettunno , e comanda di fare dinunziare il dì per li popoli vicini. II quale poi che sopravenne, molti maschi e femmine delle  terre vicine a Roma vennero per vedere i giuochi, e non meno per cupidità di vedere quella nuova terra  quasi nata di subito. Nel mezzo de’ giuochi, essendo ogni uomo attento  con gli occhi e con l'animo, diliberatamente SONO PRESE TUTTE LE FANCIULLE,  non a fine di sua vergognia, ma di  tenerle per mogliere e per avere figliuoli. Dunque confortate con buone  parole, tra lo isdegno e le lacrime, pelle lusinghe di quegli li quali l'aveano  prese, prima Romolo, e poi gli altri , una per uno ne tolseno per moglie: e questo e cagione e cominciamento di molte battaglie. I padri e  i parenti di queste fanciulle, lamentatisi della forza e della malvagità de'  suoi osti, dai quali ellino, invitati a  giuochi, sono stati offesi per gravissima ingiuria, incontanente uscirono fuori della terra e tornarono a casa;  e, moltiplicando le lamentanze, aggravarono l'offesa, e pigliarono l'arme  e apparecchiaronsi di fare la vendetta.  E di lutti i popoli si fece una raunanza a Tito Tazio re de' sabini, perchè questi avevano più possanza e  aveano ricevuto più ingiuria. Ma perchè la presuntuosa ira non può indugiare né ricevere consiglio, e perchè  l'apparecchiamento alla guerra pare pigro per rispetto dello ardore dell'animo, ciascheduno, non aspettando l'uno l'altro, andarono alla battaglia. E innanzi a tutti i ceninesi con l' oste corsero nel terreno de' romani : contro  ai quali venendo Romolo, mise in  rotta i nimici, e UCCIDE ACRONE, re  di quelli, venuto alle mani con lui in  singolare battaglia; e, con lieve assalto, prende la terra di quelli, la quale  era impaurita per la morte del re e  per la fuga del popolo. E, tornando  a Roma vincitore, porta in Campidoglio l'armi del re ed edifica lo primo tempio in Roma e sacrificollo sotto il nome di GIOVE Feretrio -- dove  i capitani de' romani non portano,  quando sono vincitori, se non la  preda de' capitani vinti in singolare  battaglia, la quale elli chiamano  grassa robarìa. Dunque in quello  luogo egli appicca l'armi del morto re, per esempio del tempo da venire,  rado ma grande dono di quelli che  venieno dietro. I secondi che corsono nel terreno de'romani furono gli atennati; e questi sono vinti e perderono la terra. Ma per prieghi di Ersilia, moglie di Romolo, la quale e una di quelle sforzate che porta a  gli orecchi del re i prieghi e i desideri dell'altre, ricevuti a misericordia, venneno ad abitare a Roma. Da  poi i crustumini, movendo elli la  guerra, sono vinti leggiermente,  crescendo ogni dì la virtù di Romolo; e, venuti a Roma quelli chi sono vinti, crescendo Roma per li danni  de'nimici. E più a fare colli sabini,   i quali quanto più tardi tanto più  maturamente si moveano: presa la  rocca di Campidoglio, per tradimento  d'una donzella figliuola di Spurio Tarpeo, il quale era castellano della delta  rocca, dal quale ancora è nominato  quel monte in mezzo di Roma, e  dubiosa battaglia, combattendo quelli  dal luogo di sopra. Nella quale battaglia mancando Osto Ostilio, il quale  e arditamente per la parte de' romani infino ch'elio puo, la gente de'  romani tutta si cessò in dietro, cacciando indietro eziandio Romolo il  quale li contrasta. E elli, non sperando già più della forza umana, dirizzando al cielo le armate mani, chiamando  Giove com' elio e presente, pregando o che gli togliesse la vergogaia del fuggire vilmente, o eh' elli  fortificasse gli abbattuti animi de' suoi  con celestiale aiutorio, fa voto di  fare in Roma uno secondo tempio a  GIOVE STATORE, secondo che piace agli  scrittori; e, quasi ricevuta la promissione dal cielo, fatto più ardito ristoroe con sollecita mano la battaglia  già caduta, dicendo a'suoi chiaramente  che Giove comanda così. Per questo  la sua gente, seguendo lo esempio  del suo re e il comandamento di Giove, torna contro a'nimici, da' quali  non speravasi ch'egli tornassino; e  combattendo innanzi a gli altri aspramente Romolo, essendo già mutata la  condizione della battaglia, quelli che  incalzavano cominciarono a fuggire.  Intra i quali MEZIO CURZIO, secondo  dopo il re de' sabini , uomo famosissimo e in quello di 'nanzi a tutti gli  altri in fatti e in virtù molto ardito, non sostenne il furore. Una palude,  ch'era presso, e pericolo e salute a  lui, nella quale spaurito il suo cavallo furiosamente salta con grande  paura de' suoi, ma confortandolo elli  e mostrandogli la via, usce fuori. E  di questo nacque il nome di quella  palude, cioè, lago Curzio. Uscitone  fuori costui, gli animi crebbono a'   suoi, e ancora, bene che con varia  fortuna contro a' sabini, corsono insieme. E, sendo in questo stato, la  pietà trova via di non sperata pace. Combattendo dall'una parte i mariti,  da l'altra parte i padri, vennero tra  questi quelle eh' erano state sforzate;  e, non considerando sé essere femmine , non temendo il pericolo, con prieghi pieni di lagrime e misero abito,  pregarono che fosse posto fine alla  guerra. E se voleano pure andare  dietro, volgessono le spade più tosto contro a quelle, le quali erano cagione della guerra , che, uccidendosi  insieme, bruttassono se di presente  e per lo tempo a venire bruttassero li figliuoli di quelle -- dall'una parte  essendo i figliuoli, dall'altra essendo  i nipoti --- e dessono eterna infamia a  quelli che ancora non poteano peccare. Dall' una parte e dall' altra si piegano gli animi e l'ira s'abbattè e,  che maraviglia è a dire, subitamente  nell'una oste e nell'altra fu arrestato il romore dell'armi e il gridare de’ combattitori, sì umile ammirazione e intrata per quelle rabbiose menti!  E non potè lungamente stare nascosta: le affezioni mutate incontanente  uscirono fuori, e lo riposo segue  a la pietà , e la pace segue al silenzio; la concordia e fatta toccandosi i re le mani, e Roma maravigliosamente crescette per lo venire  de' sabini. E non meno crebbe Y amore dell'una parte e dell'altra verso di  quelle valenti donne, e innanzi a gli  altri di Romolo, il quale rendè loro  grandi e debiti onori. Ancora restano due guerre. L'una colli fìdenati li  quali, temendo la potenzia della signoria di Roma, la quale cresce,  e avendola sospetta , per sé fecero la  pruova che gli altri aveano fatta. Entrando elli nel terreno de'romani come  nimici, Romolo li anda incontro, e  puose il campo non lungi dalla terra  de' nimici; e, mostrando maliziosamente temere, conduce i nimici nelli agguati, e di questo e una non proveduta paura e uno subito fuggire,  in tanto che , mischiati insieme i vinti  e i vincitori, le guardie delle porte appena discerneano i suoi cittadini da’ nimici; e, entrati dentro, e presa la  terra. L'altra guerra e con quelli da Veio, li quali si mossono per amore de’ fìdenati e per odio de’ romani, e  questi, vinti in campo, e guasto il  paese, dimandando pace, fecero triegua per cento anni, perdendo parte  del suo terreno. Questi furono i cominciamenti di Romolo, questo e il  corso di sua vita e l’ordine de’ suoi fatti; per li quali, appresso quella salvarla generazione d' uomini e non  ancora assai ammaestrati animi del  vulgo, egli merita essere creduto avere alcuna divinità per lo padre e per  se. Uomo al quale non manca animo né ingegnio, in battaglia glorioso, in  casa savio: ordina centurie del popolo e di cavaglieri, acciò che in ogni  tempo di pace e di guerra elio e   niuno nega ch'elio non e inolio  amato. Le opinioni di questa cosa sono varie. Alcuni dicono ch'elio e portato in cielo e posto nel concilio delli  dei. Ma questo è gran salto a uno  uomo armato e gravato di peccati,  bagniato di sangue e ignorante del  vero Iddio e della via del cielo. Ma  lo ardente e non temperato amore sì  fa credere ogni cosa. Dunque, achetata la tempesta, essendo risposto da'  senatori -- eh' erano stati d'intorno -- al  popolo -- disideroso di vedere il suo  re e a pruova cercandolo -- eh' elio e andato in cielo, affermando uno eh' e' lo ha veduto, e creduto. E  quello  e GIULIO PROCULO, uomo di  grande nominanza appresso a' suoi,  secondo che si trova, e di grande santitade e, che manifesto è, di gran nobilitade, come colui che, nato di re  albani, venne a Roma con Romolo ed e cominciamento della giente de’ Giuli -- il quale, ardito di venire in  palese, da parola d'allegrezza al popolo eh' e in tristizia , dicendo che in quello medesimo dì Romolo, discéso da cielo in abito più che d'uomo, e stato con lui, affermando eh'  ha comandato a lui, con grande tremore non ardito di guardare  la sua facia,  questo, cioè eh' egli  dicesse a' suoi cittadini che onorassino l'arti delle battaglie, essendo certi  che ogni potenzia umana è diseguale  alla sua in fatti d'arme; e che la sua  città, così piace alli dei, sarà capo  e donna di tutte le terre. E, dette  queste parole, levatosi da gli occhi  monta in cielo. E queste cose sono credute a GIULIO il quale le conta e giura, e lo dolore della morte e mitigato con lo consolamento della  divinità, e l'ira, la quale il popolo  ha concetta per la morte di sì caro  re, e umiliata: così ogni uomo crede leggiermente quello ch'elli desidera. Ma altri pensano che e morto  da' senatori, veduto il buon destro  per la tempesta del tempo, e ch'elli   il nascosono nel pantano della palude,  acciò CHE NON APARE ALCUNO SEGNIO DELLA SUA MORTE. Questa, chente dice  Livio, è oscura fama, ma, come  piace a chiarissimi scrittori, certamente è vera; bene che, come dice quello  nel medesimo luogo, quell' altra fu  nobile per l'ammirazione dell'uomo  e per la presente paura. Puossi forse  credere ancora quello che alcuni hanno  pensato, eh' elio non e portato per  divinità in cielo né in terra morto come uomo, ma eh' elio fu morto per  la lempestade e per lo furore della  saetta -- la cui forza è ineffabile, e  l' operazione è nascosa --. E questo essere avvenuto a tutti quegli sono con lui, i quali, quanto elli sono più  presso, tanto sono smarriti più e  impauriti. E la libertà è di molte mani nelle cose dubbiose, ma la verità  è una sola, e questa è profondamente  nascosta della morte di Romolo come  in molte altre cose. Paolo Mattia Doria. Doria. Keywords: co-operazione, duelo – duel, the duelists, cooperation – il sensismo, roma repubblicana, la aristocrazia romana, Romo, Romolo, aristocrazia.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Doria” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Dosseno: l’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. A follower of the sect of the Garden. Seneca mentions a monument to him with an inscription testifying to his wisdom.

 

Grice e Dottarelli: l’implicatura conversazionale di Musonio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bolsena). Filosofo italiano. Grice: “I like Donatelli; he is an Etruscan, from Balsena, and it’s only natural that he is obsessed with the one and only Etruscan philosopher, Musonio!” Si è formato alla Facoltà di Filosofia dell'Perugia, dove ha studiato con Cornelio Fabro e si è laureato con una tesi sul dibattito epistemologico del Novecento (Popper, Feyerabend, Lakatos, Kuhn) sotto la guida di Baldini. Si è poi specializzato in Filosofia all'Urbino, dove ha avuto come maestri Italo Mancini e Salvucci, con cui ha discusso una tesi sulle implicazioni epistemologiche della filosofia di Kant. Ha insegnato nei Licei ed è stato docente a contratto di Filosofia della scienza, Filosofia morale, Bioetica nelle Università della Tuscia, di Macerata e Firenze.  Ha sempre coniugato il lavoro didattico e di ricerca con l'impegno civile. Per 13 anni consecutivi è stato Sindaco della città di Bolsena (VT). Eletto la prima volta con una lista civica di sinistra, è stato successivamente confermato. Direttore generale della Provincia di Viterbo e in tale veste, oltre al coordinamento e alla sovrintendenza della gestione complessiva dell’Ente, ha avuto la responsabilità diretta della formazione e organizzazione delle risorse umane, del percorso di certificazione EMAS, del processo Agenda 21 locale e del progetto Arco Latino, strumento per la definizione di una strategia integrata di sviluppo dell’area del Mediterraneo. Con Picone, filosofo e psicoanalista junghiano, nel 2004 è stato cofondatore della Società Filosofica Italianasezione di Viterbo, di cui è attualmente vicepresidente. Nel  ha costituito il Club per l’UNESCO Viterbo Tuscia, di cui è presidente.  I suoi interessi teorici si sono rivolti all'epistemologia, all'etica, alla filosofia politica e alla pratica filosofica. In Popper e il gioco della scienza ha svolto un'analisi critica dell'epistemologia falsificazionista, mostrando come l'ultimo Popper, pur rendendosi conto della coerenza dello sviluppo evoluzionistico della propria epistemologia, arretrasse e resistesse dal trarne le estreme conseguenze, restando fedele al paradigma del razionalismo critico, difendendolo sino in fondo, ma con ragioni sempre più deboli. Nei suoi lavori su Immanuel Kant (Kant e la metafisica come scienza, Abitare un mondo comune. Follia e metafisica nel pensiero di Kant) ha evidenziato sia il proposito kantiano di fondare come una scienza rigorosa la metaphysica generalis, prima parte della metafisica come era intesa nella tradizione razionalistica tedesca, sia il carattere che viene ad assumere la metaphysica specialis, dopo la critica: un pensare congetturale e analogico che è anche prassi, vita. In questa prospettiva la filosofia kantiana viene valorizzata per la sua peculiare dimensione "cosmica", come «scienza della relazione di ogni conoscenza e di ogni uso della ragione umana con lo scopo essenziale di essa», e viene ricollegata alla filosofia come era praticata soprattutto nell'antichità: arte di vivere, esercizio spirituale. Il filosofo pratico, il maestro di saggezza tramite l’insegnamento e l’esempio, è così «l’autentico filosofo», che, nel quadro della complessiva ed originale riorganizzazione kantiana dell’orizzonte utopico di derivazione platonica e rousseauiana, diventa esso stesso un ideale regolativo, al quale colui che più si è avvicinato è stato Socrate, per via della sua esemplare coerenza di vita. In Freud. Un filosofo dietro al divano, il lavoro del fondatore della psicoanalisi viene letto come un episodio della lunga tradizione che ha interpretato la filosofia come "medicina per l'anima". Il rapporto di Freud con la filosofia si nutre di una profonda ambivalenza: da un lato un'irresistibile attrazione; dall'altro quasi la necessità di rassicurare se stesso e gli altri su una propria «incapacità costituzionale» (Autobiografia) alla pura speculazione e sulla sua ferma volontà di sottrarsiproprio lui, formidabile affabulatoreal fascino delle narrazioni filosofiche. La riflessione di Freud non trascura nessuna delle dimensioni fondamentali della ricerca filosofica. Neanche quella teoretica, volta a costruire visioni complessive dell’uomo e del mondo; quella che gli appare la più rischiosa, perché la più astratta, la più esposta alla frequentazione della metafisica e della religione, sempre in procinto di cadere nella trappola della verità assoluta. Più a suo agio Freud si sente invece nel lavorare lungo un'altra linea d’impegno tradizionale della filosofia: la riflessione critica sui saperi e sulle pratiche umane. Nell'opera di smascheramento dei meccanismi con cui le ideologie e le prassi individuali e sociali ammantano la loro miseria “umana, troppo umana”, le potenzialità della psicoanalisi si esprimono al meglio. Masecondo l'interpretazione di D. la fatica intellettuale di Freud trova la propria collocazione più appropriata nella dimensione della ricerca filosofica che interpreta se stessa come un’attività in cui l’uomo si dedica alla cura e alla fioritura di sé, alla coltivazione della propria umanità. Questa dimensione della filosofia come arte di vivere è stata approfondita da D. attraverso la ricostruzione della vita e del pensiero del filosofo stoico Musonio Rufo nella monografia su Musonio l'Etrusco. La filosofia come scienza di vita. Testimonianza della vitalità della tradizione culturale etrusca in epoca romana, la filosofia di Musonio è espressione significativa di quel crogiolo di idee ed esperienze di ricerca della felicità che è l'ellenismo della tarda antichità, in cui si rispecchierà poi la civiltà medievale e soprattutto quella umanistico-rinascimentale. Musonio ha dato il tono di fondo all'impegno prevalente nella tradizione filosofica della Tuscia: ricerca di una scienza di vita, studio di perfezione, imitazione di Dio, àskesis, esercizio per sviluppare la conoscenza e la coltivazione di sé, finalizzata alla fioritura dell’autentica esistenza umana. L’adesione del filosofo di Volsinii allo stoicismo è decisamente sotto il segno di Socrate: la filosofia può proporsi come arte regia in quanto, in primo luogo, è arte di governare se stessi. L’ideale dell’autosufficienza del saggio si traduce nella predilezione per l’agricoltura, come attività più appropriata per il filosofo. «La terra in effettiaffermava Musonioricambia con i frutti più belli e più giusti coloro che si prendono cura di essa, dando molte volte tanto quel che riceve ed offrendo grande abbondanza di tutto quanto è necessario per vivere a chi ha la volontà di faticare: e tutto questo con decenza, nulla di ciò con vergogna». Ad un analogo sentimento di appartenenza al cosmo e ad un profondo rispetto per gli altri esseri umani e per tutti i viventi, sono ispirate anche le sue riflessioni sui rapporti sociali, sulla schiavitù, sulle donne, sulla nonviolenza, sull'alimentazione, sul vestire e sull'abitare. Riflessioni che Musoniosecondo la concorde testimonianza dei contemporaneiseppe tradurre con coerenza esemplare in una efficace pratica di elevazione spirituale, diretta a coinvolgere, insieme, il corpo e l’anima. Sobrietà, rispetto, universalità e condivisione sono le parole di riferimento di una visione etica che anticipa in modo sorprendente istanze fondamentali della moderna sensibilità ecologista. La visione della filosofia come arte di maneggiare gli assoluti è approfondita nel libro Maneggiare assoluti. Kant,  Levi e altri maestri. La filosofias ostiene D. anche quella più incline a farsi coinvolgere nell'impresa di estinguere la sete dell’assoluto, contiene in sé, nella propria vocazione alla ricerca di una comune verità mediante il dialogo, un antidoto indispensabile al rischio distruttivo che può annidarsi in ogni tentativo umano, tanto umano di cogliere la totalità, l’infinito, Dio. Anche le grandi tradizioni religiose, quelle che da secoli sono impegnate a tracciare sentieri, trovare parole, celebrare liturgie per saziare la fame di assoluto che agita il cuore e la mente degli uomini non possono fare a meno di intessere un intenso dialogo con questa tradizione di ricerca, soprattutto nei momenti cruciali, quando diventa urgente addomesticare i dèmoni che una frequentazione inadeguata del sacro può evocare. Dèmoni che portano il nome di fanatismo, intolleranza, totalitarismo e di cui la storia degli uomini alla ricerca della verità assoluta, della totalità autentica ed incondizionata, dell’esperienza integrale è purtroppo costellata. La consapevolezza che anche la filosofia non possa dichiararsi storicamente innocente, non cancella ma spinge a ritrovare sempre di nuovo la vocazione più profonda di quest’originale forma di esercizio spirituale: una ricerca appassionata del bene e della verità, capace di resistere alla suggestione del possesso compiuto e di mantenersi in quella apertura alla possibilità dell’errore che è presidio di autentica libertà per sé e per gli altri».  Altre opere: “Il gioco della scienza” (Massari); “Metafisica non scienza” (Massari); “Abitare un mondo comune: follia e metafisica nel pensiero di Kant (Introduzione al Saggio sulle malattie dell’anima di I.Kant” (Massari); “Utopia e ragione come luoghi del incontro dell’ego ed il tu”, in  Le ragioni della speranza” (La Piccola Editrice); “L’assoluto e il relative” (Il Prato); “Musonio” (Annulli Editori); Freud. Un filosofo dietro al divano, Annulli Editori,  Riverberi Di Tuscia e d’altro, Annulli Editori); “La farfalla dell’anima e la libertà, Armando Editore.  ETRUSCO   MUSE® CHIUSINO    DAI SUOI POSSESSORI PUBBLICATO  CON AGGIUNTA DI ALCUNI RAGIONAMENTI  DEL DOMENICO VALERIANI   E CON BREVI ESPOSIZIONI  DEL CAV.   ai© smagata POLIGRAFIA FIESOLANA A SUA ECCELLENZA IL SIG. MARCHESE   ANGELO CHIGI LUOGOTENENTE GENERALE E GOVERNATORE  DELLA CITTA E STATO DI SIENA CAVALIERE DELLA LEGION D’ ONORE DI FRANCIA  CONSIGLIERE INTIMO ATTUALE DI STATO, FINANZE E GUERRA  CIAMBELLANO DI S. A. IMP. E REALE   IL GRANDUCA DI TOSCANA  PRESIDENTE DELL’ ACCADEMIA DEI FISIOCRITICI  E DELLA DEPUTAZIONE DEL PIO DEPOSITO DI MENDICITÀ’  CHE LO SPLENDORE   DELLA FAMIGLIA NOBILISSIMA DA CUI DISCENDE CON TANTE EGREGIE DOTI  SOSTIENE ED ACCRESCE  E DELLE ARTI LIBERALI  CULTORE E FAUTORE CALDISSIMO SI MOSTRA  QUESTA RACCOLTA  DI ETRUSCHI MONUMENTI CHIUSINI  CANDIDAMENTE E CON GIOIA  0. D. C. GLI EDITORI  P. B. C. C. F. S.  C. A. M.   P. F. D. ri  si trova itna mirabile abbondanza di marmi finissimi consistenti in colonne antiche di granito nero e dell’ Elba e  d’Egitto, di granito rosso del più compatto, di cipollino  orientale, e d’altri marmi duri e fin anche di breccia d’ E-  gitto, di che va ricca ed ornata la cattedrale, ove son poste in uso con antichissimi capitelli di gusto squisito. Anche  sparsamente per la città s’incontrano in copia marmi duri  o eretti in usi decorativi o depositati a parte e non ancora  posti in opera. Non mancano monumenti di romana scultura di raro pregio in basso e tondo rilievo, tra i quali splende un sarcofago colla caccia di Meleagro, ed una assai  bella testa di Augusto nel palazzo episcopale, e nelle case  Paolozzi. Le antiche iscrizioni lapidarie son pur frequenti  per la città sparsamente. E poi sorprendente il numero dei  sotterranei che s’incontrano sotto le fabbriche del paese, e  sono per ordinario eseguiti di ben connesse pietre quadrate assai grandi. Rieca è pure la città di avanzi di fabbriche antiche romane, parte delle quali si giudicano bagni. Ed  in vero non sembra che di tali pubblici comodi mancar dovesse un paese, ove si trovano s or genti ab b ondantis s im e di  acqua potabile, e delle quali non ha guari e stata fatta bella scoperta dal nobile sig. Flavio Paolozzi, in alcuni spaziosissimi sotterranei, da luì aperti, ove non ancora si è  osato avanzarsi attesa la co nfu sione dei loro sentieri numerosi e feraci di sorgenti, che per via di canali antichi  di piombo somministravano per quanto apparisce, acque abbondanti e perenni all' antica città.   Ma ciò che maggiormente sprona la curiosità degli eruditi è il visitare nel territorio di Chiusi gli etruschi sepolcreti, dove fu trovato quanto di più mirabile conserviamo  nei nostri musei, mentre non senza una qualche almen lo tana emulazione col famigerato sepolcro di Porsenna eretto  un tempo in questa nostra patria, presero i suoi citladini  etruschi l'esempio di rendere le lor tombe in vario modo as-   J-Ja dovìzia dì antichi monumenti d’arte nell' etrusco città di Chiusi nostra patria, non ha guari trovati, e nei nostri  musei custoditi, ci ha fatto sospettare che saremmo giustamente ripresi, qualora tal dovizia si tenessè fra noi medesimi inosservata ed inutile all’ incremento della scienza archeologica. A ciò credemmo sufficiente riparo di offrir libero accesso a chi volesse que’ monumenti osservar con a-  gio nelle nostre private collezioni. Ma riflettendo poi che  la più gran parte degli eruditi, cui non è dato il potersi reca¬  re personalmente a Chiusi, restavan privi del bene di co¬  noscere questo ramo speciale di etruschi monumenti: cosi  a sodisfare anche questa numerosissima classe di eruditi,  non crediamo che trovar si potesse miglior divisamento di  quello da noi già compito, di far disegnare con fedeltà massima i monumenti più ini ere s santi, che possediamo, e quindi a nostre spese farli incidere in rame in dugento sedici  tavole distribuiti , raccomandandone l'edizione al cavalier  Francesco Inghirami. A tale nostro invito egli non solo ha  cortesemente aderito c oli’ ine arie ar s ene per nostro conto, ma  si è compiaciuto inoltre di venir più volte da Firenze a  Chiusi per confrontare i disegni coi monumenti originali,  e ci ha fatto inoltre il dono da noi gradito delle brevi interpetrazioni che abbiamo apposte a ciascun monumento, al  che abbiamo aggiunto anche alcuni ragionamenti, donatici  dall’egregio sig. prof. Valeriani nostro concittadino. Chi ha per le mani l’ opera che ora pubblichiamo, non  creda già di conoscere, p e' suoi rami, tutti i monumenti antichi di Chiusi, mentre n’ è assai più dovizioso il paese. Qui ì  ti dì quei di Tarqui ni a, fo rse perchè ne fu inventore un diverso architetto. Nell’annoverar che facciamo de monumenti antichi più insigni di nostra patria, non è da pretermettersi che in vicinanza della città rèsta sotto una collina di tufo breccioso  verso l Oriente un cimitero antico di cristiani, eh’è noto  sotto la denominazione di Catacombe di s. Mus tio la Vergine e Martire, inclita patrona della città e della diocesi-  Questi sotterranei non solo servivano alla sepoltura de’ cristiani, e in specialità dei martiri, ma nel giorno di festa e  nel natalizio dei Santi vi si raccoglievano per celebrarvi i  divini misteri, ivi oravano, ivi stavano refugiati nel maggior impeto della persecuzione, a scansar la rabbia dei tiranni, come descrive un nostro concittadino che di tali sotterranei h a ragiona to eruditissimamente, L'abbondanza delle  cristiane iscrizioni che spettano a questorispettabile sotterraneo, notante dal prelodato relatore, lo rendono anche più  degno dell'attenzione d'ogni erudito. Il libretto che a  memoria di ciò egli ha scritto con somma eleganza e dottrina, dove si trova incisa inclusive la piant a dell 1 2 ampio  sotterraneo, oltre le iscrizioni ivi adunate e illustrate ',e  l’altro libretto di non inferior merito, scritto da vari eruditi, circa il già nominato monumento sepolcrale del Poggio al-moro 1 , forma insieme colla presente opera l’ informazione di quanto crediamo ess er su ffidente ad erudire i cultori dell' archeologia circa le antichità osservabili di Chiu¬  si nostra patria.    1 Pastumi, Relazione di un antico cimitero di cristiani, in vicinanza della città di Chiusi con le iscri¬   zioni ivi trovate. Montepulciano Sepolcro Etrusco Chiusino illustrato nelle sue epigrafi dal Prof. Gio. Batt. Vermigliolì, con l’aggiunta   di una memoria del sig. Giuseppe del Rosso sulla parte architettonica dello stesso monumento ed  una lettera del sig. Dolt. Francesco Orioli. Sta anche negli opuscoli del Vermigliolì ec., Perugia sai magnifiche e ricche d' oggetti d'arte. Si è reso celebre  fra gli altri l ipogeo situato in un possesso della g ra ridu¬  cale fattoria di Dolciano, il quale conserva in se stesso un  antico modello rarissimo di fabbrica etrusco, perchè a differenza degli altri scavati nel tufo, questo vedesi edificato  di travertini tagliati regolarmente, e situati senza cemento m volta arcuata di tutto sesto, e da varie urne cinerarie  occupato, le quali hanno in fronte sculture vaghissime ed  epigrafi etru s che, dalle quali resulta essere stato questo sepolcro a più famiglie comune.   Altri non meno importanti ipogei scavati nel tufo si os¬  servano in varie pendici del monticello, sul quale era ed è  tuttora la nostra città. In alcuni di essi, con animo di sodisfare Valtrui erudita e commendevole curiosità, i proprietari lasciarono in parte i monumenti meri facilmente amovibili, acciò sia noto come e con quali riti vi fossero depositati fin da quando ve li posero gli Etruschi.   Fra questi ipogei, mediante le nostre indagini fin ora scoperti, due soli noi trovammo scavati regolarmente nel vivo  tufo m guisa di camere e dipinti : l’uno aperto nel maggio  del 1827 in un podere chiamato P o gg io-al-moro , l altro in alt ro podere detto il C olle , le cui pitture son riportate in quest’ opera. Pare che lo stesso pittore  li dipingesse ambedue, ma l’ ultimo aperto si conserva assai  meglio, forse perchè l’adiacente suolo è men’ umido . I soggetti quivi dipinti son pure i me des imi in amb edue gl’ ip 0 gei ;  nòdi {feriscono granfatto, si nello stile, si. nel metodo del dipinto,  e sì nel s og g ett o iv i Ir att ato dalle pitture dellegrottecornetane,  che si altamente sono state encomiate . E probabile che in  questi due sotterranei dipinti vi fossero depositati oggetti  di prezzo ragguardevole, e perciò dagli stessi antichi derubati, perchè non vi è stato trovato quasi nulla, specialmente  in quél sepolcro che l’ultimo è stato scoperto. È poi singolare, come i soffitti intagliati nel tufo sieno più elegan-    lei il loro cognome anche gli altri re etruschi, cosi esprimendosi quel dotto  ed ingegnoso poeta .   Nomina videbis, modo namque Petulcius idem,   Et modo sacrifico Clusius ore vocor.   Questa già potentissima città, che fu detta Camars nella lingua dei nostri  padri, ( il qual vocabolo però significa lo stesso che il più moderno Clusium,  imperocché le dué voci ca, e mar, o mars, che lo compongono, vengono interpetrate, chiuso dalle paludi ); Che la nominarono pure Chiamarle, e Camarsoli,  Livio, Eutropio , ed Antonio Sabellico, diede luogo a molte dispute fra  gli eruditi per determinare se annoverar si dovesse fra le dodici antiche città  etruschs, capi di origine-, ma le ragioni addotte in contrario non montano a nul¬  la di fronte all’ unanime consentimento di tutti i più accreditati scrittori antichi,  e moderni, che lo affermano. Ed lo sorto persuaso che non manchino autorità  bastanti a provare, che non solo ella fu una delle dodici città capi d’ origine,  delle quali era composta la famosa, ed antichissima confederazione etnisca re¬  sidente a Fiesole, che risale per autorità di molti gravissimi scrittori, a 2o5o. anni circa prima dell era volgare, ma che avesse puranco l’ onore di tener lunga  stagione lo scettro sii tutta l’Etruria, come lo afferma il dottissimo Dempstero,  che sostiene avervelo ella tenuto per 5qo anni di seguito-   Di fatti anche Virgilio, parlando di Chiusi -, nomina un suo re chiamato Osi-  nio, la cui età è molto antica, essendo quello stesso che trovassi impegnalo nel¬  le guerre eli ebbe a sostenere il Frigio Enea in Italia, contro Turno, ed i Rullili , prima di stabilire i suoi penati in questa bella, e da tutte le straniere na¬  zioni ambita penisola. Ma anche molto avanti che quel Troiano quà navigasse,  aveva avuti Chiusi i suoi regnanti, poiché si annovera Osinio trentesimo sesto  * dei regi Etruschi. Ciò che basta a togliere l’onore della fondazione di tal città, a  Tirreno, a Telemaco, e a Clusio . Che poi continuasse Chiusi a fiorire in potenza, ed in ricchezze, ed anzi  Salisse ognora a maggior altezza nell' una e nelle altre, dai tempi troiani fino  a quelli in cui fu scacciato dal trono Tarquinio Superbo, ne fanno chiara fede  gli storici, ed. i poèti. Imperocché Tito Livio nel secondo libro della prima deca,  narra che i Tarquinii espulsi da Roma, eransi rifugiati presso Larte Porsena re  di Chiusi. Ed aggiunge lo stesso storico, al luogo citato, che giudicando quel valoroso monarca nobilissima impresa per lui l’ includere quella metropoli nei suoi  domimi, mosse a quella volta con poderoso esercito grandemente inanimito contro i Romani, ed avendo posto il campo sul Gianicolo, cinse la città et assedio, e tanta costernazione vi sparse, che mai prima d’ allora sì gran terrore  aveva invaso il senato, ed il popolo romano. Cotanto formidabili erano in quel  tempo le genti chiusine, e sì grande e temuto suonava per le terre italiche il nome di Porsena . DELL’ ANTICA CITTA DI CHIUSI  li impresa malagevole assai quella di rintracciare le origini delle antichissime  città italiche, i cui fondatori si perdono, per lo più, nel buio delle età favolose . E  quanto furono esse più cospicue, e più potenti, per valor d'armi, e per senno dei  loro abitanti, per sapienza, e per arti belle, tanto cresce la difficoltà di poterne  rinvenire con sicurezza , e fissare i cominciamenti Avvegnaché i poeti singolarmente, seguiti poi dagli storici ancora, assumendosi l' incarico di celebrarne i  pregi, e cantarne le lodi, pare che siansi fatto uno studio esclusivo di nasconderci  il vero. Questa sorte pertanto è comune con molte altre anche alla nostra famo¬  sa Chiusi.   Tuttavia, benché io non dissimuli a me stesso, che ben aspro e certamente  il cammino, in che sono entrato , e tale forse ancora da non trarmene fuori  senza pericolo di smarrirmi tra vìa -, pure non so astenermi, spintovi da quel  caldo amor patrio, che mai non tace negli animi bennati, dallo scrivere alcuna  cosa intorno alla città di Chiusi . E tanto più volentieri lo faccio, m quanto  che pubblicandosi un'Opera ove non sono raccolti che antichi monumenti chiusini ,  non giudico disdicevole che vi si legga, cosa fosse nei vetusti tempi quella si  splendida, e si rinomata città.   Lasciando pertanto da parte , come, e quando cominciasse ella ad esistere, se  Tirreno, o Telemaco ne ponesse le fondamenta, come pretesero alcuni scrittori,  o sivvero Classo re degli Etruschi, che si vuole da altri che fosse figlio di un  secondo Tirreno, e se ne riguarda come il fondatore esso pure, ( ed io lo  direi meglio arnpliatore, e ristauralore della medesima, benché s’ ignori in qual  secolo ciò avvenisse ), egli è fuor d' ogni dubbio che questa città risale ad  una remotissima origine . Lochè peraltro discoprire volendo, e stabilir con certezza, sarebbe lo stesso che mettersi a navigare in un mar senza sponde.   Per lo che, scenderò ad epoche meno lontane, e più certe, quando già la  città di Chiusi teneva ampio dominio sull' antica Etruria. Mentre pare da un  distico che si legge nel primo libro dei Fasti d Ovidio, che prendessero da  Elr. Mas. Chius. zo coll' uccisione del Console Lucio Cevìlio , e di 3 ooo soldati, furono dalla  valida l'esistenza dei Chiusini obbligati ad abbandonarne l'impresa, e spingersi a  sciogliere il freno ai loro furori contro Roma. Lo che narrasi da Lucio Floro  nel primo libro della storia romana , e possono consultarsi ancora su questo proposito, Diodoro Siculo, e Polibio. Ne fa pure un cenno Plutarco nella vita di  Numa Pompilio, e ne parla più a lungo in quella di Camillo. Anche la risposta , che lo storico di Cheronea fa pronunziare con barbara  confidenza da Brenna condottiero dei Galli, agli ambasciatori romani, che s'erano  a lui recati per chiedergli ragione a nome del Senato, del suo procedere verso  i Chiusini, infestandone i possessi, disertando i campi, e minacciando la città,  ne fa viepiù chiara testimonianza intorno alla celebrità, ed opulenza della medesima, essendosi cosi espresso quél fiero conquistatore. Ci fanno manifesta in¬  giuria i Chiusini, come coloro che ambiscono di possedere una estensione di  compagne, molto maggiore di quella che possono coltivare, e superbamente ricusano di concederne una porzione a noi forestieri , che siamo in gran numero , e poveri.   Circa la fertilità poi dell’ agro chiusino, leggasi Plinio libro 18°. capo 7 °,  ove ne loda il frumento, cosi per la qualità sua, come per la quantità che ne  produceva. E Marziale erasi prima di lui nell ottavo epigramma del i 3 .° libro  espresso in tal guisa « Imbue plebejas clusinis pultibus ollas jj.   Moltissime altre autorità di antichi scrittori avrei potuto raccogliere , onde  mettere in più chiara luce, ed evidenza, la grandezza, e V opulenza della città  di Chiusi iti remotissimi tempi, la potenza dei suoi re, il valoroso coraggio,  e l'operosa industria dei Suoi abitanti, t libertà del suo territorio, e lo splen¬  dore che la rese tanto famosa per lunga serie di secoli ,• ma stimo che bastino  le già riferite, ed i pochi cenni che ne ho dati, per farne concepire, a, chi  vorrà leggere questo ragionamento, una giusta, e non umile idèa. Nè poteva  d’altronde dilungarmici gran fatto, attesa V indole di quest' Opera, e la brevità della periferia , cui ho dovuto perciò ristringermi nel comporlo. Mi contenterò dunque di aggiungere, che venendo puranco ad epoche a noi  più vicine, dopo lo smembramento dell impero romano per opera dei Longobardi, ebbe Chiusi, benché decaduta immensamente dall’ antico suo lustro, il titolo  di Ducalo; leggendosi presso Anastasio bibliotecario in s. Zaccaria, che Liutprando mandò ad ossequiarlo il suo nipote  Agiprando, 0 come leggesi in altro codice Adelprando, duca di Chiusi. Il qual  fatto viene riferito egualmente dall’ autore dell’ Etruria Regale.   Ed anche giunta la citta di Chiusi all estrema sua umiliazione, rimase ogno¬  ra città vescovile, come lo è tuttavia, e fregiata di assai privilegi. E si legge in  un manoscritto che tratta di cose etnische, e conservasi nella libreria Rondoni  JlcJlklh che circa di n' era vescovo un tal Teodosio.  Ricavasi pc-i dal decreto di Gregorio, cap. 9.° delle costituzioni, che l' anno  3   II qual fatto confermano, oltre Polibio, Dionisio d’ Allea mas so , ed altri  Storici, anche sant’Agostino nella sua Città di Dio , Sidonio Apollinare, Chili-  diano, Orazio Fiacco, Marziale, Tzétze , e molti altri.   Nè parrà strana una si gran potenza dei chiusini, ed una tanta opulenza , a  chiunque facciasi a riflettere ai magnifici e sontuosi edifizi, dei quali Chiusi  adornavasi. E basterà riferire a questo proposito la descrizione del labennto  fattovi costruire dallo stesso Porsena, perchè gli servisse di sepolcro, e che si  legge in Plinio al capo decimo terzo del libro trentesimo sesto , ove riporta,  co/n’ ei dice, le parole stesse di Marco V àrrone.  Fu sepolto , scrive egli, questo monarca, sotto la città di Chiosi ove erasi  fatta inalzare una tomba di larghe pietre quadrate, e compresa da quattro lati,  o muri, ciascuno dei quali estendevasi per trecento piedi in lunghezza , aven¬  done cinquanta di altezza. Nell’ area interna di nove mila piedi, raggravasi  un inestricabile laberinlo, nel quale chi si fosse introdotto senza un gomitolo  di filo, non avrebbe potuto ritrovare la strada onde uscirne. Ergevansi poi  sopra il vasto quadrato cinque piramidi, quattro negli angoli , ed una nel mezzo,  larghe alla base, ciascuna setlantacinque piedi, ed alte centocinquanta. Slava  nella cima dì ognuna di esse un grosso globo di bronzo, sovrappostovi un petaso,  dal quale scendevano varie catene, cui vedevansi sospesi dei campanelli mobili,  e sonanti quand’ erano agitati dal vento, come raccontasi pure del tempio di Do-  dona. Sulla cima delle grandi piramidi ne sorgevano altre quattro alte cento  piedi', sopra le quali era praticato un piano, ed in esso pure si alzavano altre  cinque maggiori piramidi, che secondo gli annali degli Etruschi veduti da f ar¬  ro nc, erano tanto alte, quanto il rimanente dell’ edifizio.   Ora domando io : a qual potenza, ed a quanta ricchezza doveva esser sa¬  lita la città di Chiusi, onde concepir potesse un suore , e condurre ad effetto  la superba idea di fare erigere una fabbrica di questa sorte, per servirsene*  di sepoltura , quando ancora si voglia credere esagerato un tal racconto ! E  veramente, o esagerazione, o stranezza vi è certo, nella surriferita descrizione,  giacché è più agevole il disegnare quelle piramidi sulla carta, come saviamente riflette anche il Pignotti, che il trovar la maniera di farle stare in piedi. Tuttavia però , benché debbasi ridurre la cosa a più ristretti, e più giusti limiti', conviene non pertanto ammettere, che la tomba di Porsena fosse una  fabbrica sorprendentissima, e tale da superare di gran lunga quanto di più  grandioso fece ammirare V umana vanità nei trascorsi tempi, o si ammira pure nei nostri, presso le altre nazioni, se non per altro per la singolarità della  sua costruzione, e per la gigantesca sua mole-, poiché tal cose possono ingrandirsi bensì dai narratori di esse, ma inventarsi non mai.   Nè meno splendida è da credere che fosse la nostra città, nè inferiore la sua  potenza 284 anni più tardi, quando scesero in Italia i Galli Senonio Avvegna ché avendola quei barbari cinta d’ assedio, dopo aver battuti i Romani ad Arez- 5   iig8, il pontefice Innocenzo III scrisse al vescovo di Chiusi, benché se ne  taccia il nome nel luogo donde ho tratta questa notizia.   E finalmente narrano, il Surio tomo l\ , e 1 Usuando nel Martirologio, che  il dì 3 di luglio, imperando Aureliano, vi conseguirono la palma del martirio i  santi Mustiola cugina dell' imperator Claudio ed Ireneo diacono, i cui corpi sono esposti alla venerazione dei fedeli nella stessa città. Non solamente gli antichi monarchi , ed i  grandi Chiusini avevano le loro tombe gen¬  tilizie ; ma le private famiglie eziandio , e  queste più c meno grandiose, a seconda del¬  la propria condizione e ricchezza, come ne  fan fede tutti quegl ’ ipogei, che sortosi in  buon numero dissepolti finora . E non dispiacerà , cred ’ io , agli amatori delle cose  etrusche , il sapere in qual modo discopronsi  cotali sepolcreti .   Nei trascorsi tempi era stato il solo caso l'au¬  tore di simili ritrovamenti , poiché ì contadini arando la terra si abbattevano di tempo  in tempo in alcuno di essi, senza cercarne.  Ma da varii anni a questa parte , la cosa  ha cangiato d 3 aspetto e si è determinata  la maniera di rinvenirli a colpo sicuro , ed  eccone il metodo.  Avendo osservato alcuni signori Chiusini, come , e dove erano situati gl ipogei discoperti  dal caso, pensarono di fare dei tentativi, saggiando il terreno , per discoprirne degli al¬  tri espressamente cercandoli , ove se ne riscontrasse del sovraimpostoj ed i primi saggi   \ per essi sperimentati, sortirono un felicissimo effetto.   Questi diedero loro animo a procedere ai secondi , e quelli ai terzi , e così ad altri di ma¬  no in mano. Di modo che nel corso di pochi  anni se ne scoprirono in tal quantità , che  alcuni dei sullodati signori , come fra gli  altri, Casuccini, e Sozzi, arricchirono , o  formarono di pianta, ragguardevoli collez-  zioni , di urne funebri , vasi , specchi mistici,  idoli , sitale , scarabei, ed altre interessan¬  tissime anticaglie. Le quali collezioni si  vanno pure di giorno in giorno aumentando , mediante i nuovi scavi che si continua¬    no sempre a fare con caldissimo amore di  patria , e senza risparmio di spese. La qual  cosa, se e lodevole in un governo, lo è mol¬  to più nella condizione privata. Che al nascimento del cristianesimo, ed al tem¬  po della propagazione di esso , fosse Chiu¬  si tuttavia una rispettabile città , e fra le  prime ad abbracciare la fede evangelica, si  deduca ancora da quanto sono per dire .   Nelle catacombe che si trovano situate alla  distanza di circa un mezzo miglio dalla cit¬  tà medesima , e delle quali fanno menzione,  V Ughelli , il Boldetti , ed altri, essendosi di  recente intraprese delle escavazioni , che si  vanno proseguendo con ardore, sono stale  riaperte molte strade, ove si è rinvenuto un  numero considerevolissimo di sepolcri murati  a più ordini , che saranno ben presto for¬  malmente aperti. Nei quali, se per mancan¬  za di autentiche non si potrà asserire con  sicurezza che vi siano siati sepolti corpi di  Santi Martiri , non può dubitarsi però che  abbiano servito di tomba ad individui della  primitiva cristianità .   In alcuni di essi trovati discoperti si è osser¬  vato essere state deposle in ciascuno le ossa  d{ due o tre individui : lo che mostra ad  evidenza che fosse grande in quei tempi il nu¬  mero dei cristiani in Chiusi , venendo ciò  infermato dall ’ essersi colà diretti dalla  stessa Roma, diversi seguaci della nuova re¬  ligione , fra i quali la surriferita Vergine  Mustiola, e dall 3 avervi spedito l* imperatol e  Aureliano un suo Prefetto per nome Par¬  do A promano, affine di perseguitarvi i Cri¬  stiani -, e non pochi di essi vi subirono il  martino , come t due santi nominati qui  sopra  le anime goduto dopo ch’elleno son separate dal corpo. Furon varie presso gli antichi  le maniere di figurare un simile godimento, e noi vediamo frequentemente nelle  pitture dei vasi fittili, e ne’bassirilievi alcune imbandite mense, i cui commensali  starinosi lautamente bevendo a! suono di piacevoli strumenti, poiché prevaleva  presso di loro la massima che il premio concesso alle anime beatificate era il  godimento di una eterna ubriachezza. Al pari dissoluta sembra l’altra massima  degli Etruschi i quali fanno consistere tal beatitudine nel libero consorzio di  ogni senso, per cui si vedono replicatissime pitture nei vasi etruschi d’un satiro  ed una menade, ai qual soggetto si dà nome di baccanale. Men dissoluta è 1’ im¬  magine del Chiusino scultore antico di quest’ara, ove al suono di variati strumenti ci rappresenta una mimica danza, replicato soggetto nelle sculture più antiche di Chiusi a . Il rilievo di questa è bassissimo, al pari dell’antecedente, e il  disegno è parimente un terzo del suo originale.  JSum. j. Tra le molte immaginette in bronzo che trovaronsi nelle terre degl’Etruschi rappresentative della SPERANZA se ne incontrano alcune alate come la presente. Le ragioni che mossero questi popoli ad AMMETTERE LE ALI ALLA SPERANZA,  son da me dichiarate nello spiegare i monumenti etruschi, non meno che il significato della veste che tiene scostata dal fianco. Qui soltanto ripeterò brevemente, che gl’3truschi hanno spesso confuso LA SPERANZA colla Nemesi, dando  all’ una ed all’altra le ali MA LA SPERANZA, A DIFFERENZA DI NEMESI, CONTRAE LA VESTE PER AVER PIU SPEDITO IL PASSO, ONDE MOSTRARE CON QUANTA ANSIETA L’ATTENDE CHI SPERA. La mano elevata suole averè altresì qualche simbolo o significato, ma  di questa nulla diremo per esser guasta; e solo avvertiremo esser questo disegno  uguale in grandezza al suo originale.   JSum. 2 . Lo scarabeo rappresentato in questo num. 2 , ha una figura scolpita  rozzamente al segno da mostrare una sola gamba, sebben sia nuda in tutto il  corpo. Il petto è delineato in guisa che addita esser donna,- e qualora interpetrar  si volesse quel che tiene in mano, direbbesi non impropriamente un pomo granato, sicché il combinare con tutto ciò l’atto di stare assisa ci potrebbe far cre¬  der che fosse Euridice o Proserpina, entrambe dimoranti all’ inferno, dove figurasi assiso chi vi è destinato, per mostrar cred’ io la stanchezza di quella dimora.  Così Teseo condannato all’ inferno fu non solo così rappresentato dagli Etruschi 6 ,   1 Ivi, ser. i, 4i2. 5 Ivi, Ragionamento ìv , p. 17 5 , sq., e cap. u,   2 Micali, Monuments ant. pour l’ouvrage inlilulé p- 110. sq.   l'Italie av. la dommation des Romains, pi. xvih, 6 Lanzi, Saggio di lingua etrusca, tom 11, tav. Vili,   3 Monum. Etruschi; ser. nij p. 202, sq. n. 2, p. lai»   4 Ivi, p. ao 5 ETRUSCO 2D2IL2.1 S&TftiL2  Non vi è soggetto che abbia tanto occupato il genio degli artefici  scultori nei monumenti ferali, quanto i Dioscuri. Noi vediatno soventi volte nei  cassoni mortuali i simulacri di quei due giovani allegorici, posti simmetricamente  alle due estremità delle cotriposizioni, senza che abbiano colle composizioni  medesime nessuna connessione storica o favolosa ivi posti manifestamente  non solo per ornamento, ma per allusione speciale al passaggio dalla vita alla  morte, e nuovamente dalla morte alla vita’, come dicevasi dai Gentili che i Dioscuri ebbero da Giove il vicendevole dono della immortalità 3 . Or poiché il pre¬  sente bassorilievo è in un’ara di quattro facce, ove da ognuna di esse ripetesi a  guisa d’ornato il soggetto medesimo di due giovani equestri, e poiché questo monumento è stato ritrovato in una tomba sepolcrale, così non credo erronea 1’ in-  terpetrazione ch'io dò a tal soggetto dei due Dioscuri, ripetuti simmetricamente  per ogni faccia dell’ara. Il rilievo della scultura è bassissimo, eseguito in pietra  tofacea, la quale si lavora con molta facilità per esser fragile. Il disegno è un  terzo dell’ originale. È frequentissimo al pari dell’antecedente soggetto quello che l’osservatore trova  in queste 4 Tavole distribuito, non altro ivi raffigurandosi che il gaudio mistico dal-    i B. rii. del Mus. Borgia riportato dal Millin ,  Galler. Mythologique Pian, lxxx, n. 53o. Co¬  ri , Inscript. Antiq. in Etruriae urbi bus ex-  iati., Pars ni, Tab. x. et xGxrti,    2 Inghirami, Monumenti Etruschi, r   nuovo negli oggetti ferali l’augurio di prosperità che i vivi facevano ai morti,  nella fiducia che godessero una vita migliore *. L’ altezza di questo vaso è un  terzo dell’ originale.   tavola IX.   Ecco un saggio dei tanti vasi di bronzo che si trovano a Chiusi. La grandezza del disegno è pari a quella del suo originale , ed ha ornamenti siffatti, che  non disdirebbero ad un’opera di fusoria dei migliori tempi dell arte; specialmente  se consideriamo quel manubrio a cui si leggiadramente vien data la forma d un  giovine in atto di riposo. Un altro genere d’ utensili tutto diverso dai fin qui esposti, occupa la Tav.  X, ove pure è diverso in tutto lo stile del disegno che ne traccia la rappresentanza; talché sarei per dire che altri fossero gli artefici e la scuola di scultura,  altra quella di plastica, altra quella di fusoria, altra quella gliptica, altra quella  di grafito in Chiusi, e che tutte separatamente si vedono in queste dieci tavole. Nel presente disco manubriato di bronzo rappresentansi fuoi d ogni ub io  i Dioscuri: soggetto ripetutissimo in simili oggetti, che perciò diconsi spec  chi mistici; e su questi e su quelli ho scritto abbastanza, ragionando dei Menu  menti etruschi *. Uno dei giovani colla mano portata in alto accenna il cielo,  l’altro l’inferno col braccio al basso: attitudine che a meraviglia esprime 1 al tei -  ila loro posizione, come dicemmo spiegando la tavola prima. Onde qui mi resta  da notar brevemente, che questi mistici utensili si trovano tra i cadaveri come  un amuleto relativo al transito delle anime da questa all’ altra vita. Una gran parte di figure in bronzo quasi esattamente simili alla presente si  trova in vari musei d’ Etruria ; e poiché io ne vidi alcune che sostenevano un  gran disco con una incassatura al lembo di esso, così mi detti a credere che in an¬  tico siano stati specchi di toelette, il cui disco lucido era probabilmente incastra¬  to nella ghiera del disco di bronzo ade r ente alla anzidetta figura, che gli serviva di manico 3 , e della grandezza di questo disegno, eh'è uguale al bronzo archetipo. Non è dunque inverisimile che essendo questo un vero specchio da toe¬  lette, sia quel manico dal quale è retto, la figura di Veneie.3 Ivi, tav. vii.   g   ma descritto in simile attitudine anche da Virgilio *. La stessa Euridice si vede rap¬  presentata all’inferno sedendo per terra, in atto d’esser liberata da Orfeo * 11  pomo granato nelle mani delle persone infernali è superstizione che usavasi anche  tra gli Etruschi, rappresentati nei coperchi delle loro urne cinerarie 3 . Ma in tanta  goffaggine chi decide?   Num. 3. Lo scarabeo di questo num. sarà spiegato con altro d'ugual soggetto.  mrriensa varietà di forme che s’incontra nei vasi sepolcrali, ve ne son  1 • j C | 6 ^ 6r °® n ' r ‘o uar do meritano d'esser fatte conoscere coi rami per la  H’ r t0 s ‘ n S°^ ar ‘ ta ; e per quanto non potremo in quest’opera dar   0 °. °o nuna di esse, pure non sapremmo astenerci dal farne conoscere le più  a™’- 3 ' H t0 r >r *. nc T a ^ menl:e riguardo alla utilità che queste nuove forme pos-  caie a e aiti meccaniche, ed al miglioramento degli utensili domestici.  t . . Pj ente ,n questa VII tavola figurato è di terra cotta di color rosso, si-   rorrisn 3 m6nte sn P ra a ^ tr ' quattro vasetti insieme uniti al disotto, ed ai quali  • . . n on° quattio fori nel recipiente maggiore praticati, onde potrebbero   ntrodurvs. quattro diversi liquidi, come si vede chiaramente nel disegno superate " 6 ^ ° recc liette c ^ e servono di manichi nel vaso di mezzo sono trafoche ' C ° me Se V1 fo8Se P assa t a una cordicella per appendere tutta la macchinetta,  per ques o aggiunto sembra essere stata di qualche uso.    tavola Vili.   annoverare preSeiUe è da re P u tarsi antichissimo, qualora non vogliasi   mento eli occh' imi ^ tlV0 delIe antiche opere plastiche. I profili con gran   ’ g a Ì a pert.ss,m. ne. volti che vi son modellati, e quei veli che hanno   nera anche^nfll* *' mm< \ tnche Sono caratteristiche di grande antichità. La terra  sa che tende al ern ° 6 tenuta P er mater ia di antica manifattura. La forma stes-   Quegli animali m ° St ™ Ua 8:11810 non raffil)at ° dal progresso dell’arte.   Ses^r r^ neOrHanOllC0r P°’ C0Ì1 ’ 6SSer S6nZa °^ tt0 "1*^ indicano  tav XII eiarrh' T ™ tUr ‘ A j ma del significato loro dò cenno spiegando la   mina in’ una « 6 ^ una leonessa o tigre che sia, con la coda che ter-   sta sull’ fi A r Pe ’ f ebbeS ‘ quest animale riguardar per un mostro. Il gallo che  , , ° e vaso e un au o ur ^° pel morto che fu cornane fra gli Etruschi e dei  ,»], ho trattato anche altrove i. Solo ,ui r.m.L.o "    i Virgil. Aeneid., lib. vi, y. 6iy.  l Monum. etruschi cit , «er. vi, l,v. C5, n. i.  Etr. Mas. Chiùs. Tom. I.    3 Ivi, ser. vi, lav. Ha, unni   4 Ivi, ser. i, p. 3 I0 . P- I#?.  SULLA LINGUA ETRUSCA  O e egli è vero, come nessuno può dubitarne, che le lingue sono molto più  antiche di tutti i monuménti delle nazioni, sarà vero del pari che lo studio delle  medesime, e particolarmente lo studio comparativo, possa contribuire più di ogni  altra cosa, a rintracciare con sicurezza le origini dei popoli, le loro affiliazioni, ed  i loro mescolamenti, non meno che le divisioni, e successive riunioni di essi, e le  varie peregrinazioni, cui sono i medesimi andati soggetti nel corso dei tempi. Ed  infatti, chi non vede a primo colpo d'occhio, per esempio, osservando la gran  somiglianza che passa fra i primitivi vocaboli della lingua samscritica, con altrettanti dell antica persiana, della greca, della teutonica, della illìrica, e della latina, che tutte queste lingue, o debbono procedere in prima origine da un medesimo,  fonte od esservi stato in epoche da noi lontanissime un mescolamento, o per emigra¬  zioni o per cagion di commercio, di tutti quei popoli che le parlarono ?  Oltre di che, sarebbe veramente un voler andare a ritroso, pretendendo che  possa dipendere dalla semplice casualità un lavoro così metafisico, e così profondamente pensato, quale è quello dei significamenti dati ai vocaboli di antichissime  lìngue, e che furono parlate da popoli tanto lontani fra loro per geografica posizione e tanto differenti per indole, per costumi, e per usi religiosi, e civili, piuttosto  che attribuirlo , o ad una sorgente comune, o ai mescolamenti dei varii popoli in  remotissime età, per qualunque cagione, ed in qualsivoglia maniera siano questi  avvenuti. Ciò premesso, e venendo a parlare più di proposito dell’ etrusco, dirò  liberamente che non giungono a persuadérmi nè punto nè poco ì sistemi formati, e  adottati finora dagli archeologi, intorno a questo antichissimo, e presso che del  tutto perduto idioma, benché io professi una profondissima stima per ognuno di  essi. E vaglia il vero, benché il Cori, ilMajfei, il Guarnacci, il Dernpstero, gli  accademici di Cortona, ed il chiarissimo Abate Lanzi, abbiano fatto ogni loro  sforzo per diradare le tenebre nelle quali giaceva involta la nazione etrusca, e  piu ancora la sua lingua, e ci abbiano aperta colle opere loro una strada onde  poter fate nuovi passi, e nuove scoperte in questa interessantissima parte della  antiquaria, non possiamo tuttavia dissimulare, che le oscurità non siano peranche  grandissime, e singolarmente intorno alla lingua, primo fondamento di tali studii,  e unica face atta ad illuminare le nostre archeologiche indagini, sulla origine,  sulla remotissima antichità, sui monumenti, e su qualunque vogliasi oggetto,  nguar ante questa nazione perduta. E benché ancora, dopo quei celebri nomi-  Nell' esporre questo pregevole vasetto di terra nera a quattro anse con coper¬  chio, mi fo pregio di riportare la notizia che annettono al disegno gli zelantis¬  simi editori di quest’ opera del Museo etrusco chiusino. « Si crede, essi dicono,  che i vasi di questa terra non siali cotti, ma solamente disseccati al sole, poiché  infondendovi dell’acqua li compenetra, e si disfanno. Cotal genere di vasi non si  son trovati fin ora che a Chiusi e nei suoi contorni ». Questa è la loro avvertenza. L’ animale che vi si vede espresso è chimerico a rammentare i mostri caotici  che precedettero l’ordine della natura. In dimostrar ciò non mi estendo, perchè  abbastanza scrissi altrove onde far conoscere la frequenza di simili soggetti cosmo¬  gonici >, espressi dagli antichi nei monumenti sepolcrali. Avverte chi ha fatto  eseguire’questa tavola, che sotto al vaso è copiato un ornato d’oro dalla  parte anteriore, il doppio dell’ originale, e sotto è disegnata la parte posteriore di  esso, della grandezza del monumento, ed aggiunge che le due sfingi rappresentatevi  sondi un lavoro mirabilmente finito e minuto. ISCRIZIONI FUNEBRI ETRUSCHE   Quanto saviamente dichiarasi dal eh. pr. Valeriani nel secondo suo dotto ra¬  gionamento che segue, mi dispensa dall’onere di spiegare le iscrizioni fu¬  nebri che trovansi nei cinerari etruschi di Chiusi, perche scritti in una lingua  perduta. Tuttavia quel barlume che le moderne indagini dei dotti sopra di essa  ci fan vedere, sarà posto a profitto dall' eruditissimo sig. prof. Vermigiioli il più  meritamente accreditato in simile materia, onde in fine di quest’opera trovisi qual¬  che notizia di queste iscrizioni funebri chiusine, che ove lo concede lo spazio vi  si distribuiscono, senz’ altro dirne per ora.   \ V* : IHd-M 3 Pi -O J I-   :ian 0qm v : Pi +i fì® 11 •   A? 3 d-flq = i anq V >/ di.   yfìMRY/\ IV.   33 =3 Dliaq => --1 Mti™ V V - , Mooum. Eu.. set. , p. 585 , 5 9 3 , set. m. P . 346, 36» >4   dì^ìosamcnte remota , dice il Pejleuttier nella sua storia dei Celti, gli antichi popoli  di questo nome, o i Cello-Sciti, la cui lingua se non è primitiva in un senso assoluto, 10 è per lo meno relativamente a quasi tutte le lingue conosciute, sì furono sparsi  da una parte nell Asia occidentale, e dall altra nell Europa, si estesero in quest ul¬  tima regione, gli uni al Settentrione, e gli altri lungo il Danubio. La posterità di  questi poi rimontando quel fiume, pervenne in seguito alle sponde del Reno , le  quali oltrepassò, e riempi delle sue numerose popolazioni tutto l’ intervallo che   si estende dalle Alpi ai Pirenei, e ai due mari. Laonde ovunque la lingua dei Celti mescolandosi agl’ idiomi indigeni, formò delle combinazioni, ov’ ella dominò sen¬  sibilmente . Ed anche in quei contorni che aveva trovati deserti, o dai quali aveva  fatto scomparire gli abitanti, il celtico si conservò nella sua purità originale. Alcuni secoli dopo la popolazione sempre crescente di questi Celti, o Galli, li costrinse a  passare i Pirenei, e le Alpi. In Italia, dopo avere occupato da prima tutto il  paese posto al piede delle montagne, eglino si estesero di mano in mano, nel-  l'Insubria, nell’Umbria, nel paese dei Sabini, in quello degli Etruschi, degli Osci, dei Sanniti, ed in tutto il resto della penisola al dì qua del Garigliano. Nel medesimo tempo alcune colonie greche approdarono all’ estremità orientale d’Italia, e vi  formarono degli stabilimenti. Lasciami poi ben presto le sponde del mare , e  spingendosi sempre avanti, incontrarono finalmente i Celti, che continuavano pure  dal canto loro ad avanzarsi ancor essi • Dopo alcune guerre, poiché questo è sempre   11 primo caso dei due popoli che s incontrano j sì riunirono nell’ antico Lazio, e  non vi formarono più che una sola società, che prese il nome di popolo lati¬  no. Allora le lingue delle due nazioni si mescolarono insieme, e si combinarono  con quelle dei primitivi abitanti. Nè bisogna dimenticarsi di osservare che in  quest' amalgama aveva il celtico un gran vantaggio .   Il Greco, che non era allora, o a grandissima distanza, la lingua di Omero,  di Platone, doveva dal canto suo il nascimento ad un miscuglio di mercatanti fenìci,  d’ avventurieri di Frigia , di Macedonia e d’ llliria, e dì quegli antichi Celto-Sciti,  che mentre i loro compatriotti si precipitarono in Europa, eransigettati sull' Asia  occidentale, donde erano discesi in seguilo fino al paese che fu poi la Grecia.  Eravi dunque del celtico alterato nel greco, che si combinava di nuovo col cel¬  tico. Dalla qual moltiplice combinazione nacque la lingua latina, che rozza nella  origin sua. ripulita poi, e perfezionata col tempo, divenne in fine la lìngua di Terenzio, di Cicerone, di Orazio, e di Virgilio. Ed è questa medesima lingua latina, che  dopo un si bel regno terminato con un sì lungo e tristo tramonto, veniva ad amal¬  gamarsi ancora un’altra volta col celtico : sorgente comune dei barbari dialetti dei  Goti, dei Lombardi, dei Franchi, e dei Germani, per divenire poco tempo dopo la lingua di Dante, di Petrarca, e di Boccaccio. Per tali considerazioni, e per quelle già riferite in questo ragionamento, io credo che si debba battere un cammino  diverso da quello che si è battuto finora dagli archeologi, nell’ investigazioni intorno gli antichi Etruschi , ed al loro linguaggio. E non già perdi’ io abbia la   nati dì sopra, molta gratitudine dobbiamo avere ai Signori, Vermiglìolì, Zannoni, Mleali. Orioli, Ciampi, e più particolarmente all’ infaticabile cav• In-  giurami, per i tentativi che tutti questi hanno fatto, onde aggiungere dal canto loro  nuovi lumi, affine di condurci vie più addentro nei penetrali delle cose etrusche,  non ci siamo non pertanto finquì partiti, quanto alla lingua, dal punto dove era¬  vamo cinquanta, o sessanta anni, per non dire quasi un secolo addietro.   Nè qui sarebbe per avventura fuor di proposito lo stabilirese la nazione etrusco debbasi avere assolutamente nel numero delle perdute, e nel caso affermativo  determinare il come, e il quando sia questo avvenuto, oppure considerare la dob¬  biamo come trasfusa nella romana , o combinata con tutte quelle che invasero a  piu riprese V Italia. Ma siccome cotali ricerche mi farebbero deviar troppo dallo  scopo che mi sono prefisso in questo discorso, e mi trarrebbero troppo in lungo,  cosi le serbo ad altro tempo, e ad altro lavoro. E per istringermipiù dappresso  al mio soggetto, dovremo noi riguardare la lingua etnisca, o come primigenia, e  indi genia dell antica Etruna,o come proveniente da altro più vetusto idioma italico-, o  sivvero come un composto di più dialetti stranieri, combinati coll’indigeno, quali sarebbero, il pelasgo, il lidio, il celtico, il greco antico, il traco-frigio, ed altri, qua por¬  tati a diverse epoche dalle varie colonie che si venneroa stabilire nelle nostre belle  contrade. Riflettendo che tutti gli archeologi, i quali procacciarono di rischiarare  questa materia oscurissima, hanno ben poco, o nulla concluso finora circa l’intelligenza dell antica favella dei nostri padri, e quelli che pretesero di trarla  dall’ Oriente senza alcun altro soccorso, e quelli che la vollero derivare dai Greci  e i fautori dell antico latino $ pare che ne inviti la sana critica, e ne sproni il  buon senso, a tentare un’ altra via, per vedere se si giungesse finalmente a scio¬  gliere questo famoso nodo gordiano. Ed io penso che giovandosi di quanto si può  raccogliere di antichissimo italico , donde procede in gran parte il vècchio latino,  non trascurando il greco , per le ragioni che svilupperò altrove, e ricorrendo pure  ai dialetti annoverati qui sopra , si possa con sicurezza avanzare qualche passo,  e forse ancora giungere a fissarne un compiuto alfabeto , e quindi a bén leggere, ed intendere, tutto quello che ci rimane di etrusco. Imperocché, sia che abbia veramente esistito una lingua primitiva, della quale tutte le altre non siano che derivazioni, e prodotti, o sia che le diverse popolazioni umane siensi fatta da principio,  ciascuna la sua lingua, e che per moltiplicate combinazioni, e dopo una lunga  serie di secoli, questi diversi idiomi particolari siano venuti, per cosi dire, a  fondersi in un idioma generale, che in seguito poi siasi diviso, e suddiviso di  nuovo, in lingue, e in dialetti diversi, vi sono pochi argomenti più degni dell’ attenzione del filologo, e del filosofo ad un tempo, di queste formazioni, di queste separazioni e di queste riunioni dì linguaggi, che indicano le principali epoche della  formazione, della separazione, e della riunione dei popoli.  L’ idioma Latino che disparve al nascere dell' Italiano, era stato in una molto  recondita antichità il prodotto di una simile rivoluzione. Quando ad un' epoca prò- Porgiamo alla considerazione dello spettatore in questo disegno la più grande urna in marmo che siasi fin ora trovata nei moderni scavi di Chiusi, misurando in  lunghezza circa 4 braccia. Ha nel cornicione superiore una lunga iscrizione etnisca, ma disgraziatamente dipinta, e non conservata come desiderar si potrebbe  per l'intelligenza compita, quantunque da quel che resta comprendesi essere  un aggregato di nomi famigliari e nient'altro. Vi corrisponde la rappresentanza  della scultura, ove si vede la moglie che dal marito congedasi, o questo da quella  per girsene all’altra vita. Una Furia come addetta al ministero delle anime ’, ab¬  bracciando la donna par che indichi esser lei la defonta, e non 1’ uomo che  il soggetto ivi appella. Infatti contiene il coperchio dell’urna una donna, come  vedremo. Termina la composizione con altre due Furie, una delle quali è pronta a  ricever l’anima alla porta infernale per dove passavasi quindi agli Elisi a ; e le altre  cinque figure intermedie non altro significano a mio credere che parenti,e forse anche estinti antenati, de’quali siansi voluti rammentare i nomi nella iscrizione. Forma  questo bel monumento e rarissimo in Etruria uno dei principali ornamenti del Mueo Casuccini di Chiusi. Ecco il coperchio in marmo dell’ urna già osservata nella Tavola antecedente.  Quivi e una donna mutilata in parte, come esser sogliono le sculture sepolcrali visi¬  tate dai primitivi cristiani, ed in quella occasione depredati quei loro sepolcri; ma  pure non sempre del tutto, e infatti si è trovato in Chiusi qualche ornamento d’oro  uguale alla collana che riccamente scende sul petto di questa defonta, la quale è  succinta , come esser sogliono le protome delle donne. Ha in mano un pomo gra¬  nato, conforme davansi a chi si portava all’ inferno. 3 .  Quando si volesse dare una interpetrazione a quest’oscuro soggetto in bassori¬  lievo, si potrebbe dire essere il giovane Astianatte genuflesso sul larario, in atto di  venire immolato al furore di Pirro. Il monumento è un’urna di terra cotta non  molto conservata.    1 Monum. Etr., ser. i, p. 191, 229.  a Ivi, p. 177, »46.    3 Ivi, ser. 11, p. 229, a 3 o. stolta presunzione di credermi più perspicace, e più istrutto di quei dottissimi,  che si affaticarono in clamo su questo istesso argomento-, ma solamente perchè il  tentar nuove strade in materia cotanto astrusa, è permesso a chi che sia, particolarmente quando tutte quelle tentate finora, non sono opportune a condurci a  buon porto . E perché è pur vero che non di rado toccò in sorte ad uomini di  mediocre ingegno e sapere, il discoprimento di ciò che rimase lungamente occulto alle più profonde, e costanti ricerche di sapientissimi osservatori.   Protesto peraltro ampiamente d’esser pronto ad abbandonare la mia opinione su  questo proposito, quando i dotti me ne oppongano un’ altra più plausibile, e più  idonea allo scopo cui è diretta. Essendo io scevro affatto di ogni particolare affezione  per essa, ed alienissimo da qualunque spirito di sistema, nè altro cercando che la verità . Avvegna che, una delle cause positive, anzi la principale, a mio credere, che  abbia così ritardalo, ed impedito la scoperta del vero in questa materia, è stato senza  dubbio lo spirito di sistema, portatovi da ciascuno di quegli archeologi, che vi eser¬  citarono con particolari indagini il proprio ingegno, ostinandosi, e forzandosi per  ogni maniera, a derivare da un solo fonte la Unga etnisca. Idifatti, niente è più fu¬  nesto ai veri progressi delle scienze, nè più contrario al discoprimento della verità,  di quello che lo sia uno spirito sistematico. Imperocché tutto allora si sconvolge, si  contorce, si altera, anche senza avvedersene, per trarlo comunque al proprio si¬  stema, adattarcelo, e farlo a diritto o a torto, convenire con quello . Ma chi adopra  in tal guisa, non và altrimenti in cerca del vero, e si affatica soltanto a rinvenire ciò  che egli si è preventivamente immaginato di dover trovare. Cosi, tutti coloro i quali  pretesero di far venire gli Etruschi da una colonia di Cananei, o di altri Orientali,  crederono di vedere perfino la forma delle lettere etnische, in quella delle ebraiche,  e più specialmente delle cosi dette sanimaritane, benché non ve ne fosse la minima  idea. E t.enevansi tanto più sicuri del fatto loro, in quanto che usarono i nostri antichi padri condurre la loro scrittura da destra a sinistra , come gli Ebrei, i Samma-  rilani,ed altri popoli dell’Oriente.I Sè mancarono di viepiù confermarsi in tale opinio¬  ne, osservando alcune voci etrusche, simili, o provenienti dai dialetti semitici-, quasi  che fossero queste argomento bastante a costituire la identità di origine dell' etrusco con quelli, e non sapessero tutti ifilologi, che s’incontrano delle voci simili di  suono, e di significato ancora, in quasi tutte le lingue conosciute, senza poter  giungere a provare per questa via, che l una derivi con sicurezza dall' altra, e tutte  da un fonte comune. Mentre sono tali somiglianze , ed analogìe, il prodotto di quei  mescolamenti, dei quali ho parlato in principio. E con tanta maggiore facilità  debbono essersi mischiate, e combinate non poche voci orientali all’ etrusche, per lo  commercio singolarmente dei Fenici coi nostri antenati, in epoche da noi remotissi¬  me, come altrove si è detto-, insegnandoci concordemente gli antichi scrittori  quanto in ciò valessero gli Etruschi, o Tirreni, e come signoreggiassero i due mavì  che circondano Italia, cui diedero perfino il nome.  si vede nel manico è il sole, come io spiegherò meglio in seguito, e l'atto delle mani e dei piedi che volgesi in alto, in basso e per ogni senso, è simbolo della generale influenza dei suoi raggi, cbe si spargono in giro Gli ornamenti a bassorilievo che circondano questo vaso non hanno un signi¬  ficato diverso da quei che vedemmo alle Tavole Vili, XII, XIII, e XIX, ed è  perciò inutile ripetere ulteriormente il già detto. M’ immagino che la figura qui espressa, e ripetuta più volte in molti vasi  trovati nei sepolcri, possa esser Marte, il quale significar vi debba, che il tempo  in cui domina quel pianeta è l’autunno, come in altri monumenti se ne vede l'indizio i 2 , e questo tempo vi si rammentava per la ricorrenza del suffragio delle  anime 3 , al quale oggetto erano istituite feste ed offerte ; o forse rammentasi la  deità degl’itali primitivi. Sono assai numerosi gl’ idoli femminili in bronzo di piccola dimensione pari  al presente, eh’ io credo essere stati nominati comunemente dagli antichi gli Dei  Lari, o Penati, o Geni tutelari, e Giunoni 4 , quando, come questa statuetta, erano  femmine; e dice vasi che ogni donna aveva la sua Giunóne per protettrice 5 . Il gusto dei Greci, come ricaviamo dalle opere loro trovate in Ercolano e  Pompei, era d’inventare ornamenti per le suppellettili anche non attinenti al fasto ed al lusso, dove introducevano con molto genio ed ingegno animali ed umane figure : genio che si propagò per l’Italia, come vediamo nelle opere di Chiu¬  si ,• di che abbiamo un bell’ esempio nei due manichi di bronzo incisi in questa  XXHI Tavola, un de'quali ha un mascherone bizzarramente travisato con fo¬  gliami, fiori ed una barba assai schersosamente spartita. Bella è parimente l’im¬  magine dell’altro manubrio disegnato di faccia e di profilo, dove si vede un anima-   i Monumenti etr., ser. 11, Tay. xc, pag. 762. 4 Monumenti etr., ser. 1, p. 279.   % Ivi, ser. vi, tay. F2, num. 3 , p. 17 5 Yirgil. Aneid. 1 . ili, v. ifij , Ovid., fastor. xi   3 Ivi, ser. j, p. 1 47 » 5x2, 544 * y* 4 ^ 5 .notabile che i coperchi delle urne in terra cotta sieno di miglior modello  eh esser non sogliono quelli scolpiti in pietra N’ è chiaro esempio questa re-  combente figura che servì di coperchio all’ urna precedentemente esposta. Ognun  vede quanto il panneggiamento sia più ragionato nelle pieghe di quel che osservammo allaTav. XIV ove ne reputammo l’urna spettante a ricca matrona. Chi sa che  il lusso de marmi non prevalesse in tempo della maggior decadenza delle arti ? La muliebre figura qui esposta fu eseguita in fragile pietra tofacea e trovata  acefala in un sepolcro, colla particolarità che il collo è vuoto come anche il torso,  ed è servito per deposito d umane ceneri e d J ossa cremate, che vi si trovarono al-  1 aprir della tomba, ove la statua era sepolta. Il significato non è facile a penetrarsi,  ma dal pomo che ha in mano, e dall atto sedente, non sarebbe fuor di proposito il  congetturarne che fosse una Proserpina, la quale riceve unitamente col suo con¬  sorte Plutone le anime che scendono al Tartaro. Difatti anche al Museo Pio de¬  mentino vedonsi que’ due numi sedenti a . La singolarità dell’ esposto monumento esige che se ne mostri anche la parte  avversa alla già veduta. Ivi più chiaramente si nota che a formarne il magnifico  sedile concorrono i simulacri di due sfingi, le quali assai frequentemente s’incontrano in monumenti ferali; poiché la sfinge reputavasi animale chimerico infernale 3 , e perciò attamente posti ad ornar la sedia della divinità che attende alle  anime trapassate da questa all’ altra vita. La frequenza dei volti velati che vedonsi ne’yasi di terra nera, come in questo,  non lasciano luogo a porre in dubbio se siano o nò rappresentanze di larve o  Lemuri, cioè delle anime 5 , ed il gallo che sovrasta al vaso, pare, come ho detto  altrove 6 , indubitato simbolo del buon augurio di felicità nella futura vita, che a  quelle anime predicevasi dai superstiti viventi. La figura con faccia larvata che   1 Monum, etr., ser. ni, p. 4 io, e ser. vi, Tav. 4 Ivi, ser. v, p. a;8.   X 3 , n. 3, p. 3 a. 5 Ivi, ser. i, pag. ai, 52. Visconti, Mus. P. Clem. Voi. li. Tav- 1, a. 6 Ved. p. 9.   3 Monum. etr. «er. i, p. 582.   Etr. Mas. Chius. SULL’ ALFABETO ETRUSCO    -Uopo che gli uomini ebbero trovato coll’ uso naturale degli organi della  parola, un mezzo facile di comunicare i loro pensieri ai presenti, cercarono, e  trovarono in seguito, quello di parlare agli assenti, e di rammentare a se stes¬  si, ed altrui, ciò che era stato pensato, e detto da loro, e da altri, e ciò an¬  cora di che erano convenuti insieme. La prima cosa pertanto che si presentasse  loro allo spirito in questa ricerca, furono le figure geroglifiche ; ma colai segni  non erano abbastanza chiari, e precisi, nè abbastanza univoci, per adempire lo  scopo che avevasi in mira, di fissare cioè la parola, e di farne un monumento  più espressivo del marmo, e del bronzo. Il desiderio dunque, ed il bisogno di compiere questo disegno, fecero final¬  mente immaginare quei particolari segni, che noi chiamiamo lettere ognuna del¬  le quali fù destinata a notare uno dei suoni sémplici, che formano le parole',  la riunione dei quali segni, è ciò che dicesi alfabeto. Volendo però risalire fino  alla prima origine dì questo maraviglioso ritrovamento, rischieremo sempre di  smarrirsi senza riparo, in un mare di oscurità, e d’incertezze, e circa V epoca  in cui giunsero gli uomini ad un si nobile discoprimento, e circa la nazione  che prima di ogni altra vi pervenne.   Lasciando perciò da parte la ricerca di quello che io giudico moralmente  impossibile a rinvenirsi, volgerò le mie indagini a cosa più certa, od almeno  piu probabile, qual e la quistione, se gli Etruschi, od i Greci fossero i primi  a far uso di una cosi bella, ed utile invenzione. E qui pure siamo costretti a  navigare, presso che senza bussola, m un ampio pelago, sparso di profondissimi vortici, d' orribili mostri, e di scogli assai pericolosi.   Imperocché, se molti dotti sostennero, e sostengono tuttavia che i Greci sono anteriori agli Etruschi nell’ uso dell’ alfabeto, e vengono riguardati come i  maestri di essi, in qualsivoglia arte o scienza, non è per altra parte minore il  numero, nè di minor momento V autorità di quelli, che citar si possono per  sostenere il contrario. Perlochè io aderisco a questi ultimi, sembrandomi la loro  opinione più ragionevole , e più giusta, ed i sostenitori di essa persuadendomi  colle loro ragioni, ciò che non giungono a fare i propagatori del grecismo, ad  onta ancora di tutte le parole greche, o grecizzanti, che s’ incontrano ad ogni pas¬  so in quasi tutti i monumenti etruschi, discoperti finqui, avvegnaché intorno a le mostruoso, che per aver motivo d' essere attaccato al vaso figura di morderlo.  Sotto è un Ercoletto giovane, che tiene la mano alzata, vibrando la clava in segno  di recar danno e morte, ed ha cinti i lombi colla pelle di leone, simboleggiando  di non curarsi della generazione ’, come è proprio d’Èrcole quando figura il  sole iemale. Difatti rispetto ai viventi è il sole che loro apporta la vita coll’universale  tepore della natura in primavera, e porta danni o morte col raffreddamento del  tempo iemale. Qual simbolo può dunque esser più adattato a decorare un sepolcro,  che quello dove rammentasi la vicendevole transizione dalla vita alla morte ?   Lo scarabeo di cui si vede f impronta ha inciso un centauro con un fanciullo  sul dorso, forse Chirone col giovane Achille che dicesi da taluno essere stato affidato a quel mostro per riceverne la puerile educazione. La rappresentanza di questo specchio mistico sarebbe forse difficile ad inter-  petrarsi, qualora non fossene venuto a luce un altro di quasi ugual soggetto. In  quello vedesi Giunone sedente in atto di porgere ad Ercole la mammella, perchè  ne succhiasse il latte, il chè succede alla presenza di Mercurio 3 . Sappiamo infatti  che Giove bramava che Ercole per ottenere l’immortalità, benché nato da mortai  femmina, sorbisse almeno latte divino, onde per uno dei soliti inganni frequen¬  tissimi nella mitologia, Giunone gliel porse senza avvedersene 4 . Mercurio vi si  crede introdotto, per attestare ad Ercole d’aver egli pure profittato di tale arguzia, per entrar fra gli Dei, benché nato da Maia donna mortale .   Qui non è espresso l’atto di Giunone per allattar Ercole, ma pur vi si vede  Mercurio che si fa noto col suo cappello, e par che accenni d’ aver profittato  egli stesso dell’espediente che suggerisce ad Ercole, il quale gli sta davanti. Ha la  clava , in mano ed un piede elevato, indicando che salir deve all’ immortalità 3  per opera di Giunone 6 eh’ è fra loro.    fli8v«q :ian8 j v :ioj vi.  j a 11 y fi j 1 :i n tnq r = o 4 vii.   1 f\ il 8 4 Y d : fi m 3 4 t :42 vili. •-ifi n t v t :o 4 .• in i n q n o n lx -   -4/nm-rfl4 itntnqfl .-4sa x.    § Monumenti etr. ser. v, p. 3 a.   2 Galleria Omerica Tom. ii, Tav. cxxi, pag. 2,4.   3 Schiassi, De pateris ariliquor.ex schedis Blan¬  dirli Sermo ed epislolae tab. x.    4 Diodor., Sic. Bibliot. bist. lib. il, p. 198.   5 Mon. etr. ser.n, Tavv. lxxu, lxxìii, lxxiv, lxxv,   6 Zarinoni, Lettere di etrusca erudizione pubblicate  dall’ Inghirami, pure in ogni tempo di tracciare nello stesso modo le loro scritture. E tutti,  c/uesti ultimi specialmente, furono sempre uniformi in questo, ad eccezione degli  Etiopi soli, e degli Abissini, che sebbene parlino, e scrivano un dialetto semi¬  tico, scrivono tuttavia da sinistra a destra, come gl’ Indiani, ed i segni deliaco alfabeto hanno un valore sillabico, come gli alfabeti indiani, ed anche il tibetano , ciascuno dei quali segni porta seco, in certo modo incorporata una vocale ,  e forma una sillaba. Ciò che non accade in nessuno degli alfabeti europei, e  neppure nel giorgiano, e nell 1 armeno, che vengono pure delineati da sinistra a  destra. Laonde non pare poi tanto strana V opinione di quelli, i quali pensarono,  che gli Etruschi propriamente detti, fossero discesi in prima orìgine da una  colonia, o emigrazione asiatica. Ma di ciò altrove.   E se i Persiani, ed i Turchi scrivono da destra a sinistra, benché la lingua dei primi venga dalle Indie, e quella dei secondi dalla Tartaria, ciò procede  dall’ aver tanto gli uni, che gli altri adottato i caratteri arabici, ed al tempo  stesso la religione del borano. Quindi tenendo in conto di cosa sacra i suddetti  caratteri, non è da maravigliarsi nè punto nè poco, se essi non abbiano ardito  dì alterarli, nè quanto alla primitiva lor forma, nè quanto alle maniere di rappresentarli colla scrittura. Ché del resto ben diversi riscontratisi gli antichi carat¬  teri persiani chiamati zendici, e pelvici, come assai differenti ritrovatisi, e pel  modo di scrìverli, e perla loro forma, ofigura, quelli dei Tartari.   Ciò premesso o siano stati gli Etruschi i ritrovatori dell’alfabeto che porta il loro  nome, o l’abbiano composto di più antichi alfabeti italici, o V abbiano derivato da al¬  trove, come pare dai nomi stessi che portano le lettere del medesimo, benché sia diffìcilissimo, e forse impossibile a provarsi, per mancanza di documenti sicuri, il come,  ed il quando abbiano ciò fatto-, è peraltro fuor d’ogni dubbio, che i Greci non lo comu¬  nicarono loro, e non furono per conseguenza i loro maestrì.Che anzi è da credere che  sia accaduto tutto al contrario, e che gli Etruschi, nazione mitissima, e potentissima in età molto remote, e quando la Grecia era tuttora barbara, e selvaggia,  1’ abbiano comunicato ai Fenici per via di commercio, e che da quelli passasse  ai Greci, se vogliamo ammettere ciò che sostengono quasi tutti gli antichi scrittori,  cioè, che Cadmo facesse loro il dono del primo alfabeto. Del qual Cadmo scrive  Plutarco nei Simposiaci iib. 9 quist. 5, che quel sapiente pose Z'aleph, o alpha  per prima lettera del suo alfabeto, perchè cosi chiamasi il bue nella lingua dei  Fenìci, il quale animale non è da stimarsi nè secondo nè terzo fra le cose necessarie all’ uomo come pensò Esiodo. Circa poi al grecismo, che s’incontra nell’ etrusco, e nell’Etruria, e circa le arti  greche, che vi si osservano, come ancora in altre parti dItalia, ne parlerò a lungo  in un discorso, che tutto si aggirerà intorno a questa materia, esclusivamente  da ogni altro oggetto. E proverò allora, che l’idioma degli antichi Etruschi è nel  suo fondo tutt' altra cosa che greco; dimostrando ad un tempo, in qual modo, e  questo grecismo sian da dirsi alcune cose eli io riserbo ad un altro ragionamento.   Ma ritornando al titolo del mio discorso, cosa è V alfabeto etrusco? É questo un prodotto indigeno dell’ antica Etruria, o sivvero vi fa trasportato da  altra parte del mondo? E se qua venne da estranei lidi, chi fu mai quel benefico straniero , che fece all ’ Etruria un dono cosi prezioso ? Ed in questa  supposizione, passò egli ai nostri antenati dall’ Oriente, oppure dall’ antica Grecia ? O si compose egli forse degli elementi di più antichi alfabeti italici, o  di questi, e del pelasgo fra loro mescolati, e confusi ? E se vi fossero ragioni  bastanti a dichiararlo prodotto indigeno, a quale epoca rimonterebbe l’ antichità  sua , ed a quale ammettendo che sia frutto straniero , e per qual mezzo pervenne ai padri nostri?   A tutte queste quistiom, che possono opportunamente esser mosse intorno al  tema che ho tra mano, io mi studierò di rispondere, quanto meglio e più con¬  cisamente per me si potrà, e come sarà possibile rispondere, in qusto breve ragionamento, m una materia cosi oscura, e difficile • E circa alla prima quistio-  ne, l alfabeto etrusco, quale noi lo possediamo presentemente, non è certo una  cosa diversa dall antico alfabeto greco, ma sono anzi talmente somiglianti fra  loro, se tolgasi il rovesciamento delle lettere nell’ uno di essi, da doverli giudicare al confronto, senza timore d’ ingannarsi, la stessa cosa-, sia diesi riguardi la forma delle lettere, o si consideri l uso delle medesime, Nè giova opporre  a questa asserzione, la maniera di scrivere degli Etruschi da destra a sinistra,  avvegnaché usavano di fare lo stesso anche gli antichi Greci, prima dell’ età di  Pronapide, che si pretende essere stato il maestro di Omero. Che anzi esser  potrebbe credi io, una tale particolarità, un argomento favorevole agli Etruschi,  per crederli i ritrovatori del loro alfabeto• Al che si aggiungerebbe forza non  poca, considerando l antichità loro, più recondita assai di quella dei Greci.   E più ancora verrebbe avvalorato, e confermato un tale argomento, che gli  Etruschi, cioè, siano stati eglino stessi gli autori del loro alfabeto, riflettendo  che i medesimi continuarono in ogni tempo a scrivere, ed anche sotto la dominazione dei Romani, da destra a sinistra-, lo che non avvenne dei Greci, iquali  cangiarono metodo, e presero a condurre la loro scrittura da sinistra a destra.  Ora è più ragionevole il credere, che il rovesciamento degli elementi alfabetici,  e del modo di scrivere, siasi operato da chi l’apprese da altri, che da chi ne  fù l inventore. E questo rovesciamento di scrittura presso i Greci, vuoisi fissare, come di sopra accennava, ai tempi omerici, o di Pronapide.   A questo argomento però se ne potrebbe, per avventura, opporre un altro, di¬  cendo , ché giusto appunto perchè gli Etruschi scrissero sempre conducendo, e  tracciando i caratteri da destra a sinistra, non debbono riguardarsi come i ritro¬  vatori del loro alfabeto, ma convien credere che lo abbiano ricevuto da qualcuno  dei popoli asiatici, e particolarmente di quelli così detti semitici., ì quali usarono  T-;,-   Per la qual cosa , mi pare che dopo tutto quello che ho detto finqui', si possa  rispondere alle questioni proposte in questo medesimo discorso, che V alfabeto  etrusco non è venuto dal greco, ma bensì questo da quello j che desso non è pri¬  mitivamente indigeno dell’ antica Etruria, quanto ai suoi elementi, i quali furono  quà portati da una emigrazione antica, in tempi tanto reconditi da non poterne  fissar V epoca precisa, e che s’ ignora chi ne fosse il primo inventore, e chi lo  portasse il primo fra noi. Sulla qual primitiva derivazione asiatica dell' alfabeto etrusco, in età da noi remotissime , dettero un ragionamento a parte, che  verrà pubblicato in seguito in quest’ opera stessa. Ciò peraltro non vuol già dire,  che anche la lingua etnisca sia una lingua del tutto asiatica, come la giudicarono  troppo leggermente alcuni filologi, sebbene asiatici si riscontrino l’ antico culto,  e la maggior parte dei riti religiosi, e civili degli Etruschi.   Or qui farebbe di mestieri combattere, e confutare tutte le opinioni contrarie ;  nè io sarei alieno dal prendermi un tale assunto, se i limiti prescritti a questi ragionamenti, nei quali non deve olt repassare , per l’indole dell' opera cui son destinati,  la periferia di poche pagine di stampa per ognuno di essi, me lo concedessero. Non  potendo ciò fare, nel modo che si converrebbe, mi ristringerò ad aggiungere quanto  segue, e mi terrò per ora contento di questo.   Il Cori, il Majfei, ed il Mazzocchi confrontando gli alfabeti punico, e celtibe-  ro, o cantabro coll’etrusco, dicono che vi trovarono minore analogia, quanto alla  forma dèlie lettere, che coll’ ebraico. Il Donati poi che fece la stessa cosa nei suoi  Dittici seguitando le osservazioni, che avevano già fatte prima di lui a questo  proposito, l’ Aquila , Teodozione e San Girolamo, scrive nell’ opera sua intorno  alle iscrizioni, che quelle così dette Cizzie, sono riguardo ai caratteri, mollo simili alle etnische j e lo stesso dice ancora del marmo Sanvicense conservato in  Osford, che vuoisi più antico della guerra troiana, e dei caratteri incisi sulla  lamina bustrofeda di bronzo, riportata dal prelodato Majfei nella sua Critica  Lapidaria, non meno che di quelli sulla colonnetta del Museo Nani di Venezia,  giudicata pelasga-tirrena , benché fosse ritrovata a Mitilene .  Questi monumenti, che si credono tutti scrìtti in greco antico, e per essere questo  mollo simile all’ etrusco, specialmente circa la forma delle lettere, sono stati quelli  che hanno fatto mettere in campo, o convalidare l' opinione di coloro, i quali  pensarono che il greco antico, é l'etrusco fossero la stessa cosa, e che per  giunta alla derrata, la lingua dei nostri antenati sia nata dal greco. Senza  avere peraltro mai pensato a provare, che i Greci, ed il loro alfabeto fossero più  antichi degli Etruschi.   Il Gori,fra gli altri, stabili come un assioma, che la lingua etrusco era greca in  non differiva da quella che nel dialetto, nella quale opinione fu  seguito dal Lanzi, e da altri. Ne si avvidero, nè lui stesso , nè i suoi seguaci,  che i Pelasghi, i lirrem, i Pladani, i Lidii, gli Arcadi, e gli Ausonìi, sono  perchè s J introdussero nell' etrusco, e nèll' Etruria propriamente detta, quel grecismo, e quelle arti. Che in quanto alla somiglianza, ed anche identità dei caratteri etruschi, e greci antichi, sii di che fondarono finora il loro più valido  argomento tutti gli archeologi fautori del grecismo, per asserire che l' etrusco ,  ed il greco antico sono in ultima analisi la medesima lingua, è il più frivolo,  ed anche il più ridicolo ragionamento, che immaginar mai si possa, Avvegnaché,  vale lo stesso che se io ragionassi cosi: gl’ Italiani, i Francesi, i Fiamminghi,  gli Spagnuoli, i Polacchi, i Portoghesi, ed altri popoli d' Europa, come gl'in¬  glesi, i Dalmati, e gli Olandesi, si servono dello stesso alfabeto per iscrivere  le loro lingue, dunque tutte quelle lingue sono la stessa cosa.   Ma quante furono in antico le lettere dell’ alfabeto etrusco, poiché essendone  stati pubblicati finora dagli antiquari fino a tredici, o quattordici, chi ne conta  un numero maggiore, e chi minore ; ed il laborioso, e dotto abbate Lanzi ne  ammette venti nel suo ? Si deve credere che fossero sempre in egual numero ,  oppure che venisse questo accresciuto a più riprese, e ad epoche diverse, come  si narra essere avvenuto dal greco, il quale fù condotto fino al numero di ven¬  tiquattro lettere, benché non ne avesse che sedici nel suo principio ? E non sarebbe questa una ragione di più, onde confermare ciò che accennava poc anzi,  che l’ alfabeto, cioè, facesse passaggio dagli Etruschi ai Fenici, e da questi  ai Greci, osservandosi ancora che nessuno degli antichi alfabeti italici oltre¬  passò mai il numero di sedici lettere? Difatti nei piu antichi monumenti, fra  i quali nessuno vorrà contradire che siano da riporsi gli atti dei fratelli Ar-  vali, non se ne contano che sedici sole.   Di più non trovandosi mai usato l o nelle epigrafi antiche veramente etni¬  sche, riscontrandosi questa lettera fra quelle degli altri monumenti italici parimente antichi, come pure fra le prime sedici dell alfabeto greco, cosi detto  cadrneo, sì può dubitare se gli Etruschi ne avessero neppur tante in principio, e cresce sempre più la probabilità della mia asserzione.   Secondo t enciclopedico Plinio, le lettere dell alfabeto cadrneo furono le seguenti . cioè: ab r a eikamnoiipstt. Alle quali poi ne aggiunse quattro  Palamede, che sono, e 3 $ x. E finalmente Simonide lo accrebbe di altre quattro,  cioè, zìi va. E pare anche ben naturale, come fù pure osservato dall’ erudito  filologo francese Sig. Letronne, che quei primi sedici caratteri siano stati  inventati avanti agli altri, perchè rappresentano i sedici tuoni elementari, o  semplici, ché formar si possono colla bocca umana, sia per intuonazione, o  per articolazione. Mentre gli altri caratteri aggiunti a questi, ed usati negli  alfabeti dei differenti popoli, esprimono, o delle gradazioni di quei suoni prin¬  cipali , o la riunione eli più articolazioni in una sola . Di maniera che ognuno  di essi può essere più, o meno esattamente decomposto nei primitivi suoni  eh’ egli contiene. Che s’è regola di sana critica di non prestar fede agli antichi poeti, in tutto  ciò che narrano di sovrumano, e di misterioso, lo è del pari di rintracciare il  vero anche in mezzo alla favola, che viene giustamente definita dai sapienti, il  velo deila verità, e della storia. Ipoeti dell’ antichità, ché erano più istruiti di tutti  gli uomini dell’età loro non inventarono, come si crede male a proposito, le fa¬  vole, ma bensì adornarono con finzioni la storia . Rimossele quali finzioni, è co¬  sa ben facile di rinvenire la verità, nei più notabili avvenimenti per essi nar¬  rati, e abbelliti.   Cosi la pensava S. Agostino nel lib. della Città di Dio, al cap. i3. E ci av¬  verte il Vossio nell’ aureo suo trattato De fatione studiorum, che non si dicono  favolose le antiche età, perchè sia falso ciò che di essici vien riferito dagli scrit-,  tori, ma perchè la storia di quella ci è pervenuta insieme colle favole mista, e  confusa.    XI.   XII.   XIII.   XIV.   XV.   XVI.   XVII.  XVIII.   XJX.    /u M : oj : ntriq r : oqflj  v/r 3Hfl Jiiffl -1 = q/i  j/r n# j a  san/urn/Mq/i  V/13 : q A : D l   = irnoai  4 /ini AD  Jfìlmq 3E : Am 34t : 44  -1V84flHMI3:3Hiq3®:q/1  4/mmq vo • IHltfl 4 14  : I ?434 : I \IA8  JAMAJll V A'!  vq 1 : U434 .- A» n 33    XX.    4fl mif A4 : Al 3 f   25    tutti popoli anteriori ai Greci, e che trovansi tutti amalgamati cogli Etruschi  nelle età più lontane. Perlochè convien dire che siano gli Etruschi stessi, i quali  portino diverse denominazioni, dalle diverse provincie dà loro abitate, nelle  quali era divisa l’antica Etruria. E come oggi i Fiorentini, i Senesi, i Pisani,  i Lucchesi, ì Magellani, i Casentinesi, e simili, sono tutti Toscani, cosi pure  nei più reconditi tempi gli Umbri, gli Enotrl, gli Aborigeni, e tutti gli altri anno¬  verati di sopra, erano Etruschi.   Silio Italico lib. a. 0 chiama Ausonia la Lombardia. Ed Eliano lib. 8.° della Varia istoria, crede che gli Ausoniifossero i primi abitatori di Italia-, mentre Pirgilio nel io. 0 dell’ Eneide, li confonde con quelli che popolavano questa  bella penisola sotto il regno di Saturno. Servio poi commentando un tal passo,  dice che gli Ausonii furono sì dei primi popolatori cì Italia , ma non già i  primi di tutti, nei soli. Ed ecco perchè alcuni scrittori hanno compreso sotto il  nome di Ausonia tutta l’Italia.   Ora tutti i surriferiti popoli, non esclusi neppure i Latini, che molti autori vogliono che fossero diversi, e dagl Italici propriamente detti, e dagli Etruschi, ripetono la loro prima origine da una colonia, o emigrazione qua venuta dall’Asia, in tempi forse al di là di quelli che da noi son detti storici. Lo che fu negato acremente da altri per la sola ragione di potere stabilire, che i Greci furono i primi  coloni di Etruria, e che vi s’introdussero insieme con essi, le arti e le scienze,  e perfino la cognizione dei segni alfabetici. Ma non potendosi negare, senza offendere il senso comune, che queste regioni erano popolate molti secoli prima che  i Greci le conoscessero per via di commercio, e vi spedissero in seguito delle colonie, conviene di necessità ammettere, che i Greci non furono i primi abitatori  d’Italia, e per conseguenza neppure di Etruria, e molto meno insegnarono loro  a parlare. Quando peraltro non voglia credersi, ché i popoli italici, e gli Etru¬  schi, fossero tutti muti prima dell’ arrivo dei Greci fra loro. Laonde cade, e si annulla il sistema dei fautori del grecismo.   Macrobio infatti ammette un diluvio, non già ai tempi di Deucalione, e di Ogi-  ge, ma bensì a quello di Giano, ch’ei qualifica per primo re di tutta l'Italia. E  Dionisio d’Alicarnasso, che è sempre in contradizione con se stesso, dopo avere  scritto che i Pelasghi furono i primi popolatori d! Italia, che 5oo anni prima di  Giano ne scacciarono i Siculi, e che gli Enotri eransi prima dei Siculi stabiliti  nell’ Umbria, pretende poi di darci ad intendere, e farci credere, che Giano pre¬  cedesse la venuta di Enea in Italia di un solo secolo, e mezzo. Ma se il cosi  detto secolo d’ oro, ossia il secolo della pace, e della giustizia, fu secondo Vir¬  gilio, ed altri scrittori antichi, quello in cui regnarono Saturno, e Giano, que¬  sto non può essere stato posteriore all’ età di Noè, e de'suoi figli, che dietro gli  insegnamenti paterni, calcarono essi pure la via della giustizia, e coltivarono  tutte le virtù sociali.    Etr • Mas. Chius. Tom. I.    3    4     28   nemico se gli Dei, per suggerimento di Nettuno, non lo avessero voluto sal¬  vo 2 . Or non vedi qui pure Achille che tenendo lo scudo lungi da se, pone mano alla  spada ? Non vedi il Tanato che quasi obbrobriato volge il tergo alla pugna col  suo martello sugli omeri, per mostrare che morte non avea luogo in quel con¬  flitto, perchè ad ogni costo dovevasi Enea salvare alla gloria d’Italia? Questo dise¬  gno è una quarta parte del suo originale in marmo d’ alto rilievo.  Qui si mostrano i due laterali scolpiti del cinerario che è nella Tavola antece¬  dente. Nell'uno e nell’altro sono rozzamente indicate due porte, che rappresen¬  tano, credo io, le infernali, alla custodia delle quali stan vigilanti due ministri del  Tartaro. La figura femminile al num. 2 è visibilmente una Furia, come dichiaralo  quella face che regge con ambe le mani; di che detti altri cenni 3 ; la virile col mar¬  tello sugli omeri è il Tanato, altrimenti detto Cliarun tra gli Etruschi \ e confuso col¬  l’Orco, ministro anch’egli di morte e d’inferno, che spesso incontrasi nei monumenti  antichi d’Etruria 5 , e non già tra quei de J Greci, nè de’Romani cosi rappresentato.   La testa eh e nel mezzo, serve per coperchio ad un vaso di terra cotta, di che  dovrò trattare altrove; ora avverto che questa è la terza parte del suo originale : Affinchè I’ urna cineraria già esposta si mostri compita, fa d’ uopo di non  disgregarne il suo coperchio, dove si vede un seminudo recornbente con una patera in mano, nell’attitudine stessa che vedonsi rappresentati gli Etruschi a men¬  sa. Nè la patera disdice a chi cena, mentre vedesi usata a convito dai commensali 6 . La veste che in parte copre il recornbente è detta sindone, pure usata ai  conviti 7. La nudità della persona indica 1’apoteosi, di che altrove dò conto 8 .  Il frammento di scultura segnato in questa tavola, è un tufo tenero, e del  genere di quello notato nelle prime cinque tavole della presente collezione Chiu-  sina. Orchi mai crederebbe, che nella tomba dove fu ritrovato non vi fossero  gli altri frammenti, che ne componevano l’ara intiera? chi crederebbe che que¬  sta sorte di monumenti in tenera pietra arenaria si trovino quasi costante-    1 Id. v. a 85 ,   *8, Id. V. 2 ^ 3 , 294»   3 Ved. 1 * spiegazione della Tav. xm.   4 Monumenti elr. ser. i, p. a 34 -    5 Mono. etr. ser. i, p. 44 » 73 , 74, 264, 284.   6 Ivi, ser. vi, tav. F. num. 2 .   7 Ivi ser. i, p, 395.   8 Ivi ser. n,j>. 628.  Nelle urne di Volterra parventi ripetuto questo soggetto medesimo, ed ivi spiegandolo, avventurai l’interpetrazione di un fatto tebano, del quale io stesso poco  andai persuaso, nè ora saprei meglio dire. Vi suppongo Anfiarao nell’atto d’aver  tagliata la testa di Menalippo, che Tideo, sebben ferito, aveva già ucciso; e gliela  portò, per cui da Tideo medesimo fu commessa l’atrocità di aprir quel cranio, e  divorarne le cervella. In ogni restante ancora son simili queste due sculture,  sebbene men rozza l’urna di Chiusi. Questo disegno è una quarta parte del mo¬  numento originale di marmo in bassorilievo.  Quanto la frequenza delle rappresentanze di avvenimenti ferocie marziali, co¬  me quei della tavola antecedente, fan giudicare l’etrusca nazione d’umor malin¬  conico 3 , altrettanto voluttuosa e molle giudicar si dovrebbe dal presente gruppo che appartiene alla scultura antecedente, per esser quella un’urna cineraria,  questa la di lei copertura . Credo per altro che l’uno e l’altro soggetto non dal¬  l’indole degli Etruschi abbia origine, ma da loro massime di religione, dove dicevasi  che la vita era un irrequieto contrasto, e la morte conduceva ad un vero godimento,  il quale non sapevasi esprimere che mediante la soddisfazione dei sensi 3.  Mentre il fasto orientale sfoggiava in lusso degli abiti, l’EROISMO dei Greci caratterizzavasi col MOSTRARSI A NUDO Tra i guerrieri di questo bassorilievo ne vedi  uno vestito , e in questo caso potrebb' esser troiano, e tra i Troiani credilo ENEA,  che soggiacque a mille peripezzie di grave cimento, senza però mai soccombere , perche gli Dei, per quel che ne dicono Omero \ e VIRGILIO 5 , avean destinato ch’egli regnar dovea sopra i superstiti Troiani, e sopra i figli dei figli, e sopra  quei che appresso erano per venire da loro. Difatti racconta specialmente Omero  che Achille, cosa strana ! si sgomentò nel combattere con Enea, e tenendo discosto  da se lo scudo, cercava di sottrarsi ai colpi vibrati da quell’eroe 6 ; ma poiché  questi a vicenda contrattosi colla persona, e copertosi collo scudo evitava l’assalto  dell avversario ', come nel bassorilievo mirasi espressa la figura che ne occupa la parte media, Achille allora pose mano alla spada, ed avrebbe trucidato <il   1 Monum. etruschi, Ser. 1, Tav. lxxxiii, p. 666. 5 Virgil, Aeneid. ]. ni, y . 97, 98.   2 Ivi, p- 667. 6 Homer. Iliad. 1 . xx, v, 261, 26a.   3 Ivi, ser. v, spieg. della Tav. xlv. 7 Ibìd. 278.   4 Homer. Iliad. lib. xx, v. 307, 3 o 8 .     5o   fu detta di lui consorte. Se consideriamo i due nomi spettanti ai due pianeti Ve¬  nere e Marte, potremo giudicare la figura terza per un Saturno, altro pianeta.  Nè da ciò si allontanano i di lui attributi, poiché ad esso rompetesi, non solo  quella barba prolissa che gli orna il mento, ma eziandio quelle fronde, e ger¬  mogli, o gemme di vegetabili che gli cuoprono il capo, attributi propri di sì an¬  tico nume, non meno che la spada falcata da lui sostenuta '. Queste tre deita  e pianeti possono appellare all j oroscopo di un’ anima che nella stagione di pri¬  mavera passa agli Elisi, di che altrove do più esteso conto a . 11 vaso contiene  altre tre figure che saranno spiegate nella Tavola seguente. Ecco le altre tre figure che vedonsi nel b. rii. del vaso esposto nella Tav.  antecedente. L’interpetrazione dottissima scrittami di esse dal eh. sig. dott. Maggi,  merita d’esser nota preferibilmente a qualunque mia congettura. Egli dichiara  in quel mostro una Gorgone, o un Tanato: in quell’ uomo con testa ferina un  Minotauro: nell’uomo alato che sta nel mezzo un Mercurio. La totalità della com¬  posizione credesi dal dotto interpetre allusiva al tempo nel quale facevansi le an¬  nuali commemorazioni delle anime. Quindi la figura larvata è da esso giudicata  il Male personificato in un mostro, come fecero gli Egiziani del loro Tifone;  mentre credevasi che prevalesse il male all’ entrare dell’ autunno . E questi nel  tempo stesso il Charun degli Etruschi che fingevano orridamente larvato, e di te¬  sta grossa. Indicano quelle mal collocate sue ali che la morte raggiunge l’uomo  ancorché fuggitivo da essa, di che l’interpetre dà ragioni che appagano. La se¬  conda figura è da esso dichiarata per quel Mercurio, che occupato nell’ uffizio di  accompagnar le anime, ha deposti gli emblemi che lo distinguono per ministro  dei numi. Giudica poi la terza mostruosa figura esser il Minotauro allusivo al  centauro o centauri celesti, piuttosto che al figlio di Pasifae; e qui pure dà ra¬  gione in qual modo leghi la dottrina delle anime colle favole dei centauri autun¬  nali. Nota egli che il fiore sia un anemone significativo del sole passato ai segni inferiori, per cui sopravviene l’inverno, vale a dire il male che da ciò risente la  natura, e quindi anche le anime come credevasi,- tantoché quel mostro con testa  gorgonica rappresenta parimente il sole iemale. Gli uccelli sono, a tenore del di  lui parere, siderei, anch’essi spettanti ai segni inferiori, e indicanti la via lattea che  percorrevano le anime nel passaggio loro alle sfere celesti. Da ciò conclude che  tutta la rappresentanza sia una spece di geroglifico significativo dell’autunno, cioè  del tempo in cui le anime dovevan esser suffragate. Egli palesa d’ aver tratta  questa interpetrazione dallq mie opere 3 .   i Bianchini, Stor. universale,cap. li, §x ,p. 84 * >, pag. i8t, lettera al dott. Maggi,   a Inghirami, Lettere di etnisca erudizione, Tom. 3 Lettere cit., p. 174, lettera del Dott. Maggi.   mente mutilati? Eppure è così; nè ciò farà tanta sorpresa, se consideriamo che  anche i vasi fittili sepolcrali si trovano spesso rotti dagli antichi. Sarebbe forse  ella mai una ferale cerimonia liturgica ?   Qui osserviamo ancora un vasetto in pietra arenaria, tre quarti men grande  del suo originale; ed è simile a quei che prima dicevansi lacrimatorii, e che ora si  dicono unguentari 3 , perchè si vedono in mano di chi versa unguenti sul rogo 3 ,  nè questo è dei comuni per la gran somiglianza coi vasi egiziani dell’uso stesso.Notiamo questi recipienti con volgar nome di bracieri, mentre per tali si  tengono quei che sono atti a contener brace, ed insieme i vasi escari, e culi¬  nari. Ma l’originale qui copiato a metà di grandezza, non fu vero braciere, nè  veri escari quei recipienti che vi si contengono, mentre l’uno e gli altri sono di  fragile terra cruda, non atta a resistere l’effetto del fuoco . Io suppongo essere  stati adoprali nei riti funebri i veri bracieri di bronzo detti anche borni, usati  a bruciar vittime, e profumi. Quindi al termine della funebre cerimonia in luo¬  go di lasciar questi nel sepolcro, come lo esigeva il rigore del rito, altri bracieri  di semplice figura, e formalità, perchè di terra non cotta, sostituivansi a quelli.  Il pollo che vi si vede nel mezzo, è consueto simbolo di buon augurio, che  vedemmo altrove 4 . Le varie teste che ornano l’utensile han pur esse il si¬  gnificato medesimo relativo alle anime, come in altre occasioni ho notato*.   Serve la tavola presente a mostrare qual fosse la forma esteriore del bra¬  ciere o escaria, o estia che dir si voglia, la quale vedemmo nella parte ante¬  riore disegnata nella tavola antecedente. Le sfingi e larve che vi si vedono apposte, sono analoghe all'uso ferale di questi monumenti 6 .Questo vaso ch’è una quarta parte dell’ariginale, è della solita pasta nera con  ornati, e figure a bassorilievo i, le quali sono in questo disegno della loro naturai  grandezza, e ne occupano tutto il corpo. Ivi son ripetute tre volte. La prima di esse  figure indubitatamente è un Marte; e in conseguenza la donna che gli è dap¬  presso, quantunque priva di attributi, può credersi Venere, che nella mitologia   1 Museo Chiaramonii Tav. xxv. 5 Pollux. 1 . i, segm. 3 .   2 Paciaudi, Monuoi. peloponues. Voi. u, p. iSo 6 Motium. etr. ser. i, p. aao.   3 V e d. p. ij, 7 V’cd. la spiegazione della Tal. ini. SUL GRECISMO CHE S’INCONTRA NELL' ETRUSCO, SULLE ARTI GRECHE  OSSERVATE IN ETRURIA, E SULL’ ORIENTALISMO CHE RIDONDA  PER TUTTA ITALIA. Era involta l’origine degli Etruschi in ima impenetrabile oscurila fino  dal tempo in cui scrivevano i più antichi storici che noi conosciamo. Lo che fa  certamente gran maraviglia, quando si riflette all’ esteso dominio di quel popolo, sì celebre, e sì potente, che aveva una Casta sacerdotale, e possedeva  tempo immemorabile un particolare alfabeto, ed era più avanzato nella civiltà  di tutte le altre nazioni di Europa. E ciò molto prima dei Greci,  pensino, e ne scrivano in contrario, i dotti compilatori della Rivis a  Lungo. Tutto quello poi, che noi sappiamo della sua susseguente istoria, e c e e  suìistituzioni, non ci è stato trasmesso che dalle nazioni contemporanee , giacche gli scritti degli autori etruschi, sono periti da lunga età. E le loro iscriA  ni scolpite sul marmo, e sul bronzo, non sono finora più intelligibdi per noi, i   quello che lo siano i geroglifici egiziani.   Ma se dunque la lingua etrusco, non è in prima origne la stessa che a  greca antica, con piccola diversità di dialetto, come pretendevano, il Gori, e  i suoi fautori, e più modernamente l industriosissimo Abbate Lanzi, e tutta  la sua scuola. Se i Greci non furono i maestri degli Etruschi, in qual modo,  riprendono quelli di contraria opinione , s J incontra cosi frequente il grecismo  nell' etrusco, e si osservano cosi comunemente le arti greche in Etruria .  ben rispondere a queste domande, sono da premettersi alcune considerazioni,  che verrò qui brevemente esponendo.   Ridonda in primo luogo, nell’ etrusco , il grecismo, per una ragione oppo¬  sta diametralmente a quella predicata , e diffusa fin qui dagli archeologi, cioè,  perchè furono gli Etruschi ad un’ epoca assai recondita, i maestri dei Greci,  i quali riceverono da essi, e dagli Egiziì, le prime nozioni della scrittura, per  mezzo dei Fenici, come altrove accennammo. Questi elementi però non erano in  prima origine prodotto indigeno della Etruria, ma v’ erano stati trasportati da   una più antica emigrazione asiatica. Osservansi poi, in secondo luogo, in ogni parte di Etruria, ed anche nel  resto dell’ antica Italia, gli avanzi delle arti greche, perchè quella vivace, ed  ingegnosa nazione, che aveva il talento e V attitudine di perfezionare , non me- Quando si trova nei monumenti Mercurio che ha sulle spalle un ariete, se gli  dà il nome di Crioforo, e cosi nominavasi la di lui statua venerata in Lesbo,  che avea scolpita Cakmide, a significare ch'era il dio dei pastori, come crede¬  va la plebe, mentre altri asserivano eh’ aveva liberato quei di Tanagra dalla  peste, girando tre volte in forma espiatoria intorno alla città, con un montone  sulle spalle. Ma il vero senso, benché mistico di quell’atto, è la congiunzione del  sole col segno dell’Ariete, per cooperare allo sviluppo della generazione, mediante la quale son rivestite le anime d’utnana spoglia, per cui cred’io che talvolta il  nume vien espresso con lubriche forme. Il religioso cerimoniale degl’idoli portava in fatti che l’ariete o lo stesso nume si rappresentasse nelle patere libato¬  rie per onorare i morti 1 . Questa pittura è nel mezzo d’ una tazza di terra cotta, che ha di più il pregio d’essere scritta, ove peraltro non leggesi che  un saluto di buon augurio ad Erilo Eprìo; K«)oe.   tavola xxxvr.   Di questa muliebre figura non mi occorre dir molto, per esser già nota  mediante l'estese notizie e congetture che ne detti altrove ». Io la giudicai rap¬  presentativa della divinità presso gli Etruschi, giacché ne monumenti de'Greci  non si trova mai, e la dissi una Nemesi Dea ch’ebbe origine in Asia, e perciò munita di pileo frigio, e di doppie ali, onde mostrare la velocità del  suo corso, per cui le si vedono altresì le scarpe. Ha in mano un simbolo eh' io  giudicai allusivo alla natura prolificante w*, »««•//>, mentre gli Etruschi tennero  la narura e la divinità per una cosa medesima. La corona che l’attornia è di  frassine, vegetabile sacro a Nemesi. Tutto il monumento, eh’è uguale in  grandezza al suo originale, è un disco di bronzo assai frequente tra i monu¬  menti etruschi, lucido nella parte avversa, e manubriato in sembianza di specchio;  e poiché se ne son trovati alquanti nelle ciste mistiche, ove Clemente Alessan¬  drino dice esservi stati riposti gli specchi unitamente ad altri simboli mistici,  così li chiamai ordinariamente specchi mistici 3 .    i Monumenti etr. ser. ti, dispregiarsi l'etimologia , quanti 1 ella è sobria, e ragionata ,) comincerò da quelli  delle lettere dell’ alfabeto . 1 quali non avendo alcun significamento in greco , e  portandone uno analogo alla loro posizione,ofigura, o suono, negl’ idiomi asiatici, è ben facile a comprendersi da chicchesia, che non dalla Grecia, ma dal-  l’ Asia derivar debbono la propria origine.   E vaglia il vero: Alpha , per esempio, significa principe, primo, principio, e  sìmili, in più dialetti asiatici, e precisamente in quelli cosi detti semitici, nei quali  si pronunzia aleph , o alepha, e per contrazione alpha, cui pare che fosse dato un  tal nome per essere la prima lettera dell’ alfabeto,   Beta, che viene da beth, betha, suono imitato dal belare delle pecore, e però sempre inalterabile nella sua naturale Semplicità, checche ne ciancino in contrario i grammatici, i quali pretendono di farcelo pronunciare bita, ed anche più  barbaramente vita, vale una sorta di casa, per la somiglianza che ha questa lettera  colla casa stessa, nell’ Alfabeto semitico.   Gamma viene da ghirnel, gamia, gamal, che vuol dire carnelo, ed imita colla sua forma la gobba, o le gobbe di quell’ animale. Cosi delta deriva da da-  leth, o deleth , deletha, e per sincope delta, e significa porta, cui somiglia pure nella figura. E cosi ancora epsilon fu presa dalla he semitica, e trae la sua  denominazione dal suono che si manda fuori nel pronunziarla. La zeta, deriva dalla zain, quasi ziian, che vale un’ arme, perchè somiglia  nella sua forma ad un dardo. E cosi percorrendo l’ intiero alfabeto.   La quale opinione acquista una forza tanto maggiore, in quanto che si osserva, che gl' ingegnosissimi Greci, non hanno neppure nella loro lingua, che  è si ricca, un vocabolo indigeno per nominare la più bella, e la più maravi-  gliosa di tutte le cose create, qual è il Sole. Imperocché la voce , elios, di  cui si servono per nominarlo, non è altro chela pura semitica, el, o eloab, inflessa  alla greca . E significando essa, fra le altre cose, anche Dio nel suo primitivo idioma, si vede il perchè si propagasse ancora in Grecia, come altrove il culto del Sole.   A maggior conferma poi del mio assunto, ecco una serie di nomi, presi qua, è là  senza scelta, ed appartenenti a cose assai diverse fra loro, come a dire, divinità ,  eroi, fiumi, monti, città, provincie, popoli, edifici!, e simili, i quali tutti sono evidentemente orientali, avendo nelle lingue asiatiche, un significato, mentre non ne  contengono alcuno nei linguaggi degli altri paesi. Lo che viene a provare ad un  tempo, che i Greci non sono i ritrovatori della loro mitologia, e che altro non hanno  fatto che foggiare un infinito numoro di ridicoli Dei, prendendo per cose reali ì simboli degli Orientali, e le loro allegorie, e parabole .   ti. facile infatti avvedersi, che Pale, la quale presiedeva alle feste rurali in Italia, e Pallade, che mentre era la Dea della guerra, e delle arti, insegnava la convenevole cultura agli Ateniesi, non sono che un soggetto medesimo, sotto due nomi diversi; ì quali però vengono entrambi dalle voci semitiche, palai , e pillai, che significano, regolare i cittadini , e da pillali, che vuol dire ordine pubblico .   no che l'industria di farsi suoi gli altrui ritrovamenti, mandò a più riprese, come  tutti sanno, colonie in Italia, le quali vi fecero pure lunga dimora. Queste colonie  pertanto, riportarono nelle nostre contrade, più belle, e più gentili quelle arti mede¬  sime, che ne avevano prima trasportate, grossolane, e rozze alla terra natale, i  loro predecessori. Ora, siccome andrebbe grandemente errato il giudizio di colui,  che vedendo un italiano vestito alla parigina, o all’inglese, volesse inferirne, che  quella foggia di vestimento sia invenzione italiana, cosi è di quelli, che tutto voglio¬  no attribuire ai Greci, perchè i monumenti che ci rimangono dei nostri antenati, sentono più, o meno del greco stile , e della greca maniera. Nè vale opporre, che mancandoci le autorità degli antichi scrittori, onde fiancheggiarla, e provarla, fa d’uopo rigettare una tale opinione. Imperocché, ove siamo privi di monumenti scritti, che bastino a provare un assunto di questa specie, è  giuoco forza ricorrere al senso comune, e farsi scudo del raziocinio ; i quali valgono  m ultima conclusione più di qualunqué autorità degli scrittori, trattandosi dei non  contemporanei.   Ora questo senso comune, e questo raziocìnio, rafforzati da un gran nume¬  ro di nomi, ( oltre quelli dell alfabeto, e dei suoi elementi ), di fiumi, di montagne,  di città, di provincie , di divinità, di eroi e simili, ci attestano altamente, e chiaramente ci dicono, che dessi non possono esser venuti che dall’ Asia, perchè sono  asiatici, e tutti ritrovano il loro significamento negli idiomi di quella parte di mondo.  Ed essendo questi medesimi nomi per la maggior parte assai più antichi di tutti i  monumenti, e di tutte le storie che finqui si conoscano , non si può negare di  ammettere, che se asiatici non furono i primissimi abitatori di Italia, e per conseguenza di Etruria, tali però debbono essere stati assolutamente, quelli che  insegnarono agli Etruschi l’arte Ai scrivere, e ne volsero gl’intelletti alla cultura  delle arti necessarie alla vita, e delle utili, e dilettevoli discipline.   E perchè non paia ai nan dotti in tali materie, ed agli imperiti delle lingue  orientali, che io mi tragga dalla propria Minerva siffatte opinioni, così contrarie  alle già invalse, ed approvate dal maggior numero degli archeologi, che  scrissero sull’ Etruria, e sugli Etruschi, è necessario che io venga esponendo,  le opportune prove di quanto asserisco, ai miei lettori. Perlochè, senza veruna  pretensione all' infallibilità delle mie asserzioni, eccomi pronto alla dimostrazione  delle medesime. E tralasciando di riferire in questo ragionamento tutte le tradizioni, non mai interrotte dai tempii più reconditi fino all’ età nostra, le quali  dicono essere stati gli antichi Etruschi nazione cultissirna, e potentissima, mi  ristringerò a quella che c’istruisce aver eglino attinti i primi lumi della loro  civiltà, da una colonia, o emigrazione proveniente dalle parti orientali, che  furono la cuna del genere umano, e di ogni sapere, e non già dai Greci, che  erano a quei tempi, se pure esìstevano , del tutto incolti, e selvaggi.   Venendo pertanto all’ etimologia dei suddetti nomi, ( che non è sempre da  Etr. Mus. Chius. Tom. 1. ^  libio, e Tolomeo, dalbascuenze pitsà, equivalente a schiuma, perchè situata, secondo  Rutilio, vicino al fiume Ausuro , e sull’ Arno, Quam cingunt geminis, Arnus, et Ausur aquis.   Orvieto, chiamato Herbanum da Plinio, prende il nome dalle celtiche voci herd,  e baun che vagliano terra alta. E di là scendendo verso Roma , incontrasi non lontano dal Tevere il lago Vadimone, o all’etrusca Vadimune, oggi lago di Bassano,  alle cui acque attribuisce lo stesso Plinio, fra le altre qualità, vis qua fracta solidan*  tur; la qual salutifera proprietà è significata dalla prima parte del suo nome, chea  vateded equivale in celtico ad utile,proficuo,e simili. Angiunge poi lo scrittore medesi¬  mo che era quel lago riguardato come sacro, perchè sotto l immediata protezione di  non so qual deità ; lo che viene espresso dalla seconda parte del nome ch’ei porta,  cioè, mund, o più dolcemente mun che corrisponde difesa, protezione, e tutela.   Trovavasi poi al mezzodì di tal lago Fescennio, luogo celebre per le sue oscenità , e le quali sono indicate dal nome, essendo gitisi’ appunto licenza, sfrenatezza, il  SIGNIFICAMENTO di quello; e però ne cantarono, Orazio  Fescennina per hunc inventa licentia morena,  e CATULLO, Ne diu taceat procax   Fescennina licentia;   Oltre di che, il celtico wels-hein, latinamente Fescennium, s’ interpetra bosco  di Venere.   Nomina Tito Livio, Fanum Voltumnae, oggi Viterbo , e credesi comunemente  che questa Voltumna fosse una divinità. Difatti il Dempstero la reputa la prima  fra tutte le etnische, e Banier V annovera frale campestri. Ma è da credere che  Voltumna, venga dalle due voci volt e tun, e per questo il Fano prendesse il nome  non già dalla divinità, ivi adorata, ma dal luogo ov’ era posto, poiché significa  colle percosso dal fulmine,o colle fulminato.   Cosi pure, Auno , famoso Ligure, ausiliare di Enea, quando venne a stabilirsi  in Italia, e che trovasi descritto nell'undecimo libro dell’ENEIDE, come paurosissimo  nello scontro colla valorosa Camilla, significa precisamente pauroso, timido in lìn¬  gua armorìca, uno dei dialetti indo-scitici. E Cupavone, che andò pure col suo na¬  viglio in soccorso di Enea, si traduce capitano di mare, come Taro,,f ’interpetra gran  fracasso, o che fà gran fracasso, rovinìo, o danno, ed ognuno di leggeri comprende,  quanto ciò si convenga ad un tal fiume romorosissimo , e precipitoso .   Iasio viene da iasesc, che vuol dire, longevo, antico, e ben corrisponde all’idea,  che ce ne danno ipoeti, come Capi deriva da capasci, uomo libero, traendosi da ca-  pasc, libertà. Laberinto procede da labiranta, che vuol dire torre, palazzo; Tritto-  lemo da triptolem, che vale l’apertura dei solchi, Celeo da celi, vaso, ordigno, mas¬  serizia, e però disse Virgilio , Virgea preterea Celei, vilisque supellex .   Palilie, ossia la festa degl’istituti, e delle leggi, derivada palilià, c he significa l’ordine pubblico, o da peli], che vale moderatore/Iella cosa pubblica, il primo in Isaia,   Penati, è voce che deriva da penisi!, luogo interno, o intimo , e la cui radice è  penàh, che vale penetrare; tutte le quali significazioni convengono benissimo a quelle familiari divinità degli antichi Romani. E Levana deità latina essa pure, è la  medesima che Lucina , la quale sostenta i nati di fresco, e deriva da Jevanàh, che  vuol dir Luna.   La Parca, non è cosi detta a non parcendo, come pretendono i Grammatici, e  gli Etimologisti latini, ma bensì da parech, che vale rottura , perchè tronca essa il  filo della vita; come Cerere, da gheres, spiga matura, e Cibele, da chebel partorire.  Difatti quella prima è la dea delle messi, e viene riguardata la seconda come la  madre di tutti gli Dei . Osservo il Passeri, che Venere, detta Venus dai Latini, era parola sconosciuta  ai Greci, i quali esprimono questa pagana divinità, colle voci Sfpofarv, topo,  Afroditi, o Afaodite, Kipris, Kitereia. E fu per lungo tempo ignota anche ai Romani,  come attesta Macrobio nel primo libro dei Saturnali. Afferma poi Earrone che il notile di questa Dea , non conoscevasi fra gli stessi Romani, nè greco nè latino, neppure  sotto ire. Ed aggiunge Pausatila nel suo primo libro, che era ignoto agli antichi Greci, e che lo aveva trasportato fra loro Egeo dalla Fenicia, e dall’isola di Cipro. Gli  Etruschi però conoscevano benissimo una tal Dea , eia chiamavano Vendra, come  rilevasi da un antico specchio mistico . E la sua origine sente dì ebraico, avvegnaché, ben-thara vuol dire figlia del mare perchè tbara significa umidità, dal qual  vocabolo fecero i Grecite, tharas figlio di Nettuno. Quindi furono dette Tbarso  quasi tutte le città marittime, e tarsisc, il mare, il lido, un porto. Dalla stessa voce ben, che si cangia spesso in ven, per le regioni a tutti note, furono composti molti nomi di Dee, come quello della Bendit degli Sciti, di Bentasicima figlia di Nettuno presso Filostrato, ed altri.   Nè vennero da una sola parte, e nomi, e riti, e costumanze asiatiche in Etruria,  ed in tutta Italia, ma per più e diverse vie: peri oche non da un solo linguaggio asiatico  trar si debbono le spiegazioni dì questi nomi, ma da più, e diverse lingue, e dialetti di  quella famosa contrada. Quindi tutti i celtici, e tutta la gran famiglia degl’ idiomi così detti indo-scitici, possono esser messi utilmente a contribuzione, come altra  volta accennammo per la retta intelligenza dell’ etrusco, e per interpelrare gli antichi monumenti del nostro paese-.Dal che viene a dimostrarsi , che il dotto, ed acuto  padre Rardetti, non aveva poi tutti i torti, di che altri volle troppo leggermente aggravarlo . Ma riprendiamo la nostra disamina. LIGVRIA, nome di quel tratto di paese, detto la riviera di Genova, fu cosi  detta da Liguria voce bascuenze,che vuol dir soave. E si formarono probabilmente da  questa, il verbo latino, ligurire, che significa mangiare soavemente, o mangiare cose soavi, e il nome greco liguros che vale anche soave.   Pisa, cosi chiamata , o per la figura dell’ antico suo porto, che si trarrebbe da pi*  se ,che vale in dialetto lidio porto lunato, o se fu detta Pissa, come la chiamano Po -  II NUDO idoletto in bronzo che in questa Tav. si espone davanti e da tergo,  nella grandezza medesima dell’originale, con altri similissimi a questo, sparsi pe'mu-  sei, forma soggetto di mature, ma non per anche fruttifere riflessioni degli archeologi , che se per un lato vi ravvisano una gran somiglianza coi monumenti egiziani  da far sospettare che sian idoli venuti d’Egitto in Etruria, atteso specialmente il  costume e f acconciatura anteriore e posteriore de’capelli; dall’altra non concepiscono come gli Etruschi abbian potuto ridursi a mendicare manifatture d’Egitto,menti'’ erano essi medesimi famigerati artefici; nè la storia ci addita in conto veruno un  traffico simile tra le due sì disgregate contrade. È vero che Strabone veduti i lavori  d’ambedue le indicate nazioni, li giudicò di un medesimo stile, simile a quello dei  Greci antichi ma par ch’ei ciò riferisse allo stile dell’arte, e non al costume delle  figure . In qualunque modo peraltro si volesse risolvere l’obiezione, qui non sarebbe  luogo opportuno di estendervi. L’altro bronzo che rappresenta una fiera testa di lupo, servì probabilmente per  ornato nel manubrio d’ un arme da taglio. Ebbero gli antichi una singoiar cerimonia religiosa, alla quale davano il nome di  Jettisternio, consistente in un convito che si faceva nel tempio, o nel sacro recinto,  dove si apparecchiayano le mense ed i letti, perivi stendersi i devoti che lautamente mangiavano in onor degli Dei, ma vi si preparavano ancora altre mense ed  altri letti, dove si deponevano le statue dei medesimi numi, a’quali porgevan vivande, come se fossero stati realmente Ior commensali =. È dunque probabile che il presente rudere antico facesse parte d’un di que’Ietti che preparavansi per le statue, i quali  si potevano usare a tal uopo di qualunque grandezza. L’ornato stesso di un seguito di  figure tutte ugualmente recombenti, con tazze in mano, come stavasi a mensa, fan sospettare delbanalogìa di rappresentanza coll’uso accennato del rudere, ch’èdi pietra  arenaria, una terza parte maggiore del presente disegno. Lo stile a parer mio  si mostra imitativo piuttosto che ingenuo d’un’ antichità non poco lontana.  É già noto all osservatore il nome e l’uso di questo mobile, per le ta¬  vole antecedenti, al cui proposito dissi che \non veri foculi, ma figure di   ì Monum. etr. ser. m, p. 4 oi.   a LIVIO 1 . v, § 1 3 . Laurent, de prond.et coena vet, c. zi, conviv. vet. c. 4 *  cap. 28 , il secondo in Giobbe cap. 3i. E Pamilie, festa che veniva dopo la raccolta,  ed il cui significato e 1 uso moderato della lingua , da dove s introdusse presso i Greci il costume di fare esclamare e rivolgere al popolo le parole «pi« yWoias tamnete  glossas. cioè , troncate le lingue, astenetevi dal parlare, derivansi da pa-mul, la bocca  circoncidere, o da pamylah, circoncisione della bocca. E siccome era questa una  ottima lezione morale per rendere gli uomini sociabili, e felici, così tutte le piccole  società dei congiunti, o d’altre persone che vivono insieme, furono dette fatniliae, e  da noi famiglie.   Camilla è voce pretta etrusca, dicono Servio, e Festo, e significa ministra degli  Dei . Sia pur vero, ma in idioma orientale significa un tal nome, ciò che dissero i  Latini serva a manu; o filia a rnanu , giacché cam vaia mano, ed bill figliolanza ,  come osservò Eccardo al titolo 23 della Legge Salica. E filia a manu, o serva a manu  e una espressione convenientissima alle giovinette , che metter dovevano le mani in  cento cose, essendo destinate a servire. Tarconte , autore secondo le favole di Tarquinia, fratello di Tirreno, o disceso  da lui, che sopraintese a dodici città, il che non è bagattella ,fà secondo la verità  storica un valoroso soldato, che avendo difesa la sua gente, venne denominato lo scudo 5 tale essendo ilsignificamenlo del gallico tarcon, o dell’armorico targad.   E finalmente, Tages , o Tagete, che narrano esser saltato fuori fanciullo, dalla  terra che sfavasi arando, che fu alla nazione etrusca il primo maestro delVaruspicio,  che il senatore Buonarroti lo ha creduto espresso nella tavola 45 fra le aggiunte al  Dempstero, non può venire che dalla voce asfcia, tag, la quale significa giorno. E pare  che gli Etruschi volessero fare intendere con questa figura, o parabola, che i giorni,  p come noi diremmo il tempo, aveva loro insegnato l aruspicina, o l'arte di antiveder  l avvenire. Avvegnaché di simile parlare figurato , sono ripiene le pagine degli  scrittori sacri, e profani. Dei quali basterà nominar qui, tralasciando gli altri, David,  Pindaro, Tullio, e VIRGILIO. E siccome dice lo stesso Pindaro che le ore avevano insegnato agli uomini molte  delle antiche arti, così poteva secondo gli Etruschi, aver loro il giorno insegnato  l aruspicina-, Imperocché scrive il prelodato Tullio, che opinionutn commenta  del etdies, naturae iudicia confirmat; E Virgilio cantò,   Turne, quod optanti, divum permittere nemo  Auderet, rolvenda dies en attullit ultro. Domanderò ora ai dotti, se dopo la spiegazione da me data a tanti nomi  dei quali potrebbe estendersene il numero per centinaia , e migliaia, sia possibile  che una fortuita combinazione, possa rendere così ragionevolmente corrispondenti i  loro significati, agli usi, ai tempi, ai luoghi, ed alle circostanze degli oggetti per  essi indicati.    4 °  va spossato di forze; e incontro a lui, come narra Omero i Troiani e gli Achei  si tagliano a vicenda gli scudi e le targhe i 2 ». Il berretto asiatico, del quale il  recombente è coperto in questa tavola, mostra più manifestamente che altrove la  sua qualità di Troiano, e perciò mi confermo nel crederlo Enea. Gli altri corpi  che vedonsi rovesciati a terra, fan fede che il fatto accade in un campo di battaglia; e nel tempo stesso più che bellezza, dà merito al monumento quella ricchezza di lavoro, che ne’tempi dell' arte in decadenza preferivasi al bello, che n’è il  vero pregio. La ricchezza colla quale vedemmo decorata di scultura l'urna cineraria in marmo,  il cui disegno è stato presentato nella tavola antecedente, tre volte più piccolo  della di lei grandezza, non potette appartenere che a persona qualificata e facoltosa.  Ciò si verifica nell'osservarne il coperchio in questa tavola disegnato, sul quale riposa  un giovine riccamente vestito, decorato di onorifiche insegne, quali sono principalmente l’anello e la corona di alloro che ha in mano, il torque che gli orna il còllo ,  ed un ricco balteo che dall' omero sinistro gli scende al destro fianco. La corona che  ha in capo non è di semplice onore, ma gli spetta come recombente a convito: posizione che viene affermata dalla tazza che ha in mano, come usa chi sta a mensa.  É stato ragionato dagli antichi di una guerra delle Amazzoni, la quale ha non  poco del favoloso 3 , come lo prova inclusive la diversità colla quale è narrata, ma  nella varietà della favola v’è gran concordia tra i mitologi per introdurvi i cavalli 4 .  Or poiché veri combattimenti antichi a cavallo non si conoscono descritti dagli autori de’tempi omerici, o poco dopo, così non resta che quel delle Amazoni, o con  gli Argonauti 5 , o con gli Ateniesi 6 , che incontrisi nei monumenti, come approvato  tra le rappresentanze dell’antichità figurata. Dunque intendo di calcar le massime  consuete spiegando il presente bassorilievo per un Amazone equestre, la quale com¬  batte con un militare a piedi, sia pur costui un eroe degli Argonauti seguaci di Ercole, o un Ateniese del seguito di Teseo. La Furia con face in mano è spesso introdotta  nei combattimenti anche dai tragici greci 7. L’urna cineraria in marmo originale  misura quattro volte questo disegno. La semplicità dello stile caratterizza questo bas-    i Iliad. cit., v, 45 1.   a Inghirami Galleria omerica, Iliade Tav. lxxiv,  Monumenti etr. Ser. in, p. 23 1   4 Diodor. Sic. 1 . iv, cap. xvi.    5 Monum. etr. Ser. cit. p. 2 43  6 Ivi p. 234.   7 Ivi, Ser, 1. p. 269, 3 i 6 , 477 » 534 » 5 ^ 9 »  568 .  3 9   essi erano quei che si trovavano entro le tombe di Chiusi, perchè essendo  di terra non cotta, potevan soltanto servir per figura in qualche sacra cerimonia 1 2 . Ecco pertanto in questo disegno uno de’ veri foculi, o thimiateri  qualora questo braciere sia stato in uso per cuocer vittime, percb’è di bronzo, e  per ciò capace a resistere all' azione del fuoco, siccome anche i vasi e gli al¬  tri arnesi da cucina, che vi si trovarono dentro. Anche la sua grandezza eh’è  due terzi maggiore di questo disegno, attesta della capacità d’essere stato ado-  prato. L’indefessa gentilesca superstizione ci fa supporre, che non a caso fosse  un tale utensile ornato dal Capricorno, ripetuto nei quattro suoi angoli, mentre  ogniun sa che quel celeste segno fu oroscopo di fortuna, che tennero per loro impresa Cesare Augusto, l’imperatore Carlo V, e Cosimo I Granduca di Toscana 3 4 .  Quell'animale vi sta dunque in luogo del gallo che vedemmo nell’altro foculo già rammentato. La forma di questo foculo di terra nera e non cotta permette che se ne osservino  distintamente i vasi da cucina e da tavola ivi contenuti. Le replicate teste d’ariete  ivi affisse, nonlascian dubbio che il vaso non sia fatto espressamente per uso sacro,  ed allusivo a Mercurio; il quale presedeva alle libazioni, come il mediatore delle preci  che gli uomini porgevano ai numi 4. Oltredichè ci è noto, che alle anime, come anche  ai numi infernali, facevasi olocauso d’un ariete di color nero 5 ; ed io vidi a questo  proposito vari bassi altari nel museo etrusco di Volterra, ornati di teste d’agnelli, come il foculo qui esaminato. In un bassorilievo trovato a Chiusi, ove sembrommi di vedere il medesimo soggetto che nel presente, all'occasione d’averlo dovuto spiegare, scrissi quanto appresso. « Quando Venere e Apollo ebber sottratto Enea dalle furibonde armi del prode  in guerra Diomede, allora Febo immaginò di lasciar combattere a sazietà i Troiani  coi Greci, sostituendo ad Enea l’idolo, 9 1’ ombra di lui 6 . Questa poetica immagine  del combattimento di due partiti per un fantasma, fu cara oltremodo agli Etruschi,  mentre ne vediamo la rappresentanza in diversi dei lor cinerari, dove si osserva  il simulacro d’Enea caduto a terra per la percossa del sasso gettatogli da Dio¬  mede, in atto di cercare una qualche difesa nella trista situazione in cui si tro-   1 Ved. Tav., VIRGILIO, Aeneid, 1 . vi. v- 2 4 L Varrò ap. Geli.   2 Inghirami, Im, e R. Palazzo Pitti, p. 88. !• iu, c. 11.   3 Ved. Tav. xxxi. 6 Ilomer Iliad. 4 Monuin. etr: ser. n, p. mostra in questa Tavola il disegno rappresentatovi, non potea meglio esprimere in  esso un tale avvenimento, poiché dipinse Peleo qual destro giovine preparato alle  nozze, in atto di tenere stretta la ritrosa Teti, che quasi è per coprirsi ’J volto col ve  lo per l’onta di quell'atto. Peleo eseguì ciò per consiglio di Chirone divenuto il di  lui suocero con quelle nozze. A lui davanti Peleo conduce la sposa, quasi che gli do¬  mandasse assenso della unione maritale, mentre il centauro coll’atto di stender la  mano dimostra l’annuenza paterna dell’imeneo. È superfluo il sospettar ch’altra favola  sia rappresentata in questa pittura fuor che quella di Peleo e Teti davanti a Chirone,  mentre lo attestano le iscrizioni che vi si leggono setie teaes kipos, e quindi un no¬  me proprio di Nicostrato coll’aggiunto consueto nikoztpatos kaaos. Le figure qui riportate son alte la metà di quelle che vedonsi nella pittura del vaso originale, che ha  fondo nero , con lettere dipinte in bianco appena visibili. I vasi che han la forma come il presente sogliono avere altresì tre manichi, ed  una sola fronte ornata a figure; questo a differenza degli altri è dipinto da due parti,  una delle quali è descritta nella Tavola antecedente, f abra, che dir si potrebbe la  parte opposta del vaso, a causa della inferiorità della esecuzione del disegno, è la qui  delineata, ed il vaso tracciato sotto di essa è poco più della decima parte dell’originale, in fondo nero con figure rosse. 11 vecchio calvo che sta nel mezzo a due donne  in atto di correre o di ballare, è tema comunissimo anche ad altri vasi. Ma in uno  di essi, per quanto appresi da S. E. il principe di Canino esimio possessore e cogni-  tore di tali pitture, uno di essi, io diceva, manifesta con epigrafe il nome del vecchio  Tindaro, dal che si dedurrebbe essere una delle donne la figlia Elena danzante con  una delle sue compagne nel tempio di Diana, dove fu rapita da Teseo, e portata in  Atene: tema che ora m’avvedo essere più chiaramente espresso nel vaso che io inserii  nell’opera dei Monumenti Etruschi, e che dissi allusivo al corso degli astri a , e  che ora maggiormente confermo per la relazione di quel ballo e di quel ratto con la  guerra dei Dioscuri onde riprender Elena, con altri simili tratti di quella favola, i  quali non significano in sostanza che un continuo levare e tramontare degli astri 3,  e delle combinazioni loro con la luna: nome che in greco porta con poca varietà anche Elena Selene da sto» la risplendente, e aiUn la luna. La figura di questa Tavola è dipinta nella grandezza medesima in una tazza di  terra cotta con giallastro colore su fondo nero, il cui aspetto ha tutti i segni del sati—   1 Ser. v. Tav. ix. 3 Ivi, ser. n, p. 4 g 8 . 2 Ivi, ser v, p. 87, li 4 , 4 Ivi, p. 567. sorilievo non distante dai buoni tempi dell’ arte; e se la figura equestre compa¬  risce alquanto piccola, fu condotto a sì ingrata licenza lo scultore nel volervi  introdurre delle figure a piedi e a cavallo protratte ad un'altezza medesima, e  che tutte empissero il fondo sul quale son collocate. Prima di coricarsi a mensa usarono gl’italiani dei primi tempi di Roma di spogliarsi de'propri abiti, e prendere un manto che dissero veste cenatoria o sindone,  colla quale in parte avvolgevansi e in parte potean restare a nudo, per aver le braccia più libere all’azione di prendere il cibo,- e così coperti dieevansi dai latini semi-  amidi, ma quell’uso fu abbandonato e non tardi, ond’è che da Erodiano fu addotto  come affettata imitazione delle antiche statue Di tal costume par che serbi memoria la figura della Tavola presente che giace sul coperchio,spettante all’urna in marmo che antecedentemente abbiamo veduta. Dell'iscrizione sarà dato conto a suo luogo. Il vaso che qui si mostra un terzo più piccolo dell' originale, è di que’soliti di  terra nera che si trovano a Chiusi, nè potrassi mai supporre che siano d’altra  fàbbrica fuori della chiusina, poiché oltre la terra nera e non cotta che vi si adopra-  va più che in altre officine, hanno essi vasi certe forme, una delle quali è la presente, che mostrano un carattere del tutto originale ed unico, sì nelle sagome, sì  negli ornati. Accenna Omero essere stata volontà degli Dei,che Peleo togliesse Teti per moglie, quantunque Dea; mentre quell’eroe non avrebbe volontariamente aspirato ad una  unione sì eminente. Apollodoro ne spiega più minutamente il successo, e dalla di  lui narrazione par che abbia origine questa pittura. Era fama che Giove unitosi con  Teti, da cui restò incinta d'Achille, ne procurasse 1’ imeneo posteriore con Peleo,  quantunque mortale 3 . Quindi soggiunge Apollodoro, che il centauro Chirone consigliò Peleo ad impadronirsi della ninfa divina con sagace destrezza, nè lasciarla andare, per qualunque forma ch’ella avesse presa . La insidiò difatti Peleo, e quantunque la Dea si trasformasse in acqua, in fuoco, ed in bestia feroce, egli ritennela  finché non ebbe ripresa la di lei primiera forma di ninfa. Il pittore del vaso di cui si    i Monum. Etr. ser, i, p. 3^6. 3 Scol. ap. Heine lliad.H-imer. lliad. Elr. Mas . Chius. Torti. I. ragionamento   y  SUGLI ETRUSCHI  Disputarono lungamente frà loro gli scrittoli, come abbiamo accennalo, intorno all’ origine degli Etruschi, e fabbricarono su questo soggetto tre sistemi diversi. Volevano, per esempio, alcuni che eglino fossero un popolo uscito dalla Grecia, ed una colonia di Pelasghi, mentre sostenevano altri che erano Lidii, e veni nano  dall’ Asia, ed altri finalmente affermavano essere i medesimi originarli di Italia.  La quale ultima opinione è ragionevolissima, e noi la crediamo la vera.   I moderni poi hanno superato gli antichi nel numero delle ipotesi, e dei sistemi-.  Imperocché il Maffei,col Mazzocchi, ed il Guarnacci, li fanno venire dalla Fenicia,  il Buonarroti dall' Egitto, il Pelloutier, il Bardetti, ed il Frerst, dai Celti. Li crede Guglielmo de Humboldt I anello di comunicazione frà i Latini, e gl’ Iben, laddove Niebuhr riguarda la Rezia come la primitiva lor sede. Ed in fine il Mailer suo  discepolo, adottando un termine medio, ammette un popolo primitivo di Etruria,  eh’ ei chiama Rase ni con Dionisio d Alicarnasso, e sulla cui origine lascia la qm-  stione indecisa, benché creda d’ altronde, che questi Raseni si mescolassero coi Pe¬  lasghi, qua venuti colle loro colonie di Lidia.   Ora questa moltitudine d’ipotesi antiche-, e moderne, da altra causa non possono  cèrtamente procedere, che, oda troppa leggerezza, e precipitazione nell’ esaminare i  monumenti dei nostri padri, o da impremeditato sistema in coloro, che ne presero a  scrivere, o dal più nocivo di tutti i sistemi, V amore di parte. Per poco infatti che vi  sifaccia attenzione, e si vogliano mettere alla prova, non è difficile a chicchesia di accorgersi, che q.essuna di quelle ipòtesi, e nessuno di quei sistemi, contiene elementi che  bastino a diradare il buio che involge le cose etnische, ed a spiegare, anche probabilmente i monumenti che ci rimangono di quella illustre nazione.   Scegliendo peraltro da ciascuna di quelle ipotesi, e da ognuno di quei sistemi, ciò  che vè di più ragionevole, e di più giusto, e formandone un insieme, vi si troverà, se  il giudizio nostro non và errato, quanto fà di mestieri, per portar piena luce e spiegare  con ogni chiarezza, e senza replica, tutto quello checi rimane di etrusco. Stabiliremo dunque frattanto, che furono gl’Etruschi un popolo particolare d’Italia, indigeno di questa bella penisola, che ebbe, com è naturale, una lingua sua propria; la quale non è la. Stessa che la greca antica,, come dimostrammo nel precedente  ragionamento, e che anzi ne differisce mollissimo, anche per sentimento del prelodato  Mailer. Col quale aggiungeremo, a conferma di quanta asseriamo, che inori>', dei loro  ro: orecchie ircine, barba prolissa,naso simo e coda di cavallo. L'otre vinaria ove stassi assiso è pure suo speciale attributo. L’iscrizione letta come qui rappresentasi, poco  giova ad intenderne il significato panaitios iupos kacos . Non oso farvi emenda,  mentre non avendo io veduto il monumento, non posso nè asserire, nè porre in  dubbio se questa sia la vera lezione. Quando non vogliasi azzardare il supposto  che la terza lettera dell’ ultima voce sia nell’ originale un p, per cui avremmo  due volte ripetuta la voce bello, come in altri esempi si vede, potremmo  almeno pensare ad una omissione dell’asta che del c ne dovea formare unir, e  la voce significativa di pernicioso potrebbe alludere al vino, quando n’è fatto abuso.  Nè nieu dubbie si mostran le altre voci, a meno che vogliansi leggere ««<05  che sarebbe un saluto al dio Pan l’autore della universale natura. Ma tali  dubbie iscrizioni debbonsi a mio parere consegnar colle stampe alle indagini di  quelli ellenisti che in particolar modo si occupano dei vasi dipinti e scritti.    Epigrafi tratte dal museo Oasuccini, come le altre venti già stampate, scolpite in urne di travertino,  o segnate in urne di coccio.     VI :fì\u il AH : 43 :4flHfYf =   fln-iq/iDvnas : ma : qd   >-  tv   -7   bifidi) : dfiUfVf: V13M : lllfttqfi : 04   :4fi0qfl4 : dfidfVf : liHblqfi : 43   #filflfiOmfiq ; invddfi : O4   >  /in fio   Doppia epigrafe    4fi    Sopra il coperchio    filfin8dV3  Nell’ orlo del coperchio  Iffifliqa : ignqfiq : 04    XXVII.    Jfi 1 -r fi    sic om  131 : lantqfi : I O q fi 4    xxvin.    fiinvi-nai : firmo   filflfl031    6 *  46   il nome di quei nuovi coloni, e non quello dei primitivi alitanti. Imperocché , trovandosi, prosegue lo stesso Mailer, nella Tavole Euguhine, la parola Tursee, con  quelle di Tuscom , e di Tuscer, è impossibile di non conchiudere, che dalla radice  Tur si sono fot mali Tursicus, Turscus, e Tuscus, come dalla radice Qp, derivaronsi Opscus, ed Oscus; Di maniera che Tuprìvoi o Tv eP moi e Tusci, non sono che le  forme asiatiche, ed italiche di un solo, e medesimo nome •   Che del resto, un argomento per noi fortissimo, atto a dimostrare oltremodo remota la civiltà degli Italioti, e singolarmente degli Etruschi, ricavasi pure da tutti que¬  gli antichi scrittori, i quali parlano della cosi detta Confederazione etnisca residente a Fiesole, e da tutti quei Gronólogisti, che ne fissano lo stabilimento a lobo anni  prima dell’era volgare ; dei quali vedasi, fra gli altri, il Sìg. de Long-Champs,  nei suoi Fasti universali. Lo che ci fa credere che gli abitanti dì questa regione,  avessero già acquistale fino diallora, non ordinarie nozioni di politica teoria.   Ed infatti, benché la voracità dèi secoli, e più ancora la feroce ambizione , e  la crudele prepotenza romana , ci abbiano invidiate le storie etnische, ed anche la  maggior parte dei monumenti di quel popolo celebratissimo. Benché la vanità senza limiti dei Greci, sia venuta, per giunta alla derrata, ad involgerne di puerili, e RIDICOLE FAVOLE, perfino il nome, non che le azioni dei nostri antenati, per quella loro  presunzione stoltissima , di far credere che tutte le altre nazioni del mondo, non furono nulla , in paragone di loro; esistono pure tuttavia in Etruria delle costruzioni,  che gli eruditi chiamano Ciclopèe , perchè non hanno il carattere, nè fenicio, nè egizio, e che sono per conseguenza indìgene , le quali sfidano da quattro mila anni  a questa parte,gl’insulti degli uomini e gli urti del tempo, e stanno a conferma di  quanto asserimmo qui sopra, circa la suaccennata civiltà, e straordinaria potenza,  ed energia degli Etruschi . E tali sono, fra le altre, le mura di Volterra, e di più  altre città dell’ antica Etruria, le quali sono formate di enormi macigni, senza alcun  cemento, resi fermi soltanto dal proprio peso-  Mal epoca della colonizzazione, della quale parlammo di sopra, non si può fissare che per approssimazione. La quale peraltro credè il Mùller, già citato più volte,  che coincida colla emigrazione dei popoli, e che fosse cagionala, e prodotta da quella,  e se la ragiona cosi- Gli Umbri, dice egli, e lo ripetono pure i compilatori di  Edimburgo, erano potenti nella contrada, di cui presero possesso i nuovi coloni. I  quali ebbero a sostenere lunghe, e sanguinose guerre, prima di spossessarli delle  trecento città, che eglino occuparono, al dire di Plinio lib. terzo, cap. decimo nono,  nel paese che fu più tardi chiamato Etruria. E poi fuori di ogni dubbio che gli Etruschi si estesero dalla parte del Mezzogiorno, fino alle sponde del Tevere, ed anche al di là nel Lazio, come lo prova  il nome di Tusculo, o Tusculano. E dietro le tradizioni popolari, quello stesso  Tarconte, al quale si attribuisce la fondazione delle dodici città di Etruria, condusse anche dodici colonie al di la degli Appennini, e vi gitlò le fondamenta di Dei, non sono quelli che s' incontrano presso gli Elleni, e che trovatisi nelle dottrine  dei Sacerdoti Etruschi, molti punti, affatto diversi dalla greca teologia. E ripeteremo  ciò che altrove dicemmo, che la sorte, cioè, di questa nazione, pare che fosse quella di  essere debitrice dei suoi primi progressi nella civiltà, non ad una tribù greca, o mezza  greca, siccome crede lo stesso Mailer, e con esso lui i dotti compilatori della Rivista  di Edimburgo ; ma bensì ad una emigrazione asiatica, più antica dei Greci medesimi  come abbiamo assento, ed in parte ancora provato nel precedente ragionamento. Nè punto esiteremo d affirmar qui, che la lingua etnisca, o ella non fu mai  scritta nella sua purità primitiva, e scevra di ogni mescolamento di stranieri vocaboli,  o se pure lo fu in lontanissima età, non è fino a noi pervenuto alcun monumento scritto, il quale ce ne possa far fede. E ciò sosteniamo con tutta franchezza, perchè quelli  conosciutifinqui, sono tutti composti, senza veruna eccezione, di un rnescuglio di voci, prese ad imprestito, per la maggior parte, da ognuno di quegli antichissimi linguaggi, e dialetti, che nominammo nei ragionamenti già pubblicati in quest' opera  stessa. Di che daremo una sicura prova in altro discorso a questo solo scopo diretto. Sul proposito però dell' essere, o non essere gli Etruschi una tribù greca , o mezza greca, è molto curiosa la novelletta che vanno ripetendo, il prelodato Mùller, e  con esso ancora i surriferiti Compilatori della Rivista edimburghese, ove dicono  che i Toscani attribuivano eglino stessi, nelle loro nazionali leggende, la propria  civiltà alla marittima città di Tarquinia, e nominatamente a Tarconle. I quali due  nomi altro non sono, secondo essi , che due variazioni di Tirreni . Ma questa è una  greca invenzione, ed anche di moderna data, in confronto della remota cultura degli  Etruschi, ed è similissima a tante altre dello stesso calibro , dai medesimi Greci accreditate, e spacciate per fatti, intorno all’origine di tutte le più celebri nazioni dell’antichità . Ed aggiungono i medesimi autori, che sbarcarono precisamente a Tarquinia , e colà stabilironsi da prima, quei terribili Pelasglii di Lidia, i quali porta¬  vano seco le arti, e le scienze, che avevano già apprese o nella patria loro , o nei loro  viaggi -, credendo di poter cosi conciliare maggior fede al loro racconto circa la  primitiva civiltà degli Etruschi. Al venir dunque di si fatti coloni, secondo quell' eruditissimo prussiano, e quei  dotti inglesi, vide per la prima volta 'questo barbaro paése, degli uomini coperti di  bronzo, equipaggiarsi a suono di tromba per la battaglia. Udì allora per la prima  volta , l acuto squillo della tibia lido-frigia , accompagnare i sagrifizii, e fu testimone della rapida corsa delle galere a cinquanta remi,   Siccome però la tradizione passando poi di bocca in bocca , non conosceva più  limiti, cosi tuttala gloria del nome toscano, anche quella che non apparteneva prò-  priameiife ai coloid, si attaccò a Tarconte discepolo di Tagete, o d e ! tempo, come  dicemmo nel precedente discorso, riguardandolo quale autore di urlerà novella, e  migliore, nella storia di Etruria. Ed i popoli vicini, vale a dire , gli Umbri, ed i  Latini ; diederq a questa nazione, che incominciò allora ad accrescersi, ed estèndersi    Nè credo che allia torlo il MiMer, attribuendo alla preminenza di questi  ultimi sul mare inferiore, la mancanza delle colonie greche, sulla costa setten¬  trionale della Sicilia, ove al tempo di Tucidide, non eravi che Lnera. Il timo¬  re degli Etruschi, chiuse per lungo tempo ai Greci, il passaggio dello stretto di  Reggio- E non avvenne che dopo V epoca in cui ebbero acquistata i Focesi una  potenza navale, che fu dato loro di esplorare entrambi i mari.   Ma la rivalità non tardò molto a manifestarsi frà i due popoli, i quali cércarono  d'impadronirsi dell’ isola di Corsica . E gli Etruschi uniti ai Cartaginesi, disfecero  i Focesi. Furono pero meno fortunati nelle loro guerre marittime coi Borii di Guido  e di Rodi che avevano formalo uno stabilimento a Lipari.   Finalmente 474 anni avanti Gesù Cristo, il popolo di Ciana in Campania, avendo  dichiarata la guerra ai Tirreni, chiamò in suo soccorso Gerone tiranno di Siracusa ,  che li disfece completamente, e liberò, dice Pindaro nella prima Ode pizia, la Grecia  dalia schiavitù. E difetti uno scudo di Bronzo trovato nelle rovine di Olimpia, porta questa iscrizione = Gerone, figlio di Dimmene, ed i Siracusani, hanno  consacrato a Giove queste spoglie dei Tirreni vinti a Clima = . Ammesso pertanto che furono gli Etruschi un antichissimo popolo d’ Italia  originario dello stesso paese, conchiuderemo questo breve ragionamento, colle  riflessioni seguenti.   L° Che di necessità ebbero essi, linguaggio, usi, Leggi, costumanze, arti, scienze, e  religione loro particolari, e proprie, benché dovessero i primi progressi nella civiltà ad una emigrazione asiatica, in un epoca quasi impossibile a stabilirsi con  precisione.   Il.° Che per conseguenza, fra le altre cose , che qui per brevità si tralasciano , i  vasi dipinti di terra cotta, come quelli neri, ed altri, di qualunqueforma, e grandezza,  siano essi aretini, o chiusini, o campani, sono genuinamenee etruschi, e non altro che  etruschi. Benché sia piaciuto agli Archeologi di chiamarli vasi greci, e più modernamente ancora italo-greci. Le quali denominazioni hanno dato loro quei dotti ,  perchè vi si scorgono, come pure nelle urne cinerarie, e nei sarcof agi, disegnate e di¬  pinte, o scolpite, a basso , e a gran rilievo, rappresentanze, o storie e favole greche;  ovvero che tali divennero dopo essere state prima etnische, e perchè vi si leggono parole greche, o che alle greche somigliano. Come se non potessero essere nel mondo due  diversi idiomi i quali abbiamo alcuni vocaboli comuni ad entrambi. Conforme fu sa¬  gacemente osservato, dal dotto, e perspicace sig. principe di Canino apag .20 del suo  Museo Etrusco. Campani poi faron detti, eziandio tali vasi, perchè se ne fabbricavano . e se ne trovano nella Campania, che fu pure colonia etnisca, come si dicono  chiusini, ed aretini, da Chiusi, e da Arezzo, ove esisterono speciali fabbriche dei  medesimi. E sul proposito del sig. principe di Canino, sono assai dispiacente di non aver  letto prima d’ora quel suo dotto e giudizioso lavoro, perchè avendovi riscontrate al-   altre dodici città. Lo che serve a trovare che l Etruria della valle del Pò, fu  colonnizzata dall' Etruria del Mezzogiorno. La. medesima tradizione di dodici colonie, viene ripetuta sul proposito dello  stabilimento degli Etruschi in Campania-, Ed il Miiller suppone che quelle colonie fossero realmente etnische, contro , l’opinione di Niebuhr suo maestro, il quale pensa che elleno fossero fondate dai Pelasghi Tirreni, confusi cogli Etruschi, a  cagione dell’identità del nome. In ogni caso però, sembra allo stesso Miiller, che la popolazione etrusco della  Campania, non debba essere stata molto considerabile, perchè vi prevalse il dialetto Osco, e perchè non si è mai trovata in tutto quel tratto di paese, una sola  iscrizione veramente etnisca. Laonde convien credere, prosegue egli, che quel  fertilissimo paese, immerso nel lusso, e nella mollezza, esercitasse la sua fatale influenza sugli Etruschi, che vi si erano stabiliti, mentre furono obbligali ad abbandonare il possesso delle ricche pianure di Capua ai Sanniti, colà discesi dalle loro  montagne.   Io non saprei qui sottoscrivermi all’opinione del dotto archeologo prussiano,  sembrandomi troppo debole la ragione che egli adduce, per ìstabilire che fosse piccolo  il numero dei coloni Etruschi della Campania, quella cioè del dialetto Osco rima¬  stovi dominante, poiché potrebb’ essere ciò avvenuto anche dall' avervi quegli ospiti  soggiornato per breve tempo , oppure da un riguardo che poterono benissimo avere i  Vincitori verso i vinti. Di che abbiamo avuto un esempio noi stessi nelle nostre contra¬  de al tempo dell’ Impero francese. E certamente gli Etruschi, non erano cosi feroci,  come i Romani, i quali ebbero l’inumanissimo orgoglio di togliere perfino la lingua  ai popoli che avevano l’infortunio di cadere sotto il loro giogo di ferro : ( checché  ne cantino in contrario ifanatici loro lodatori .) E se è permesso di paragonare le  grandi cose alle piccole, quando sono dello stesso genere , dirò in appoggio della  mia supposizione, che anche i Chinesi soggiogati già da piti secoli dai Tatari Mant-  sciu, hanno conservato, e conservano tuttavia dominante il proprio idioma, benché  soggetti ad una dominazione straniera. Oltre di che, viene ad accrescersi la forza del mio ragionamento , riflettendo che era ben facile, e naturale il conservare nella Campania il linguaggio del paese, altro non essendo il medesimo, che un dia¬  letto della lingua Etnisca.   Sembra poi cosa provata , e da non controvertersi, che i Tirreni dopo il loro sta¬  bilimento in Italia, esercitassero per lungo tempo la pirateria, e che si rendessero così famosi nelle pianure della Grecia, ma è peraltro assai difficile a decidersi, se una tale accusa debba applicarsi a Tirreni del mare Egeo, oppure ai  Tirreni Etruschi', I quali possedendo dei buoni porti sui due mari, conservaronsi la dominazione dell’uno, e dell' altro, e si resero formidabili, non solamente alle navi mercantili, colle loro corsare, ma eziandio alle altre potenze, coi loro  navali armamenti. A molti sarà nuovo ed inatteso questo singoiar monumento,- ma non a chi ha  scorsa la mia Opera su i Monumenti Etruschi ove alla ser. VI, e precisamente alla  Tavola G5 ne ho dati a luce due inediti, nè finallora da nessun altro mostrati, In  seguito si videro esibiti ripetutamente nelle Opere del eh. dot. Dorow '. Io dissi di  quelli, come pur di questo ripeto, esser vasi di terra nera, al cui orifizio è soprapposto per coperchio un capo umano, ed a suo luogo spiegai come que’recipienti dovean simboleggiare il mondo, ed il capo sovrimpostovi la divinità che Io governa  dall’ alto de’cieli \ Ma poiché questa specie di vasi trovasi nei sepolcri, cosi potremo  credere che i soprimposti capi rappresentino deità speciali, cosicché se avrà barba  un di essi, come quello che pubblicai altra volta 3, si potrà dire un Bacco infernale,  mentre nel presente monumento dov’ è un capo imberbe, ed alcune protuberanze  che dan segno di petto femminile ravviseremo una Proserpina. Se il vaso qui esposto  avea ceneri umane, di che non posso giudicare dal solo disegno ch'io vedo di questi  monumenti chiusini, in quel caso direbbesi che le braccia, avvingendone il recipiente,  indicano il patrocinio che la divinità dovea prendere di quel morto ritornato nel caos della materia mondiale. Dico tuttociò brevemente perchè in queste materie mi  sono esteso altrove abbastanza. Qui aggiungo l'osservazione che molti vasi uguali a  questi, ma in pietre di varia specie trovatisi nei sepolcri egiziani e in gran parte anche dipinti nei papiri, nelle casse e nelle pareti delle tombe; e dai capi che hannovi  soprapposti di forme varie 4, si ravvisano per figure delle principali deità egiziane,  Questo vaso in terra nera è due terzi più piccolo dell’ originale. È tuttavìa non risoluta questione se figure simili alla presente, cioè che abbiano  lunga barba, corona in testa, abito lungo fino ai piedi un manto sugli omeri con vaso  in mano, ed attorniate da sermenti d’edera o di vite, è questionabile, io diceva, se dir  si debban figure di Bacco o d'un qualche di lui sacerdote.È altresì cosa degna d’osservazione che l’occhio qui eseguito, non come dalla natura umana si mostra, è poi disegnato precisamente come si vede nelle figure de’ vasi di Grecia di Sicilia , e di  tutta 1* Italia meridionale, ove trattisi di pitture che affettino qualche arcaismo nel  loro stile, e specialmente ove le figure sono come qui di color nero sul fondo gialla- 1 Dorow , Voiage archeologique dans V a °cienne  xbtrurie avec xvi Planches. 1 Voi. io 4 -° P-  46, Paris. 1829. Notizie intorno ad alcuni  Vasi. Etruschi Pesaro 1828 in 8.°.   2 Monumenti Etruschi, ser. 11, p. 47 1 2 > ser. v f    p. 490» ser - Vi* Tav. G 5 , p. 4 ^.   3 Ivi, ser. vi, Tav. G 5 num. 1, 3 .   4 Ivi * ser. vi, tav. N4, num. 1 , e P4. numm.    1 , 2.  cune opinioni, che mi paiono le più giuste, e ragionevoli in questa materia, e le quali  si accordano con quelle da me emesse nei precedenti ragionamenti, mi sarei fatto un  dovere di render nolo al Pubblico molto prima, quanta sodisfazione io ni abbia di  trovarmi d'accordo con un uomo di tanto ingegno e di tanta dottrina . 0 Che si avvicina al delirio l'ostinarsi ancora a voler credere opere greche i  suindicati vasi, perle sopra esposte ragioni, e perchè se ne rinvennero alcuni persino nell' Attica, ed in altre parli della Grecia, i quali sono peraltro in piccolissimo  numero, in confronto a quelli discoperti in Etruria , e nelle altre parti d'Italia. Ed  una tal foggia di ragionare, è simile a quella di chiunque osservando per T Italia, o  in Francia dei lavori di porcellana della China, e del Giappone, pretendesse di stabilire, che quei lavori sono italici, o francesi, solo perchè si trovano in Francia, ed  in Italia.   IV. ° Che non è meno strano, per non dire assurdo il pretendere di togliere agli  Etruschi l’ onore di tali manifatture, per farne dono ai Greci, perchè s‘ incontrano  molti dei suddétti vasi che hanno elegantissima forma, e sono disegnati pure, e dipinti con un gusto squisito. Quasiché gli Etruschi non avessero fatto che comparire  sulla faccia del globo terrestre, e ne fossero subito scomparsi. Oppure, avendovi di¬  morato per lunga serie di secoli, lo che non hanno saputo negar loro neppure i più  furiosi partigiani dei Greci, fossero stati poi forniti di tale, e tanta stupidità, da  non saper migliorare, ed anche condurre a perfezione, le loro invenzioni, come fanno  tutti i popoli del mondo  Che non si vorrà sostenére finalménte, che le arti non pvesserò presso gli  Etruschi, come presso tutte le incivilite nazioni, che le coltivarono, diverse epoche, cioè  quella della primitiva rozzezza, qxiella del miglioramento, e quella della perfezione,  come quelle del decadimento, e della successiva barbarie. Nè saprei addurre, per rivendicare questa usurpazione fatta dagli archeologi ai nostri padri, più bella prova,  e più convinciente ragione dì quella prodotta dallo stesso signor Principe di Canino,  apag. ig dell’opera citata qui sopra. Cioè, che i vasi dipinti non sono sicuramente  greci perchè i Greci stessi non se ne sono vantati giammai. Ed è ben gloriosa per gli  Etruschi una tele invenzione, conforme riflette pure il prelodalo scrittore, perchè furono essi i primi ad iscoprire colla meditazione, e colle più profonde indagini, che per  eternare le tradizioni dei popoli, più del marmo, e del bronzo, è valevole Iùmile  terra cotta, perchè ella sola passa a traverso alla fuga dei secoli senza altera¬  zione veruna .  jflniiia : 3 n iq 3©  or  248v8    in gran travertino che serviva di porta ad un sepolcro   amq&o : ofl  janqoai    Etr. Mus. Chiut. Tom. I.    7    52   ha sulle spalle, e come questo riferir si debbe all’autunno l'accennai spiegando altri  vasi chiusini analoghi a questo   , LVI. Le quattro tavv.LlII, LIV, LV, LVI sono impiegate a mostrare un bel monumen¬  to di pietra tofaceadella figura d’ut) cubo, della grandezza due volte maggiore del  disegno qui ripetuto, e che mostra quattro lati scolpiti con figure a rilievo assai basso, come sono gli altri monumenti di simil natura trovati a Chiusi. Io  non saprei dire se ara sia questa, oppure altare, o foculo, o base, o altr'oggetto  qualunque, perchè non vedendone io che i disegni non posso da essi giudicarne con fondamento. Esaminiamone le sculture che si vedono in quattro lati del  cubo. È fuori di dubbio che qui si tratta di riti funebri, e d'ultimi uffici di pie¬  tà resi ad un morto, che vedasi steso sul feretro alla Tavola LUI. Il fanciulletto  eh’ è in piedi presso a quel letto di morte ha un tale atteggiamento di dolore,  che non saprebbesi meglio immaginare dal più sagace dei nostri artisti, brattan¬  to c’insegna che tenevasi per atto di duolo il porre le mani al capo. Infatti nel  quadro medesimo compariscono due altri astanti colle mani portate al capo ugualmente, ma ben si ravvisa che l'atto è suggerito più da formalità che da quel vivo dolore che esprime IL GIOVANETTO PROBABILMENTE FIGLIO DELL’ESTINTO, di cui qui  si rappresentano l’esequie. Un simile atto, e da uomini similmente abbigliati, è  pure nella pietra di memoria perugina da me pubblicata *, ove rappresentasi ugualmente la funebre cerimonia che praticasi all’ occasione di un morto. Espressiva  è parimente la prefica a capo al letto, in sembianza di strapparsi per dolore i  capelli, mentre ì’uonio che al cadavere è più vicino, alza le mani probabilmente  per espressione pure di dolore, mista però di sorpresa. Una figura eh’è ultima nella composizione, suona le tibie con certa bocchetta che legavasi agli orecchi o al capo in giro. Un tal suono in occasione di funebre cerimonia non credo che andasse esente da superstizione tuscanica, passata ai Romani ancora, mentre credevasi di poter porre in fuga gli spettri coll'armonia della musica 1 2 3 , e  così allontanare quelle malie dalle quali avevano opinione che le anime restassero consacrate alle deità infernali 4 : superstizione peraltro che manca nel monumento perugino indicato.   Dietro al tibicine alla Tavola LIV vediamo quattro uomini armati di bastoni,  che in mano di Etruschi non è improbabile che siano augurali, ancorché non    1 Lettere di etnisca erudizione. Tomo i. p. 190.  e seguente Tav. xi.   2 Monumenti etruschi, ser. vi, tav. Za, e Lanzi   Della Scultura degli antichi e vari suoi stili   Tav. ìv. 3 Ved. Luciano pitato dal Ma ilei nella sua me¬  moria sulla religione dei Gentili nel morire ;  Osservazioni letter. Tom. 1, art. ìx.   4 Tacito, Annali 1 . 1. ap, il Mafie! cit. p. 5i   stro 1 2 . Una tale osservazione unitamente con altre può essere di non poco rilievo  per indagare l’origine primitiva dell’uso di porre siffatte stoviglie dentro i sepolcri.  A chi ha buon gusto peri lavori di metallo sarà gradevole il conoscere la forma  singolare e del tutto nuova non men che bella di questo vasetto di bronzo, disegnato nella grandezza medesima dell’originale. Apparentemente dovea contenere  de’ liquidi, e perciò l’intelligente artefice operò per modo che tutto vicorrispondesse  l’ornato. Ecco là un uccello aquatico sopra una pianta quadrifoglia palustre, il che  serve di pomo al coperchio: ecco là una conchiglia lacustre che serve di borchia a!  manico : ecco là infine i lunghi manichi formati in guisa di colli d’uccelli aquatici  come del becco loro nel quale han termine si rav visa. Il vaso di terra cotta di color rosso che vedesi rappresentato nella parte superiore  di questa LII Tavola, è già noto per la frequenza colla quale si trova nelle collezioni  di simili antichi oggetti. Par che i Gentili 1’ usassero per lucerna; ed alternativamente  colle lucerne trovasi difatti nei sepolcri, ma in esso valutavano anche la forma di  barca e di recipiente, alludendolo a certa favola d'Èrcole eli’ebbe in dono del sole un  vaso, col quale varcò l'Oceano. Come poi si applicasse al vaso qtìi esposto l’indicata  favola è cosa inutile ch’io lo ripeta, dopo averne sufficientemente parlato nell’ opera  de’Monumenti Etruschi % dove ne ho riportati alcuni di varie forme. L’iscrizione  che è sul manico suole indicare il figulo, o la fabbrica figulinaria.   Il Vaso al disotto in questa medesima tavola è di que consueti chiusini di color  nero sì nella superficie che nell’interna sua pasta. Questa qualità di vasi aver suole  dei bassirilievi, che girano attorno ripetendosi ogni quattro o sei figure, perchè fatti  colle stampe. Bisogna convenire della gran somiglianza tra quella manifattura, e le  cose egiziane. Vedo nella prima figura femminile l’atto d’alzare un’uccello, così nelle  figure egiziane dei calendari vediamo elevare per la testa, o calare al basso tenuti per  la coda animali, che indicano il sorgere o calare abaco dei segni zodiacali. Dell’uomo  che segue con bastone in mano io non saprei dir cosa che avesse inoppugna¬  bile sostegno. Ben potrò dire che a lui segue la chimera colla doppia testa di leone  e di capra, ch’io mostrai altre volte 4 esser composto di segui celesti. E poi  chiaro il centauro qual cacciatore, che porta la preda appesa al suo frassine che    1 Moni;memi etr. Ser. v. Tav. lv, p. 5i   2 Ser. li, p. 359, 36 i , 3 62.  3 Ivi ser. vi, Tav. E 4 , F^.   4 Monurn. etr. ser. w, p. 38 a. Vogliamo credere che nella statuetta in bronzo qui rappresentata di naturai  grandezza sia da riconoscersi una Minerva per 1’ usbergo del quale vedesi armata? Del piccol mostro pure uguale in grandezza all’originale in bronzo, non fo  parola, poiché probabilmente dagli editori di quest’opera ne saran pubblicati dei  simili, ch’io vidi vari anni indietro a Chiusi.   Il vaso è de’soliti che trovansi per tutta 1 Italia meridionale, con figure giallastre in campo nero, la cui gola soltanto a una pittura che vedremo nella tavola seguente, mentre è monocromo, ed ha tre manichi, d una forma essatta-  mente ripetuta molte volte coi medesimi accessori nei ricchi scavi di Canino, e  d’altre parti d’Italia. Io non mi persuado come il mito delle Amazoni combattenti, sì ripetuto nei  vasi fittili di tutta l’Italia, come si vede in questo, non abbia una qualche allusione religiosa, come ho supposto trattando altre volte questo medesimo soggetto.  Si vedono in fatti sempre come qui le Amazoni a cavallo , ed i loro avversari sempre a piedi, ed in positure di soccombenti al conflitto, colle ginocchia piegate.  Eppure se alle favole che trattano delle Amazoni dovessimo ricorrere per Spiegarne il mito, noi le troveremmo sempre vinte o da Ercole, o da Teseo, o da  Achille . Io non vedo in quel mito che 1’ allegorìa del contrasto e del dominio  del tempo in cui si trattiene il sole nei segni inferiori del zodiaco, ma siccome  troppo lungo sarebbe il mostrar qui di tale allegorìa lo sviluppo, così rimando  chi legge ad altri miei scritti, ove trattai lungamente di questa materia a .   Questa è la pittura del vaso, la cui forma vedemmo nella Tavola antecedente,  e che vien riportata nella grandezza di due terzi del suo originale.   xxxi. /uif/mDajmjaa   xxxii. jfliDnaD : an/d-nit/ìi : Yfl   xxxm. i/ìvjad anfl-uitfl'i ; or   xxxiv. j/qnqai ; vJDfi : ofl   XXXV, V433 : J lf d   Galleria Omerica Tom ii,Tav cLxxxvni.p. 137.VJlDfl : 31 : Vfl   Veil. Mommi, etr. agli articoli A magoni.  abbiano la forma di lituo, come osservansi nel monumonto perugino. Infatti ad  essi spettava il presagire che l’anima del defonto fosse passata in luogo di riposo;  di che se non troviamo prove di antichi scrittori, certamente ne conosciamola  pratica presso gli Etruschi, per mezzo del più volte citato monumento perugino,  dove inclusive il vestiario di quegli auguri muniti di lituo è simile a quello di  costoro che qui hanno in mano le verghe, eh' io dissi augurali. Dopo gli auguri vengono immediatamente nella Tavola LV le prefiche, donne prezzolate che a  suono di tibia cantavano lamenti, e piangevano la perdita del morto ed in modo sconcio e forzato strappandosi le chiome e perquotendosi, mostravano cordoglio di quella disgrazia. Quel che sia rappresentato nell’aggregato di figure della  Tavola LVI non mi è possibile il dichiararlo nè mi è concesso d’ azzardare quelle  congetture che può immaginare a suo grado ugualmente chi l'osserva.   tavola evie   Questo bronzo in tutto uguale al suo originale fu anticamente uno specchio  dall’opposta parte, come lo attesta lo specular pulimento che vi si trova. Qui  nel suo quasi insensibile concavo, invece di grafito ha soprapposta una lamina  cesellata a bassorilievo, e in fondo una cerneria, forse adattata all'adesione del  manico.   lo vi ravviso Bacco, il quale ha sulle spalle una face, che tale vedrehhesi qualora fosse intiero il monumento, poiché ve ne sono altri esempi 3 . Egli si appoggia ad un altro nume significativo della forza creatrice dalla quale dipende Bacco  il demiurgo artefice del mondo, che il trae dal disordinato e tenebroso caos per  virtù concessagli dal creatore, e vi porta luce con la sua face, non men che ordine armonico, indicato da quella ninfa che precede i suoi passi , arpeggiando  la lira: cosmogonica rappresentanza che in cento guise ripetesi nei monumenti antichi, e della quale ebbi luogo di trattare altrove 3 ,  Sebben questa bella tazza sia di bronzo, pure se ne usavano dagli antichi anche  di terra cotta d ugual forma e lavoro, come si vedono in Volterra nel museo del  pubblico, ed in quello del Sig. Cinci. Il disegno qui esposto è soltanto un terzo  minore del suo originale. Il pezzo aggiunto lateralmente fa vedere l’acconciatura di testa ch’è dalla parte opposta del recipiente.    i Fest. in sua voc. Lecil. Sat. xxn.   » Monum. etr. ser. vi, Tav. Y, n. i.    3 Ivi, ser. ii, p. 563 , 564 , 6oo, 728, ser. v,  p. 3 a,, ser. vi, Tav. Y, n. 1 .  W'     Principe di Canino, ed altri già se ne conoscevano, dissotterrati a diverse epoche,   ed in luoghi diversi . ,  Diodora Siculo poi descrive nel libro quinto, dietro Possidonio le mense degli  Etruschi imbandite due volte al giorno, le loro drapperie ricamate , le loro coppe eli  oro , e d’argento, e le loro falangi di schiavi. Al cui quadro aggiunge Ateneo nuovi  tratti, e. mostrano chiaramente le figure giacenti nei sarcofagi, che gli aggiunti di pmgues, ed obesi, dati dai Romani per isclierno agli Etruschi, non erano suggeriti dal¬  la malizia nazionale soltanto. E Roma prese ad imprestito dall'Etruria i combattimenti dei gladiatori, benché sembri che l’uso orribile d’introdurli nei conviti, e nei  banchetti, appartenga sopratutto agli Etruschi della Campania, e specialmente a   quelli di Capua. Altrìbuisconsi però agli antichi Etruschi anche alcune invenzioni nella musica, e  singolarmente rapporto agli strumenti di essa, poiché non havvi autore, ch'io mi sappia, il quale pretenda che questa nazione abbia discoperto qualche modo particolare  di tale scienza, benché le venga accordata in essa qualche celebrità , egualmente che  nella plastica ; E non già come piace ai compilatori della rivista edimburghese, perchè e Aino erano vicini ad un popolo, il quale essendo estraneo ai Greci, era costretto  ad imprestar loro tuttociò che riguardava il miglioramento, o l'abbellimento della vita pubblica, e privata , mentre avvenne appunto il contrario. Benché non si possa decidere dietro alcun monumento storico, se dovessero gli  Etruschi a se medesimi, oppure al commercio che ebbero coi Greci, dopo che già le  arti erano giunte ad un certo grado di perfezione fra loro, i successivi progressi, fatti  dai medesimi nella scultura, e nella statuaria, pur tuttavia ciò che dicemmo in altro  ragionamento intórno all’anteriorità degli uni, o degli altri, rende quest'ultima supposizione molto probabile. Ma egli è però certo, che se questo rapporto esistè per  qualche tempo fra gli Etruschi, ed i Greci, non fu mai dì una grande intimità. Lo stile toscano nelle arti presenta sempre qualche rassomiglianza con quello deoli Egiziani-, E le opere più perfette di questa nazione , hanno tutta quella durezza, e quella mancanza di vita, e di espressione, che qualificano la scultura greca, anche prima che Fidia accendesse la sua immaginazione alle descrizioni omeriche di  Giove, e di Minerva, e che avesse Prassitei e espresso col marmo l'ideale ch’egli si  era fatto della bellezza. Lo che prova essere stati i Greci i perfezionatori, e non gl'inventori di quelle arti che si dicono belle ; E viepih si conferma che i medesimi furono  in antichissimi tempi i discepoli degli Etruschi. non già i maestri, come pretendono  i nostri grecomani.   Al contrario, in tutta quella parte dell arie ove il meccanismo senza vero gemo può  mungere alla perfezione, gli Etruschi non la cedono in verun modo ai Greci stessi,  biella maggior loro raffinatezza. Ed un poeta Ateniese riferito da Ateneo nel primo  libro dei Dipr.osqfisti, celebra le opere etnische in metallo, come le migliori m tal  genere ; Facendo egli probabilmente allusione alle coppe, alle lampade, ai candela-  QUALI FOSSERO LA VITA POLITICA, E DOMESTICA, LA RELIGIONE ED IL GOVERNO DEGLI ETRUSCHI, E QUALI ARTI,  EGLINO COLTIVASSERO PRINCIPALMENTE   Ma chi pensasse il pone sieroso tema,   E 1 omero mortai che se ne cerca, Noi hiasmerebbe, se sott’ esso trema.   Caute Par. c. 23 -  -=-x jgj>    1\ on è certamente agevole impresa quella di ritrarre i costumi domèstici di un popolo, che non ha trasmesso alla posterità veruna immagine di se stesso nelle produzioni letterarie. E tali appunto sono gli Etruschi, della cui prosperità nazionale  pare che sia stata la primaria base l'agricoltura, che veniva si ben favorita dal loro  suolo, e dal loro clima, e che sembra avere in ogni tempo fiorito in questo paese,  quando i benefizii della natura non sono stati distrutti da un cattivo governo,  o da una assurda Legislazione, Tuttavìa però , non ha mai goduto V Etruria  centrale, come la Campania, di una spontanea fertilità. Fu d'uopo ognora che  spiegassero i suoi abitanti la loro industria, e la loro destrezza, per adattare la  cultura alle diverse qualità del terreno, che s incontrano in questo paese, e per  arrestare le mondazioni del Pò nelle provinole che circondano l Adriatico, e che ne  furono parte nei tempi antichi. I primitivi costumi degli Etruschi erano semplicissimi, se vogliamo credere alla storia, la quale ci dice che la conocchia di Tanaquilla fosse conservala lungo  tempo a Roma nel tempio di Sanco ; E pare che un passaggio di Giovenale nella satina sesia, ci mostri la stretta rassomiglianza che passava fra le virtù domestiche  delle donne romane degli antichi tempi, e quelle delle donne etnische. Nè ciò desterà  maraviglia a chi sappia, che i primi abitatori dì Roma, non eccettuato il suo fondatore,  non furono altro che Etruschi, della cui energia, e del cui nazionale carattere, formano al parer mio una sufficiente prova, le grandi loro conquiste, la loro destrezza,  ed il loro coraggio nella navigazione.   Ma quando il commercio, e la conquista nelle parti meridionali d’Italia, ebbero  condotto la ricchezza fra loro, gli Etruschi se ne impossessarono coll’avidità di un  popolo mezzo barbaro ed il lusso invece d‘ introdurre fra essi il raffinamento, e l’eleganza delle maniere, non vi portò che un vano splendore, ed un gusto disordinato per  ì sensuali piaceri, come rilevasi anche dalle pitture di alcuni vasi, delti male a proposto italo-greci, dei quali ne ha discoperti un gran numero nei suoi scavi il signor  La forma del governo etrusco, ove riunivansi l’ aristocrazia , ed il sacerdozio, impedì efficacemente al genio di quella nazione, di prendere lutto il suo naturale sviluppamelo. Imperocché ai Lucomoni, ossia alla nobiltà ereditaria, aveva rivelato  Tagete, ed il tempo, gli usi religiosi, che si dovevano osservare dal popolo, col potere  di Applicarli nella maniera che paresse loro la piti propria aperpetuare il loro monopolio esclusivo, e tirannico-, E per rapporto poi al potere civile, formavano questi  medesimi Lucomoni il corpo governante di tutte le città di Elruria. Nei primi tempi  si parla di re, non già dell’ intiero paese, ma bensì di stati separati, ed il cui potereera senza dubbio limitatissimo da quello dell’ alta aristocrazia-, E questi re senza potere, spariscono ben presto intieramente, come più tardi nella stona greca, e romana-,  Mentre che in Etruria , non sorge alcun ordine corrispondente ai plebei, per rappresentare V elemento popolare della Costituzione.   E molto difficile di poter fissare con esattezza i privilegi del gran corpo della Casta  potente-, Ed il Miiller inclina per l'opinione, e mi pare eli abbia dato nel segno,che i coltivatori fossero i servi dei proprietarii del suolo, come furono in tempi a noi piu vicini  i Penasti in Tessaglia, e gl Iloti a Sparta. É cosa certa difatti, che esistesse una classe  simile in Etruria, ma non è però probabile eli ella comprendesse una gran parte della  popolazione, non essendovi altro argomento, al quale appoggiare questa, ipotesi con¬  trastabilissima, se non quello che i clienti di Roma fossero servi dei Patrizn. Tuttavia  però è fuori di ogni dubbio che l aristocrazia etrusco teneva gli ordini inferiori in una  dipendenza politica, e che per questo non pervenne quella nazione, al grado di potenza, a cui avrebbe potuto giungere-, Ma la sua prosperità prova ad un tempo che  non era governata neppure affatto tirannicamente. Non sembra nemmeno che l’agitasse lo spirito della democrazia, fino al punto di risvegliar dei timori, ed eccitare la severità della casta governante. Le insurrezioni di cui parlano gli storici, sono attribuite espressamente agli schiavi.   Era l'antica Etruria fertile di grani, e particolarmente di quel farro che i Latini  chiamarono far, ed anche odor, la cui farina forniva il puls, che noi diremmo polenta,  o polenda e che era l’ordinario nutrimento degli abitanti di questa parte d’Italia. Il  ferro delle sue miniere, e specialmente quello dell Isola d'Elba era celebre per la sua  purità-, E forniva pure la stessa isola anche del rame per le monete, e perle opere di  bronzo, tanto comuni fra gli Etruschi. È poi molto probabile, anche secondo  il Miiller, che eglino facessero un commercio di ambra, che loro venisse dal  Settentrione.   Il precitato Miiller, che è come abbiamo detto uno degli Scolari di Niebuhr,  và discutendo con moli acutezza nell’ opera sua, la natura dei rapporti che esisterono  nei primi tempi di Roma, e fra i Romani, e gli Etruschi. E si accorda col suo maestro  a preferire alla tradizione che fa di Servio Tullio unfiglio di schiavo I origine etrusco  di quel principe , menzionato dalli Imperatore Claudio nel suo discorso sull’ammissio¬  ne dei provinciali nel Senato, il cui testo fu discoperto nel secolo decimo sesto in taòn, ed ai tripodi, e simili, giacché discopronsigiornalménte alcune di tali opere  egregiamente eseguite.   Si spiega però facilmente la differenza che incontrasi fra le opere degli Etruschi,  e quella dei Greci col carattere della religione dei due popoli. Imperocché la religione  dei Greci conti Univa potentemente al perfezionamento delle arti plastiche, ove quella  degli Etruschi, in ciò che le appartiene in proprio, non ha niente che risvegli, e che  trasporti V immaginazione dell’ artista. Pare anzi che ella favorisse efficacemente una opinione, che noi ritroviamo del pari nella teologia dei popoli settentrionali, ed in  quella degl’Indii, ed è questa: che gli Dei erano eglino stessi, come pure il sistema,  al quale presiedevano , gli effetti di un potere che non iscorgevasi che a lunghi intervalli nella produzione degli esseri, e che assorbiva tutto ciò che aveva crealo, per  crearlo di nuovo. I SIMBOLI di questo potere erano gli Dii involuti della teologia etnisca, i cui nomi  rimanevano ignoti e non erano oggetto di un culto popolare, ma che Giove stesso con¬  sultava. Gli Du consenti poi, che erano dodici, sei di ogni sesso, presiedevano alt or¬  dine delle cose esistenti, e ricevevano degli omaggi, e dei sagrifizii. Manifestatasi la  loro intervenzione negli affari umani, più che in altra maniera con presagi di grandi  disgrazie, che dovevano essere allontanate con espiazioni sanguinose, e crudeli. Ma  se da un Iato potè la moralità guadagnare qualche cosa dalla religione etrusco, che  non corrispondeva in verun modo alla mitologia ridente, ma licenziosa dei Greci, la  poesia e le arti dell altro, vi dovettero indubitatamente scapitare non poco.  Lo stesso difetto d immaginazione viva e disinvolta caratterizzava la dottrina  etrusco dell immortalità dell’anima. Il loro mondo sotterraneo, non era altroché  un Tartaro senza Eliso. La superstizione non formò in nessuna parte del mondo, un  sistema più completo che in Etrucia, senza eccettuarne neppure le Indie, e t Egitto  Le regioni del cielo erano divise, e suddivise in modo che ogni prodigio poteva avere la sua spiegazione precìsa. Ifenomeni dell’atmosfera, il tuono soprattutto, ed i   lampi, erano osservati, e classati comma minutezza, che avrebbe potuto fornire oli  elementi, aduna vera scienza, se gli osservatorifossero stati veri filosofi, e non Sacerdoti. Ma nel fatto t osservazione di quei fenomeni, non servi ad altro che  ad accrescere la servitù della moltitudine, a quelli che reclamavano la co'nuzioné esclusiva dei mezzi coi quali potevano placarsi gli Dei sdegnati contro il  genere umano .  Non è necessario di avvertire, che la filosofia nel senso greco di questaparola, vale a dire lo studio libero dell’uomo della natura, e della provvidenza, era ignota agli  Etruschi, benché non si possano negar loro le cognizioni pratiche, col mezzo delle  quali eseguivano le belle opere d'Architettura, e di Idraulica, che vengono ad essi  attribuite dagli antichi scrittori, i quali parlano delle cose etnische senza prevenzione veruna , e senza spirito di parìe .   Elv. Mas. Chius. Tom I. 8  Go  tavola lxi.   Quanto sia malagevole scioglier l’enigma che nelle strane loro figure chiudono le  pietre incise in forma di scarabei, ben potrebbero dirlo e il Caylus, e il D’Han-  carville, ed altri chiarissimi ed eruditissimi ingegni che in vano vi si applicarono;  e quantunque in gran parte non mostrino significato nessuno che ragionevolmente si presti alle indagini dell’erudito, pur taluni, ancorché pochi, han contrassegni da non permettere che siano annoverati tra i soggetti capricciosi insignificanti e per conseguenza inesplicabili.   Nello scarabeo di n. 1 ci guidano con qualche indizio 1 epigrafi, che sebbene sconce  come le figure alle quali si vedono applicate, pure danno adito a ragionarvi sopra  non senza qualche fondamento. Quantunque le lettere siano di forma etrusca, pure  nèson disposte all’uso inverso come scrivevano gli Etruschi, nè presentano voci che  dirsi possano etnische, ma ritengono un misto di paleografia, e glossologia, che partecipano dell'antico greco e dell’antico latino. Qualora non vi fosser lettere direbbesi  che vi si vede Vulcano assiso sulla sua pesante incudine in atto di ascoltar le preghiere della consorte sua Venere a prò d'Enea, come ne dà sospetto lo specchio femminile che tiene in mano, la donna è la libera di lei nudità. Che le lettere esprimenti parole tronche vi si conformino lo congetturo dal potervi leggere fex, quasi ephestus  ch’era nome grecamente dato a Vulcano anche dagli antichi Latini. Segue 1 altro  bisillabo vev, che se crediamo sformata l'ultima per una v, potremmo leg¬  gervi la voce Venus con poca difficoltà. Ed in vero quella barba, che in un mo¬  do sì sconcio si volle accennare all’uomo sedente, dà qualche idea del rozzo costume praticato dal marito di Ciprigna, che qui si vede contro a lui con assai studiata, sebben antica maniera d’acconciarsi la testa per viepiù sedurre il manto a  compiacerla nell’ inchiesta delle armi pel figlio Enea : soggetto non raro nella  glittografia, dove l’artefice Vulcano è sempre assiso, e Venere che incontro a lui  si trattiene a pregarlo, sempre in piedi.   Quando si voglia credere che la composizione incisa in questo scarabeo num. 2  abbia un qualche significato allegorico, e non sia stato fatto a solo oggetto di  mostrare lo sgradevole assalto dato da un leone ad un cinghiale, potremo cre¬  dere che stiano i due animali a rammentare due precipue situazioni del sole  nel cielo, dalle quali ne avviene il calor benefico dell'estate, e 1 importuno freddo  nell’inverno. Infatti è il segno del Leone che domina in estate , e che abbatte colla  forza dei raggi solari quei mali che alla natura cagiona 1 ingrato e sterile, inverno  significato dal porco, di che ho^scrittu molto nel trattare dei Monumenti etruschi 1 .1 Ved. ser. 111, p- 3 j 7 - vote eh bronzo a Lione ; Il quale pretende che il vero suo nome fosse Mastarna, e che  foss e compagno di un capo dicosi detti Condottieri, o mercenarii toscani.   Il fatto si è che la voce etrusco Mastarna, vale imbrattato, ossia di sordida origine,^ corrisponde cosi a quanta ne dice la tradizione. Ma mentre JMebuhr si allontana  intieramente dalla storia, supponendo che Tarquinio il vecchio fosse uno di quei Latini  pnschi da ha immaginati, pensa il Mailer eh’ei fosse veramente etrusco, e che traesse  il suo nome da Tarquinia, ( e lo pensiamo noi pure,) il cui dominio estendevasi allora  dalla parte del mezzogiorno, fino alla città di Roma, che erane anche dipendente  in quel tempo . I compilatoli della Rivista edimburghese non credono che questa opinione sia basata sù fondamenti abbastanza solidi, benché paia loro più probabile di quelle di  lebuhr, per sostituirla ai racconti della storia comune ; E non sanno comprendere  neppure, come dei fatti accompagnati da circostanze sì ben precisate, quali sono  quelle dell'esistenza di Servio Tullio, e deiTarquinii, del loro paese, e dello stato loro  possano cangiarsi tutto ad un tratto in un simbolo di etnisca supremazia. Lo che  peraltro non desterà nessuna maraviglia a chiunque sia meglio di loro istrutto delle  antichità etnische, e conosca più a fondo che essi non conoscono, l’universalità dello  spinto simbolico di quei remotissimi tempi. E comunque sia poi la cosa, checché si debba  pensare eh tali supposizioni, il fatto vero si è che Roma fu conquistata dagli Etruschi  sotto la condotta eli Porsetto re di Chiusi, come lo provò, sono già molti anni, Beau-  foit, disvelando gli artifizii , sotto i quali avevano procuralo i Romani scrittori di  nascondere questo colpo umiliante. Oltre di che, furono, come abbiamo già detto,  anche i fondatori, ed i primi abitatori di Roma, una truppa dibanditi toscani.   Ma circa ad un secolo dopo il regno di Porsena, vennero gli Etruschi umiliati  essi pure dai Celti, e da altre barbare genti, che si resero padrone di tutto ciò che  eglino possedevano sulla riva meridionale del Pò fino a Bologna, e che occuparono  anche. Roma, benché temporanamente. I Romani però, vincitori dei Galli, e cosi più  fonnidabih che mai, non tardarono molto a conquistare, e colonizzare quella parte  i ’truna, che si estendeva al mezzogiorno della selva Ciminia; Ed anche laCam-  pania eia caduta allora sotto il potere dei Sanniti, e tutte le provinole etnische al settentrione degl’Apenninì, erano rimaste sotto la dominazione dei Galli. Tentarono indarno gli Etruschi, dopo la gran disfatta, che ebbero presso il Lago  Va di mone, oggi di Bussano, di chiamare in loro soccorso i mercenarii Galli, poiché  furono battuti di nuovo, perchè le loro temporarie confederazioni, non poterono oppor¬  re una efficace resistenza, contro la disciplina, che la vittoria aveva già organizzata  nelle armate romane; Eia potenza di quel popolo celebre, e valoroso per sì lunga serie di secoli, rimase intieramente abbattuta,prima delle guerre di Pirro, e di Annibale. del cielo, di che ho trattato in altre mie opere. Le colonne ed i vasi che son  sepolcrali rammentano le ceneri degli avi, presso i quali fu ucciso l’infelice Laomedonte assalito da Ercole nplia sua patria presso le lor ceneri.   Questo disegno è una quinta parte della grandezza che ha 1’urna di marmo. La rozzezza della scultura di quest’umetta in pietra tufacea che nel suo originale è soltanto doppia di questo disegno, non permette ad ognuno di ravvisarvi  il soggetto che a me sembra esservi espresso. Imperocché io vi scorgo nella figura equestre un’Amazone, di che ho non lieve indizio nel berretto che le copre la fronte, e quindi in ogni restante della composizione, che non differisce  dalle già esposte alle tavole XLIII, e LX.Qui v'èuna circostanza che ne scopre  sempre più l’allusione a soggetto ferale, ed è 1’ albero significativo d’ombra, e  privazione di luce : luogo insomma dove passano i mortali dopo il periodo vitale assegnato loro dalla natura in questa terra 3 .  Un pregio singolare di questi bassirilievi di pietra tofacea è in qualche modo  Tesser tutti chiusini, e d’uno stile che può dirsi unico in questo genere di antichissimi  oggetti d'arte. Quel di Perugia ch’io riportai con esattezza alla Tav. Z 2 della  ser. VI de’ Monumenti etruschi, è inferiore nell’esecuzione forse per difetto della  cattiva scélta nella pietra eh'è molto più tenace di quella chiusina, e più assai  porosa, ed a luoghi affatto spugnosa. L’originale di questo che abbiamo sott’occhio non è che per metà maggiore del suo disegno.  Si vede assai chiaramente esservi rappresentata una processione religiosa. La prima  figura che ha semplice manto, e non veste lunga è dunque un uomo che ha in mano  una gran foglia, dalla quale argomento esser questa una pompa sacra, mentre in tali  riti portavansi le foglie, e se ne danno persuadenti ragioni, ch’io esposi altrove 3 . Segue  la figura di una donna che per essere assai danneggiata non se ne sa il destino, Dopo è una figura con bastone in mano,molte delle quali vedemmo già nelle tavole scorse 4 . Ma siccome tien dalla sinistra mano un uovo , così potremo in qualche modo  congetturare che la pompa della quale quel seguace fa parte sia espiatoria, e perciò  analoga al defonto, presso al quale quest’ ara è stata trovata. Poco sappiamo di  una tale superstizione, ma ci è noto che all'uovo, dedicandolo ad Ecate infernale, 1 Ingliirami, Monum. etr. ser. i, p. 5 g 5 , e Gal-  leria Omerica Tom. n, tav. cxciv, p. j 54 *   2 Monumenti etr. ser. v, p. 44 l 2 *  3 Ivi, p. 254 , sq.   4 Ved. le tavole 11, lii, iv, V , xxxvni, lui ,   LIV, LV, Lvi. L’Amorino qui espresso è copia d’un bronzo grande quanto il suo originale,  eh’è d’una bellissima patina verde. Non saprei giudicare dal solo disegno, che  m’è sottocchio, qual ne sia l’azione, e quale il significato di essa, onde mi limito  ad osservare che l’acconciatura di testa, non meno che lo stile assai molle, e sì  vistosamente lontano da quel rigido, che vedemmo nei già esaminati bassirilievi  chiusini, mi fanno giudicare quest’idoletto per un opera eccellente degli Etruschi,  allorché sottoposti ai Romani praticaron le arti ne’tempi di Adriano.  Leggendo lo storico Diodoro ho incontrato un avvenimento d’Èrcole, che mi  sembra molto analogo a quanto si rappresenta in questo bassorilievo. Narra quello  scrittore che tornato Ercole insieme cogli Argonauti alle spiagge troiane, ove  avea lasciati in deposito a Laomedonte la vinta Esione ed i cavalli di Diomede,  invia suo fratello Ifito, e Telamone a riprendere il deposito affidato a quel re;  ma il perfido ne ricusa la restituzione, ed oltraggia i messaggi. Allora gli Argonauti muovono contro Laomedonte e contro i Troiani suoi sudditi, e dopo un vivo  combattimento trionfano. Ercole sopra d’ogni altro fa prodigi di valore, ed uccide  di sua propria mano il re Laomedonte Tanto basti a ravvisar qui E avvenimento or descritto. Ercole ha in mano la spada per uccidere il perfido Laomedonte che h».  già ghermito pei capelli, nè può altrimenti evitare il colpo fatale di morte.  La pelle di leone che si annoda sul di lui torace lo manifestano per Ercole, seb¬  bene usi spada e non clava. Laomedonte altresì fassi noto al berretto asiatico  proprio dei Frigi e Troiani in modo speciale, come ripetuti esempi ne dò nella  Galleria omerica 3 . Il bastone pastorale gli è posto in mano dall’ artista ad oggetto  di aumentarne la distinzione, come spettante alla famiglia di Dardano, eh io dissi  altrove 3 essere stata distinta per la sua occupazione di guardare gli armenti de suoi  antenati, non meno che per la singolare bellezza della quale furono adorni i di lei  componenti. Difatti qui Laomedonte si mostra bellissimo e delicatissimo, in pa¬  ragone del robusto Ercole, e dell’altro eroe eh’è degli argonauti combattenti in  quella occasione con Ercole.   Le due Furie con face rovesciata, ripetutissime nelle urne etnische, non hanno  un positivo ed intrinseco rapporto col fatto. L'altare serve soltanto di espressio¬  ne per mostrare che il paziente altro scampo non ha che reclamare la protezione   1 Diod. Sic. Bibl. hist. c. l, p. 29J. 3 Galleria Omerica, Iliad-, Tom. 11, p. i 43 .   2 Voi, 1, Tav. xcv, p. 81. t : 4   le arche racchiudevano oggetti sacri di mistica rappresentanza, non visibili ad ogni  profano. Il vaso dipinto con queste donne che staccano in giallastro su fondo nero, fu, cred’io, venerando per gli oggetti contenuti nella cesta, piuttostochè per  le donne che la portano. Nell’interna e concava parte duna tazza di terra cotta vedesi dipinto con fondo nero un sacrifizio, che mostra, cred’io l’atto del camillo, o vittimario di cuocer le carni della vittima sul fuoco acceso nell’ara o foculo, mentre il sacerdote  che sembra di Bacco è pronto a farvi una libazione, versandovi parte della sacra  bevanda. Dalla bassezza di quell’altare, pare che l’atto religioso fosse diretto al  culto di Bacco stigio, che pregavasi perchè fosse favorevole ai morti; come difatti  la tazza dov’è questa pittura fu posta come le altre in un sepolcro. È invero assai singolare il bronzo num. 1 che qui presentiamo in disegno  nella dimensione del suo originale, come si può riscontrare nel privato e ricco  museo del sig. capitano Sozzi di di Chiusi dov’esiste. Non è del tutto nuovo per  altro; ed io vidi un idolo lungo due piedi e sottile nel museo di Volterra tutto  nudo, e colle braccia aderenti al corpo, senza nessun emblema. Il Gori che lo illustrò, gli dette nome di Lare domestico ridotto più grande e piu maestoso della  specie umana, oppure un dei Lemuri che credevansi ministri del Genio malo,  ossivvero lo stesso Genio malo, che da Plutarco si dice esser comparso a Bruto  in aspetto più grande di quel ch’esser suole l’umana specie 4 . lo crederei che più  convenientemente confermar si potesse esser quest’idolo chiusino un Lare domestico, forse anche Lemure, pei lumi che ce ne dà Plutarco, giacché Tesser vestito  e l’aver patera in mano tanto converrebbe ad un Lare, quannto sconverrebbe ad  un semplice Genio. Lo stesso Gori ha posti nella sua collezione altr’idoletti che  hanno la qualità speciale d’esser più lunghi delle dimensioni spettanti all’umana  specie, ma che l’espositore per bizzaria dichiarò con nomi speciali = , senza darne sodisfacente ragione.   I bronzi notati di numm. 2 e 3 sono le due estremità d’un manubrio di qual¬  che vaso usato probabilmente per sacri riti, come lo mostra la testa d’asino che  ne compone la superior parte, mentre si tien per ovvia la notizia che questo    1 Plutarc. de animi tranquillitate, ap. Gori, Mus.  Etrusc. Voi. i, Tab. cim, Voi. n, p. 23 i. 2 Gctì, Mus. etr. Tom, tab. v.  si attribuiva una virtù espiatoria 1 . La figura virile ultima non ha caratteristica  veruna che la distingua.   Da un lato, cred'io, di questo cippo o ara che sia, v’è un’auriga nell'atto  di guidare il suo carro alla corsa : istituzione antichissima rammentata inclusive  da Omero % fra gli onori compartiti da Achille all’ombra di Patroclo.Sorprenderà gli archeologi la novità di questa lucerna fittile che porta effigiato un centauro colle ali non più veduto, ch’io sappia. Ma cangerà la sorpresa  in persuasione, tostochè richiamerà alla memoria quanto dissi altrove rapporto al¬  la composizione siderea di untai mostro; di che ripeto qui soltanto qualche leggierissimo cenno. Dissi pertanto che stando alle dottrine d’Ipparco, il Centauro  si compone di un cacciatore, o per meglio dire della costellazione che in antico aveva  il semplice nome di un dardo, e dell’alato cavallo sidereo che dicesi Pegaso 3 . E  poiché questo rappresentasi per metà soltanto nel davanti, così inventarono di  aggregare il restante del cavallo, o sia la posterior parte al cacciatore arciere.  E siccome il Pegaso composto dal Centauro è figurato con ali, così non è fuor  di proposito il trovare in questo arciere colla caccia in mano la posterior parte del  cavallo Pegaso colle ali che formano il distintivo del destriere abitatore del Parnaso.   Il vaso rappresentato in questa Tavola due terzi più piccolo del suo originale è di terra cotta di naturai colore, a differenza d’altro simile qui pure esposto  alla Tav. XL1X, eh' è di terra nera. E poi singolare in questo il veder le braccia  staccate dal vaso e fermate con delle cuciture di fil di ferro agli orecchi o manichi  di esso vaso, e pare che abbiano tenuto qualche cosa nelle mani che soglion esser  traforate . Un indizio di barba rasata ce lo fanno credere un Bacco. Per ogni  restante si legga quanto dissi alla Tav. XL1X.   Fu costume frequentissimo nei sacri riti del gentilesimo l’introdurvi le fem¬  mine canefore, o cistofore ma specialmente in Etruria, e i monumenti ci mostrano come un tal uso invalse qua nei tempi antichissimi, come Io mostra il  famoso vaso d’argento di Chiusi da me riportato altrove 4 . Quelle ceste, o picco-    i Suid. in VOC. Excctjjv.  a Galleria Omerica Toni, n, lav. ccxvu #    3 Monumenti etr. ser. v^av. lyii, p* 561.   4 Ivi, ser. ih, Ragionamento vii.   SULLA VERA SITUAZIONE TOPOGRAFICA DI V1TULON1A  ANTICHISSIMA SEDE DELL J IMPERO ETRUSCO.  AffdS'v’tffzoufft yap y,<x.i nohU «c rirep av^pwirdi, A. A. .  li ori aveva torto lo spiritoso, e bizzarro filosofo di Samosata, quando scriveva nel  suo dialogo intitolato Caronte, che le città muoiono come gli uomini. Imperocché nel¬  la stessa guisa che si perde la memoria di moltissimi di questi, così perisce la ricordanza di non poche di quelle. Nel cui numero è da riporsi con tante altre, la famosa  Vitulonia , prima capitale dell’ Impero Etrusco, della quale sì scarsamente lasciarono scritto gli antichi, e sì vagamente , e con grande incertezza ne parlano i moderni. Trovasi infatti accennata dagli uni e dagli altri, quella già potentissima, e ricca città, con molta dubbiezza, e circa la vera sua topografica situazione, e  circa l’estensione del suo circuito, e perfino riguardo al modo di scriverne il nome .  Avvegnaché PLINIO chiama Yvi ulonii, e Vetuloniensi i suoi abitanti, e Silio Italico nomina Vetulonia la città stessa , mentre avvi qualche altro autore, che la dice promiscuamente Vetulonio e Vetulonia. Quanto poi alla sua topografica situazione, pare anche dal passo del precitato  Plinio, ch’ella fosse come era difatti, vicina al mare -, poiché sebbene al tempo di  quello scrittore già più non esistesse da lunga data, nondimeno la memoria della sua  situazione , e della sua grandezza sussisteva tuttavìa nella tradizione dei popoli etruschi . Ed il Cluveno ,lib. ila colloca egli pure non lontano dal mare , e nelle vicinanze delle paludi caldane, confondendo però, per quanto mipare, le Caldane volterrane, o i Guadi volterrani, colle Caldane della Fiora, che sono tutt’altra cosa.   Che sorgesse però nei contorni di quel pareggio, non è da mettersi in dubbio,  giacché leggiamo in Dionisio di Alicarnasso, lib. 3, che al tempo di Tarquinio Prisco , quand’ egli guerreggiava contro i Latini, i Sabini, e gli Etruschi propriamente  delti, fecero legaper andare contro il medesimo, le cinque popolazioni seguenti, cioè,  i Chiusini, gli Aretini, i Volterrani, i Rosellani, ed i Vètuloniensi , che Plinio al già  citato libro terzo nomina con ordine inverso. Nè senza ragione è da credere, che quei  due gravissimi scrittori nominassero i popoli, piuttosto che le città dei medesimi,  perchè Vitulonia era stata distrutta molli secoli prima della fondazione di Roma, come congettura il dottissimo Dempstero, il quale crede ancora giudiziosamente, che  perciò si di rado ne abbiano gli autori fatta menzione.  quadrupede spettò a Bacco 1 o a Vulcano a . Nell'uno e nell’altro supposto converrebbe 1’ unione loro aiCabiri, che furon detti e figli di Vulcano 3 ,ed apportatori del  culto di Bacco in Etruria E Una tale osservazione mi farebbe credere i Cabiri  o Dioscuri quei due giovanetti sedenti e con berretto in testa, che trovansi nel1’estremità inferiore del manubrio medesimo . E tanto piu me ne persuado , in  quanto che molti bronzi ritrovati in Etruria hanno Bacco unito ai Cabiri 5 . Nè si  allontana da questa congettura lo stesso lor gesto che addita il cielo, mentre stanno coricati per terra, giacché tale additamento del cielo e della terra è lor pro¬  prio in molti antichi monumenti dell’arte 6 .Il bronzo di questa Tavola veduto da due parti mi vien descritto di un lavoro squisitamente condotto per la sua esecuzione, al che si può aggiungere il  pregio dell’arte che splende anche nella giusta, non men che bella proporzione  della figuretta che qui si vede per metà maggiore del vero. Io la credo una di  quelle Giunoni, o genii delle donne che tenevansi nei larari dal gentilesimo. La pittura di questo vaso consiste in tre figure femminili, che avendo in ma¬  no delle aste armate di punte, corrono sfrontatamente luna presso l’altra. Così  narra Euripide che Penteo al di lui ritorno in patria udì che la madre di lui con  altre donne Tebane aveano abbandonato il proprio albergo, e n’eran gite sul mon¬  te Citerone a celebrar le feste di Bacco , piene di lascivo furore 7. ÌR<S>° 1 U : VI I q 3 : aìlflNS   XXXVII.   J/ìttq A J : ÌV1V : J33 tfntnqf\ jmn/qo   XXXIX.   jfjvm/dn •• ©nq/i   XL   R13D J/ilflllV   1 Monutn. etr., sei:, u, p. 56.   2 Milli» , Peintures de Vases ani. , Tom.  2 3 , not. (6).   3 Monum. etr., ser. n, p. i52.   4 Ivi, p. 693, 713.   Etr. Mus. Chius. Tarn. 1.   5 Ivi. Ved. la spiegazione delle Tavole txvvn   i, p. e ixxvui.   6 Ivi, tav. xlÌx, e sua spiegazione.   7 Euripide nelle Baccanti atto primo scena iv  in principio.  9vono discorso anche intorno alle sue terme, ed al suo anfiteatro, celebrandone  le ime , e 1‘ altro.   Scrive La-Martiniere che le rovine dì questa città ritengono tuttavìa t antico no¬  me, e che si chiamano Vetulia,ree/ che concorda coll'Alberti-, e si legge in una nota del  precitato Cluverio, che Vitulonia era situata fra Populonia, e la torre dì San Vincenzo, presso alle paludi caldane, ed il fiume Linceo, detto oggi la Cornia. La quale  opinione pare appoggiata da quel passo del sullodato PLINIO; ove nomina insieme ì Tarquiniesi, i Tuscanesì, i Vetuloniensi, i Veientani, i Visentini, ed i  Volterrani, cognominati etruschi, com’egli si esprime.   Molte altre citazioni, ed altre notizie avrei potute raccogliere ed aggiunger qui,  riguardanti la nostra Vitulonia, ma le ho tralasciate per brevità, e penso che siano  anche troppe le già addotte, per dimostrare quanta confusione, e quanta incertezza  si riscontri negli autori, ogni volta che ne fanno parola.   Ad onta però di tanta confusione, e di tanta incertezza degli scrittori antichi, e  moderni intorno a Vitulonia, per cui è sembrato ad alcuni archeologi , non solamente  difficile ma eziandio impossibile di poterfissare, ove sorgesse un giorno quella primitiva sede dell impero Etrusco, quandi esso estendevasi a tutta l Italia; io voglio non per-  tanto tentare in questo ragionamento di stabilirlo. E voglio in questo tentativo mettere  a profitto le belle, e ricche scoperte di vasi etruschi, e di altre anticaglie, fatte dall'egregio signor prìncipe di Canino nelle sue terre di questo  nome, e giovandomi ad un tempo dei lumi sparsi da quel chiarissimo scrittore, illustrando gli uni , e le altre, e per cui viene ora meritamente lodato in questa materia,  come il più benemerito promotore della gloria dei nostri padri.   Tralasciando pertanto di rintracciare, lo che sarebbe ricerca inutile, e vana, se  Vitulonia/bwe edificata da Tarconte, come pretendono alcuni autori, o dal celeste  Ogige, il quale come vuole non so qual poeta,   Itali® Tuscas pelago descendit ad oras,   dove torreggiò Vitulonia, o finalmente lo fosse dagli Etruschi, regnando su di essi,  come piace ad altri quello stesso Giano Velo che istituì, per quanto si dice, il culto  di Vestà, e le Vestali nelle nostre contrade, diede il suo nome al Gianicolo, combattè  per tre anni coi Celtiberi, e finalmente li vinse, e li sottomise alla sua dominazione:  quello stesso infine, che consacrò , giusta le tradizioni, una gran selva a Crono nelle  vicinanze appunto di Vitulonia, il cui nome potrebbesi interpetrare stagno, od acqua  incostante, passerò in quella vece a determinarne subito la topografica situazione.   Circa la quale io credo che non possa rivocarsi in dubbio, quanto il sullodato signor principe di Canino ne ha detto nel primo volume del suo Museo etrusco , parlando in particolar modo della sua Necropoli; E sono persuaso che ella sorgesse veramente nel luogo da lui supposto, e descritto.   Bifalti la prodigiosa quantità di vasi etruschi di sommo pregio, e di somma bellezza, e nei quali sono rappresentate favole, o storie anteriori alla fondazione di Ro- Crede Ermolao Barbaro, che Orbetello occupi ora il sito dov era una volta Vilu-  lonia, lo che non può essere. E VAlberti scrive che ai suoi tempi chiamavasi Veletta ,  o Vetulia, il luogo ove fu Vitulonia; laddove altri sostengono, che altro in oggi ella  non sia ché un luogo deserto, distante tre miglia dal mare, fra Populonia, e Pisa. E  nonmancano neppure di quelli che confondono Populonia stessa con Vitulonia, benché  fossero per località, per età e per potenza paranco , l’una ben distinta dall' altra.   Jf erudito Guarnacci poi, dice di non poter determinare neppur egli, ove giacesse questa famosa, ed antichissima città, perché sì conosce, secondo lui, solamente  il nome della medesima, ignorandosi però del tutto, a qual distanza precisa fosse  ella situata da Volterra, e dal mare Ma Annio da Viterbo nelle sue note agli Equivoci, di Senofonte, afferma esservi un colle chiamato Vetuleto, e lo afferma con qualche probabilità, per l’età sua, sul quale crede che fosse situata altre volte Vitulonia.  E pensa che dopo la rovina di questa, gli restasse un tal nome. Il medesimo poi ne  deriva l’etimologia del nome da due parole araniee , che verrebbero a significare, capo di molte città; ciò che non sarebbe disconvenevole a Vitulonia,- ed aggiungendo,  quello che in molti altri scrittori si legge paranco, che essa godeva il privilegio di  ammettere i forestieri alla cittadinanza volterrana , come ancora la privativa in età  più remota, di dare i fasci, e le insegne reali, la qual cosa indica essere stata la medesima al disopra di Votterrà.   Non di meno il chiarissimo Passeri nel suo trattato della Numismatica etrusca ;  la crede colonia dei Voltérrani, benché ciò non possa essere accaduto, se pure vogliamo ammettere che avvenisse in alcun tempo, se non dopo la sua decadenza, e totale rovina, e dopo il successivo ingrandimento dell'altra. Mentre quando eraVitulonia  nel suo pieno splendore, e capo di potente impero, è ben ragionevole il credere che  succedesse tutto il contrario . Lo stesso Silio Italico, citato disopra, chiamò la nostra Vitulonia splendore della  Meonia gente, alludendo probabilmente a quei Lidii che si dicevano venuti a stabilirsi in Etruria, e principalmente in quella regione-, e la disse ad un tempo inventrice  dei Fasci, delle scuri, dei Littori, della Sedia Curale, e della pretesta, come pure  le attribuisce il merito di avere adattata l'enea tromba agli usi guerrieri-, cantando  nell’ ottavo libro delle guerre puniche.   Meoniosque decus Vetuionia gentis, Bissenos hoec prima dedit precedere fasces,  Et junxit totidem tacito terrore secures:   Et princeps Tyrio vestem prsetexuit Ostro;   Hasc altas eboris decoravit honore curuies ,   Heec eadem pugnas accendere protulit sere.  Esistono infatti antiche medaglie, riferite dal prelodato Passeri, ed anche dal  Guarnacci, coll epigrafe Vetiunia, e coll’ emblema della scure, o bipenne, insegna  dei Magistrati etruschi, e precisamente di quella città. Ed alcuni gravi scrittori mo- Messina, e fuori ancora dItalia per fiancheggiare le inaudite millanterie di quei medesimi Greci, e loro forsennati seguaci, riprodurrò qui una opinione singolare, ma  vera, e che mi pare che siastata sostenuta anche dal Vico ; e dirò che le Muse ebbero origine in Italia, nell’infanzia, per cosi dire, del mondo. Ed aggiungerò, che da  questa bella penisola emigrando, pèr quelle vicissitudini, che modificano , e fanno  cangiar di aspetto continuamente a tutte le cose umane, passarono in Arcadia,  colle prime colonie italiche di Pèlasghi Tirreni, che erano indigeni di questo delizioso paese, favorito in ogni tempo sopra di ogni altro dalla natura, per tutte le  arti dilettevoli, e per tutti gli ameni studi. Ed andarono ad invadere, é popolare la Grecia, e la Tracia, selvagge allora ed incolte, dove ebbero poi nome,  e culto per opera di Anfilone , di Lino, d’Eumolpo, e d’ Orfeo, ma vi si erano  condotte da prima coi sunnominati Pelasglii-Tirreni , pastori ad un tempo , e  poeti. Da dove ritornarono più tardi in queste benedette contrade in compagnia  di Evandro, e non ne partirono mai più-, ad onta di tutte le devastazioni e di  tutti i flagelli, che vi portarono gli stranieri, i quali ne fecero in tutte le età il  primo oggetto delle loro ambiziose conquiste .   E persuaso come io sono , che Vitulonia dettasse in remotissime età le sue  leggi agli Italioti, potentissimi allora sovra ogni altra nazione, da quei luoghi  medesimi, nelle cui vicinanze riscontrasi la grande necropoli, discoperta \dal  signor principe di Canino, come Roma le dettò loro, e all’ universo, in altri  tempi, dall alto del Campidoglio, terminerò questo mio ragionamento, ripetendo con VIRGILIO, Purpureos spargain flores, animasque parentum   His saltelli accumulem donis.   Mà non voglio però dar fine al medesimo, senza rivolgere brevi parole al signor compilatore dal Ballettino archeologico di Roma, per pregarlo col dovuto  rispetto, a volersi compiacere di farmi comprendere cosa mai ha preteso di dire, quando ha scròto a pag. 226, N" 12, del medesimo, con franchezza più  che cattedratica, « Contribuiscono ad illustrare qualunque parte delle antichità  dell' Etruria le utilissime lettere d’ etnisca erudizione che si pubblicano dal cavaliere Inghirami; siccome allo stesso tendono nel modo loro particolare, le  ingegnose conghietture del signor Principe di Canino, é quelle di simil genere  del professor Euleriani, premesse ai fascicoli del Museo chiusino » perchè sebbene io confessi ingenuamente : che mi rifugge t animo alt idea, che debba  venire un Oltramontano ad insegnare a noialtri Italiani, a conoscere le cose  nostre, e quelle dei nostri padri, mi sarà tuttavia gratissimo di potergli rendere pubblica testimonianza di avere imparato qualche cosa da lui, come non  poche me ne insegnarono altre volte, e di vario genere, ì Dempsteri, gli Acker-  blad, gli Zoega, che qui nomino a titolo cìi onore, ed altri ancora che per brevità si tralasciano. e 9   ma, e vi si osservano costumi anti-romani ancor essi, dal medesimo dissotterrati nelle  sue campagne della Cucumella, e Cannellocchio , mostra ad evidenza, che tanta ricchezza di vasi dipinti, non poteva appartenere che alla Necropoli di una città grandissima ed opulentissima, e capo di potentissimo impero. Nè i tre ponti dallo stesso  discoperti sulla Fiora cosi l uno all altro vicino, servir potevano ad altro che a mettere in comunicazione fra loro le due parti di questa medesima città ; E questa non po¬  teva esser che V itulonia , se ben si voglia riflettere alla sua località, dietro quello che  si legge negli scrittori antichi, e moderni, benché alquanto oscuramente, intorno alla  situazione di quella metropoli.   Che se qualche ultra-greco si ostinasse ancora a sostenere il contrario, è pregato  a considerare un poco meglio i monumenti dei nostri antichi, e singolarmente quelli  dissepolti nelle terre di Canino, ed anche a porre maggiore attenzione quandi egli  legge le opere degli antichi, e son di parere , scorgerà facilmente timpossibilità di  provare il suo assunto.   In quanto poi al predicare la civiltà italica molto anteriore a quella della Grecia, noi non abbiamo fatto altro in ultima, analisi, che riprodurre quanto era stato opinato nello scorso secolo dai dottissimi archeologi, e filologi italiani, e stranieri,  assai giudiziosi e non greco-mani, Dempstero, Buonarroti, Maffei, Cori, Guarnac-  ci, Bocliart, Mazzocchi, Lami .Bourguet, ed altri ancora: E più modernamente dalli eruditissimo poliglotta Acherblad, dall’illustre Gaetano Marini, e dal celebre  Ennio Quirino Visconti, prodigio d’ingegno, e di dottrina, anche a giudizio dei più  dotti Francesi.   La quale opinione, propagata da tutti i surriferiti grandi uomini, che trovasi  confermata nelle memorie dell'Accademia delle iscrizioni di Parigi, e che fu messa  in piena luce da quella mente straordinaria del Vico, è poi quella stessa riprodotta,  e commentata dal sullodato signor Principe di Canino, nei varii articoli del  precitato primo volume del suo Museo etrusco, dopo che la riscontrò comprovata dai  Monumenti da lui discoperti, negli scavi fatti eseguire nelle sue terre.   Nè di poco momento è per me, onde viepiù confermarmi in questa opinione che  mi è divenuta certezza, t autorii a del profondo archeologo romano Girolamo Amati,  uomo di somma perspicacia, e dottrina, e nelle italiche antichità versatissimo, e che  la sostiene egli pure . Che del resto la iattanza impudentissima dei Greci , è dei grecomani, circa la civiltà, e le arti italiche, non è nuova in queste contrade, sapendo ogni mediocre erudito,  che per rintuzzarne soltanto la vanagloriosa ciarlataneria, pose mano Catone a scrivere i suoi libri dèlie origini, e si mostrò grandemente sdegnato, perche nessuno si  fosse alzatOkprima di lui a rigettar loro in faccia si nauseanti, e boriose pretensioni,  e si grandi sciocchezze.   Ora dunque, animato dal medesimo amor patrio, e stimolato da eguale sdegno,  per le tante inezie che sf vanno ripetendo ogni giorno a piena bocca, dalli Alpi a  Etr. Mus . Chius. Torri. Quando Venere e Apollo sottrassero Enea, come inventa Omero alle furi¬  bonde armi del prode in guerra Diomede, allora Febo immaginò di lasciar com¬  battere a sazietà i Troiani coi Greci, sostituendo ad Enea l’idolo, o popolarmente  parlando, l'ombra di lui. Questa poetica immagine del combattimento de’due par¬  titi per un vano fantasma fu cara oltremodo agli Etruschi, mentre ne vediamo  la rappresentanza in molti de’lor cinerari, un de’quali eh’è in marmo, fu da me  inserito nella serie che ho data de’monumenti omerici della Iliade 3 , similissimo  a questo ch'è di terra cotta due terzi soltanto maggiore del presente disegno, men¬  tre quel di marmo è due terzi maggiore di questo modellato in creta. Vi si ve¬  de pertanto il simulacro d’Enea caduto a terra per la percossa del sasso getta¬  togli da Diomede, in atto di cercare una qualche difesa nella trista situazione in  cui si trova, spossato di forze. Intorno a lui si tagliano a vicenda gli scudi e le  targhe Troiani ed Achei. L’originale in terracotta era dipinto a vari colori, ma  ora svaniti. L’ iscrizione è soltanto dipinta in color di porpora, e rammenta, come sapremo a suo luogo, il nome del morto, le cui ceneri chiudeva l’urnetta. Un licenzioso stuolo di baccanti si offre allo sguardo dell’.osservatore della  tav. presente, e ci avverte esser questa la pittura d’un vasetto ch’è rappresentato  alla tavola e frattanto si verifica la massima comunemente inval¬  sa per esperienza, che tre quarti dei vasi fittili dipinti hanno soggetti bacchici.   Questo ha figure nere su fondo rosso ed è il vasetto originale tre volte mag¬  giore del disegno dato alla tav. suddetta. La statuetta di Venere che orna quest' ago crinale grande al pari del pre¬  sente disegno è adattatissima a dar compimento ad un utensile di muliebre decoro. È singolare il vedere nei Monumenti etruschi la Venere quasi sempre co¬  perta negligentemente in una sola gamba. Io vi ho spesso, ravvisato il velo del  quale son coperte agli occhi della nostra penetrazione moltissime delle operazioni della natura: osservazione che dovette esser propria specialmente degli Etruschi, i quali si magnificano come studiosi della filosofia naturale. Proporrei ancora  il sospetto che l’ago crinale fosse un simbolo mistico, e per tal cagione posto nel    i Iliade lib. v, v. 449*4^ l -2 Tom. ì, Tav. lxxiv . 7 »   Non credasi però mai da alcuno , che io ni" altlia la stolta pretensione  di non essere criticato, ché anzi mi reputerò sempre ad onore ogni critica fatta  a dovere, Ma quando venga questa in mal tempo, e con peggior garbo, met¬  terò sotto gli occhi di chi vorrà leggermi, il seguente epigramma.   Censura sapiens, et doctus acutnine gaudet :   Stultus at insano carpere dente solet.   Ex tribus his titulis, quem vis, tibi delige lector:   Sic sapiens, doctus, stultus et esse potes.  XLI.   VIDflDMU 433433   XLII.   4/mvfl4i •• flnoai ; qn-i   XLEL  -.43 : F\\F{- 1/1-1 : 43   XL1Y. 4 /ÌOq/ : i4 : 4/RttYf : intblq/d : 41   XLV.   m3iifl4 ; ìi n/qi : 43H3vi : nnn o   XLY1.   •.•.•.lamvfliflm : finn o   XLVII.   ni asiaq'D : 4flim#ì4 : intn.q/a : 433   xLvm.   4/aifn/qi3i lantqfl = ioqfiN   XLIX. ninni m Y 131 : 4An#isa : ianq3i : no   L.   1 nxnn\   M3f : laUfVf : flitifl©    ! Al disopra del copercìiio.  a Siccome finisce il lembo del coperchio pare    che abbiano continuata la parola al di sopra del  coperchio della stessa urna.  I 74   (lutto nell'arte, mentre qui la Furia infernale esce di sotto terra; come nel teatro. Se  quest’uso non è molto antico, non potremo reputare antichissime neppure queste  sculture ove tal uso è imitato. L’urna è due terzi più grande del presente disegno.   Il soggetto di questo rozzo vasetto non è che un baccanale. Il vecchio barbato e nudo rappresentar dovrebbe un satiro, mentre a centinaia s'incontrano  i satiri nei vasi che trovansi nei sepolcri, e le lor mosse costantemente bizzarre,  come acche la lor nudità costante, non permettono di separar questa virile figura  dal coro satiresco di Bacco. Ma la rozzezza del lavoro accompagnato da negligenza; fece dimenticare al pittore di aggiungere alla sua figura la coda equina che  a’ satiri non manca mai. La donna eh’ è dalla faccia opposta del vasetto, non può  essere per conseguenza che una baccante . I circoli che in buon numero si vedono  attorno alle due figure sono un enigma finora inesplicato. La grandezza delle  figure è uguale a quella dell’uomo barbato. La pittura è giallastra in fondo nero.  I tre recipienti che occupano questa tavola son vasi con pitture in parte nere e in parte giallastre, che si mostrano separatamente dai loro vasi, e che ve¬  dremo in seguito coi respettivi loro richiami. Ma il vaso segnato di numero 2 ha  soltanto una pittura a parte, l’altra di minor conto si vede qui in piccolo.Io vi ravviso  due degli Efebi davanti al ginnasiarca, il quale ha verga in mano insegno che istruisce e comanda. Tali erano gli esercizi del ginnasio, dove la gioventù s’istruiva negli  esercizi del corpo e dell’animo ; e gran parte delle pitture de’vasi han simil soggetto nella parte opposta ad altra, che aver suole qualche rappresentanza mitologica o simbolica, come in questo vaso, dove si vedrà Ercole accolto dal centauro  Eolo. Queste favole cred’io avevano un senso misterioso, e la gioventù s’istruiva nell’iutelligenza di quel senso non a tutti palese, per cui ne’ vasi comparisce  nel tempo medesimo l’istruttore e 1 istruzione che rnostravansi con quelle pitture.  Questo, pare a me, eh’esser possa il momento in cui Ercole passando dal  monte Foloe per andare a cercar del cinghiale d’Eriinanto, trattenutosi dal centauro Folo figlio di Sileno e della ninfa Mitra, fu ricevuto nel modo il più ospitale che potevasi. Ercole ebbe desiderio di bere del vino. Folo ne avea soltanto  in un vaso eh’era stato dato da Bacco ai centauri in comune, e perciò non ardiva d’aprirlo. Ma Ercole incoraggillo a deporre ogni timore, ed apri egli stesso sepolcro dov' è stato trovato . Dissi altrove difatti, che si venerava in Roma l'ago  crinale della Madre Idea custoditovi fra le cose fatali, da cui facevasi dipendere  la stabile conservazione dell'impero. Le oreficerie degli Etruschi, di che presentiamo qui un saggio, esser sogliono di uno squisito lavoro. I due pezzi superiori pare che siano stati usati a  formare una collana, poiché di simili ornamenti vedonsi le belle collane scolpi¬  te al collo delle matrone che si trovano giacenti sopra i coperchi delle urne 3 .  Ciò sia detto per disinganno di coloro che trovando nella Grecia altri ornamenti  muliehri lavorati in oro con una perfezione e con un gusto simile a quei dei  nostri Etruschi, ne dedussero che di Grecia si facesse smercio in Italia di tali bigotterie; ma poiché la forma dei due pezzi superiori trovasi ripetuta soltanto  nelle sculture d'Elruria,e non in quelle di Grecia, così non abbiamo pruove che usassero tali ornamenti fuor dell’Etruria , nè che non si potessero quivi anche eseguire. Tra le infinite bizzarrie che vennero in testa ai figuli per variar le forme dei  vasi, che servirono per ornar le ceneri dei sepolti, questa che presentiamo qui non  è certamente delle men singolari. Il suo nome suol essere d' un ciato quando  ha forma d’un corno potorio; ma in figura di gamba non avendone io mai incontrati , per quanto abbia veduti moltissimi vasi sepolcrali, non saprei certamente  quei che possa dirsene. La sua grandezza è due volte maggiore di questo disegno. È della solita terra nera di Chiusi, ed ha vernice nera assai lucida che lo  cuopre d'uu color solo. In generale questi eran vasi da bere usati col rito, che  dovevasi affatto votarne il recipiente, per cui non era necessario di tener questi  vasi in piedi, ma suolevano star discenti sulla mensa. La tragica morte di Eteocle e Polinice è soggetto che fu caro agli antichi  Toscani che lo elessero soventemente per ornarne i loro sepolcri. Qualche mossa,  qualche ornato,lo stile medesimo della scultura, fan vedere che vi fu comunicazione  tra la scuola di Volterra e quella di Chiusi. Il costume della Furia eh' è fra i due  moribondi più che altro manifesta la probabilità di questa mia opinione; come si riscontra dai paragoni che posson farsene 3. Altrove notai parimente 1’uso teatrale di  far comparire, non già dalle scene i soggetti infernali, ma dal palco medesimo, quasi che sorgessero di sotto terra ^. Un tal uso vedesi esattamente intro-   1 Monum. etr. , ser. li J p. 5o.  2 Ved. la Tavola xiv.  3 Monum. etr. ser. i, Tavv. lv , lxvii, lxxiv.   4 Ivi, p- 75, 355.  II vasetto che primo si presenta in questa tavola è di terra nera, uguale in  tutto al disegno. Le teste velate son così ripetute nei vasi sepolcrali chiusini, che  io non dubito di confermare il già detto, nel supposto che siano indicative di  larve Ci vien fatta peraltro notare 1 ’esattezza del lavoro, non meno che la perfetta conservazione del monumento.   Ai numm. 2, e 3 si osserva un anello d’ oro eh’ è in proprietà del sig. capitano Sozzi. Il lavoro, per quanto mi si elicerà finissimo e di grandezza in tutto  eguale all’originale. È stato, per tanto riportato in doppia grandezza l'incavo che tien  luogo di pietra anulare, perchè meglio si osservi lo stile elevato di quel lavoro.  I due animali, il leone cioè e la sfinge potrebbero essere interpetrate pel passaggio del sole dal solstizio estivo all’autunno , mentre quel mostro con corpo  di leone e testa e petto di donna non altro pare che indichi, sennonché il sole  che uscito dal segno del Leone ardentissimo passa in quel della Vergine, ove comincia a perdere l’estiva sua forza, per cui si assomiglia a una femmina 1 2 3 . La galante forma del vaso n. 1 non è comune fra quelle usate dai Greci.  L’impasto della terra è tutto nero, ed in luogo di figure dipinte ha dei bassiri-  lievi minutissimi, da’quali, come da una doppia fascia, è circondata la più larga  parte di esso . In una delle nominate fasce al n. 3 stanno assisi due uomini con  veste talare, in atto di voler dispensare delle corone, che ricevon coloro i quali  stanno in piedi. Sotto alla lorsedia è un uccello, che secondo le moderne interpe-  trazioni dei geroglifici egiziani, come dissi altrove ?, significa la casa dello sparviere, eh’è pur simbolo della divinità; e in conseguenza la casa o regione del  cielo, sul quale stabilite si vedono le figure sedenti del nostro bassorilievo. Porgono esse dunque delle corone ai guerrieri, in premio di aver combattuto.   Le sfingi nei sepolcri le ho sempre credute indizio del tempo nel quale passa  il sole dai segni dell’ emisfero superiore a quello inferiore 4 , che dicevasi regno  dei morti 5 , e per tal memoria credo esser poste le sfingi nella fascia num. 4 - Nel  bassorii. n. 2 v’è un uomo sedente che ha in mano Io scettro, e ad esso presentasi  un individuo munito di lancia che probabilmente significa un’anima che passando  ad altra vita domanda il premio delle eroiche sue virtù' 6 , accennando non altro  che il tempo di tal passaggio, come ho provato anche altrove? in quest’Opera.  1 Monum. etruschi, ser. i } p. 20.   2 Ivi , ser- i, Ved. la spiegai, della Tav. lxviii.   3 Lettere di etnisca erudizione Tom. 1 , p. 191 .  4 Monum etr. , ser. v, p. 590 :   5 Lettere cit. p. 189 .   6 Vedasi tutta la mia lettera scritta al dottor Maggi nel Tom. delle lettere, cit., p. 181 .  7 Ved. la pag. 5i , e 52 . ;5  quel vaso dov’era, come appunto si vede in questa pittura. I centauri tratti colà  dall’odore del vino vennero in folla alla cantina del centauro Folo, armati di  grosse pietre, un de quali è qui rappresentato in dietro ad Ercole in atto di  scagliarliela ; e forse è Anchio , o Agrio che furono uccisi da Ercole, perchè i  primi ardirono d’entrare in quella caverna 1 . Questa pittura con figure giallastre è  inetà del suo originale. In questo bassorilievo ravviso Paride, il quale mentre viveva oscuro ed ignoto  sul monte Ida tra i pastori, scendeva talvolta alla città di Troia, ove segnalavasi in  tutti i giuochi e combattimenti che vi si facevano, ed in essi riportava la palma sopra  ogni altro concorrente, inclusive sopra Ettore e su gli altri suoi fratelli, che sdegnando d' esser vinti da un ignoto pastore meditarono di assalirlo ed ucciderlo.  Ma Paride allora si dette a conoscere per loro fratello, e cosi fu salvo. Qui Paride è NUDO COME SI COMPETE AD UN ATLETA, ed ha lunga palma sugli omeri, qual  vincitore in competenza coi fratelli che invidiosi lo guardano, e meditano la di lui  perdita, istigati a tanto misfattto dalle Furie infernali che loro si fanno dappresso.  11 ginocchio che Paride tiene sull’ara significala protezione divina eh’egl’ implora da  Venere, come ho detto altre volte a , e 1 ’ ottiene; mentre Priamo suo padre, a cui si  palesò, lo ristabilì nel suo rango 3 . Il disegno è una terza parte dell’originale.Chi mai trovar potrebbe in questo vaso un gusto greco? Anzi a rettamente  parlare diremo esservi un fare eh'è tutt'altro che greco.L’ornamento del piede  partecipa delle scannellature che sì frequenti ravvisiamo nelle opere dell'Egitto.  In ogni restante v'è una originalità singolare. I mostruosi animali a bassorilie*  vo che ne ornano il corpo son frequenti in questi vasi chiusini di terra nera,  ed io li tengo sempre per quelli animali caotici che ad oggetto di rammentare  la pili antica delle orientali cosmogonie ne ornarono i sepolcri, di che ragionai anche  altrove L La donna che serve d'apice a! coperchio del vaso, in quanto al disegno  non è molto dissimile da quelle dipinte in giro nel vaso della Tav. LXXII, come  ancora in riguardo al costume dell’abbigliamento. Questo è dunque l’antico etrusco  stile, o l imitazione di esso, come resulta dal paragone della indicata pittura pur trovata in Chiusi, ma di stile totalmente greco. Or s’io ripetessi qui pure, come ho detto  altrove 5 , che i Greci lavorarono vasi in Etruria, e quindi anche i nazionali ma  in uno stile del tutto differente, non ne avrei forse in simili esempi le prove?  1 Diodor. Sicul., iv, 12 . Nonn, Dionis. xiv, 379 . intit. l’Italia avanti il dominio de’Romani p.i 29 . 2 Monum elruschi, ser.[i,p. /{Q 3 i 4 ^ 5 , 1^628, 693. 4 Monum. etruschi ser. v, Tav. lx.   3 Ved.le mie Osser.sopra i raonum.ant.uniti all’op. droni perfino del tuono, e del fulmine, i quali peri loro sorprendenti, e terribili effetti , somministrarono in ogni tempo e in ogni dove abbondante materia alla superstiziosa credulità dei popoli. Giammai però, nè presso alcun’altra nazione, ebbe la  scienza tonilruale, efulguraria tanti cultori, come presso gli antichi Etruschi, nè  mai se ne fece altrove uno studio così costante, come nell’ Etruria propriamente detta,  e con successo così, favorevole.   Ma i sacerdoti etruschi, dopo avere immaginata una scienza profonda, e difficile,  sui tuoni e sui fulmini, trovarono ancora il modo di renderla terribile e spaventevole  al volgo della loro nazione. Imperocché, stabilita la distinzione tra ifulmini di consiglio quelli di autorità e di decreto, tra i postulatorii, i monitorii, i confermatorii', gli  ausiliarii, gli ospitalieri, ed i fallaci, i pestilenziali, i micidiali i minacciami, ed i reali, e simili, ne fabbricarono ancora una spece di Diario, ossia Rituale. Del quale, per  darne una idea ai nostri lettori, ne riporteremo qui uno squarcio, tradotto in italiano.   Questo Rituale adunque, o Diario tonitruale, e locale secondo la luna coni essi  lo chiamavano, fu tratto, per quanto ne dicono le tradizioni, parola per parola, da  Publio Nigidio Figlilo, dagli scritti sacri di Pagete ; Ed è riportato da Giovanni  Lidio nel suo libro dei prodigi al cap. xxvu, pag. 101, dell edizione fattane a Parigi,per cura di Carlo Benedetto Tinse.   Ecco in qual maniera si esprime il sullodato autore, al luogo citato, su tal proposito . Se egli è manifesto che gli antichi sapienti etruschi prendessero in ogni disciplina augurale per guida la luna, poiché secondo il corso di quella espongonsi  qui appreso anche i segni tonitruali, e fulgorarli, rettamente farà chiunque si sceglierà per duce in questa scienza le stazioni lunari, Laonde quinci dal cancro, e  quindi dal novilunio, istituiremo la diurna cognizione dei tuoni, secondo i mesi lunari.  Dalla quale passavano i Tusci, o sacerdoti etruschi ad insegnare le osservazioni locali,  anche intorno ai luoghi percossi dal fulmine. E pare che il principale di tut fi i collegi di questi Tusci risiedesse a Fiesole, leggendosi in Silio Italico  Adfuit et sacris interpres fulminis alis,   Faesula    Incominciando poi il Diario , o Rituale fulgurano, e tonitruale etrusco, dal primo giorno lunare del mese di giugno, dice cosi. Se tuonerà nel'primo giorno della  luna di giugno , vi sarei abbondanza di biade, eccettuato l'orzo, ed i corpi umani saranno attaccati da perniciosi morbi ; E se tuonerà nèl secondo, le donne partoriranno piu facilmente, ma peri ranno le greggi, e vi sarà abbondanza di pesci. Tuon andò  poi nel terzo sara il caldo secchissimo per modo, che non solamente gli asciutti prodotti della terra, resteranno inariditi, ma si abbruceranno ancora gli umidi e i verdi.  Laddove se tuonerà nel quarto, l’aria sarà talmente coperta, di nubi, e sì piovosa,  che le biade periranno per la putrida umidità.   Se tuonerà nel quinto giorno, sarà dinfausto presagio alla campagna, e si turberanno tutti quelli, che presiedono ai villaggi, ed ai piccoli castelli, e borghi ; Se nel  RAGIONAMENTO Vili, E IX SULLA SCIENZA TONITRUJLE, E FVLGURARIA DEGL’ETRUSCHI   rpày.[x«Tcc re Fai $u<rto> oyìav è?s7rovv;'7av ( oi Svpfavot ) sm' Aererò» 9 stai ra 7repe t»jv xepavvosxomav sarà to*vt&>v  àv.S'peomav e^et^yacavro. Diod. Sic. lib. 5 , p. 3 l 6 .   B^ovrat xaS' v7rvous ayyèXwv èics Xòyot, Astrampsycb. de Sonili. interp.  F_Ja superstizione, il più funesto di tutti i flagelli che affliggessero mai, in qualun¬  que regione, ed in qualunque età, Ì umana specie, facendola gemere sotto il giogo  più duro, e più pesante di quanti ne seppero immaginare, e fabbricare, la tirannide  più scaltra, e il despotismo più sospettoso, mescolando ognora profanamente, per meglio abbrutirla, ed opprimerla, il venerando nome di Dio, alle loro malvagità le più  enormi, fu sempre, e presso tutti i popoli della terra, il maraviglioso ordigno, e l’ef¬  ficace strumento, onde si valsero gli astuti, ed i tristi, a danno dei semplici, e dei  buoni, ed i potenti, é gl’ippocriti, per dominare i deboli, e farsi giuoco dei creduli-   Questa Furia pertanto, esecranda, e crudele, la peggiore di quante ne racchiude  nel suo seno lInferno, che ha percorso sotto varie vestimenta, e con diverso aspetto,  tutta la superficie della terra, è quella che fece risuonare di strani ululati , e di querule grida le selve di Marsiglia, pei riti sanguinari di Teuta, le foreste di Norimberga, per quelli d'Irmensul le montagne della Scandinavia, per placare l ira di  Thor o la vendetta di Odino, e le pianure della Perside, onde rendersi propizio Arimane ; ed è pure quella medesima, che tinse di umano sangue le rive di Aulide , e  della Tauride, fece scorrer vermigli itessalonìci torrenti, e quelli d Irlanda, acce¬  se gli orrendi roghi di Lisbona, e di Spagna, desolò le Americane contrade, e coperse in una sola notte la Francia intiera, di spavento e dì lutto.   Questa Furia spaventevole che prende tutte le forme, e che le varia poi in mille  guise secondo i climi diversi, ed atteggiandosi ancora nel percorrere in ogni direzione la terra, secondo le differenti passioni, e la varia indole dei popoli, ebbe anche  presso gli antichi Etruschi, influenza grandissima, e prepotente dominio. Nè avrebbe,  potuto accadere diversamente in una nazione, ove la casta sacerdotale, o i collegi  dei Tusci, facevansi , come in Egitto, e nelle Indie Orientali, una privativa dell istru¬  zione, e di tutte le cognizioni letterarie e scientifiche .   Ora questa medesima Erinni,invadendo l’antica Etruria, e facendone in cèrto modo  suo nido, signoreggiò in singoiar guisa gli spiriti dei nostri antenati, prevalendosi  anche presso di loro, di tutti gli strumenti opportuni al suo scopo. Laonde s impa-  Etr. Mus . Chius. Tom. 7 . 11    ri  0  8o   o/o dal fulmine aneli essi, come facevano i loro maestri. Quindi allorché esso partiva  dall' Oriente, ed avendo toccato leggermente alcuno , ritornava da quella parte, era  questo il segno di una perfetta felicità . Non traevasì peraltro nessun augurio del ful¬  mine, quandi esso altro non faceva che strepito. Quelli poi che sembravano promettere  lene , o male, erano presi per contrassegni della protezione, o della collera di Dio .  Laonde V erano fulmini di cattivo augurio , dei quali potevasi peraltro allontanare  il presagio, come dipendeva dalla volontà degli uomini il procurarsi quello dei ful¬  mini di augurio favorevole , per mezzo di cerimonie religiose, e di offerte. Ve n era¬  no poi altri, di cui non era dato ai mortali di rimovere la minaccia, per via di alcuna espiazione.   Brasi introdotto pure fra i Romani, come insegnavasi in Etruria , che romoreg-  giando il tuono dalla parte destra, annunziava sempre qualche cosa di felice, e che  era di funesto presagio allorchéfacevasi sentire dalla parte sinistra. I luoghi colpiti  dal fulmine divenivano sacri anche pei Romani, come tali divenivano per gli Etnischi, e non era più permesso d!impiegarli ad usi profani. J i s inalzavano allora de¬  gli altari al dio Tonante, e gli Aruspici avevano cura di consacrarli col sagrifizio  di una pecora, dal cui nome venivano detti bidentali. Anche gli alberi fulminati dovevano essere purificati, ed una certa classe di sacerdoti delti strufertarii facevano in  tale occorrenza un sacrifizio colla pasta cotta sotto la cenere.   Se dobbiamo prestar fede a P ausonia gli abitanti della città di Seleucia adorava¬  no il fulmine, che eglino riguardavano come la loro divinità suprema. Cantavano inni  in suo onore, ed il culto di esso era accompagnato da singolarissime cerimonie.  Ma è da credersi che il fulmine altro non fosse , se non se il simbolo di Giove, che  adoravano quegli idolatri come essendo il padrone degli Dei . Nella Mitologia erano i Ciclopi che fabbricavano entro la fucina dell’Etna i ful¬  mini al padre degli Dei, e servivansi per comporli, e temprarli delle seguenti materie. Mescolavano insieme i terribili lampi, lo strepito spaventevole, le striscianti  fiammé , lei collera di Giove s ed il terrore degli uomini.   Il fulmine però non era l’attributo esclusivo di Giove. Nell’opera di Ralle intitolata Ricerche sul culto di Bacco, stampata a Parigi nel 1824, domo primo pag.  61, si legge che Proserpina ingenerò Zagreo, cioè Bacco, colla testa ornata di cor¬  na, il quale da se solo, e senza veruno esterno aiuto, s inalzò al trono di suo padre,  e trattò il fulmine colle mani ancora infantili. E nella descrizione delle pietre incise  del gabinetto Stoscliiano parla il IVinkelmann, a pag. 234 , di una corniola, rap  presentante Bacco con diversi attributi, ed un Satiro, ai piedi del quale vede si il ful¬  mine. Anche Luciano, e Nonno panopolita, come pure molti monumenti antichi anno il fulmine per attributo a Bacco ,   Tutte le grandi divinità del paganesimo , avevano due caratteri distinti: Luna  generale •, ed era quello del primo principio, dotato della forza, e della potenza universale, e l’altro particolare, che ciascuna di quelle divinità riceveva dalle funzio-  , 7sesto s ingenererà un insetto nocino nelle mature biade, e se nel settimo regneranno   dei morbi, senza però che ne molano molti, e le secche biade cresceranno, mentre s’inaridiranno le umide , e verdi,   . Tuonarldo nel giorno ottavo sarà annunzio di grandi piogge, e della morte del  frumento, nel nono significherà che dovranno perire le greggi per l'incursione dei  lupi, e nel decimo che vi saranno frequenti morti, ma che tuttavia l'annata sarà fertile;Mentre se tuonerà nelVundecimo, annunzierà innocenti calori, e letizia alla repubblica, e se nel duodecimo accadeva lo stesso   Quando tuona nel giorno decìmotèrzo, minaccia la rovina di un uomo prepotente,  nel decimoquarto, indica che l’aria sarà eccessivamente calda, e non dimeno sarà lieto il provento delle biade, con gran comodità di pesci fluviali, ma i corpi cadranno in  languore; E se poi tuonerà nel decimoquinto i volatili saranno affetti da incomodi  nell estate, e periranno le bestie natanti.   Se nel decimo sesto giorno tuonerà, non solamente minaccia diminuzione dell'an¬  nona, ma anche guerra, e verrà tolto dimezzo un uomo floridissimo; Se tuonerà nel  dectmo settimo, vi saranno calori grandissimi, e mortalità di topi, di talpe e di locuste i E non pertanto l’anno apporterà abbondanza e stragi al popolo romano. Tuonan¬  do nel decimottavo , minaccia calamità ai frutti, nel decimonono moriranno gli ani¬  mali nocivi agli stessi frutti, e nel ventesimo minaccia dissezioni al popolo romano. Quando tuona nel ventunesimo giorno, indica penuria di vino, buon provento del¬  ie altre raccolte, e gran copia di pesci-, nel ventesimosecondo presagisce un calore  dannoso, e nel ventesimoterzo dichiara letizia, allontanamento di mali, e fine di  morti. E così nel ventesimoquarto annunzia abbondanza di tutte le cose, e nel ventesimo quinto significa che vi saranno guerre, e mali innumerevoli.   Finalmente se tuonerà nel giorno vigesimo sesto , il freddo nuocerà alle biade, nel  vigesimo settimo, i primati della repubblica avranno da temere di andare incontro a  perigli per parte dei soldati, nel vigesimottavo, sarcivvi libertà di biade, mentre  tuonando nel vigesimonono , le cose della città si troveranno in migliore stalo, e nel  trentesimo, vi saranno per breve spazio di tempo spesse morti. E così di tulli gli altri  mesi. Allafine poi dell’ultimo mese, a pag. i 55 viene osservato, che Nigidio oiu-  dico che questo Diario tonitruale, non fosse generale, ma per la sola città di Roma.  Nè ciò parra fuori di proposito , a chiunque facciasi a riflettere che i sacerdoti etru¬  schi, erano solili vendere a caro prezzo la loro scienza , a tutti quelli che ambivano  di farne acquisto, e singolarmente ai Romani, che ebbero cominciamento da u na  ciurma di banditi d Etruria, e ne divennero poi gli emuli, quindi i nemici, e final¬  mente i padroni, ed oppressori.   Impararono però ben presto anche i Romani a fare la distinzione fra i fulmini lanciati il giorno, e quelli che lo erano nella notte-, E credevano che partissero i primi  dalla mano di Giove, ed i secondi da quella di Summanno, la qual dottrina è tutta  etnisca. Dopo questa distinzione, non tardarono molto a trarre ogni sorta di presa-  m   p. e. gl' Iotorti, i quali sono quelli che tracciano cadendo una linea tortuosa, nei  quali sono prima di tutto da ammirarsi,al dire di essi, la loro natura, e la difficol¬  tà di contemplarli ; Ed aggiungevasi dai medesimi libri, che non lutti producono i  medesimi effetti, neppure quelli che vengono formati, secondo loro, dall' aria, e dal  concorso delle nubi. E vi si trovano più altre osservazioni di questa, e di altra spe¬  cie, che sono pure riferite da Lidio a pag. 171, cap. 44 •   Afferma anche Arduino che i Tusci attribuivano a noveDei la facoltà di scaglia¬  re i fulmini, e che ne distinguevano undici specie diverse j E per viepiù persuadersi  che eglino riguardavano come cosa di grande importanza la scienza dei fulmini, leg¬  gasi anche Seneca, lib. 2.° cap. 32 , 33 , e seguenti, delle questioni naturali, ov’ egli  descrive prolissamente tutta la lor dottrina, e tutta la loro scienza sui fulmini, ed an¬  che intorno alla divinazione per mezzo dei medesimi-. Lo che tocca pure Cicerone nel  libro primo della divinazione. Censormo poi al capitolo xi, pag. 69 , De die natali,  loda esso pure i libri rituali degli Etruschi. I medesimi Etruschi avevano eziandio alcune singolari opinioni per impedire che  i fulmini cadessero in certi luoghi, piuttosto che in altri. E cosi, leggiamo nei Geo-  ponìci, o scrittori delle cose rustiche, lib. 1 , cap. 16 , che sotterrando in un campo  la pelle di un ippopotamo, ivi non cadrà il fulmine-, E nel lib. 8.°, cap. xi, è soggiun¬  to , con una sentenza di Zoroastro « affinchè nè i tuoni nè i fulmini facciano svanire  i vini » dopo di che si prosegue cosi • Il ferro sovrapposto ai coperchi dei dogli , e  delle botti, allontana qualunque danno possano cagionare ai vini i fulmini, e i tuoni.  Osservazione la quale fa un poco ai calci colla buona fìsica, ma ciò non monta. Co¬  si la spacciavano i Tusci ! Certuni poi vi sovrapponevano alcuni rami di alloro , i  quali dicevano essere giovevoli in ciò, per contrarietà di natura, e qui avevano ra¬  gione . Nei suddetti libri sacri, e rituali dei Tusci, incontratisi ancora altri nomi da ti  ai fulmini, oltre quelli già riferiti in questo ragionamento. Imperocché altri ne chia¬  marono Fumidi, altri Candidi, altri Irruenti, ed altri Presteri,' E ciò dicevano essi  di aver istituito, perchè producono diversi effetti. Quindi soggiungevano che gli  Ardenti sono quelli che si dicono Presteri, e quelli senza fuoco son chiamati Tifoni,  laddove i più languidi son detti Enifie. Diconsi poi Egide quelli che noi diremmo  Prefratti, o rotti prima, i quali sono portati da un igneo globo • Donde avviene che  V etnisca tradizione, mette le Egide intorno a Giove, quasi insinuando che l’aria è  la causa cosi della procella, come del fulmine, e della concussione del tuono. Quando il fulmine romoreggiava fra il giorno, e la notte, solevano chiamarlo I ROMANI fulmen prevorsum, e dietro gl’insegnamenti degli Etruschi attribuivanlo a Giove, ed a Summanno. Gli Scandinavi, ed i Celti, abitanti delle parli settentrionali d’Europa',credevano che i rimbombi dei tuoni fossero cagionati dai colpi di clava, coi  È cosa degna di osservazione il vedere che  gli Scandinavi, ed altri popoli del Setten¬  trione facessero essi pure uno studio particolare sui fulmini , sui baleni, e sui tuoni ,  e che avessero formato di ciò una scienza  come gli antichi Etruschi, giacche rAnnua-     ni, alle quali l'aveva ridotta il sistema del politeismo. Elleno avevano per attributo  il fulmine, sotto il primo rapporto, ed è ciò che si ritrova presso tutte le nazioni an¬  tiche. I libri degli Etruschi contenevano secondo Pliniolib. 2.° cap. 52 , nove Divinità che lanciavano i fulmini -,fEd attribuivano a Marte quelli che producevano degl' incendii.   Eravi a Milon in Egitto, un tempio dedicato a Nettuno fulminante, per testimonianza di Ateneo, lib. 8.° E Sidonio Apollinare chiama lo stesso Nettuno Giove  Tridentifero, in questi versi,   Sacra Tridentiferi lovis hic armenta profundo  Pharnacis immergi! genitor,-   Mentre Stazio nel primo libro dell' Achilleide, lo chiama ii secondo Giove. Apollo veniva spesso rappresentato, secondo il Golzio, colle ale ed il fulmine j.  E si vede su molte medaglie romane colla testa coronata di lauro, ed il fulmine in  mano. Sofocle nell’Edipo Tiranno, v. 47 J, e Plinio, lib. x, cap. 2. 0 , parlano pure di  Marte fulminante, come si vede su diversi monumenti antichi.   Vulcano lanciava aneli’esso il fulmine, secondo Virgilio, e Nonno nelle Dioni¬  siache, ed alcune medaglie dell isola di Samo, lo rappresentano cosi. Vedesi poi il  Dio Pane col fulmine, su due piccole figure romane in bronzo, e ne parla Ateneo  nell ’undecitno libro dei Dipnosofisti.   Cibele si vede spesso rappresentata col fulmine, e lo portavano pure Minerva, e  Giunone ,• E quest’ultima era collocata a Cartagine sopra un lione, tenendo il fulmine sulla destra, e lo scettro sulla sinistra-, Mentre della prima dice Virgilio:   Ipsa lovis rapidum jaculata e nubibiis ignem.   Finalmente lanciava il fulmine lo stesso Amore -, E questo Amore Kspmvofofos, cioè  laudante il fulmine, era scolpito sullo scudo di Alcibiade, secondo l’Epigramma  228 dell’Antologia greca. Molti poi sono i generi degli stessi fulmini. Insegnavano i Tusci, e lo riferisce  anche Plinio, che quelli i quali vengono asciutti, non ardono, ma disperdono, e che  gli umili non bruciano mainfoscano.Quindi ne annoveravano un terzo genere,chiamato chiaro', i quali sono di una natura veramente mirabile, imperocché asciugano , p.  e. le botti, piene di vino o di altro liquido, lasciandole intatte , e non iscorgendovisi  alcun vestigio per ove le abbiano vuotate . Di più, l’oro, l'argento, ed il bronzo, vengono da tali fulmini liquefatti entro gli scrigni o nei sacchetti, ove suino riposti,  senza arderli in verun modo, e neppure abbronzargli, ed anche senza guastare il sigillo di cera col quale siano stati chiusi. Si racconta che Marcia principessa romana fu colpita da uno di questi fulmini, essendo gravida, il quale uccise il feto che  ella portava, ed essa poi sopravvisse senza verun altro incommodo; E narrasi ancora nel prodigi Catilinarii del Municipio Pompeiano,che Marco Erennio Decurione fu  percosso da un fulmine in giorno perfettamente sereno.   Oltre questi generi di fulmini, ì libri dei Tusci ne contenevano ancora altri, come,  Etr. Mai. Chius. Tom. I. 12  84   trar nel cielo: opinioni uscite tutte quante dalle dipinture allegoriche delle antiche  rivoluzioni del nostro globo. I Brasiliani, ad ogni scoppio di tuono, riguardano tremando il cielo, e sospirando ; E credono che sia il loro Agnian, o lo spirito maligno, che minacci di percuoterli. Almeno cosi ci assicura il viaggìator Cereal. In Circassia, i piartele tuona, escono  gli abitanti dai villaggi, e dalla città, e tutta la gioventù si mette, al dire di Tavernier nei suoi viaggi, a ballare, e cantare in presenza dei vecchi.   Le quali danze, e le quali cantilene, se non furono funebri, o guerriere nel loro  principio, bisogna dire che la gioia di quei popoli sia fondata sull' idea che il tuono  sia di un felice presagio. Idea conforme ancor questa a quella dei Persi, e di un gran  numero di popoli antichi, ì quali credevano che il fulmine rendesse sacro tuttocio che  toccava-, E ciò perchè presso i Magi era il fuoco temblèma della Divinità, conforme  si può vedere eruditamente provato dal Signor La [fide, nell opera da lui composta   sulla religione dei Persiani, cap. primo. Presso i sunnominati Circassi, un uomo ucciso dal fulmine è giudicato avere ri¬  cevuto da Dio un gran favore : E se il fulmine stesso è semplicemente caduto sulla  sua casa, egli e tutta la sua famiglia sono nutriti per un anno a spese del pubblico .   Era opinione degli antichi idolatri, che Giove punisse, non già con volgari ga-  stighi, ma bensì fulminandoli, tutti gli spergiuri. E però si legge in Aristofane, nh.  w Si i z* tw-wtmSt ~ h cioè « Imperocché Giove scaglia questo fulmine vera¬  mente mirabile, contro gli spergiuri . Ad onta però di queste popolari credenze, non  mancavano tuttavìa di quelli, che le schernivano, e se ne ridevano di tutti i volgari ti¬  mori . Difatti Luciano, nel Timone, riprendendo timprudenza di alcuni uomini, che  spergiuravano in dispregio dei Numi, subindicò il timore del fulmine dìcen o che que  sta specie di mortali , temono più una lucerna spenta , che la caduta di uri fulmine , e   di esserne colpiti. s™» w » «cuy»:. ™ ™ 5 T0=   «fawoo vale a dire: pertanto alcuni di quelli che spergiurano, temerebbe   piuttosto una lucerna spenta, che Infiamma di quel fulmine domatore di tutte le cose.   I Romani , che al dire di Cicerone, presero auspicia et sacra ab Ltruscis, e secon¬  do Valerio Massimo derivarono tutti i semi della religione dall Etruria, e noi aggiungeremo francamente, anche ogni demento di civiltà , fecero passare un gran  numero di etruschi Numi a Roma . Quindi provano con buone ragioni, ed autorità .  il Dempstero, ed il Gori, che erano presso che infinite le divinità adorate dai nostri  maggiori, e che la più gran parte presero domicilio in Roma. Laonde chiameremo  temerarie, e stolte le critiche mosse da alcuni Archeologi più moderni, contro quei   te alla prima percossa che hanno dal fulmime, non dispiacerà ai nasini lettori il vedere mes¬  cle nessuno animale è arso, o acceso dal te qui a confronto le supersituom tomtrual,   r7P f u l vararle desìi Scandinavi, ed altri setten-   fulmine, se non e morto, e simili. ejiu 0 uiun 5   t j ] , . t j’ /-.p trionali con Quelle desìi cinlichi Etruschi sui'   Lasciando ora da parte quanto siano tali os• inori un / &   servazioni consentanee alla buona fìsica , 1 ° stesso proposito»  quali il loro Dio Thor percuoteva ì Giganti. Il qual linguaggio è lo stesso che quel¬  lo dei moderni Persiani, i quali credono che le stelle cadenti siano colpi di fulmini,  che gli Angioli scagliano nelle altre regioni, contro i Demoni, che si forzano di rieri-    rio tonitruale di quelli , ha molta somiglian za col Diario fulgorale, e tonitruale di questi.   Si legge infatti in Olao Magno, lib. i, cap.  3i della sua storia delle genti, e della natura  delle cose settentriouali , cne i tuoni di gennaio  significano che i venti soffieranno con mag gior gagliardia del solito, e che sorgeranno le biade più dritte , e grandi. Quelli di  febbraio annunziano una grande mortalità  e singolarmente di quelli che vivono nella  delizia. E quelli di Marzo indicano gagliardi venti , e che vi dev’essere gran fertilità  in quell anno , e straordinario strepito nei  giudizii .  Indicano i tuoni di aprile che cadrà una pioggia conveniente elle biade 9 e che la campagna sara abbondante in tutto il corso del¬  l'anno, mentre quelli di maggio significano  tutto il contrario, cioè, penuria di biade,  ed una formidabile carestia di tutte le cose. Presagiscono poi quelli di giugno una  piu abbondante fertilità, benché predi cono  al tempo stesso infermità spaventevoli.   1 tuoni di luglio annunziano abbondanza di  frumenti , ma distruzione di legumi 9 e di  frutti . Predicono quelli di agosto che gli  uomini converseranno pacificamente fra toro 9 ma vi saranno malattie pericolose 9 E  quelli di settembre denotano fertilità in quelIalino, nel quale però sovrastano guerra,  sedizioni, e morti . 1 tuoni di ottobre sono qualificati coll’epiteto  di portentosi, perche indicano grandi tem  peste in mare, ed in terra ; quelli di novembre, benché raramente tuona in tal mese ,  promettono fertilità nell'anno seguente. E  quelli finalmente di dicembre significano abbondanza di tutte le cose , ed una gioconda conversazione degli uomini fra loro. Altre osservazioni dei settentrionali sui fulmini , sui lampi, e sui tuoni portano quanto  segue. Quando nell’estate per esempio, tuona  più che non lampeggia, significa dover soffiar venti da quella parte, e per lo contrario se balena più che non tuona, deve cader  molta pioggia.   Quando lampeggia essendo il cielo sereno,  vuol dire che vi saranno pioggie , e tuoni 9  e farà un tempo da inverno E tali cose poi saranno gravissime, ed atrocissime  quando questi lampi , e questi tuoni verranno  da tutte le parti del cielo. Ma se balenerà  soltanto dalla parte ciV Aquilone indicherà  pioggia nel giorno seguente j E se i lampi  verranno dal punto preciso del Settentrione 9 soffieranno venti. Lampeggiando dalla,  parte di Austro , di Coro 9 o f avonio , essendo serena la notte , significherà che devono venir pioggie, e venti da quelle medesime parti.   Dicevano ancora i settentrionali, che i tuoni che  scoppiano la mattina di buonora annunziano  venti e quelli che si sentono nel mezzogiorno  predicono una grossa pioggia . Aggiungevano poi essere imjjortantissimo il sapere da  qua! parte vengono i fulmini , e dove si  dirigono. Imperocché sono crudelissimi quel¬  li che partendosi dal settentrione vanno verso l Occaso , e sono di ottima natura quando ritornano finalmente a quelle parti dalle  quali sono venuti , perche quando vengono  da quella parte del cielo d’ond’ebbero origine, e poi ritornano alla medesima, presagiscono allora una somma felicità da quella parte di mondo 9 rimanendo però infelici  tutte le altre.   E finalmente altre curiose osservazioni aggiungevano intorno a quest’articolo , come, che la  notte piu che il giorno lampeggia senza tuoni , che la natura ha dato il privilegio al-  l’ uomo di essere rare volle ucciso dal fulmine, e che se questo accade talvolta , è assai più conveniente, e pietoso ufficio il sotterrare quel morto , che il bruciarlo . Che te  ferite dei fulmini sono più fredde che tutte  le altre, che le bestie moiono istantaneamen-   parla Cicerone nel primo della divinazione-, nè fa diuopo osservare il diverso inalzarsi della fiamma, o lo scrosciar della medesima, nè lo scoppiettar dell incenso, delle  quali cose scrisse, secondo Stazio, un tal Tiresia, famosissimo augure etrusco. J\è  occorre tampoco far menzione, per esaltare Tetnisca sapienza, di ciò che osserva fra  gli altri Seneca , Uh. n, cap. 4 1 delle quistioni naturali, circa l avere i medesimi  fatta anche la distinzione tra i fulmini prodotti nelle nubi, é nell'aria, d onde scendevano in terra, e quelli che prodotti nella terra slanciavansi in alto, e verso le nubi  medesime, giacché queste, e molte altre simili cose trovansi narrate, e raccolte da  vari autori.   Ma non sono però da passarsi sotto silenzio alcune memorie di PLINIO, ove narra distesamente in due capitoli, le opinioni degli Etruschi, appoggiate ad una ragionevole fiolosofia, circa lessenza, o la natura, e circa le diverse  specie di fulmini da essi distinte. Conferma ivi quel sapientissimo scrittore ciò che  abbiamo qui sopra accennato, che vengono cioè i fulmini, tanto dalle nubi, quanto  dalla terra, ed assicura aneli esso, che trovavansi negli scritti etruschi, nove, o più  probabilmente undici specie di fulmini, delle quali ì Romani loro figli, e discepoli,  non ne avevano osservate, e mantenute che due. Il che viene a confermare sempre piu  il detto di Cicerone, che quei superbi conquistatori, ed oppressori del mondo, ebbero  dagli Etruschi non solamente lorigine, ed i riti religiosi, tutti quanti ne usarono  mai, ma eziandio la civiltà.   Egli osserva pertanto particolarmente, la diversa natura, e diversi singolarissimi  effetti dei fulmini, che dal cielo provengono, e di quelli che dalla terra sono prodotti-,  ed avverte ad un tempo, che queste osservazioni furono trasportate, e trascritte negli  annali romani, aggiungendo inoltre che vi erano pure le maniere ed i riti per chiama¬  re i fulmini, ed impetrarli dal cielo, come fece forse Porsernia, che con un fulmine  così ottenuto , ed accompagnato da un mostro chiamato Volta, devastò, come dicono,  le campagne dei Volsinii. Ei dice di più, che in questa scienza era dottissimo Numa Pompilio, e che avendolo poco bene imitato Tulio Ostilio , fu arso da un fulmi¬  ne-, E che per questo fra i diversi nomi che per l'etnisca disciplina furono dati a Giove, di Statore, di Tonante , Feretrio, e simili, s'incontra pure quello di Elido, o  Evocatore. E finalmente che si prevedono in tal guisa le cose future, benché sia te¬  merità il credere, che si possa comandare alla natura, o sforzarla . Il medesimo autore osserva poi, come il baleno sia piu veloce del fulmine ,  e del tuono , e come perciò il fulmine stesso debbasi prima vedere, che udire.  Circa le qiiali osservazioni di Plinio intorno alla scienza tonitruale, e fuigurari a degl’Etruschi, vi sarebbero da fare molte fisiche riflessioni, se l indole dell opera  per la quale sono scritti questi ragionamenti, lo comportasse.   E sul proposito di questa scienza etrusca, nella quale dice il sullodato Plinio  essere stato peritissimo il re ISuma, ascoltisi anche Ino Livio, lib.t, il quale lo  chiama non solamente dotto nelle arti peregrine, ma eziandio nella tetrica , e trista  due dottissimi scrittori ; Colle quali critiche pretendono di negare, che per esempio , un tal Nume, non abbia potuto aver culto in Etruria, perchè si cede adorato net  Lazio, ed m Roma ,; Avvegnaché dovrebbe piuttosto aver luogo la congettura contraria, come saviamente rifletteva il sapientissimo Guarnacci .   Imperocché, dovrebbe dedursi che se una tale divinità si vede adorata in Roma  e nel Lazio, è ben ragionevole il credere, che abbia prima avuto culto in Etruria-  quando si voglia riflettere, che una colonia etrusca erano i Latini, e che lo stesso  fondatore dell Eterna Città, coi suoi primi abitanti, non furono altro come anche  altrove accennammo, che una banda di fuorusciti Etruschi.  c he se poi igrecomani, sottilizzando, ed ostinandosi ognora più a volere irrefragabili prove, e quasi ancora la fede di battesimo, come diceva il prelodato Guarnac-  ci, che un tale idolo, od un tal monumento qualunque, sia veramente etrusco, e non  greco, nè romano ; Oltre che si può risponder loro che queste prove intrinseche , non  le hanno d’ordinario neppure le cose veramente greche, e romane, e che l'anti¬  quaria iti genere si aggira sulle asserzioni degli antichi autori, i quali ci hanno lasciato scritto, dove i vani Numi, e i diversi riti abbiano avuto l’originario loro culto-,  Si può ad essi aggiungere ancora che ve una probabilità, la quale confina colla certezza, che dove un si gran numero d’idoli, di vasi ed altri monumenti di ogni maniera, sono stati trovati, siano stati pur lavorati. Ed essendo imedesimi stati dissotter¬  rati negli scavi etruschi, ed indicando una grandissima antichità, e mollo superiore  alla civiltà greca, e romana , è irragionevole , ed assurdo il credere, che i soli Greci , e Romani li abbiano dappertutto disseminati.   Ed anche a ciò che dice il chiarissimo signor Vermigliali, il qlude pretende  ( . E roga ime di Admeto e di Alceste) che i monumenti italici più sono antichi, e più  grecizzino, ed al contrario latineggino maggiormente, quanto più si avvicinano  all epoca del dominio romano in Etruria, come pure che gl’itali antichi spesso aspi-  cassero, si può rispondere cosa che sarà di scandalo agli Archeologi pedanti i  quali non sanno, o non vogliono trarsi fuori della traccia segnata dai loro predecessori abbiano essi fatto bene , o male. Ed è questa : ,o,m , ere l e osservazioni  del sullodato filologo perugino, perchè la lingua greca è figlia della vetustissima  etnisca in quanto alle sue radicali, benché ne differisca grandemente nelle inflesStoni, édi Greci sono scolari degli antichi Etruschi, ossiano Pelasghi Tirreni, indigeni d Italia, i quali andarono in remotissima età a colonizzare , e popolare la Tra¬  cia eia Grecia, come m altro ragionamento accennammo . In quanto poi alle aspirazioni degl Itali antichi, procedono queste dall’orientalismo, che ridonda in ogni dove  in Italia, e che vi fu introdotto in tempi da noi oltremodo lontani da una colonia  orientale, coi primi elementi della civiltà, come pure asserimmo nel quarto di ave  Sti ragionamenti medesimi. " e ~   Ma torniamo ai fulmini ed ai tuoni. Non occorre citar qui i libri fatali degli  Etruschi , ricordati da Tito Livio, hi. V, nè i fulgorali, e gli aruspici, dei quali   j3 Etr. Mus . Chius. Tom. J,   Chi mai oserebbe di qualificare l’avvenimento qui espresso, non vedendovisi  che due militari pronti alle difese e alle offese, senza ravvisarvi ne 1 inimico, ne oggetto veruno che sia motivo di questa loro disposizione al combattimento? Ma siccome  questa pittura è nel mezzo d’una tazza, intorno alla quale sono altre figure giallastre,  come questa, in fondo nero, così tenteremo di trarre da quellequalche argomento  a cognizione di questa.  Un corpo esanime steso al suolo, presso cui stanno alcuni combattenti che ne  scacciano altri in costume diverso, mi richiama alla mente l’avvenimento del corpo di  Patroclo, contrastato fra i Greci e i Troiani,e finalmente ottenuto da quelli coll’espulsione di questi '.Non vi sono caratteristiche assolutamente variate tra combattenti  e combattenti, a dichiarar Greci gli uni, e Troiani gli altri,ma pure la totale nudità dei  primi li fa credere eroi,che la Grecia rappresentar suole in tal guisa 2 ;mentre gli altri tre  hanno in testa un berretto: uso asiatico e particolarmente dei Frigi 3 .Hanno essi pure  nella clamide che indossano un segno d'abbigliamento, che raramente onon mai trascurasi nelle figure asiatiche, per quanto io abbia nei monumenti antichi osservato.  L'uomo steso al suolo qual corpo morto, è altresì nudo del tutto, e inconseguenza  spettante ai Greci, cqme difatti era Patroclo il caro amico di Achille, che fu ucciso in  guerra da Ettore, secondo Omero l . Probabilmente anche i due guerrieri dipinti nel  mezzo della patera, e che vedemmo nella tavola antecedente,son due Greci alla custodia e difesa del corpo di Patroclo, ch'è dipinto nel fregio della tazza medesima. Infatti  essi vedonsi ARMATI, MA NUDI, giusta il costume greco eroico, siccome dicemmo. Qui le  figure son ridotte un terzo più piccole di quelle che vedonsi nella tazza originale, ove  sono di color giallastro in fondo nero.  Qualora mi si conceda esser probabile la interpetrazione dell’antecedente rappresentanza della morte di PATROCLO, e del contrasto tra i Greci e i Troiani, per ottenerne  il cadavere, non mi sarà negata fiducia nella supposizione eh'io son per proporre,  che in questa pittura, la qual fa seguito all’antecedente, vi siano espressi gli o-  nori funebri che furon resi dall’amico Achille a quell’estinto eroe, e particolar-   i Galleria oraer. Iliade, Voi. 11 , Tavole cxcix , 3 loghirami, MoDum. etr. ser. 11 , p. 45°-   cc, cci, ccn.  -   a Plot., Vii. Alexand.  I?  disciplina de vecchi Sabini ( che erano Etruschi ), di che non vi è stata mai veruna  cosa piu incorrotta, e veneranda. E dicendo che lo stesso Numa era dotto anche nei  liti peregrini, si deve intender qui di quelli di Samotracia, che erano i idrici , e tri-  sti dei Pelasghi, Tirreni, Etruschi ancor essi, come altrove dicemmo , e lo abbiamo  ripetuto pocanzi; E che i Romani riguardavano come peregrini, perchè tali erano  divenuti per loro, essendo in tempi da essi lontani, passati dagli Etruschi ai  Samotraci . La scienza dei quali riti possedè Porsenna, e molto prima di lui anche Dardano,  il quale portossi in Samotracia pel solo oggetto di conferire con quei sacerdoti, e per  introdurre poi in Troia una religione del tutto ponforme a quella dei suoi antenati, che era l Etnisca. E si noti, che il medesimo Livio, e tutti gli antichi scrittori  ci fanno sapere che il più volte nominalo Numa Pompilio fu religiosissimo, e propagatore in Roma di ogni pia istituzione ; Ove non altro ei propagò certamente, che  riti etruschi.   Ed ecco una erudita chiacchierata sulla scienza tonitruale, e fulguraria degli  Etruschi. La quale potrebbesi ancora condurre più a lungo, ed arricchire di più altre peregrine notizie su questa recondita disciplina, se non fosse il già detto più che  abbastanza pel nostro scopo. Ma come e quando mai, e per quale sovrumana potenza , andarono a mancare queste, e tante altre superstizioni, stabilite , ed inveterate  nel mondo, radicatissime nei cuori degli uomini, e venerate, e temute in tutte le regioni della terra aliar conosciute? In qual modo cessarono i terrori e la paura, onde  avevano saputo gli antichi sacerdoti, di concerto sempre cui Despoti, invadere gli  spiriti dei mortali, tenuti ognora da essi, a bello studio nella cecità, nel timore e nella più profonda ignoranza con mille misteriose ambagi, e con mille disperate minac¬  ce? Scomparvero tutte queste tenebre, e caddero tutti questi arcani e portentosi ordigni, al comparire della luce Evangelica. Al comparire di quella legge, t unica fra  quante ne vide l'universo, che introducesse la vera libertà, e la vera eguaglianza  fra gli uomini. Al comparire di quella legge in somma, che mette, davanti a Dio,  a livello del più temuto tiranno, e del più potente monarca, anche il più infimo  del popolo. In urna di marmo  LI. : flnoai ; qflj  J3 : M : 43    un. fm \iflj : miai : janavi : armo    LIV.  : iaruv/Hflm ; f\nn o   Nell’orlo d’un vaso cinerario di terra cotta  LV,  mtvfl Jtiat v/rji  9°    È questo idoletto in piccolo, quello che dissi esser l'altro, rappresentato più  in grande, e con alquanta varietà nelle Tavole XLIX, e LXVII di questa raccolta, essendo il presente di grandezza simile al suo originale. Ma la di lui piccolezza, e 1 non esser vuoto, non permette che si riconosca per un cinerario, sicché fu tenuto soltanto pel nume che riceve, abbraccia e protegge gli estinti, che  nati dalla materia terrestre tornano dopo la morte in seno alla terra, o per meglio  dire alla natura mondiale, della quale Bacco era il nume tutelare. E poiché mi  si dice che piu d uno di tali idoletti si trovarono in uno stesso sepolcro, da ciò  argomento che speciale fu nel sepolto la venerazione pel nume da questa immagine rappresentato.   Al numero 2 si vede un fregio in bassorilievo che ricorre in giro in un vaso dei consueti chiusini di terra nera, e non v’è differenza in misura tra l’originale e la copia. Il significato mi sembra lo stesso dei precedenti lavori di simil genere. Vedo ancor qui come altrove la Chimera, e credo che l’oggetto sostenuto in mano dagli uomini sia, come nei calendari egiziani, lo Scorpione sidereo. Aoterò di passaggio a tal proposito che il famoso torso egiziano in basalto, che un tempo fu del card. Borgia, pubblicato dal eh. Lenoir alla Tavola  VI del forno [, num. g si vede come qui una figura con Io Scorpione tenuto per la coda, e dietro a se v’è parimente il leone con la coda che termina in  un serpe, e con la Capra sul dorso, nè spiegasi differentemente che pei segni  delle celesti costellazioni. Si vuol peraltro che nella Capra sopra del Leone  si ravvisi il trionfo del Capricorno sopra il Leone, e probabilmente i due serpen¬  ti che nel nostro bassorilievo si manifestano, saranno quei che dominano il cie¬  lo nel tempo dell'indicato trionfo. A tal proposito, gli astronomi osservano, che  mentre il Capricorno comparisce al nostro Zenith, la Vergine si mostra sotto il  segno dello Scorpione , o del domicilio di Marte 3 : e difatti sì nel monumento  chiusino, che nell'egiziano comparisce una figura che ha in mano uno scorpione, se non che nell'egiziano si mostra femminile quella figura, che qui per la sua  nudità, par eh esser debba maschile, ma ciò non si manifesta con sufficiente chiarezza. Che i cavalli abbian luogo in simile rappresentanza relativamente ai Cavalli siderei, già me n espressi altrove abbastanza,, ove mostrai principalmente essere il cavallo sidereo un paranatellone del levare eliaco dello Scorpione J . 3 Lettere di etnisca erudizione . 1 Lenoir, Nouvelle explic. des hieroglyphes  a ivi. Tom.i, p. io4-  %   mente il giuoco del pugilato col cesto, che Omero 1 * pone il secondo tra gli spettacoli  dati in onore di Patroclo nel di lui funerale 3 4 . Nei vasi, che negli annali dell’istituto di  corrispondenza archeologica si dicono panatenaici, vedonsi a lato dei combattenti,  col cesto come qui, degli uomini coperti d'un manto con braccio scoperto, e dall'in-  terpetre attamente chiamati rabdofori 3 , i quali assistendo a quel giuoco hanno  in mano una verga biforcata, similissima a questa dei presenti i . Le due ultime  nude figure una soccombente all’altra prevalente, ancorché senza cesti alle mani, mostrano che i pittori aggiungevan talvolta delle figure e dei gruppi a capriccio, ad  oggetto d'empir lo spazio che doveasi dipingere. Se però consultiamo i più moderni sentimenti degli archeologi, troveremo-ammessa pure l’ipotesi, che una fi¬  gura umana stesa per terra presso alcuni combattenti, ascrivere si debba, unicamente ad alcuno dei contrasti gimnici, senza ricorrere al particolare avvenimento di Patroclo per isvilupparne il significato. Un sacerdote di BACCO ed una Menade con dei vasi libatori formano il soggetto di questa pittura, e son frequentissimi quanto altri mai nei vasi fittili dipinti , onde potremo giustamente ripetere col Lanzi che di cento vasi tornati a  luce, novanta contengono soggetti bacchici. È singolare il tirso eh’ entrambe le  figure sostengono, mentre ha un'armilla che nei tirsi non è comune, ma nemmeno del tutto insolita, senza che per altro s’intenda qual n'era l'oggetto.  Nell’oscurità di questo soggetto non altro saprei ravvisarvi che il celebre gre¬  co Capaneo estinto sotto le mura di Tebe. Altrove pure narrai come questi van-  tavasi che avrebbe presa Tebe, volesse Giove o non volesse, ma provocati gli Dei  con tali bestemmie, ne accadde che mentre il primo dava la scalata, Giove non  lasciò compier l’impresa, e con un fulmine Io precipitò dalla scala e lo uccise 6 .  Or io noto che qui si vede una scala squarciata dal fulmine, un uomo rovescia¬  to che dall’alto cade a terra, e dietro a lui le mura forse di Tebe, dove stanno  alla guardia militari tebani. Le altre figure si possono intendere pel restante del¬  l’esercito, eh’è spaventato, e stramazzato a terra per lo spavento del fulmine.  L'urna in marmo è cinque volte maggiore di questo disegno.  i Iliad.   a Galleria omerica Iliade Tom. u, p. 18*.   3 Voi. n, p. 218.   4 Ivi, lav. xxi, io, 6. xxu, 8. 6.    5 Gerhard, Annali dell’istituto di corrispondenza  ardi. Tom. in. p. 54 Anno 18 3 i  6 Monumenti etr. ser. i, Tav. tav. lxxxvil. #     mv  XLIV, e altrove, mentre altri sono come il presente eseguiti in forma di vasi  con capricciosi ornamenti, rivestiti per lo piu da fogliami, e con iscrizioni latine,  come pur qui si legge, indicando il nome di Lucio Aulo Carino. Io stesso nella mia dimora in Chiusi vidi molti monumenti e rottami di essi, di stile greco  e romano e bellissimi.    Nell’interno d’ una tazza di terra verniciata in nero, si vedono queste due  figure di color giallastro; e sono, per quanto mi sembra, d'uno .stile perfettamente simile a gran parte di quelle pitture monocromate dei vasi italo-greci.  Vi si rappresenta un suonatore con cetra e plettro , in atto di attendere dalla  Vittoria il premio del suo valore, e credo che ciò alluda ai pregi morali dell’ani-  ma, che negli estinti son premiati nella vita futura; e perciò soggetti simili ed  analoghi a questo si trovano frequentemente dipinti nei monumenti che pone-  vansi nei sepolcri, ma ora corrono altre opinioni.    Se aver vogliamo un esatto conto d’ogni figura eh’è in quest’ urna di mar¬  ino, il cui disegno qui è un ottava parte del suo originale, non saprei se potessimo riescirvi con plausibile disimpegno. Ma se consideriamo che gli artisti obbligati a trattare nelle opere loro un qualche mitologico soggetto, eran poi costret¬  ti ad ornarne tutto lo spazio del marmo che formava il primario lato dell’urna  sepolcrale, ancorché il soggetto da loro scelto non richiedesse tante figure, quante  ne occorrevano ad ornare lo spazio determinato, noi troveremo irreprensibile lo  artista che abbonda in figure, ancorché non richieste dal soggetto che tratta, co¬  me ne somministra un esempio assai chiaro il bassorilievo di questa Tavola. Io  vi ravviso Ulisse in atto di adoprare il suo arco, il qual potea dalle sole sue mani esser teso, ed uccide i proci di sua moglie Penelope, i quali dilapidavano le di  lui sostanze. Egli ha un berretto appuntato, eh’ è la consueta causia che lo distingue come famoso viaggiatore del mare ’. Sta con un ginocchio sull’ara, mostrandosi protetto dai numi 3 nella difficile impresa d’esterminare egli solo coll'aiu¬  to del figlio Telemaco i tanti suoi nemici. La colonnetta sulla quale solevansi  tener degli idoli domestici, mostra ch’egli è già penetrato nell'interno della sua  casa, mentre le colonne doriche vedute nella parte opposta danno indizio che lo  avvenimento accade nella sua reggia. La forza ch’egli mostra di fare col braccio  destro per tendere un arco, fa ben ravvisare ch’ei solo poteva piegarlo a forza. i Inghirami, Monum. etr. ser. 1Ì1, p. 19.    % Ved. p. 6i, e sq. e Monum. etr.   Qui si mostra nuovamente un ago, o spillo crinale in oro di un lavoro de¬  licatissimo, considerando che nel suo capo segnato num. 1, della misura stessa  di questo disegno, vi è il lavoro che portato in grande, si vede al min. 2 , il  cui ornato è di semplice bizzarrìa. Il monumento di numero 3 si rende assai  singolare, per essere una di quelle solite fermezze che in luogo d esser di bron¬  zo, come se ne trovano a centinaia, è doro, e rarissima. Si è creduto da taluno che  queste fermezze servissero a chiudere il cadavere nel lenzuolo d amianto dove  bruciavasi, ed in tal guisa è stata trovata ragionevole l'indifferenza che tali fermezze siano in maggiore o minor numero in un sepolcro; e se questo è, noi  reputeremo più che altri opulente il morto presso al quale è stata trovata questa fermezza d’oro. Il numero 4 è similmente d’oro, e credesi frammento d'una collana . II pregio di questo monumento consistendo principalmente nella iscrizione  dalla quale è circondato, così attenderemo di conoscerne 1 interpetrazione per ope¬  ra del cultissimo Vermiglioli che unitamente alle altre del Museo chiusino, ce le piepara per darcele tutte di seguito in quest’ opera stessa.    I Centauri, che nel calendario del gentilesimo, servirono a notare il tempo  d’autunno, in cui celebravasi coi misteri la commemorazione dei morti -, hanno  servito altresì d'ornamento adattato alle lor cassette cinerarie, come qui si ve¬  de, figurandovi uno di tali mostri che avendo rapita una delle donne invitate  alle nozze d’Ippodamia la difende dai Lapiti, che vogliono rivendicarla. II disegno del vaso che qui presentasi la metà più piccolo del suo originale  in marmo statuario,ci fa sicuri che in Chiusi, dove stato trovato, fiorirono due  scuole assai diverse di scultura; funa etnisca, 1 altra romana, giacche si trovano  recipienti eseguiti per l’uso medesimo di riporre ceneri di umani cadaveri, gli uni  in forma quadrangolare a modo di cassetta, con bassirilievi di figure e con etiu-  sche iscrizioni, come ne abbiamo fatti vedere in quest opera alle Tavole XIII,   1 Inghiraroi, Mommi, etr aer. i, p. 1 47» ^44-   Sa mai v’ha luogo all’interpetrazione di queste due statuette di bronzo num,  i e 2, i cui disegni sono grandi quanto i loro originali, potrei avventurare che 1 una  di a. i fosse d’Apollo laureato in fronte e con tazza in mano, comesi vede altrove nei  vasi dipinti 'ri’altra n. 2. diMercurio conpetasoin testa,sostenendo con la sinistra ma¬  no una sacca o borsa ,ch’è propria di questo nume, come tutelare del commercio a .   La corniola che qui mostriamo al num. 3 , ci fa istruiti quanto dagli antichi  fosse apprezzato il gruppo delle tre Grazie, che vediamo ripetuto in un modo  medesimo in tanti luoghi e in tanti tempi diversi. La dimensione della pietra è  misurata dall'ellisse num. 4-    Fu posto in ridicolo il Gori celebre antiquario di cose etrusche, perchè fatti disegnare una quantità d’idoletti in bronzo che si conservano nella R- Galle¬  ria di Firenze i * 3 , pretese dare a tutti loro un nome speciale , formandone una  serie di etrusche divinità senza rammentarsi che soggiogati gli Etruschi, signo¬  reggiarono i Romani in questo nostro paese, ove introdussero colle lor colonie  artisti e culti sacri tutti lor propri. Perch' io vada esente da simil taccia non  mi costringa l'osservatore a dare un nome all’idoletto di bronzo che i sig." editori del Museo chiusino han posto al num. ì, 2 della Tavola C, che nel disegno trasmessomi per la incisione trovo notato esser della grandezza medesima  dell'originale come pure l’altro di num. 3 .È grave danno per la scienza antiquaria che dai collettori di antichi monumenti non facciasi caso nessuno della maniera come questi si trovano sotterrati, dal  che non pochi lumi trar si potrebbero per la storia dell’arte, non men che dei  riti sacri presso gli antichi. N’è prova la figura che trovo disegnata al num. 3  di questa Tav., mentre si scorge di un arcaico stile ben diverso da quello che spet¬  ta alla figura superiore . Or se questi idoletti furon sepolti promiscuamente fra  loro in un sepolcro medesimo, potremo frale supposizioni lecite ammettere che  la figura di num. 3 sia eseguita ad imitazione dell’ antico stile , e contempora¬  neamente all'altra modellata certamente quando nell'arte era noto uno stile assai  più perfetto . Dopo varie mie riflessioni sul significato di queste donne che in  piccol bronzo trovansi frequenti negli scavi d’Etruria, restai perplesso nelle due    i Tishbein, Pittare de’ Vasi antichi posseduti  dal cav. Hamilton. Tom. i, Tav. 8, 9 .Visconti, Museo Pio dementino Voi. 1, Tav. r.   3 Museum etr. exhiben» insigne veterum Etruscorum monumenta aereis tabulis cc, edita et  illustrata .4 Maffei, Osservazioni letter L uomo già rovesciato per terra, che vedasi nel sinistro Iato dell’urna rispetto  al riguardante, fa conoscere già incorniciata la carnificina dei proci. 11 giovine  che vibra la bipenne sopra un armato può significar Telemaco, il quale si presta in  aiuto del padre alla strage di quei malvagi. La Furia infernale tra le colonne  della reggia attamente manifesta il terrore di sì lugubre azione che scompiglia  la casa reale d’Ulisse.I due combattenti al sinistro fianco di quell’eroe son figure, a mio credere, arbitrariamente dall'artista introdotte ad empire un vuoto che  restava senz’esse nel suo bassorilievo, come ho detto poc’anzi, ed anche in occa¬  sione di spiegar la Tavola.   Mi sia permesso di rimettere ad altro miglior Edipo, ch’io non sono, d’in-  terpetrare qual fosse l’intenzione degli antichi Gentili nel rappresentare questo ,  come pure mill’ altri idoletti di bronzo, che trovansi nello scoprire antichi sepolcri. Io posso dire soltanto essermi noto che innumerabili erano gl’idoli dagli  antichi tenuti nei larari come dissi poc’anzi 1 . Ma non so poi quel che signi¬  fichino gran parte di essi, come il presente, nè per quali superstizioni passassero nei sepolcri, qualora non sieno stati considerati che per semplici bronzi atti a dissipare i maleficii 2 . L’Arpocrate fanciullo inetto e silente, perchè non compiutamente ben forma¬  to, significativo del sole ibernale, è il soggetto che in questa piccola statuetta  uguale al suo originale in bronzo si rappresenta. Fu antichissimo in Egitto, e ne  conserva nel fior di loto, che ha in capo, il segnale, ma introdotto a’tempi de’To-  lomei fra i Greci e fra i Romani formossene una divinità pantea 3 con forme non  altrimenti egiziane, fingendolo un Amore, perchè da questi nasce lo sviluppo  della natura produttrice , per cui gli posero in mano il corno dell’abbondanza  che attender dobbiamo dallo sviluppo del calor solare, passato il tempo d’inverno. Il vasetto di terra cotta è parimente rappresentato di misura uguale al suo  originale, ed è dipinto a figure nericcie con fondo giallastro pendente al bianco, o piuttosto d’un bianco abbagliato, ed è d’un genere che gli archeologi convengono di nominare maniera egiziana 4 , sì perchè vi si vedono strane figure  sul gusto di quella nazione, e sì ancora perchè in Egitto si trovan similissimi a questi.    i Ved. la Tavola uxi.   a Monum. etr., ser. i, p. 3 i 6 .   3 Iablonski Pantheon Aegyptior. lib. u, cap. vi,   Etr. Mus. Chius. Tom. 1.    § 7* s q-   4 Gerhard, Annali dell istituto di corrispondenza  archeologica voi. in, anno i 83 i, p. i4>   *4 orecchi, piedi e coda di cavallo, con busto virile: aggregato non comune in  Sìmili fantastiche figure, delle quali ebbi luogo di trattare estesamente altrove,  dandole per simboli autunnali II vaso che ha in mano quel mostro non è che  un emblema di più per indicare la stagione d’autunno, allorquando s’empiono tali  olle di vino. La donna che gli è dappresso è una Tiade seguace di Bacco. II perchè  poi la unione di queste due figure significasse il passaggio della razza umana dalla vi¬  ta rozza e disordinata, alla virtuosa e civile per opera di Bacco e dei suoi misteri, è  argomento sul quale scrissi altrove abbastanza per darne il conveniente sviluppo a .   Delle due figure , che qui sotto al num. 2 si vedono riportate nella misura  di un quarto più piccole dell'originale, dipinte nella parte opposta di questo  vaso, non saprei indovinarne il significato, tranne il supposto d'un’armatura da un  giovane ottenuta nel passaggio all’ età virile i . Il disegno del vaso è ridotto alla  grandezza di un quarto del suo originale .    Questo mistico specchio non può spiegarsi che mediante l'osservazione di molti  altri, nequali per ordinario si trovano insieme dei numi o eroi di opposta natura o potenza. Spesso vi sono espressi Dioscuri, la cui consueta combinazione fu  da me assai esaminata in altre mie carte , ov’io li mostrava in sostanza 4 espressivi di due contrarie potenze, le quali concorrevano, secondo i Gentili alla formazione e conservazione del mondo 5 . Qui pure è Teti e Giunone perpetuamente nemiche fra loro, di che ho pure altrove ragionato 6 . Che la donna seduta sulla  pistrice sia Teti lo mostra chiaro un frammento d una tazza etrusca, dove la figura medesima ivi dipinta ne porta il nome scritto. Che la donna opposta sia  Giunone lo prova Io scettro che impugna.   tavola cv.   Il manico doppio di bronzo qui espresso nella grandezza del suo originale num.  1 mostrasi attaccato da un lato ad una testa femminile di nessuna significazione,  e dall altra ad una maschera scenica virile, nel che manifestasi quanto fossero  vaghi gli Antichi di variare ornamenti, giacché non altro che il capriccio può  a\erli dettati, come qui li mostriamo, per ornarne un vaso di bronzo. Possiamo  frattanto tener per sicuro che gli artisti di Chiusi non furono di meno elevato genio  degli ercolauesi nell’eseguir le opere loro metalliche. Del bronzo in figura di maschera di cui vedu qui il disegno n. 2 , nulla so dire ad istruzione di chi l’osserva.   4 Monumenti etr., ser. 11.   5 Plutatc. de Iside et Osir. in prineip.   6 Galleria omer. voi. 1, tav. xxxix.  opinioni o di assegnar loro il nome di Speranza o quel di Giunone, invocata  dal femminil sesso in loro tutela. Ma chi non sa che la Speranza, e la Fortuna, ossia la fiducia di migliorar sorte nel mondo, era l’oggetto primario del culto gentilesco d’Italia? 5 Il bassorilievo della Tavola presente è un’urna di marmo due terzi maggio-  giore di questo disegno. Qui, a parer mio, si rappresentano i due strettissimi  amici Oreste e Pilade nel pericoloso momento d’essere a Diana immolati, per  l'uso barbaro ordinato da Toante in Tauri, che li stranieri a quel lido approdati  dovevano essere immolati a Diana tutelare del luogo <. Varie tragedie si scrisse-  sero dagli antichi su questo soggetto, taluna forse delle quali dichiarava Oreste  d’età più avanzata che Pilade, o l’età di questo più avanzata di quella dell’altro,  e perciò Pilade più prudente, per cui cred’io, qui è l’uno imberbe, l'altro,  barbato. Le donne che vi si vedono sono le sacerdotesse di Diana, che vicine  al di lei altare stanno con i coltelli pronte ad immolare li sconosciuti stranieri.  Le teste umane posate sull’ara medesima vi son per indizio della consuetudine di  quel barbaro sacrifizio. Per simil modo vedonsi tali teste pendenti ad un albero  presso l’altare di Diana, ove pure Oreste e Pilade son condotti al crudo supplizio  in un sarcofago del palazzo Accoramboni di Roma, e recato in luce dal Winkelmann .  Questa Pallade in bronzo della gradezza dell’originale è come ognun vede,  d’un gusto squisito. Nè vorremo negare, che sia di toscanica officina , giacché è trovata a Chiusi, quantunque lo stile dell’arte ivi usato direbbesi comunemente gre¬  co , o del buon tempo romano. Oltre di che possiamo additar quest’idolo col ge¬  nerico nome di Lare, vale a dire un di quei che i Gentili tenevan chiusi per  loro devozione in alcuni armadi delle lor case col nome di larari. E dicevansi  anche patellari, come Plauto li appella 6 , perchè avevano, come il presente, e co¬  me altri riportati in quest’Opera i, piccole patere in mano, in segno di doman¬  dare ai devoti le prescritte libazioni agli Dei.    Riconosco per un satiro il mostro dipinto nel vaso num. i, perchè vi si vedono   1 Ved. p. 8. 5 Antichi momim. inedit. N°. 1 44 *   2 Ved. p. 18. 65 . 6 PJautoap. Inghirami Monum etr. ser. il. p. 3 2*   3 Plinio. Nat. Hist. lib. n, cap. vii, § v, p* 73- 7 Ved. Tavv. un, lxx.   4 Euripide, Ifigenia in Tauri nell’argoin. greco.  L opposto lato del vaso che porta l'antecedente pittura ha similmente dipin¬  te quattro figure ammantate, insegno, secondo alcuni 1 , di precettato silenzio, co¬  me sembra che non ricusi di ammettere modernamente uno de’ più attenti ed  eruditi interpetri di tali stoviglie, 3 o secondo altri della palestra e del bagno 3 ,  e gli ultimi che ne scrissero, notarono in tal circostanza, che riguardo ai bagni è  assai più comune il vedere i loro utensili posti per dare indizio della palestra, che  il trovar particolari espressioni della loro struttura. Quindi argomenta che i giovani avviluppati nel manto e forniti degli arnesi atti al bagno si mostrino di là  partirne onde recarsi alla palestra 4 . Io peraltro che soglio dare al significato di  tali pitture maggiore importanza, mentre le vedo sì ripetute da tutto il paganesimo, dove fu in uso il seppellir vasi coi morti-senza neppure distruggere l'opinione modernamente invalsa, che significhino esse unicamente il passaggio dei  giovani dai bagno alla palestra, proporrei altresì l’opinione, a parer mio non re-  pugnante, che il vedersi in mano degli efebi gli strigili che usavansi a purgar  la cute da ogni sozzura dopo il bagno, denotasse l’uso delle virtù catartiche, mediante le quali veniva un’ anima virtuosa a purgarsi d’ogni viziosa impurità, e farsi degna della celeste beatitudine. Erano infatti virtù somiglianti insinuate nei  ginnasi dai precettori, che in segno di loro autorità non meno che della disciplina dottrinale che da lor comunicavasi agl’iniziati, e del silenzio che loro impo-  nevasi circa i precetti religiosi dati colla massima segretezza, tennero, come qui, un  bastone in mano 5 . Io dunque vedo nel vaso in complesso, l’immagine della beatitudine in quel convito eh'è daH’anterior parte di esso già esposta antecedentemente, e la occulta e misteriosa via di conseguirla nel significato degli strigili  che hanno in mano i giovani qui espressi davanti ai loro precettori, e inistago-  ghi. Leggo nel disegno di questa incisione mandatami da Chiusi esser le figure,  rosse in fondo nero la metà dell’originale.  Ho il piacere di dar termine alla prima parte di quest’opera sul Museo chiusino, con un monumento de'più interessanti che vi siano stati esibiti, sì per la  perfezione del suo disegno, come anche per l’epigrafi, dalle quali vanno indicate  le figure di deità che vi si contengono. Quest’ultima qualità che rende il monumento assai pregevole alla considerazione degli eruditi, voglio dire 1’ essere  3 Ivi, e Gerhard Rapporto intorno ai Vasi Voi-  centi. Sta negli Annali dell’ istituto di corri»  spondenza archeologica , voi. m, anno i83i r  primo fascicolo, Monumenti, p.   4 Gerhard , 1. cit.   5 Monum. etr. ser. v, p. 3o. 97.  Fin ora sanasi detto esser qui rappresentata un agape o cena funebre, colla quale si terminavano gli estremi onori che rendevansi agli estinti qualificati,  ed a così giudicare ne moveva per ordinario il trovar vasi con tali pitture vicini sempre ai cadaveri ‘.Per simile analogia solevasi dire ancora esser quel con¬  vito, accompagnato da piacevole melodia, una immagine del godimento riserbato alle anime virtuose negli Elisi dopo la morte, come promettevasi agli iniziati  nei misteri del paganesimo a . Ma nel momento attuale corre opinione che non  altro in pitture tali debbasi ravvisare, se non che domestiche mense ed allegrez¬  za sociale, senza frammischiarne l'allusione a varun culto religioso 1 2 3 . Rifletto pe¬  raltro che sfio spiego nel metodo primitivo, cioè l'allegorico, la mensa priva di  commestibili, posso ripeter, come dissi altrove, non esser l’anima suscettibile di  pascolo materiale, essendo la sola mensa un sufficiente segnale del godimento 4 .  Se il pittore ebbe in animo di rappresentarci con questa pittura non altro che  una domestica cena, dirò che la composizione resta incompleta per mancanza dei  cibi, indispensabili ad effettuare l’azione del mangiare.   Spiegai altrove simbolicamente anche Patto, come è qui, ripetutissimo in al¬  tre pitture, di una tazza sostenuta da un commensale cori un sol dito 5 , ove  dissi che a tenore d’ una dottrina platonica le anime che debbono scendere in  questa terra si trovano in uno stato il più leggero possibile, e quindi situate nella più elevata parte del mondo; e conchiusi esserla tazza del recombente signi¬  ficativa del recipiente del nettare per uso de'numi alzata da lui per simbolo del-  Panima sì per la sua elevatezza, e sì ancora per la leggerezza che mostra uel-  l’esser sostenuta con un dito 6 . E qui mi giova il notare altresì che nessuno dei  tre recombenti mostra di bere alle tazze da loro sostenute, nè v’ è alcun vaso da cui rilevisi essere state empite onde bere . Non ostante anche le moderne opinioni hanno tal peso che meritano considerazione, ed io mi son fatto un  pregio di esporle qui non volendomi caricare del giudizio sulla preferenza delle  une sulle altre. Leggo nel disegno di questa incisione mandatomi da Chiusi es¬  sere la metà de! suo originale, e le figure di colordi rosa.    1 Vermiglio!!, Lezioni elementari di archeologia  Voi. i, lez. •vm, § 6, p. 126. Monum. etruschi  ser. v, p. 4y8 .   2 Monum etruschi, ser. v, 3 Annali dell istituto di corrispondenza archeol.   Voi. ili, anno i 83 i, Gerhard, Monumenti   Rapporto intorno i vasi volcenti, p. 5y. Raf¬    faello Politi, descrizione di due vasi fittili gre¬  co siculi agrigentini i 83 r. Ved, bullettaio del¬  l’istituto di corrispondenza archeol. num. xi, 6.  novembre 1 83 1.   4 Monumenti etruschi ser. v, p. .874.   ò Milli», Peintur. de \ases ant. tot». 11. PI. 58 .   6 Monumenti etr. ser. v, p. 376. W" .   ■ ;.;;Y ; ' Iv i;. 1 1-i. 1   . i  >.  -li  •    ir -':i [!T V   C R flS i K R 11 B   j, -* • ‘ * r ' :A   f  t : : -i : .! V fi . '   t. £ ; > C f- v •; r.   f- M 5 !,$   1   C V 5 V V* .   c se ? n 11 a . Egè ri) ' ' ’   ~ : Z > • '   i:- ai*     99   scritto, mi costringe a tenermi in assai ristretti limiti nel ragionarne, poi¬  ché i nientissimi sigg. TÌ editori di quest'opera destinarono con savissima sceltala  illustrazione della parte epigrafica di tali monumenti al prof. Vermiglioli espertissimo quanto altri mai di sì difficile scienza.   A sodisfar dunque soltanto la sollecita curiosità di chi osserva il monumento  qui esposto mi permetto di accennar di volo, esser questo uno specchio misti¬  co di que’tanti che trovatisi storiati nei sepolcri d’Etruria, e solamente lisci in  quei della Magna-Greeia, ed in esso esservi quattro figure di deità cioè la Parca,  Apollo, Venereletea o libitina, e Giunone; e presso le indicate persone i nomi lo¬  ro scritti in etrusco. /3DIVM moiran nome della Parca ripetuto in altri di que¬  sti manubriati dischi 1 * . V4-1/3 Aplun nome chiarissimo d’Apollo, ed altresì ripetuto io vari specchi etruschi 3 . HVT34 Letun Venere letea o libitinia , o  Proserpina, che il Gerhard ha così bene illustrata per una Dea infernale, non distinta però dalla luna 3 , per cui cred’io qui si vede connessa in amplesso con Apollo considerato come il sole. Ecco dunque per la prima volta incontrato negli  specchi mistici il nome di quella donna che sì ripetutamente vi si vede rappre¬  sentata, e che per Venere libitina azzardai nominarla tal volta anche prima della presente ed importante scoperta 4. In fine AH 4/3 0 Talna eh’è nome altresì  ripetuto nei mistici dischi, e che io sostenni con lungo ragionamento esser signi¬  ficativo di Giunone 5 quantunque disgiunta dai consueti simboli di questa Dea, men¬  tre qui ha lo scettro che la •fanno indubitatamente conoscere per la regina degli Dei  unitamente con Giove che n’era il supremo loro imperante. Ma una più sodisfacente  interpetrazione dell'etrusche parole qui riferite debbesi attendere dall’erudito Vermiglio]/', al quale, come io dissi disopra, è destinata.    In urna figulina    LVI.    i flit a a = flnflo   ) f\XF\Y\M   LVH.   AlAtlqAD : 1SUfflM : lOqfld   In urna figulina   lviii.   CO   -A   <   l#q vn : im : fìURO   Idem   LIX.   |   M433 : VfflDt : 33   r Ì433 : VA   LX    V-ÌV# : VD   flitmao    i Monumenti etruschi s a Ivi, p. a 84 -   3 Gerhard, Venere Proserpina illustrata, p. i 5 , e   76, ved. Nuora collezione d’opuscoli e notizie    di scenze, lettere ed arti, pubb. dal cav. Fr. In-  ghirami tom. iv, p. 536 ,   4 Monum. etr. ser. 11, p. 44 <a, 744, e ser. v,p. 193.  5 Ivi p. Sol.  làaBaHBBsasaasa  XXXZ'/Z/. «♦- A'/AZY.Y (IX XUI  m ;_i  lira vz.  7 ’ LII      fC)   i   Ouj/ IsUcAenni. eli/  T £,J\  T. L/A'     • * * :* : -  3TT J ^ JCZ/Z    z,Jirv:  -  T» z^rjrji-'.  IXX3TT 'X  tea   T^reiir.  ir**:-Jàz-j:.     amiBft'igwpcj &r.  CJI.  v ~ Grice e Musonio (Bolsena) G. MUSONIO RUFO C. Musonio Rufo esercita un forte influsso sui contemporanei. Di famiglia equestre dell’etrusca Volsini (Bolsena) suscita per la sua fama di filosofo l’invidia di Nerone. C. MUSONIO RUFO segue Rubellio Plauto nell'Asia Minore e lo incoraggia a togliersi la vita quando Nerone lo condanna a morte. Ritorna a Roma, dove e bandito insieme con Cornuto in occasione della congiura di Pisone e confinato nell’isola di Gyaros nelle Cicladi, ove per la sua rinomanza attira uditori da ogni parte.Verosimilmente richiamato a Roma da GALBA, negli ultimi giorni di Vitellio si une ad una ambasceria del Senato presso Antonio Primo per perorare la causa della pace fra i suoi soldati, ma senza successo.Quando VESPASIANO assunse il potere, C. Musonio Rufo accusa davanti al Senato P. Egnazio Celere, quale delatore e falso testimonio nel processo di Borea Sorano. Vespasiano lo escluse dalla prima espulsione dei filosofi da Roma (71), ma poi lo esiliò per la seconda volta ; però Tito, che già lo aveva conosciuto, lo richiamò dopo la sua assunzione al trono. In seguito mancano notizie su di lui, ma da una lettera di Plinio il Giovane sembra che nel 101-102 non fosse più in vita. Non risulta che abbia composto e pubblicato seritti, anzi sembra che si sia servito soltanto dell’insegnamento orale, del quale, però, rimangono frammenti abbastanza numerosi. Essi comprendono : 19 brevi apoftegmi conservati da Plutarco, da Aulo Gellio e dallo Stobeo ; 2° altri apoftegmi e trattazioni filosofiche relaivamente ampie raccolti da Epitteto nelsuo insegnamen-È e trasmessi i primi da Arriano, le seconde dallo Stobeo ; 3° esposizioni o lezioni che si trovano nello Stobeo o costituiscono la parte più estesa dei frammenti. È verosimile che provengano da uno scritto di quel Lucio che si è già ricordato e che si deve ritenere la fonte più importante dello Stobeo ; un’altra è Epitteto, cioè Arriano. Sembra che un Pollione (probabilmente Valerio Pollione da Alessandria, vissuto sotto Adriano) abbia composto Memorabili di Musonio, ma non ne restano tracce. È giudicata falsa una lettera di Musonio a un certo Paneratide. Le concordanze che si sono osservate tra i frammenti di Musonio e il Pedagogo di Clemente di Alessandria hanno fatto pensare o alla dipendenza di questo da uno seritto di Lucio o alla derivazione di ambedue da una fonte più antica. Della forte azione di Musonio sui contemporanei sono prova i suoi numerosi scolari, tra i quali si ricordano (oltre al genero Artemidoro, amico e maestro di Plinio il Giovane), i filosofi Epitteto, Dione di Prusa, Eufrate di Tiro e il suo scolaro Timocerate di Eraclea, e insigni romani, come Rubellio Plauto, forse Borea Sorano e Minicio Fundano, Musonio si avvicina ai cinici nell’assegnare alla filosofia finalità radicalmente etico-pratiche, accetta spunti dell’ascetismo neo-pitagorico, ma nel complesso dipende dallo Stoicismo con influssi posidoniani. Nel sno insegnamento non trascurò le esercitazioni logiche e i frammenti toccano argomenti di fisica, ma ciò che vi è detto degli Dei, designati con le denominazioni della religione tradizionale, non supera la sfera del pensiero comune e non ha carattere filosofico determinato : invece riporta allo Stoicismo l'affermazione della necessità universale, che equivale alla teoria del fato. Però l'interesse di Musonio si concentra sulla funzione pratica della filosofia, che è assolutamente necessaria in quanto (secondo la tesi introdotta dai cinici nel I secolo a. C. e poi generalmente accettata) gli uomini sono malati che richiedono una cura continua la quale dev'essere prestata dalla filosofia, che perciò è necessaria a tutti, alle donne non meno che agli uomini : essa però è identificata alla ricerca e alla realizzazione della virtù, per conseguire la quale non vi è necessità di molti discorsi, nè di molte teorie ; inoltre, in essa l'esercizio ha maggiore importanza dell’insegnamento (o del discorso). Siccome la natura ha posto in ogni uomo i germi della virtù, se il discepolo non è stato corrotto, una breve dimostrazione è sufficiente per fargli riconoscere i principi etici giusti. Ciò che soprattutto importa è che maestro e discepolo uniformino la loro condotta ai propri principi. Si comprende che Musonio si interessasse in primo luogo della formazione etica degli scolari. Nell’insieme, la morale di Musonio si conforma alle dottrine tradizionali della sua scuola. Occorre distinguere ciò che è e ciò che non è in nostro potere: ora da noi dipende soltanto l’uso delle rappresentazioni, cioè l'assenso dato alle opinioni sul bene e sul male, dalle quali è determinata la giusta valutazione delle cose e quindi l'intenzione quale atteggiamento interiore della volontà; in essa, se è retta, consiste la libertà, la virtù, la felicità. Tutto il resto non dipende da noi | e perciò rispetto ad esso, ossia alle cose esterne, dobbiamo rimetterci all’ordine necessario dell'universo e aecettare volentieri ciò che arreca. Soltanto la virtù è bene, soltanto la malvagità è male e ogni altra cosa è indifferente. Però, per rafforzare la volontà, Musonio ‘ riteneva necessario, oltre l'insegnamento e l’esercizio morale, anche l’indurimento fisico, perchè, essendo il corpo uno strumento indispensabile dell’anima, occorre rafforzare ambedue. In generale raccomanda, avvicinandosi al Cinismo, la vita semplice e conforme alla natura e accoglie dal Neo-Pitagorismo il divieto dei cibi carnei. Oltrepassando le opinioni di molti stoici antichi, esige una vita morale severissima, raccomanda il matrimonio, condanna la limitazione delle nascite e l’esposizione dei figli. Nell'insieme, i frammenti di Musonio rivelano un’anima nobile e retta, appassionata per il bene e guidata dal desiderio di educare gli spiriti, ma a queste doti non corrisponde il valore scientifico degli insegnamenti, perchè i suoi pensieri sono molto mediocri e privi di originalità ; inoltre non si può trovare nelle sue parole l’espressione di una visione della vita vi- brante di dolore e di amore simile a quella di Seneca.  aio Musonio Rufo. Gaio Musonio Rufo (Volsinii) è un filosofo romano.   Frammento di papiro (P.Harr. I 1, Col.), con parte di una diatribe. Sulla vita di Gaio Musonio Rufo, stoico, si posseggono poche notizie certe. È noto che nacque a Volsinii, corrispondente all'odierna Bolsena, in Etruria, che fu cavaliere. Il ‘prae-nomen’ Gaio lo conosciamo solo attraverso Plinio il minore che ci fornisce anche un’altra notizia su una sua figlia (presumibilmente chiamata Musonia, secondo l’uso romano), sposata ad Artemidoro, al quale Plinio presta aiuto anche per stima e affetto nei confronti del suocero. Sappiamo dalla voce “Mousonios” della Suda che Musonio e figlio di Capitone ma non abbiamo altre notizie sulla sua famiglia, che era comunque di origine etrusca. In effetti, il nomen “Musonius” denotare la gens, e viene indicato da alcuni studiosi della lingua etrusca come forma latina di un gentilizio etrusco “Musu,” “Muśu-nia.”.  E capo a Roma di un circolo o gregge filosofico e si dedica anche alla politica, con idee abbastanza tradizionali e moderate. Fa parte del gruppo creatosi intorno a Rubellio Plauto, un discendente della famiglia Giulia. Quando Rubellio Plauto e allontanato da Roma in via precauzionale da Nerone, Musonio lo segue in Asia. Due anni dopo giunge l'ordine del principe di eliminare Rubellio Plauto. Musonio ritorna a Roma, ma,  in concomitanza della congiura di Pisone, e mandato in esilio, in quanto allievo di Seneca, nell'isola di Gyaros, inospitale e rocciosa nel Mar Egeo.  Indicativi della sua integrità morale e della sua coerenza sono altri due momenti della sua vita, entrambi riportati da Tacito nelle Storie. Dopo essere ritornato dall’esilio, forse grazie a GALBA, con il quale sembra fosse in amicizia, nella fase finale della guerra civile seguita alla morte di Nerone, Musonio si rese protagonista di un primo episodio significativo, rivelatore della sua generosa attitudine a mettere in pratica i principi morali e gli ideali di pace che insegna. In una Roma che era teatro di violenti scontri tra le fazioni avverse, il filosofo di Volsinii si impegna a svolgere un’improbabile opera di pacificazione. “S’era mescolato agli ambasciatori Musonio Rufo, di ordine equestre, zelante filosofo e seguace dei precetti dello stoicismo, ed in mezzo ai manipoli prendeva ad ammonire gli uomini armati con le sue disquisizioni sui beni della pace e sui mali casi della guerra. Ciò fu per molti motivo di scherno; per la maggioranza, di fastidio. E non mancava chi l’avrebbe spinto via o l’avrebbe calpestato, se, dietro consiglio dei più equilibrati e fra le minacce di altri, non avesse deposto la sua inopportuna esposizione di saggezza.” Il secondo episodio, ci presenta Musonio Rufo impegnato nella riabilitazione della memoria dell’amico Barea Sorano, che era stato sottoposto a processo e condannato a morte insieme alla figlia Servilia e a Trasea Peto. Contro di lui era stata resa una falsa testimonianza da parte del suo stesso maestro, Publio Egnazio Celere, anche lui appartenente alla corrente stoica. Musonio, che pure nei suoi insegnamenti si dichiarava contrario ad intentare cause per difendere se stesso dalle offese ricevute, in questo caso non esita ad accusare in Senato il traditore per difendere la memoria dell’amico condannato ingiustamente. Come scrive Tacito: “Allora Musonio Rufo attacca Publio Celere, accusandolo di aver attaccato Barea Sorano con una falsa testimonianza. Evidentemente con quell’accusa si rinnovavano gli odii delle delazioni. Ma l’accusato, vile e colpevole, non poteva essere difeso. Di Sorano e santa la memoria. Celere, che fa professione di sapienza, testimoniando contro Barea, ha tradito e violato l’amicizia.” Musonio porta avanti con tenacia il suo impegno, che e coronato da successo. “Fu deciso allora di ri-aprire il processo tra Musonio Rufo e Publio Celere: Publio venne condannato ed ai mani di Sorano e resa soddisfazione. Quel giorno, che si distinse per la severità dei magistrati, non manca nemmeno di elogi ad un cittadino privato. Si era, infatti, del parere che Musonio avesse agito con giustizia in tribunale. Opinione ben diversa si ha di Demetrio, seguace della scuola cinica, in quanto aveva difeso, più per ambizione che con onore, un reo manifesto. Quanto a Publio, non ebbe né animo, né eloquenza sufficienti in quel frangente.»  Più tardi Musonio riusce a guadagnarsi la stima di VESPASIANO evitando la cacciata dei filosofi. Ci e però un secondo esilio e, dopo il suo rientro a Roma, voluto da TITO, le fonti tacciono. Potrebbe essere stato espulso da Roma, assieme agli altri filosofi, a causa di un senatoconsulto sollecitato da DOMIZIANO, che fa uccidere Aruleno Rustico e cacciare Epitteto e altri. Da un'epistola di Plinio minore si apprende che egli non era più in vita.  Si proclama suo discendente il poeta Postumio Rufio Festo Avienio. Probabilmente in modo volontario, sull'esempio di Socrate o Grice e come fa anche il discepolo Epitteto, non lascia nulla di scritto. I principi della sua predicazione filosofica si ricavano da una raccolta di diatribe dovuta a un discepolo di nome Lucio, di cui 21 ampi estratti sono conservati nell'Antologia di Stobeo. Essi sono intitolati: “Che non è necessario fornire molte prove per un problema” “Su chi nasce con un'inclinazione verso la virtù” “Che anche le donne dovrebbero studiare filosofia” “Se le figlie debbano ricevere la stessa educazione dei figli maschi” “Se è più efficace la teoria o la pratica” “Sul praticare la filosofia” “Che si dovrebbero disprezzare le difficoltà” “Che anche un principe deve studiare filosofia” “Che l'esilio non è un male” “Il filosofo perseguirà qualcuno per lesioni personali?” “Quali mezzi di sostentamento sono appropriati per un filosofo?” “Sull'indulgenza sessuale” “Qual è il fine principale del matrimonio” “Il matrimonio è un ostacolo per la ricerca della filosofia?” “Ogni bambino che nasce dovrebbe essere allevato?” “Bisogna obbedire ai propri genitori in tutte le circostanze?” “Qual è il miglior viatico per la vecchiaia?” “Sul cibo” “Su vestiti e riparo” “Sugli arredi” “Sul taglio dei capelli”. Lo stile delle diatribe è semplice. In genere viene posta una questione iniziale, poi sviluppata con chiarezza durante il testo, spesso costruito in modo figurato, usando metafore e similitudini (spesso sfrutta il paragone con il medico, alcune volte intervengono immagini di animali). Questa caratteristica si adatta bene alla sua personalità e al suo tipo di insegnamento, tutto rivolto alla schiettezza della vita.  Ci restano, inoltre, frammenti minori, spesso in forma di apoftegma. A parte quelli sempre di Stobeo (in numero di 14), due frammenti conservati da Plutarco sono brevi aneddoti che potrebbero essere definiti come "detti celebri", mentre tre brani di Aulo Gellio conservano detti memorabili ed un quarto è lungo abbastanza da rappresentare la sintesi di un intero discorso. C'è, poi, un aneddoto in Elio Aristide ed Epitteto ne racconta una mezza dozzina (11, per la precisione). Restano, inoltre, due epistole, concordemente ritenute spurie. Musonio rappresenta, con Epitteto, il principe Marc’Aurelio Antonino e Seneca, uno dei quattro esponenti più significativi del portico romano del principato. Egli, se per certi versi corrisponde appieno alle istanze propugnate dalla temperie spirituale del suo tempo, per altri si distingue e mette in luce, soprattutto per il recupero radicale e profondo di una filosofia intesa come arte del vivere bene e onestamente, cioè mezzo per conseguire uno scopo riscontrabile nei fatti.  Il ruolo della filosofia Egli crede che la filosofia (stoica) fosse la cosa più utile, in quanto ci persuade che né la vita, né la ricchezza, né il piacere sono un bene, e che né la morte, né la povertà, né il dolore sono un male; quindi questi ultimi non sono da temere. La virtù è l'unico bene, perché da sola ci impedisce di commettere errori nella vita. Del resto, sembra che solo il filosofo si occupi di studio della virtù. La persona che afferma di studiare filosofia deve praticarla più diligentemente di chi studia medicina o qualche altra attività, perché la filosofia è più importante e più difficile da comprendere di qualsiasi altra occupazione. Questo perché, a differenza di altre abilità, le persone che studiano filosofia sono state corrotte nella loro anima da vizi e abitudini sconsiderate, imparando cose contrarie a ciò che impareranno in filosofia. Ma il filosofo non studia la virtù soltanto come conoscenza teorica. Piuttosto, Musonio insiste sul fatto che la pratica è più importante della teoria, poiché la pratica ci porta all’azione in modo più efficace della teoria. Sostene che sebbene tutti siano naturalmente disposti a vivere senza errori e abbiano la capacità di essere virtuosi, non ci si può aspettare che qualcuno che non abbia effettivamente imparato l'abilità di vivere virtuosamente viva senza errori più di qualcuno che non è un medico esperto, un musicista , studioso, timoniere o atleta ci si poteva aspettare che praticassero quelle abilità senza errori.  In una delle sue diatribe, si racconta il consiglio che offrì a un re in visita, dicendogli che deve proteggere e aiutare i suoi sudditi, quindi sapere cosa è buono o cattivo, utile o dannoso, utile o inutile per le persone. Ma diagnosticare queste cose è proprio il compito del filosofo. Poiché un re deve anche sapere cos'è la giustizia e prendere decisioni giuste, il principe studia filosofia, anche per possedere autocontrollo, frugalità, modestia, coraggio, saggezza, magnanimità, capacità di prevalere nel parlare sugli altri, capacità di sopportare il dolore e deve essere privo di errori. La filosofia, sosteneva Musonio, è l'unica disciplina che fornisce tutte queste virtù. Per dimostrare la sua gratitudine il re gli offrì tutto ciò che desiderava, al che il filosofo chiese solo che il re aderisse ai principi stabiliti.  Musonio sosteneva che, poiché l'essere umano è fatto di corpo e anima, dovremmo allenarli entrambi, ma quest'ultima richiede maggiore attenzione. Questo duplice metodo richiede l’abituarsi al freddo, al caldo, alla sete, alla fame, alla scarsità di cibo, a un letto duro, all’astensione dai piaceri e alla sopportazione dei dolori. Questo metodo rafforza il corpo, lo abitua alla sofferenza e lo rende idoneo ad ogni compito. Crede che l'anima fosse rafforzata in modo simile sviluppando il coraggio attraverso la sopportazione delle difficoltà e rendendola autocontrollata astenendosi dai piaceri. Musonio insisteva sul fatto che l'esilio, la povertà, le lesioni fisiche e la morte non sono mali e un filosofo deve disprezzare tutte queste cose. Un filosofo considera l'essere picchiato, deriso o sputato come né dannoso né vergognoso e quindi non avrebbe mai litigato contro nessuno per tali atti, secondo Musonio. L'opposizione di Musonio alla vita lussuosa si estendeva alle sue opinioni sul sesso. Pensa che gli uomini che vivono nel lusso desiderano un'ampia varietà di esperienze sessuali, sia legittime che illegittime, sia con donne che con uomini. Osserva che a volte gl’uomini licenziosi perseguono una serie di partner sessuali maschili. A volte diventano insoddisfatte dei partner sessuali maschili disponibili e scelgono di perseguire coloro che sono difficili da ottenere. Musonio condanna tutti questi atti sessuali ricreativi. Insiste sul fatto che solo gli atti sessuali finalizzati alla procreazione all’interno del matrimonio sono giusti. Denuncia l'adulterio come illegale e illegittimo. Giudica i rapporti omosessuali un oltraggio contro natura. Sosteneva che chiunque sia sopraffatto dal piacere vergognoso è vile nella sua mancanza di autocontrollo.  Musonio difende l'agricoltura come un'occupazione adatta per un filosofo e nessun ostacolo all'apprendimento o all'insegnamento di lezioni essenziali. Gli insegnamenti esistenti di Musonio sottolineano l'importanza delle pratiche quotidiane. Ad esempio, ha sottolineato che ciò che si mangia ha conseguenze significative. Crede che padroneggiare il proprio appetito per il cibo e le bevande fosse la base dell'autocontrollo, una virtù vitale. Sostene che lo scopo del cibo è nutrire e rafforzare il corpo e sostenere la vita, non fornire piacere. Digerire il cibo non ci dà alcun piacere, ragiona, e il tempo impiegato a digerire il cibo supera di gran lunga il tempo impiegato a consumarlo. È la digestione che nutre il corpo, non il consumo. Pertanto, concluse, il cibo che mangiamo serve al suo scopo quando lo digeriamo, non quando lo gustiamo. Musonio sostenne la sua convinzione che le donne dovessero ricevere la stessa educazione filosofica degli uomini con i seguenti argomenti. In primo luogo, gli dei hanno dato alle donne lo stesso potere di ragione degli uomini. La ragione valuta se un'azione è buona o cattiva, onorevole o vergognosa. In secondo luogo, le donne hanno gli stessi sensi degli uomini: vista, udito, olfatto e il resto. In terzo luogo, i sessi condividono le stesse parti del corpo: testa, busto, braccia e gambe. Quarto, le donne hanno un uguale desiderio per la virtù e una naturale affinità con essa. Le donne, non meno degli uomini, sono per natura compiaciute delle azioni nobili e giuste e censurano il loro contrario. Pertanto, concluse Musonio, è altrettanto appropriato che le donne studino filosofia, e quindi considerino come vivere onorevolmente, quanto lo è per gli uomini.  Suda μ 1305: «Figlio di Capitone, etrusco, della città di Volsinii; filosofo dialettico e stoico, vissuto ai tempi di Nerone, conoscente di Apollonio di Tiana e di molti altri. Ci sono anche lettere che sembrano provenire da Apollonio a lui e da lui ad Apollonio. Naturalmente per la sua schiettezza, le sue critiche e il suo eccesso di libertà fu ucciso da Nerone. Numerosi sono i discorsi filosofici che portano il suo nome e anche le lettere» (trad. A. D'Andria). Epistole, III, 11. Di origine etrusca: cfr. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, VII 16. Cfr. M. Pittau, Dizionario della Lingua Etrusca (DETR), Dublino, Ipazia Books. Tacito, Annales, XIV, Epitteto, Diatribe, III 15, 14. Storie, III 81. Storie, IV 10. Cassio Dione, LXVI, 13. Girolamo, Chronicon, a. 2095: «Titus Musonium Rufum philosophum de exilio revocat»; Temistio (Orationi, XIII, 173c), inoltre, attesta l'amicizia tra Tito e Musonio. A. Cameron, Avienus or Avienius?, in "Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik".  L'attribuzione è data nell'estratto XV Hense: sicuramente questo Lucio era un allievo di Musonio, e uno specifico riferimento in cui Musonio parla da esule a un esule rivela che anche Lucio partecipò al bando del suo maestro. Per la datazione, nella diatriba VIII (60, 5) Lucio riporta una conversazione di Musonio con un re siriano e dice, tra parentesi, che c'erano ancora re in Siria a quel tempo, vassalli dei romani. Dato che l'ultima dinastia di sovrani siriani fu detronizzata nel 106 d.C., Lucio deve aver scritto qualche tempo dopo questa data. nell'edizione Hense del 1905. Una delle due è una lunga lettera scritta da Musonio a Pancratide sul tema dell'educazione dei suoi figli (dell'edizione Hense). Diatriba VIII Hense. Cfr. anche il detto «Un re dovrebbe voler ispirare soggezione piuttosto che paura nei suoi sudditi. La maestà è caratteristica del re che incute timore reverenziale, la crudeltà di quello che ispira paura» (in Stobeo). A differenza del suo allievo Epitteto, che mostrava disprezzo per il corpo, Musonio sottolinea l'interdipendenza tra anima e corpo. Questa visione, del tutto coerente con il panteismo stoico, non è estranea al pensiero neoplatonico. Diatribe III e IV Hense; cfr. M. C. Nussbaum, The Incomplete Feminism of Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman, in The Sleep of Reason. Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome, ed. M. C. Nussbaum and J. Sihvola, Chicago, The University of Chicago Press. Bibliografia C. Musonii Rufi reliquiae, edidit O. Hense, Lipsia, Teubner, Cora Lutz, Musonius Rufus, the Roman Socrates, in Yale classical studies. J. T. Dillon,  Musonius Rufus and Education in the Good Life: A Model of Teaching and Living Virtue. University Press of America. Renato Laurenti, Musonio, maestro di Epitteto, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt. Berlino, Walter de Gruyter, Cynthia King, (Musonius Rufus: Lectures and Sayings. Edited by William B. Irvine. CreateSpace. DOTTARELLI, Musonio l'etrusco. La filosofia come scienza di vita, Roma, Annulli editori, Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Gaio Musonio Rufo Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Gaio Musonio Rufo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Gaio Musonio Rufo Collegamenti esterni Musònio Rufo, Gaio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Guido Calogero, MUSONIO Rufo, Caio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1934. Modifica su Wikidata Musonio Rufo, Gaio, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata (EN) Gaio Musonio Rufo, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Gaio Musonio Rufo, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata V · D · M Stoicismo Portale Antica Roma   Portale Biografie Categorie: Filosofi romani Filosofi Romani Stoic i[altre]. Luciano Dottarelli. Dottarelli. Keywords: l’implicatura di Musonio, Musonio, Etruscan influence on Roman philosophy, Why Roman philosophy is not Greco-Roman – The Etrurian connection. Etrurian as ‘antique’ – Etrurian as exotic for Indo-European Aryan Latins (Romans). Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Dottarelli” – The Swimming-Pool Library. Dottarelli. Dottarelli.

 

Grice e Drimonte: la setta di Caulonia -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to Giamblico.

 

Grice e Duni: l’implicatura conversazionale della costume, o sia, sistema di dritto [sic] universal – il diritto romano universalizzabile -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo italiano. Grice: “I like Duni; but of course he errs, as Kant does – for how can a ‘sitte’ a mere costume, become ‘universal’ – yet that’s the oxymoronic title of his tract, ‘scienza dei costume, ovvero, diritto universale’. Figlio di Francesco, maestro di cappella della cattedrale di Matera, e fratello dei compositori Egidio Romualdo ed Antonio, nell'ambiente familiare impara la musica scrivendo anche alcune composizioni da gravicembalo, pur se non seguì le orme dei fratelli maggiori in campo musicale, e fu avviato agli studi religiosi nel Seminario della città di Matera. Si laurea in Napoli. Torna a Matera dove aveva già intrapreso la pratica di avvocato presso la Regia Udienza e dove, chiamato da Lanfranchi, fu insegnante presso il Seminario; lo stesso Palazzo del Seminario divenne in seguito sede del Liceo Classico di Matera, che fu a lui intitolato. Dopo la morte del padre, lascia Matera trasferendosi dapprima a Napoli e successivamente a Roma.  Presso l'Università degli Studi La Sapienza fu docente di diritto canonico e di diritto civile, e pubblica un Commentarius in cui esponeva la dottrina giuridica del codicillo, con una dedica a Benedetto XIV che in seguito lo sostenne nella sua nomina alla cattedra universitaria; a Roma entrò in contatto con le opere di Vico, del quale divenne un convinto sostenitore. Eleggendo Vico a suo maestro, si propose di realizzare un programma di diritto universale come fonte di tutte le leggi e costumi umani. Partendo dalla sua formazione cattolica, crede in Dio creatore del mondo e suo legislatore, e non distinse l'etica e la giurisprudenza considerandole integrative in quanto tendenti allo stesso fine, cioè a dare il senso della vita, e quindi facenti parte entrambe della filosofia. Nacque così il “Saggio sulla giurisprudenza universale”; sua opera fondamentale, dedicato al promotore della politica riformatrice del Regno meridionale, il ministro Tanucci. Il “Saggio” indica esclusivamente nel vero il principio unitario delle conoscenze umane, a cui ricondurre anche la fondazione delle scienze morali. Il bene o vero morale (Cicerone e buono), che differisce dal vero metafisico perché comporta anche l'elezione volontaria del vero conosciuto, si esprime come onestà e come giustizia. La morale propone l'honestum, cioè il bene secondo coscienza, e opera dall'interno, invece il diritto indica la via per andare al giusto, regolando i rapporti tra gli individui o soggetti e quindi la vita sociale. Successivamente al Saggio, scrisse un'opera sul rapporto tra filosofia e filologia nell'ambito della storia di Roma, ed in seguito una Risposta ai dubbi proposti da Finetti in cui polemizzava contro Finetti difendendo la memoria del Vico. Pubblica a Napoli la “Scienza del costume o Sia sistema del diritto universale”, dedicata a Antonelli, in cui prosegue l'opera iniziata con il Saggio. Opere: “De veteri ac novo iure codicillorum commentaries; “Saggio sulla giurisprudenza universale”; “Origine e progressi del cittadino e del governo civile di Roma”;  “Scienza del costume o sia sistema del diritto universale”.   LA A falſa comune opinione adotta ta co me un'affioma dai Politici, che le So cieti Civili naſcono colla forma di Governo Monarchico, diede occaſione non meno agli antichi, che moderni Scrittori della Storias Romana di formare di queſta Nazione tutt ' altra idea di quella, che fu realmente. I vo caboli di Re e di Regno appreſi nel ſenſo di quei tempi, in cui viſſero gli Storici, quando già fioriva in Roma la Monarchia, gli traſportarono a credere, che il Governo cominciaſſe fin dal tempo di Romolo colla, forma Monarchica. Taluni peraltro convinti da’ fatti contrari della Storia furono obbligati a confeflare che ne' primi tempi di Roma quantunque regnaffe la Monarchia, pure.que Ita non poteſſe dirá alſoluta ma che folle accom accompagnata, e mifta di Ariſtocrazia, ' é, Democrazia; ' e che in conſeguenza i Patrizi inſieme co ' Plebej rappreſentaſsero qualche dritto nel Governo, di cui peraltro la ſomma foſse preſso de' Re. L'Idea adunque che tam luni Scrittori fecero del Governo di Roma fin dal fuo nafcere, fu di conſiderare Romolo co'ſuoi Succeſsori o per veri Monarchi; o per Monarchi, che aveſsero comunicato parte dell'amminiſtrazione ai due Ceti di Patrizi, e Plebej, riputando i Patrizi e Senatori, come Ceto di Cittadini illuſtri ricchi e favj, im piegati dai Re nelle cariche più gelofe del lo Stato, ed i Plebej per Ceto anche di Cit tadini ma ignoranti e vili, che ſerviſsero per le faccende ruſtiche, e per la guerra; e che aveſsero qualche parte anche ne' pubblici affari. Venne, come diſi, tal falfa opinione fo ſtenuta da quel comune errore, che tutte le Società Civili non poſsano altrimenti comin ciare, fe non con la forma Monarchica, non fapendo eſli immaginare con qual altra for ma di Governo poſsa mai unirli, e comporli  B un > 7 un Ceto di famiglie a convivere tra loro, ed a formare un corpo. Imperciocchè, dico no efli, non è poſſibile di concepire il prin cipio di tal unione, ſenzachè qualcuno di eſſi, o per violenza, o per fraudolente ambizione induca gli altri alla di lui foggezione e Si gnoria; tantoppiù che non ſi faprebbe in al tra maniera immaginare, come i Padri di fa miglia, i quali prima di entrare in Società Ci vile, facendo ſenza dubbio la figura di Mo narchi nella propria famiglia, pofsano ſenza il mezzo della violenza, o dell'inganno, ab bandonare la propria Signoria col foggettarfi al Governo Civile. Su queſta mal fondata, opinione incontrandoſi nel fatto della Nazio ne Romana, in cui intefero parlare di Re, e di Regno nel ſenſo appreſo di Monarca, e Monarchia non dubitarono punto di defi nire il Governo fotto Romolo, e Tuoi fuccef fori per Monarchico. Ma poichè i fatti ſteſſi della Storia realmente non s'uniformano all ' Idea di una perfetta Monarchia, furono co ftretti ad ainiettere una Mon: irchia mitta di Ariſtocrazia inſieme, e Democrazia. Tutte Tutte le ragioni politiche, che ſogliono ads durſi dagli Scrittori nel pretendere, che le So cietà Civili non poſſano altrimenti nafcere che colla forma Monarchica, fono a mio giu dizio tanto lontane dal dimoſtrarla, che anzi provano tutto il contrario, cioè, che la unione de' Padri di famiglia, nel comporre la Società Civile, debba neceſsariamente pro durre forma di Governo Ariſtocratico, e non Monarchico; poichè fe effi non fanno im maginare, come tali particolari Monarchi di famiglia poſsano ſoggettarſi alla pubblica, Podeſtà ſenza frode o violenza di qualcuno di loro, io al contrario non ſo concepire,.come tal violenza o frode d' un ſolo por fa eſser valevole ad obbligare un Ceto in tiero di Padri di famiglia avvezzi a ſignoreg. giare in caſa propria per ſoggettarſi al Mo narca, Qualunque voglia figurarfi la frode o la violenza d'un folo, egli è chiaro che tali mezzi non faprebbero indurgli a foffrire di buon animo un totale cambiamento di con dizione, quanto, lo è il paſsare da quella, in cui trovavanli di Signori aſsoluti, a queſta di B 2 fud E fudditi, trattandoſi di cambiare condizione in tieramente oppofta; ed ognun fa, quanto rin.: creſce al Signore il paſſare di fatto dallo ſta to di comandare a quello di ubbidire. Che ſe mi diceffero, che ciò nafce dalla violenza, cui non ſi può reſiſtere, io gli riſpondo, che nei naſcimenti delle Repubbliche la for za d'un ſolo non è, ne può eſſere parago nabile alle forze unite di tanti Padri di fa miglia, quanti converranno ä formare la So cietà. Sicchè tanto è fupporre, che la forza d'un folo baſti per opprimere gli altri, quan to è dire, che molti non fiano in grado di vincere la violenza d' un folo; ciò che o non è affatto poſſibile, o almeno lo potrà eſſere in qualche caſo troppo raro, e ſtravagante; ma la ſtravaganza e la rarità non può in durre un ſiſtema generale. Quindi il preten dere, che le Società Civili debbano necella riamente cominciare colla forma di Governo Monarchico, è lo ſteſso, che fupporre la violenza, o la frode d' un folo maiſempre ſuperiore alla forza, ed alla deſtrezza di mol ti; e ciò non baſta, perchè biſognerebbe an che > 1 che ſupporre, che al numero di molti non fc gli preſenti mai occaſione favorevole per re fiftere, e liberarſi dall' uſurpato potere di un ſolo; cioche realmente s’oppone ad ogni no ftra immaginazione. Se poi vorranno fingere, che dopo la violenza, o frode uſata dal Mo narca per ſoggettare gli altri, poffa ſeguire il compiacimento degli ſteſſi ſoggetti, forſe perché il Monarca ſia dotato di virtù tali, che baſtino ad innamorargli, oltreché une tal ſupporto non ſi può ammettere general, mente, incontra il maſſimo oſtacolo di non poterſi concepire, come gli Uomini avvezzi a dominare poſſano cosi preſto invogliarſi della condizione oppofta di ubbidire per qualunque ammirazione di virtù nella perſona del Moia. narca. Ma poi non è poſſibile il concepire nel Monarca virtù degna di ammirazione preſo co loro, che naturalmente, non fanno ſpogliarli di fatto del proprio carattere di dominare, ſenzaché entrino almeno a parte della pub blica amminiſtrazione; fe pure non vogliamo fingerli per Uomini affatto ftolidi ed alieni dalla maſſima delle Umane paſſioni. B 3 Qui Qui potrei co ' monumenti pervenutici de gli antichiſsimi Popoli dimoſtrare col fatto l? inſuffiſtenza di un tal ſentimento dei Politici col riconoſcere nelle origini delle Nazioni tutt altra forma di Governo, che la Monar chica; e che laddove eſli ſuppongono, che la Monarchia ſia ſtata la prima a forgere nel le Società Civili, fi troverà maiſempre l'ulti tima a venire dopo l' Ariſtocrazia, e Demo- ' crazia; perché la naturalezza delle Umane vicende è tale, che i Padri di Famiglia nel formare la Società Civile dovendo decadere da quella podeſtà afloluta, che eſercitavano in Caſa, cercheranno di cedere il meno che ſia poſſibile dell'antica Signoria; poichè l'Uo mo per natura non fa mutarſi di fatto da, uno ſtato ad un altro direttamente oppoſto al primo, e perciò quando trovali nella contin genza di dover paſſare da una condizione ſuperiore all' inferiore, procura ſempre di paſſarci per gradi, e non di ſalto. Quin di è, che fe vogliamo ragionare a ſeconda, dell'idee Umane, dobbiam dire, che tali Pa dri di famiglia qualora li vedranno obbligati dalla dalla neceſſitii di laſciare la Monarchia del ta loro famiglia, ſebbene converranno vo lentieri in Società Civile per trovare mag gior ſicurezza coll'erezione della poteſtà pub blica compoſta di forze unite, e per confi gliare ai vantaggi, e comodi della vita; pu Te non ſi diſporranno mai a cedere dell'anti ca poteſta, fe non quanto biſogna per reg gerſi il Corpo Civile, e quanto meno liane poflibile di quella dominazione, che lafciano. Or la forma di governo, che dovranno fce gliere, farà certamente l'Aristocratica, come quella, in cui fi cede il meno dell'anticas Signoria, formandoſi una Podeſtà pubblica che riſiede nondimeno preſſo gli iteſi mem bri, che la compongono, e nel tempo ſtello col Governo Ariſtocratico ſieguono a ſignorega giare ſul Volgo, e ſulla Plebe, che ſi ricovera ſotto la loro protezione. Che ſe poi vorremo fare un' efatto giudizio, come coll' andar del tempo dall'una forma di Governo ſi fuol para ſare all'altra, poſſiamo qul accennare breve. mente, che ſtabilitaſi la Societ: Civile nella ſua origine colla forma Ariſtocratica, che dee ellere 1 B 4 priva d'ogni dritto Civile i Indi l'oppreſſo eſsere la prima a naſcere, gli Ottimati na turalmente faranno traſportati dall’amor pro prio ad opprimere, e tirannizzare il Volgo, o ſia la Plebe, che ricoverandoſi ſotto la lo ro protezione, per ſoſtentare la vita, rimane Volgo creſciuto in numero, maſſime col mez zo della procreazione, pel deſiderio iſpiratoci dalla Natura di fottrarci dall' altrui tirannia, cogli ammutinamenti e ſedizioni cerca di li berarſene; e quindi avviene, che dall' Ari ftocrazia ſi paſſa alla Democrazia. Finalmente il Popolo tutto reſo partecipe del Governo, naturalmente ſi divide in fazioni, le quali agi tandoſi continuamente tra loro, non trovano altro ſcampo per ſalvarſi dalle guerre Civili, che di ricoverarſi ſotto la Monarchia. E que Ito ſembra il corſo ordinario e naturale delle Origini e de' progreſſi delle Nazioni tutte uniforme altresì alle memorie pervenuteci del le antichiſſime Nazioni. Ma per non partirci dal noſtro argomento, ci conviene di fermarci ſull' eſame del Go verno Civile di Roma. E ſulla prima fa duo po po di ſviluppare dalle tante incoerenze, che troviamo nella Storia, quella prima forma di Governo, che venne iſtituita ſotto Romolo nel naſcimento della Città Romána. Dicia ino adunque, che la prima forma diGover no iſtituita fin dal tempo di Romolo tanto è lungi, che fofle ftata Monarchica, o miſta di Monarchia, che anzi ſi riconoſce chiaramen te Ariſtocratica delle più feverè, che mai li poſſa immaginare, come realmente lo furono le Nazioni tutte nei loro forgimenti. E pri mieramente l'efferſi attribuita a Romolo, e ſuoi Re fucceffori la Monarchia, nacque fo vratutto, come diſli, dalla falſa intelligen-. za della voce Rex, col di cui nome vennero chianati tutti quei, che da ROMOLO fino al la creazione de' DUE CONSOLI ANNALI hanno la cura di presedere, e far da Capi del Senato regnante. La voce “rex” nei tempi, in cui gli Storici, come LIVIO e Dionisio compilarono la STORIA ROMANA, e certamente appresa in SENSO DI “mon-arca”, come temps, in cui fioriva. la monarchia e con un tal supposto non ſapendo neppur eſi immagina. re re altra forma di Governo nel naſcimento della Città Roinana, andarono a credere, che o in tutto, o in parte regnaſſe la Monarchia. Ma ſe vogliamo inveſtigare la vera originaria fignificazione della voce Rex, troveremo, ch'ella viene da reggere, e ſoſtenere, e che propriamente dinotava un Capo e Dace del la Repubblica, e non un Monarca di pode Atà aſſoluta. La ſtella eſpreſſione di rex tro viamo uſurpata in tutte le altre Nazioni, di cui ci è pervenuta la Storia; ma il Governo del le niedeſime non ſi può attribuire a Monar chia ſenza ſmentire i fatti medefimi, dai quali ſcorgeſi, che tali Re altro realmente non era no, che Capi, e Duci delle Repubbliche: per che inſieme colla perſona del Re troviamo i Senati, da cui definivanfi gli affari pubblici dello Stato. Soleaſi per altro diſtinguere l' incombenza dei Re in pace ed in Città da quella, che rappreſentavaſi in guerra; poi che qualora erano in piegati a far da Capita ni Generali a comandare l'eſercito, ſpiega vano certamente una podeſtà affoluta, come quella, ch'è troppo necelaria nel Capitan Gen Generale per lo buon regolamento delle fac cende militari. Trattaſi in guerra di porre in eſecuzione all'iſtante le opere militari, le qua li non ſoffrono dilazione, e richieggono la più rigoroſa ſegretezza per forprendere l'ini mico, ed in conſeguenza i Re in guerra per natura dell'impiego medeſimo ſpiegavano po teſtà aſſoluta, perchè non giova di eſercitarſi colla dipendenza dal volere degli altri, è maf fimamente de' Cittadini, come lontani e che non poſſono eſſer preſenti alle diſpoſizioni mi Jitari, e perciò non ci dee far maraviglia, fe per conſigliare al pubblico bene fafi co ſtumato di concedere al Re, quando coman da in guerra, una poteſtà indipendente e Monarchica. Ma di qualunque carattere ftata foſſe lae poteftà dei Re in guerra, non dobbiamo con fonderla colla podeſtà da effi loro praticata in pace e nel Governo Civile dello Stato. In fatti Tacito narrando i coſtumi degli antichi Germani ci fa ſapere che prello tali antis chi Popoli ſi diſtinguevano i Re propriamen te 1 te detti nel ſenſo di reggere la Repubblica dai Capitani Generali; poichè i primi fi eleg gevano dal Ceto degli Ottimati e. Signori, ed i ſecondi fi ſceglievano tra quei, che li erano reſi celebri pel valore, ' I Re, dices egli, ſi eleggono dal Ceto de' Mobili, e per Capitani Generali ſi ſcelgono i più celebri nel valore; Ma i Re non rappreſentano pode fà libera ed illimitata (a ); quanto a dire che la qualità di Re preflo gli antichiſſimi Germani non produceva poteſtà fuprema, e Monarchica, tuttoche Tacito gli aveſſe at tribuito il nome di Rex. Dionisio parlando degli antichi Re della Grecia fcrive, che i Re delle antiche Greche Nazioni, preffo di cui il Principato era ereditario, o pure elettivo, governavano col conſiglio degli Ottimati, come lo atteſtano Omero, e gli antichiſſimi Poeti. Nè quei tali antichi Re eſercitavano il Prin cipato con poteſtà aſſoluta, come veggiamo a tempi (a ) Tacit. de moribus Germanorum 9. VII. Reges ex nobilitate, duces ex virtute fumunt. Nec Regi bus infinita, aut libera poteftas. DI ROMA. 29 tempi noftri (a ). La voce Rex adunque nell' originaria ſignificazione Latina dinotava une Capo di qualunque Ceto, o di Repubblica, e non un Monarca z e queſto Capo qualora veniva deſtinato a comandare in guerra; al lora fpiegava la poteſtà aſſoluta; Ma nei tem pi poſteriori, quando le Nazioni pervennero allo ſtato di Monarchia fi ritenne la ſteffa voce “rex”, che paſsò a SIGNIFICARE il Monarca, quan to a dire, che il nome di Rex attribuito a ROMOLO, ed agli altri Re successori, non può eſſere un argomento per definire il Governo Monarchico nel naſcimento della Città Romana. Parliamo ora ad esaminare i fatti narratici dagli storici, dai quali unicamente dipende lo ſchiarimento di queſto articolo. Dioniſio, il quale a differenza degli altri s'impegna a de (a ) Dioniſio Antiq. Rom. lib. 2. Graecanici Reges çerte, qui haereditarium Principatum fumerent, quolve Populus fibi ipfe praeficeret, confilium habebant ex OPTIMATIBVS ut Homerus, & antiquitlimi quique Poetarum teftantur.. neque (ut fit in noſtro feculo ) veteres illi Reges ex ſui tantum animi fententia poo feſtatem exercebant. deſcriverci minutamente l'origine del Govere no Civile ſotto ROMOLO, febbene non ſeppe, formare un' eſatto e coſtante giudizio della forma del Governo, pure ci ſomminiſtra ba. ftanti lumi, onde poſſiamno ſcovrire il vero. E ſulla prima introduce un allocuzione fatta da. Romolo ai ſuoi Compagni ſul propoſito di doverſi ſtabilire una forma di Governo che foſſe più utile, e più atta per tener lon tana la Città dalle fedizioni Civili, e per di fenderla dagl' inſulti dei Popoli eſteri. E qui ci rappreſenta Romolo per Uomo ben iltrutto ed erudito delle Nazioni Greche, e delle Barbare, delle forme del loro Governo della difficoltà nello ſcegliere la migliore; indi gli conſiglia a riflettere maturamente l' affare, affinchè poteſſero riſolvere, se piutto fto voleano ubbidire a un ſolo, o pure a pochi, moſtrandoſi pronto e pieno di moderazione a ſeguire il loro volere. Dopo una ſpe cio Dioniſio antiq. Rom. lQuum autem diffi çilis fit earum (vitae uempe rationum ) electio, juf lit ciofa allocuzione i compagni di Romolo te. nendo conſiglio tra loro, non dubitarono di preſcegliere la forma del Goveno Regio in perſona dello ſteſſo Romolo, non ſolamente perchè l' aveano ſperimentata la migliore per quanto l'aveano inteſo approvare dai loro Maggiori, ma perchè giudicavano, che con una tal forma di Governo ſi otteneffero i due maſimi vantaggi, cioè la libertà propria, e · l' impero preſſo degli altri (a). Da un tal racconto ognun vede, che Dio. nilio fit eos re per otium conſiderata dicere, NUM UNI RECTORI, AN PAUCIS PARERE MALINT. Etenim, inquit, quamcumque Reipublicae formain in ftitueritis, ad eam recipiendam paratus fum, nec principatu me indignum cxiſtimans, nec detrcaans imperata facere. (a) Dioniſio loc.cit.Illi, communicato inter fe con filio, reſponderunt in hunc moduin: nobis nova Reid publicae forma non eft opus; nec a majoribus proba tam, & per manus traditam mutabimus, fed & pri fcorum conlilium fequimur, quos non ſine inſigni prů. dentia illam Reipublicae formam inſtituiſſe credimus, & praefenti fortuna contenti ſumus; cur enim illam in. cuſemus, quum fub Regibus contingerint nobis bona, quae apud homines habentur praecipua, LIBERTAS ET IMPERIUM IN ALIOS Haec eft noftra de Republica fententia &c. niſio compoſe tali narrazioni piuttoſto allas maniera, com'egli avrebbe penſato di fare, che con quella, che Romolo realmente ufaf ſe preſſo i lnoi compagni'. E tralaſciando di riflettere le tante improprietà di ſimile allo cuzione, in cui ci propone Romolo per Uo mo iſtrutto delle Barbare, e delle Greche Na zioni, anzi delle varie forme del loro Gover no; quando al contrario, come dimoſtraremo a fuo luogo, i Romani per molti ſecoli fu rono affatto ſconoſciuti ed ignoti, mallime alle Greche Nazioni, ci giova quì di notare quell'eſpreſſione, che il Governo Regio po tea loro conſervare il pregio della libertà, il quale certamente non ſi può ottenere colla Mo narchia preſa nel ſuo vero fenfo di podeſa d' un ſolo aſſoluta, ed arbitraria; poiché an che ſul ſuppoſto d'un Monarca dotato della più retta politica ę ſaviezza, e di coſtumi i più ſublimi ed innocenți, il Popolo non può godere altro pregio di libertà, ſe non quello, che deriva dalla rettitudine dell'animno dalla ſaviezza del Monarca medeſimo; mais non ſi può pretendere ſotto la Monarchia di 1 DI ROMA. godere il dritto e la libertà di reſiſtere, ed oppora al di lui ſentimento e comando; poiché la forma Monarchica, come tale, racchiude la fuprema poteſtà preſſo di una folo; e tutto il reſto del popolo potrà fo lamente eſercitare quell'autorità, che pia ce rà al Monarca di comunicargli; ficchè ſi conſidera allora ' tale autorità come dipen dente e ſoggetta maiſempre al voler del Monarca e non libera del popolo, che l' eſercita per comando del Principe. Ed ecco cheDioniſio leffo finora ci propone il Gover no Regio non già in ſenſo di Monarchia, ma di Capo e Duce d ' un ceto d' Uomi ni, che intendono d'eſser membri del Go verno medeſimo, per eſſere anch'eſſi a par te della libertà di comandare. Siegue indi Dioniſio a narrare la diviſione del Popolo in Tribù, e Curie, inſieme colla egual partizione de' campi, e de' terreni tralle Curie; e poi paſſando alla diviſione de' Ceti fatta in Padri e Plebe, nel riferire il carat tere che i Patrizi doveano rappreſentare nella Repubblica, chiaramente ci atteſta, Tomo II. С che che ai Patrizi apparteneva la cura dei Sacri, l'eſercizio de' Magiftrati, l'amministrazione della Giuſtizia, ed il Governo della Repubblica unitamente con ROMOLO. Ę poco dopo narran do l'erezione del Senato dal Ceto de? Patrizj replica lo ſteſſo, cioè, che Romolo avendo ri dotto le coſe in buon ordine, immediatamen-: te creò dal Ceto de' Patrizj i Senatori, i quar. li doveſſero ſeco lui amminiſtrare la Repubbli. E queſta ' erezione di Senato l'affomi glia alle Repubbliche delle antiche Nazioni Greche ſulla teſtimonianza di Omero, e di altri Poeti Greci, che fanno menzione di fimi li Senati regnanti, cui preſedeva il Re, il qua le per altro facea da Capo e Duce, in ma niera $ Dionifo loc. cit. Romulus porro poftquam difcre vit potiores ab inferioribus, mox legibus latis praefcri plit, quid utriſque faciendum effet: ut Patricii facra curarent, Magiſtratus gererent, jus redderent,SECUM REMPUBLICAM ADMINISTRARENT. Dioniſio loc. cit. Ceterum Romulus poftquam haec in decentem ordinem redegit, confeftim decrevit Se fatores creare, ut ellent, QUIBUS CUM ADMINI STRARET REMPUBLICAM. DI ' ROMA. 35 niera però, che il Governo della Repubblica riſedelle prello il Senato compoſto degli Ot timati, come per l'appunto furono i Patrizi di Roma (a). Indi riferiſce le particolari in combenze attribuite a Romolo, come Capo del Senato, cioè, che prello di lui eſſer do veſſe la principal cura dei Sacrifizj e del le coſe Sacre: che doveſſe aver cura delle Leggi e de' Coſtumi Patri; che ſi riſerbaf ſe il giudizio per gli delitti più gravi, e de' minori ne giudicaſſero i Senatori; che foſſe di ſua incombenza di convocare il Senato ed il Popolo tutto, colla prerogativa di dover eſſere il primo a profferire il ſuo ſentimento, ma che le determinazioni del Senato dovef ſero dipendere dalla pluralità dei fuffragi; e finalmente, che poteſſe ſpiegare Poteſtà aſſo luta in guerra (b), Paſſando poi a ſpiegare, C 2 qua Dioniſio 796x it. Graecanici Reges certe > qui hereditarium Principatum fumerent, quoſve populus fibi ipfe praeficeret, conlilium habebant ex Optimatibus, ut Homerus & antiquiſſimi quique Poetarum teſtantur &c. Dioniſio loc.cit. His conſtitutis, honorcs, & potefta tes in fingulos Ordines diſtribuit. Regi quidem eximia mune DEL GOVERNO CIVILE quale eller doveſſe l'autorità del Senato, fcri ve, che gli affari del Governo ſi doveſſero dal Re proporre al Senato, preſo di cui non di meno doveſſe riſedere la potefta fuprema di decidere col mezzo della pluralità dei ſuf fragj, ſoggiungnendo inoltre, che un tal fix ſtema di Governo folle ftato appreſo dalla Repubblica dei Lacedemoni, (fempre col falfo fuppofto, che Romolo in tali tempi aveſſe avuto cognizione de' Papoli della Gre cia ) in cui i Re non erano Monarchi, nè Die {potici del Governo, ma ſemplici Capi del Senato il quale fpiegava la fuprema pote ftate munera fuerunt haec: Primum, ut Sacrificiorum, & re liquorum Sacrorum penes eum eflet principatus, per quem çumque gereretur quidquid ad placandos Deos attinet; deinde uit legum ac conſuetudinum Patriarum haberet cuſtodiam, omniſque Juris, quod vel natura di&ar, vel pacta & tabula fanciunt curam ageret; utque de graviſſimis delictis ipſe decerneret, leviora permitteret Senatoribus, providendo interim, ne quid in judiciis pece caretur; utque Senatum cogeret, Populum in concio nem vocaret, primus fententiam diceret, quod pluçi bus placuiſſet, ratum haberet. Haec Regi attribuit mu nia, & practerea fummum in bello Imperium, (be neppur ftà nell'amminiſtrazione della Repubblica. Da tutto queſto racconto di Dioniſio non v'è chi pofſa negare, che Romolo non eb l'ombra, della poteſtà Monarchica; poichè colla coſtituzione del Senato la poteità ſuprema riſedeva preſſo il Senato medeſimo, e preſſo gli Ottimati; e che tutto quello, che fu attribuito alla perſona del Re, conſiſte va nel fare da Capo del Senato Regnante col la ſemplice prerogativa di poter proporre gli affari, e di eſſere il primo tra i Senatori 2 profferire il ſuo fentimento; ma che la poteſtà di determinargli riſedeſſe preſſo il Ceto dei Senatori, in maniera che le determinazioni ſi coſtituivano colla pluralità de' Suffragj, a cui il Re medeſimo dovea foggiacere; ciocchè non ſolamente eſclude ogni idea di Monarchia, ma C3 ci Dioniſio loc. cit. Senatui vero dignitatem ac po teſtatem hanc addidit, ut is s de quibus à Rege ad ipſum referretur, de his decerneret, & ferret calculum, ita ut ſemper obtineret plurium ſententia. Id quoque a Laconica Republica defumtuin eſt; Lacedaemonio, rum cnim Reges non erant fui arbitrii, ut, quidquid vellent, facerent; fed penes Senatum erat tocà publi cæ adminiftrationis poteftas.  ro ci manifeſta chiaramente una perfetta Ariſto crazia compoſta di Senatori, i quali furono eletti dal Ceto nobile de' Patrizj. Egli è ve che il Re di Roma ſpiegava la poteſtà aſſoluta ſoltanto in guerra; ma queſta, come dicemmo, non toglie, nè s’ oppone alla for ma del Governo mero Ariſtocratico, perchè in tutte le Ariſtocrazie troviamo tal poteſtà ſuprema nella perſona del Capitan Generale, per la ragione di non poterſi altrimenti eſer citare con felice effetto il comando del Du ce dell' Eſercito: E qui giova d' oſſervare, che ſebbene nelle Ariſtocrazie il Capitan Ge nerale faccia ufo di poteſtat aſſoluta in guer ra; pure la dichiarazione della guerra, e tut to ciò, che appartiene al ſiſtema generale di eſercitarla, dipende dal volere dello ſteſſo Se nato regnante, quatito a dire, che tutta live poteſtà ſuprema del Capitan Generale ſi ridu ce ad eſeguire gli ſteſſi ordini del Senato éd a riſolvere all'iſtante da ſe medeſimo ciò che non ſoffre dilazione, e l'attendere l'ora colo del Senato ſarebbe inutile e dannoſo Del rimanente la forma del Governo ſi diſtin gue ITgue non già dall'uſo della poteſtă, che ſi eſercita in guerra, ma dalla ragione delle pubbliche determinazioni, le quali, qualora dipendono dall' arbitrio di quei pochi, che compongono il Senato, ci manifeſtano chiara mente l'Ariſtocrazia, e non la Monarchia, anzi neppure un miſto dell'una è dell'altra; perchè la coſtituzione d'un Capo del Senato, ſempreche tutte le pubbliche determinazioni ſono riſerbate alla pluralità de' Suffragj dei Senatori s non ſi può aſcrivere, che ad un più ordinato regolamento del Senato mede ſimo, come avviene in tutti i Ceti di per fone, in cui vi ſia un Capo, il quale ſembra effer neceſſario, affinchè ſia meglio regolato il Corpo intiero di quei, che lo compongo ño; ma non già che la coſtituzione del Capo vaglia à mutare o alterare in minima parte il fiftemå del Ceto medeſimo. So bene, che anche nelle Monarchie fogliono eſſervi i Se nati, maſlime de Grandi dello Stato ma cali Senati ſono di gran lunga diverſi da quello, che fu ſtabilito in Roma forto Romolo; poi chè il Monarca talvolta ſuole commettere a C4 quals  0 qualche Geto di Perſoné la deliberazione de gli affari, o pubblici, o privati; ma tali de liberazioni non oltrepaſſano i confini d'un mero configlio, ſicchè rimane maiſempre al Monarca la facoltà di approvare, di repu diare la deliberazione; quanto a dire, che la determinazione dipende maiſempre dall' arbitrario fuo volere e non dai ſentimenti dei ſuoi Conſiglieri; ragion, per cui nelle Mo narchie ſi trovano talvolta ſtabiliti tali Ceti di perſone, che ſogliono aver nome di Con ſiglieri del Monarca. All'incontro il Senato di Roma era compoſto di perſone, di cui ognu na ſpiegava uguale autorità a quella di Ro molo per le pubbliche determinazioni, e queſta tal ſorta di Senato Regnante è quel la propriamente, che coſtituiſce la vera forma di Governo Ariſtocratico. Quindi pof ſiamo francamente affermare, che dove re gna la Poteſtà fuprema nel Senato, ivi non vi può eſſere neppur l'ombra della Monar chia, ed al contrario dove regna la Monar chia, ivi non può eſſervi Senato di poteftà ſuprema; perchè l'una e l'altra forma di Go verno 4.1 3 come verno non ſi diſtinguono in altro, ſe non che nella Monarchia la poteſtà fuprema riſiede in un folo, e nell' Ariſtocrazia in molti. Ma per eſſer meglio convinti d'una tal ve rità, ci conviene di eſaminare con maggior diſtinzione quel Capo di Poteítà, che riguar da lo ſtabilimento delle Leggi, il quale più d'ogni altro fa diſtinguere la Monarchia dal? Ariſtocrazia, ſecondo che venga eſercitata da un ſolo, o da molti, è che ſecondo il ſenti mento di tutti i Politici ſi conſidera la maſſima nell' amminiſtrazione dello Stato. In fatti tra tutte le pubbliche deliberazioni la più ſpecioſa ed importante è certamen te quella, che diceſi poteſtà Legislativa; poi chè lo ſtabilimento delle Leggi, come quel lo, che più d'ogni altro riguarda l'intereſſe e la pubblica tranquillità, è il punto più ge lofo, che poſſa eſſervi nel regolamento del le Società Civili, e come tale ci manifeſta, e ci fa diſtinguere ad un tratto la Monarchia dall'Ariſtocrazia. La ragione ſi è, perchè pre ſcriver la Legge allo Stato altro non è, che obbligare e ſoggettare tutti i particolari mes  membri del Corpo Civile alla cieca obbedien za di ciò, che la Legge comanda; e perciò ñon li può riconoſcere poteſtà più ſublime di quella di poter comandare la Legge. Or fen za biſogno di ſoggettarci ſu tale articolo ai ſentimenti degli Storici; qualora ci riuſciſſe di dimoſtrare, che la Poteſtà Legislativa di fat. to riſedeva non nella perſona di Romolo, ma preſſo l'Ordine del Senato regnante, non ci rimarrà luogo da dubitare, che l'iſtituzio ne del Governo folle di forma mera Ariſto craticào É qul fa d’uopò di ricorrere alla narrazio ñê del Giureconfulto Pomponio nella Legge feconda de Origine juris į ove impreſe con particolari cura à trattare dell'origine delle Leggi Romane · Ci fa egli ſapere, che ſul principio il Popolo Romano ſi regolava ſenzos leggi certe e determinate; ma che tutto ſi go Bernava col mezzo della dutorità del Re (a). A tal (a ) L. 2. 9.1. de Orig. Juris: Et quidem initio Ci vitatis noftrae Populus fine lege cerca, fine jure certo pri A tal narrazione di Pomponio gl' Interpreti del Dritto Civile, valutando aſſai più la di lui Autorità, che quella di Dioniſio li dettero a credere che realmente il Governo iſtituito fotto Romolo folle itato Monarchico, poichè (dicono eſli ) ſe ne primi principi della fonda zione di Roma al dir di Pomponio non v'era no leggi ſtabilite, e determinate, ma tutto li regolava collº autorità del Re, ne liegues neceſſariamente, che la forma del Governo cominciare dalla Monarchia. Ma io non sò, come tali Interpreti poſſano formare da quelle parole di Pomponio un tal giudizio, quando dall' altre, che ſeguono, li dimoſtra il con trario. Indi (fiegue Pomponio ) eſſendoſi ing qualche maniera ingrandita la città, dicéſi, che lo ſtesſo Romolo aveſſe diviſo il Popolo in trenta parti, chiumate CURIE a motivo, che allo primum agere inſtituit, omniaque manu Regis guber nabantur. NellePandette Fiorentine leggefi MAŇU A REGIBVS GVBERNABANTVR ma de ciocchè fregue, e dall' eller direito il diſcorſo di Pomponio alla perfona di Romolo, dee fi piuttosto abbracciare la lezio ne volgata, omniaque manu Regis gubernabantur. allora Spediva gli affari della Repubblica coi ſentimenti, e colle determinazioni delle medeſime Curie; ed in tal maniera promulgò egli alcune leggi dette CVRIATE, come fecero altresì i Re ſuoi successori. Or fe folle vero, che Romolo cominciaſſe a governare la Città colla fornia Monarchica, dovrebbe eſſer falſo, che lo ſteſso Romolo indi ſtabiliſſe la Repubbli ca degli Ottimati, con attribuire al Senato l' Autorità ſuprema di diſporre degli affari pub blici per mezzo della pluralità de' Suffragi. Nè vale il ſupporre, che Romolo regolaſſe, la Città coi ſentimenti delle CURIE di puro conſiglio, quafi che ſi riſerbaffe l'arbitra rio volere di ſeguire, o di ripudiare tali fen timenti. Imperciocchè lo ſtello Pomponio chia ramente s'eſprime, che gli affari ſi determi navano per Sententias partium earum, che in buon (a ) Poftea au&a ad aliquem modum Civitate ipfum Romulum traditur, Populum in triginta partes divififfe, quas partes Curias appellavit, propterea quod tunc Reipublicae curam per Sententias partium caruni expediebat; & ita leges quaſdam & ipfe Curiatas ad Populum tulit. Tulerunt & fequentes Reges. buon latino non poſſono ſignificar Configlio; ed oltracciò le Leggi ſi chiamarono Curiato non per altra ragione, fe non perchè le de terminazioni venivano preſcritte co' ſentimens ti delle ſteſse Curie, e non dall' arbitrario vo lere di Romolo. Egli è vero, che tali Leggi coll'andar del tempo furono anche dette Regie a cagion che ſi proponevano dai Re ne' Comizj Curiaci; ma poichè tutti gli Storici con vengono nell'affermare, che gli affari li de terminavano dalSenato a relazione degli ftelli Re, come Capi di quella adunanza, non ci dee far maraviglia, ſe le Leggi ſi foſſero dette anche Regie; perchè venivano propoſte dal Capo del Senato, cui ſi dette il nome di Re. Dunque fe vogliamo credere più a Pompó nio, che a Dioniſio, pure ſiamo obbligati coll'autorità dello ſteſſo Pomponio di ammet tere ne' tempi di Romolo l ' Aristocrazia, u non la Monarchia; perché altrimenti non ſi potrebbero comporre le prime colle ſeguen ti parole del Giureconſulto. All'incontro egli farebbe coſa ridicola il ſupporre, che pri ma di ſtabilirſi le leggi certę, Romolo governaſse da Monarca, e che poi iſtituiſſe l' Ariſtocrazia; e quando anche potefle'aver luogo una tal fuppoſizione, non dobbiamo at tenerci a quel che foſſe ſeguito, prima che ſi dalle una certa forma al Goveșno, la quale non fi dee ripetere, fe non dal tempo, in cui la Città preſe i ſuoi certi regolamenti. Ма,per meglio chiarirci di tal verità, con „ viene di riflettere, che quella eſpreſione di Pomponio, cioè, che fu i principi della cit tà non v'erano leggi certe, ma che tutto ve niva regolato coll'autorità di Romola, non può ſignificare forma di Governo Monarchi co, come è itata appreſa dagl' Interpreti. E qut fa d 'uopó d'inveſtigare la vera ſignifi çazione di quelle parole, Omniaque manu Regis gubernabantur. La voce Manus, è vero, che per traslato • ſtata anche appreſa da' Latini in ſenſo di poteftà (a); pure non hanno 1  I Latini quandą apprefero la voce Manus in senſo di POTESTA', s' avvalſero di quelle locuzioni IN MANU ESSE, HABERE, IN MANUM CON VE DI ROMA, 47 hanno mai detto gubernare manu in ſenſo di governarc, colla poteſtà; nè mai trovaremg gubernare, o regere, o altre fimili parole in ſieme colla voce manu, per ſignificare poteſta nel governo, Molto meno può adattarſi alla voce manus la ſignificazione di arbitrio, o la diſpotiſmo, come piacque ad altri Inter preti; perché un tal difpotiſmo altro non è, che poteft fuprema, ed indipendente; ma comunque ſi apprenda tal poteſtà, ſiamo pur troppo ſicuri, che nel linguaggio latino quel gubernare many non ſi può apprendere in ſen ſo di poteft. In queſta eſpreſſione adunque di Pomponio la voce manus deeſi riferire a tutt'altra intelligenza, che a quella di po teſtà; e poichè tal voce è ſtata anche appre fa dai Latini in ſenſo di forza, e di valore di corpo, o d'animo, come la troviamo in tan te locuzioni (a), non poſſiamo fpiegare il detto VENIRE > DARE, MANU MITTERE fimili. (a) Nel fenſo di FORZA, VALORE, E CO RAGGIO i Latini han detto MANUS MILITARIS, MA detto di Pomponio, ſe non nel ſenſo d ' ef ferli in quelle prime origini della Città re golati gli affari colla forza, col valore, e col la guida di Romolo, come quegli, che tra quelle poche perſone, che ſi unirono ſeco lui nella fondazione della Città, facea la fi gura di Capo e Duce. E queſta intelligen za ci fa intendere altresì tutto il compleſſo del racconto di Pomponio; poichè, dic'egli, che ne' principi il Popolo vilfe ſenza legge certa, fine lege serta, fine jure certo; perché prima di ſtabilirſi moltitudine cale di abitanti, che formafle un corpo abile a comporre una Società Civile, non v'era biſogno di formare leggi e regolamenti pubblici, ma tutto re golavaſi con quei medeſimi coſtumi, fecon do i quali erano ſtati educati quegli ſteſli, che unironſi con Romolo; e perciò dice Pomponio, che ſi vivea ſenza Leggi certe, perché MANUS ARMATA, MANUM CONSERERE, IN JICERE, INFERRE MANUM ALICUI REI IMPONERE, MANU DOCERE, e fimili. E noz Italiani abbiamo ritenuta l'eſpreſione di MANO RE GIA per hgnificare la forza legittima dello Stato di pronta, e spedita eſecuzione. D'L ROMA.perchè allora la Legge era la voce mede ſima del Capo dell'unione, il quale poteva occorrere ad ogni diſordine. Ma quando poi crebbe la moltitudine degli Abitanti, allora biſognava di ſtabilire le Leggi, non poten doli regolare un Corpo Civile colla fola voce parlante del Duce. In fatti le Leggi certe e ſtabilite altro non ſono, che voci mute di chi governa; e ſiccome per regolare i pic coli Corpi può baltare la voce parlante di chi gli regge, cosi moltiplicataſi l'unione degli abitanti, e pervenuta al grado di formarli un Corpo conſiderabile richiede neceſariamente lo ſtabilimento di Leggi certe, le quali pre ſtino l'uffizio della voce medelima di quel Ceto, preſso di cui riſiede la pubblica pote ftà. Ciò ſuppoſto, fino a tanto che Roina ven ne abitata da piccol numero di perſone, la vo çe parlante di Romolo baſtava per regolare gli affari; ma moltiplicatoſi il numero, fi do vette venire alle determinazioni delle Leggi certe, non potendoſi altrimenti ſoſtenere un Corpo Civile. Ma prima di ſtabilirfi tali Leg gi non poſſiamo ſupporre, che Romolo co D man mandaffe coll'arbitrario fuo volere; perchè lo Steffo Po mponio ci aficura, che quando ci fu biſogno di stabilire le Leggi certe, furono queſte determinate colla pluralità de' fuffragi delle Curie, o ſia del Senato; e poichè non è poſſibile l'immaginare, che il Governo per coså breve tempo dipendeſse dal voler del Mo barca, e che immediatamente poi paffalle nella poteſtà Ariſtocratica, perciò dobbiams conchiudere coll' autorità dello ſteſſo Pompo nio, che fin dal principio la Città fu eretta colla forma del Governo Arittocratico. Ne G può conoſcere altra divertità tra quel tempo, in cui fi vivea ſenza Leggi certe, e quell' altro, che venne immediatamente, in cui furo no ftabilite le Leggi, fe non che in quello la poteſtà degli Ottimati ſpiegavafi colla voce parlante di Romolo, manu Regis, laddove in quefto il Senato fpiegava la ſua poteſtà colla voce muta delle ſtabilite Leggi; ma l' uno e l' altro tempo riconobbe la medeſima forma, Ariſtocratica; Quindi è ancora, che quelle locuzioni di Pomponio ſine Lege certa, fine's jure certo, non si poſſono apprendere, come fecea fecero alcuni Interpreti, quaſiché il regola mento in quel tenipo folle vario ed inco ftante, perché non ſi può fingere ſocietà di Uomini, che vivano ſotto un yario fiftema di Regolamento, ma ſi debbono riferire a quella intelligenza, che meritano, cioè che tutto veniva preſcritto a voce ſecondo le opportu nità delle contingenze, che ſpiegavali col mezzo di Romolo loro Capo; perché non v ' era biſogno ancora di ſtabilirſi leggi certe, come figui poi colla moltiplicazione degli abitanti, Siegue Pomponio a narrare, che eſéndoli diviſo il Popolo in trenta Curie, coi di cui ſentimenti li determinavano gli affari, allo ra cominciaffero a ſtabilirli le. Leggi cere te, che furono perciò dette Curiate, come fecero altresi i Re fuoi fucceffori: Et ita le ges quafdam cuo ipſe Curiatas ad Populam tri lit, tulerunt eam fequcntes Reges: 1 qut gł Interpreţi del Dritto Romano per ſoſtenere la fognata Monarchia di Romolo caddero in tun'al tro equivoco nell'apprendere l'eſpreſſione di Pomponio di ferre legem ad populum in fente D2 d'ef d'eſſerſi comandate le leggi da Romolo, e dai Re fuoi fucceffori. E febbene una tale interpretazione ſi oppone direttamente a cioc. chè lo ſteſſo Pomponio riferiſce nelle parole antecedenti, cioè che il governo della Re pubblica ſi amminiſtrava per mezzo de' fen timenti delle Curie: propterea quod tuma Reipublicæ curam per ſententias earum partium expediebat; pure abbagliati da quel guberna bantur manu Regis, ſi videro obbligati a rico noſcere nella perſona di Romolo e degli al tri Re la poteſtà fuprema di comandare le leggi. Siminaginarono dunque, che lo ſta bilimento delle Curie non toglieva al Re la poteſtà Monarchica, poichè febbene il Sena to interveniva nelle deliberazioni dello Stato, pure i ſentimenti delle Curie ſi debbono ri ferire piuttoſto a ragion di conſiglio, e che in conſeguenza la poteſtà di comandare le Leggi riſedeſſe preſſo di Romolo, e ſuoi Re ſucceſſori. Or (dicono eſli) ſe la poteſtà di co mandare le Leggi, al dir di Pomponio, fpie gavaſi dal Re, ne ſiegue, che la forma del Governo debbafi attribuire anzi a Monarchia, che, che ad Ariſtocrazia. Ma io non só intendere con qual fondamento poſſano afcrivere l'e ſpreſſione latina di ferre legem ad populum al fenſo di comandare, e preſcrivere la legge, quando al contrario egli è coſa notiſlima pref fo i Latini, che il ferre legem nella ſua vera intelligenza ſignifica ſemplicemente il propor re la legge per determinarji, o ripudiarſi, e non il preſcriverla, e comandarla; anzichè qualora dagli Scrittori Latini al ferre legem fi aggiligne ad populum, ad plebem, e ſimili, non v'è eſempio, che foſſe ſtata mai tal lo cuzione appreſa in ſenſo di comandare la leg ge al Popolo, alla Plebe, ma ſempre nel ſen ſo di proporla, per determinarſi dal Ceto del Popolo, o della Plebe (a ). E quando la lega ge propoſta veniva coi fuffragi ſtabilita v preſcritta, allora diceaſi lex juſſa, condita; ſic chè altro era il ferre, altro il jubere legem; il ferre fignificava proporre, ed il jubere pro D 3 pria (a ) Vedi Briſſonio de Formulis lib. 2. cap. 17. 2 109. il quale traſcrive i laoghi degli Scrittori Latini ſu sale articolo priamente dinotava la determinazione, o sia le juffione della legge. Tra gli altri Scrittori Latini ſono innumerabili i luoghi di Livio, in cui cgli îi avvale dell' eſpreſsione di ferre legem, o pure rogationem, nel ſuo vero ſenſo di propar re, e non già di comandare, e ſoprattutto quando riferiſce le pretenſioni de' Tribuni del la Plebe, in cui fa uſo della voce ferre ine fenſo ſempre di proporre o promuovere, e lis mili, e non mai di preſcrivere, o comandare, perchè i Tribuoi della Plebe non aveano altra facoltà, fe non quella di promuovere, e di eſporre le petizioni del Ceto plebeo, e non già di comandarle. Ma per eller convinti di queſto vero ſenſo ſecondo l'originaria fua fi gnificazione baſta un luogo folo di Livio, in eui eſpreſamente ſi addita la differenza tra "! ferre, e jubere legem. Racconta egli, che pell'anna 372. il Senato -ordinà, che ſi fosſe pro poſto al Ceto plebeo la deliberazione d' intimark la guerra a' Popoli di Veletri. I Patrizi co nofcendo d' eſſerſi laſciata più volte impunitra la ribellione de' cittadini di Veletri, decreta rono, che al più preſto che fosſe poſſibile, ſi pro poneffc  SS ponefe,al Ceto plebeo l'affare d' intimarye loro la guerra, e che propoftafi una tal delibera zione tutte le Tribù conſentirono a coman dare', e determinare una tal guerra. E qui Livio eſpreſſamente fi avvale della voce fer re, quando parla di proporſi l'affare al Ceto plebeo, e della voce jubere, quando riferiſce la juffione della guerra ſeguita coi fuifragj di tutte le Tribù (a ). Egli è vero, che l' eſpreſ Gone di ferre legem é ſtata poi dai Latini tra ſportata anche a fignificare la promulgazione della legge in quelle locuzioni Lata lex eft, e limili; ma neppure "la trovaremo uſurpata in queſto ſenſo, quando ci ſi aggiugne ad Populum, ad plebem c. perchè allora ritie ne l' originaria ſignificazione di proporre, e non di promulgare (.b). Comunque però fi D4 ap LIVIO.  Id Patres rati contemptu accidere, quod Veliternis Civibus ſuis tamdiu impuni ' ta dete &tio effet, decreverunt, ut primo quoque rem pore ad populum FERRETUR de bello cis indicen do...... Tum, ut bellum JUBERENT, latum ad Populum eft; & nequidquam diffuadentibus Tribu nis Plebis, omnes Tribus bellum JUSSERUNT. Tum ut bellum juberent, LATUM AD PO PULUM EST. Livio loc. cit. apprenda, o in ſenſo di proporre, o di pro mulgare, egli è fuor di dubbio, che non mai può ſignificare juffione è determinazione della legge. Ciò ſuppoſto, per ritornare ora a Pomponio, ognun vede, che le di lui parole: Et ito leges quaſdam & ipfe Curiatas ad populum tue lit; tulerunt ex Sequentes Reges non pofſono apprenderli nel ſenſo, che Romolo, e gli altri Re aveſſero preſcritte le leggi Curiate ſe non vogliamo tacciare il Giureconſulto per ignorante del linguaggio latino, ma quel tu lit ad populum deeſi riferire a quella facoltis che riſedeva ſoltanto preſso la perſona del Re, di proporre gli affari pubblici in Senato, ed in conſeguenza le leggi, la di cui juffio ne nondimeno dipendeva dal fuffragio delle Curie medesime per fententias earum partium, e non dall'arbitrario volere del Re; e le leg gi fi diſſero Curiate non per altra ragione, ſe non perché vennero preſcritte, e comandate dalle Curie, e non dal volere del Re, quan tunque egli come. Capo del Senato, e come riconoſciuto per lo più abile e favio trai Senapa " DI ROM A 57 Senatori godeſſe la facoltà di proporre cioc chè gli ſembrava più eſpediente per l'ottimo regolamento dello Stato; ma' una tal prero gativa fu fpiegata' altresì dopo il diſcaccia-, mento de'Re dai Conſoli, dai Tribuni mili tari di poteſtà Confolare, dai Ditcatori, e da altre Magiſtrature di ſublime autorità, le quali tutte proponevano al Senato, alla Plebe, al Po polo tutto, le determinazioni degli affari pub blici, e maſſime delle leggi; niuno però fin è ſognato finora di aſcrivere la forma del Governo ſotto i consoli a Monarchia, perchè la ragione di Capo d'un Popolo senza carattere di potestà assoluta non può produrre monarchia, fe non vogliamo confondere ! idea del Governo Monarchico coll' Aristocratico e Democratico. winno Conchiudiamo adunque. Gli Scrittori chepiù degli altri ci narrano con qualche diſtinzione la forma del Governo tenuta ſotto Romolo, fo no Dioniſio, e Pomponio. Il primo ci de fcrive chiaramente la coſtituzione del Senato, dal di cui arbitrio dipendevano le determina zioni degli affari e l'intiero regolamento dello dello Stato, ciocchè eſclude di fatto ogniom bra diMonarchia in perfona di ROMOLO. Il fecondo non ſolamente non fi oppone a quan to riferiſce Dioniſio, anziché ce lo conferma più chiaramente, prima col riferirci, che nel naſcimento della Città non v'erano leggi cer te e preſcritte, ma che tutto regolavaſi col conſiglio e guida di Romolo, ed indi cot narrarci, che creſciuta in qualche maniera la moltitudine degli abitanti, fu neceffario di venirli allo ſtabilimento delle leggi certe. Quali leggi inſieme col reſto de' pubblici af fari, eſſendoſi diviſo il Popolo in trenta Cu rie, furono preſcritte col fuffragio delle me defime; ragion, per cui fi diſsero leggi Cum riate; e che finalmente la prerogativa di Rom molo, come Capo del Senato, fi riduceaus alfa - facoltà di proporre predo il Ceto de Se natori ciocchè gli ſembrava opportuno per determinarli gli affari dal Senato medeſimo per ſententias carum partium. In fomma, che Je leggi col reſto delle pubbliche determinazia -ai fi ſtabilivano colla juſsione delle Curie, o fia del Senato, non si può negare per l'alt torita DI ROM A. 1 59 torità di Pomponio, di Dioniſio, di Livio, e di tutti gli Storici, i quali concordemente combinano ſu tale articolo. Il determinarli gli affari per ſententias delle ſteſſe. Curie e de Senatori, in buon latino non può fignifica re pareri confultivi, ma juſsione per mezzo della pluralità de* fuffragi. Quel tulit leges ad populum attribuito a Romolo, ed ai Re fuc celori, altro non contiene, che la facoltà del Re nel proporle, e non già nel comandarle, e prefcriverle. Dunque dai detti degli ſteffi Storici siamo convinţi, che la forma del Gom verno iſtituita fatto Romolo non ebbe nep pur l'ombra dellaMonarchia, perché doves vi è Senato, preffo di cui rilieda la poteftà. ſuprema di decidere gli affari dello Stato, ivi non vi può regnare il Monarca. E per ultimo troviamo nella Storia Civile di Romaun fatto incontraſtabile, che di ſya natura ci dimoſtra, quanto foffe lontano dalla Monarchia il Governo Civile iſtituito foto Romolo. Egli è troppo noto il dritto di Pa tria poteſtà, che eſercitavaſi in Caſa dal Citta dino Romano ſulla ſua famiglia ſenza limiti, @fen. 3 e fenza la minima dipendenza dal Re, o dal Senato. Non intendā io qui di quella potefta patria praticataſi nei tempi poſteriori, e maf fime fotto gl’Imperatori, ma di quell'affolu to Impero Paterno eſercitato fin dalla fonda zione di Roma, e che dai Decemviri fu tra-. ſcritto nelle xir. Tavole, come riferiſce Dio-, niſio (a ). Era certamente la Patria poteſtà di quel tempo fornita d'un aſſoluta dominazio ne ſulla ſua famiglia, finanche verſo i pro prj. Figli, fovra di cui il ' Padre eſercitava dritti di vera Monarchia, com'era l'effer di ſpotico della vita, e della morte loro (b), eltre dell'arbitraria facoltà di poterli vende re, in manierachè dopo la terza vendita i Fi gli di liberavano dal diſpotiſmo Paterno (c). Or queſto dritto Patrio, che con vera efpref fione (a) Antiq. Rom. lib. 2. Sull' autorità di Dioniſio gl' Interpreti del dritco Romano compoſero quel capo di legge delle mit. Tavole con quelle parole: ENDO LIBERIS JUSTIS VITAE NECIS VENUM, DANDIQUE POTE STAS EI ESTO. (c ) SI PATER FILIUM TER VENUM DUIT, FILIUS A PATRE LIBER ESTO: altro capa delle? fione da Valerio Maſſimo (a) e da Quintilia no (b) venne detto Patria Majeſtas, fu eſerci tato dai Romani non ſolamente dal teropo della promulgazione delle XII. Tavole, ma fin da’ pri ra, delle xir. Tavole riferito da Ulpiano tit. 10.5. 1. E Dionifio loc. cit: Romanorum autem legislator (inc tende di ROMOLO) omuem ur breviter dicam, pour teſtatem patri dedit in filium, idque toto vitae tem pore, five in carcerem eum detrudere; five fla gris caedere, five vinctum ablegare ad ruſtica ope five necare libeat, etiamli filius tractet Rempue. blicam, etiamfi Magiftratus gefferit maximos, etiamſi fudii erga Rempublicam laudem fit promeritus. Jux ta hanc certe legem illuſtres viri pro roftris favente plebe concionantes in Senatus invidiam, fruenteſque aura populari, detracti e ſuggeſto, abducti ſunt apa tribus, poenas daturi ex ipforum fententia; quos, duin per forum ducerentur, nemo adftantium eripere poterat, non Conſul, non Tribunus, non ipſa turba, cui tuin adulabantur, licet omnem poteſtatem ſua minorem exi ftimans. Taceo, quot viri fortes necati Gnt. a patri bus &c.... Nec contentus hanc poteſtatem parentibus dediffe Legislator Romanus, permifit etiam vendere fi lium.. Majorem largitus poteſtatem patri in filium, quam hero in mancipiuin; lervus eniin ſemel venditus, deinde libertatem adeptus, in poſterum fui juris eſt; fi lius vero a patre venditus, fi liber fieret, rurſum fub ра tris poteftatem redigebatur; iterum quoque venunda tus, & liberaçus, fervus patris crat tertiam demum yendiționem eximebatur e patris po teſtare & c.  (b ) Declamat. 378., ut ante? poſt primi tempi di Roma, poichè Ulpiano (a ) afferma d'ellerli introdotto moribus, cioè, non per legge ſcritta, ma per antichillimo coftu me Patrio; Dioniſio (6) lo riferiſce ad una legge di Romolo; e Papiniano (c) l' attri buiſce ad una legge Regia. Ma Ulpiino a mio giudizio l'indovina meglio di tutti, coll' affermare d'eſerli tal dritto di Patrią poteſtå ricevuto per coſtume; e la ragione ſi è, perchè una tal poteſtà diſpotica del Padre di famiglia dobbiamo fupporla nata inſieme col la coſtituzione delle Famiglic medefime, e prima che quefte conveniſſero a formare So cietà Civile, ſicchè troyandofi tal coſtuine già introdotto nello Stato di famiglie, natu ralmente fu conſervato e ritenuto dalle Fa miglie, che convennero con Romolo nella fon dazione di Roma. In fatti tal coſtume trovali quaſi uniforme in tutte le Nazioni ne'loro for gimenti per le chiare teſtimonianze degli an tichi (a) L. 8. de his, qui ſunt fui, vel alieni juris. (b ) Loc. cit. (c ) Collar. leg. Mofaic. tit. 4. ). 8. 3 tichi Scrittori (a ). E ſebbene Triboniano (b ) credette, che folle queſto dritto proprio de' Romani, pure s'inganno, forſe dall' avere of fervato, che ne’tempi, in cui i Romani eſer citarono queſto dritto con aſſoluta poteſtà, e. nel maſſimo ſuo rigore, l'altre Nazioni l'avea. no già raddolcito con ridurlo a limiti più be. nigni ed umani, come avvenne altresì pref fo gli itefli Romani, mallime fotto gl'Im peradori, nella di cui età la poteità Patria decadde in buona parte dall'antico fuo ri gore. Comunque sia, quanto al preſente ar gomento çi baſta di potere afficu are colla tea ftimonianza di tanti Scrittori, che il Diſpo tilmo Patrio fu eſercitato da'Romani fin dai primi tempi di Romolo. Qui cade in acconcio di riflettere ciocche gli Storici ci narrano dell'accuſa d'Orazio per aver ucciſa la Sorella in atto, che ritornava trion (a) Ariftotele Nicomache lib. 8. cap. 10. Cefare lib. 6. de bell. Gill. cap. 9. Plutarco in Lucullo Giustiniane Novel la 1 34 • (b ) Inf. lib. 1. tit. 9. 1. 2. trionfante per la vittoria contro i Curiazi. Dioniſio fembrami', che racconti il fatto al ſai meglio di Livio, allorchè cinarra l'accuſa, e'l giudizio d'Orazio, in cui non fa men zioné né del Giudizio de' Duum viri, nè dell' appellazione propoſta da Orazio al Popolo, che ſono le due circoſtanze che fi leggo no in Livio (a ); ma ſemplicemente ci rac conta, che füll'accuſa propoſta da taluni con tro Orazio al Re Tullo, il Padre di Orazio, oltre di aver dichiarato di non meritare fuo Figlio la minima pena, pretendeva, che un tal giudizio apparteneſſe privativamente alla di lui cognizione, tractandoſi d'un fatto acca duto tra i ſuoi figli, e che in confeguen za per dritto di poteſtà Patria dovea egli ef fere il giudice di queſta Cauſa. Ma il Re per una parte credeva anch'egli di doverli af fólann (a) Lib. 1. cap 26. (b) Dioniſ. Antiquit. Romanarum lib. 3. Pater contra patrocinabatur filio, acculans filiam, & negans eam dicendam cædem, fed poenam verius, poftulabatque fibi de fuis malis permitçi Judicium ut qui ambo rum effet Pater. 2 • Í folvere Orazio io benemerenza della vittoria ed in conſiderazione dell'inſulto di parole fat to dalla Sorella al Fratello in tempo, che aſpettava dà lei piùcche da ogni altro lode, ed applauſo per un'opera egregia preſtata alla Pa tria; è molto più à cagione, che il Padre preſſo di cui rifedevå fecondo i coſtumi di que' tempi l'indipendente poteſtà di giudica re ſulle perſone de propri Figli fi era dichia rato d'averlo già adoluto (a ).Dall'altra parte il Re temeva il tumulto Popolare eccitato dagli emuli, ed inimici d'ORAZIO. Tra tali dubbiezze pensò di prendere l'eſpediente di rimettere la cognizione della Caufa al Popo lo, il quale confermò il giudizio Paterno con affolvere l' accufato Orazio. Un tale rac conto è molto più verifimile di quel; che ci narra Livio fúl giudizio de ' Duumviri, e dell' appellazione propoſta da Orazio al Popolo; poichè in que' tempi l'Impero Paterno eras Tomo 11. E nel Dioniſ. loc. cit. Praeſertim patrc quoque ipſum abfolvente, quem potiſſimum Filiae ultorem jus * natura fecerar: nel ſuo miglior vigore; nè il Re fenza of fendere le leggi del Patrio Impero potea to gliere il giudizio di queſta Cauſa dallauto gnizione del proprio Padre, e tasferirlo ai Duumviri, e molto meno in ſimili Cauſe era permello al Popolo di prenderne cognizio ne in pegiudizio del dritto Paterno; Ma la contingenza ſtraordinaria d ' eſſerſi mella, la Città in rivolta per queſto fatto, produſela neceflità di ſedarſi il tumulto coll’eſpedien te politico di rimettere l'affare al giudizio del Popolo, e l' Impero privato del Padre dovette cedere alla ragione della pubblica tranquillità. E quindi intendiamo ancora la ragione, per cui Dioniſio riferiſce, che que Ita fu la prima volta, in cui il Popolo preſe cognizione d ' un giudizio Capitale (a), non gia perchè prima di queſto tempo non aveſſe mai il Senato giudicato di delitti capitali, come (a) Pion. lor. cit. Populus autem Romanus tum pri mum Capitalis Judicii poteftatem nactus, compro bavit Patris fententiam Juvenemque abſolvit a cac dis crimine, come ſe prima non foſſero mai accadute con tingenze fimili o fe al Senato, che gode vala ſuprema poteſtà del Governo folle mancata fino allora quella di poter giudica re di delitti Capitali; Ma l'eſſere ſtata que. fta la prima volta, in cui eſercitoſli dal Po polo il dritto di giudicare d ' un delitto Capitale, deeſi riferire al fatto particolare, di cui ſi trattava, cioè alla poteſtà di giudicare d'un Figlio di Famiglia contro il ricevuto ca ſtume dell'Impero Paterno, a cui privativa mente ne apparteneva la cognizione. Or per tornare al noſtro propoſito diciamo, che fe que? Scrittori, i quali s'immaginarono, che Romolo infieme coi Re ſucceſſori fpiegaro no carattere di Poteſtà Monarchica, aveſsero fat to oſſervazione ſull'Impero Patrio, e familia re praticato da ’ Romani fin dalla fondazione della Città, ſi ſarebbero accorti dell' impof ſibilità di poterſi unire inſieme Monarchia, Civile prello del Re, e Monarchia familiare preſſo i privati Cittadini; poichè chi dice Monarchia familiare prello de' privati Citta dini cfclude ogni ombra di Monarchia preſſo E 2 il ma dello il Re; e la ragione ſi è, perchè fe i Padri di famiglia ſenza la minima dipendenza non folamente del Capo del Senato fteſſo Senato regnante erano gli aſſoluti Mo narchi dell'intiera loro famiglia, ſia de ' figli, fia dei fervi, e famoli, come mai poſſiamo figurarci, che tali Monarchi familiari foſſero nel tempo ſteſſo ſoggetti alla Monarchia Ci vile? Chiamaſi Monarchia Civile quello fta TO, in cui tutto l'intero Corpo Civile in tutte le ſue faccende pubbliche e private trovali ſoggetto all'autorità fuprema d'un folo che comanda. Or chi non vede la manifeſta diſſonanza e contradizione nel ſupporre il Ceto 'de' Cittadini fornito di po* teftà ſuprema, ed indipendente nella fua fa miglia, é foggetto nel tenipo Ateſo al Mo narca? E come mai poſſono fingerfi unite in ſieme poteſtà fuprema, e foggezzione? In tutte le Società Civili, ove regna la Monar chia, non trovaremo mai poteftà familiare in dipendente dal Monarca, perchè l'una eſclu de direttamente l'altra. In fatti tali poteft:s private in perſona de' Cittadini non pollonio altri 3 1 1 1 altrimenti eſercitarſi, fe non in quelle Socie tà Civili, che ſiano governate colla formas Ariſtocratica perchè tal forma di Gover no ſolamente può comportare diviſioni di po teſtà pubblica, e privata; pubblica preſso il Ceto degli Ottimati e privata preſo le perſone particolari degli ſteſſi rappreſentan ti della Repubblica, i quali ſpiegano la po teſtà pubblica, quando uniti inſieme com pongono l'autorità regnante, e la privata, quando ſeparatamente regolano gli affari para ticolari delle loro famiglie: Or quanto tal diviſione di poteftà pubblica, e privata è comportabile call' Ariſtocrazia, altrettanto fi oppone direttamente alla Monarchia veggiamo colla ſperienza, la quale coſtan temente ci atteſta, che la Monarchia non mai ammette un tale impero paterno nelle famiglie, come in fatti avvenne preſſo i Ro mani in tempo, che la Repubblica cadde nella poteſtà aſſoluta del Monarca. Ne poſliamo figurarci, che la poteſtà fa niliare de' Romani foſſe ſtata in qualche ma niera ſubordinata alla poteſtà pubblica; pero E 3 chè 9 come / E ché ſono troppo chiare le teſtimonianze de gli Storici, come abbiam veduto, dalle quali Siamo a ſacurati, che l'Impero Paterno de' Romani in que' tempi avea carattere di po teſtà aſſoluta; ed indipendente; e quando al tro mancaffe il dritto vite e necis, e di vendere i propri figli ci dimoſtra chiaramen te, che non potea eſſere un dritto ſubordina to; poichè i dritti ſubordinati, e dipendenti riconoſcono neceffariamente certi confini, ol tre de' quali non lice di eſercitarli; ma qualo ra ſi tratta di dritto ſulla vita, ch' ċ l'ulti mo termine di ogni poteſtà aſſoluta ſi poſſa uſare ſulle perſone, ceſsa ogni ſoſpetto di ſubordinazione; ed oltracciò colle chiare teſtimonianze degli Storici ſiamo convinti, che l'impero paterno di fatto fu eſercitato da’ Romani ſenza la minima dipendenza del la poteſtà pubblica. Dunque non abbiam cam po da fuggire da quel dilemma, cioè, che o fi dee ammettere per punto di Storia certa, che quei Padri di famiglia eſercitavano poteſtà fuprema in caſa, e non poſſiamo fingere poteſtà Monarchica Civile; o fe vogliamo nega negare tal poteſtà familiare ai Padri di fami glia, allora ci ſi chiude affatto la ſtrada di fapere la Storia Civile di Roma; perchè fe voglianio mettere in dubbio i punti di Sto ria confermatici concordemente da tutti gli Scrittori, non ſiamo più in grado di dar fe de a tutto il reſto. Grice: “Unfortunately, Duni, being the elitist he is, spends more time on the monarchy than the republic, and focuses on the concept of ‘citizen.’  Wikipedia Ricerca Imperativo categorico concetto della filosofia kantiana L'imperativo categorico è il principio centrale nella filosofia morale di Immanuel Kant, così come dell'etica deontologica moderna, altrimenti chiamata legge morale.   Immanuel Kant Introdotto nella Fondazione della metafisica dei costumi, potrebbe essere definito come lo standard della razionalità da cui tutte le esigenze morali derivano.   DescrizioneModifica Secondo Kant, gli esseri umani occupano uno speciale posto nella creazione, nella quale la moralità può essere definita come somma ultima dei comandamenti della ragione, o imperativi, da cui ciascun uomo deriva tutte le altre obbligazioni e i doveri. Egli definì un imperativo come una proposizione che dichiara una certa azione (o anche un'omissione) essere necessaria. Mentre la massima è un principiosoggettivo, l'imperativo categorico è invece un principio oggettivo; l'intenzione è poi il fondamento intrinseco della massima. L'etica di Kant si riferisce a massime e ciò a cui attribuisce grande importanza è l'intenzione.  Un imperativo ipotetico costringe all'azione in determinate circostanze: se io desidero dissetarmi devo assolutamente bere qualcosa.  Un imperativo categorico, d'altro canto, denota un'assoluta e incondizionata richiesta: un "devi" incondizionato, che dichiara la sua autorità in qualsiasi circostanza, entrambi necessari e giustificati come un fine in sé stesso. È meglio nota nella sua prima formulazione:  "agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale"ma esistono altre due formulazioni dello stesso imperativo categorico:  "agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo." e  "La volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata auto-legislatrice e solo a questo patto sottostà alla legge."[3] Kant espresse estrema insoddisfazione per la cosiddetta filosofia popolare dei suoi tempi, credendo che non avesse potuto mai superare il livello degli imperativi ipotetici: una persona utilitarista direbbe che l'omicidio è sbagliato perché non massimizza il bene per il maggior numero di persone, ma questo è irrilevante per coloro i quali sono interessati solo nel massimizzare risultati positivi solo per sé stessi.  Conseguentemente Kant argomentò che i sistemi di morale ipotetici non possono convincere all'azione morale o essere visti come base per giudizi morali verso altri, perché gli imperativi sui quali si basano si rifanno troppo pesantemente a considerazioni soggettive. Egli presentò un sistema di morale deontologica basata sulle richieste degli imperativi categorici come alternativa.  Natura del concettoModifica Dal punto di vista di Kant un atto morale è un atto che sarebbe giusto per qualsiasi tipo di persona, in circostanze simili a quelle nelle quali un agente si trova nel momento di eseguirlo. La facoltà che ci permette di prendere decisioni morali è chiamata ragion pratica pura, che è in contrasto con la ragion pura (la capacità di conoscere) e la semplice ragion pratica (che ci permette di interagire con il mondo dell'esperienza).  La guida alle azioni determinate dall'imperativo ipotetico ha un uso strumentale: ci dice cosa sia meglio raggiungere per i nostri obiettivi. Non ci dice, in ogni caso, niente circa i fini che dovremmo scegliere. Kant, viceversa, considera il giusto essere antecedente al buono come importanza assoluta; infatti sostiene che il buono raggiunto ha una irrilevanza morale.  La giusta moralità non può essere determinata con riferimento a niente di empirico o sensuale; si può determinare solo a priori, con ragion pratica pura. La ragione, separata dall'esperienza empirica, può determinare il principio secondo il quale tutti gli obiettivi possono essere determinati come morali. È questo principio fondamentale della ragione morale che è conosciuto come imperativo categorico.  La ragion pratica pura, nel determinarlo, determina cosa sarebbe necessario intraprendere senza riferimenti ai fattori contingenti empirici. Questo è il senso in cui la meta etica di Kant è oggettivistapiuttosto che soggettivista. Le questioni morali sono determinate indipendentemente dal riferimento al particolare soggetto che viene loro posto.  È per il suo essere determinata dalla ragion pratica pura, piuttosto che dal particolare empirico o dai fattori sensoriali, che la moralità è universalmente valida. Questa morale universale è considerata come un aspetto distintivo della filosofia morale kantiana e ha avuto un grosso impatto sociale sui concetti politicie legali dei diritti umani e dell'uguaglianza sociale.  Libertà ed autonomiaModifica Kant vide l'individuo umano come un essere razionale autocosciente con una scelta di libertà "impura":  La facoltà di desiderare in base a concetti, nella misura in cui il motivo determinante della sua azione va individuato in lei stessa e non in un oggetto, si chiama facoltà di fare o di non fare a piacimento. In quanto legata alla coscienza della capacità della sua azione in vista della produzione dell'oggetto, essa si chiama arbitrio, mentre se è priva di questo legame, il suo atto si chiama aspirazione. La facoltà di desiderare, il cui motivo determinante interno, quindi anche il gradimento, è da cercare nella ragione del soggetto, si chiama volontà. La volontà è quindi la facoltà di desiderare considerata non tanto (come l'arbitrio) in rapporto all'azione, quanto piuttosto in rapporto al motivo determinante dell'arbitrio in vista dell'azione. Inoltre non ha di per sé in verità alcun motivo determinante, ma, in quanto può determinare l'arbitrio, la volontà è piuttosto la ragione pratica stessa. Nell'ambito della volontà può rientrare l'arbitrio, ma anche la semplice aspirazione, in quanto la ragione può determinare la facoltà di desiderare in generale. L'arbitrio che può essere determinato dalla ragione pura, si chiama libero arbitrio. Quello che si lascia determinare soltanto dall'inclinazione (impulso sensibile, stimulus), sarebbe arbitrio animale (arbitrium brutum). Al contrario l'arbitrio umano è tale da venire sì sollecitato dall'impulso, ma non determinato, e non è dunque puro di per sé (prima di acquisire la prerogativa della ragione), ma può essere determinato ad agire dalla volontà pura.  Immanuel Kant,  Die Metaphysik der Sitten, 213 (Metafisica dei costumi, tr.it. a cura di Giuseppe Landolfi Petrone, testo tedesco a fronte, Milano, Bompiani)   Per poter considerare una volontà "libera", dobbiamo intenderla capace di influenzare il potere causale senza essere essa stessa causata a fare ciò. Ma l'idea dell'essere di un libero arbitrio "senza legge", vale a dire un volere che agisce senza alcuna struttura causale, è incomprensibile. Dunque, un libero arbitrio dovrebbe agire sotto leggi che esso dà a sé stesso.  Sebbene Kant ammise che non vi potesse essere alcun esempio concepibile di esempio di libero arbitrio, perché un qualunque esempio ci mostrerebbe solo come una volontà come ci appare — come soggetto alle leggi naturali — in ogni caso argomentò contro il determinismo. Propose che il determinismo fosse inconsistente dal punto di vista logico: il determinista afferma che A ha causato B, e B ha causato C, che A è la vera causa di C.  Applicato al caso della volontà umana, un determinista potrebbe discettare sul fatto che la volontà non ha un potere causale perché qualcos'altro ha causato la volontà di agire come ha fatto. Ma tale argomentazione semplicemente assume cosa si era prefigurato di dimostrare; che la volontà umana non è parte della catena causale.  In secondo luogo Kant sottolinea che il libero arbitrio è intrinsecamente inconoscibile. Poiché dunque anche una persona libera non potrebbe avere la conoscenza della propria libertà, non possiamo usare le nostre sconfitte per trovare una prova del fatto che la libertà esiste o l'assenza di essa. Il mondo osservabile non potrebbe mai contenere un esempio di libertà perché non mostrerebbe mai una 'volontà' come appare a "se stessa", ma solo una 'volontà' che è soggetta alle leggi naturali imposte su di essa. Ma alla nostra coscienza appariamo come liberi: dunque trasse le conclusioni che per l'idea della libertà trascendentale questa sarebbe, libertà come presupposto della domanda "cosa sarebbe necessario che io faccia?".  Questo è ciò che ci dà base sufficiente per definire la responsabilità morale: il razionale e il potere dell'auto-realizzazione dell'individuo, che egli chiama "autonomia morale": «la proprietà che la volontà ha di essere una legge per essa stessa».  Buona volontà, dovere e l'imperativo categoricoModifica Dacché considerazioni dei dettagli fisici dell'azione sono necessariamente legati alle preferenze soggettive di una persona, e potrebbero essere attivate senza l'azione del volere razionale, Kant concluse che le conseguenze che ci si attendeva di un atto sono esse stesse neutrali moralmente, e quindi irrilevanti alle delibere morali. L'unica base oggettiva per un valore morale dovrebbe essere la razionalità della buona volontà, espressa in riconoscimento del dovere morale.  Il dovere è la necessità di agire in rispetto della legge dettata dall'imperativo categorico. Poiché il suo valore morale non scaturisce dalle conseguenze di un atto, la sorgente della sua moralità dovrebbe essere semmai la massima sotto la quale l'atto è eseguito, senza rispettare tutti gli aspetti o le facoltà del desiderio. Un atto può dunque avere un contenuto morale se, e solo se, è eseguito con riguardo verso il senso di dovere morale; non è sufficiente che l'atto sia consistente con il dovere, deve essere intrapreso in nome dell'adempimento del dovere.  NoteModifica ^ Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, Torino, UTET, Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, UTET, Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, UTET, Orlando L. Carpi, Il problema del rapporto fra virtù e felicità nella filosofia morale di Immanuel Kant, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, Etica Imperativo ipotetico  Imperativo categorico, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Imperativo categorico, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Portale Filosofia: accedi alle voci di Filosofia. Critica della ragion pratica testo filosofico di Immanuel Kant  Imperativo ipotetico termine  Fondazione della metafisica dei costume. Emanuele Duni. Duni. Keywords: costume, o sia sistema di dritto [sic] universale,  diritto universale – diritto filosofico -- Vico, filologia, Roma, universalita – Cicerone e buono. Cicerone e onesto – Cicerone dice la verita, il diritto romano universalisabile --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Duni” – The Swimming-Pool Library. Duni.

 

Grice e Duso: l’implicatura conversazionale di Romolo e compagnia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Grice: “While Duso is right that Hegel makes constitution and freedom analytically connected, the Romans didn’t! -- Grice: “My favourite Duso is his study of Hegel on freedom and the constitution – but Duso, who could have drawn from ‘diritto romano’ doesn’t!” Studioso dei concetti della politica moderna e riconosciuto per i suoi interventi su Althusius e sul giusnaturalismo. Studia a Padova. Si laurea con “Hegel interprete di Platone” (cf. “L’influenza di Hegel su Platone”). Assistente di Storia della filosofia e Professore di Storia della logica. Insegna a Padova. Dirige un Gruppo di ricerca sui concetti politici. È stato membro della redazione delle riviste "Il Centauro" e Laboratorio politico. Membro della Direzione della rivista "Filosofia politica", membro fondatore dell'associazione "Centro di ricerca sul lessico politico europeo", insieme a Roberto Esposito, Alessandro Biral, Adone Brandalise, Nicola Matteucci e altri. Fonda con alcuni colleghi il Centro Inter-Universitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo (CIRLPGE), con sede presso l'Istituto suor Orsola Benincasa a Napoli, di cui è Direttore. Ha tenuto corsi di Storia della Filosofia politica, di Filosofia politica e di Analisi dei Linguaggi e dei Concetti Politici a Padova. In occasione della sua ultima lezione "ufficiale", gli allievi del gruppo di ricerca padovano sui concetti politici hanno edito in suo onore il volume "Concordia discors”.  Il 27 maggio  l'Universidad Nacional de San Martín gli conferisce la laurea honoris causa per il suo lavoro accademico in quanto "costituisce un fondamento teorico indispensabile per comprendere l'attualità" -- è tra i principali fautori italiani di una riflessione sui concetti del politico, che si inserisce nel solco della Begriffsgeschichte tedesca di Brunner, Conze, Koselleck. Nei confronti di quest'ultima il gruppo padovano coordinato da D. ha elaborato una originale linea di ricerca caratterizzata in modo duplice dalla filosofia: in primo luogo in quanto i concetti che si affermano e si diffondono con la Rivoluzione francese sono esamila loro genesi, che avviene nell'ambito delle dottrine del ‘contratto’sociale e dei sistemi di ‘diritto’ naturale; ma soprattutto perché filosofico è il movimento di pensiero di chi pratica una storia concettuale consistente nell'interrogare e mettere in questione (nel senso dell'elenchos socratico) il concetto (‘diritto’, ‘ius’, ‘uguaglianza’, ‘libertà’ ‘potere’ ‘democrazia’) che sono in genere ritenuti ovvii sia nel dibattito intellettuale, sia nella lotta politica. La storia concettuale consiste in questo modo nel comprendere la genesi, la logica e le aporie dei fondamentali concetti politici. "Storia dei concetti" (Begriffsgeschichte) compare per la prima volta nelle “Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte” diHegel. Stanti le caratteristiche di quel testo, non si sa se ‘Begriffsgeschichte’ sia di conio hegeliano, o non piuttosto frutto di interpolazione. Esso allude ad una delle tre modalità storiografiche discusse da Hegel, ed in particolare alla "storia interpretativa" (“reflektierte Geschichte”), che indirizza la storia generale o storia del mondo o storia universale (“Weltgeschichte”) alla filosofia, da un punto di vista universale. Quest'uso della “Begriffsgeschichte” resta senza seguito. La tradizione storico-concettuale evolve invece, tra il XVIII secolo ed il XIX, nell'alveo della lessicografia filosofica.   Nella riflessione di Duso, la filosofia politica da una parte coincide con il lavoro critico della storia concettuale, e dall'altra tende, sulla base delle aporie emerse, a trovare linee di orientamento per un nuovo pensiero della politica. In tal modo viene messa in questione la modalità generalmente accettata di pensare la politica, che ha la sua radice nello sviluppo teorico che va dalla nascita della sovranità sulla base del concetto di ‘libertà’ ai concetti fondamentali delle nostre costituzioni democratiche, in particolare ‘sovranità del popolo’ e ‘rappresentanza politica’. Il lavoro critico sul concetto ha perciò una sua ricaduta nella messa in questione del dispositivo formale sia della ‘democrazia rappresentativa’ che della ‘democrazia diretta’, e nel tentativo di pensare la politica mediante nuove categorie.  Altre opere: “Hegel e Platone, Padova; Contraddizione e dialettica nella formazione in Fichte, Argalìa, Urbino; Weber: razionalità e politica Arsenale, Venezia; La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt Arsenale, Venezia; Il contratto nella politica (Il Mulino, Bologna); Filosofia politica e pratica del pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss e Hannah Arendt” (FrancoAngeli, Milano); “Il potere. Per la storia della filosofia politica modernaCarocci, Roma (disponibile su cirlpge); “La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica” (Laterza, Roma-Bari (Polimetrica, Monza  (disponibile su cirlpge); “La libertà nella filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel (ed. con G. Rametta), Milano, FrancoAngeli); “La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, Franco Angeli Milano, cirlpge)(Duncker & Humblot, Berlin, 2006 (disponibile su cirlpge); “Oltre la democrazia. Un itinerario attraverso i classici” (Carocci, Roma); Sui concetti giuridici e politici della costituzione dell'Europa (ed. con S. Chignola), FrancoAngeli, Milano, Polimetrica, Monza;  Ripensare la costituzione. La questione della pluralità, (ed. con M. Bertolissi e Antonino Scalone), Polimetrica, Monza, (disponibile su cirlpge) Storia dei concetti e filosofia politica, (con Sandro Chignola), FrancoAngeli, Milano; Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali (ed. con A. Scalone), Polimetrica, Monza  (disponibile su cirlpge). Santander, Il concetto di ‘libertà’ e costituzione repubblicana nella filosofia politica di Kant, Polimetrica, Monza,  (disponibile su cirlpge) Ripensare la rappresentanza alla luce della teologia politica, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», (centropgm.unifi) Libertà e costituzione in Hegel” (FrancoAngeli, Milano,  Parti o partiti? Sul partito politico nella democrazia rappresentativa, in «Filosofia politica» cirlpge); “Buon governo e agire politico dei governati: un nuovo modo di pensare la democrazia? (A proposito di Rosanvallon, Le bon gouvernement), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», centropgm.unifi.  libri scaricabili gratuitamente in formato dal sito del Centro Interuniversitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo. Nello stesso sito sono disponibili inoltre altri saggi dello stesso autore.  Carl Schmitt Georg Wilhelm Friedrich Hegel Johann Gottlieb Fichte Roberto Esposito Alessandro Biral Adone Brandalise Gianfranco Miglio. CIRLPGE: Sito Ufficiale.  Wikipedia Ricerca Romolo primo leggendario Re di Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Romolo (disambigua). Romolo Brogi, Carlo - n. 8226 - Certosa di Pavia - Medaglione sullo zoccolo della facciata.jpg Romolo e suo fratello Remo da un fregio del XV secolo, Certosa di Pavia. 1° Re di Roma In carica753 a.C.[1] - 717 a.C.[2] Predecessorecarica creata  SuccessoreNuma Pompilio[3][4] NascitaAlba Longa, 24 marzo del 771 a.C. MorteRoma, il 5[5] o il 7 luglio del 716 a.C.[2] Casa realedi Alba Longa DinastiaRe latino-sabini Padre Marte MadreRea Silvia ConsorteErsilia[8] Figli Prima e Avilio Romolo (in latino: Romulus, in greco antico: Ῥωμύλος, Rōmýlos; Alba Longa, 24 marzo 771 a.C.[1] – Roma, 5[5] o 7 luglio 716 a.C.[2]), gemello di Remo, è il nome della figura leggendaria a cui la tradizione annalisticaattribuiva la fondazione di Roma e delle sue principali istituzioni politiche, nonché il ruolo di primo re della città e l'origine del toponimo. La sua storicità è oggetto di dibattito da parte degli studiosi dall'inizio del XIX secolo, così come l'inizio della tradizione letteraria sulla sua figura.  Di origini latine-Sabine, figlio - a seguito di un rapporto estorto con la forza - del dio Marte e di Rea Silvia,[7]figlia di Numitore, re di Alba Longa,[1] secondo la tradizione fondò Roma tracciandone il confine sacro,[7] il pomerio, il 21 aprile 753 a.C..[10] In tale occasione uccise il fratello gemello Remo, reo di aver varcato in armi il sacro confine [10]: tale fratricidio è stato sovente evocato come segno violento della necessaria unicità del potere regale. Una volta costruita la città sul colle Palatino, egli invitò criminali, schiavi fuggiti, esiliati e altri reietti a unirsi a lui con la promessa del diritto d'asilo. Così facendo Romolo popolò cinque dei sette colli di Roma, rapendo poi le donne ai vicini Sabini della città di Cures, così da dare delle mogli ai suoi uomini. Ciò provocò una guerra tra i due popoli, che alla fine si risolse con una pace con i Sabini che poterono insediarsi sul vicino colle del Quirinale con il loro re, Tito Tazio, che condivise con Romolo il potere per cinque anni. Romolo divise il popolo tra coloro che potevano combattere e coloro che non potevano farlo. Scelse 100 tra i più nobili cittadini per formare il Senato, tanto che i loro discendenti andranno a costituire l'élite nobiliare della Repubblica. Romolo istituì anche i comizi curiati, a cui spettava il compito di ratificare, tra le altre cose, le leggi. Romolo condusse, quindi, diverse guerre di conquista. A lui risale la divisione della popolazione patrizia nelle 3 tribù di Tities, Ramnes e Luceres - a loro volta suddivise in dieci curie ciascuna - le quali dovevano in caso di pericolo fornire all'esercito romano un contingente militare costituito da cento fanti e dieci cavalieri, per un totale complessivo di 3 000 fanti e 300 cavalieri. Dopo aver regnato per poco più di 37 anni, Romolo, secondo la leggenda, fu rapito in cielo durante una tempesta. Secondo i suoi stessi desideri, una volta morto fu divinizzato nella figura di Quirino, dio sabino venerato sul Quirinale. Leggenda Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Romolo e Remo. Origini familiariModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Enea, Alba Longa, Rea Silvia e Marte (divinità). Secondo la leggenda Romolo e Remo erano figli di Marte e di Rea Silvia, sacerdotessa vestale figlia del re di Alba Longa, Numitore, diretto discendente di Enea.[4] Romolo era quindi per parte materna di stirpe reale albana. Plutarco racconta che un certo Lucio Taruzio, matematico, astrologo ed amico di Marco Terenzio Varrone (l'autore del De lingua Latina), aveva calcolato il giorno esatto in cui i due gemelli furono concepiti (24 giugno del 772 a.C.) e nacquero (24 marzo del 771 a.C.).[1][16]  Dopo la fuga da Troia, Enea giunge nel Lazio e viene accolto dal re Latino, che gli fa conoscere sua figlia Lavinia. Enea se ne innamora, ma la fanciulla era già promessa a Turno, re dei Rutuli.[4] Il padre di Lavinia ascolta le intenzioni di Enea ma temendo una vendetta da parte di Turno si oppone ai suoi desideri. La disputa per la mano della fanciulla diventa una guerra, a cui partecipano le varie popolazioni italiche, compresi Etruschi e Volsci; Enea si allea con le popolazioni di origine greca stanziate nella città di Pallante sul Palatino, regno dell'arcade Evandro e di suo figlio Pallante. La guerra è molto sanguinosa (subito muore Pallante ucciso da Turno), e per evitare ulteriori vittime si decide che la sfida fra Enea e Turno dovrà risolversi in un combattimento tra i due "comandanti" e pretendenti. Enea ha il sopravvento, sposa Lavinia e fonda la città di Lavinium (l'odierna Pratica di Mare).[4]Ben diversa la versione di Livio nei capitoli 1 e 2 del I libro della sua "Ab Urbe Condita" (il titolo è traducibile dal latino con "dalla Fondazione di Roma"). I Troiani nel loro peregrinare arrivano nell'agro Laurente e dopo uno scontro Enea addiviene a un patto d'alleanza con il re Latino e ne sposa la figlia, Lavinia, e fonda la città di Lavinio dal nome della moglie. Dal loro matrimonio nasce Ascanio.[4] Turno, re dei Rutuli, a cui era stata promessa in sposa Lavinia, dichiara guerra ai Latini, come si chiamano le genti del luogo dopo il patto. I Latini hanno la meglio ma Enea muore combattendo.  Infanzia ed adolescenzaModifica  Romolo e Remo allattati dalla Lupa dipinto di Rubens, ca.1616, Roma, Musei capitolini  La lupa, Romolo e Remo, nella monetazione romana del II secolo a.C.. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lupercale. Dopo trent'anni, Ascanio (detto anche Iulo) fonda una nuova città, Alba Longa,[18] sulla quale regnano i suoi discendenti. Molto tempo dopo il figlio e legittimo erede del re Proca di Alba Longa, Numitore, viene spodestato dal fratello Amulio,[18] che ne costringe la figlia Rea Silvia a diventare vestale e a fare quindi voto di castità.[4][19] Tuttavia il dio Marte s'invaghisce della fanciulla e la rende madre di due gemelli, Romolo e Remo.[20] Il re Amulio ordina l'uccisione dei gemelli, ma il servo incaricato di eseguire l'assassinio non ne trova il coraggio e li abbandona alla corrente del fiume Tevere. La cesta nella quale i gemelli sono stati adagiati si arena sulla riva, presso la palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio in un luogo chiamato Cermalus,[22] dove si trovava il fico ruminale.[6] Qui i due vengono trovati e allevati da una lupa (probabilmente una prostituta, all'epoca chiamata anche lupa, di cui si ritrova oggi traccia nella parola lupanare) e da un picchio (animale sacro per i Latini) che li protegge, entrambi animali sacri ad Ares.[23] Li trova poi il pastore Faustolo (porcaro di Amulio) che insieme alla moglie Acca Larenzia li cresce come suoi figli. Una volta divenuti adulti e conosciuta la propria origine, Romolo e Remo fanno ritorno ad Alba Longa, uccidono Amulio e rimettono sul trono il nonno Numitore. Fondazione di RomaModifica  Roma attorno all'anno della sua fondazione, nel 753 a.C. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fondazione di Roma, Roma quadrata, Roma antica e Septimontium. Romolo e Remo, non volendo abitare ad Alba Longa senza potervi regnare almeno fino a quando fosse stato in vita il nonno materno, ottengono il permesso di andare a fondare una nuova città, nel luogo dove erano cresciuti. Romolo vuole chiamarla Roma ed edificarla sul Palatino, mentre Remo la vuole battezzare Remoria e fondarla sull'Aventino. È lo stesso Livio che riferisce le due più accreditate versioni dei fatti:  «Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo.[27] Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato,[28] i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium , il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.» In questo modo Romolo s’impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore.»  (Livio, cit., I, 7 , Garzanti 1990, trad. di G. Reverdito) Regno (753 - 716 a.C.)Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Rex (Roma antica) e Lex regia. Plutarco narra che una volta seppellito il fratello Remo, morto nello scontro che precedette la fondazione della città, Romolo fece venire dall'Etruria esperti di leggi e testi sacri che gli spiegassero ogni aspetto del rituale da attuare. Fu scavata una fossa circolare attorno al Comizio e deposte offerte votive per ottenere il favore degli Dei. Romolo però aveva bisogno di più abitanti per popolare la nuova città, e così accolse pastori latini ed etruschi, alcuni anche d'oltre mare, Frigi affluiti sotto la guida del suo avo Enea, oltre ad Arcadi arrivati sotto quella di Evandro.[29]  «Dopo la fondazione Romolo riunì uomini errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio compreso tra la sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei vicini villaggi che si rifugiassero lì.»  (Strabone, Geografia, V, 3,2.) Ogni abitante portò una piccola zolla di terreno e la gettò, mischiata alle altre, nella fossa chiamata mundus, che costituiva proprio il centro della città. Fu poi tracciato il solco primigenius tutto intorno alla città, i cui confini ne rappresentavano il pomerium, racchiuso all'interno delle mura "sacre".[30]  Quindi Romolo chiese al popolo quale forma di governo volesse per la città appena fondata[31], e questo rispose che avrebbe accettato Romolo come proprio re. Ma Romolo accettò la nomina solo dopo aver preso gli auspici favorevoli del volere degli dei, che si manifestò con un lampo che balenò da sinistra verso destra.[33]  Dal ratto delle Sabine alle guerre di conquista nel Latium vetusModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia delle campagne dell'esercito romano in età regia e Latium vetus. Romolo, divenuto unico re di Roma, decise per prima cosa di fortificare la nuova città, offrendo sacrifici agli dèi secondo il rito albano e dei Greci in onore di Ercole, così com'erano stati istituiti da Evandro.[34]; successivamente dotò la città del suo primo sistema di leggi e si circondò di 12 littori.[35]  Con il tempo Roma andò ingrandendosi, tanto da apparire secondo Livio "così potente da poter rivaleggiare militarmente con qualunque popolo dei dintorni". Erano le donne che scarseggiavano.[36]Questa grandezza era destinata a durare una sola generazione se i Romani non avessero trovato sufficienti mogli con cui procreare nuovi figli per la città,[37] nonostante Romolo avesse proibito di esporre tutti i figli maschi e la prima tra le figlie, tranne che fossero nati con delle malformazioni.[38]  «[...] Romolo su consiglio dei Senatori, inviò ambasciatori alle genti vicine per stipulare trattati di alleanza con questi popoli e favorire l'unione di nuovi matrimoni. All'ambasceria non fu dato ascolto da parte di nessun popolo: da una parte provavano disprezzo, dall'altra temevano per loro stessi e per i loro successori, ché in mezzo a loro potesse crescere un simile potere.»  (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.)  L'intercessione delle Sabine, olio su tela di Jacques-Louis David, 1795-1798, Parigi, Musée du Louvre. La gioventù romana non la prese di buon grado, tanto che la soluzione che andò prospettandosi fu quella di usare la forza. Romolo, infatti, decise di dissimulare il proprio risentimento e di allestire dei giochi solenni in onore di Nettuno equestre,[4] che chiamò Consualia(secondo Floro erano dei ludi equestri) e che si celebravano ancora al tempo di Strabone.[4] Quindi ordinò ai suoi di invitare allo spettacolo i popoli vicini: dai Ceninensi, agli Antemnati, Crustumini e Sabini, questi ultimi stanziati sul vicino colle Quirinale. L'obiettivo era quello di compiere un gigantesco rapimento delle loro donne proprio nel mezzo dello spettacolo. Arrivò moltissima gente, con figli e consorti, anche per il desiderio di vedere la città nuova.[36]  «Quando arrivò il momento stabilito dello spettacolo e tutti erano concentrati sui giochi, come stabilito, scoppiò un tumulto ed i giovani romani si misero a correre per rapire le ragazze. Molte cadevano nelle mani del primo che incontravano. Quelle più belle erano destinate ai senatori più importanti. [...]»  (Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9.) Terminato lo spettacolo i genitori delle fanciulle scapparono, accusando i Romani di aver violato il patto di ospitalità. Romolo riuscì a placare gli animi delle fanciulle e, con l'andare del tempo, sembra che l'ira delle ragazze andò affievolendosi grazie alle attenzioni ed alla passione con cui i Romani le trattarono nei giorni successivi. Anche Romolo trovò moglie tra queste fanciulle, il cui nome era Ersilia. Da lei il fondatore della città, ebbe una figlia, di nome Prima ed un figlio, di nome Avilio.[40]  Tutto ciò diede origine ad una serie di guerre successive.[36] Dei popoli che avevano subito l'affronto furono i soli Ceninensi ad invadere i territori romani, ma furono battuti dalle schiere ordinate dei Romani.[41] Il comandante nemico, un certo Acrone fu ucciso in duello dallo stesso Romolo, che ne spogliò il cadavere e offrì gli spolia opima a Giove Feretrio, fondando sul Campidoglio il primo tempio romano.[41]Eliminato il comandante nemico, Romolo si diresse contro la loro città che cadde al primo assalto,[2][42]trasferendone, poi, la cittadinanza a Roma e conferendole pari diritti a quelli dei Romani. Gli stessi Fasti trionfali celebrano per l'anno 752/751 a.C.:[44]  «Romolo, figlio di Marte, re, trionfò sul popolo dei Ceninensi (Caeniensi), calende di marzo (1º marzo).»  (Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di RomaFasti Triumphales : Roman Triumphs.) Tale evento era, invece, avvenuto secondo Plutarco, basandosi su quanto raccontato a sua volta da Fabio Pittore, solo tre mesi dopo la fondazione di Roma (nel luglio del 753 a.C.).[45]  Dopo la vittoria sui Ceninensi fu la volta degli Antemnati.[2][46] La loro città fu presa d'assalto ed occupata, portando Romolo a celebrare una seconda ovatio.[8] Ancora i Fasti trionfali ricordano sempre per l'anno 752/751 a.C.:[44]  «Romolo, figlio di Marte, re, trionfò per la seconda volta sugli abitanti di Antemnae(Antemnates).»  (Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di RomaFasti Triumphales : Roman Triumphs.) Rimaneva solo la città dei Crustumini, la cui resistenza durò ancora meno dei loro alleati.[2] Portate a termine le operazioni militari, il nuovo re di Roma dispose che venissero inviati nei nuovi territori conquistati alcuni coloni, i quali andarono a popolare soprattutto la città di Crustumerium, che, rispetto alle altre, possedeva terreni più fertili. Contemporaneamente molte persone dei popoli sottomessi, in particolar modo i genitori ed i parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma. Il Latium vetus con le città elencate in questo capitolo di Caenina, Antemnae, Crustumerium, Medullia, Fidenae e Veio. L'ultimo attacco portato a Roma fu quello dei Sabini del Quirinale, nel corso del quale si racconta della vergine vestale, Tarpeia, figlia del comandante della rocca Spurio Tarpeio, la quale fu corrotta con dell'oro (i bracciali che vedeva rilucere alle braccia dei Sabini[48]) da Tito Tazio e fece entrare nella cittadella fortificata sul Campidoglio un drappello di armati con l'inganno. L'occupazione dei Sabini della rocca, portò i due eserciti a schierarsi ai piedi dei due colli (Palatino e Campidoglio), dove più tardi sarebbe sorto il Foro romano,[51][52] mentre i capi di entrambi gli schieramenti incitavano i propri soldati alla lotta: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio Ostilio per i Romani. Quest'ultimo cadde nel corso della battaglia che poco dopo si scatenò,[53] costringendo le schiere romane a ripiegare presso la vecchia porta del Palatino. Romolo, invocando Giove e promettendo allo stesso in caso di vittoria un tempio a lui dedicato (nel Foro romano),[52]si lanciò nel mezzo della battaglia riuscendo a contrattaccare e ad avere la meglio sulle schiere nemiche. Fu in questo momento che le donne sabine, che erano state rapite in precedenza dai Romani, si lanciarono in mezzo alla battaglia per dividere i contendenti e placarne la collera. Da una parte supplicavano i mariti [i Romani] e dall'altra i padri [i Sabini]. Li pregavano di non commettere un crimine orribile, macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di evitare di macchiarsi di parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti per altri.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13.) «Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall'altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un Dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli... e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo.»  (Plutarco, Vita di Romolo, 19, 1-3.) Con questo gesto entrambi gli schieramenti si fermarono e decisero di collaborare, stipulando un trattato di pace, varando l'unione tra i due popoli con comunanza di potere e cittadinanza,[4] associando i due regni (quello di Romolo e Tito Tazio),[57] lasciando che la città dove ora era trasferito tutto il potere decisionale continuasse a chiamarsi Roma, anche se tutti i Romani furono chiamati Curiti (in ricordo della patria natia di Tito Tazio, che era Cures) per venire incontro ai Sabini.[13][58] Contemporaneamente il vicino lago nei pressi dell'attuale Foro romano, fu chiamato in ricordo di quella battaglia e del comandante sabino scampato alla morte (Mezio Curzio), Lacus Curtius,[13] mentre il luogo in cui si conclusero gli accordi tra le due popolazioni, fu chiamato Comitium, che deriva da comire per esprimere l'azione di incontrarsi.[59]  Qualche anno dopo Tito Tazio fu ucciso a Lavinium e Romolo, che non reagì al fatto con alcuna azione militare, rimase unico regnante della città.[4][60]Successivamente Romolo riuscì prima a conquistare Medullia, poi a battere Fidenae installandovi 2.500 coloni,[61] a farsi amici ed alleati i prisci Latini,[62] a battere gli abitanti di Cameria (sedici anni dopo la fondazione[63][64]) ed infine sconfiggere la potente città etrusca di Veio, sottraendole i territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e delle Saline,[64] in cambio di una tregua della durata di cento anni.[65] Questa fu l'ultima guerra combattuta da Romolo.[66]  IstituzioniModifica  Romolo, uccisore di Acrone, porta le sue spoglie al tempio di Giove dipinto di Jean Auguste Dominique Ingres, 1812 Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lex regia, Senato romano, Gentes originarie, Tribù (storia romana) ed Esercito romano. Al regno di Romolo si attribuiscono i primi ordinamenti romani. Sembra, infatti, che per prima cosa organizzò l'esercito, sulla base della popolazione adatta alle armi. Successivamente istituì un'assemblea, formata da 100 Patres, mentre i loro discendenti furono chiamati patrizi, a cui diede il nome nella sua globalità di Senato (Senatus da senex per la loro anzianità). A lui si attribuisce l'istituzione del diritto di asilo, a quanti erano stati banditi o fuggivano dalle città vicine; la circostanza si può ricollegare all'esigenza di popolare la città. Gli si attribuisce anche il fenomeno del patronato dei patrizi nei confronti dei plebei che gli facevano da garanti e protettori in cambio di favori conosciuto anche con il termine clientela.  Tito Livio racconta che in seguito alla pace stipulata con i Sabini di Tito Tazio (con il quale regnò in assoluta armonia, fino a quando quest'ultimo non fu assassinato a Lavinio[60] cinque anni dopo l'inizio del loro regno congiunto[11]), essendo raddoppiata la popolazione, non solo furono eletti altri 100 Patres tra i Sabini, e raddoppiati gli effettivi dell'esercito (ora composto da 6 000 fanti e 600 cavalieri),[70] ma divise anche l'intero popolo in tre tribù: i Ramnes, i Titiesed i Luceres, a loro volta suddivisi in dieci curie ciascuna, attribuendo ad esse i nomi di trenta donne. Plutarco racconta che i due re, Romolo e Tazio, non tennero un consiglio comune tra loro, ma ognuno deliberava prima separatamente con i propri 100 Patres, e poi si radunavano tutti insieme in uno stesso luogo per deliberare. Plutarco racconta che Romolo, inorgoglitosi dei successi conseguiti contro tutte le popolazioni limitrofe alla città di Roma, con grande arroganza abbandonò la precedente tendenza democratica, per sposare un modello di monarchia assoluta, opprimente ed intollerabile.[66] Egli indossava un mantello purpureo e una toga bordata di porpora, dava udienza su di un trono, attorniato da alcuni giovani, chiamati celeres (una forma di guardia del corpo reale da lui creata), ed era preceduto da alcuni littori, che respingevano la folla con dei bastoni a difesa del rex. In effetti si tratterebbe di un'istituzione già presente nelle città etrusche, dalla quali fu probabilmente ripresa ed introdotta in Roma in epoca storica.  Si racconta, inoltre, che, quando il nonno Numitore morì, a Romolo spettasse il governo della città di Alba Longa, ma egli preferì affidarne l'amministrazione al popolo, attraverso un suo magistrato che eleggeva annualmente, e così insegnò anche ai cittadini più potenti di Roma a desiderare di vivere in una città senza un rex, autonoma. Infatti a Roma, da quando Romolo aveva mutato il suo atteggiamento da democratico a dispotico, i cosiddetti patrizi, pur partecipando alla vita pubblica, portavano solo un "titolo" onorifico ed un prestigio apparente, riunendosi in Senato più per abitudine che per esprimere un parere. Di fatto tutti si limitavano ad obbedire agli ordini di Romolo, avendo un unico privilegio: quello di essere informati per primi sulle decisioni de re, rispetto alla moltitudine.[76] Plutarco aggiunge che Romolo coprì di ridicolo il Senato, distribuendo personalmente ai soldati la terra conquistata in guerra e restituendo gli ostaggi ai Veienti, senza aver preventivamente consultato ed ottenuto l'assenso da parte dei senatori.[77]  Prime forme di diritto privato romanoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Diritto romano. A Romolo si fa tradizionalmente risalire l'introduzione della proprietà terriera privata a Roma, con l'atto, legato alla fondazione della città, di attribuire ad ogni gens un heredium di terra, che sarebbe poi passato in proprietà agli eredi.[78]  Romolo stabilì anche una legge secondo la quale una moglie non potesse lasciare il marito. Al contrario la donna poteva essere ripudiata se tentava di avvelenare i figli, di sostituire le chiavi di casa o in caso di adulterio. Nel caso in cui fosse stata ripudiata per altri motivi, il marito era tenuto a versarle una quota del suo patrimonio e ad offrirne una seconda al tempio di Demetra. Chi ripudiava la propria moglie era, infine, tenuto a sacrificare agli dei Inferi.Curioso che Romolo non stabilì alcuna pena contro i parricidi, ma definì parricidio tutte le forme di omicidio, come se il parricidio fosse un delitto impossibile da compiersi.[81]  Festività e riti sacriModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Religione romana, Festività romane e Mitologia romana. Sabini e Romani, una volta uniti sotto Tito Tazio e Romolo, parteciparono alle rispettive feste e riti sacri, senza eliminare nessuno di quelli che ciascun popolo aveva fino a quel momento celebrato singolarmente. Al contrario ne istituirono di nuovi, come i Matronalia,[82] i Carmentalia[83] ed i Lupercali.[84]Romolo decise di accogliere i rituali dedicati ad Ercole, unico tra i riti non romani da lui accettati,[85] e sempre a lui (o al suo successore, Numa Pompilio) è inoltre attribuita l'istituzione del culto del fuoco, con la creazione delle vergini sacre a sua custodia, chiamate Vestali.Calendario romuleoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLostesso argomento in dettaglio: Calendario romano. La tradizione afferma che Romolo avrebbe istituito per primo il Calendario romano (un calendario lunare con inizio alla luna piena di marzo, costituito da 10 mesi - 6 mesi di 30 giorni e 4 mesi di 31 giorni, per un totale di 304 giorni; i restanti 61 giorni di inverno non venivano assegnati ad alcun mese). Va altresì segnalato che altri storici come Eutropio, sostengono possa essere stato il suo successore Numa Pompilio.[88] Questo fu un argomento molto dibattuto dagli storici del tempo (da Tito Livio a Dionigi d'Alicarnasso o Plutarco) poiché alcuni di loro affermavano trattarsi di un calendario piuttosto disordinato, dove i mesi variavano da 20 giorni a 35 giorni.  Morte, sepoltura e deificazioneModifica Dopo trentotto anni di regno,[89] secondo la tradizione (all'età di cinquantaquattro anni[89]), Romolo venne assunto in cielo[90] durante una tempesta[2] ed un'eclissi,[91] avvolto da una nube, mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla Palus Caprae in Campo Marzio.[92][93] L'improvvisa scomparsa del loro fondatore fece sì che i Romani lo proclamassero dio (con il nome di Quirino,[65][94][95] in onore del quale fu edificato un tempio sul colle, chiamato in seguito Quirinale[96]), figlio di un dio (Marte), re e pater (padre) di Roma.[97] Ancora ai tempi di Plutarco si celebravano molti riti nel giorno della sua scomparsa, avvenuta secondo tradizione il 5[5] o il 7 luglio del 716 a.C.[2]  Sembra anche che, per dare maggiore credibilità all'accaduto, la tradizione racconta che riapparve al suo vecchio compagno albano Proculo Giulio,[98] il più antico personaggio noto appartenente alla gens Iulia.   «Stamattina o Quiriti, verso l'alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso davanti ai miei occhi. [...] Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell'arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 16.) L'evidente somiglianza delle tradizioni, ha indotto alcuni storici a ritenere che questo racconto abbia ispirato quello relativo alla risurrezione di Gesù.[99]Nella probabile realtà storica, invece, il primo re di Roma sarebbe morto assassinato dai Patres durante una seduta del consiglio regio al Volcanal (ovvero il tempio di Efesto nel Foro romano). Si racconta infatti che, a causa delle continue limitazioni che aveva posto al Senato, organo divenuto più che altro di facciata ad una forma di monarchia sempre più "assoluta", soprattutto dopo la morte di Tito Tazio, caddero sui suoi membri sospetti e calunnie.[77] Il suo corpo sarebbe stato poi simbolicamente smembrato dai senatori, "a causa del suo carattere troppo duro"[91] e le sue parti (divise tra gli stessi membri del Senato[101]) sepolte nelle varie aree componenti il territorio della città.  Dietro la leggenda: la realtà storico-archeologicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Populi albensese Gentes originarie. La reale esistenza di Romolo è stata lungamente discussa, ma secondo lo storico Theodor Mommsensarebbe comprovata dalla presenza tra le gentesoriginarie di Roma (di cui parla Tito Livio) della gens Romilia, nota da iscrizioni, che è stata identificata con il clan familiare dei discendenti di Romolo, e che diede anche il proprio nome ad una delle più antiche Tribù territoriali. Se ne ha conferma da una glossa di Festo(la 331 nell'epitome di Paolo Diacono, edita da Lindsay), che riporta appunto l'esistenza di una tribù Romulia. Altri autori ritengono sia una creazione artificiale, fantasiosa quella di Romolo, pur riconoscendo nella stessa figura "leggendaria" la sintesi di elementi topografici, politici e religiosi realmente accaduti, a partire dalla tribù dei Romili oltre alla figura di Remo, identificabile con l'antico centro di Remuria nei pressi della Roma quadrata(sull'Aventino). Secondo il linguista Carlo de Simone,[105] i nomi di Roma e Romolo sarebbero collegati ed entrambi deriverebbero da un termine ricostruito in ruma, al quale la tradizione romana assegnava il significato di "mammella". Il termine sarebbe di origine etrusca, perché non ne è stato trovato l'etimo indoeuropeo (e l'unica lingua non-indoeuropea della zona era appunto l'etrusco). Il termine sarebbe entrato come prestito nel latino arcaico e avrebbe dato origine al toponimo Ruma (più tardi Roma) e ad un prenome Rume (in latino divenuto Romus), dal quale sarebbe derivato il gentilizio etrusco Rumel(e)na[106], divenuto in latino Romilius. Il Villar, invece, sostiene che il nome Romafosse, molto probabilmente, il nome preindoeuropeo del Tevere trasferito alla città che esso bagnava, come accadeva frequentemente a quel tempo. Secondo altre ipotesi (sempre più smentite dalle campagne archeologiche), i più antichi dei re di Roma sarebbero figure principalmente simboliche (in particolare sembrano complementari i primi due, Romolo e Numa Pompilio, che avrebbero introdotto le massime istituzioni politico-militari e religiose dello stato).  La reale esistenza della figura di Romolo come effettivo fondatore, primo legislatore e re-sacerdote, è stata rivalutata dall'archeologo Andrea Carandini, sulla base di moderni scavi condotti alle pendici del Palatino, che avrebbero portato al rinvenimento dell'area corrispondente alla vera Regia di Romolo, nonché dell'antico tracciato del pomerio. Ivi sono stati rinvenuti reperti fittili, resti di una palizzata e di un muro in tufo (derubricato come «muro di Romolo») databili con certezza al secolo VIII a.C., circostanza che darebbe conferma anche dell'esattezza cronologica delle fonti storiografiche latine sull'epoca della fondazione di Roma e della consistenza del suo rito di fondazione. Inoltre, sulla base di una fonte letteraria, la scoperta del sito del lapis niger  fu associata all'ipotesi di un possibile sito della tomba di Romolo o di un arcaico luogo di culto a lui dedicato. A possibile conferma di quanto sopra, nel febbraio 2020 nella zona sottostante alla scalinata di accesso alla Curia è stato rinvenuto un cenotafio ipogeo databile al VI secolo a.c. dedicato al suo culto, contenente un sarcofago della lunghezza di circa m 1,50, che alcuni studiosi hanno ipotizzato possa essere stata la sua tomba, mentre altri hanno escluso tale possibilità. Va osservato tuttavia che la lunghezza del sarcofago, (corrispondente in modo abbastanza preciso alla statura media degli uomini di quell'epoca) farebbe pensare ad una funzione di inumazione di un corpo integro, non delle sue parti. [112]  Antenati Genitori Nonni Bisnonni Dio Giove Dio Saturno Dea OpiDio Marte Dea GiunoneDio Saturno Dea Opi Romolo Numitore Proca Rea Silvia Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 2. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 2.1. ^ a b c d e f g h i j k l m n o Strabone, Geografia, V, 3,2. ^ a b c Plutarco, Vita di Romolo, 27, 4. ^ a b c Livio, Ab Urbe condita libri, I, 4. ^ a b c d Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.1. ^ a b c d Livio, Ab Urbe condita libri, I, 11. ^ Marcone, p. 19. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 7. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 23, 1-3. ^ Strabone, Geografia, V, 3,7. ^ a b c d e Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 13. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 27-29; Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.16-18. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 12, 3-5. ^ Sia Livio (Ab Urbe condita libri, I, 7), sia Ovidio(I Fasti, I, 470 e sgg.) narrano di una migrazione dalla città greca di Argo, guidata da Evandro ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.4. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 3, 3. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 3, 4. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.2-3. ^ Varrone, De lingua latina, V, 54. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 4, 2-4. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 3, 5-6. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 7-8. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.5. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.6. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.8. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.9. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 11, 1-4. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 3, 1-8. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 4, 1-2. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 5, 1-2. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, I, 7-8. ^ a b c Livio, Ab Urbe condita libri, I, 8. ^ a b c d Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.10. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 15, 1-2. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 14, 2-6. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 14, 7-8. ^ a b c Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.11. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, I, 10. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 16, 2-6. ^ a b AE 1930, 60. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 14, 1. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 17, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, 17, 2. ^ Dionigi di Alicarnasso, VII, 35, 4; VIII, 78, 5. ^ Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.12. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 18, 4. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.13. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 18, 6. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 12. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 18, 7-9. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 19. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.14. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 19, 8-9. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 19, 10. ^ a b c Livio, Ab Urbe condita libri, I, 14. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 23, 7. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 23, 6. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 24, 3-5. ^ a b Carandini 2007, p. 99. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 15. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 26, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 13, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 13, 2-3. ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.15. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 20, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 20, 5. ^ Plutarco, Vite parallele, Vita di Romolo, 26, 2. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 13, 1-4. ^ Plutarco, Vite parallele, Vita di Romolo, 26, 3-4. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 27, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 27, 2. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 27, 3. ^ Marco Terenzio Varrone, De re rustica, 1.10.2  ^ Plutarco, Vita di Romolo, 22, 3. ^ Dionigi di Alicarnasso, II, 24-25. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 22, 4. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 21, 1. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 21, 2-3. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 21, 4-10. ^ Tito Livio, I, 7. ^ Plutarco, Vita di Romolo, 22, 1. ^ Dionigi di Alicarnasso, II, 64, 5; II, 66, 3. ^ Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 3. ^ a b Plutarco, Vita di Romolo, 29, 12. ^ O fu ucciso. 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Segnalazioni  ·  Criteri di ammissione  ·  Voci di qualità in altre lingue  Ultima modifica 13 giorni fa di WalrusMichele Età regia di Roma periodo monarchico della città di Roma, compreso tra il 753 e il 509 a.C.  Battaglia del lago Curzio Storia delle campagne dell'esercito romano in età regia storia delle campagne dell'esercito romano dal 753 al 509 a.C.  Grice: “I consider myself, like Rawls, a contractualist – my steps towards a quasi-contractualism, are formulated elsewhere.” Grice: “I should not be confused with Grice – a FULL-BLOWN contractualist!” Grice: “’May’ only has one sense – it may rain, you may run. Credibility and desirability modalities are not Fregeian senses! ‘may’ is aequi-vocal. In Latin it is more obvious, since there is only ‘possum’ for ‘I may’. ‘Can’ is of course a solecism!” Giuseppe Duso. Bepi Duso. Keywords: Plato-Hegel, Aristotle-Kant – Plathegel, Ariskant – zoon politikon – contratto sociale – democrazia – repubblica – il primo contrattualista cita Aristotele – Contratto nel diritto romano – aporia della rappresentazione – concetto di politica, concetto di soveranita – concetto di potere – io posso – concetto di liberta – la filosofia politica italiana – l’influenza di Fichte nell’idealismo rivoluzionario del risorgimento --. Regime di governo – storia del concetto – aporia del concetto --  Welsh philosopher Geoffrey Russell Grice, modalita, verbo modale, verbo servile, verbo aussiliare, puo, posso, possiamo. Modalita aletica o doxastica (posso passarti la sale) e deontica (puoi ma non puoi – you can but you may not --. Contract, pact, compact. Foundations of morality – contract in ethics, meta-ethics, politics, meta-politics.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Duso: zoon politikon” – The Swimming-Pool Library. Duso.  

 

 

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