Grice e Vera: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’idealismo italiano –
filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Amelia). Essential Italian philosopher. Senatore del Regno d'Italia. Filosofo
italiano. Grice: “One of my own favourite unpublications is “Absolutes,” which
took its inspiration from a little tract by Vera which was especially
influential on Flaubert, “Il problema dell’assoluto.” Strawson remarked: “it
was a boojum, you see!” Senatore del Regno d'Italia. Compe i suoi studi alla Sapienza di Roma,
terminandoli alla Sorbona di Parigi. Mostra subito un immenso talento per
l'insegnamento, caratterizzato da lucidità di esposizione e genuino spirito
filosofico, reggendo svariate cattedre in città importanti della Francia e
della Svizzera. Il colpo di stato di Napoleone III lo costrinse a
rifugiarsi in Inghilterra a causa delle sue idee eterodosse. Qui intraprese la
stesura in francese dell’“Introduzione alla filosofia” di Hegel. Torna in
Italia, riuscendo a diventare il più geniale e originale comunicatore della
filosofia di Hegel, insegnando storia della filosofia dapprima all'accademia di
Milano, e poi, su invito di SANCTIS (vedi), a Napoli. Continua a intrattenere
scambi fecondi con la Società filosofica di Berlino e con gl’ambienti hegeliani
tedeschi e francesi. Divenne socio nazionale dell'accademia dei lincei. E
suo fedelissimo allievo MARIANO. E durante i suoi studi con Cousin a
Parigi che V. arriva a conoscere la filosofia, risentendo fortemente
dell'hegelismo allora in voga, di cui divenne in Italia promotore indiscusso. Si
deve infatti a V. il risveglio in Italia dell'interesse per la filosofia
idealista ed hegeliana in particolare, anche se egli godette di maggior fortuna
all'estero, mentre ha un influsso molto minore in patria rispetto a quello
esercitato ad esempio dai lavori di SPAVENTA. A differenza di SPAVENTA, infatti,
che reinterpreta la filosofia di Hegel in chiave critica, V. si mantenne sostanzialmente
fedele al dettato ortodosso della dottrina. Nei suoi saggi, che esaltano
la capacità di Hegel nel collegare ogni aspetto della realtà in un sistema
organico, prevale l'attenzione per il problema religioso. V. interpreta l'idea
logica hegeliana in senso trascendente, come il concetto del divino venendo per
questo accostato in certa misura alla destra hegeliana in Germania, sebbene una
tale lettura possa apparire una forzatura. Centrale è il primato dell'idea,
che si articola nella storia come organismo spirituale, e per attingere la
quale occorre trascendere la natura. L'idea esiste bensì anche nelle piante e
neg’animali, ma in maniera incosciente, e nel’imperatore di Prussia in maniera
consciente. Solo nell'essere umano – la persona -- essa giunge a pensarsi come
idea, divenendo in tal modo storia, e rendendo possibile anche il progresso
delle entità collettive di personi che sussistono come una nazione. Finché
una nazione vive nella sfera del suo essere sensibile e animale, essa non si
muove. Essa ripete ogni giorno la stessa vita e gli stessi eventi. Essa prova
sempre gli stessi bisogni. Che se non fosse possibile trascendere questa sfera,
la storia stessa non sarebbe possibile. Queste poche considerazioni ci spingono
adunque a riconoscere con più pieno convincimento che solo l'idea o l'assoluto
è il motore della nazione italiana e dell'umanità, ovvero il principio
determinante della storia” -- “Introduzione alla filosofia della storia” (Monnier,
Firenze). La sua “Introduzione alla filosofia di Hegel” influenza Flaubert
nella stesura di Bouvard e Pécuchet. In Italia invece è stato
determinante per aver stimolato, insieme a SPAVENTA, la nascita dell'idealismo
con CROCE e GENTILE. Il suo saggio filosofico più famoso è “Il problema
dell'assoluto.” Si dedica anche a tematiche giuridiche e politiche su Cavour
con Libera Chiesa in libero Stato, in cui attribuie il ritardo del processo di
rinnovamento liberale in Italia alla mancanza, durante il suo rinascimento, di
una riforma luterana come quella d'oltralpe. Tesi in latino: “Platonis,
Aristotelis et Hegelii: de medio termino doctrina. Quaestio philosophica”. Saggi:
“Amore e filosofia: orazione inaugurale nel solenne riaprimento dell'accademia
(Milano); “La pena di morte” (Napoli); “Prolusioni alla storia della filosofia
e alla filosofia della storia” (Napoli); “Ricerche sulla scienza speculativa e
sperimentale” (Napoli); “La filosofia della storia” (Firenze); “Cavour e libera
Chiesa in libero Stato” (Napoli); “Problema dell'assoluto” (Napoli); “Platone e
l'immortalità dell'anima” (Napoli); “Saggi filosofici” (Napoli). Cavaliere
dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro nastrino per uniforme ordinaria. Cavaliere
dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Enciclopedia Italiana. V., su treccani.
La Civiltà cattolica, Firenze, libraio L. Manuelli. Sträter osserva in
proposito che V. sembra la degna riproduzione italo-francese di quel tipo a cui
in Germania usiamo dare il nome di hegeliani o anche di ortodossi di stretta
osservanz -- cit. in Tortora, Le filosofie italiane, de "Le filosofie contemporanee",
Università degli Studi Federico II di Napoli. La rinascita hegeliana a Napoli,
su eleaml. altervista.o. Lezioni di V.,
raccolte e pubblicate con l'approvazione dell'autore da Mariano, Monnier,
Firenze, Revue Flaubert, L'escatologia pitagorica nella tradizione occidentale,
su rito simbolico. Cotroneo, Filosofia e storiografia, Rubbettino, Mariano,
Introduzione alla filosofia della storia. Lezioni di V. raccolte e pubblicate
con l'approvazione dell'autore da Mariano (Firenze, Monnier). Gentile, V. e
l'ortodossismo hegeliano, in Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Messina, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana Treccani, PLEBE, Spaventa e Vera, Torino, Edizioni
di Filosofia, Oldrini, “Gli hegeliani di Napoli. V. e la corrente ortodossa” (Milano,
Feltrinelli); Cricelli, V. e la filosofia hegeliana, Il Testo. Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. V.,
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. V., Senatori
d'Italia, Senato della Repubblica. Vita e opere di V., su malerba. Introduzione
alla filosofia della storia. Lezioni di V. raccolte e pubblicate con
l'approvazione dell'autore da Mariano (Firenze Monnier). Gatti, per far
meglio conoscere ai lettori della sua Rivista napoletana Augusto Vera, il
pensatore illustre che insegnava già da due anni nell'Università di Napoli, ma
non pare godesse la riputa-zione e la simpatia di altri professori aderenti
alla stessa scuola filosofica e assai men noti fuori d'Italia, pubblicava due
inediti frammenti di filosofia hegeliana del Vera: e si accingeva quindi
a voltare in italiano e a divulgare in elegante o puscolo una discussione
dell'empirismo inglese, dall'autore già pubblicata a Londra nel 1856 %.
Gli pareva che le questioni toccatevi fossero cosi fondamentali e riguardassero
cosi da vicino l'essenza stessa del sapere filosofico da poter giovare
all'Italia non meno che all'Inghilterra, aiutando gli studi nostri ad
orientarsi verso un concetto esatto della filosofia come scienza dell'assoluto,
da conseguire con un metodo adeguato al suo oggetto, ossia parimenti assoluto:
che era la tesi propugnata dal Vera dal punto di vista dello hegelismo, che è a
come a dire l'ultima parola della scienza». Giac-ché la reazione sorta in
Germania, in quegli anni, contro questa filosofia, era, agli occhi del nostro
Gatti, fallita, non essendo riuscita ad opporre allo hegelismo e un altro
sistema della medesima comprensione, il quale abbia potuto come quello
impadronirsi di tutto il sapere e penetrarne tutte le parti». E intanto il Gatti
vedeva che non c'era campo di studi che il pensiero hegeliano non avesse
fecondato, « e le scienze naturali e le filologiche e le istoriche son tutte
piene del suo spirito. Prova indu-bitata che quel sistema rappresenta la
general maniera di pensare e le esigenze del pensiero contemporaneo e che ha le
sue radici, come ogni altra filosofia le ha avute, nelle intime condizioni
dello spirito stesso del secolo», Le proteste individuali erano state
sopraffatte dall'energia del pensiero; e lo spirito della filosofia combattuta
aveva, senza che essi lo sapessero, soggiogato i suoi stessi avver-sari, «
riducendoli, quasi direi, a muoversi nella sua atmo-sfera, a respirarne l'aria,
a guardare attraverso di essa le cose e i fatti e le loro relazioni e
trasformazioni ». Questa filosofia con sforzi perseveranti e con
ricchezza non comune di sapere il Vera s'era studiato di diffondere, di
renderla accessibile al maggior numero in Francia, «d' inocularla colle sue
genuine fattezze in Italia » e d'ini-ziarvi anche l'Inghilterra. Di questa
vasta filosofia il Gatti non conosceva « né più intero interprete, né più
ardente propagatore, né più libero e insieme più fedel seguace; e ne tesseva
l'elogio con evidente intenzione di contrapporlo a un altro interprete della
stessa filosofia, che insegnava allora nella Università di Napoli accanto al
Vera, e che molti pel rigore e la profondità del pensiero come pel libero
atteggiamento verso l'autore del sistema propendevano a mettere al di sopra del
Vera. « Con una conoscenza profonda del sistema che ha accettato, con una
persuasione intima che fuori di quello non sia salvezza per la filosofia, il
Vera è lontano da quella pedan-teria che fa consistere la profondità o la
sostanza di un sistema in certe astruserie di formole, le quali spesso perdono
il significato passando di una lingua in un'altra. Né meno è lontano da
quella affettazione d' indipendenza per la quale i discepoli più pedissequi si
credono talora ambiziosamente obbligati a cercare un punto in cui si possano
mostrare in disaccordo col maestro». Dove par di udire l'eco di certi giudizi
privati dello stesso Vera, che, come vedremo, fu di proposito e per forza il
più ortodosso degli hegeliani. Non v'ha dubbio d'altronde che egli, in perfetto
accordo col Gatti, fosse convinto che la sua perfetta ortodossia non stesse per
nulla a scapito della sua originalità: « Francamente e compiutamente hegeliano
ha invece tutta quell'aria di originalità che viene dall'intera padronanza di
una dottrina divenuta propria x 1. 2. — Pure questo franco e compiuto
hegeliano, questo geniale e originale espositore di Hegel in un paese cosi ben
preparato a ricevere un insegnamento di filosofia hegeliana, come forse nessun
altro in Europa, insegnò a Napoli per circa un quarto di secolo senza quasi
lasciarvi traccia della sua opera. E il suo nome, se vivo ancora in Francia e
altrove come quello del traduttore francese dell' Enciclopedia e di parte della
Filosofia della religione di Hegel, è presso che dimenticato in Italia, dove
Hegel ora si può leggere in traduzioni italiane migliori e s'è spenta la
fievole eco de suoi scritti. Il discepolo, l'unico discepolo del Vera, fu
Raffaele Mariano che, a furia di dilucidare in prolisse elucubrazioni quei
profondi concetti che gli pareva d'aver imparato a intendere alla scuoladel suo
maestro, fini col non raccapezzarne più nulla 1. E anche lui non mancò
mai di fare le proteste del Gatti intorno all'originalità del maestro,
sciogliendole bensi nel suo stile lungo e nella sua più libera logica. La mente
dell' Hegel, disse egli, una volta, tessendo l'elogio del Vera, «appunto
per la novità, e ancora più per la vastità sintetica ed organica, era apparsa
pressoché impene-trabile. Non solo fuori della Germania, ma quivi stesso la
forma astrusa ed inviluppata aveva fatto intoppo agli stessi discepoli
immediati di lui, i quali in molti, e forse nei punti più essenziali, non
giunsero ad affer-rarla». Ma quel che non giunsero ad afferrare gli scolari
immediati, l'afferrò, miracolosamente, il Vera, che mai non vide l' Hegel; e con
sapiente accorgimento poté comunicarlo a chiunque poi ne avesse voglia. * A
renderla universalmente accessibile e intelligibile, era necessario spezzarne
il rigido involucro formalistico, schiuderne e rivelarne lo spirito e le intime
e recondite potenze. E tale è lo scopo a cui il Vera ha mirato». Egli non
riprodusse, non ripeté le cose da colui insegnate; ma vi aggiunse la
spontaneità ed originalità del proprio pensiero ». Come si possa aggiungere
alle cose un'originalità e spontaneità di pensiero, lasciando le cose quelle
cose che erano, il Mariano naturalmente non può dirci se non ripetendo, alla
sua volta, la metafora del viluppo formalistico che il Vera spezzò, per
assicurarci che « passando attraverso la mente di lui, l' Hegel esce rifatto,
rinnovato, compiuto; non è più l'Hegel, che, nel primo intuire e manifestare i
suoi nuovi e profondi concetti rimane incompreso e riesce in molta parte
incomprensibile; ma è l' Hegel che, a dir così, s'è ripiegato sopra di sé, è
ritornato suiconcetti suoi, e, pel ripetuto lavorio riflessivo e cogita-tivo,
vi ha acquistato consapevolezza perspicua e piena ». L'originalità non
consiste « nell'avere e nel propalare una dottrina di nostro capo». La dottrina
del Vera è quella di Hegel: tal quale. Ma l'essenziale dell'originalità
consiste, a giudizio del Mariano, nel contribuire a mantener viva, svolgendola
ed allargandola, la tradizione filosofica (anzi «la continuità» di questa
tradizione): consiste nel concorrere « a spingere, a condurre il pensiero
e la ragione ad una più intima, ad una più consapevole comprensione di sé e
dell'universo». O che volete che il Vera inventasse? L'invenzione non è affar
della filosofia (ciò che proverebbe troppo, perché bisognerebbe allora indurne
o che Hegel non ha trovato nulla di nuovo, o che quel che ha trovato, non ha
che fare con la filosofia). « Più dell'escogitare e porre nuove
questioni, vale a gran pezza il dare alle antiche questioni soluzioni soluzioni
più adeguate, più determinate e concrete che penetrino più addentro nella
natura di quelle»* In- somma, il Vera fu più originale di Hegel! 3.
- Ma se l'originalità è stata per solito messa in dubbio, la fedeltà, invece,
agl' insegnamenti dell' Hegel, la schiettezza e rigorosità dell' hegelismo da
lui professato sono state sempre riconosciute universalmente; e perfino
hegeliani tedeschi come il Rosenkranz lo proclamarono tra i più autorevoli e
felici interpreti della dottrinaOnde spesso nei paesi di lingua latina è
accaduto che detti e modi del Vera passassero per detti e modi di Hegel, e che
i più trovassero comodo di cercare l'immagine del filosofo tedesco nel
suo traduttore e manipolatore italo-francese, fattosi l'apostolo ispirato e il
privilegiato maestro del suo verbot. Hegel e Vera furono per molti anni due
nomi inseparabili. Lo stesso Vera, rinato nello spirito hegeliano, non serbò
quasi più nessuna memoria della sua vita precedente e dovette finire col
persuadersi di non essere mai stato altro che illuminato da quella su-periore
luce, che fu per lui l'hegelismo. Non pare che il suo scolaro e intimo amico,
che se ne fece biografo, cono- scesse direttamente i primi scritti di
lui; né si può spie-gare se non come un'eco di conversazioni dello stesso Vera
quel che racconta dell'esame pel dottorato sostenuto dal Vera alla Sorbona:
dove gia egli si sarebbe presentato, nel 1845, paladino
dell'idealismo assoluto. Fu questo il momento, racconta il Mariano, in
cui gli screzi già latenti tra lui e il Cousin si fecero mani-festi. L'appoggio
da costui prestatogli non era valso a far velo alla mente del Vera. Le dottrine
e un po' anche il carattere, tutt'altro che schietto e sincero, dell'uomo
gli avevano ispirato sin dal principio forte ripugnanza. Ora che nella
filosofia di Hegel s'era addentrato e ne aveva misurato davvero l'intimo e
profondo valore,gli faceva sopra tutto nausea la guerra sleale da colui
mossale, dopo averla sfruttata». Guerra che avrebbe fatto tremare un candidato
meno del Vera coraggiosamente risoluto a scendere in campo per le proprie idee.
Questi invece, irremovibile nelle sue convinzioni, deciso ad affermate a viso
aperto, facendo tacere considerazioni e rispetti umani e mondani, quella che
egli reputava la verità, non esitò un istante a presentare due tesi pel
dottorato, il Problème de la certitude e il Pla-tonis, Aristotelis et Hegeli de
medio termino doctrina, delle quali il Cousin non voleva affatto sentir
parlare.. Fortuna che, se il Cousin fu fieramente avverso (argo-mentando,
ci assicura il Mariano, contro quelle tesi a in modo poco degno, nonché per un
filosofo, ma per un uomo serio*), tutti gli altri membri della commissione
furono unanimi nel dire che « da un pezzo alla Sorbona non s'era avuto un esame
si splendido»; e uno di essi, il Saint-Marc-Girardin, « discutendo sull'essere
e non essere, fece una specie di professione di fede hegeliana i con grande
sorpresa del Saisset che lo sapeva solito ad andare a messa tutte le domeniche.
Ma il Mariano lascia credere che dopo quell'esame si sarebbe voltata in Francia
pel Vera la ruota della Fortuna, che vi aveva percorso piuttosto rapidamente la
carriera dell'insegnamento. Sicché il filosofo italiano avrebbe
incominciato fin d'al-lora, a proprie spese, il suo apostolato, durato fin
presso alla morte, incoltagli nella solitudine e nell'abbandono, a Napoli, in
mezzo alla quasi indifferenza d'una nazione incapace d'apprezzare l'alto valore
scientifico e morale della dottrina e dell'uomo che se n'era fatto
campione.imparare da giovinetto l'inglese. Compiuti gli studi letterari nei
seminari di Amelia, Spello, Todi, era passato a studiar leggi nella Università
di Roma; ma non pare venisse a capo di nulla. E nell'inverno 1835 cedé agl'
inviti d'un suo parente, archeologo e antiquario, che dimorava in Francia; e si
recò a Parigi. Dove conobbe alcuni scrittori illustri; frequentò la Sorbona; e
il 1837 poté ottenere il posto d'insegnante di latino e letteratura francese
nell'Istituto di Hofwyl, presso Berna, diretto dal Fellenberg, discepolo del
Pestalozzi. Vi rimase un anno, e vi studio il tedesco e la filosofia germanica,
specialmente Kant; ma alla fine di quell'anno gli convenne dimettersi a causa
delle sue opinioni religiose non cosi rigidamente cristiane come le avrebbe
volute il direttore dell'Istituto, quantunque il Vera allora riconoscesse la
divinità di Cristo. Passò in un altro istituto, a Champel, vicino a Ginevra 1;
e vi comincio a insegnareanche filosofia. A Champel un suo collega hegeliano
l'introdusse nella conoscenza della filosofia di Hegel. Ma nel 1839 era
tornato a Parigi, dove il Cousin cono-sciutolo e avuto con lui un colloquio
intorno alle condizioni degli studi filosofici, gli avrebbe chiesto:
Voules-vous vous enrôler sous ma bannière? E di li a pochi giorni gli avrebbe
recato a casa egli stesso il diploma (Io settembre 1839) di professore di filosofia
nel collegio comunale di Mont-de-Marsan, L'anno dopo il Cousin, ministro
dell'istruzione, lo promoveva a Tolone. Donde il Vera, che intanto s'era
fornito dei necessari gradi accademici, era nel 43 trasferito a Lilla. Di qui
nel novembre 1845 a Limoges: dove rimase fin al 48, quando per un anno suppli
il Franck in un liceo di Parigi. Da Limoges nell'aprile 49 passò a Rouen, e
quindi nel settembre 1850 a Strasburgo. Che fu l'ultima tappa del suo
insegnamento in Francia. Dopo il colpo di Stato, non si sa perché, lasciò
questa sua seconda patria; e si recò in Inghilterra. Dove sperò da principio di
ottenere una cattedra filosofica nell'Università di Londra; ma dovette
contentarsi di vivere de' magri proventi di conferenze private e lavori
letterari. Torno in Italia, e Mamiani lo nomina alla cattedra di Storia della
filosofia nell'Accademia scientifico-letteraria di Milano; donde il
ministro Sanctis lo tramuta, insieme con Spaventa, a Napoli. E qui rimase
tutto il resto della vita. Quandera a Tolone nel maggio 1843, secondo il
Mariano, egli avrebbe pubblicato nella Revue du Lyon- nais «il suo primo
scritto filosofico»: Philosophie alle-mande: Doctrine de Hégel, che dovette
essere un breve articolo informativo. " Rapido schizzo», e' informa lo
stesso Mariano, « della filosofia germanica da Kant ad Hegel »: e
continua: Certo, come primo scritto, si risente dell' insufficienza degli
studi. Il pensiero non vi è per anco profondo né appieno sicuro e maturo: pure,
er ungue leonem: ci è uno sguardo a dir cosi fatidico sulla seconda maniera
della filosofia di Schelling, che allora insegnava a Berlino. Quel che essa
propriamente fosse, il Vera non mostra saperlo in modo chiaro e preciso; e,
nondimeno, in una nota osserva che non potrebbe aggiungere nulla di nuovo al
pensiero filosofico tedesco, il quale con Hegel aveva toccato al più alto punto
di svolgimento, e che con le sue nuove speculazioni lo Schelling. lungi
di accrescersi gloria, se la sarebbe diminuita 1 Checché ne sia di
questo scritto (che io non ho potuto vedere), a leggere il giudizio che del
sistema di Hegel il Vera faceva anche due anni dopo, si stenta a credere che
questo sistema potesse nel '43 esser detto da lui il più alto punto di
svolgimento della speculazione germa-nica. Certo, non fu quello il primo
scritto di carattere filosofico pubblicato dal Vera. Nel Museo scientifico,
letterario ed artistico, che si pubblicava a Torino sotto la direzione del
poeta estemporaneo Luigi Cicconi (che il Vera conobbe in Francia e fu da lui
presentato a Mme Louise Colet, presso la quale ebbe frequente occasione
d'incontrarsi col Cousin) 3, egli aveva già inserito il 16 febbraio 1839 un
articolo sulla Filosofia della storiadel Ballanche, annunziando il proposito di
« scrivere alcun cenno sui più famosi sistemi che governano il movimento delle
idee de tempi nostri, in Francia e in Ale-magna, al fine di « spargere in
Italia alcun soffio della vita intellettuale che si vive», egli diceva, al di
qua de' monti». Egli avrebbe fatto soltanto la parte dell'espo-sitore,
lasciando al lettore quella del critico e riserbandosi intatta la propria
opinione. Ma non cela le sue idee a tal punto da non lasciare scorgere che il
Ballanche, che fu uno dei primi scrittori francesi che egli personalmente conobbe
e coi quali strinse relazioni amichevoli, un forte influsso aveva esercitato
sulla sua mente giovanile, Per spiegare infatti il vivo interesse cosi
largamente diffuso nel periodo della restaurazione per gli studi di filosofia
della storia, il Vera rappresenta coi colori proprii dei tradizionalisti
cattolici del tempo il senso di sgomento onde fu presa la società in seguito
all'opera demolitrice delle dottrine del sec. XVIII. Le quali avevano
distrutto, anche secondo il giovane scrittore umbro, « l'edificio sociale,
senza poterlo ristorare. e abbandonata «l'umanità come perduta in una
vasta solitudine senza religione, senza costumi, senza leggi ». Il
turbine della rivoluzione, dopo aver solcato il suolo di Francia e dell'Europa,
dopo aver scosso e scompaginato i troni e gli altari, e offerto dappertutto
olocausti di sangue umano colpevole e innocente, andava a spegnersi sulle
spiaggie lontane e deserte dell'Africa. La ragione gemette allora sui suoi
travia-menti, gittò uno sguardo pieno d'ansia e di dolore sul passato e sul
terribile avvenire, e non vide ovunque che ruite, nazioniin aspro travaglio,
credenze affievolite o spente, l'uomo avvolto nel fango del senso, dimentico di
sé, di Dio e dell'alto fine a cui è creato. Ma in mezzo a questo trambusto d'opinioni....
vi furono degli uomini generosi e santi, che custodirono puro ed intatto il
sacro deposito della verità e della scienza, e lo condussero a salvamento a
traverso gli incendi e le ruine, e lo mostrarono qual segno di salute all'
Europa attonita e sfiduciata. Si nobile officio adempirono l'illustre autore
del Genio del Cristianesimo, il conte De Maistre, De Bonald e Ballanche.
Dopo la Rivoluzione, la società dovette pensare al proprio avvenire per
rialzare quanto era stato demolito; e per questo bisogno sarebbe sorta questa
profonda riflessione di tanti pensatori sull'andamento delle cose umane e sulle
leggi che governano il corso della storia. *Noi rigettiamo a tutta possa
le dottrine del XVIII se-colo, e gli effetti che ne sono derivati. Saremmo però
ingiusti e irragionevoli se ricusassimo loro il beneficio di aver risvegliato
una novella energia nella società ». Anche nel 1839 dunque dopo la prima
conoscenza dell' hege-lismo fatta già in Svizzera, egli era dominato dallo
spirito tradizionalista e aspirava anche lui alla ristaurazione nella
religione; e se inneggiava alla novella energia della ragione risvegliatasi in
Francia e in Germania, (e doveva ignorare quel che intanto, più profondamente,
aveva fatto in Italia il Rosmini, e già s'apprestava a fare con maggior forza
il Gioberti), questa energia non gli appariva ancora nella forma più possente
dell'idealismo assoluto; quantunque gli studi che in quel torno continuava
sugli scrittori tedeschi gli facessero intravvedere di là dal Reno una gran luce
nuova. Caratteristico, sotto questo riguardo, l'esordio di un articolo su
Koerner pubblicato nello stesso giornale, nell'aprile dell'anno dopo. In esso,
ricordata la Germania di Tacito, scritta con la speranza che al paragone i
concittadini avrebbero provato onta della propria degradazione e si sarebbero
indotti a ristorare le vecchie e cadenti istituzioni della patria,
protestava:Io non ho né la forte penna, né l'autorità dell'austero patrizio di
Roma, ma ho ugual affetto pel mio paese, ugual sentimento della grandezza e
dignità dell'uomo, e mi stimerei ben fortunato se questi scritti invogliassero
i miei concittadini a comprendere e studiar il movimento della scienza e
letteratura tedesca. Allorché Tacito scrivea, era ben lungi dal prevedere
ciò che segui. Il settentrione fece irruzione sul mezzodi, e il giovin
sangue germano scese a rinvigorire le razze vecchie e spossate degl'
itali. Ora l'umanità è più ricca d'esperienza e di previsione; e chi può
e sa esaminare lo stato della società e della scienza, vede chiaramente che
avvenimenti analoghi si preparano; ma ora i popoli non si rinnovellano per dir
cosi fisicamente, per mezzo d'emigrazione e di grandi catastrofi, ma
spiritualmente. per virtù e commercio delle idee e della scienza. E questa si e
una delle più grandi, e forse la più gran differenza tra il vecchio e il nuovo
mondo. Idea non mantenuta poi interamente, dopo che ebbe meglio
conosciuto Hegel; ma che già era attinta a quella stessa corrente del
romanticismo tedesco, da cui era sorto il pensiero hegeliano, e che, meglio
determinata più tardi in conformità delle opinioni espresse da Hegel,
segnatamente nella Filosofia della storia, resterà uno degli articoli più saldi
del credo di V.. Gli articoli, che tra il 40 e il '45 dovette venite
scrivendo in vari giornali, da lui stesso poi dimenticati (o rifiutati), ci
aiuterebbero forse a illuminare questo periodo di formazione della sua mente, e
a determinare quindi meglio il carattere del suo posteriore sviluppo. Ma
siamo costretti a saltare alla tesi francese e alla tesi latina del 45, che lo
stesso Vera citò sempre nelle sue opere degli anni più tardi come contenenti
dottrine hege-liane; e invece serbano alla nostra curiosità la inaspet-tata
scoperta di un Vera (del più vecchio Vera, non destinato presumibilmente a
sparire del tutto nel nuovo !) antihegeliano. Vera antihegeliano! Si
direbbe una contradictio in adiecto. Eppure in questi due scritti il Vera non
solo combatte Hegel, dandogli battaglia sul terreno stesso della sua logica, e
come nella piazza forte della sua dot-trina; ma si inspira a tutta una
concezione recisamente avversa allo spirito hegeliano. Ci sia permesso di
studiare con qualche cura questo Vera antihegeliano, nella speranza che
la conoscenza di esso ci giovi ad intendere meglio il Vera di dopo, e fors'anco
a darci la soluzione di quel problema storico, in cui ci siamo di sopra
incontrati: di un cosi poderoso hegeliano, che per molti anni insegnò e scrisse
liberamente con l'autorità di un ufficio universalmente tenuto in grande
estimazione e reverenza, e in un paese già pregno di spirito hegeliano, senza
lasciar quasi nessuna traccia dell'opera propria. Sedici
pagine della tesi francese 1 contengono una rapida esposizione e una critica
dei principii fondamentali della logica hegeliana; ma delle sedici,
l'esposizione ne ha sole quattro. Dove si dice che, secondo Hegel, l'essere e
la conoscenza, l'esistenza e la verità fanno uno: sono due forme d'una stessa
unità, percorrono gli stessi gradi, si sviluppano e finiscono simultaneamente.
L'essenza delle cose è la ragione, e la ragione è il pensiero puro, perché il
pensiero non ha altro oggetto che se stesso, cioè la nozione o l'idea. Porre
con un processo d'analisi ciò che è essenzialmente contenuto nell'idea,
sviluppare L'idea sotto tutte le sue forme, seguirla e, per cosi
dire,ritrovarla ne' diversi gradi dell'esistenza, questo il compito della
filosofia. Ed ecco spuntare un' interpretazione dello hegelismo, che si può
certamente difendere sotto il riguardo storico, ma che può anche condurre a una
radicale falsificazione del significato storico di questa filosofia. Giacché
altro è dire che l'essere e la conoscenza, il reale e l'idea sono uno, altro
che siano due forme, due facce di un'unità, tra loro perfettamente
parallele. Nel primo caso siamo sulla via dell'idealismo assoluto; e nel
secondo siamo nello spinozismo e potremmo finire addirittura nel platonismo
accentuando, come fa il Vera, l'organismo dell'idea come unico oggetto della
filosofia. L'idea, secondo il Vera, è da prima, nel suo stato astratto e
assoluto, separata da ogni esistenza concreta e da ogni oggetto. Come tale si
sviluppa in una serie di termini, il cui insieme costituisce la logica. Questo
sviluppo ha luogo in virtù d'un movimento proprio e interno alla stessa Idea,
prodotto dalla dialettica dell'Idea, ossia da una necessità inerente a questa,
per cui l'Idea si nega e passa nel suo contrario, e annulla quindi
l'opposizione in un terzo termine che ci dà l'unità e la conciliazione dei due
primi. Con questo processo l'Idea attraversa tutte le forme logiche fino
all'ultima, che è l'Idea asso-luta: con la quale si compie la logica che è «l' Idea
allo stato astratto», ossia: una realtà, una forza infinita, ma una realtà, una
forza che ignora se stessa ». Essa deve realizzare l'idea della sua infinità,
deve acquistare la coscienza di sé: deve, per dir cosi, manifestarsi a se
medesima, ponendo un oggetto alla propria attività .. Evidentemente, qui
il Vera concepisce il passaggio dall'Idea alla Natura, o dall'astratto,
com'egli dice, all'esi- stenza, come un'aggiunta anzi che come uno
sviluppo. L'oggetto che l'Idea si dà nella natura, non par che ei lo
concepisca come la stessa Idea. E vero, che chiarendo poi l'antinomia di Logica
e Natura, dice: «l'Idée, DEVENUE NATURE, se sépare en quelque sorte d'elle
même»; ma, poco dopo, definisce lo Spirito (il tetzo termine in cui concilia
Logica e Natura) «un idéal où l'Idée a acquis la conscience d'elle même, où,
APRÈS AVOIR, pour ainsi dire, FAÇONNÉ SON OBJET el s'être retrouvée en lui,
elle rentre dans son absolue antén. Ma, e questo è più notevole, pel
Vera, lo Spirito, come mediatore dell'Idea logica e della Natura, non è,
logi-camente, dopo la Natura; bensi nella stessa Natura, quantunque non vi si
possa realizzare. V' è dentro, ed esso (come finalità) la muove da dentro. Onde
la triade vien capovolta. Non è la dialettica dell'Idea che crea il mondo. La
dialettica dell'Idea hegeliana, al pari della pigra dialettica delle idee
platoniche, non genera nulla, non vive, non si muove. « L'Idée ne devient pas,
à pro-prement parler; car elle est éternelle et infinie.. E lo Spirito farebbe
proprio le parti del demiurgo del Timeo. * Son oeurre consiste à faire
descendre l'Idée dans la Nature, et puis à vamener la Nature à l'Idée par un
acte pur et simple de la pensée». E cosi col divenire dello Spirito l'Idea
spiegherebbe tutta la ricchezza delle sue forme, penetrando nella Natura ed
entrando in possesso della sua esistenza assoluta. Per se stessa, adunque, la
Logica potrebbe restare un arsenale di armi arrugginite. Ma non è
meraviglia se qui il Vera non penetrasse nell'intimo del sistema hegeliano,
poiché protestava che esso «donne lieu à des graves objections», pur
giudicandolo una delle più vaste e profonde concezioni della filosofia moderna.
I due elementi, egli notava, di questo sistema, sono 1' Idea e il movimento
dialettico, Gravi difficoltà s'affollano intorno ad entrambi. L'Idea è da
principio essere puro, che trova la sua negazione nel puro niente, e la
conciliazione con questo nel divenire. Ma, dice il futuro hegeliano: è proprio
vero che l'essere puro contiene il niente? «L'essere puro, dice Hegel, richiama
[appelle)il niente, perché non c'è in esso nessun segno, nessun carattere, e
niente si può pensare né affermare di esso ». Questa spiegazione
dell'identità essere - niente più tardi apparirà anche a lui ineccepibile: qui
invece non riesce a rendersene conto. L'essere, egli dice, o è, o non è. Se non
è, allora tanto vale cominciare dal niente, quanto dall'essere. Se è, ci sarà
soltanto l'essere, e non si vedrà il suo contrario. Così, in due parole,
la prima proposizione della Logica è bella e spacciata. Non monta che Hegel
inviti a considerare che proprio lo stesso concetto dell'essere che è, puramente
e semplicemente, s' identifica col non-essere, da se medesimo (e che insomma
richiami l'attenzione sulla impossibilità di tener separati i due concetti di
essere e non-essere). Il Vera non sa vedere altro essere che l'essere di
Parmenide (l'idea stessa platonica): e però sentenzia che «l'idea del niente è
qui aggiunta all'essere da un pensiero finito, anzi che esser dedotta
dall'analisi pura dell'idea stessa dell'essere». E così anche il Vera, almeno
qui, resta tra le corna di quello stesso dilemma, in cui si impiglio, come
vedemmo, il Passerini *. E come era da prevedere, non riesce quindi a
capacitarsi del terzo termine della triade: il divenire. Questo termine non si
può, egli dice, dedurre legittimamente dai primi due. Infatti, se di
fronte all'essere puro c'è il puro niente, il niente annullerà l'essere, e non
ci sarà punto divenire. Inoltre: di ciò che diviene si può dire che i o che non
è, ma non che è e non è a un tempo; perché, se ciò che diviene è realmente a un
dato momento del suo divenire, non si potrà dire di esso se non che ¿, e
il niente sarà avanti o dopo di esso. Che se al contrario si concepisce ciò che
diviene come tale che in ogni momento del suo divenire non sia, tutto quello
che se ne potrà dire, è che non i, e non che diviene. Ancora: da quale dei due
termini il divenire è dedotto? O dall'essere o dal niente divisi, o
dall'esseree dal niente congiunti. Ma non può esser dedotto dal niente, perché
il niente, non essendo, non può divenire. Né dall'essere, perché l'essere è, e
non diviene. Né dall'essere e dal niente presi insieme, perché, quel che non
possono separati, non potranno neppure congiunti. E del resto, chi li
congiunge? il divenire ? ma allora il divenire non sarà dedotto dalla loro
combinazione. Ovvero sono riuniti prima di divenire? ma allora non si
vede più quale sia l'ufficio [le vôle] del divenire. Sofismi dello stesso
genere di quelli di Zenone, di Gor-gia, dei Megarici; e che avevano un
grandissimo valore quando la logica era la logica degli Eleati, dell'essere che
non può essere altro che essere: la logica che con Platone e Aristotele si
fisso e s' irrigidi come logica dell'idea astratta; ma che dopo Hegel giova
conoscere soltanto come documento dell'educazione mentale del Vera
trentaduenne, indugiantesi tuttavia agli antipodi della nuova concezione
dialettica hegeliana. Procedendo, l'oscurità si addensa, com'è ovvio, al
passaggio dalla Idea logica alla Natura. « Questo passaggio non è spiegato». Si
dice che l'Idea nella natura si dà l'oggetto, per conoscersi poi nello spirito.
Dunque, nella logica non si conosce. E come da questa idea senza oggetto e
ignara di sé può ricavarsi la realtà e la cono-scenza? E se non ha un oggetto
in cui conoscersi, come va che la meta di tutto lo sviluppo è la conoscenza
appunto dell'Idea nella sua pura idealità logica? - Voi volete dedurre da
questa Idea logica la natura e lo spirito. Ma, quantunque sia difficile
vedere come si possa, con una deduzione pura l'intervento
dell'esperienza, cavare l'idea della natura dall'idea logica, ad
ogni modo non si potrà tirare altro da un essere logico che un essete
egualmente logico: e cosi non si avrà più una natura reale, ma una natura
ideale: non si avrà esseri organizzati, qualità e una materia concrete,
ma esseri organizzati, qualità e una materia astratte. E in fine sarà sempre
l'Idea logica. Solamente, I'Idea-natura espri- merá altra cosa
dell'Idea-logica, ma, in quanto Idea,non ci sarà tra loro nessuna differenza. E
lo stesso si dica dello spirito, Giacché, con una simile deduzione, si avrà uno
spirito ideale e non uno spirito reale e personale. Obbiezioni, senza
dubbio, tutt'altro che lievi, ma che provano appunto che egli aveva inteso la
dottrina di Hegel come una nuova edizione non corretta, in verità, né riveduta
della platonica: l'Idea fuori del mondo, e non come lo stesso principio interno
e assoluto del mondo. La Idea hegeliana, non essendo natura né spi-rito, è
astratta, pel Vera, e cioè non reale. E invece per Hegel è la stessa realtà.
Onde lo sforzo maggiore che egli dovrà fare per entrare nell' hegelismo, e
quasi la breccia che gli dovrà aprire il varco per introdursi in questa
filosofia, consisterà proprio in questo punto: d'intendere l'idea come realtà,
e fin da principio l'es-sere, non come l'idea dell'essere, ma l'essere
dell'Idea. 8. - Quanto allo Spirito, ci sono altre gravi ripu-gnanze, O
l'Idea, egli dice, pensa fin da principio, nello stato d'Idea logica, o pensa
quando diviene Spirito. Ma nel primo caso l'edifizio hegeliano crolla; ed
Hegel infatti esclude questa alternativa. Per pensare, adunque, deve farsi
Spirito. E allora o la facoltà di pensare c'era nell'Idea fin da principio, o
le si viene ad aggiungere quando si trasforma in Spirito, Ma, se l'Idea come
tale avesse già la facoltà di pensare, non potrebbe non pensarsi, almeno come
Idea. Se questo pensiero le si aggiunge, allora il pensiero sarà altra cosa
dall'Idea, e dovrà avere un'altra origine. E poiché il pensiero, non derivando
dall' Idea, conterrebbe in sé l'Idea e la rea-lizzerebbe, sarebbe un principio
superiore all'Idea, la quale non si potrebbe più dire essenza di tutte le cose.
- Obbiezione anche questa assai grave, ma fondata sulla falsa concezione
dell'Idea hegeliana come contenuto-oggetto di pensiero, e non, qual'è, forma
assoluta e cioèassoluto soggetto, sich wissende Wahrheit, come dice
Hegel: onde, se si distingue uno Spirito da un Logo, anche questo, per Hegel, è
pensiero. Se si nega, insiste il Vera, la successione di Idea, Natura e
Spirito, facendone tre termini inseparabili e simultanei di un'unità, che è la
pienezza dell'esistenza e la vita del mondo, viene a mancare il movimento:
tutto è, e nulla diviene. Il divenire nel sistema hegeliano non è nell'Idea in
sé. « Si elle devient, c'est-à-dire si elle se ma-nifeste, c'est par l'action
successive de l'esprit qui la pense». Bisogna dunque ammettere una
successività, che importa nello spirito qualche cosa che non è nell'Idea:
bisogna concepire questo Spirito non come l'idea dello Spirito, bensi come
pensiero di un soggetto uno e indivisibile, che genera le idee e comunica loro
attività e vita. Cosi a questa unità dell'essere e del conoscere, che si
pretende realizzare nell'unità dell'Idea, sfugge, e la molteplicità degli
elementi riapparisce ». Anche ammesso che il pensiero possa ricavarsi dall'
Idea, esso penserebbe bensi insieme i due contrari, ma distinguendoli, non
unificandoli. Essere e non-essere, idea e natura, bene e male, giustizia e
crimine restano nel pensiero opposti. E del resto « lors même que la
pensée pourrait effacer l'op-position des contraires, il ne suivrait pas de là
nécessai-rement que l'opposition aurait disparu dans la réalité », Ora che
l'opposizione non possa esser cancellata dal pensiero, si è visto per le due
categorie di essere e non- essere: ma si può dimostrare in un modo più
generale «en signalant un vice qui atteint el ruine, suivant nous, tout
le système d' Hégel. Quest'ultima
critica è il suggello dell'incapacità del Vera a superare, con tutto l'aiuto di
Hegel, la posizione platonica. In questo sistema, egli dice, la verità e
l'essere non sono principii, ma risultati. La natura e ilpensiero non sono
mossi da un principio posto fuori del mondo, e in possesso della pienezza
dell'essere e della verità. L'essere da sé non si muove, né muove. Il
non- essere piuttosto sollecita l'essere; e come essere e non-
essere si uniscono nel divenire, il principio non è l'essere ma il divenire. E
lo stesso si dica della triade maggiore Idea-Natura-Spirito. L'Idea in sé
è morta, e non si moverebbe mai. Dev'esser negata nella Natura, perché abbia
luogo la vita dello Spirito. Se mai, la Natura, non l'Idea, dovrebbe considerarsi
come principio dello Spi-rito, svegliando in certo modo l'Idea e comunicandole
con la sua negazione una certa energia. Ma il vero principio è lo Spirito, in
cui si concilia l'opposizione di Idea e Natura; e che trascinerà nel flusso del
suo divenire l'essere e il non-essere dell'Idea, ossia Idea e Natura. E
insomma: o nulla diviene facendosi l'Idea principio di una Natura come
Idea-natura e di uno Spirito che è Idea-spirito; che sarebbe il partito della
logica; o tutto diviene, facendosi lo Spirito principio di tutto; che sarebbe
il partito dell'esperienza. Nel primo caso si hanno tre idee pure ed immobili,
e non si ha il mondo, Nel secondo si ha il divenire dello Spirito, e quindi
della Natura e della stessa Idea, ma non si ha più principii, né asso-luto: e
lo stesso spirito del mondo, di cui parla Hegel, non sarà, in fondo, se non una
generalizzazione dell'esperienza e degli spiriti finiti. In conclusione,
la principale esigenza della critica del Vera è il concetto dell'assoluto
estramondano; e la legge del suo pensiero il principio astratto
d'identità. 10. - Nella tesi latina (dove la dottrina hegeliana
confrontata a quella platonica e a quella aristotelica del termine medio è
appunto la dialettica, la cui sintesi vien considerata come termine medio tra
tesi e antitesi) il Vera ripete in parte la critica che abbiamoesposta della
sua tesi francese, ma formula pure la prima: e capitale obbiezione nella più
schietta forma teistica, che giova a determinare nettamente la sua posizione
mentale. Dice qui presupposto gratuito quello di Hegel quando ideas aeternas
rerum causas el principia esse contendit!. Le idee possono aver questo valore,
oppone il Vera, si cui vi, vel menti, insint, quod sensit Plato. Ciò che non è
storicamente esatto, ma serve a dirci in che modo il Vera intendesse il
platonismo da cui era do-minato. E accumula contro le prime categorie
altre difficoltà. Hegel vede il niente nell'essere come una sua
determinazione (o nota), perché dell'essere non si può dire se non che è. Ma
questo è piuttosto una ragione perché l'essere respinga da sé il nulla.
Affinché infatti si possa dire che l'essere è, non occorre che in esso ci sia
determinazione di sorta: e il niente vi sarebbe se l'essere fosse in qualche
modo determinato: - Poi, se tutto deve cominciare con l'essere e niente ci
dev'esser prima del- l'essere, nec vor, nec res, nec cognitio, allora
prima dell'essere non ci sarà altro che il niente; e dal niente si dovrebbe
cominciare piuttosto che dall'essere. Ancora: per Hegel l'essere diviene; e niente
è. Ma, affinché qualche cosa divenga, bisogna che qualcosa sia, e non
divenga. Giacché se a prima vista pare che quel che diviene sia e non sia
insieme, in realtà, chi consideri con più diligenza, esso non è, solamente.
Giacché quel che ora diviene,dev'essere stato e non divenuto; e poiché era,
diviene. - Inoltre, essere e niente son cose; il divenire, invece, è stato o
proprietà d'una cosa; e non può quindi congiungere l'essere e il niente. Hae
enim verum proprietatibus virtus inesse nequit. - La verità e la potenza che e
è nel divenire, deve ricavarsi da quel che era e che è. Sicché l'essere
dovrebbe essere alcunché di più perfetto di quel che ne deriva, realtà o
cognizione. Laddove Hegel muove da un essere, che non è il primo essere, ma un
essere, per così dire, passato attraverso il niente. Onde il processo va dal
meno al più, dall' imperfetto al per- fetto; il divenire invece è
incremento di perfezione. Verum haec rationi repugnant. E c'è
altro. O c'è un principio delle cose, o no. Se c'è, qualunque sia, o una forza
(vis quaedam), o solo una idea (ens logicum), deve preceder tutto, rispetto
alla forza, al tempo, al moto, al vero. Hegel muove dall'essere: ebbene da
quest'essere, se forza, dovrà ricavarsi la forza di tutto; se idea, tutte le
idee. E non si uscirà mai quindi dall'essere; il principio sarà sempre
l'essere. - Che se la conclusione dovesse essere il divenire, il divenire non
cessa mai, non è mai un atto esaurito: e il processo del reale e del conoscere
andrebbe all'infinito. - E guardando ai rapporti non più intelligibili
dell'Idea con la Natura e con lo Spirito, la tesi latina, con qualche variante
dalla tesi francese, trae questo colpo finale contro la dottrina di Hegel: «
Infine, se lo spirito sta di mezzo tra la natura e la idea e per ciò stesso va
innanzi alle idee, le idee non sono i principii. E ammesso che siano principii,
poiché lo spirito diviene, e le idee sono inerenti allo spirito, è necessario
che divengano anch'esse. Se non che quel che diviene, non è, ma
sarà; né intende, ma intenderà; sicché né spirito né idea avranno coscienza di
sé, né ci sarà un fine nel mondo, ma il tutto andrà soggetto alla cieca
necessità delle idee».11. - Dei quali errori tutti il Vera trova la prima
origine in due cause principali. L'una, che Hegel torse la dialettica dal suo
vero ufficio, che è di respingere il falso, alla scoperta e dimostrazione del
vero: pretendendo di edificare con uno strumento di demolizione. L'altra, che
ben vide doversi cercare nell'infinito la ragione del suo rapporto col finito,
ma errò presumendo di rendersi conto del modo di questo rapporto, onde fu
costretto a cercare il finito nella stessa natura necessaria dell' in-
finito: ponendo un infinito semplice che si dirompe suapte natura e quodam
necessario impetu nelle cose finites, e non potendovi poi restare si sforza di
tornare a sé e ri-staurare certo infinito composto, con un circolo che Hegel
per altro non riesce a chiudere, perché l'infinito, una volta mescolatosi alle
cose finite, non può più tornare infinito. Egli è, insomma, che Hegel
vide il vero problema della scienza; mai però appunto andò più lungi dal segno
(sed ob ipsum forsan longius a vero provectum). Perché il Vera è convinto che
tale problema è troppo più grave che non possa sostenere l'omero mortale.
Funzione del termine medio, fulero d'ogni dimostrazione, è unire il finito con
l'infinito. Ma come questa unione avvenga né Aristotele, né Hegel, né lo stesso
Platone, quantunque la sua dottrina sia la più soddisfacente, han potuto
ad-ditare, perché il rapporto muove dall'infinito, la cui natura sfugge alla
mente umana. Si enim intelligeremus (dice il Vera riecheggiando un motivo della
filosofia ales-sandrina, già accolto dal Ficino, e tornato in onore nel De
antiquissima Italorum sapientia del Vico) *, Si enim intelligeremus (infiniti
naturam], non solum rerum ratio, sed el quomodo res perficiuntur nobis
innotesceret, neque id tantum, sed el res ipsas quodammodo perficere
nobisconcessum esset. Qui enim verum vim naturamque pentus
agnoscit, his recte uti ad res ipsas conficiendas valebit. Isque
absolute demonstrat qui non modo res intelligit, sed et intelligendo conficit.
Quemadmodum summus is est artifex qui opus non modo in mente revolvit, sed et
conficit et confi-ciendo sibi et aliis mentem suam patejacit et demonstrat
1. 12. - Di questo scetticismo teistico il Vera tratto di proposito nel
Problème de la certitude. Dove, è superfluo dirlo, non solo Hegel, ma anche
Kant è assai bistrattato. Basti per un esempio la prima obbiezione che il
Vera muove contro la Critica; ed è che la distinzione di senso, intelletto e
ragione è più artificiale che reale; perché né la sensazione è altro che un
giudizio, né la categoria ha caratteri diversi dalle idee. « Che l'atto
intellettuale non venga ad aggiungersi [sic] all'impressione esterna, e la
sensazione non avrà luogo. Essa è dunque un giudizio sollecitato da una causa
esterna, ma che, come ogni altro giudizio, non può aver luogo senza
l'intervento dell'in-telletto. Sicché senso e intelletto non sono due facoltà
distinte; ciò che Kant stesso confessa implicitamente, allorché attribuisce
certe categorie al senso non meno che all'intelletto. Infatti, il tempo e lo
spazio sono concetti puri dell'intelligenza, né più né meno della causa, della
sostanza, ecc., e quelli non sono meno di queste condizioni essenziali di ogni
pensiero. Non si vede dunque in che differiscano queste due facoltà, poiché
sono sede di nozioni della stessa natura»?. E con osservazioni della stessa
forza continua a dimostrare che non c'è modo di distinguere per davvero le
categorie dalle idee, fino a far sospettare che il Vera non avesse mai letto la
Critica (per la quale infatti rinvia 3 alle lezioni del Cousin).In tutta la
storia della filosofia non vede se non sforzi vani per superare lo scetticismo;
e il suo lavoro vuol essere un nuovo saggio di teoria della conoscenza. Ogni
conoscenza riguarda i fatti o i principii. Fatti sono le esistenze e le qualità
fenomeniche; principii, le cause delle une e delle altre. La causa d'un
fenomeno non è il fenomeno che lo precede, ma il principio interno, la natura
dell'essere che si manifesta nel fenomeno: l'es-senza. Altro è la sostanza,
sostrato o soggetto delle qualità; altro l'essenza, forma intelligibile della
stessa sostanza. Ed è chiaro che il pensiero non può mirare di là dell'essenza
alla sostanza; perché di questa che altro potrebbe cercare che l'essenza? La
vera cognizione, che non si arresti al puro fenomeno, s' indirizza all'essenza.
Ma l'essenza non è conoscibile, per ragioni derivanti in parte dalla natura
sua, in parte dalla costituzione della nostra intelligenza. L'essenza è
una; e intanto è uopo che si moltiplichi negl' individui. Che è il problema
della creazione, inespli-cabile, Si ammetterà un'essenza per le cose periture e
una per le eterne? Ma quale sarà il loro rapporto? e quale la loro differenza
se, come essenze, saranno pure entrambe eterne ed infinite? Si ammetteranno
soltanto essenze individuali (atomismo): e allora l'essenza in sé sarà una
semplice astrazione. - O si ammetterà una sola essenza; e allora tutti gli
individui diverranno fenomeni transitori e apparenze. - E poi è necessario
ridurre tutte le essenze a un solo principio, e che questo esista; perché
quando ve ne fossero molte, dovrebbero sempre essere tra loro in un rapporto; e
questo importerebbe un principio superiore, il quale sarebbe perciò il vero
principio e unico. E che sarà questo principio? Gli si possono attribuire, come
s'è fatto in tutti i sistemi, tanti caratteri; ma questi caratteri non ci
faranno mai vedere l'intimo del principio e la sua propria natura.La natura poi
della nostra mente ci toglie la possibilità di montare all'unità assoluta;
perché niente possiamo pensare che non si presenti alla nostra coscienza come
suo oggetto e che, sia esso Io o non-lo, non si ponga pel fatto stesso d'esser
pensato come non-lo di contro al nostro Io. Né giova la pretesa intuizione
intellettuale di Schelling. Perché o in essa il pensiero conserva la coscienza
di sé, e allora permane la dualità: o smarrisce questa coscienza, e assorbendosi
nell'oggetto, non sarà più pensiero, ma il niente del pensiero. Ignorando
l'essenza, non si possono spiegare i rapporti. Si conoscono le esistenze
e si conoscono i rapporti degli esseri; ma dal che non si passa al come. Non si
può contestare che io sia, e che siano i prodotti della mia attività interna e
del mio pensiero e gli oggetti e fenomeni del mondo esterno. Saranno tutti
fenomeni, apparenze fugaci; ma non si potrà negar loro un certo essere e dire
che non siano, almeno nel momento in cui sono. Chi si provasse a farlo, si
contraddirebbe. Ma se vi sono esistenze che cominciano, che sono e non erano,
e, insomma, effetti, questi effetti devono avere una causa. La quale causa o
bisognerà cercarla tra le cose finite, o sarà la collezione delle cose finite,
o la sostanza infinita di cui le sostanze finite siano emanazioni, o infine un
principio separato dal mondo e avente esistenza propria e indivi- duale.
Le prime tre ipotesi sono da escludere. a) E evidente che non può esser
causa del finito un fini-to, che come tale è effetto, e richiede esso stesso
una causa. 6) La collezione dei finiti non aggiunge ai finiti se non una
unità artificiale ed astratta, esistente solo nel soggetto che la pensa. Quindi
non può contenere più dei finiti, né essere altro che finita: cioè un effetto,
anch'essa. Senza dire che la collezione è risultato e non principio, e
suppone una causa radunatrice degli elementi e quindi costitutiva di essa
collezione.c) La sostanza che producesse eternamente le cose, effondendosi in
esse senza potersene distinguere, anzi facendone parte, potrebbe essere o un
Io, o una causa meccanica. Un lo, di cui le coscienze individuali fossero parti
integranti, sarebbe tanto causa di queste, quanto queste di esso. Giacché in un
tutto essenziale alle parti come le parti al tutto, non ci può essere
efficienza o causalità vera, ma solo una causalitá logica. Che se l'Io assoluto
si concepisca come una forza infinita manifestantesi negli individui, si potrà
chiedere: e perché si manifesta o sviluppa? per darsi così una coscienza più
chiara e più larga? ovvero per passare dalla potenza all'atto? In un caso e
nell'altro l'effetto conterrebbe qualche cosa di più che la causa, e questo di
più resterebbe senza causa. - O sarà la sostanza una causa cieca e meccanica?
Ma la sola vera causa è la libertà. Se un corpo in movimento ne mette in moto
un altro, noi diciamo impropriamente il primo causa del movimento del secondo;
laddove ne è solo la condizione. Infatti esso non può non muovere il corpo, e
non può non muoverlo con la velocità e la direzione con cui lo muove perché non
è esso stesso la causa del proprio movimento, né quindi del movimento che ha
comunicato. La vera causa del movimento non dev'esser mossa, ma deve muovere da
sé: esser libera. Sicché la causa assoluta dev'essere separata dal
finito, libera, persona assoluta. Libera, in quanto indipendente dal suo
effetto; ma legata bensi alla legge della sua es-senza. Questo già vede il
Vera: che la necessità interna non è incompatibile con la libertà, almeno
quando si tratti della causa assoluta. Perché nell'uomo, che non s'è dato il
suo essere, il Vera crede bene che la necessità interna sia anche esterna;
quantunque anche l'uomo che fa il bene, se fare il bene si concepisce come
legge della sua natura, debba dirsi libero. La necessità, invece, della causa
assoluta le è, per dir così, più intimamente interna.Il Vera, in questa tesi,
non ammette nessuna reciprocità tra la causa e l'effetto. Questo richiama
quella: ma «l'idea di causa, lungi dal contenere quella dell'effetto, l'esclude
pel fatto stesso che è causa», Insomma, dualismo assoluto. La causa
assoluta, essendo libera, è intelligente, perché non è libertà senza
intelligenza. E semplice e indivisibile; perché se il suo atto non fosse uno, e
si risolvesse p. e. in due parti, una di queste agirebbe sull'altra, e la causa
non sarebbe causa, e le due azioni causali, esercitandosi successivamente,
darebbero luogo ad effetti a un dato istante sottratti alla causa, che
cesserebbe perciò di essere assoluta causa. E l'atto uno suppone la sostanza
una. E già una sostanza composta sarebbe materiale, e non sarebbe più
libera. Né occorre dire che, per essere asso-luta, la causa dev'essere
universale. La causalità conferisce realtà all'idea di sostanza,
concepita come principio del finito, e conferisce realtà ugualmente a tutte le
idee effettrici delle esistenze finite: al bene assoluto, causa del bene
relativo, alla verità assoluta, alla bellezza assoluta, e via discorrendo. Con
la sola categoria di sostanza potremo avere l'idea di Hegel, l'essere puro,
come una « concezione logica ». La causa ci fa fermare il piede nel
reale; e la certezza del fenomeno si fonda sull'intuizione della causalità
reale supposta dal fenomeno. * Il pensiero non comincia con l'affermazione
d'una causalità astratta, ma d'una causalità reale. Il sentimento della mia
finità è inseparabile dalla mia esistenza, e col primo sentimento della vita si
produce a un tempo il sentimento del mio niente e d'un principio che mi ha
fatto passare dal niente all'es-sere. Ecco già l'idea di causa che si manifesta
a me insieme con la mia esistenza. E non è una causa astratta e possibile, ma
una causa reale e attuale come il suo ef-fetto; non è una causa che deduco da
un principio, mauna causa che colgo con un' intuizione semplice e imme-diata,
con un atto analogo a quello col quale affermo me stesso». Nel libro non è
citato mai il Gioberti; ma questa dottrina coincide a capello con quella della
formola ideale, che cinque anni prima il Gioberti aveva propugnata
nell'Introduzione allo studio della f-losofia. Immediatezza della
cognizione, inconoscibilità dell'es-senza, e quindi misticismo scettico;
opposizione assoluta tra essere e pensiero, Dio estramondano e quindi negazione
della libertà e della verità dello spirito come della spiritualità del vero;
concezione conseguente della verità o idea come contenuto trascendente del
pensiero, retto quindi dalla legge dell'identità, e della dialettica come
funzione meramente negativa del pensiero soggettivo: tutta la somma delle
dottrine essenziali alla vecchia intuizione platonica del mondo, contro le
quali da secoli e secoli combatteva la filosofia moderna, e che furono
definitivamente superate dal principio hegeliano, faceva intoppo nella mente
del Vera all'intelligenza dello hege-lismo. La folla incomposta delle
difficoltà che egli vi in- contrava, attesta chiaramente la refrattarietà
del suo spirito agli incitamenti e alle suggestioni della nuova filosofia, cosi
rudemente paradossale a chi non sia preparato da un vivo affiatamento con tutta
la storia del pensiero moderno (e si può dire anche del pensiero cri-stiano, in
opposizione al greco) a guardare il mondo con gli occhi nuovi dello spirito
conscio della sua vita assoluta. Come fece il Vera negli anni seguenti a
liberarsi dalla grave mora de vecchi pregiudizi, per rifarsi con nuovo e fresco
vigore intorno allo hegelismo, romperne la dura scorza, e penetrarne l'intimo
spirito? Rifece egli più metodicamente il cammino percorso dal pensiero
speculativo da Cartesio a Hegel13. - Dopo il 1845, i primi lavori del Vera sono
quattro articoli del 1848, scritti per una rivista La liberté de penser,
fondata a Parigi dopo la rivoluzione di febbraio da alcuni giovani professori,
come il Simon, il Saisset, il Jacques e lo stesso Vera. E in essi il
demolitore della logica e di tutto il sistema di Hegel ci si presenta in veste
di hegeliano. Nessun documento illumina la crisi antecedente del suo pensiero;
e bisogna contentarsi di osservare in questi articoli il suo primo atteggiamento
nel nuovo indirizzo. Il primo (La Religion et l'Etat) fu scritto a
proposito delle discussioni dell'Assemblea Nazionale per definire i rapporti
tra Stato e Chiesa; e combatte l'idea della se- parazione. Sarà più
tardi, come vedremo, uno degli argomenti su cui più si travaglierà il pensiero
del Vera, senza riuscire mai a dar nettamente la soluzione del pro-blema. In
questo primo saggio, forse perché lo scrittore non sente ancora tutta la
difficoltà della questione, il suo pensiero tocca il massimo della chiarezza,
che abbia mai raggiunto. Vede il progresso storico dei rapporti tra Chiesa e
Stato indirizzato verso la libertà di coscienza; e giudica la Riforma
protestante, malgrado la sua proclamazione del libero esame, inferiore a
cotesto principio, per cui la ragione umana può sottrarsi alla tutela
dell'autorità sacerdotale; perché la Riforma non proclamò insieme l'abolizione
delle religioni di Stato. E religione di Stato significa autorità che è
compressione della li-bertà, in quanto non è l'autorità della ragione
invisibile e universale, conciliatrice della regola con la libertà, della
disciplina col movimento, ma quell'autorità visibile e materiale, che, come
imprigionata nel fatto e nella lettera della legge, colpisce d'immobilità
il pensiero, contrasta ogni espansione nuova dello spirito e riesce alla
violenza e all'asservimento delle coscienze. La Rivoluzione francese ha
compiuto l'opera della Riforma,ispirandosi a un principio superiore: il
principio dei diritti dell'uomo in generale, onde la libertà nuova da lei
proclamata non è più quella di una società particolare, ma del mondo. E
abolisce la religione di Stato, presupponendo quella religione ideale e
assoluta - scoperta dalla filosofia, di cui la Rivoluzione è figlia ed erede -
la quale si sviluppa e manifesta successivamente nella coscienza dei popoli,
domina e abbraccia tutte le religioni positive e compone ad armonia nella
propria unità le credenze parziali del genere umano: la religione, in-
somma, naturale o razionale. Ma né la Francia né l'Europa eran preparate alla
riforma religiosa, che questi principii, rigorosamente applicati, avrebbero
richiesta: e ad essi occorre tuttavia far capo per gettare le basi della nuova
carta religiosa. In un articolo successivo, ma dello stesso anno, il
Vera, accintosi ad esporre la filosofia della religione di Hegel, giudicherà
con lui e rifiuterà, come idealismo ordinario, cotesto deismo prevalso nel sec.
XVIII, il quale astrattamente foggiava la religione ideale e filosofica, che
giace in germe nel fondo d'ogni intelligenza »1, Ma, pure appigliandosi per
qualche altro particolare alla dottrina di Hegel, è fermo nella convinzione che
basti svolgere razionalmente il principio posto dalla rivoluzione francese,
fondato, come s'è visto, sulla dottrina della religione naturale. Segno che
egli non era ancor giunto a possedere un concetto determinato della religione,
né, comunque, a impadronirsi di quello di Hegel. Svolgere il
principio della Rivoluzione, della libertà di coscienza, non era ciò che dal Lamennais
in poi venivano chiedendo in Francia i cattolici, e avevano finito con invocare
gli stessi gesuiti? Ecco, dice il Vera: « nellapresente questione, come nella
maggior parte delle questioni sociali, la difficoltà consiste nel conciliare
l'ordine e la libertà. Se si sopprime una di queste due condizioni, s'
incorrerà nell' inevitabile alternativa, o di tornare all'autorità e alle
religioni ufficiali, o di rinunziare a ogni azione normale ed efficace sugli
spiriti ", Temeva il Vera. che se l'Impero, la Ristaurazione e la
Monarchia di Luglio avevano piegato dal lato della tradizione e del-l'autorità,
ora si piegasse dal lato opposto, esagerando il principio della libertà. Si
preoccupava degli effetti di una libertà assoluta, che avrebbe portato
all'anarchia delle coscienze, all'impossibilità di ogni governo morale e quindi
d'ogni governo politico. Se la pigliava con la stessa espressione di libertà
illimitata, che non può essere, diceva, se non una figura rettorica
lusingatrice degli orecchi e del gusto del pubblico, non potendosi concepire
potere che non sia limite della libertà. Né pertanto è ammissibile la
separazione. I sostenitori della quale si rappresentano la società come una
sorta di d'ag-gregato di parti unite insieme da legami estrinseci: laddove la
storia e la teoria ci mettono innanzi un'unità sociale organica, in cui tutto è
concatenato e la vita di una parte va di conserva con quella del tutto, e
un'unità invisibile vi circola dentro. Perciò Hegel disse che le rivoluzioni
politiche e religiose sono inseparabili; e un popolo che ne fa una e non fa
l'altra, ha lasciato a mezzo la sua opera, mantenendo un antagonismo, che dovrà
rimuovere, se non vuol soccombere. E questo basta qui al Vera per concludere
che Chiesa e Stato sono insepara-bili. Quantungue non sia difficile vedere che
il suo argomento supponga provato quel che è da provare: l'imma-nenza
dell'elemento religioso, anzi della Chiesa, nell'organismo dello Stato.
La separazione è voluta da coloro che dividono con un taglio netto la sfera
religiosa da quella del diritto:nella prima delle quali lo spirito umano si
solleva all'eterno e all'infinito, laddove nella seconda l'uomo rimane stretto
ai suoi bisogni passeggeri e terreni, e quindi implicato negli interessi, nelle
passioni, nelle lotte, da cui si libera affatto mercé la religione. In questo
argomento V. riconosce, a primo aspetto, un'apparenza di verità. Ma gli studi
che in quel torno ei doveva fare della filosofia hegeliana, gliene additano il
difetto. « Au fond, il repose sur une notion incomplète de la vie religieuse,
et il se rat-tache à cette métaphysique qui ne saisit qu'un seul élément dans
les êtres, el qui, en négligeant l'élément contraire, n' aboutit qu'à des
abstractions ou à des inconséquences... E vero che Dio, comunque si concepisca,
trascende ogni limite, ed è termine immutabile e infinito. Ma Dio è un termine
solo del rapporto religioso, onde Dio si manifesta, e l'altro è l'uomo con le
sue condizioni sensibili e finite. Né la religione è un fatto isolato, chiuso
nella coscienza del-l'individuo, ma un'istituzione sociale, la quale ha per iscopo
l'istruzione e la guida delle anime; e pertanto non può sorgere, conservarsi e
svolgersi senza determinate condizioni materiali ed esterne, insegnamento orale
e simbolico, associazione, disciplina, mezzi finanziari ecc.: tutte cose
che rannodano la Chiesa con lo Stato, Ebbene, esclusa la separazione (lo
stesso Vera si pro-pone, come sarà sempre suo costume, l'obbiezione), come
sfuggire all'alternativa dell'oppressione della Chiesa sullo Stato, o dello
Stato sulla Chiesa? Ma (come sarà pur sempre suo costume) se n'esce pel rotto
della cuffia, perché non si spinge fino a una rigorosa definizione dei concetti
che adopera. La soluzione qui la trova in quella astratta filosofia della
religione, che ha accettata dal secolo XVIII, e che è pure quella dottrina
eclettica della verità relativa di tutte le religioni positive
nell'assolutaverità della religione naturale, che, nei nostri filosofi della
Rinascenza (Bruno e sopra tutto Campanella, che ne è il vero fondatore, a lui,
molto probabilmente, essendosi inspirato Herbert di Cherbury) ' portava
logicamente alla religione di Stato. Lo Stato, pel Vera, deve sanzionare la
libertà di coscienza: ma in questo stesso postulato è implicata l'attribuzione
allo Stato di legiferare in materia religiosa, riconoscendo a tutte le
religioni positive quella legittimità che è loro conferita dalla religione
ideale in cui tutte sono comprese. Se lo Stato non s'incontrasse nella
religione, non potrebbe né anche riconoscerne e garentirne la libertà. Lo Stato
s' investe in questo suo atto di un principio filosofico, e la filosofia gli
conferisce la potenza e il diritto di dettar legge in re-ligione. La filosofia
che è « la fonte della vera libertà, perché essa sola proclama ed assicura
quell'alta libertà dello spirito che è il principio di ogni libertà, e perché
essa solleva continuamente l'umanità al di sopra di se medesima, e delle cose
periture e finite, alla regione dell'eterno e dell'infinito». E però
nell'alleanza dello Stato con la filosofia è il fondamento di ogni libertà: alleanza
tutt'altro che facile, di certo, anzi, sotto certi aspetti. né possibile né
desiderabile: ma perciò appunto fornita del carattere di ogni ideale, che
genera il progresso in quanto meta inattingibile. «Tout progrès possible
repose sur un principe impossiblen 3. E un altro punto, in cui il
Vera non si solleva fino allo hegelismo, restando al dover essere (Sollen)
kantiano, messo in derisione dal pensatore di Stoccarda. E la coscienza dell'
irrealità dell'ideale limita l'astrattezza, tutta platonica, di questo Stato
filosofico, in cui si rifugia ilVera, assai imbarazzato poi quando si tratta di
tornare fuori, per rimettersi in rapporto con la realtà storica. Se Stato
e Chiesa sono inseparabili, il prete è, pel Vera, un funzionario dello
Stato. Dacché un culto è legalmente ammesso, esso diventa una funzione di
Stato. Funzione varia, diversa, molteplice, perché lo Stato ammette tutti
i culti, quantunque non s' immedesimi con nessuna religione. E lo Stato perciò
retribuirà i ministri di tutti i culti. - Ma proprio tutti? - Sì certamente,
perché « tutti i culti, quali che siano le dottrine che professano e la parte
di verità che contengono, devon o incontrarsi in un pensiero e in un'opera
comune, dovendo tutti, sotto una forma o un'altra, per vie e gradi differenti,
disciplinare le anime non soltanto a salvarsi, ma ad adempiere i loro doveri
civili». Devono in - contrarsi: ma s'incontrano realmente? Lo Stato solo può
giudicare se e in quel misura una dottrina religiosa soddisfi questa
condizione. Che se si contesta allo Stato questa facoltà, bisognerà
contestargli anche quella di concedere la libertà dei culti: poiché la libertà
dei culti, ripeto, suppone questo criterio: suppone che lo Stato abbia saputo
riconoscere che la verità non è prerogativa d'un solo culto, e che saprà anche
distinguere, fra le dottrine nuove, quelle che bisognerà ammettere o rigettare
». Ossia, in conclusione, saranno ammessi tutti i culti, che lo Stato con
la sua filosofia approverà, poiché pare ce ne possano anche essere di quelli
che non siano compatibili coi fini essenziali dello Stato. E allora? Noi
crediamo, conchiude il Vera, che « nello stato presente del mondo, appartenga
ai poteri civili e alla civiltà laica l'iniziativa della riforma religiosa, e
che questa riforma debba essere imposta alla Chiesa nell'interesse della
libertà e della Chiesa stessa ». Ma allora abbiamo lo Stato teologo e la
religione di Stato! - Parola più speciosa che vera», risponde l'au-tore. « Noi
pretendiamo che lo Stato, quale l'abbiamo definito, quale l'han reso la
filosofia e la Rivoluzione, sia perfettamente competente nella questione
religiosa. Lo Stato, bensì, non fa della teologia scolastica, non
disserta sulla grazia, il peccato originale e la trinità. Lascia queste
dispute ai teologi e ai filosofi. Ma può dire fino a che punto una religione
risponda ai bisogni della società, e studiando seriamente questi bisogni,
giovandosi dei lumi della filosofia e della libera discussione, ha il diritto e
il potere di imprendere la riforma delle istituzioni religiose, modificarle e
ringiovanirle, facendovi penetrare i germi di verità nuova na 14. - Come
possa lo Stato riformare una religione senza entrare nella teologia; come
giovarsi della filosofia, senza intendere la filosofia stessa, e quindi filosofare:
come proclamare la libertà dei culti e riconoscere a tutti i culti un valore,
dovendone pure eventualmente respingere qualcuno con un criterio suo; come
imporre una riforma alla Chiesa, rispettando il principio della libertà: sono
tutti certamente punti molto oscuri, e non i soli, della soluzione caldeggiata
dal Vera. Ma qui giova soltanto fermare l'attenzione sul carattere permanente
di questa filosofia del Vera, malgrado il giudizio sulla Rivoluzione francese,
cosi diverso da quello enunciato otto anni prima, e malgrado gli spunti
hegeliani contro le astrazioni dell'intelletto. Essa evidentemente è ancora una
filosofia non compenetrata dal concetto della razionalità del reale e della
realtà del razionale: una filosofia di una ragione concepita come sovrapposta
alla vita, alla storia, al reale. L'infinito si vuole congiunto essenzialmente
col finito (e però la Chiesa con lo Stato). Ma l'infinito è infinito, e il
finito è finito. Lo Stato non hainfinità (non ha valore), se non gli viene
comunicata dalla Chiesa; né esso può acquistarsela da sé, incorpo-
randosi e risolvendo in sé la Chiesa: a fine di stabilire i suoi rapporti con
la Chiesa deve ricorrere alla filosofia, che non è nello Stato, e non è perciò
lo Stato. Tutta la storia, come progresso compiuto in virtù d'un principio
impossibile, ha il proprio valore fuori di sé: ossia, non ha valore. Questo non
era il nuovo mondo di Hegel. Segui la prima parte dello studio sulla
Philo-sophie de la religion de Hégel, non continuato, perché la Liberté de
penser cessò di pubblicarsi. E in questo scritto il Vera espose il punto di
vista di Hegel in questa parte del suo sistema e il suo concetto in generale
della filosofia con manifesti segni di adesione, sebbene qui ancora non
s'incontrino quell' iperbolici elogi della filosofia hegeliana che poi
diverranno frequentissimi nei suoi libri. Tornò ad esporre brevemente il
concetto della filosofia hegeliana col metodo stesso adoperato nelle tesi di
tre anni prima, quantunque le difficoltà formidabili intorno ai punti
fondamentali e preliminari che tre anni prima gli sbarravano l'adito al
sistema, pare siano già come per incanto sparite: quel metodo, il quale
consiste nel saltar dentro a una filosofia, dopo averla distaccata dal
complesso della storia, in cui essa sorse e visse, e nel muovervisi dentro come
altri può percorrere una galleria di quadri che non sappia come e donde
raccolti. Il metodo più antihegeliano che ci sia. E cosi ora, così sempre:
anche quando egli diventerà assai più esperto hegeliano e più fervido
propugnatore di questa filosofia, Hegel sarà un filosofo, per V., tutto chiuso
in sé, che si lascia indietro, a mille miglia di distanza, non pure la
filosofia prekantiana, ma Kant, Fichte e lo stesso Schelling: e se qualche
riscontro potrà consentire, richiamerà Platone e Aristotele (che sono poi gli
antesignani dell'oppostaconcezione del mondo). Per ora, non una parola di altri
filosofi, e le determinazioni della filosofia hegeliana, strappate dal loro
terreno storico, si presentano, com'è na-turale, in un aspetto equivoco ed
incerto. La filosofia ricerca l'universale, l'infinito, l'assoluto in
tutte le sfere sulle quali si esercita l'attività del pensiero»›, Definizione,
che, se non è detto quale sia la natura di questo universale, eterno, infinito,
può competere tanto alla filosofia di Hegel, quanto a qualunque altra. «
Secondo Hegel, l'oggetto della filosofia è la conoscenza dell'Idea». Anche
questo è troppo poco. E tutto quello che segue non giova a differenziare
1 he-gelismo dal platonismo: « L'assoluto è lIdea, la quale si divide e si
specifica in una serie di determinazioni, di cui ciascuna costituisce un modo
della Idea, nonché un grado e una faccia dell'esistenza. Questa Idea e questa
serie di idee non si producono a caso e secondo rapporti arbitrari ed
esteriori, ma sono legate da rapporti necessari ed eterni, e formano un
organismo interno, e come una trama indistruttibile su cui sono fondate l'unità
e la vita del mondo»2. Lo stesso Vera sa che così c' è una profonda differenza
tra l'idealismo « ordinario» e l'idea-lismo « assoluto » di Hegel. L'idea di
quello è astratta, e l'idea di questo è concreta. Cioè? - Le idee del primo
sono poste meccanicamente l'una accanto all'altra: quelle del secondo
hanno un concatenamento e una necessità interna. - Distinzione così, sulle generali,
ille-gittima: perché non c'è filosofia idealistica che non miri appunto a
questo intimo concatenamento delle sue idee; e in questo senso le idee di tutti
gli idealisti sono state concrete. La concretezza hegeliana non consiste
tantonella concatenazione delle idee, che, tutte concatenate, possono essere
nondimeno tutte fisse, immobili: quanto nell'atto stesso del concatenamento,
per cui l'idea non è legata più a un'altra idea, ma è l'altra; è, e non è se
stessa; si muove, e movendosi, divenendo, è un'idea ed è un'altra idea. Sicché
non più catena, ma medesi-mezza, coincidenza di opposti. E se non si guarda a
questa concretezza, l'idealismo hegeliano smarrisce la sua fiso-nomia, e si
confonde con l'antico idealismo. 17. - Il Vera nota che l'idea concreta è
una triade: nè prima se stessa, poi il suo contrario, e infine la loro unità»;
dove il 'prima', il 'poi' e l'infine', possono già dar luogo ad equivoci
grossi. « Cosi il vero non è né nel- Tessere, nénel non-essere, né nella
causa, nénell'effetto, nénel tempo, né nello spazio ecc. L'essere e il
non-essere, la causa e l'effetto, il tempo e lo spazio sono elementi essenziali
del vero, ma questo non è se non nella loro identificazione in un terzo
termine: nel divenire, nel movimento ecc. essi attingono la loro completa
realtà. Qui la cosa è diventata chiaris-sima, e le critiche di tre anni prima
contro le prime categorie della logica hegeliana sono cose dimenticate.
Capi l'autore che egli mal si era apposto, cercando come il non-essere possa
uscire dall'essere, ed essere e non-essere, messi insieme, produrre il
divenire? Intende egli ora il processo logico come superamento dell'astrattezza
nella realtà della sintesi? Parrebbe ora la sua interpre-tazione. Ma anche qui
può risorgere il malinteso, assai più pericoloso, perché chi non se n'accorga,
crederà d'essere già dentro l' hegelismo, e non sarà giunto invece né anche a
Platone. Se l'essere e il non-essere sono elementi del vero, e il vero
completo, la realtà è nel dive-nire, unità concreta dei due elementi, il
passaggio del-l'astratto al concreto si può intendere in doppio modo:come
passaggio dello stesso astratto alla propria con- cretezza; ovvero come
passaggio del pensiero che pensa la realtà e che, dopo averla pensata
astrattamente ne' suoi elementi, si sforza di pensarla in concreto nella sua
unità. Nel primo caso si tratta di un passaggio oggettivo, che è in fondo un
passaggio soggettivo; nel secondo, di un semplice passaggio soggettivo, che
importa un oggettivo non-passaggio. Giacché nel primo caso si muove, realizza
od invera l'oggetto, la stessa realtà; che in tanto si muove, realizza od
invera in quanto la stessa realtà è pensiero, Nel secondo invece è il pensiero,
postosi di fronte alla realtà, o foggiatasi una realtà opposta a sé, che si
muove nello sforzo di adeguarsi alla realtà stessa: segno che, se vi si adegua
o quando vi si adegua, non avrà più bisogno di muoversi perché la realtà è
immobile. La strada eraclitea che è la stessa strada nelle opposte
direzioni in su e in giù (ádóc ava váTo pía xai duTi) dà luogo a una
contrarietà e a un movimento appartenenti soltanto al soggetto: ma in sé è una,
immutabile e immobile, come l'essere eleatico. L'idea (dell'essere elea-tico o
del divenire eracliteo) si può concepire in due modi: o come una cogitatio
(modus cogitandi, ipsum intelligere) come profondamente voleva Spinoza, o come
un quid mutum instar picturae in tabula. Anche il fiume eracliteo infatti può
esser dipinto! E allora non scorre, quantunque noi vi scorriamo sopra con la
fantasia. Questo è stato il problema secolare del concetto del divenire, che
non poteva risolversi se non nella filosofia moderna dopo il cogito (ergo sum)
di Cartesio, e quell'idea che è l'ipsum intelligere di Spinoza, e il nuovo
concetto leib-niziano della monade, e la sintesi di Kant, e l'Io di Fichte e
l'Identità di Schelling- Se lo stesso divenire è visto come esterno al
pensiero, si ferma e sta, come pictura in tabula. Il divenire è vero divenire
del reale quando il reale non è di fronte al pensiero che lo pensa (movendosi
lui, o illudendosi di far muovere il reale), ma dentro il pensiero, lo stesso
pensiero che pensando diviene e genera appunto quella realtà che esso è. Qui è
il punto. E la costruzione difficile dell' hegelismo è cosiffatta, che molti
han potuto, prima e dopo il Vera, scambiare l'Idea lo-gica hegeliana con l'Idea
platonica, oggetto del pensiero solo considerando la posizione di essa di
fronte alla na- importante ed essenziale, che si la natura come lo
spirito (fin allo spirito assoluto, e alla stessa filosofia del filosofo
che sta filosofando) sono la realizzazione dell' Idea stessa, e cioe la stessa
Idea nel processo autonomo del suo svolgimento. 18. - Come
l'intende il Vera in questo suo primo saggio di filosofia hegeliana?
Dice: Tout le travail de la pensée consiste à poser un élément de l'idée,
- moment immédiat, — à saisir dans cet élément un élément contraire, — moment
de médiation, analyse — et à trouver un troisième terme qui concilie et unit
les deux pre-miers, - synthèse — puis à dégager de ce troisième terme une
nouvelle détermination qui enveloppe les précédentes, et qui, à son tour,
engendre une détermination opposée, laquelle se trouve conciliée avec la
première dans une troisième, et ainsi de suite, jusqu'à ce qu'on s'élève à une esistence,
à une idée suprême qui efface et absorbe tous les moments, toutes les
contradictions précédentes dans son unité. C'est là la vie et le mouvement
éternels de la pensée, et, partant, la vie et le mouvement éternels de la
réalité ! 1. Il pensiero, di cui qui si narrano le gesta, è il pensiero
in sé, lo stesso reale, o il pensiero che intende il reale, il pensiero del
filosofo che tesse la faticosa tela della lo-gica? Nel primo caso il pensiero
sarebbe la stessa idea;e la maniera in cui il Vera si esprime, facendo del
pensiero l'artefice e dell'idea la materia del suo lavoro, sarebbe per lo meno
molto fantastica e metaforica. Non che queste espressioni siano illegittime; ma
qui dan luogo al ragionevole sospetto che l'autore abbia veramente inteso il rapporto
del pensiero con l'idea in senso dua-listico, in guisa che la conchiusione
(c'est là la vie et le mouvement éternels de la pénsée, et, partant, la vie et
le mouvement étérnels de la réalité) non possa avere altro significato che di
una dommatica inferenza, contraria del tutto allo spirito dello hegelismo.
Giacché quel partant. in astratto, potrebbe avere due significati ben diversi:
o dire che il processo logico è il processo della realtà, perché la realtà è
pensiero (identita); o dire che il processo logico è anche il processo della
realtà, perché la forma della realtà è intelligibile come pensiero, il
pensie-ro si attua nella realtà, e (nella forma più rigorosa di questa
concezione) ordo et connexio verum idem est ac ordo et con-nexio idearum (parallelismo,
e, in fondo, duali-smo). Ma nel nostro caso l'interpretazione dualistica é
confortata dalla più ovvia interpretazione dei periodi prece-denti, dove è
evidente che l'autore non avrebbe mancato di richiamare esplicitamente
l'attenzione sul vero e proprio rapporto del pensiero con l'idea, se egli ne
fosse stato nettamente consapevole.18. - Ed è anche confermata dal modo
in cui il Vera passa ad esporre la triade Idea-Natura-Spirito, L'Idea, egli
dice, è da prima in uno stato « d' indeterminazione e semplice virtualità»,
quando è idea logica, e contiene le determinazioni più generali degli esseri.
Giunta al limite estremo della sua evoluzione logica, l'Idea e esce da questa
esistenza formale e indeterminata, e si dà per sua virtù propria, e come spinta
da una necessità interna, una esistenza oggettiva e determinata nella natura
n. L'Idea infatti genera la Natura; ma in questa non esiste nella sua
forma logica, generale ed assoluta, nella purezza perfetta delle sue
determinazioni: diviene esterna a se stessa, si spezza in prodotti particolari
esposti alla contingenza e al caso. Questa contraddizione è superata in una
terza forma dell'esistenza, superiore alle due prime e che le involge nella sua
unità: lo Spirito, il pensiero, dove l'idea concreta e determinata, risolleva
la natura all'unità ed universalità ed acquista coscienza di sé nella libertà.
- Orbene: il processo nello stesso Hegel è tutt'altro che facile; e lo vedremo
a suo tempo; ma ha un carattere determinato, che a chi sia penetrato, secondo le
osservazioni già fatte, nello spirito dello hegelismo, non può sfuggire.
Dev'essere tutto un processo logico: una via che il pensiero pensando deve
necessariamente percorrere. Ora il Vera non si mette per questa via. Egli è
appunto come lo spettatore della pictura in tabula: vede uscire dall'Idea la
Natura, o l'Idea generare o farsi la Natura, e non sa né può sapere per quale
interna necessità: non si prova nemmeno a fare (egli che è pen-siero, quella
stessa idea) quel medesimo che vede fare all'idea: non si prova a pensarlo. E
come potrebbe pen-sarlo, dopo aver definito il logo una semplice vir-tualità?
Posta l'assolutezza del logo, se s'intende la virtualità al modo di Leibniz
(ossia nel modo più fa-vorevole), donde la ragion sufficiente ?I9. — Ma il senso
di questa virtualità della idea logica ci può essere svelato da scritti
posteriori del Vera, il quale, sia detto qui subito, rimase fermo a questo
con-cetto. Apriamo l'Introduction à la philosophie de Hégel (1855), che è
il suo lavoro più organico su Hegel, ed ebbe molta fortuna in Francia e in
Italia come autorevole esposizione della filosofia hegeliana: che i più si
contentarono di non conoscere altrimenti 1. In questo libro si legge che nella
sfera della logica, Dio è la possibilità e la forma assoluta; è l'essere
anteriore a ogni cosa creata, e che contiene perciò stesso, virtualmente, tutte
le cose » 3: dove possibilità non significa altro che pensabilità, Infatti
l'autore è stato trascinato innanzi a svelare e confessare quel suo segreto
concetto della logica, come non la storia eterna, la gesta eterna, dell'idea,
ma come la semplice scienza dell'idea, poiché intanto era germogliato il seme
da noi sospettato nel saggio del 1848. Qual è, ora egli si chiede, l'oggetto
della logica? La logica è « la scienza delle forme universali e assolute del
pensiero e dell'esi-stenza»: forme, bensi, che non sono semplici forme, perché
queste forme si compenetrano col con- tenuto, sono le forme del
contenuto, che è l'idea stessa nella serie delle sue determinazioni. Come tale,
la logica è il fondamento di tutte le scienze. La Nature et 1 Esprit
costituent, il est vrai, des états, des sphères plus concrétes et plus réelles
de l'Idée, et, a cet égard la Logique peut être considérée comme une science
formelleou comme la science de la méthode, mais comme la science de la forme et
de la méthode absolues, comme le type, le modèle intérieur, sur lequel la
Nature et l'Esprit doivent se développer et s'organiser, comme la forme, en un
mot, sous laquelle l'être et la vérité existent 5. Dove si può bensi
distinguere tra logica e idea, di cui la prima è la scienza; ma è chiaro che
quel che il Vera dice tipo e modello della natura e dello spirito è appunto la
logica e non l'idea. Non già che egli finisca nel concetto della categoria
kantianamente intesa come condizione soggettiva della costituzione
dell'esperienza, e però della natura fenomenica, quale si trova nella nostra
esperienza. Il Vera rimane molto più indietro di Kant. Oscillando tra la
sua ingenua interpretazione soggetti-vistica e la lettera degli scritti di
Hegel, dove l'Idea é lo stesso assoluto, egli, se da una parte non sa concepire
la logica se non come una elaborazione scientifica della mente contemplatrice
della verità e della mente che pensa di fatto questa verità per le idee
dell'essere, della qualità, della quantità, della causa ecc., dall'altra non
riesce a conferire altrimenti valore oggettivo a siffatte
condizioni della pensabilità del reale se non ipostatiz-zandole platonicamente
come tipo e modello della natura e dello spirito: ai quali l'Idea fornisce -
egli dice esplicito - una parte del loro contenuto: (e chi darà il resto ?). Su
questo punto il Vera si spiega chiaramente, notando che si potrebbe dire la
Logica, cosi concepita, la scienza delle possibilità assolute, non nel senso
che le idee logiche siano possibilitàe non realtà, ma in questo senso che
niente non e possibile né può esser pensato se non per queste idee .1. E
ricorda Kant, che aveva riconosciuto le idee logiche come « condizione
necessaria di ogni esistenza e verità »; ma le aveva concepite come condizioni
negative, indotto in errore dal termine stesso di condizione; laddove 1'
idea ¿ condizione come elemento integrante e costitutivo
delle cose. La possibilità insomma, di cui parla V., ¿ possibilità
rispetto alla natura e allo spirito: in sé e reale e principio di realtà. La
possibilità, egli dice in fine, non può toccare i principii; perché i principii
o sono o non sono. Possibile è questo individuo, questo triangolo, ma non l'essenza
dell' individuo e del triangolo. I concetti universali, realizzati; ecco la
logica di Hegel, per V.: che e per l'appunto, sostanzialmente, il mondo ideale
di Platone, con la sua impossibilità di risolversi nel mondo
dell'esperienza :. Ma nel saggio hegeliano del 1848 la conchiusione è che
« la logica, la natura e lo spirito formano una triade indivisibile; sono tre
termini consustanziali di cui l'idea è il fondo comune, ed è l'azione reciproca
e la fusione eterna di queste tre sostanze che fanno l'unità e la vita del
mondo«3. Dove quel che si vede è la tri-plicità delle sostanze, e quel che si
dice di vedere l'unità dell' idea. Insomma, abbiamo fin qui un
hegeliano che vuol esser tale, perché ha studiato Hegel e ha creduto
d'intravve-dere il vasto mondo della sua filosofia, assai più sícuro rifugio
dallo scetticismo del Problème de la certitude, chenon fosse quella ragnatela
di teismo intuizionistico in cui dapprima gli parve di poter riparare. Ma il
segreto di quella filosofia rimane ancora per lui un segreto; e il suo spirito
continua a gravitare verso la trascendenza platonica. 20. - Nel terzo
articolo Un mot sur la philosophie el la Revolation française, il Vera,
prendendo le mosse dal giudizio dato da Hegel nella Filosofia della Storia
sulla Rivoluzione, come opera del pensiero, ritorna sul tema del primo scritto,
sulla libertà di coscienza che lo Stato deve garentire ispirandosi alla
filosofia. Ma veniamo all'ultimo La souveraineté du peuple, che, come il Vera
ci fa sapere, la direzione della Liberté de penser, all'in-domani della
rivoluzione di febbraio, non credette op-portuno pubblicare perché « il aurait
trop heurté les opinions du moment». Vi era infatti combattuta la sovranità del
popolo e il suffragio universale, sostenendo che la vera autorità è l'autorità
della ragione; che la ragione non raggiunge lo stesso grado di forza, di
chiarezza in tutte le intelligenze, qui restando latente e oscura, li
ma-nifestandosi in una maniera incompleta, e in pochi rag- giungendo il
maggiore sviluppo; e che pertanto l'autorità spetta alla minoranza. E guardando
questo lato solo della verità che egli vedeva, difende la sua tesi con quel
calore d'entusiasmo, che fu con la facilità della forma una delle cause più
efficaci della riputazione conquista-tasi dallo scrittore: Si toute
vérité a son origine dans l'esprit, elle est d'abord à l'état théorique et
idéal avant de revêtir une forme matérielle et de passer dans les faits. Dans
cet état, elle se trouve en face de la réalité matérielle, il faut qu'elle
lutte contre des intéréts et des croyances séculaires, contre des habitudes
invétérées; contre les préjugés et l'ignorance. C'est cette vue antérieure et
prophétique de la vérité, c'est ce combat pour le triomphe d'une idée, qui
constitue l'héroisme et le génie. Or les massesne sauraient s'élever à la
conception de l'idéal; car l'idéal ne se révéle qu'à la contemplation solitaire
et réfléchie, il demande une culture speciale, une organisation d'élite, et
cette inspira- tion, qui a sa source dans les profondeurs cachées
de l'ame, et qui ne s'éveille que sous l'action paisible et soutenue de l'intelligence
et de la volonté. Les masses sont comme emprisonnées dans la réalité visible,
et par le gente de leurs travaux, par leurs goûts, leurs habitudes, et par la
nécessité où elles sont de pour-voir a leurs besoins matériels, elle ne peuvent
franchir les limites du fait et de l'ordre actuel des choses, ni discerner le
vrai et le faux, le possibile et l'impossibile 1. Il vero uomo di Stato
non si confonde infatti col po-polo, non se ne fa strumento - che sarebbe
interdirsi ogni azione durevole e salutare su di esso; non abdica alla propria
individualità, ma la fa servire al bene del paese. Ebbene, se la luce nella
società e perciò l'autorità, non sale ma scende dall'alto, al sommo della vita
sociale ci sono tre sfere d'attività che riassumono e dominano tutte le altre:
la politica la religione e la filosofia. In quale di esse risiederà l'autorità
suprema? Nell'uomo politico, nel prete, o nel filosofo? Il Vera rinvia la
ricerca a un altro studio; ma la risposta è implicita nel suo scritto e nel
primo di questi articoli: il potere cioè spetta all'uomo politico, che prende
voce e norma dal filosofo. - Con tutto l' hegelismo del Vera, siamo ancora,
almeno fino a questo punto, al concetto della repubblica di Platone! 21.
- L' hegelismo tuttavia, a poco per volta, divenne un credo fermissimo pel
Vera; e la storia della filosofia fini con l'esser messa da parte. Non abbiamo
certo Coup d'oeil sur l'Idéalismes, che dovette esser pubblicato prima che il
Vera passasse in Inghilterra. E di anterioreall'Introduction à la philosophie de
Hégel non ci resta che l'opuscolo inglese del 18554, scritto in proposito
di una Teorica dell' infinito del filosofo scozzese Calder-wood
(contro Hamilton) e delle Istituzioni di metafisica del Ferrier: libri che
parvero notevoli al Vera perché questi autori si sollevavano al di
sopra del solito empi- rismo inglese e della filosofia del senso comune.
Il giudizio del Ferrier su Hegel (che a guisa di gigantesco serpente boa
avrebbe stretto nelle spire delle sue dottrine impenetrabili come diamante tutti
gli errori correnti) dava qui occasione al Vera di dichiarare che « ci ha
nella filosofia dell' Hegel una certa natural direzione, certi tratti cosi
determinati e certe principali conseguenze che non possono sfuggire a chiunque
vi si sia accostato, e che formeranno d'oggi innanzi il criterio e la norma
direttiva di ogni ricerca filosofica; e di accennare quindi questi punti
fondamentali della filosofia hegeliana. In questi punti, evidentemente, si
condensa l' hegelismo del Vera. In primo luogo: la filosofia è la
scienza dell'assoluto: postulato indimostrabile, perché ogni dimostrazione 1o
presuppone, non essendovi intendere che non sia intendimento dell'assoluto.
Quindi l'assurdità di tutte le dottrine che cominciano dal negare o mettere in
dubbio il valore della conoscenza. In secondo luogo: chi dice scienza
dell'assoluto, dice scienza delle idee, perché tutto si conosce per mezzo delle
idee», né possiamo conoscer nulla di là dai limiti del mondo delle idee: onde,
se diciamo che l'anima non è un'idea, ma una forza, una causa, una sostanza,
che è semplice, immateriale ecc., anche allora, senza riflettervi « noi usiamo
delle idee, e descriviamo l'oggetto come unaggregato di quelli stessi elementi
che abbiamo respinti sotto un'altra forma ». In terzo luogo: il metodo
filosofico è il metodo proprio della conoscenza dell'assoluto, o delle idee:
metodo as-soluto, non essendo altro che la forma dello stesso as-soluto, o la
forma in cui le cose esistono e sono cono-sciute: ossia il sistema, nel suo ordinamento
dialettico. In quarto luogo: il sistema importa l'unità e la
molte-plicità, elementi identici e contradittori. Il metodo assoluto o
speculativo si distingue appunto per questa sua conciliazione dei contrari,
onde gli elementi discordi si compongono in armonia. Con questi concetti
Hegel ha dato corpo a uno de' più comprensivi e profondi sistemi che mai
vennero fuori della mente umana, il quale abbraccia tutte le parti del sapere,
la logica, la filosofia dello spirito, la filosofia della natura, la politica,
la filosofia dell'istoria, l'estetica, la religione. Anzi, strettamente
parlando, si può dire che nell'istoria della scienza il suo sia il primo e vero
sistema, imperocché né Platone, né Ari-stotele, né alcun moderno filosofo hanno
avuto un cosi vasto concetto della scienza, e così abbracciato e legato insieme
i diversi anelli dell'aurea catena a cui l'universo è sospeso. E uno de' tratti
principali di questo maraviglioso filosofo si è che le sue più alte
speculazioni hanno un carattere tutto istorico, e un risultamento positivo e
una pratica applicazione. Cosi potente e cosi comprensiva era la sua mente,
cosi profondo lo sguardo che egli getta nella natura delle cose 1, E il
primo inno cantato dal Vera al suo autore, che tornerà a dire nella sua prolusione
napoletana (16 dicembre 1861): « quella mente prodigiosa e sovrana, che i
nostri tempi hanno prodotta, e che, non esito a procla-marlo, per la
profondità, per la vastità delle cognizioni, e anzitutto per la mente
speculativa e sistematizzatrice tutte le altre ha vinte, ma le ha vinte in sé
riepilogandolee concentrandole»*; e altrove: « le plus grand génie dont
s'honore l'humanité»=; colui nella cui filosofia e' è tutto, e c'è « comme il
doit y être, par là qu' il y est dans SON existence systématique»3; e la
cui Enciclopedia si compiacerà di considerare come una nuova
Bibbia, « la Bibbia dell' hegelismo • 4, Ed è altresì la prima volta che egli
enuncia come titolo singolarissimo della filosofia hegeliana questa sua
prerogativa, che poi non si stancherà mai di esibire: la sua sistematicità,
parendogli pregio altissimo questo di Hegel di aver trattato ex projesso tutte
le parti del sistema della sua filosofia, ed esteso il suo sguardo a tutti i
rami del sapere, legandoli fortemente tra loro e creando un vero sistemas: non
considerando che non c'è filosofia, né pensiero mai, che non abbia la sua
perfetta sistematicità; e che il sistema non consiste nella configurazione
esteriore delle parti (al qual patto Wolff è più sistematico assai di Leibniz,
e ogni pedante espositore dell'autore esposto), sibbene nella universalità del
principio e nella profondità dell'intuizione originaria. Egli superficialmente
si contentava della forma estrinseca e non cercava più in là, lasciandosi
sfuggire i titoli più autentici del genio di Hegel.22. -— Ma, tornando ai
quattro punti essenziali che gli pareva di scorgere, quando già meditava la sua
Intro-duzione, nella filosofia hegeliana, non occortono commenti ad assodare
che il suo hegelismo era tuttavia un hegelismo abbastanza platonico; e
platonico di quel platonismo della decadenza della filosofia greca, in cui,
sorto già lo scetticismo contro la primitiva posizione platonica, la fede nelle
idee era ristaurata con nuova e peggior forma di dommatismo. Che sono infatti
quelle idee, in cui si risolvono tutte le categorie della realtà, così come il
Vera ce le presenta, se non le stesse idee vuote della vecchia metafisica
wolfiana, riduzione ideale evanescente del mondo, onde tutto si pensa senza
nulla fare? quella specie d'oro di Mida, in cui si converte tutto il mondo del
povero re, esposto alla dura sorte di morirsi di fame e di sete ? Questa
concezione rimase fitta nella mente del Vera. Il quale, nella sua
prolusione di Milano Amore e filosofia (11 novembre 186t), uno degli scritti,
di cui più egli si compiacque!, ripetendo il ritornello che la filosofia è la
scienza dell'assoluto, che l'assoluto è l'idea, in cui si concentrano e
unificano la molteplicità e le diffe-renze, sostenne che perciò « la filosofia
e la scienza delle scienze e, rigorosamente parlando, la sola scienza, e che
tutte le scienze e tutte le filosofie, che lo vogliano o non lo vogliano, che
lo sappiano o l'ignorino, sono parti di una sola scienza e di una sola
filosofia»: o, come dirà altrove :, tutti gli uomini sono hegeliani senza
saperlo. Poiché pensare e intendere è pensare e intendere idee, e non e' è
altra filosofia o scienza che l'idealismo assoluto 3. Sicché il materialista,
che non pensa « la materia, la forza, la na-tura senza le idee di forza, di materia
e di natura», è anche lui a suo marcio dispetto dentro l'idealismo, e non se
n'accorge. E come il materialista, lo scienziato, il fisico e il matematico
sono idealisti senza saperlo; perché tutti maneggiano le idee; e non potrebbero
fare altrimenti. E nella già citata prolusione della fine dello stesso anno
ripeté le stesse cose ponendo in forma più ingenua l' inconsapevole dualismo e
il conseguente dom-matismo in cui egli restava sempre impigliato. « Nella
stessa guisa che non si può pensare il triangolo, o il bene, o la giustizia, o
la luce, o il tempo, o lo spazio, o un altro ente qualsiasi senza l'idea che ad
essi corrisponde, così non si può pensar l'assoluto senza l'idea dell'assoluto
» 1. Non si potrebbe più chiaramente confessare che questo assoluto, il
quale deve generare non solo l'essere ma la cognizione dell'essere, non si sa
d'altra parte concepire se non come l'obbietto della mente, in sé, perciò,
estraneo alla mentalità, e l'idea della mente come altro dall'assoluto a cui
deve corrispondere. E come corrispondere ? 23. - Il Vera non ebbe mai un
orientamento storico degno di una filosofia come la hegeliana, che concepisce
tutte le filosofie precedenti come suoi momenti. Chiusosi nello hegelismo, ei
fu subito tratto instintivamente dal suo cattivo genio a tagliare i ponti con
tutti gli altri sistemi e principii filosofici, di cui avrebbe invece dovuto
cercare i rispettivi gradi di verità. Nelle Ricerche sulla scienza speculativa
e sperimentale, combattendo l'empi-rismo inglese, si rifà dalla dottrina
baconiana dell'indu-zione, e giudica a questo proposito Bacone. E lo giudica
cercando se nel Novum Organum ci sia un principio nuovo. L'induzione? Ma
negli Analitici di Aristotele la natura di questo metodo, le sue leggi, i suoi
limiti, le sue rela-zioni con la conoscenza oggettiva Sono State
descritte con quella maniera concisa ma sostanziale che è propria del
filosofo greco. Né Bacone vi ha fatto alcuna giunta essenziale. Peggio: Bacone
non aveva un concetto esatto della natura della scienza e delle sue esigenze, e
però né anche della stessa induzione, come è dimostrato dalla sua pretesa che
la scienza non si possa ottenere se non induttivamente. Bacone, troppo poco
versato nella flo-soha greca, non vide che le sue novità erano vecchie: i suoi
contemporanei « non meglio istruiti di lui sulle fonti originali e sul vero
valore delle teoriche aristoteliche, accettarono leggermente le sue opinioni.,
Insomma, tutta la fama di Bacone è una fama scroccata, fondata su errori di
fatto, cui basterebbe a correggere il solo voltare la pagina di un
libro». E con questi profondi criteri storici scrisse in inglese nel 57
uno studio su Bacone, in certo giornale, Emporio italiano, che egli stesso
dirigeva:: dove le stesse considerazioni delle Ricerche sono svolte e
confortate dall'analisi di alcune dottrine baconiane per conchiudere
egualmente, che si può cancellare dalla storia del pensiero speculativo un così
importante momento qual è, per chi l'intenda, questa prima affermazione,
nell'età moderna, della storicità del sapere o del momento della
certezza. Il saggio finisce con una sentenza che potrebbe esser profonda,
ma è piuttosto superficiale: « La scienza, anziché essere la esatta
riproduzione e la copia fedele del-l'esperienza, dev'esser in certo senso
l'opposto dell'espe-rienza; e quindi voler fondare la scienza sulla esperienza
è andare a ritroso della scienza stessa ». Frase che, ristampando il saggio nel
1883, l'autore stesso senti il bisogno di commentare con autocorrection.cancel
lunga nota, poiché gli si affac-ciò il sospetto che una volta che c'è il mondo
dell'esperienza e dell'induzione, il mondo fenomenale debb'avere anch'esso la
sua ragion d'essere e contenere la verità; sicché esagera negando alla
cognizione empirica ogni ragione ed ogni verità». E si scusava adducendo che il
suo scritto aveva carattere popolare, e che egli vi s'era proposto di mettere
sopra tutto in rilievo il lato vulnerabile del-l'empirismo, e che infine la
verità della cognizione empirica è una « verità subordinata, una verità, cioè,
che non rinchiude in se stessa la ragione del suo essere, e suppone quindi una
più alta verità; e che perciò quando l'empirismo pretende di essere il solo e
vero organo della verità, «esso sconvolge l'ordine delle cose e nel fatto nega
ogni verità e cognizione. Scuse troppo magre, perché queste ragioni potevano
limitare, non negare il valore di Bacone. 24. - E in realtà quale sia la
verità dell'empirismo né allora né poi il Vera volle mai dire 1. Nelle
Ricerche, postosi sullo stesso terreno dell'empirista, l'esperienza la
concepisce, per rigettarla, allo stesso modo di chi ne fa l'unica fonte della
conoscenza quasi sbocco nel pensiero, di una realtà esterna. E contro Locke
sostiene che tutte le idee sono innate, perché non c'è sensazione che possa essere
avvertita, e cioè pensata, come una sensazionesenza un idea corrispondente; che
il non esserne mai consapevoli non prova, come credette il Locke, che non
esistano, come non si può dire « che non vi siano leggi che regolano le
operazioni organiche del corpo perché da prima camminiamo, mangiamo,
digeriamo senza es-serne consci, ed ignorandole». L'empirista, intento ad
osservare e raccoglier fatti, non s'accorge di adoperare una quantità di
principii, che pur « debbono preesistere nella sua mente, e dee la sua mente
concepirli, ancorché oscuramente e sotto un' incerta e confusa luce.. - Dove
parrebbe di scorgere una prova che ancora il Vera non si fosse dato la pena di
studiare la Critica della ragion pura, né i Nuovi Saggi sull' intelletto umano.
Di Leibniz si occupò nel 186r nella sua polemica col Saisset e col Janet
‹, poiché il primo di questi, parlando insieme di Leibniz e di Hegel,
aveva accennato a met-tere il filosofo della Teodicea al di sopra di quello
della Fenomenologia: e il nome del Leibniz, grazie all' interesse per gli studi
storici suscitato e nudrito dall' impulso del Cousin, era salito in auge in
Francia, e Foucher de Careil aveva dato i due volumi del carteggio di Leibniz
con Bossuet, e l'Accademia aveva messo a concorso un tema sulla filosofia
leibniziana, ottenendo due lavori degni del premio, uno dello stesso Foucher de
Careil e l'altro del Nourrisson. Il Vera, che gia insegnava storia della
filosofia, e si professava hegeliano, dice a questo pro-posito in tono tra
l'ironico e lo stizzito: J'ai moi aussi le culte des morts, qui est une
religion, on l'a dit, je crois, et qui, comme toute religion, est utile aux
vivants. Aussi l'Acadentie mettrait-elle au concours la vie et les gestes
de Confucius, ou de Menou qu'il faudrait lui en savoir gré. A plus forte
raison, faut-il lui en savoir, lorsqu'elle fait de son mieux pour entourer
d'une nouvelle auréole un nom comme celui deLeibriz. Jusque là c'est très-bien.
Mais ce qui est moins bien, ce que du moins je ne puis approuver, et ce qui
pourrait même au besoin m'indigner et me révolter, c'est qu'on fasse du bruit
autour d'un mort pour étouffer la voix des vivants, c'est qu'on veuille donner
à une ombre des proportions gigantesques pour couvrir et effacer un véritable
géant. E alzando sempre più il tono: Voilà ce que je ne veux point,
et ce que je combattrai de toutes mes forces, eusse-je devant moi l'ombre de
Platon ou d'Aristote. Et, en combattant ainsi, je croirai combattre, non
sculement pour la vérité et la justice, mais pour la dignité de mon siècle, et
de la nature humaine. E pare credesse sul serio che si « esumasse »
Leibniz, e si « facesse chiasso» intorno a questo nome per dirci che l'epoca
dei giganti è passata e siamo a quella dei pigmei; sicché oggi « per colpire
Hegel» ci serviamo di Leibniz; domani si potrà esumare Plotino,
Giamblico, per mostrare, come diceva il Saisset, che la dottrina di Hegel è
quella del vecchio panteismo: et nous reculerons ainsi, s'il le faut, jusqu'au
paradis terrestre1 Onde ridu-ceva la questione a questi termini: Ainsi
donc, vous nous dites, Leibniz est un grand personnage, et Hégel n'est pas un
grand personnage, car c'est là, au fond, la pensée qui domine dans l'écrit de
M. Saisset. À cela je repon-drai sans hésiter, si
Leibniz est grand, Hégel est plus grand encore. passi.
Ma il Vera, per rendere, com'egli dice, più preciso e più sensibile il proprio
pensiero, aggiunge che «se Leibniz non fosse esistito, la catena della scienza
non sarebbe punto spezzata, perché noi avremmo Newton a prendere il posto
lasciato da Leibniz», che è un gran matematico, ma un mediocre filosofo e un
diplomatico: diplomatico non solo nelle controversie religiose, ma nella stessa
filosofia. « La sua filosofia è la filosofia degli espe-dienti, delle parole e
delle apparenze. Quando non intende la cosa, mette una parola al suo posto;
quando una difficoltà lo stringe, non vi si sottrae attaccandola sinceramente e
di fronte, ma per l'uscio di dietro ». E della sua critica concreta basti
un esempio. Che è la monade di Leibniz? Questi parte dal principio che ogni
essere o ogni sostanza composta, in quanto tale, deve risolversi negli elementi
componenti semplici e indivi-sibili; che sono appunto le monadi. - Ora che
metodo è questo? Decomporre un tutto nelle sue parti: il metodo che aveva
prodotto l'atomismo: metodo volgare, arbi-trario, che non si preoccupa niente
niente di giustificarsi. Perché si decompone? a qual fine? che si cerca?
Nessuna risposta. E si può decomporre un tutto? Ma se certi elementi sono uniti
in un tutto, il loro essere dipende anche dalla loro unione, e separarli è
distruggerli. Donde poi le escogitazioni puramente verbali dell'armonia
prestabilita e delle fulgurazioni della monade delle mo-nadi, necessarie per
ricostruire alla meglio quell'unità malamente infranta. - Critica, che è vera
certamente ed hegeliana: ma ha il gravissimo difetto (e difetto tutt'altro che
hegeliano!) di essere soltanto negativa, e non saper vedere il pregio
grandissimo della monade leibni-ziana, come la prima concezione, nella storia
del pensiero umano, dell'autonomia assoluta dello spirito. Né più
penetrazione e simpatia storica ebbe per l'altro grande filosofo prussiano, E.
Kant, malgrado la sua capitale importanza nella genesi dell' hegelismo.
Ogni volta che ne scrisse 1, ne disconobbe affatto il va-lore, guardando solo
al lato negativo della filosofia critica,e sconvolgendo co' suoi giudizi
tutta la storia che la pre- para. Non può intendere Kant, chi non intenda
Cartesio. E che è Cartesio pel Vera? Uno scettico, da dar dei punti a
Carneade. E vero che la dottrina della versimiglianza è per l'accademico il
risultato della scienza; e il dubbio è, invece, per Cartesio un punto di
partenza e il mezzo di purificare la mente che deve accingersi alla ricerca
della verità. « Tuttavia, questa differenza fra le sue dottrine è più apparente
che reale. Imperocché ogni qual volta si fa del dubbio una condizione o un
elemento essenziale della cognizione, ch'egli si mostri al punto
d'arrivo... o al punto di partenza.... il risultato è lo stesso: si
colpi-sce, cioè, la scienza nella sua essenza, che è l'affermazione, e la si
rende impossibile »1. E non riesce a scorgere mai né la ragione metodica del
dubbio cartesiano, dimostrazione di quel carattere essenziale della conoscenza,
che è la certezza, o presenza del soggetto nella verità; né della necessità di
quel dubbio, per giungere all'affermazione tutta cartesiana del cogito; né il
significato di questo cogito 326. - Scettico Cartesio, due volte scettico
Kant. Contro il quale il Vera non si stancò mai di ripetere la critica
hegeliana (che in Hegel ha un valore affatto in-cidentale) della assurdità di
una ricerca sul valore della cognizione come necessario preliminare all'uso
della cognizione stessa. Critica, sulla quale non giova insistere troppo contro
Kant, che dal bisogno di una preliminare teorica della conoscenza non parte per
giungere allo scet-ticismo, ma alla giustificazione di una sua positiva
filo-sofia; essendo questa la natura propria di ogni filosofia, ossia della
filosofia, di essere un circolo, in cui non si può muovere da un punto senza volgere
le spalle a tutto il resto del cerchio che si ha da percorrere. Ma, a parte
questo punto, che non fu chiaro nemmeno a Hegel, del Vera è tutta la scoperta
(in un suo articolo del '60) che uno dei risultati» dell'analisi kantiana
dell'intelligenza « fu, com' è noto, la discoperta di un doppio elemento in
ogni atto o operazione del pensiero, di un elemento estrinseco, cioè
contingente e variabile, il feno-meno, e d'un elemento intrinseco, necessario e
inva-riabile, il noumeno: il quale venne da Kant suddiviso in categorie e
idee:!. Confusione tra noumeno e categorie o idee (ossia di ciò che vi ha di
più opposto per Kant), che non impedisce al Vera di identificare poi il noumeno
con la cosa in sé, mediante l'equazione del noumeno con « Dio, l'idea, l'assoluto».
Onde la sua critica di Kant culmina in quest'accusa, che in realtà, la
sensazione costituisce il criterio della filosofia critica, e tutti i suoi
ragionamenti vertono intorno a questo principio: l'assoluto, il noumeno, la
cosa in sé (Ding an sich), come Kant la chiama, non possono esser conosciuti ed
affermati, perché non possono essere sentiti e imaginati ». Così non v'ha
dubbio che Kant stesso (quellosopra tutto dalla seconda edizione della Critica)
si sarebbe visto camuffato da scettico! Il Vera dovette più tardi, io
credo, leggere l'opera maggiore di Kant, e della sua dottrina tornò a
discorrere un po' distesamente all'Accademia delle scienze morali e politiche
di Napoli nel 1882. Dopo la solita accusa di scetticismo larvato, prese ad esporte
umoristicamente la teoria kantiana dell'esperienza, accennando la
decomposizione dell'atto dell' intendimento in forma a priori e contenuto a
posteriori, o categoria e dato sensibile. Due elementi, che non sono separati,
ma uniti indivisibil-mente. Come, adunque, S'incontrano e si uniscono?
Nulla di più semplice. Quando il mondo esterno, la natura, viene col concorso
della sensibilità a bussare alla porta della intelligenza, questa sorge dal suo
letargo, trae fuori dal suo arsenale le categorie, e risponde alla chiamata
battezzando e imponendo un nome al-l'obbietto, e impartendo con ciò a se stessa
una esistenza e una realtà obbiettiva. Quindi l'esperienza è un battesimo in
cui il neonato, l'obbietto esterno, riceve un nome, una forma razionale che lo
trasforma in un qualché d' intelligibile 1. E dopo questa caricatura,
eccolo a far la voce seria e a rimproverare Kant di aver diviso i due elementi
del-l'esperienza: chiudendo gli occhi, malgrado i magistrali lavori dello
Spaventa, che c'erano stati in Italia, e malgrado le profonde interpretazioni
di Schultze e di Beck prima, e poi di Fichte (che il Vera non avrebbe dovuto
ignorare), su tutta l'attività creatrice dello spirito, che plasma e governa
l'esperienza di Kant. Qui, se non confonde più categorie e noumeni,
continua a ritenere sinonimi nel linguaggio kantiano noumeni, cosa in sé e
idee, e la ragione chiama • facoltà dei nou- meni, cioè delle idee
propriamente detten e dalla semi-passività delle categorie, la cui funzione è
subordinata al concorso dell'oggetto esterno, argomenta: Se gli elementi,
o principii che costituiscono l'esperienza, sono limitati, subordinati e
passivi, ne siegue ch'essi presuppongono un principio attivo che li domina, che
è il loro comune prin-cipio, la loro unità, e di cui sono le differenze, i
momenti. La cosa in sé, il noumeno, l'idea di Kant altro non può essere che
siffatto principio. Il noumeno è principio del fenomeno, vale a dire della
categoria e dell'obbietto sensibile, come anche del loro rapporto, della loro unione,
cioé, nell'atto sperimentale, nel fe- nomeno. E cosi, per intendere
la sintesi a priori guarda all'estremo opposto di quello, a cui la storia della
filosofia già, continuando Kant, aveva guardato. Eppure, nell'
Introduction à la philosophie de Hégel il Vera riconobbe che accanto ai
risultati negativi della critica, vi son pure in quella filosofia « des germes
si fé-conds, des vues si larges et si riches, et une intuition si profonde de
la science, qu'elle était destinée à susciter un grand et nouveau monvement» t.
Ma li dall' indirizzo stesso della sua ricerca, in cui si proponeva di sbozzare
in qualche modo il risorgimento dell'idealismo fino al suo culminare in Hegel,
era stimolato a cercare in Kant l'addentellato della filosotia posteriore. Ma
anche li, quali sono pel Vera i meriti di Kant? Tutto si riduce a questo: che
Kant, pel primo nei tempi moderni, ha ricondotto l'idealismo sul terreno
dell'ontologia, provocando cosi, dopo Platone, una nuova ricerca sulla natura
delle idee. Infatti, « movendo dal principio che ogni conoscenza si fonda
su una forma primitiva del pensiero, fu condotto a seguire il pensiero in tutte
le sue applicazioni e in tutte le sfere della sua attività, e a fissare per
ciascuna d'esse l'elemento essenziale che la regge e determina. Dondenumerose
ricerche concernenti la cerchia intera delle cognizioni, la metafisica, la
morale, la natura, la religione, il diritto, l'arte, . dove Kant si sforza
sempre di cogliere le leggi invariabili e assolute dell'intelligenza ». Sicché
il pregio dell'idealismo kantiano consisterebbe nell'esempio dato di una
indagine universale governata da unità di principii: l'unità della scienza e
del metodo: « voilà le côté posilij el vraiment fécond de la philosophie de
Kant, et c'est par ce côté qu'elle se rattache au monvement ulté-rieur de la
philosophie allemande». Concetto che non gli potrebbe servire a una qualunque
ricostruzione di questa filosofia; se egli (messo, forse, sulla strada dalla
fonte di cui si doveva servire) non passasse poi a determinarlo altrimenti,
facendo consistere l'unità di principio, portata da Kant in tutta la scienza,
nell'idea considerata come condizione assoluta della conoscenza, e il processo
speculativo da Kant ad Hegel nel passaggio dell'idea stessa da condizione della
conoscenza a principio assoluto delle cose. Quel che segue infatti, dove passa
a mostrare che i germi di questa trasformazione erano già in Kant, non può
essere pensiero del Vera, il quale non se ne ricordo mai, in séguito, nei suoi
giudizi sul criticismo. Il passaggio da Kant a Hegel era per lui oscuro, e chi
sa donde è attinta questa giustissima osservazione, dove per altro talune
espressioni incerte e poco esatte tradiscono una conoscenza indiretta: che «
nella filosofia kantiana, quantunque essa faccia una larga parte
all'esperienza, considerata come condizione all'esercizio dell'intelletto e il
solo mezzo di verificare il valore oggettivo delle sue leggi, il pensiero
conserva la sua superiorità sull'esperienza, e, anzi che ricevere da essa le
sue leggi, gliele impone in guisa che esso foggia (jaçonne] e si assimila i
fenomeni, i quali non possono giungere a lui se non attraverso le sue forme e
le sue leggi»; e quest'altra idea, più profonda, che «l'atto trascendente e
sintetico della coscienza, iopenso, vi è presentato come la condizione
essenziale e, per dir cosi, il substratam di ogni conoscenza, e costituente
l'unità della coscienza e di tutti i suoi elementi, delle sue appercezioni
interne o esterne, delle categorie e delle idee come dei materiali forniti dall'esperienza.
Anche il passaggio da Kant a Fichte (il Vera pare non sappia nulla dei minori
kantiani che spianano la via a Fichte) è bene rappresentato, almeno in
appa-renza: osservandosi che le leggi del pensiero non sono poi elementi vuoti
e inerti, ma potenze, forze che producono i fenomeni; e che il loro centro è in
quell'unità profonda dell'Io («la cui forma più elevata è l'atto sintetico del
pensiero i); e però dall'Io scaturisce ogni attività dell'intelletto, e quindi
questo mondo esterno e oggettivo, su cui l'intelletto si esercita. Donde
Fichte, che pone nell'Io l'unità delle cose. Ma le poche pagine dedicate al
pensiero di Fichte sono seguite da critiche, che dimostrano la scarsa
familiarità del Vera con quel pensiero in relazione ai principii più profondi
della Cri-tica, e la sua incapacità di apprezzare storicamente questi punti
capitali della preparazione allo hegelismo. Tutto il progresso di Fichte
è raccolto in queste tre osservazioni, superficiali o del tutto erronee: 1) che
Fichte ristabili l'unità della intelligenza, che Kant aveva spezzata con la sua
divisione della ragione, in pratica e spe-culativa; 2) dedusse con metodo
rigoroso l'una dall'altra le varie parti della conoscenza, facendo così sentire
sempre di più il bisogno e mostrando insieme la possibilità di organizzare la
scienza secondo i rapporti interni delle sue parti; 3) facendo dell'Io il
principio del pensiero e dell'essere, «provocava ricerche più profonde sulla
natura e le leggi del pensiero e i loro rapporti con le cose, e preparava la
via alla filosofia dello spirito di Hegel ». Ma la parte negativa, al
solito, supera di gran lunga lapositiva; e le censure si accumulano l'una
sull'altra con una desolante inintelligenza. Eccone qualche esempio. Le
deduzioni di Fichte non penetrano gran che nella natura delle cose, di modo che
non si vede né perché né come si producano le opposizioni e come si passi da un
termine all'altro. — Il non-io è contenuto bensi nell'Io (anzi, dice il Vera,
dans la notion même du moi) ma questo punto non è dimostrato; perché Fichte non
s'era elevato a quel metodo che ricava dal concetto di una cosa la sua
differenza e la sua unità. Il suo metodo era ancora accidentale ed estrinseco;
e però egli ridusse tutte le opposizioni a quelle di lo e non-Io, laddove la
contradizione c'è anche nel non-lo preso separatamente (bel gusto, invero, a
prenderlo separatamente, dopo Fichte!). - E poi l'Io è un concetto o una forza?
(domanda, che è una rivelazione o una confessione rispetto alla posizione del
Vera nell'intendere la natura del movimento del pensiero nella logica
hegeliana). - Ancora: I' Io di Fichte, se è un lo relativo, contingente e
finito, si lascia sfuggire l'assoluto e l'infinito della scienza; se è l'Io
assoluto, allora la sua tendenza, il suo sforzo infinito per attingere
l'assoluto è inesplicabile. E via di questo passo, o con questi salti. Ma il
più curioso è che il Vera infine dice: «Telles (0 sont les lacunes que présent
la doctri-ne de Fichle et que Schelling s'efforça de faire dispa- raitre
". 28. - E sorte non migliore, per iscarsa o nessuna conoscenza
diretta e per divergenza di punto di vista, capita quindi a Schelling, di cui
il Vera, non occorre dirlo, non sospetta nemmeno il reale motivo speculativo e
il progresso vero su Fichte: e il cui sistema giudica, a un tratto, come «
plutot une oeuvre d'arl qu'ane ocuore waiment scientifique,.. plutôt le produit
de la jeunesse que de la maturité de la pensée d'une vive et riche imagi-nation
que de celle intuition profonde et réféchie, qui est le résultat des procédés
sevères de la sciencent. 29. - Se cosi giudicava i maggiori filosofi
tedeschi, che non fossero Hegel, qual meraviglia che non tenesse in nessun
conto tutti i filosofi italiani? Quanto più d' ingegno e di dottrina spiegava
il suo collega napoletano B. Spaventa a mettere, come si dice, in valore
la filosofia italiana, dimostrando con le sue penetranti investigazioni i
tesori di pensiero che si celavano nelle sue viscere, tanto più il Vera, la cui
cultura s'era formata fuori d'Italia, e che, scrivendo in Francia, aveva finito
col non dire più 'i francesi ' ma 'noi'=; e imbevutosi dell' hegelismo,
non aveva più saputo guardare all'Italia con altri occhi, che quelli onde, in
generale, tutti i romantici tedeschi vi guardarono commiserando 3; tanto più,
il Vera, per cuidunque non esisteva il problema dello Spaventa, di edificare
sulle fondamenta, e svolgere il pensiero italiano, movendosi dentro di
esso e movendosi con esso, più s' impuntava, assai poco hegelianamente, ad
asserire che in Italia non s'era mai filosofato, e che bisognava rifarsi da
capo. Una eccezione parve talora farla pel Bruno, celebrato da Hegel come »
nobile anima, che sente in sé l' immanenza dello spirito e intende l'unità
della sua essenza e dell'essenza universale come tutta la vita del pensiero. Nella
sua prolusione a Napoli, la occasione stessa l'obbligò quasi a ricordare i due
grandi nomi na-poletani: Bruno e Vico. E il primo mise al di sopra del secondo,
quantunque manchi a quello « sopratutto il punto di vista, o concetto istorico,
concetto importantissimo e che è il segno caratteristico, e dirò come il
trionfo della filosofia moderna»: e l'abbia invece il Vico, e sia anzi la sua
originalità. Pure, «Bruno è un profondo me-tafisico, a tal segno ch' è come
l'eco dell'antica filosofia e il precursore della moderna». Ma non andò (né
credo potesse con la cognizione che doveva averne) oltre tali e simili
generalità. A cui si attenne anche lo scolaro Raffaele Mariano in quel
suo pamphlet sulla filosofia contemporanea italiana, in cui si fece, come già
in altri scritti, organo del pensiero del Vera. Tra Bruno e Vico il Vera non
vedeva che tenebre. Di Campanella mai una parola, che io sappia. Vico è lodato
caldamente in un articoletto (L'esegesi), scritto in Inghilterra, nel 1857% con
qualche accento di italianità: lodato come « genio profondo e originale», « uno
dei primi, per non dire il primo, ad entrar nella carrieran in cui andarono poi
tanto innanzi i tedeschi, della critica erudita e della filologia: come quegli
che nel De antiquissima Italorum sapientia « ha poste le basi della critica
filosofica delle lingue», nel De unico principio et fine tris (sic) « ha poste
le basi della critica del diritto e nella Scienza nuova ha fondato la filosofia
della storia, e quindi i principii della critica storica. e con la sua teoria
sul « vero Omero » va considerato «come il punto di partenza e il motore di
tutte le ricerche posteriori sulla questione omerica.. Giudizio molto
modificato più tardi:, in parte corretto (in ciò che concerne il De
antiquissima ne aveva bisogno), in parte peggiorato e ravvolto in un
apprezzamento complessivo superficialissimo. « Vico è un mediocre me-tafisico.
Trasportando l'idea platonica, e anzitutto l'idea della repubblica di Platone
nella storia comprese che avervi una storia ideale. Questo intese, ma mal
comprese; e mal comprese ed attuò, perché alla verità e altezza del concetto
non aggiunse una facoltà vera-mente speculativa». Non seppe addentrarsi nella
cognizione dell'idea, «sia con uno studio profondo delle dottrine platoniche e
aristoteliche, sia con indagini proprie e veramente originali». Avrebbe dovuto
costruire prima l'idea della storia, e indi desumere il fatto o storia reale
delle nazioni. E invece mosse dal fatto, la storia di Roma, e però non poté
intendere l'Oriente, la Grecia, il Cristianesimo e le nazioni e la storia
moderna (che sono, come ognun vede dall'indice della Filosofia della Storia di
Hegel, le altre parti della trattazione hegeliana, oltre la storia romana). Più
tardi disse che Vico intravvide, non vide la vera idea della storia!.
Viceversa, discorrendone più di proposito nella Introduzione alla filosofia
della Storia :, tornava ad asserire che « il gran pregio di Vico, che niuno
potrà rapirgli, sta in questo, nell'aver pel primo riconosciuto che l'idea è il
principio della storia». Ma, con l'usata deplorevole confusione,
accettava l'inter- pretazione platonica che il Vico stesso fa delle sue
idee, parendogli chiaro che «studiando la teorica platonica delle idee,
comprendendo, cioè, l'importanza e la funzione dell'idea dell'universo, si
giunge naturalmente al punto di vista di Vico». E d'altra parte, guardando poi
all'applicazione che il Vico aveva fatto della sua dottrina alla scoperta del
vero Omero, dove il Vico non avrebbe inteso che l'idea non si manifesta se non
incarnandosi in certi individui, non dubitava di arguirne che *Vico non
intese la vera natura dell'idea, né quella del suo rapporto con la storia e con
l'individuo ». E dopo Vico? «Vico», risponde per lui il Mariano, « è
un'apparizione che non ha antecedenti e non lascia tradizione »3. E poiché Vico
non ebbe coscienza della me-tafisica richiesta dal suo concetto storico della
scienza, si può dire che « il pensiero italiano chiuda il suo ciclo storico con
Bruno, e s'estingua, se cosi può dirsi, sul suo rogo». Doloroso a dirsi:
l'Italia moderna non esiste nella storia, se esistere nella storia significa
rappresentare un'idea; o esiste pel suo papato. Dall'alto di questo
giudicatorio universale, che diventavano quei pigmei di un Galluppi, di un Rosmini,
di un Gioberti, di cui faceva tanto caso lo Spaventa? Il Mariano
risponde: « A nostro avviso, i filosofi italiani degli ultimi tempi non
hanno contribuito in nessuna maniera con le loro dottrine al movimento e allo
sviluppo del pensiero filo-sofico; poiché, oltre a venire quando tutto lo
sviluppo di questo pensiero era già compiuto, essi si chiudono in punti di
vista esclusivi e subordinati. Le loro dottrine non sono siste-matiche, nascono
non si potrebbe dire donde né come, senza aver nemmeno una coscienza
chiara di se stesse, né della filosofia in generale; e infine segnano un
regresso e una decadenza del pensiero. La tesi dello Spa-venta, che non
intendeva si potesse trapiantare in Italia una filosofia la quale non avesse
nessun appiglio nella tradizione del suo pensiero, e che andava orgoglioso di
aver dimostrato che tutti i nostri più grandi pensatori da Bruno a Campanella
al Gioberti s'erano mossi nello stesso circolo del moderno pensiero europeo,
pareva al Mariano e al Vera « falsasse il concetto della filosofia, del suo
oggetto e della sua storia», uno di quei « tours de force intellettuali, che
non sono rari, che sono anzi disgraziatamente troppo comuni, e consistono nel
mettere in una dottrina quel che è nel nostro proprio pensiero e nel pensiero
d'un altro». Bella testa davvero quello Spaventa, che veniva a dire 'a
questi asini papalini degl' Italiani, che alla fine la filosofia di Hegel non
era poi l'ultima parola dello spirito speculativo, e non si doveva ripetere e
commentare meccanicamente le sue deduzioni come tante formole sacramentali. «
Parole sonore, ma vuote. L'essenziale è intendere quelle deduzioni e quelle
formole, come piace allo Spaventa di chiamarle. Ma lo Spaventa le intende
? Par di no, dacché identifica [e non era vero] Gioberti e Hegel. Poi che
il pensiero di Hegel possa essere ulteriormente svolto e compiuto entro certi
limiti, nessuno hegeliano, noi crediamo, si rifiuterà di ammetterlo. Ma se lo
Spaventa avesse inteso la storia della filosofia e l'hegelismo, avrebbe visto
che non sono possibili svolgimenti ulteriori deviando o uscendo dal pensiero hegeliano,
e in questo senso può dirsi che la filosofia di Hegel sia per l'appunto
l'ultima parola dello spirito speculativo ... Che poteva essere magari la
convinzione dello Spaventa, ove si dia a questa frase un significato rigoroso,
che non era disposto di certo a darle né il Mariano né il Vera, quando questi
scriveva p. e, che « la filosofia di Hegel chiude, quanto alle parti
costitutive, il ciclo storico della filosofia; quantunque non vogliamo negar
con ciò la possibilità di altri svolgimenti, ma sempre di un ordine particolare
e subordinato, che il pensiero filosofico potrà ammettere »3. - Uomo pericoloso
quello Spaventa, infido hegeliano! Quei suoi Principii di filosofia, cominciati
a pubblicare nel 1867! Sempre quel suo fare d'uomo che dice e non dice (les
mêmes allures contournées et de-tournées !), quell'ambiguità di linguaggio,
quell' hegelismo che non è punto hegelismo: « una logica hegeliana che si dà
delle arie di non sappiamo qual'altra logica: infine, una filosofia nuova, ma
stranamente nuova, prima perchévi si dà per nuovo quel che Hegel stesso e dopo
Hegel alcuni de suoi discepoli hanno esplicitamente e da lungo tempo insegnato,
e poi, sopra tutto, perché non si potrebbe dire che cosa è, donde viene e dove
va, e perché non può avere altro risultato che di creare o perpetuare
l'equivoco, la confusione e l'indisciplina degli spiriti». Cosi dal Vera
aveva imparato a giudicare dello Spaventa, uno scrittorello, che, tanto per
accreditare la filosofia hegeliana, rifaceva in quattro e quattr'otto e tenendosi
sempre sulle generali, senza analisi di testi, né discussione di punti
controversi, la storia della filosofia italiana della prima metà del sec. XIX,
e sentenziava che quella specie di eclettismo del Galluppi era un « fenomeno
isolato e accidentale, che non s'era accorto di venire al mondo quando il
movimento filosofico tedesco con Hegel era « achevé, lorsque l'idéalisme étail
une doctrine constituée» (povero Galluppi!). Il pensiero del Rosmini è più
vasto e completo, ma è un vano sforzo • di risuscitare la filosofia scolastica,
e, per questo rispetto, un regresso. Gioberti poi « non soltanto un'apparizione
inutile nell'ordine del pensiero come in quello della storia, ma la negazione
della storia e della scienza " 5 Lo Spaventa ne aveva fatto la
satira anticipata. A proposito di costoro che non vedevano nulla di nulla in
Italia, e la filosofia morta da due o trecento anni, e si scalmanavano a
raccomandare l'idea, a rifarsi dalla idea, e sopra tutto a far come loro (e
guardate a noi, fate come facciamo noi, e dite come diciamo noi: uno, due, tre;
e ritornerete vivi, sani e salvi; e sarete felici ») aveva ricordato « un
tale, bravomo del resto; il quale un giorno, di pien meriggio, nel mese di
luglio, non sapendo che fare e avendo accolto in casa, nel suo gabi-netto,
numerosi amici, chiuse ermeticamente le impostedelle finestre e l'uscio, e
all'oscuro accese subitamente un suo lumicino, e fattosi in mezzo, non per
gioco, ma col maggior senno del mondo, esclamò: - Non temete; ecco, io vi riporto
la luce!* E la satira conchiudeva: « Mi fu detto poi, che il brav'omo fini i
suoi giorni al mani-comio, e non parlava d'altro che del lume spento e del suo
lumicino. Quando imprese la sua volgarizzazione della filosofia hegeliana, V.
non s'era proposto se non di tradurre in francese la piccola Enciclopedia di
Hegel, come già erano state tradotte le opere principali di Kant, Fichte,
Schelling, l' Estetica dello stesso Hegel e una parte della Logica. Ma
estremamente prolisso com'era, e com'è degli scrittori che non approfondiscono
il pensiero e scivolano sulle difficoltà, postosi a scrivere un proemio
introduttivo alla traduzione, la materia gli crebbe ben presto tra mani fino ad
imporgli la necessità di pubblicare questo scritto a parte, come formante da
solo un tutto « indipendente, sotto certi aspetti, dal sistema di Hegel», le
cui tre parti pensò quindi di dare poi in tre volumi distinti. Se non che quando
poté cominciare a pubblicare la sua traduzione, penso che se a tutta
l'Enciclopedia aveva mandato innanzi una introduzione generale, una speciale
per la Logica, ossia per la prima parte, da cui gli toccava di cominciare,
sarebbe stata pure opportuna. E cosi per la sola Logica occorsero già due
volumi 3;come tre gliene occorsero poi per la Filosofia della natura 5
infarcita di lunghissime note, oltre la solita vasta introduzione; e due infine
per la F'ilosofia dello spiritos, ma grossi: perché, pubblicato a tre anni di
distanza dal primo, il secondo gli parve che non potesse andar privo di una
nuova speciale introduzione. E tra introduzioni prime e seconde, avant-propos e
avertissements premessi agli avant-propos, commenti perpetui, appendici, pole-miche,
si esauri tutta la sua attività letteraria non impiegata nel tradurre il testo.
Tutta, o quasi tutta. Quando parve proporsi un tema di trattazione originale,
come il Cavour (1871) e il Problema dell'Assoluto (1872-82), in fatto continuò
egualmente a discettare intorno all'uno o all'altro punto di dottrina
hegeliana; e quando, come nel Problema dell Assoluto, doveva pure levar l'ala
pervoglia di volare, finiva tosto per fare come il cicognino dantesco,
che non s'attenta D'abbandonar lo nido, e giù la cala. E
lasciava interrotto il lavoro. L'opuscolo sulla Pena di morte (1863) 1,
che, per il vivo interesse che suscitava allora la questione in Italia, fu
degli scritti più noti, più letti e discussi del Vera 3, è anch'esso un commento
a un'opinione dell' Hegel. L'Introduzione alla filosofia della storia
(1869) sono corsi di lezioni raccolte da uno scolaro, le quali non hanno
nessuna pretesa d'originalità scientifica. Lo Strauss, l'ancienne et la
nouvelle foi (1873) si propone di chiarire e confermare la filosofia della
religione di Hegel contro il radicalismo teologico dello Strauss. Si può dire
pertanto che tutta l'opera del Vera si riduca alla traduzione e al commento
dell' Enciclopedia di Hegel con speciale insistenza sulla parte che riguarda la
filosofia della religione. Opera certamente assai benemerita pei vantaggi
arrecati alla cultura delle nazioni latine, principalmente della Francia e
dell'Italia, in un tempo in cui la filosofia di Hegel era venuta in discredito,
le sue opere apparivano in conseguenza assai più difficili che in realtà non
siano, e facevano torcere il muso agli studiosi, i quali non avrebbero forse
letto nulla di lui, se non avessero avuto a portata di mano quell' Hegel
volgare (come avrebbero dettoi nostri antichi), così agevolmente accessibile
nello sciolto francese in cui il Vera lo dilavò, e cosi largamente illustrato
da chi non dubitava di parlare come l'autentico interprete dello hegelismo.
Soltanto in questi ultimi anni le sue traduzioni sono state, nel rinnovato
studio di Hegel, riscontrate accuratamente con l'originale; e trovate malfide.
Se nella prima traduzione della Logica gli errori d'interpretazione erano
frequenti, i lettori non lo seppero forse prima che ne li avvertisse lo stesso
Vera quando li corresse nella seconda?. Lo stile discorsivo, senza muscoli e
senza nervi, del traduttore non somigliava punto a quello di Hegel: ma chi se
n'accorgeva ? I punti più delicati ed essenziali dello hegelismo nelle
interpretazioni veriane andavano alterati. Il colorito generale e il carattere
fondamentale di questa filosofia attraverso quelle interpretazioni eran
cancellati o apparivano troppo sbiaditi. E questo era certamente difetto
ingente per la fortuna del pensiero hegeliano e il progresso speculativo. Ma
non è per altro da credere che una più schietta traduzione e una
interpretazione più rigorosa del pensiero hegeliano sarebbe bastato in quel
ventennio tra il 186o e l'8o in cui cadde l'opera del Vera, a dare una
direzione diversa allo spirito filosofico, preso com'era dalla brama dei fatti
e dal disgusto d'ogni speculazione. E d'altra parte, c'è in ogni grande
filosofo e in ogni grande scrittore una folla di verità particolari, frammenti
e scheggie luminose di pensiero, di cui giova pure arricchire ed accade sempre
provvidenzialmente che venga arricchito il patrimonio generale della cultura, e
impinguato quello che si può dire il terreno spirituale, da cui germogliano,
maturate che siano le stagioni opportune,i nuovi pensieri, e da cui pur
continuamente traggono il loro succo vitale tutte le forme dell'attività
umana. Chi potrebbe dire, da questo aspetto, quanto sia il benefizio
arrecato alla cultura dalle fatiche di V.? 3L. - Questa fu la sua parte:
la parte del commen-tatore, che si chiude nel pensiero del suo autore, quasi in
un cerchio di Orbilio, e non vede come sia più possibile uscirne. Il «
Commentatore» per antonomasia del medio evo disse di Aristotele, che egli era
stato la regola della natura e come un modello in cui essa aveva cercato di
esprimere il tipo dell'ultima perfezione; posto al più alto grado
dell'eccellenza umana, cui nessun uomo mai aveva saputo pervenire: disse la sua
dottrina « la verità sovrana: perché il suo intelletto è stato il limite
dell'intelletto umano, sicché di lui possa a ragione dirsi esserci stato dalla
Provvidenza dato per imparare tutto ciò che è possibile sapere»; e che insomma
egli « è il principio di ogni filosofia: non si può differire se non
nell'interpretazione delle sue parole e nelle conseguenze da ricavarne». E le
stesse cose, su per giù, ripete di Hegel, come già in parte abbiamo visto, V.,
lieto di potersi dire «un hégélien pur, un hégélien à outrance n3; pronto a
protestare che gli anni e la riflessione non facevano che fortificare la sua
convinzione che la philosophie de Hégel est la sente philosophie véritable, la
philosophie absolue »3; che sempre Hégel a raison contre tous4, perché egli è
non pure uno dei più potenti pensatori, ma il più potente forse che sia mai
esistito s. Nella Introduction del 1855 riconosceva ancora un qualche valore al
concetto (hegelianeggiante) *di Leibniz della philosophia perennis; ma nel
1873. polemizzando con lo Strauss « in nome della filosofia » teneva a
dichiarare com'egli la intendesse. « Per me, lo confesso, quando sento parlare
di una filosofia in generale, di quella filosofia che Leibniz e altri sulle sue
tracce chiamano col nome sonoro di philosophia perennis, chiudo gli occhi e gli
orecchi, e preferisco non vedere né sentire, che sentire e vedere mercé d'una
tale filosofia». E si appellava al principio, hegeliano senza dubbio, che la
filosofia non può essere che una determinata filosofia; ma continuava,
distruggendo ipso facto il valore di quel principio: « E questa filosofia non
mi stancherò di ripeterlo, e, per quanto è in me di dimostrarlo, è la filosofia
hegeliana » *; laddove una delle determinazioni essenziali della filosofia
hegeliana era appunto questa di adeguarsi alla storia della filosofia o, se si
vuole, alla philosophia pe-rennis, in cui tutte le determinate filosofie sono
la filosofia veramente determinata. E da quest'angusta e in certo senso
materialistica concezione della filosofia hegeliana, tutta chiusa in una
individualità semifantastica, sorretta dalla rappresentazione di certi libri e
di certe parole o di una certa persona vissuta in certi tempi e luoghi, il Vera
era trascinato a perpetrare un vero tradimento di Hegel: da lui disarmato e
consegnato, legato mani e piedi, al primo venuto dei suoi avversari. Poiché,
una volta concepito un sistema filosofico come chiuso in sé, senza rapporti con
gli altri sistemi, prodotto di una speciale visione del mondo, che non ha che
fare con gli altri possibili punti di vista, quasi spettacolo che si goda in
una stanza, e di cui non sia dato saper nulla a chi non vi entri, cotesto
sistema non si può più dimostrare a chi non sia già persuaso della sua verità;
perde cioè la sua universalità,la sua verità, il suo valore di pensiero, che
non è mai atto di uno senza esser atto di tutti: perde la vita del pensiero che
è espansione e forza invadente, conquistatrice e trionfatrice; per diventare
una cosa, che sta dove la mettete, in eterno, ignara di sé, inerte, esposta al
libito di chi vi si abbatta! Concezione strana, umiliante, ad accettar la
quale, coraggiosamente, il Vera fu anche spinto da un profondo concetto
hegeliano, da lui inteso a metà: che la verità di un sistema sta dentro il
sistema e in tutto il sistema. Ma Hegel stesso andava subito incontro al
pericolo d'una possibile interpretazione materialistica di questa proposizione,
per cui il suo pensiero sarebbe rimasto disteso sovra un'altura inacces-sibile,
concependo dapprima come una prima parte del sistema una Fenomenologia
dello spirito come autoaf- fermazione della propria filosofia attraverso
tutte le posizioni storiche e ideali del pensiero, e premettendo poi all'
Enciclopedia un'introduzione critica e polemica destinata a giustificare il
proprio punto di vista di fronte a quelli inferiori. Talché, se pure era nella
sua dottrina, quale si venne scolasticamente consolidando attraverso le
varie redazioni dell' Enciclopedia (nata per la scuola), la tendenza a fare del
sistema un dato circolo chiuso, nel quale bisognasse penetrare per non so quale
grazia sovrannaturale o luce illuminante ogni privilegiato hege-liano; questa
tendenza era spontaneamente frenata e corretta dalla possente vita del genio
investito dalla forza della verità. Ed era intanto punto capitale della sua
dottrina, che la critica di un sistema filosofico - e quindi il passaggio a un
sistema superiore - non è critica soggettiva che altri possa fare movendo da
principii di sistemi diversi, ma critica interna, autonoma, sgorgante dalle
viscere dello stesso sistema; sicché non si sale slanciandosi in alto per
aggrapparsi con la punta delle dita alla proda delle balze superiori, ma
fermando bene ilpiede sul grado già raggiunto, e di li sforzandosi di salire,
costretti dallo stesso disagio della via erta ed arta, - per tornare ancora una
volta alle immagini dantesche. Sicchè la vera dottrina di Hegel è che la verità
della sua filosofia, se, come sistema, vive nel circolo del suo pensiero
siste-matico, si conquista attraverso tutte le filosofie, e si pone percio per
motivi di verità che giacciono in tutti i sistemi. L' hegelismo che si chiude
gli occhi e gli orec-chi, e, come la Notte di Michelangelo, vuole « non veder,
non sentir, non è quell'originale hegelismo che figge per tutto il suo occhio
sereno, certo che tutto che è reale è anche razionale, ma un hegelismo veriano,
alquanto adulterato. E cosi accadeva al Vera, malgrado tutta la forza
del suo hegelismo, di trovarsi come chi, in paese straniero di cui ignori
la lingua, abbia bisogno di far valere le proprie ragioni, e non trovi né anche
un interprete. Non sapeva parlar altro che l'« hegeliano » 1 Nella
introdu-zione alla Filosofia dello spirito, dopo avere intravvedute ben sei gravi
obbiezioni contro il concetto da lui esposto del sistema hegeliano, dovendo
ribatterle, si ricordò della sua teoria dell'hegelismo chiuso, gia
spiattellata tre anni prima nella nuova prefazione all' Introduction à la
philosophie de Hégel, a proposito delle critiche del Foucher de Careil e del
Trendelenburg; e si senti in dovere di fare questa confessione: Nous
commencerons par avouer que ces objections nOuS embarassent
très-fort, et que nous ne voyons pas comment nous pourrions y répondre d'une
manière satisfaisante, d'une manière, voulons-nous dire, qui satisfasse
complètement celui qui nous les adresse. Car ce
n'est pas nous autres hégéliens, bien entendu [l]. qui nous faisons ces
objections, ou si nous nous les faisons, nous en trouvons aussi la solution.
Seulement cette solution est valable pour nous, mais elle ne l'est pas, len
général, pour les au-tres, c'est-à-dire pour les non-hégéliens (!).Et la raison
en est bien simple. C'est que la solution est dans le système, et que par suite
elle ne saurait être entendue et acceptée qu'autant qu'on est dans le système.
Par conséquent, celui qui fait des objections, qui les fait hors du système,
c'est-à-dire en se plaçant au point de vue de l'opinion, de la conscience
vulgaire et irréfléchie du sens commun comme on l'appelle, et même de la
philosophie de l'entendement, et qui, avant d'entrer dans le système, demande
qu'on lui réponde d'une façon qui leve complètement ses doutes, demande ce
qu'en réalité il n'est pas raisonnable de nous demander. Car ces doutes
viennent précisément de ce qu'il demeure hors du système, et que sa pensée est
impuissante à saisir la vérité systématique. Par con-séquent, tant qu'il n'aura
pas franchi cette limite, et qu'il ne sera pas entré dans le système, toutes
nos réponses et toutes nos explications devront nécessairement lui paraitre
insuffisantes, par la même que sa pensée et notre pensée ne sont pas la même
pensée 1. Non era questo un disarmare Hegel e consegnarlo agli
avversari? Tommaso d'Aquino, convinto che oltre gli articuli fidei, ci siano
anche i preambula ad articulos, aveva potuto scrivere una somma de veritate
catholicae fidei contra gentiles; ma contro i gentili dell' hegelismo il nuovo
apostolis gentium non vedeva come un povero diavolo d'apostolo se la potesse
cavare: e badava a ri-petere il motto di Anselmo: fides quaerens
intellectum, ma senza ottemperare troppo alacremente al maggior detto
dello stesso Anselmo (Cur Deus homo, c. 2): « Ne- gligentiae mihi esse
videtur, si postquam confirmali sumus in fide, non studemus, quod credimus
intelligere! ». Il mo-mento della fede, come vedremo più chiaramente, era
l'essenziale per lui. Questo infatti gli bastava a reggere l'opera sua di
paladino di Hegel. Non confessó quel tale, che moriva in duello pel Tasso
contro l'Ariosto, di non aver letto nessuno dei due ?I libri di Hegel il Vera
certamente li aveva letti e ri-letti. Non tutti, forse, quando scese in campo
per lui con l'Introduction, né tutti poi con la stessa attenzione e diligenza.
Il Janet • notò che in quella Introduzione manca ogni menzione della
Fenomenologia; e la critica che già ne abbiamo rilevata contro lo Schelling
autorizza a crede che ei non avesse ancor letta la prefazione di quell'opera di
Hegel. Doveva allora conoscere l'Enciclopedia e, in parte, la Filosofia della
religione: in parte anche la Scienza della logica; ma così male, da non essersi
ancora reso conto ben chiaro della redazione di queste opere. Cosi allora
dimostrava di sconoscere che le appendici (Zusätze) ai singoli paragrafi dell'
Enciclopedia non furono aggiunte da Hegel stesso, bensi dagli scolari (Henning,
Mi-chelet e Boumann) che ne curarono l'edizione postuma e si giovarono di
appunti del maestro e di quaderni di scuola: Anzi, confondendo con tali
appendici le osservazioni che Hegel infatti aggiunse per la prima volta nel
1827 ai singoli paragrafi, - che da soli formavano il testo della prima
edizione, - asseri 3 che Hegel nella seconda edizione credette di aggiungere
co-teste appendici, per rendere il suo pensiero meno astratto e più
accessibile. E questo errore ripeté nel '59 nell'avvertenza premessa alla
Logica, aggravandolo di un'altra inesattezza che potrebbe far credere non aver
egli allora col secondo e col terzo volume dell' Enciclopedia postuma (detta
ordinariamente Grande Enciclopedia, per distinguerla dalla Piccola, cui mancano
quelle appendici) la familiarità che dovevaaver acquistato col primo contenente
la Logica: perché dice che nel 1827 Hegel non diede propriamente una seconda
edizione di tutta l'Enciclopedia accresciuta delle appendici, ma della sola
Logica: « Par les deux autres parties de la Grande Encyclopédie n'ont paru
qu'après la mort de Hégel dans Védition complète de ses oeuvres qui a été
publiée par le soin de ses disciples et de ses amis » 1. Apparse dopo la
morte di Hegel: ma già redatte da lui stesso, comprese le appendici, come il
Vera tornò a dire chiaramente nell'avvertenza al primo volume della Filosofia
della natura *. Confusionis che potrebbero anche ascriversi a
sbadataggine di studioso inesperto d'ogni buona usanza filologica: ma che, se
in parte son pure indizio di scarsa familiarità coi testi hegeliani, in questo
caso son pure da riportarsi all'indole del suo spirito, di cui abbiamo già
cominciato a intendere alcuni tratti essenziali. Il Vera era cominciato
mistico: scettico verso i metodi razionalisti, aveva asserito l'
inconoscibilità delle essenze, e certa intuitiva rivelazione originaria di Dio,
alla Jacobi. Il mistico non può essere idealista che a mo' di Platone:
per cui la verità non è processo, ma conoscenza immediata e miracolosa,
presenza dell'oggetto, in cui si prescinde dal soggetto o in cui perciò il
pensiero tende a risolvere e seppellire la propria soggettività. L'idea a chi
cerchi una tale verità si presenta e impone da sé; è se stessa; e non può
farsi, ancorché definita come processo (diventa allora idea del processo, e,
come idea, immobile). In quanto sistema, diventa sistema in sé, che non forma
la mente, ma è innanzi alla mente; e non è svolgimento;ma un tutto perfetto, in
sé, senza passaggio da altro a esso, né da esso ad altro. E filosofia che non è
la filosofia, ma una filosofia, che ha fuori di sé le altre, il pensiero
volgare, l'opinione, la filosofia intellettualistica, senza un ponte da queste
forme mentali a essa. - O tutto, o niente; o scetticismo, o cognizione assoluta
(idest, il sistema di Hegel), come badava a ripetere V.. E che cosa era per lui
la mente fuori dell' hegelismo? Se la verità era tutta dall'altra parte, di qua
non ci restava nulla. La sua pertanto era una concezione mistica del- 1'
hegelismo, per cui il rapporto dello spirito con la vera filosofia, o illuminazione
mentale, veniva concepito come una unione soprarazionale, di là dalla quale si
sarebbe instaurata la razionalità dello spirito. E questa tendenza mistica del
Vera, se io non m' inganno, gli faceva prendere in mano i libri di Hegel e non
guardare attentamente alle prefazioni, non cercare le varie edizioni, non
studiare la storia dei testi: giacché in ogni tempo la misticità è stata nimica
mortale di tutte le questioni concernenti la lettera, come ad esse piace di
dire, e non lo spirito, quali son quelle di filologia. Pericolosissima china;
giacché se questa tendenza nel Vera col dispregio della filologia portò
l'impossibilità di una vera dottrina storico-filosofica, nel discepolo Mariano,
che avrebbe dovuto essere di professione uno storico del cristianesimo, frutto
tutta una boriosa e vuota teorica di metodo storico, che è una delle più
solenni e funeste falsificazioni della dottrina hegeliana, cioè della prima
filosofia venuta in luce dacché il pensiero prosegue la sua eterna fatica, a
giustificare non solo, ma ad esaltare ogni forma di storia; e nella scuola del
Vera, tra i suoi insegnamenti di storia della filosofia e di filosofia della
storia, fu piegata goffamente a significare un pensiero rispettoso bensi a
parole della storia, dello svolgimento, della determinatezza, ma, nei fatti, di
una tracotante svalutazione d'ogni sincera ricerca dellastoria, ossia dei
particolari più determinati, in cui pur consiste il concreto svolgimento del
reale. 32. — Della quale tendenza, mistica e però antisto-rica, della
mente del Vera si potrebbero raccogliere ne' suoi scritti molte manifestazioni.
Il Janet, in un suo articolo sul primo volume della Filosofia della religione
notava finemente che il Vera, nella lunghissima introduzione che mise di suo in
quel volume per ragionare dei rapporti tra filosofia e religione, «est encore
ici fort dans la discussion, vague et obscur dans la conclusion. Il ré-sume
très-bien toutes les manières de se rapresenter le rap-port de la religion et
de la philosophie. Mais on ne vort trop quelle est la vaie». E nel '73 lo
stesso V. contro Strauss osservava che la posizione da costui assunta era
très-nette. E, soggiungeva «les positions très-nettes
sont souvent, surtout dans la science, très-fausses, par la raison même
qu'elles sont très-nettes, par la raison, veux-je dire, qu'elles mutilent les
problèmes, et qu'en les simplifiant les faussent». Ragione
hegeliana e piena di verità; ma pretesto, pel Vera, e conforto a non trarsi
fuori da quel- l'oscuro, da quel vago che il Janet gli rimproverava, e a
restare irresoluto tra il sì e il no. Giacché sarebbe invero assai volgare
insolenza asserire di Hegel, nuovo e pit rigoroso assertore della dialettica
del sic et non, che ei si tenesse perciò di qua dalle soluzioni très-nettes!
Ché se rifiutava, e metteva in satira anche lui, le soluzioni semplicistiche
dell' intelletto astratto, poneva nettissime, per suo conto, quelle della
ragione. E non era il Vera che potesse in nome della dialettica accamparsi
contro il semplicismo e l'astrattismo dei semplificatori; egli chenon sapeva
entrare nella realtà se non armato di astratte definizioni; e si scalmanava
contro chi nella realtà vedeva si quei concetti, ma limitati e commisti ai loro
contrari; e lo Stato reale, p. e., essere e non essere Stato: la Chiesa essere
e non essere Chiesa; e l'esercito essere e non essere esercito; e cosi ogni
cosa, non in quanto considerata nel mondo intelligibile, a cui egli
platonicamente guardava, ma in quello reale, in cui, con tanto poco gusto (a
quel che pare), era pur costretto a vivere. Egli è piuttosto che, com'è
proprio dei mistici, il Vera, da una parte, doveva dilettarsi di cotesto mondo
di puri intelligibili, che appunto perché tali sono estranei alla vita
dell'intelligenza e non si pongono se non per negazione o una mera affermazione
immediata dell'in-telligenza, e poteva d'altra parte riuscir più nella critica
e demolizione che nell'affermazione e nella dimostrazione. Giacché questo
è uno dei caratteri del misticismo: che non rifugge bensi dalla filosofia, ma
si pasce di una filosofia negativa che ha per conchiusione, com' è facile
scorgere nella storia della mistica, una dotta ignoranza: hoc unum scio. Così
nel Problème de la certitude, della età giovanile, il verbo della speculazione
veriana era stato lo scetticismo: la sua affermazione dommatica un timido e
vago tentativo di filosofia dell'intuizione immediata di Dio, conosciuto come
che, ma non come quale: postu-lato, non propriamente conosciuto. Quella stessa
menta-lità, abbattutasi quindi a una conoscenza meno superficiale dello
hegelismo, presa di ammirazione per quella vasta sistemazione del mondo
contemplato sub specie aeterni, cambiò forma, non sostanza; e sotto il nuovo
abito rimase presso che immutato il vecchio Vera. L'oggetto del suo mistico
intuito (conoscenza immediata, senza processo) era prima quel Dio inconoscibile
e indi- mostrabile, di cui non si poteva fare a meno; ora è il sistema
hegeliano, cioè, non propriamente una filosolia,ma un xóguo vontós, e insomma
Dio stesso, quello di prima, egualmente indimostrabile e irraggiungibile con un
processo di pensiero. E pure nell' Introduction volle scrivere anche lui,
come già tanti altri mistici, il suo itinerario della mente a Dio: o come egli
disse, mettere sotto gli occhi del lettore «les recherches qui nous ont conduit
nous-mêmes à l'intelligence de la philosophie hégélienne»t, Ma, posto quel
concetto del sistema chiuso, che per allora covava nel profondo della sua
mente, che itinerario poteva essere il suo? Sarebbe facile dimostrare che
questa specie di itinerario procede, non altrimenti da tutti gli scritti consimili,
per presupposizione, fin da principio, del punto d'arrivo, e per conseguente
critica e negazione delle posizioni diverse: non muove da queste, e non
dimostra realmente il punto a cui vuol pervenire; non è insomma un
processo. E già noi vedemmo a che si riduca pel Vera il movimento da Kant
a Hegel. Dopo un brevissimo capitolo (di tre pagine) sulla « fisonomia generale
della filosofia di Hegel», in cui si coglie, ma assai estrinsecamente, un
tratto senza dubbio essenziale di essa, qual è quello della storicità sua,
oggettiva e soggettiva, in quanto essa concepisce il suo oggetto come
manifestantesi attraverso il movimento storico e sé stessa in intima e
necessaria relazione con la propria storia 1, il Vera passa subito a dimostrare
quella sua tesi, che già conosciamo, tutti ifilosofi essere idealisti senza
saperlo: poiché, nell'antichità e nei tempi moderni, tutti, compresi i
materialisti, han sempre mirato all'idea; poiché nessun filosofo mai ha potuto
fare a meno dei principii che sono al di là dell'esperienza. Basta pel Vera
esser metafisico per CS- sere idealista; e in questo senso egli
pensa che in ogni filosofia sia un germe di verità, che si deve svolgere e
compiere, e non si può negare. Vale a dire, all'esclusi-vismo dei vari sistemi
che ricorrono a una o più idee, bisogna sostituire una filosofia comprensiva
che le accolga tutte e le organizzi; fare insomma quel che aveva fatto Platone,
quantunque ora si possa fare un po' meglio. Sicché l'oggetto della
filosofia, quale egli lo concepisce, non è diverso da quello che aveva dato
vita all'idealismo platonico; né egli sapeva concepire altra filosofia che sul
tipo di quell'idealismo, e quasi frammento di esso. Quindi tutto il resto della
sua Introduzione, prima di quel rapidissimo schizzo dell'Enciclopedia hegeliana
che forma la seconda parte del volume, è tutta una polemica per determinare il
concetto della filosofia, come scienza delle idee, e il metodo di essa, che
all'organismo delle idee non può adeguarsi se non mercé la dialettica. Tutto 1'
itine-rario, adunque, consiste nel mettersi dentro alla verità, fin da
principio, e difenderla contro gli errori. Ma se la filosofia per Platone
e pel mistico era pura contemplazione, parrebbe che il Vera ne avesse un
concetto assai più profondo e nuovo, dove sostiene che essa è non solo una
spiegazione della realtà (inten-dendo per spiegazione la contemplazione appunto
di tutto il reale in idea), ma « anche e per ciò stesso, una crea -
zione": e una creazione, com'egli dice, nel solo e vero senso
del termine»!. Ma dal detto al fatto corre8ran tratto; e quando deve
realmente concepire questa creazione che dice di concepire, la cosa non gli
riesce; perché tutto si riduce a dire che le essenze, l'assoluto, le idee sono
eterne, e che di creato e generato non v'è se non i fenomeni, le esistenze
particolari e finite; le quali sono create appunto, dall'assoluto, che ne è la
ragion d'essere; e che la filosofia, se ha per oggetto l'assoluto, deve non
solo sapere come l'assoluto genera le esistenze particolari e finite, ma deve
in certo modo (d'une certaine façon»!) generarle essa stessa, perché, se non si
vuol negare la scienza, bisogna ammettere «qu' il y a un point où la
connaissance et l'être, la pensée et son objet coincident et se confondenti.
Bisogna ammettere; ma è questo il punto: hoc opus! E il Vera si sente tanto
poco di superate questo punto, che passa subito a intendere la creazione in un
altro modo: nel senso cioè che la scienza, elevandosi all'assoluto e cogliendo
la natura intima degli esseri, elle refait et dédouble en quelque sorte leur
existence». Sicché, «d'une certaine façon » prima, e «en quelque sorte »
poi: e la creazione vera e propria «nell'unico senso del ter-mine» non si vede
e non si tocca mai. Giacché, se c' è duplicità tra il processo dall'assoluto al
relativo e il processo dalla conoscenza dello assoluto alla conoscenza del
relativo, il due non è uno, e non solo si rinunzia alla creazione delle cose
per tenersi soltanto alla cognizione delle cose, ma pare anche si abbia una
certa voglia di tinunziare altresi a quell'unità del sapere e dell'essere,
senza di cui pur s'intravvede non essere vero sapere. Conchiusione
innanzi alla quale si ritira sgomento il pensiero del nuovo hegeliano. Egli
infatti, a questo punto, per garentire il carattere creativo della cognizione
assoluta sottraendola a quell'ombra che sarebbe per lei quel doppio, contorce e
trae a un significato improprio la dottrina hegeliana del rapporto della natura
con lo spi-rito. La vera creazione, egli dice, non è quella che dal-l'assoluto
va al particolare delle esistenze finite. Perché la natura, considerata in se
stessa e indipendentemente dallo spirito, è un'esistenza morta, priva di
coscienza e di pensiero, un aggregato di elementi e forze individuali e
isolate, che non hanno in se stesse il loro legame, il loro principio e il loro
fine; e lo spirito stesso ne' suoi gradi inferiori, per cui è a contatto della
natura, in quella sua vita oscura e irriflessa in cui s'ignora e mescola e
confonde tutto, e si lascia avvolgere nell'infinita varietà dei fenomeni e
delle sensazioni, ha un'esistenza imperfetta, « che non risponde né all'idea
della scienza, né a quella dell'assoluto». Ora questa imperfezione sparisce per
opera della scienza, la quale « completa e rifa l'esistenza della natura e
dello spirito, elevandoli, con la riflessione e col pensiero, fino al loro
principio, dando loro la coscienza di se medesimi e ordinandoli secondo la
ragione. 1. Se non che, questo processo dall' imperfetto al perfetto,
dalla natura allo spirito, e dai gradi inferiori di questo ai gradi superiori,
in Hegel è, e non può essere altro che un processo ontologico, il processo
dall'assoluto alla coscienza dell'assoluto, o dalla idea logica allo spirito
as-soluto. Ma, per intendere qui la creatività di questa scienza che rifà, noi
dovremmo ritornare sul processo stesso e ripercorrerlo, secondo la concezione
del Vera. Chi gli garentisce che il secondo viaggio non sia inutile, e serva
anch'esso a creare qualche cosa? Perché il processo gnoseologico creasse
davvero, non dovrebbe rifare l'ontologico, mettendosi fuori di esso, come altro
da esso, ma fare, semplicemente, continuando quell'identico processo; e la
scienza non dovrebbe guardarsi indietro. V. non ha quest'orientamento. Il
suo assoluto è dietro le sue spalle; ed è necessario che egli si rivolti.Con la
scienza si corregge il fatto e la realtà materiale, con una specie di creazione
continua, « per cui l'assoluto entra più profondamente nella vita del mondo per
imprimervi una impronta sempre più visibile di se stesso, e farlo sempre più a
sua immagine». Egli è persuaso che « sans doute, l'absolu et le monde, l'idée
et le fail, la pensée et sa réalisation matérielle demeureront fowjours
distinels, et même, dans une certaine mesure, opposés » 1, L'Assoluto è prima
del mondo, che deve rassomigliarvisi; deve e non può, pei limiti della materia,
al di sopra della quale lo spirito si solleva, per riunirsi alla sua origine
ideale. E la vecchia posizione platonica. L'essenza, inconoscibile
nel Problème de la cer-titude, ora per definizione è conoscibile. E un
progresso questo? Quella scepsi conteneva un bisogno e un'affer-mazione: quel
bisogno e quell'affermazione che minavano da secoli l'universale astratto della
filosofia greca, e che dopo Hume dovevano far nascere la critica di Kant: la
realtà non si coglie con idee astratte; cento talleri si possono pensare
benissimo senza che perciò esistano. Che cosa manca loro? Cartesio aveva
trovata la via: cogito ergo sum: un ergo che non è sillogismo, che non muove da
idee, da quegli universali, in cui ancora V. faceva consistere l'assoluto. E si domandava:
se di ogni essere c'è un'idea corrispondente, ne segue che quella idea sia la
sua essenza? O c'è, oltre l'idea, « un'esistenza più alta e più profonda di cui
l'idea non sarebbe se non la forma, una forza di cui la natura intima ci
sfugge, e che avrebbe la sua radice nell'essenza divina, o che, per dir meglio,
non sarebbe altro che quest'essenza stessa?». Questa era la dottrina sua del
1845. - Ora la sua risposta suona il contrario; e la ragione che gliha fatto cangiare
avviso è questa: che ove si ammetta un'essenza di là dall'idea, quest'altro
quid non è pensabile se non per mezzo di idee. Ma la verità è che, non avendo
egli prima approfondito, attraverso Kant (che non aveva letto), il significato
della esigenza a cui obbediva il suo scetticismo, ora è di troppo facile
contenta-tura; togliendosi per essenza appunto quello che come mera idea gli
appariva una volta ben altra cosa dall'es-senza, e rinunziando di fatto
all'essenza più preziosa, che allora desiderava. E che? dice ora per
consolarsi, facendo il verso al Socrate di Platone: « quando studiamo l'anima,
non tale anima in particolare, ma l'anima in generale noi vogliamo conoscere,
né crediamo di possedere la scienza dell'anima se non quando possediamo cotesta
conoscenza»*: come se con l'anima in generale ci fosse, o ci potesse essere
un'anima! Giacché il destino curioso di questo hegelismo veriano, come del
platonismo, è proprio questo: che queste idee che son tutto, poi non sono
niente: e pel Vera rimangono come abbiamo visto assolute possibilità o
virtualità. Ma come con un tal concetto dell'idea, che non è Thathandlung
dell' Io (per usare la gran parola di Fichte), ma termine esterno o eterno
presupposto del pensiero, può egli ammettere una dialettica nel senso
hegeliano? Sorvoliamo sui rapporti che il Vera vede tra la dialettica di
Hegel e quella di Platone; e tocchiamo brevissimamente del suo modo d'
intendere la prima nell'Introduction e nelle opere posteriori. Qui è il centro
del suo hegelismo. In tutti i suoi seritti, se si paragonano a
quell'articolo del 48, che abbiamo altra volta analizzato, non c'è pro-gresso,
ma sempre un medesimo concetto che torna su se stesso, si rafferma sempre
maggiormente e si ribadisce. Li egli saltò il fosso, sembratogli già
abisso invalicabile,affermando, come vedemmo, la posizione, innanzi al
pensiero, non dei contrari singolarmente presi in astratto, ma della loro
unità. Nella Introduction dice che, se i membri della contraddizione presi
separatamente sono incompleti e falsi, si contraddicono in quanto sono in
rapporto tra loro mediante un terzo termine, che « non è nessuno di essi presi
sia separatamente sia congiunta-mente, ma è tutto insieme se stesso e i due
termini che esso involgen 1, sicché « l'essere e il non-essere si trovano
identici nel divenire n. Posti cosi l'essere e il non-essere, e in generale
tesi e antitesi, non come momenti, ma come elementi della sintesi, ci può
essere quel movimento soggettivo, che già illustrammo: ma oggettivamente c' è
la sintesi, stabile e fissa, identica a se stessa. Dei tre termini, idea
logica, natura e spirito, la realtà appartiene al terzo termine, che contiene
nel suo seno fin dal principio gli altri due: e dentro lo spirito ogni triade
non avendo mai una tesi, da cui sia da sviluppare un'anti-tesi, è come un fiume
dipinto, la cui acqua non scorre. Tutto il congegno del movimento è
arrestato da un pensiero intuitivo che impietra l'oggetto suo. Quasi
tutti gli hegeliani s'erano travagliati e si travagliavano nell'intelligenza
del dialettismo dell'idea hegeliana. Vedremo quali sforzi costasse questo punto
a Bertrando Spaventa. A V., quand'ebbe pensato che essere e non essere fanno
uno nel divenire, il passaggio dall'uno all'altro apparve cosi ovvio, così
semplice, che nulla più (infatti era un passaggio che non passava!). A
proposito delle critiche del Janet: « Il fant voir », diceva tutto
meravigliato, «dans quel dédale inestricable de rai-sonnements M. Janet
s'engage à cet égard, sans se rendre compte ni du point de départ ni du point
d'arrivée».era dimenticato, a quel che pare, del suo labirinto del 1845).
L'essere, che è il termine più astratto, da cui il pensiero possa muovere, non
è se non l'essere: e tutto ciò che si può dire di esso è, che esso è. E anche
dicendo questo, non si rappresenta il suo concetto secondo verità; perché
il pronome e la terza persona vi aggiungono elementi e gli danno una forma che
gli sono estranei, e appartengono a determinazioni ulteriori dell'idea. Peggio
poi se vi s' introduce il concetto del vuoto, come ha fatto l'Erdmann, o pure
il pensiero, come ha fatto Kuno Fischera. Qui noi siamo nella sfera della
scienza, e l'essere è colto dal pensiero tal quale è nel suo concetto.
L'essere è nel pensiero, è l'essere pensato, ma il pensiero, per coglierlo nel
suo vero concetto, deve pensarlo qui come essere e non come pensiero, perché,
pensandolo come essere pensato, vi aggiunge un elemento o una proprietà, che
esso, in quanto essere, non ha. Con quest'aggiunta si facilita la
dimostrazione, ma non si ha più la vera dimostrazione. L'essere non è altro che
l'es-sere, l'essere assolutamente indeterminato, e però non si può dire neanche
che esso è, e per ciò stesso non è, o è il non-essere. Ora l'essere che non è,
o che è il non- essere, è anche il non-essere che è, ossia è il
divenire. * E la dimostrazione più semplice, più diretta e più vera del
passaggio dall'essere al non essere nella loro unità, il divenire »3.
Dimostrazione, la cui ingenuità salta agli (Si —occhi; perché mentre si dice
che all'essere non si deve aggiungere il pensiero, si fa divenire l'essere
mettendoci dentro questo pensiero: che non si possa né anche dire che esso sia,
- Nella introduzione alla Logica * (1859) aveva detto: « L'essere puro è
l'essere, ma l'essere che non è se non l'essere, e che, per questo fatto che
non è se non l'essere, richiama il non-essere, o il non-essere dell'essere, o,
se si vuole, ciò che l'essere non e.... In altri termini, i due concetti di
essere e non-essere sono inse-parabili: dato l'uno, è dato anche l'altro, e
quel che è uno, è l'altro. Formano, per conseguenza, un solo e stesso concetto,
e questo concetto è il divenire ». Dove di chiaro non c'è se non l'unità del
divenire; ma quell'essere che si tira dietro il non-essere, anch'esso, come
l'altro di prima, non può farlo se non aiutato dal pensiero, che lo mette in
rapporto con quel che esso non è. - In una nota al § 87 della Logica in altra
forma ripete lo stesso. « L'essere che non è se non l'essere, è l'essere
assolutamente indeterminato, e per quanto è permesso di far intervenire qui la
possibilità e la cosa, si potrebbe dire che esso è la possibilità assoluta di
tutte le cose, ma che non è nessuna cosa, non è niente; e che quindi è il
niente, il non-essere », Se non che qui ha un vago sentore di certe difficoltà;
ma non le affisa di fronte, e se ne lascia sfuggire tutto il valore. In primo
luogo egli si obbietta: Altro è dire che l'essere non è niente, altro dire che
è il niente. Cioè la prima volta si nega dell'essere ogni determinazione;
la seconda lo stesso essere indeterminato. Ma il Vera non intende la cosa con
tutto questo rigore, perché risponde che « qui si tratta del niente
assolutamente astratto, o, se si vuole, del niente assoluto; di guisa che dire
l'es-sere non è niente, torna lo stesso che dire: l'essere è niente o il
niente. Il che non è vero, evidentemente. L'assolu- tamente astratto, il
niente, di cui si parla qui, è il non - determinato, non già il
non-indetermi-nato!. - In secondo luogo: questo niente, questa negazione prima
e assolutamente astratta non Viene qui ad aggiungersi all'essere,
dal di fuori? - E anche qui una risposta insufficiente: « Il niente non è se
non il niente dell'essere: il non essere. E l'essere che si nega egli stesso
». La risposta può avere un significato solo a un patto: che s'intenda il
non-essere come non-essere dell'essere, in quanto il concetto dell'essere non
può prescindere (come fu detto nell' Introduction) dal concetto del non-
essere; e che cioè il divenire è prima dell'essere e del non-essere. L'essere,
insisteva contro il Trendelen-burg, passa nel non-essere perché non è altro che
essere, per la sua assoluta indeterminatezza e astrattezza: e nella massima
astrattezza dell'essere e della sua negazione sta la difficoltà del passaggio.
« Via via che si procede nell'evoluzione dell'idea, si coglie più facilmente il
passaggio reciproco dei termini, perché si hanno termini più concreti, come lo
stesso e l'altro, l'uno e il più, la causa e l'effetto, ecc., tra i quali si
trova più facilmente un rapporto, laddove al principio non si ha se non
l'essere ». Questa è certamente la via da battere per afferrare il senso
segreto della dialettica hegeliana: la quale, ormai è chiaro, malgrado le
proteste dei semplicisti alla maniera del Vera 3, non pervenne in Hegel alla
chiaracoscienza della propria natura, come è dimostrato dal ginepraio, in cui
si son trovati involti i suoi seguaci. Ma quella è una via che non spunta, o
meglio riconduce alla vecchia filosofia da cui si crede di allontanarsi, se non
si bada bene a considerare che non è via già bella e fatta innanzi al pensiero,
e che al pensiero non resti se non di percorrere, ma è la via del pensiero, la
via che esso si apre e che prolunga in eterno. Essere e non-essere sono
identici (e differenti) nel divenire; ma il divenire non è niente più
dell'essere che si pretende di superare, se esso stesso rimane di fronte al
pensiero, e non è appunto esso il pensiero che ha negato l'essere. Perché il
divenire non ha da essere giustapposizione de due momenti, ma compenetrazione e
unità intima: la quale non è cosa, ma atto: non è termine di pensiero, ma
pensiero; non è punto a cui il pensiero pervenga e da cui poi debba muovere, ma
lo stesso movimento del pensiero; non è limite, ma posizione di limite, e opera
dell' illimitato. Se il divenire si vuol concepire come l'organismo, di cui
essere e non-es-sere siano le membra indivisibili, ebbene, si badi che
l'organismo non è il corpo che la vita debba investire o con cui debba
accoppiarsi: l'organismo in tale astrattezza esanime non vale né più né meno di
un membro avulso dal resto: è la morte. L'organismo è organizzazione continua e
attualità, è anima, che crea gli organi. E così il divenire, se dev'essere la
risoluzione vera degli opposti, dev'essere pure l'energia creatrice di essi:
cioè, come di- cevo, il pensiero.Non basta perciò dire rapporto,
anteriore ai termini: bisogna concepire questo rapporto come rapporto
vivo. E dalla logica movendo, come fa il Vera, per la natura allo
spirito, non basta dire, com'egli dice, coerentemente alla sua intuizione del
mondo hegeliano che a c'est l'esprit lui-même, ou l'idée en tant qu'esprit, qui
pose la logique et la nature»t; e che «la pensée (= l'esprit) est l' idée
active et creatrice»; e che questa attività non è l'activité qui crée
accidentellement, ni l'activité qui crée hors d'elle-même un monde antre
qu'elle-même, mais L'activité qui crée au dedans d'elle-même, qui crée un monde
qui n'est pas autre qu'elle-même, mais l'autre d'elle-même, si l'on peut ainsi
s'exprimer, et qui crée pour être elle-même, c'est-á-dire pour être dans la
plénitude de sa nature et de sa réalité»: bisogna che questo non sia soltanto
il pensiero in sé, il pensiero che pensa se stesso, di cui parla Aristotele, il
pensiero divino: ma appunto il nostro stesso pensiero, tanto più divino quanto
più nostro, colto nella realtà massima della nostra intima soggettività e
indivi-dualità, dove più vibra l'attualità del mondo. E perché questo pensiero
sia davvero il pensiero vivo, esso appunto bisogna che divenga, e si muova, e
viva insomma, e vibri, e in esso vibri il mondo: e che non rappresenti il
termine fisso d'ogni desio, la morta gora ove precipiti ogni acqua corrente
dell'universo. Che se col Vera si dice "tout devient hormis la
pensée, et tout devient parce qu' il n'est pas la pensée, et pour devenir
pensée, el exister en tant que pensée»3, questo pensiero diventa qualche cosa
di trascendente il pensiero storico e il mondo, e però assolutamente
trascendente; e quindi il suo stesso processo ideale (posizione e negazione del
logo e della naturaper la posizione di se medesimo) diventa tutto un processo
trascendente, come la processione dello spirito nella teologia cristiana; e
tutto l' immanentismo di Hegel sfuma, e la sua dialettica s'irrigidisce nel
mondo ideale, di là da ogni reale accadimento, e concepito ancora una volta,
alla maniera del vecchio Platone, come natura (ancorché ideale) e non più come
spirito. Il Vera vi dirà in tanti modi diversi, perché messo sull'avviso da
tante esigenze interne dell' hegelismo, che «ce qui devient n'est pas étranger
à la pensée» e che « il faut même dire que c'est la pensée qui pose son
devenir, et que, s' il devient, c'est précisément que la pensée est en lui». Ma
distinguerà allora tra pensiero in potenza e pensiero in attor e il pensiero
immanente nel mondo lo portà come pensiero virtuale («sculement la pensée n'est
en lui que virtuellements). Tal quale è concepito il pensiero da
Aristotele. « Tout se ment en vue de la pensée, et tout est má par la pensée».
Il pensiero è il motore immoto. Perché il pensiero « atto assoluto» è unità
d'intelligenza e intelligibile, come totalità dell'idea una e
sistematica. Due, dunque, i difetti capitalissimi di questa dialet-tica,
a cui si solleva V.: 1) che il pensiero, e nel pensiero tutto il processo del
reale nelle sue forme ideali o intelligibili che aristotelicamente il Vera è
costretto a inchiudere nel pensiero stesso, è un pensiero trascendente, il cui
processo pertanto è egualmente trascendente; 2) che, come trascendente,
cotesto processo è un processo ideale senza essere un processo reale; non è un
vero processo. Due difetti che sono un solo: la negazione pura e semplice della
dialettica hegeliana, sfuggita dal mondo, di sopra alla testa del filosofo.38.
- Situazione disperante per una filosofia che avesse mirato alla comprensione
della realtà determinata, attuale, storica, del sistema, insomma, in cui è il
soggetto artefice della filosofia, anzi dello stesso mondo nel sistema di esso
soggetto; ma il più comodo dei piani inclinati in cui potesse scivolare un
temperamento mistico, portato perciò stesso alla negazione di ogni
determinatezza e della propria concreta individualità. E allora s' intende da
una parte il vuoto di tutte le discussioni di Augusto Vera intorno ai
problemi storici e concreti: esempi solenni le sue lezioni di filosofia della
storia, uno dei libri più flosci e vacui, che si siano mai pubblicati, pur
essendovi gettati dentro, come in un sacco, taluni dei più forti pensieri che
siano stati mai pensati, ma tolti dal sistema e dall'anima che li regge nella
mente poderosa di Hegel; nonché quella lunga filatessa che reca il titolo di
Cavour e libera Chiesa in libero Stato, con annessa prefazione, apparsa la
prima volta nella traduzione francese, la più strana discussione che si possa
immagi-nare: rivolta a combattere il pensiero d'un uomo e un uomo e un sistema
e tutta la storia d'un popolo, il tutto speculato dentro una formola (libera
Chiesa ecc.), quando il più elementare buon senso richiedeva che si
cercasse com'era nata quella formula, nel pensiero dell'uomo, nelle
circostanze e dottrine che all'uomo l'avevan sug-gerita, e quali problemi,
dentro quali limiti, essa mirava a risolvere, e insomma quale ne era il proprio
e genuino e determinato significato. Perché egli è chiaro che l'intelligenza
del Vera era la più antistorica e antibegeliana che ci potesse essere. E
s'intende d'altra parte il segreto motivo della preminente importanza da lui
attribuita alla questione religiosa e quel suo perpetuo bisogno di rifarsi da
essa, quantunque la filosofia che aveva alle mani non gli desse modo di
ottenerne una soluzione per lui molto soddisfacente.Egli è che al Vera, come a tutti
i mistici, il mondo restava scisso in due mondi: uno dei quali non era il suo,
e (ahimé!) era tutto. In fondo alla lunga introduzione premessa al primo volume
della Filosofia della religione, dopo centocinquanta pagine di schiarimenti,
sentiva che gli si sarebbe potuto opporre: - Voi dite che il pensiero è
l'assoluto, e che come tale è il principio supremo e ge-neratore delle cose.
Sicché, tutte le cose saranno pensieri. Intanto, riconoscete anche voi
che c'è qualche altra cosa oltre i pensieri, poiché parlate di
rappresentazione, fenomeno, natura e spirito finito. Questa qualche altra cosa,
avrà essa un altro principio? E com' è che l'asso-luto non basta a se stesso? E
come conciliate l'idea o il pensiero con la storia? « La storia è moto,
sviluppo, trasformazione, laddove l'idea, il pensiero, l'assoluto è l'assoluto
precisamente perché esclude ogni trasformazione ogni cangiamento, ogni
divenire. Infine voi dite che l'idea è insieme forma e contenuto. E sta bene.
Ma l'idea sarà sempre un contenuto ideale, laddove il contenuto che la storia
sviluppa e aggiunge incessantemente a se stessa è un contenuto sensibile,
fenomenico, reale. Cosi ci sono due mondi....». Obbiezioni che colpivano
in pieno petto. Ebbene, risponde il Vera, noi in parte abbiamo
risposto a queste obbiezioni; ma le ripiglieremo e le esamineremo nei
volumi seguenti, che trattano più specialmente delle questioni a cui queste
obbiezioni si riferiscono, e che si possono in generale designare come il
problema storico. - Ma nel secondo volume il problema è appena accennato; gli
altri volumi non vennero più; e li dove il problema è accennato, la soluzione
non è una soluzione, e lascia intatto il problema. Nous disons que si
l'absolu est le devenir, il n'y a ni histoire ni absolu, si l'histoire n'est
pas un moment de l'absolu lui-même. Par consequent notre thèse est que
l'histoire est un moment de l'absolu, mais qu'elle n'est qu'un moment, et
qu'ainsi pendant que d'un côté, l'absolu crée et engendre l'histoire, et qu'il
est lui-même dans la création et l'histoire, il s'élève, de l'autre, au-dessus
de l'histoire, la nie, il est la negativité absolue...... Dove l'unico
senso possibile è quello aristotelico già indicato, che è in realtà la
negazione della storia: per cui cioe l'atto assoluto del pensiero è di là dalla
storia. E però ogni volta che risorgeva questo problema storico, che il
Vera pur sapeva essere il segreto dell' hegelismo, era un tormento pel suo
povero cervello, rimasto in pre-senza di quel Dio pronto, peggio che Saturno, a
divo-rate le sue creature. Suo vero problema non era quello storico,
bensi il religioso. Il suo hegelismo era cominciato, come s'e visto, con uno
studio sulla Filosofia della religione di Hegel, quando non gli pareva
possibile concepire altri-menti lo Stato che subordinato al divino della
religione professata nella Chiesa 3, E quando con la Filosofia dello spirito
ebbe condotta a termine la versione dell' Enci-clopedia, le ultime pagine di
questa Filosofia lo ricon-dussero a meditare il problema religioso secondo la
filo-sofia hegeliana. E allora scrisse il Cavour, lo Strauss, e la prefazione
all'edizione francese del Cavour; e si accinse a lavorare attorno alla
Filosofia della religione di Hegel, che, pubblicandone il primo volume,
annunziava di voler accompagnare de plusieures introductions. Poiché qui si
imbatteva in un arduo pro-blema: in cui egli disse di veder chiaro, ma di cui
parlò tanto da dimostrare che non ci vedeva poi tutta quellachiarezza che
diceva: il problema dei rapporti tra religione e filosofia: «un des problèmes
les plus difficiles », come protesto una volta con tutta franchezza, «
peut-être même le problème le plus difficile que l'intelligence trouve devant
elle, ou, pour mieux dire, en elle-même et dans les profondeurs de sa nature
». La soluzione hegeliana, infatti, si presenta tutt'altro che facile.
Dire che la religione e la filosofia hanno lo stesso contenuto (conoscenza
dell'assoluto) ma in una forma diversa (conoscendo l'una per rappresentazioni,
miti, simboli, e l'altra per concetti) è porre anzi che risolvere un problema
per una filosofia che non concepisce forma separabile dal contenuto, e non può
porre perciò un contenuto in due forme. Questo bensi non è un problema speciale
in seno allo hegelismo: ma sempre quello stesso problema che s'incontra già
sulla soglia, dell'unità di identità e differenza implicita nel concetto del
dive-nire. La forma della religione hegeliana non è una veste soggettiva, onde
nell'anima degl' ignoranti si rivesta Iddio: è una forma dello stesso Dio. Il
Dio dello spirito assoluto, che è religione, diviene il Dio dello spirito
assoluto che è filosofia. Il rapporto tra religione e filosofia è il rapporto
tra questi due momenti di Dio o dello spirito assoluto. Come si passa da un
momento all'altro ? O, in generale, come si passa? Ecco il problema. E il
povero Vera che non era venuto a capo di questo pro-blema, se lo ritrovava
avanti in fondo all'Enciclopedia; e per pronto che fosse a sobbarcarsi a
svelare altrui l'enigma, badava a ripetere: « Sans donte, déterminer, saisir
l'idée de la religion, et la saisir à la fois en elle-même, et dans son rapport
avec l'idée de la philosophie, c'est le problème le plus ardu peut-être qui
s'ofre à notre intelligence». E dopo le molte pagine spese attorno a questa
difficoltà nel primo volume della Filosofia della religione, passandosi una
mano sul petto, confessava:C'est celle difficulté que je me suis appliqué à
lever.... L'ai-je complètement levée? Eh non! je le sais». Gli si
affacciava alla mente, a confortarlo, quella bella e comoda idea che non si può
ai non-hegeliani togliere le difficoltà di Hegel. E accennava anche ciò; ma
soggiungeva subito con una osservazione che è una rivelazione intima: « On peut
même dire qu'il est impossible de la lever [cette diffi-culté] complètement
dans un livre. Un livre est toujours une ouvre imparfaite. C'est plus ou moins
la lettre, ce n'est pas l'esprit. Un livre a toujours besoin d'être complété et
vivifié.... 1. Osservazione, che è forse anche una reminiscenza dell'immortale
discorso di Socrate nel Fedros ma è pure la sincera confessione del personal
sentimento dello autore analogo a quello del poeta: Ahi, fu una nota del
poema eterno Quel ch'io sentiva, e picciol verso or e: quel
sentimento appunto del mistico che non vede proporzione tra il picciol verso e
il poema eterno, e questo gli suona dentro come ineffabile; e se gli apparisce
sotto forma di problema, è un problema senza soluzione. Se la filosofia,
infatti, è pensiero assoluto, se questo è di là dal divenire, qual uomo mortale
che ad ora ad ora viene imparando a meglio pensare avrà la tracotanza di
pre-tendersi in possesso di quel sistema dentro il quale sarebbe la soluzione?
Ora è chiaro che in questa situazione di spirito la filosofia, in quanto
filosofia negativa o dimostrazione dell'impossibilità di raggiungere l'assoluta
cono-scenza, non può menare ad altra soluzione del problema religioso che a
quella direttamente opposta professata da Hegel. Di tale soluzione, non occorre
dirlo, il Vera non farà mai esplicita asserzione, non essendo tale il suo
atteggiamento mentale verso la dottrina di Hegelda permettergli di questi
aperti dissensi; ma non perciò essa sarà meno la base di tutti i suoi
ragionamenti intorno alla questione religiosa, e il centro della sua vita
spirituale. Particolarmente significativa in questo proposito l'ultima
lettera da lui scritta al suo diletto Mariano, prima di morire: Se al
vostro ritorno [gli scriveva] la Parca fatale avrà troncato il filo della mia
vita, io me ne sarò andato col dolce pensiero che la mia immagine, e piú della
mia immagine, il mio insegnamento mai non si cancellerà dalla vostra memoria.
Perché credo che il mio insegnamento sia la vera e genuina esposizione della
dottrina hegeliana. E la filosofia hegeliana è la sola e vera filosofia; e lo è
anzitutto, perché è essenzialmente reli-giosa, e religiosa nel senso profondo
della dottrina cristiana. Ed è questo tratto saliente che la distingue da
tutte le altre filosofie, che a lei mi attiro sin dai primi passi della mia
carriera filosofica, come ne fa fede uno scritto pubblicato, se ben ricordo, nella Liberté de penser. Ed anche il Cavour
non ha altra origine. Perché io sono, e sono sempre stato, e per indole e per
riflessione, un uomo religioso. E la religione io ho sempre considerata come
uno dei più alti privilegi della natura nostra. Senza di essa l'uomo è un
essere degradato e miserabile. E la dottrina hegeliana insegna ad amare ed
adorare Iddio col cuore e con la mente, due cose che in una anima bene
equilibrata non si esclu-dono, anzi si compiono a vicenda. E da questa via,
caro Mariano, non vi scostate. Solo in essa troverete e conforto e la forza per
traversare questa vita si ripiena di disinganni e di amarezze. Perché
Iddio é il sommo e il solo bene, onde, vivendo col cuore e con la mente e con
tutto l'esser nostro con lui e in lui, diventiamo partecipi delle sue eterne ed
immortali perfezioni 3. Ora la filosofia hegeliana è sì una filosofia
essenzialmente religiosa, ma appunto in quanto risolve in sé la religione, ed è
religione: si concepisce come la rivela-zione, anzi realizzazione di Dio; e
nella unità sua di sapere e saputo, concepisce tutto il suo mondo, in tutti
isuoi gradi, come rivelazione o realizzazione di Dio: onde, mediando Dio,
supera l'immediatezza propria della religione come tale (insufficiente
coscienza che lo spirito, secondo la dottrina hegeliana, avrebbe della propria
natura, e però del reale assoluto), e non lascia posto per lei, in quanto
religione pura (in quanto non fi-losofia) in nessuna parte del suo mondo. Il
mondo hegeliano, d'altra parte, non è soltanto il mondo della filosofia, in cui
tutti i gradi anteriori siano già risoluti. Una tale filosofia sarebbe
astratta e trascendente. La sua concretezza importa, quel che il Vera non poté
vedere, il suo eterno divenire, ossia l'eterno risolversi degli altri gradi in
questo grado supremo del processo dialettico della realtà. Di guisa che la
filosofia hegeliana è portata a concepire tutto ciò che non è filosofia e la
stessa religione come momento necessario di se medesima: e in questo senso, a
concepire razionale tutto il reale. La religione come tale è conservata dallo
hegelismo, ma dichiarata momento della filosofia, e quindi subordinata, nella
filo-sofia, a questa. Sit viva, dum non sit diva. Pertanto il filosofo
hegeliano: 1) ha la sua religione nella sua filosofia; 2) riconosce che
ognuno, di qua dallo hegelismo, ha la propria religione nella sua filosofia, o
la filosofia nella propria religione. Le questioni adunque in cui si
travagliò il Vera, se nella vita delle nazioni ci sia nulla che possa
sostituire la religione (ed egli era d'avviso che non ci fosse nulla, né la
scienza, né la filosofia) *: se la Chiesa debba essere subordinata allo Stato,
o lo Stato alla Chiesa, o se debbano separarsi (ed egli inclinava alla seconda
ipotesi, benché non sapesse poi concepire il come della subordi-nazione, né
determinare la Chiesa a cui lo Stato si sarebbedovuto subordinare) *; queste e
simili questioni sono questioni suscettibili, nello hegelismo, di una sola
solu-zione, che è quella derivante dal concetto filosofico hegeliano della
manifestazione mediata di Dio in tutto il reale e in sommo grado nella
filosofia; ma anche di infinite soluzioni per tutti coloro, che non essendo
hegeliani aspirano soltanto, secondo l'hegelismo, a esser tali, quantunque non
lo sappiano. Ma è pur chiaro che se la verità dell' hegelismo deve valere per
lui come la sola verità, egli non potrà non combattere le soluzioni diverse dalla
sua, ossia tutte le altre filosofie in quanto vogliano passare per filosofia, e
dominare. Il filosofo hegeliano non solo rispetterà tutte le credenze
religiose, ma avrà interesse ad alimentarle come quel terreno da cui soltanto
essa potrà germogliare; così come entra negli interessi dello spirito, secondo
la sua filosofia, la cura della salute fisica. Le soluzioni del Vera
erano invece non per il dominio od autonomia della filosofia e di tutte le
forme spirituali che entrano nel mondo della filosofia, ma per la soggezione di
tutto alla religione: come di chi non ha la propria religione nella filosofia,
ma la propria filosofia nella religione. Egli, insomma, per usare il linguaggio
hegeliano, non si sollevò mai veramente dalla sfera della rappresentazione a
quella del concetto nello spirito assoluto. 4I. - Non si poteva
sollevare, pel suo radicale misti- cismo. Al quale non mi pare contrasti
la tesi presa a sostenere nella Introduction contro l'immortalità
dell'anima: onde la sua autorità d'interprete consumato dello hege-lismo
era opposta poi alla Florenzi Waddington, solatra gli hegeliani d'Italia a
propugnare il concetto dell'immortalità dell'anima. Giacché non è vero quello
che Kant e tutti i filosofi della religione naturale sosten-gono, che la credenza
nella immortalità sia un principio essenziale dello spirito religioso. Che anzi
la più profonda radice della religione, nel senso più stretto del misticismo, è
riposta nel senso della vanità e nullità dell'individuo, nella nichiltade
cantata così fervidamente da Jacopone, nell'aspirazione al nirvana bud-distico,
nell'affermazione della divinità sola; e non si capisce l'anima immortale se
non si concepisce la sostanzialità assoluta dell'io individuale, senza
riconoscere l'infinito nello stesso finito e insomma superare, come fa il
cristianesimo, l'astrattezza della religione imme-diata. Che anzi nella
incertezza del Vera nella Intro-duction circa l'interpretazione di questo punto
di dottrina in conseguenza dei principii hegeliani=, la sua pro-pensione verso
la tesi negativa non credo si possa altrimenti spiegare che con la sua tendenza
generale a negare il finito nell'infinito, e il pensiero dell'uomo e lo spirito
individuale nel divino. Alla stessa tendenza riporterei anche l'interesse
da lui posto nella questione dell'abolizione della pena di morte, che a lui non
si presentava tanto, come ad Hegel, come una conseguenza ferrea della
dialettica della legge, che non si può volere disvolendola, e da accettare
virilmente come il taglio del chirurgo che arreca la vita, quanto una delle
parti più belle e più sante della filosofia della morte: poiché gli piacque
considerarla più come un diritto dello Stato sull'individuo colpevole che come
un logico momento del diritto, in cui si realizza la vita dello Stato insieme e
dello stesso individuo, che ne è parte. E però ricondusse la legittimità della
pena di morte a una questione più generale: della razionalità della morte
inflitta dallo Stato; passando quindi a quella del diritto che lo Stato ha di
far guerra. E scioglieva appassionati inni alla guerra, che fa sentire ai
popoli quel che valgono e quel che possono operare, dà loro la coscienza dei
propri diritti, sveglia tutte le energie dello spirito, è stromento di civiltà
e di progresso: alla guerra, dove l'uomo non muore per sé, ma per la patria e
per l'umanità, e la morte adempie a un più alto ufficio e raggiunge più alti
fini della semplice morte naturale: poiché in essaL'individuo si sacrifica non
ai fini naturali della specie, sì a quelli morali della civiltà. E in generale,
sempre, « la morte è un bene, ora per l'individuo, ora per l'uma-nità; per
l'individuo anche se tutto egli perisce con la morte: perché se la morte lo
colpisce nella vecchiaia, lo colpisce quando la sua vita non ha più pregio né
per lui né per gli altri; e se lo coglie nel vigor degli anni, essa lo eleva
nello stesso istante al più alto grado della libertà e dell'amore. Ma sopra
tutto per l'umanità la morte è un bene, sempre un bene. Infatti, la gioventù,
la bellezza, la potenza, l'espansione dello Spirito suppongono la morte:
dell'individuo, come dei popoli: giacché lo Spirito non si conserva, non si
rafforza, non cresce che per la morte. L'individuo, per potenti che siano le sue
facoltà, è uno spirito limitato pel solo fatto che vive in organi limitati;
ond'è che, dopo aver con-tribuito, per la sua parte, allo svolgimento e alla
vita dello Spirito, non pure ei diviene un ostacolo a nuovi svolgimenti, ma
s'abbandona egli stesso, se può dirsi cosi: ciò che v' ha di profondo e di
eterno nel suo pensiero gli sfugge, e cade come colpito d'atonia e
d'impotenza. E quel che è vero per l'individuo, è vero altresi per i popoli.
Cosi la Grecia e Roma, dopo aver elevato il mondo antico alla più alta civiltà,
diventano un ostacolo alla civiltà nuova. - Bisogna dunque che la morte,
affrancando lo Spirito dai lacci della Natura, gli permetta di vivere una vita
sempre giovane e sempre nuova, e d'in-nestare sull'antico lo spirito nuovo.
Cosi si spiega perché l'individuo cresce dopo la morte nella coscienza
dell'u-manità, e perché la morte è considerata come la consacrazione dell'amore
e il segno della riconciliazione dello spirito. E infatti come la pace, che
viene dopo la guerra e la termina, la pace che è il risultato dell'esercizio di
tutte le potenze della vita, val meglio, checché se ne dica, di quella pace
artificiale che snerva e ammollisce il corpoe l'anima; così la morte, liberando
lo spirito dalle sue pastoie, fa brillare la verità eterna di cui egli era
l'organo d'un più vivo splendore, la rende più visibile agli altri spiriti, la
propaga e la fortifica con la loro adesione e trionfa così della natura »
1. Quest'argomento faceva il Vera eloquente, come corda che risuonava dal
profondo del suo animo. E altrove, cantando l'amore, a mo' di Platone, come
l'aspirazione allo Assoluto o filosofia, si riscaldava all' ispirazione
leo-pardiana di Amore e morte, facendo della morte « il segno, la consacrazione
e il trionfo dell'amore.:. E nella morte inflitta dallo Stato, vindice
dell'eterna giustizia dello Spirito, egli vedeva pertanto l'olocausto
dell'individuo sull'altare dello Spirito: poiché nell'individuo vedeva, come
testé ci ha detto, l'organo dello Spirito, ma non lo Spirito stesso, che come
tale non è individualità finita. 43. - Non era questa l'interpretazione
della filosofia hegeliana, che potesse concorrere al progresso del pensiero
speculativo. Ma è indubitabile che essa pure traeva alimento da uno di
quei forti amori dell'eterno e del divino, senza i quali lo spirito umano non
sarebbe a volta a volta distratto dagl' interessi mondani e spinto alla ricerca
filosofica. E per questo verso il Vera fu uno degli scrittori più vigorosi, più
sinceri, più alacri che ci siano stati in Italia negli ultimi tempi; e non
possiamo passare innanzi a lui senza inchinarci. Il suo fu un vano sforzo
di impadronirsi di quell'ideale di sistema, unità di religione e di filosofia,
che Hegel gli fece balenare alla mente: vano sopra tutto per mancato
orientamento nella storia della filosofia, dacui l' hegelismo aveva con stretta
possente voluto spremere il succo vitale. Perciò una costante meditazione di
trent'anni non valse a fargli superare definitivamente il punto di vista, da
cui nelle sue tesi di dottorato aveva
cominciato a combattere Hegel. Nell'ultimo suo scritto Dio secondo Platone,
Aristotele ed Hegel sentiva egli stesso di « tornare ai primi e quindi vecchi
amori, poiché l'argomento» che vi esaminava « non differisce in fondo da quello
trattato nell'opuscolo Platonis, Aristotelis el Hegeli de medio termino
doctrina», e prendeva di nuovo a studiarlo e svolgendo ed allargando la prima
tratta-zione, chiarendone e correggendone alcuni punti, e in tal senso
compiendola». Ma le correzioni non toccavano, in verità, la sostanza delle sue
giovanili speculazioni. Poiché egli ancora, come nel 1845, toglieva a
difendere la tesi che la filosofia muove da una fede; dalla fede
dell'intelligenza in se stessa; dalla fede nella conoscenza; nella conoscenza
della verità; cioè dell'Assoluto o di Dio: dalla fede dell' Efesio: ady pi huntoy auniatow oin EfEupnGEL, aveEepeivntoy Eoy xoi
aopov. E se ora bensi diceva, che questa fede è l'alfa della scienza e la
sola possibilità di essa, la scienza, pur troppo, non seguiva. Lo
scritto, condotto innanzi fino al punto in cui ancora una volta il filosofo
stanco si ritrovava innanzi al problema della differenza tra religione e
filosofia, si arre- stava, troncato dalla morte.Augusto Vera. Vera.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Vera” – The Swimming-Pool Library.
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