Grice e Vigna: la ragione
conversazionale e la regola d’oro conversazionale – filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Rosolini). Essential Italian philosopher. Filosofo italiano. Studia filosofia
a Milano, legandosi in special modo all'insegnamento di BONTADINI (vide) e SEVERINO
(vide). Con SEVERINO si laurea con la tesi, ‘La logica dell'astratto – generale
-- e la logica del concreto – particolare’”. Insegna filosofia a Milano e Venezia.
Presidente della Società italiana di filosofia morale. Si occupa della
filosofia del lizio, o peripato, e di neo-idealismo italiano. Si concentra in
maniera speciale sull'ontologia, proponendo una ‘semantizzazione’ del concetto
di ‘essere’ capace di risolvere la aporia del “parmenidismo” (vide VELIA) di SEVERINO,
che in qualche modo grava anche sulla speculazione di BONTADINI. Questa
‘semantizzazione’ permette di leggere nel ‘divenire’ (“x divenne y”), non
l'annullamento dell'ESSERE (“x e y”), ma piuttosto l’annullamento di UN ENTE.
La differenza fondamentale è proprio quella che passa tra l’essere ‘assoluto’
che *non* diviene, e UN ente finito che comincia e cessa di essere – cfr.
Grice, relative identity in Geach and Myro, and his schema on becoming after
von Wrigt in “Actions and events.” Questa impostazione ha consentito di
raffinare ulteriormente il tema della mediazione metafisica che sfrutta e
compone la posizione necessaria della totalità di un essere con la posizione
della totalità molteplice e mutabile dell'esperienza. Insieme all’analisi
di ontologia, si sono svolte quelle di etica (bio-etica). L'etica è intesa
fondamentalmente come un’annalisi del desiderio o volere, il quale, a sua
volta, è fondamentalmente desiderio di un altro desiderio (“meta-desiderio”),
cioè poi di un altro essere umano – il co-conversazionalista B -- che ci
desideri e ci riconosca. L'etica e così ri-condotta alle dinamiche di una
relazione inter-soggettiva, che si puo descrivere secondo tre modelli basilari.
Il primo modello è il modello griceiano – ariskantiano -- quello regolativo per
l'etica. E quello in cui le soggettività si riconoscono reciprocamente come
delle soggettività, e cioè come delle persone o degl’esseri che pensano e
desiderano in modo trascendentale. Il secondo modello, piu primitive, è quello
trasgressivo della ragione istrumentale. Quello in cui le soggettività
confliggono e cercano di dominare il soggetto che hanno di fronte, trattandolo
come un oggetto o istrumento -- o una cosa manipolabile a loro piacimento. Il
terzo modello, che si colloca a mezza strada fra i due precedenti, è
quello che V. definisce come modello griceiano ‘oblativo,’ in cui, mentre una
delle due soggettività riconosce l'altra e si dispone a trattare l'altra
secondo la cura e il rispetto che le convengono, l'altra soggettività non offre
nessun riconoscimento e cerca di imporsi sulla soggettività riconoscente come
soggettività dominante. Questa impostazione onto-etica si caratterizza per
il tentativo di fondare la regolatività etica del modello ariskantiano di Grice
su argomentazioni che partono dal rilievo irrefutabile della trascendentalità
della persona, la quale si trova invece contraddetta in tutte le situazioni di
rapporto inter-soggettivo ri-conducibili agl’altri due modelli (razionalita
istrumentale – Modelo II --, e razionalita di oppression – Modelo III). L’indagini
di antropologia trascendentale completano e chiudono questo percorso, ponendosi
come il termine medio che stringe e salda l'ontologia all'etica. Il concetto di
‘persona’ viene inteso alla Grice e Strawson come sinergia del concetto di
‘sostanza’ e di quello di relazione (la categoria della relazione di
Aristotele, la relati, o il ‘pros ti’. Sostanza (ousia,
sub-stantia, essential) è classicamente quello che permane e sta in
sé. La relazione, invece, è qui il rapporto intenzionale ad altro da sé. La
persona è una sinergia di sostanza e relazione perché è sia rapporto a se
stesso sia rapporto all'altro da sé, in quanto è essenzialmente una
intenzionalità trascendentale, ovverosia un orizzonte consistente di relazione
all'altro da sé, secondo il corso illimitato del desiderio che lo abita. Saggi:
“La dialettica di GENTILE” in “Giornale critico della filosofia italiana”, “La
religione nella filosofia di GENTILE”, “Giornale critico della filosofia
italiana”, “GENTILE, interprete di Marx”, in Enciclopedia. La
filosofia di GENTILE, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, “Ragione e
religione”(CELUC, Milano); “Filosofia e marxismo” (CELUC, Milano); “Le origini
del marxismo teorico in Italia: il dibattito tra LABRIOLA, CROCE, GENTILE, e
Sorel sui rapporti tra marxismo e filosofia (Città Nuova, Roma); “GRAMSCI: il
pensiero teorico e politico e la questione leninista” (Città Nuova, Roma);
“Invito al pensiero di Aristotele” (Mursia, Milano), “Sostanza e relazione: una
aporetica della persona,” in L'idea di persona, Melchiorre (Vita e Pensiero,
Milano); “L'enigma del desiderio” (San Paolo, Cinisello Balsamo); “La politica
e la speranza” (Lavoro, Roma); “Il frammento e l'intero: -- il toto e la parte
-- indagini sul concetto di essere e sulla stabilità del sapere” (Orthotes, Napoli);
“Sul trascendentale come inter-soggettività originaria”, in “Le avventure del
trascendentale,” Rigobello (Rosenberg, Torino); “Sulla verità e sul bene”
(Petite Plaisance, Pistoia); “Etica del desiderio come etica del
riconoscimento” (Orthotes, Napoli); “Sostanza e relazione: indagini di
struttura sull'umano che ci è comune” (Napoli); “Studi su GENTILE” (Orthotes,
Napoli); “Studi su Marx” (Orthotes, Napoli); “Studi su Aristotele” (Orthotes,
Napoli); “La ragione e la dialettica: studi su Marx e VOLPE” (Marsilio,
Venezia); “Teorie della felicità” (Francisci, Abano Terme); “La qualità
dell'uomo: filosofi e psicologi a confronto” (Angeli, Milano); “Dio e la
ragione” (Marietti, Genova); “L'etica e il suo altro” (Angeli, Milano);
“Strutture del sapere filosofico” (Cardo, Venezia); “La libertà del bene” (Vita
e Pensiero, Milano); “Essere giusti con l'altro” (Rosenberg, Torino); ‘Introduzione
all'etica” (Vita e Pensiero, Milano); “Etica trascendentale e intersoggettività”
(Vita e Pensiero, Milano); “Multi-culturalismo e identità” (Vita e Pensiero,
Milano); “La persona e i nomi dell'essere: sritti di filosofia in onore di MELCHIORRE”
(Vita e Pensiero, Milano); “Libertà, giustizia e bene in una società plurale” (Vita
e Pensiero, Milano); “Etiche e politiche della post-modernità” (Milano, Vita e
Pensiero); “Etica del plurale: giustizia, riconoscimento, responsabilità” (Vita
e Pensiero, Milano); “Affetti e legami” (Vita e Pensiero, Milano); “La REGOLA
D’ORO come etica universale (Vita e Pensiero, Milano); “BONTADINI e la
metafisica” (Vita e Pensiero, Milano); “Metafisica e violenza” (Vita e
Pensiero, Milano); “Etica di frontiera: nuove forme del bene e del male” (Vita
e Pensiero, Milano); “Di un altro genere: etica al femminile” (Vita e Pensiero,
Milano); Pira. Un san Francesco nel Novecento (AVE, Roma); “Multi-culturalismo
e inter-culturalità: l'etica in questione” (Vita e Pensiero, Milano); “La vita
spettacolare: questioni di etica” (Orthotes, Napoli); “Etica dell'economia: idee
per una critica del riduzionismo economico (Orthotes, Napoli); “Differenza di
genere e differenza sessuale: un problema di etica di frontiera” (Orthotes,
Napoli); “Il dovere dell'ospitalità (Orthotes, Napoli). Dell'interpretazione di
GENTILE offerta da V. discutono, fra gl’altri, Berlanda, “GENTILE e l'ipoteca
kantiana. Linee di formazione del primo attualismo” (Vita e Pensiero, Milano); Bettineschi,
“Critica della prassi assoluta: analisi dell'idealismo di GENTILE” (Orthotes,
Napoli). Si vedano anche “Studi GENTILIANI” (Orthotes, Napoli). Cfr. “Studi
marxiani” (Orthotes, Napoli). Cfr. gli scritti raccolti in V., Studi
aristotelici” (Orthotes, Napoli); Saccardi, Semantizzazione dell'essere e
inferenza metempirica, in Pagani, “Debili postille. Lettere a V.” (Orthotes,
Napoli). Cfr. anche Messinese, “L'apparire del mondo: dialogo con SEVERINO
sulla ‘struttura originaria’ del sapere” (Mimesis, Milano). “V., invece, che
pur si è formato alla scuola di BONTADINI e di SEVERINO, non segue più i suoi
maestri, perché ormai ritiene che, se si accetta la “semantizzazione
parmenidea” (vide VELIA) dell’essere, non si può evitare di estendere gl’attributi
dell'essere assoluto all’ente, come precisamente è avvenuto nello svolgimento
della filosofia di SEVERINO. L'errore, però, prosegue V., sta proprio in questo
“aver trattato la questione dell'essere come una questione di ESSENZA.” L'errore
viene eliminato convincendosi che la “semantizzazione” dell'essere coincide con
la relazione d’essenza ed esistenza': questo è il 'tratto comune' tra tutti gl’enti". Cfr.
V., “Il frammento e l'intero, Sulla semantizzazione dell'essere.
L'eredità speculativa di BONTADINI, in “BONTADINI e la metafisica.” Si veda
inoltre SOLLIANI, “Dell'essere come essenza: per una rivisitazione del problema
a partire d'AQUINO” in Debili postille, Il frammento e l'Intero, Cfr. anche Pagani,
“Una rivisitazione della via del divenire e Peratoner, Intorno alla
conoscibilità di Dio, la ragione, la fede, in Debili postille, Si veda
poi Barzaghi, Percorsi di rigorizzazione della teologia naturale nella
filosofia neo-classica milanese”, “Rivista di filosofia neo-scolastica”. Cfr.
Vigna, Etica del desiderio umano (in nuce), in Introduzione all'etica,
Aporetica dei rapporti intersoggettivi e sua risoluzione, in Etica
trascendentale e inter-soggettività, Si veda anche il saggio di
Fanciullacci, “Dell'inter-soggettività e del riconoscimento, in Debili
postille, Cfr. V., Sul trascendentale come inter-soggettività originaria. Venuti,
La cura dell’altro come REGOLA D’ORO. Lettera aperta a V., e Zanardo, Sul dono
della differenza, in Debili postille, Per una discussione complessiva del
pensiero di V. si vedano i saggi contenuti in Pagani Debili
postille. Lettere a V.” (Orthotes, Napoli); “Sostanza e relazione: una
aporetica della persona.” Si può vedere anche Bettineschi, Finità e infinità
della soggettività. Lettera aperta a V., in Bettineschi, “Intenzionalità e
riconoscimento: scritti di etica e antropologia trascendentale” (Orthotes,
Napoli). Bergamo festival: l'intuizione, su you tube. Malato o persona?, su you
tube. L'etica, you tube.com. Treccani. Intervista a V.: la filosofia morale,
you tube. Tugnoli, V.: il desiderio come orizzonte trascendentale, su mondo-domani.
Venezia, su unive Bollettino della Società filosofica italiana, Centro di etica
generale ed applicata, su centro di etica. Centro inter-universitario per gli studi
sull’etica, su venus unive. Società italiana di filosofia morale, Intervento su
La Pira, su avvenire. Attualismo, problematicismo, metafisica, su filosofia. La
politica e il sacro, su in schibboleth. Bisognerebbe
oggi parlare piuttosto di metafisica del male comune… Siamo infatti dinanzi
ad un certo tramonto del politico, almeno nell’Occidente post-industriale: lo
siamo nel senso che la società civile, negli ultimi decenni, ha assorbito
in sé ciò che una volta era, almeno in parte, contenuto della sfera
politica; ma lo siamo soprattutto nel senso che il compito politico
sembra troppo difficile da eseguire ed è in effetti non di rado tradito
da coloro che ne sono in prima battuta responsabili. Ad una sorta di
processo di disseminazio- ne di progettualità creativa in seno alla
società civile sembra corrispondere una sorta di di- scredito e di
scetticismo quanto alla sfera politica. La sfera politica sembra non riuscire
più ad occuparsi della cosa comune ed essere diventata, piuttosto, il
luogo di una distribuzione corporativa delle risorse. Quando non si
giunge, come ad esempio in Italia (ma certo non soltanto in Italia), a
forme molto gravi di corruzione e di spreco. Il cittadino medio tende
perciò a ritrarsi dalla politica o semplicemente cerca di profittarne. Di
fronte all’ingestibilità della progettualità politica, e pure di fronte al
discredito del- la politica, si capisce perché vi sia un generale
movimento di conversione dai fini ai fondamenti della comune convivenza.
Ma questa conversione a me pare, in realtà, non tanto una con- versione
dalla progettualità politica all’amministrazione della società civile, quanto
una qualche conversione dalla politica all’etica. Ci si è
convertiti all’etica, quasi per esaurimento della sfera politica: questo ho
appena suggerito. Ma l’etica non pare offrire uno spettacolo diverso
dalla politica, nonostante oggi la si chiami fuori, l’etica, per
dirimere, quasi giudice supremo, i conflitti tra il politico, il so-
ciale e il privato; anche l’etica, infatti, ha i suoi problemi, né suscita
consensi facili, quando si va a determinare caso per caso che cosa può
dirsi garantito dall’etica. Sono note ad es. le polemiche sulla bioetica,
tanto per citare uno dei temi oggi forse più rilevanti, anche per le sue
immediate ripercussioni in ambito politico. Dobbiamo dunque mettere sul conto
della nostra quotidianità una eclisse anche dell’accordo sulle
convinzioni etiche? Così pare. E il multiculturalismo spinge nello stesso
senso. Fino a qualche decennio fa la trasgressione prendeva di mira la
legge politica (si ricordi la temperie sessantottina); oggi quel tipo
di trasgressione sembra rientrata e sembra, appunto, presa di mira anche
l’etica. Cito solo un sintomo, ma vistoso: ciò che si discute con sempre
maggiore frequenza è la possibilità di stabilire regole per tutti che
siano regole puramente convenzionali o formalistiche, anche sul piano
“etico”. L’area anglosassone, più sperimentata in fatto di multiculturalismo,
ha avanzato non poche proposte in tal senso. Ma bisogna pur dire che ogni
formalismo con- venzionalistico contiene in sé il difetto radicale di
valere tanto per le cose buone quanto per quelle malvagie (anche una
organizzazione mafiosa rispetta una serie di convenzioni...), sicché
serve solo a scansare il problema fondamentale, anzi che a risolverlo. Ed è qui
che il bisogno di stare al sostanziale tende alla compensazione dell’etica,
lmeno nel senso di ricorrere ad elementi o frammenti di rimandi
all’etica, per ottenere coesione e consenso. Una certa fiducia
nell’universale rispetto dell’essere umano e un certo rimando ad una fede
paiono non di rado un collante più potente di qualsiasi considerazione
ideologica, visto anche il discredito su larga scala patito dalle
ideologie novecentesche. 4. Eppure, dell’etica e della politica, in
realtà, nessuno può fare a meno. L’etica e la politica, come tutte le
cose “necessarie” per la vita degli uomini, si raccomandano da sole. Come
tutte le cose “necessarie”, l’etica e la politica ricompaiono e persino
dominano anche là dove le si vuole a tutti i costi esorcizzare. Solo che
tutte queste cose prendono vesti di- verse da quelle di una volta:
tendono a frantumarsi in molti rivoli o assumono andamenti carsici. Per
esempio, l’etica e la politica diventano oggi cura del mondo della natura
o riscatto del femminile, lotta per l’integrazione delle etnie o sostegno
per gli emigranti e gli emarginati. Comunque, quando e a misura che
appaiono onorate, queste dimensioni del senso della vita umana sembrano
rendere possibile la convivenza, perché esse si presenta- no come custodi
di ciò che accomuna gli esseri umani nel profondo. Più di quanto accada
alla semplice fattualità dell’ethos. L’etica e la politica sembrano qualcosa di
infinitamente più prezioso dell’ethos. Sono in effetti il giudizio
sull’ethos a partire dalla verità del desi- derio umano, se intendiamo
per ethos ciò che appare come la realizzazione storico-fattuale di tale
desiderio. 5. Abbiamo evocato la “verità” a proposito del desiderio
umano. In realtà, l’etica e la politica, sono solitamente intese come il
luogo del riferimento all’”oggettività” normativa. Ma l’”oggettività” qui
che cos’è, se non la “verità” di quel che il desiderio del singolo o
della collettività desidera? Una certa eclisse dell’etica e della politica, in
particolare, sem- bra l’eclisse della consapevolezza di questo legame
originario con la verità dell’esistenza. E allora? Come far fronte a
questa “sfida” paradossale del nostro tempo, che vorrebbe fare a meno
dell’universale verità, proprio mentre la invoca per governare la
frammentazione delle esperienze dei singoli e dei molti? Semplificando
non poco, io azzarderei questo tipo di risposta. Un codice universale di
natura semplicemente teorica, cioè veritativa, sembra diventato di fatto
improponibile. Questo non significa che sia impossibile. Significa
sempli- cemente che la cultura dominante, incline al relativismo e allo
scetticismo, non lo cerca e non lo vuole. In fondo, ne dispera. Eppure,
tenta di rimediare a questo fallimento epocale mediante la ricerca di un
codice pratico. È degna di rilievo la circostanza che gli “ultimi fuo-
chi” della “fondazione” di qualcosa siano, nel pensiero filosofico occidentale,
di tipo etico- pratico (cfr. ad es. le proposte di Apel). Ma anche la
fondazione dell’eticità, purtroppo, è… un che di teorico. Perciò non
funziona più di tanto. Ossia: anche l’etica e la filosofia della politica
dividono. Sembra che unisca, piuttosto, la pratica tout court, forse perché
nella pratica ci si deve necessariamente determinare così e così. La
pratica è “reale”, si pensa, o è almeno la riconduzione del pensiero alla
realtà (laddove la teoria è la riconduzione della realtà al pensiero e
quindi sembra offrire un margine maggiore alla variazione soggettiva). Per
una metafisica del bene comune Ma non ci si illude anche da questa parte?
È possibile. E tuttavia la pratica, come alter- nativo terreno di intesa,
sembra più efficace della teoria, perché si orienta al reale, e il reale
tendenzialmente unifica, se e quando ci è dinanzi (almeno in qualche modo), più
di quanto non accada alla teoria, che soffre degli equivoci insuperabili
della comunicazione. 6. Ma una maggiore approssimazione al nostro
obbiettivo richiede una manovra ag- giuntiva. Noi dobbiamo cercare ciò in
cui gli esseri umani possono praticamente convenire, ossia ciò che li può
praticamente accomunare. Orbene, ciò che tutti desideriamo è almeno
questo: d’essere riconosciuti e onorati nella nostra umana soggettività. Detto
in altri ter- mini, ogni soggettività umana chiede d’essere riconosciuta
come un orizzonte di senso inoltrepassabile, cioè intenzionalmente
infinito, perché tale essa è per via del logos che la informa. Ma le
soggettività sono molte. E come è possibile che più orizzonti intenzional-
mente infiniti coesistano? Non si riesce facilmente a capire proprio questo.
Sulle prime, più infinità, per quanto semplicemente intenzionali,
sembrano incompossibili. L’una sembra togliere all’altra proprio tale
carattere (Sartre). Di qui l’impulso al conflitto e quindi alla po-
tenziale esterminazione dell’altro. E in effetti l’esito è inevitabile, se ogni
soggettività viene innanzi esigendo, anzitutto, dall’altra il
riconoscimento della propria trascendentalità. Cioè imponendolo. L’altra,
per lo più, farà lo stesso con la prima. Così entrambe le soggettività
finiranno per lottare per la vita e per la morte. Non così, se ogni soggetto,
anziché esigere d’essere riconosciuto nella sua trascendentalità, viene
innanzi offrendo, anzitutto, il proprio riconoscimento della
trascendentalità dell’altro. Non così, se l’altro, riconosciuto, viene
in- nanzi riconoscendo a sua volta la trascendentalità del primo. Poiché
la trascendentalità in tal caso non è predata, ma reciprocamente offerta,
accade che ognuna delle due coscienze sia riconosciuta dall’altra. E
poiché ognuna liberamente riconosce, resta nella propria tra-
scendentalità anche quando lascia essere l’altra allo ste4sso modo. Due
trascendentalità, così chiasmaticamente incrociate, non sono più
incompossibili, anzi si sostengono e si ali- mentano a vicenda.
L’inciampo dell’ostilità reciproca è qui tolto in via di principio. Il
primo codice universale e il più efficace è dunque il principio del reciproco
riconoscimento. In effetti, il principio del reciproco riconoscimento è il
codice universale più praticabile: un gesto di riconoscimento può esser
fatto da chiunque lo voglia. La sequenza che ho sinora esposto si può
riassumere così: possiamo tornare alla po- litica solo se transitiamo per
un’etica del riconoscimento reciproco. Ma il riconoscimento reciproco
implica inevitabilmente trattare ogni essere umano come fine in sé. Cioè
come qualcosa di inoltrepassabile. Cioè come libero dall’ambiguità delle
relazioni di dominio. La vita umana non può che abitare questo luogo, se
andiamo alla sua regola secondo verità. Ma come in concreto si struttura la
salvaguardia della vita umana nella società civile? Credo che si possa
agevolmente rispondere a questa domanda riproponendo nel giusto ordine
tre grandi convinzioni che da tempo immemorabile gli esseri umani hanno
tentato in un modo o nell’altro di onorare: la libertà del gesto, che fa
dell’azione una azione umana nella sua dignità, la mira del bene, che
riscatta la libertà da possibili ambiguità, la giustizia del gesto che fa
della mira del bene una questione non solo della vita del singolo, ma anche
della vita di tutti. Vediamo partitamente queste tre convinzioni, che rendono
possibile l’umana convivenza come società civile e che devono essere
protette dall’umana convivenza come società politica. Il primo breve
discorso che vorrei fare è quello sul bene1, perché sono convinto del
fatto che dal bene cominci propriamente la possibilità di una determinazione
equilibrata delle altre due parole: la libertà e la giustizia e perché il
bene custodisce in sommo grado la natura sacro-santa della vita umana. La
vulgata precedenza della libertà sul bene e sulla giustizia è in realtà
un capovolgimento della vera sequenza teorica. Dobbiamo tale errata
precedenza alla modernità. Essa compare con solennità epocale per la prima
volta nelle parole d’ordine della rivoluzione francese: libertà,
eguaglianza, fraternità. Da allora in poi ha fatto, purtroppo, molta
strada. Dico “purtroppo”, perché sono dell’avviso che, comin- ciando
dalla libertà si onora un essere umano, ma solo cominciando dal bene lo si
orienta in modo conveniente nei suoi propositi di vita, singolare o
collettiva. E un essere umano è libero soprattutto per questo, per
confrontarsi col bene. Il bene è infatti il fine d’ogni azione e nella
vita pratica tutto prende senso dal fine. Ma lasciamo i discorsi formali
e veniamo a qualche considerazione un po’ più con- tenutistica.
Chiediamoci, anzitutto, perché nel corso della modernità il bene è stato
gra- dualmente messo da parte (il grande discrimine è il Kant della
Critica della ragion pratica). La risposta a questo interrogativo è nota
ai metafisici – solo la richiamo – ed è duplice. Prima parte: il tema del
bene è stato accantonato, perché strettamente legato all’ontologia
metafisica, da Kant in poi (v. Critica della ragion pura), per comune
convinzione, considerata impossibile. L’ontologia metafisica, veicolata,
specialmente da Wolff in avanti, come un sapere sistematico, con l’aura
dell’assolutezza, era simbolicamente accostata, in termini politici, a
qualcosa come la monarchia assoluta e/o il papato. Ma questo, in molti
spiriti liberi, significava inevitabilmente dispotismo, autoritarismo,
inquisizione e simili. La mo- dernità è rappresentabile, da questo punto
di vista, come la rivolta della soggettività contro un simile apparato,
in nome d’un nuovo fondamento di senso: la soggettività medesima, cui
appartiene essenzialmente l’attributo trascendentale della libertà. Il cogito
cartesiano inaugura questa stagione, anche se l’emergenza della figura
della libertà è da addebitare alla stagione illuministica. 11. Ma
vediamo l’altra parte. Nella modernità il riferimento al divino, cui il bene
era da molti secoli, in ultima istanza, rapportato, si attenua fortemente
e gradualmente; dall’Uma- nesimo in avanti, viene innanzi, e anche occupa
per intero lo scenario, l’essere umano con il suo mondo. Il contenuto del
bene diventa proprio questo. Non è, il bene, sparito dalla circolazione
delle idee: ha solo mutato nome. E del resto non poteva sparire, perché fa
parte del modo in cui necessariamente viviamo. Dunque, il bene della
soggettività moderna in rivol- ta è la soggettività medesima: in versione
singolare o in versione comunitaria. Troviamo l’espres- sione più netta
della rotazione di senso nella prima e nella terza parola della sequenza
della 1 Mi permetto rimandare al vol. da me curato, AA. Vari, La libertà
del bene, Vita e Pensiero, Milano 1998 e spec. al mio saggio su Bene e
male. Una riconsiderazione, ivi, pp. 55-80. 45 Per una metafisica
del bene comune rivoluzione francese: la “libertà” e la “fraternità”. A
seconda che si propenda per il primato dell’una o dell’altra parola, si
avrà nel seguito il liberalismo o il collettivismo. Da allora, a mio
avviso, non è cambiato molto su questo terreno. Tutti i pensatori etico-politici
moderni e molti dei pensatori contemporanei si schierano tendenzialmente
da una parte o dall’altra. 12. Direi che questa “vulgata” ha per ora
pochi avversari. Ma a breve le cose potrebbero cambiare. Timidamente si
fa innanzi presso alcuni post-moderni (ad es. Foucault) e presso alcuni
esponenti radicali del pensiero verde (v. Bateson, ad es.) l’oltrepassamento
della centralità del soggetto e dei soggetti, in direzione di un paganesimo
cosmicizzante. Nietzsche è il piccolo padre anche di questa nuova ondata.
La cosa era forse in certo modo prevedibile. Una volta eliminato il Dio
della metafisica e della religione, il piccone della critica si è anda-
to esercitando, anzi si è andato accanendo sulla portata trascendentale della
soggettività, e ne ha decretato la fine. E allora, cosa può diventare
riferimento ultimo del senso, messo da parte Dio e l’uomo, se non il
cosmo, che è poi la terza della grandi parole della metafisica, ancora
presenti nella critica kantiana come indicazioni sistematiche ideali? Questa
recente direzione di marcia lavora sulla fine della soggettività
trascendentale forse anche a partire da un certo fascino indotto dalla
vita materiale: la durezza delle di- namiche economiche, apparentemente
incontrollabili; il trionfo della tecnologia, dilatabile, si opina, senza
limiti; il fascino della biosfera, che fa sognare una sorta di unità
mistica quanto alle forme di vita, compresa la vita umana; la rete
mediatica che influisce poten- temente sui costumi e produce condotte
eteronome di massa, l’enorme flusso migratorio, che relativizza tutto ciò
che la soggettività singola ha costruito come propria storia. La
soggettività moderna, insomma, ne sembra schiacciata. Marx pensava ancora di
mettere innanzi la grandezza della specie umana per governare la storia.
I contemporanei si sono arresi, quando anche questa variante consolatoria
è fallita. Le voci che fanno dell’umanità un giocattolo in balia di mani
più forti, come sono quelle della tecnologia o quelle delle forze
naturali, sono sempre più ascoltate. 14. Personalmente, resto scettico di
fronte ai tentativi di oltrepassamento dell’orizzon- te della
soggettività in una neutra oggettività. Neutra, poi, non proprio, perché si
colora subito di irrazionalità, arbitrarietà, crudeltà e cinismo.
Nietzsche ancora una volta ha già predetto l’essenziale, cioè ha visto in
anticipo la deriva di ciò che segue alla “morte di Dio”. Egli voleva
reagire a questa deriva, con un rinnovato umanesimo. E noi siamo forse ancora
al punto in cui egli si era fermato; dobbiamo, cioè, capire che fare quanto al
nostro destino di umani, ora che cominciamo a nutrire seri dubbi sulla
capacità nostra di governare la terra. 15. Chiedersi da che parte
andare è lo stesso che chiedersi qual è il nostro bene, il bene per noi
post-moderni. S’intende: trattandosi del nostro bene, si tratta del bene non
solo di un singolo, ma anche dei molti e in una società pluralistica. Si
tratta del bene comune dell’intera umanità. A guardare le cose un po’
dall’alto, vien da dire che oggi bisognerebbe decidere quale delle tre
grandi parole della metafisica prima citate può interessare una so-
46 Carmelo Vigna cietà pluralistica come riferimento di senso. Dico
“può interessare”. Faccio, in altri termini, un discorso di
“persuasività”, non un discorso di stretta “verità”. Se dovessi fare un
discor- so di stretta verità, dovrei molto semplicemente affermare che il
primo e, in certo senso, l’unico oggetto degno dell’attenzione originaria
di un essere umano è l’Assoluto. Cioè, solo Dio è degno, in ultima
istanza, dei nostri desideri e dei nostri pensieri. Nessun altro e
nient’altro. La stragrande parte degli uomini, in modo più o meno rozzo o più o
meno sofisticato, pensa spontaneamente così e in qualche modo cerca di
onorare questo modo di pensare. L’enorme impatto sulla faccia della terra
delle convinzioni religiose è lì a testimo- niarlo. Solo una sparuta
minoranza, in realtà, per lo più abitante dell’Occidente opulento e
post-industriale, si permette, a questo riguardo, forme insistite o incistate
di scetticismo a trecentosessanta gradi. Se si vuol fare, tuttavia, un
discorso di persuasività etico-politica, cioè un discorso che si fonda su
una serie di evidenze abbastanza facili da percepire per i più, allora il
discorso sul bene in una società pluralistica non può che essere centrato
sugli esseri umani. Non certo sulla natura, la quale deve essere, sì,
oggetto di cura, perché è il no- stro “grande corpo organico”, ma,
appunto, di una cura subordinata alla cura degli umani; non, purtroppo,
su un Dio trascendente, perché non tutti lo riconoscono, perché di Lui,
comunque, nulla possiamo sapere in linea puri intellectus, eccetto l’esistenza
sua, e quel che ne diciamo quanto alla sua essenza, ci divide più di
qualsiasi altra cosa. Insomma, resta l’uomo come fine. In termini
etico-politici, cioè di pragmatica possibilità di stringere accordi
potenzialmente universali, una impostazione come quella ad es. di Hans Jonas
potrebbe essere accettabile. Ma studiosi come Rawls o Habermas propongono
strategie simili. Del resto, se questo primato antropologico venisse
perseguito a fondo, sarebbe più facile per molti sentire in cuor proprio
il bisogno di volgersi all’origine ontologico-metafisica della buo- na qualità
dei rapporti tra noi, anche perché una parte, almeno, dell’umanità
sicuramente continuerà a testimoniare il nesso tra la pratica della
fraternità e il rimando inevitabile ad una suprema e universale
Paternità. Lì abita in ultima istanza il sacro-santo della vita. Ma qui
devo lasciare in sospeso il tema, perché andrebbe nel senso della teologia
politica, su cui è bene che sia altri a dire. 16. Ora andiamo al
tema della giustizia. Come è noto, l’etica pubblica si divide tra i so-
stenitori del primato della giustizia come elemento procedurale e formale
dell’architettura della convivenza umana e i sostenitori del primato del
bene o dei beni come acquisizione “sostantiva”. Lo abbiamo accennato
prima. Io credo, invece, che si tratti di due “cifre”, la giustizia e il
bene, per nulla alternative, anche perché entrambe “originarie”. Se ben si
riflette, appare sufficientemente chiaro che il giusto è un certo rapporto,
men- tre il bene è il termine di un rapporto. Giusto, poi è il rapporto
buono, mentre il bene non si risolve semplicemente nel rapporto giusto.
Il rapporto giusto è solo uno dei beni possibili. I due significati,
dunque, non sono propriamente equivalenti (il bene, ad evidentiam, ha una
estensione maggiore), anche se l’uso linguistico tende a trattarli quasi in
modo sinonimico2. È vero, piuttosto, che essi in qualche modo si
determinano a vicenda, perché il bene non 2 È anche evidente che
l’oggetto cui ci si rapporta è più importante del rapporto. Il rapporto è una
realtà inten- zionale, mentre il bene è una realtà ontologica.
Naturalmente, anche la realtà intenzionale è in qualche modo 47 Per
una metafisica del bene comune può prescindere da un certo rapporto e il
giusto non può fare a meno del riferimento al bene. E tuttavia, se è vero
che il bene non può fare a meno d’essere un rapporto, ciò che nel
determinare il bene importa è, in primo luogo, la natura dell’oggetto cui ci si
rapporta; parimenti, se il giusto non può fare a meno di una relazione ai
beni (questo è specialmente evidente nella giustizia di tipo
distributivo, ma poi appare anche in quella di tipo commu- tativo), la
natura del bene è per il giusto relativamente indifferente. Si può stare nel
giusto con beni piccoli o con grandi beni. Conta, appunto la natura del
rapporto, cioè che si tratti di un rapporto in cui non manchi
l’uguaglianza (commutativa o distributiva che sia). 18. Che ne è della
giustizia in una società veramente civile? La domanda importa che si
trovi un rapporto giusto per tutti, indipendentemente da una certa identità
culturale. Ora, che cosa è anzitutto giusto per qualsiasi essere umano?
Ossia: quale rapporto un essere umano giudica come tale che non viola le
proprie attese originarie di giustizia? La risposta obbligata mi par
questa: per un essere umano è anzitutto giusto o ingiusto ciò che
concerne l’immediato rapporto suo con gli altri esseri umani. E il
rapporto giusto è il rapporto che rispetta, anzi onora e quindi si prende
cura della soggettività nella sua trascendentalità; è il rapporto che
lascia essere gli esseri umani come tali, cioè non li riduce a oggetti
manipo- labili; è il rapporto, per dirla kantianamente, che tratta un
essere umano sempre anche come fine e mai come semplice mezzo. Abbiamo
già detto che questo, universalmente praticato, è proprio solo del rapporto
di riconoscimento reciproco, perché solo nel riconoscimento reci- proco
le due (o più) soggettività si lasciano essere come tali. Bene e giustizia,
dunque, qui convengono. Soltanto qui. E questo per il fatto che l’essenza
di un essere umano è d’essere un rapporto. Egli è, dunque il bene del
rapporto e, nel contempo, il rapporto del bene, se si rapporta
riconoscendo. S’intende, secondo le forme della finitudine. Non ho inteso,
con ciò, dimenticare la complessità e la difficoltà di trovare criteri appropriati
per la giusta di- stribuzione dei beni della terra. Non v’è dubbio che il
concetto di giustizia passa, innanzi tutto e per lo più, per questa
pratica quotidiana. Ma la giusta distribuzione dei beni non è che
l’effetto, in parte, e in parte l’individuazione simbolica del giusto rapporto
tra noi, che è, appunto, il rapporto di riconoscimento reciproco.
19. Giustizia dunque come riconoscimento della dignità di un essere umano,
delle sue opportunità d’ingresso alla vita e del suo onesto disegno di
fioritura. È a questo punto che può cominciare l’istruzione del tema
della libertà. La libertà non può che essere l’ultima delle tre parole, e
non la prima. Questo non significa che essa non sia altrettanto
originaria delle altre due. Significa solo che è ordinata alle altre due,
mentre non è vera l’affermazione reciproca. Lo smarrimento di
quest’ordine, che direi onto-etico, è forse una delle più grandi sciagura
della modernità. E noi viviamo ancora sull’onda di quella deriva. I moderni
han- no fatto della libertà una magica parola, cui tutto dovrebbe essere
sottomesso; ma la libertà, come prima ho ricordato, fa la dignità del
gesto di un essere umano, non ne fa, da sola, la bontà, anche per il
fatto incontestabile che esistono, e come!, gesti di libertà cattivi.
qualcosa e quindi ha una valenza ontologica, ma l’ha di seconda battuta. Un po’
come accade alla verità rispetto all’essere. 48 Carmelo
Vigna 20. Una società veramente civile è possibile pensarla, solo se si
oltrepassa la convinzione moderna del primato assoluto e incondizionato
della libertà e si accede al primato assoluto e incondizionato del bene
di e per ogni essere umano (che comprende di certo anche la sua
condizione di libero, ma non si riduce a quella). Né basta dire che la mia
libertà finisce, quando comincia la libertà dell’altro, che è lo slogan
più noto della tradizione liberale. Non basta, anzitutto, perché questo
slogan confligge teoricamente con l’idea del primato incondizionato della
libertà. La libertà dell’altro invocata come limitante è, infatti, un
bene dell’altro; quindi la libertà è limitata, come dev’essere, dal bene
e non è affatto incondizio- nata. Solo il bene lo è. Non basta poi
perché, riducendo il bene dell’altro alla libertà dell’al- tro, si tace
di tanti altri beni dell’altro che devono costituire, anch’essi, un limite alla
mia libertà. Non è sufficiente, infatti, che l’altro sia libero. Se
l’altro è libero di morire di fame, e io sono libero di mangiare a
crepapelle, la mia libertà è la maschera penosa e vigliacca di un
delitto. Io mi approprio in esclusiva dei beni della terra che sono comuni e di
fatto escludo l’altro che ne ha gli stessi diritti. Così lo lascio
morire. 21. C’è un senso, tuttavia, secondo cui la libertà può esser
concepita come incondiziona- ta, ma non è il senso difeso dalla
tradizione teorica liberale: io la chiamo: la libertà del bene, cioè la
libertà di fare il bene3. Qui la libertà è incondizionata, perché gode, per una
sorta di simbiosi, dell’incondizionatezza del bene. Poiché in una società
veramente civile, la libertà come arbitrio non può avere solo l’altrui
libertà come limite, ma deve avere come limite tutti i diritti
dell’altro, compreso certo anche quello della sua libertà, per questo l’umana
libertà deve farsi carico di tutto ciò che la giustizia invoca per l’altro. È
questa la ragione per cui le società liberali sono incapaci di essere
veramente civili, nonostante l’abbondanza delle dichiarazioni in
contrario. Esse dimenticano facilmente, o meglio, occultano il lato della
cura e della giusta promozione dell’altro e così proteggono di fatto le
situazioni di- scriminanti, che sono poi la radice permanente della
conflittualità endemica. La situazione nordamericana è un esempio per
molti versi eclatante. Sotto il manto della libertà, mes- sicani,
asiatici e neri praticano in massa gli umili mestieri che consentono ai bianchi
una vita agiata. Sono liberi d’esser poveri… Più o meno come accade in
Italia per la fascia degli immigrati extracomunitari. 22. Se la
libertà del bene guida l’azione, allora la mira è il bene dell’altro, cioè
l’altro come bene. È anche il mio bene, ma di me come l’altro di un
altro. Solo così io posso conseguire, storicamente parlando, il massimo
bene. Sulle prime, questa affermazione può parere per- sino patetica:
l’invocazione del “buon cuore” come regola di condotta in un mondo che il
pluralismo tende piuttosto ad indurire. Una riflessione accorta però è in grado
di far vede- re che il mio bene, cioè poi la mia fioritura di vita, può
avere senso solo se il movimento del desiderio verso l’oggetto a lui
conveniente, il bene, appunto, compie il giro della referenza immediata
all’alterità e di quella all’identità in modo mediato. Mediato, appunto
dall’alterità. 3 Rimando di nuovo al vol. La libertà del bene, cit., e
stavolta spec. alla mia Introduzione, pp. 3-18. 49 Per una
metafisica del bene comune 23. Provo a tirare in breve le fila del mio
discorso. Posso anche far presto, perché tutte le fila conducono, come si
è di certo inteso, allo stesso punto: alla cifra del riconoscimento come
forma regolativa dell’esistenza degli esseri umani. Una società veramente
civile infatti è possibile, se i molti si onorano reciprocamente, cioè
appunto, reciprocamente si riconoscono. È questo il senso primo (primo
per noi) del bene comune. Nel reciproco riconoscimento, ognuno è signore
dell’altro (in quanto riconosciuto nella propria trascendentalità, quindi come
oriz- zonte inoltrepassabile di senso) e ognuno è servo dell’altro (in
quanto riconosce nell’altro la signoria del senso). Le forme democratiche
di vita politica tendono ad approssimarsi a queste dinamiche più d’ogni
altra forma. Nella democrazia infatti l’autorità del cittadi- no su un
altro cittadino è o dovrebbe essere semplicemente di tipo funzionale. Tutti
sono eguali, cioè tutti sono signori, ma fatti signori gli uni dagli
altri, mai da se stessi. 24. All’interno della cifra del riconoscimento,
come regola universale, prendono un sen- so determinato, come si è detto,
tanto il bene, quanto la giustizia e la libertà come realiz- zazione e,
insieme, protezione del bene comune. Bene significa voler ciò che consente
la mia fioritura di vita; bene è dunque volermi bene, volendo bene altri
come quegli che tale fioritura in me rende possibile. Altri,
naturalmente, solo che lo si voglia o, meglio, solo che lo si creda, può
essere scritto – dovrebbe anche essere scritto – con la maiuscola (la dinamica
relazionale è la stessa). Il bene comune in una società veramente civile
è questo, essenzialmente. Giustizia significa rendere ad ognuno ciò che
gli spetta (unicuique suum). Ma ciò che spetta ad ognu- no è anzitutto
d’essere trattato come una soggettività (trascendentale). Cioè come un
essere umano in totalità. La reciprocità riconoscente è dunque il luogo
della massima giustizia per ognuno di noi. Libertà significa non arbitrio
incondizionato, bensì libertà di fare il bene. E poiché il primo bene,
storicamente parlando, è l’esserci d’altri per me, libertà del bene vuol
dire di nuovo libertà di riconoscere l’altro come il mio bene. Come il bene che
tutti accomuna. Carmelo Vigna. Keywords: bein, essence, essenza, essere,
intersoggetivo, tre tipi di intersoggetivo: trascendentale, oppressivo,
istrumentale, being and becoming. Refs.: H. P. Grice Papers, Bancroft MS. Luigi
Speranza, “Grice e Vigna: la regola d’oro conversazionale” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria.
No comments:
Post a Comment