Grice e Catena: l’implicatura
conversazionale della logica matematica -- logica arimmetica – la base
arimmetica della metafisica – filosofia veneziana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Venezia).
Filosofo italiano. Grice: “I love Catena – of course
he thought he was being an Aristotelian – and the confusing title he gave to
his philosophising – Universa loca Aristotelis’ would have you think that – but
he is a thorough Platonist – consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but
‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’ an universal --!” Precursore della
rivoluzione scientifica rinascimentale, indaga i rapporti tra matematica,
logica e filosofia, occupando la stessa cattedra in seguito occupata da
Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del latino. Lettore pubblico di metafisica
a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei.
Pubblica a Venezia “Universa loca in logica Aristotelis in mathematicas
disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere aristoteliche che
riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere matematico, tema a
cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca mathematica contenta
in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi mobilis motus
deprehenduntur canones” (Padova, Fabri); “Oratio pro idea methodi” (Padova, Percacino).
Agostino Superbi, Trionfo glorioso d'heroi illustri, et eminenti dell'inclita e
marauigliosa città di Venetia, per E. Deuchino. Domus Galilæ Biografia
universale antica e moderna; ossia, storia per alfabeto della vita pubblica e
privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù
e delitti; Catalogo breve de gl'illustri et famosi scrittori venetiani (Rossi);
Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle radici della rivoluzione
scientifica rinascimentale: sui rapporti tra matematica e logica. Con
riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On this subject, Catena writes
two works, in one of which, Universa Loca in Logica Aristotelis in Mathematicas
Disciplinas (Venezia), he tries to supply the lost mathematical basis for
Aristotle's theory of demonstration as explained in the Posteriora Analytica. Dizionario
biografico degli italiani. Della sua vita si conoscono pochissimi
elementi: nacque a Venezia nel 1501; lettore di matematiche presso l'università
di Padova (la stessa cattedra che occupò più tardi Galileo Galilei). Morì di
peste a Padova. L'importanza storica del C. consiste nel fatto che egli fu uno
dei primi, nel sec. XVI, a porsi il problema della valutazione formale ed
epistemologica della matematica euclidea, naturalmente dal punto di vista della
logica e della filosofia aristoteliche, inserendosi in tal modo autorevolmente
nella quaestio de certitudine mathematicarum che a metà del Cinquecento impegnò
noti autori dell'università padovana, come Francesco Barozzi ed Alessandro
Piccolomini, nell'ambito del più vasto dibattito europeo sulla methodus delle
scienze. ADVERTISING A questo riguardo assumono particolare importanza
tre sue opere: Universa loca in Logicam Aristotelis in mathematicas disciplinas
(Venetiis); Super loca mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis;
Oratio pro idea methodi (Patavii). Nelle prime due il C. svolse un'analisi
formale della matematica euclidea attraverso la quale concluse per una sua
differenza strutturale, e quindi per una sua autonomia logica ed
epistemologica, nei confronti della logica sillogistica aristotelica, basandosi
principalmente sulla constatazione che le dimostrazioni matematiche non
appartengono al genere tradizionale delle cosiddette demonstrationes
potissimae, e giungendo ad affermare decisamente che la scienza matematica si
differenzia nettamente da qualsiasi scienza di tipo aristotelico. La differenza
metodologica che distingueva la matematica euclidea dalle restanti scienze in
uso nel Cinquecento venne posta in rilievo dal C. nella terza opera, ove
affermò chiaramente il legittimo costituirsi della matematica come metodo
scientifico autonomo, intervenendo così costruttivamente nel dibattito sulla
methodus, che ancora si trascinava in quegli anni, e contribuendo soprattutto
alla creazione di un clima culturale favorevole alla rivoluzione scientifica
galileiana con l'ampliare notevolmente la prospettiva gnoseologica
tradizionale. Oltre alle citate, il C. scrisse diverse altre opere:
Astrolabii quo primi mobilis motus deprehenduntur canones (Patavii), che
costituisce una correzione ed un aggiornamento di un'altra opera anonima, che
fu pubblicata a Venezia, e che tratta dell'uso pratico del noto strumento
astronomico; Sphaera (Patavii), un trattato di astronomia, redatto
probabilmente ad uso degli studenti, in cui viene esposto il sistemato
tolemaico, e che, pur basandosi naturalmente su trattati analoghi, allora
notoriamente numerosi, rappresenta l'opera astronomica più compiuta del C.;
Procli Diadochi Sphaera (Patavii), traduzione del noto trattato del matematico
e filosofo neoplatonico; De primo mobili librum singularem; Ephemerides annorum
XII; De calculo astronomico libros II; queste tre ultime sono citate dal
Papadopoli e dal Poggendorff senz'altra indicazione e non se ne è rintracciato
alcun esemplare. Nel corso della sua attività accademica, il C. trattò
successivamente del primo e del settimo libro degli Elementi di Euclide, della
Sphaera del Sacrobosco. della teoria dell'astrolabio, della geografia di
Tolomeo, dell'astronomia del sistema tolemaico, e, probabilmente delle
"meccaniche" di Aristotele, come viene affermato da Baldi, che fu suo
allievo, e da lui stesso in una sua opera (Universa loca); Papadopoli, Historia
Gymnasii Patavini, Venetiis; Cinelli Calvoli, Biblioteca volante..., Venezia; Riccardi,
Biblioteca matematica ital. dalla origine della stampa, Modena; Favaro, I
lettori di matematiche nell'univers. di Padova…, in Istituto per la storia
dell'Università di Padova, Memorie e docum. per la storia della Università di
Padova, Padova, Giacobbe, La riflessione metamatematica di P. C., in Physis;
Id., La riflessione epistemologica rinascimentale: le opere di P. C. sui
rapporti tra matematica e logica, con riproduzione dei testi originali, Pisa;
Ch. G. Jocher, Allgemeines Gelehrten-Lexicon, ad Indicem; Nouvelle Biogr.
Universelle, ad Indicem;Biogr. Universelle; British Museum, General Catalogue
of Printed Books; Poggendorff, Biogr.-Lit. Handw. z. Gesch. d. ex. Wissensch., ARTIVM
ET THEOLOGIAE DOCTOR, PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN GYMNASIO
PATAVINO, SVPER LOCA MATHEMATICA contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis
nunc et non antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO, LOLOTILLON 0 V ENETIIS
Apud Cominum de Tridinum Montisferrati. C. DOMINICO MONTE. SORO DOCTORI MEDL
song CO EXCELLENTISSIMO OPICORVM libri din Elenchorum Aristotelis quædamloca obscuriuſću
la contincbant qnæ apud Gręcos philofophos erant in primis clara, & per ea
co tera loca maiori difficulta ti inherentia declaraban tur, ob id autem illis
con tingit, quod veritatis amatores & philoſophiæ principes videri apud
exteras nationes cupiebant, quod & re ipfa tales exiſtimarentur, niſi furto
å Caldeis, egiptijs, & alijs abſtuliſſent, id autem, alįe na ſua feciſſe,
vitio non omni ex parte abeſt, La tini vero quidam auaritiæ fine præſtituto(latinos
hoc loco voco cos qui litteris illisRomanis, vel voce, vel etiam fcriptis ſuos
conceptus explicant) philoſophiæ extremis partibus ita incumbunt A vt ſemper
lutuoli,verlantesin excrementa naturæ appareant, quod quidem laude dignum
effet,fi vt præclară prolem, quemadmodú boni viri faciunt aliqui egros
inuiſerent, quo igiturme uerterem in inuio, non erat conſilium,ničí Reuerendus
domi nus Laurentius Venetus ex nobis familia foſca. rena Canonicus Veronenſis,
virum Dominicum Monteſorum Gręca ambitione & auaritia immu nem oftenderet,
cui hæc noſtra loca immo Ari ſtotelis declarata dedico, quæ fi Aristotelis fco
pum attigerint, vt exiſtimo & tibi fore grata co gnouero ad reliqua
philoſophiæ Ariſtotelis loca declarandanon piger animus noſter erit, quod fi
minus,cenſoriam amicorum virgam nonfugiet hæc noftra expoſitio,interimmegratum
habeas. Vale. IN PRIMO CAPITE PRIMI LIBRI TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic
modus differre à dictis ſyle logiſmis nequeenim ex veris, &primis ratioci
natur pſeudographus,neque ex probabilibus, nem in deffinitionem non cadit;
neque enim quæ omni. bus videntur accipit, neque quæ plurimu i,neque qnæ
fapientibus, & his neque omnibus neque plu. rimum, neque probatiſſimis; ſed
ex proprijs quidem alicuiſcientie fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit,nam
vel.eo quod femi circulos deſcribit non vt oportet, vel eo quòd lineas aliquas
dicit non vt ducendæ ſunt paralogiſmum facit. VNC textum declarant Greci, &
Latini vſque ad locum illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geometrico,ad quem
locum pręclari expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris vinctum loris,
& funibus reliquerunt Ariſtotelem, vt ab Alexandri tempore(vo reor) vſque
modo, omnes qui illas preclaras interpretationes legea rint, illius loci
notitia priuati fint, quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo citarem nomine,
vt amatores Aristotelis eos cauerent vt infames ſcopulos acróceraunię, fed eos
prçtereo vt in hacparte inu liles, line Geometria logiculos, legantfine liuore
& vafricia expo fitores illius lociomnes, & has noftras declarationes
non quidem criſpis naribus, ſubinde iudicent,fi intellexerint, quanti ingenö
fuit, ficut in cæteris ipſe Aristoles, hæc citra in Alatas buccasdixiſſe ve lim,
quiſquevt intelligat, fed vt litterarum aliquando illuſores re primantur
pariterque eorum indocta audatia, fufcipiatur igitur recta linea, a bquę
feccetur quomoçunque contingat in puncto c, & ſuper vtranearī a ccb,
ſemicirculus,non vt primīī petitū docet, facto d centro vnius & e alterius
deſcribatur perperā ſemicirculus a h c,alter chb, quiſeſe Tangantin puncto h
ſuſcipiaturque centrū huius ſemicirculiah cipſum d, illius autem ch b ſit
centrum e, a punctis igitur d; & e,ſemicirculorum centris ducantur duæ
lineæ ad h contactum, & intelligatur Triangulus d he, quoniam autem 3 5
dur'lineædc & dhexeunta centro ad circunferentiam ipfæ per dif finitionem
circuli funt æquales, pariter per eandem definitionem duæ lineæ ec & ehſunt
æquales, duæ igiturdc & ce duabus d h & eheruntæquales, duæ autem ille
dc, ceſuntvnum latus trian guli dhe,ergo vnum latus d e trianguli d heeft
æquale duobus la ceribus eiuſdem triangulidh & e h,quod eſt impoſsibile
contra vi gefimam primi elemērorum Euclidis,duo enim latera omnis trian guli
quomodocunque ſumpta, ſunt maiora reliquo & non æqua lia, vtpſeudographo
ſyllogiſmo machinabátur proteruus,hocau. cem vitium non ex coprouenerat qex
falfis fyllogiſmus fic con fectus,quia ex veris, & immediatis, &
exeodem ſcientię genere, vt ex definitione 17 primi elementorum ſyllogiſthus
affectus eſt,ſed error atque peccatum proceſsit ex co ofemicirculos defcribit
non vt oportet, quod notauit nobiliſsimus geometra Ariſtoteles, fic 1 a 6
etiamhi qui falfo fyllogizant,vnum fatus trigonimaius eſſe duo bus reliquis
trigoni lateribus, no vt oportet femicirculos diſcriben tes, fic.n.linca a b
& puncta in ea ſuſcipiantur cd & circa vtranq ac, &db, rectam
ſemiciruli deſcribantur fe inuicem tangentes in puncto e alter a ec cuius
centrum f,reliquus bed cuius centrum g, &a centro fprotrahatur recta fe
fimiliter a punctog protraliatur gerecta, tunc triangulusfe g habebit latus f g
maius duobus lateribusfe, & ge, quod fic perſuadetur,lineafc eft æqualis
lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad circunferentiam, fimiliter linca g deft
æqualis geeadem ratione, fi igitur c d linea addatur lineis fc, & dg,
equalibusfe & gcefficiunt linea fg latus trigoni fe gma jusduobus lateribus
fe, & ge quod eſt impoſsibile per 20 primi clemcntorum,vel eo q lincas
aliquas ducit non vi ducendæ funt d g paralogiſmum facit, ſi ducatur linea a
centro fad centrum g, illa non tranfibit per contactum e,vtin hac fecunda
figura apparet, ve linea abf,in g,non tranſit per punctum e vt oporteret, per
xi tertij clementora Euclidis, fi duo circuli fe contingunt & acentro ynius
ad centrum akerius recta ducatur linea illa de neceſsitate applicabi tur
contractui, ex mala igiturdeſcriptione attulit Ariſtoteles exem plum de
ſyllogiſmo falſigrapho, qui oſtenſiuo fyllogiſmo oppo. Situs eft. Similiter
vero e ſi cubilali magnitudinepoſita dixe rit, quod ſuppofitum eft cubitalem
magnitudinem ere, eo quid eft dicit, & quantum fignificat. RES duorum
generum propinquorum continuiatas diſcre. ti vnius tamen generis remoti
&analogi, quantitatis videlicet, in vnacubitali magnitudine
continetur,obid, duodicit, qui magnicu dinem cubitalem,effe magnitudinem duorum
cubitorum, &quid, quando dicit magnitudinem, et quantum, quando
dicit,cubitorum duorum, hinc manifeftum eft in ynoquod prædicamento reperiri
quid,vthoc Ariſtotelis exemplo patet demagnitudine,aliud eft no tandum, quomodo
vnum accidens,vt duorum,quod ad Arithme ticam pertinet,accidere
magnicudini,quod ad Geometriam attineta. QVAEDAM enim statim &nominibus
alia ſunt,vtacu to in voce contrarium eſt graue, in magnitudine autem, acuto,
obtufum contrarium est. Multiplicita - tem huius vocis # (acutumdemon Itrat
Ariſtoteles, quia et angulum norar, & vocem, # US Angulus accutus
rectominor & contrarius eft obruſo, &voxac cuta graui vociopponitur, et
graui contrariatur accutum in voce, leue in ponderibusgraui oppugnāt. Sed
dubitatur,cum quantitati nihil fit contrarium, quo pacto acuto angulo obtufus
contrarius fit? Dico quod angulus noneft quantitasfed ex quantitate quan.
titati adiuncta proueniens accidit quãtitati vt fit accata vel obtuſa
pariterque pondus &lauitas funt quidem magnitudiniadiuncta, fed no eſ
pondus,et leuitas, quatitas, ſi contraria fint leue et graue. cantus IPSIvero
queà conſiderando eft, quòd diameter cofta incom menfurabile, nihil. DEincommenfurabilitate
coſtæ cum diametro abunde faris in pofterioribus declaraui,quantum vero adhunc
locumattinet, Art ſtoteles inquit, non effe quippiam oppofitum ipfi
incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas, inter coftam atque diametrum
quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in præcedenti textu, ſit de
terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt pondus & leui tas
contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę & diainetro,
vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati? Reſpondeo, prius
dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe riebantur,hæcautem
incommenſurabilitas in abſtractis geometria cis; Præterea, nonfuit dictum omnia
quæ in magnitudinibus re periuntur eſſe contraria,Pręterea & li
opponanturcommenſurabi liincommenſurabile,non tamen contraria ſunt, vel etiam
fi contra ria fint,non tamen ratione ſubſtractorum,quçſuntquantitates,co fta
& diameter, contraria effe dicuntur, potus enim fitinon eft nifi quodammodo
contrarius, delectatio autem, quæ ex potu prouenit opponitur contrarie
triſtitiæ, quæ prouenit ex fiti, Præterea graue & leweſuntabſoluta quædam
in diuerfis ſubiectis poſita ſeorfim, incommenſurabilitas autem relatio eft;
quæ indiſcriminatim funda tur in coſta,ad diametrum & in diainetro ad
coftam. CON SIMILITER autem et acutum,nam non eodem mo do in omnibus idem
dicitur,nam vox acuta quidem velox,quemad modum quidem dicunt ſecundum numeros
armonici. NOTA dignnm eft hocloco conſiderandum, a vox hoc lo co non accipienda
eft pro humana voce tantum, ſed pro ſono, qui quidem fita cordulis
inſtrumentorum, nam gratilior corda fitan gatur plures aeris percuſsiones facit
quain crafsior cordula, fiea dem vi moueatur, modo inter percuſsiones multas
aeris cordulæ gratilioris ad percuſsiones cordulæ craſsioris fi inultitudine
repere ris duplam,diapaffon, fi fefqualteram, diapente, fi vero epitritam
diateſaron, vt aiunt Armonici continentiam inuenies, quia tamen Ariſtoteles de
generatione animalium libro quinto capite feptimo pucat concinentiam fieri ex
alia caufa quam ex proportione illo, rum ſonorum numeratorum ad alios fonos
numeratos,vt pytha. gorici volunt, ideodicit quemadmodum quidem, vt dicuntarmo
nici, quia fententia Ariſtotelis alia atque diuerfa eft ab illis armoni cis,
qui Pythagoræ affentiri videbantur. ET quòd pun&tusin linea do vnitas in
numero, nam vtrun. que eft principium. PRÍNCIPIV M lineæ punctus, principium
autem nu merivnitas eſt, ſed punctus non componitlineam alős punctis ap pofitus,vtin
pofterioribus demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus numeruin
conftituunt atque componunt, principium tamé lineç atque finis,punctus eſt ex
cuius fluxu linea fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in diſcurſu
geminico determinaui, non tamen linea ex punctis conſtat, VEL duplicis &
dimidij. AN ſit ne eadein diſciplina duplicis atque dimidă conſiderare oportet,
quod profecto allerere videtur ex capire de relatiuis, cum nemo ſciat duplum,niſi
cuius ſit duplum ſciueric, quod diinidium eft, fi pro relatiuis vtrunque
ſuſcipiatur. HOC autem non ſemper faciendum, fed quando non facile pojumus
communem in omnibus vnam rationem dicere, quemad modum Geometra quòd triangulus
duobus rectis æquos isabet tres angulos. NVLLI id in controuerſiam venit, an
omnis triangulus ha beat tres angulos duobus rectis æquales, ſed illud dubium
eft,an id quod rectilineumeft,habens angulos duobus rectis æqualis,trian gulus
ſir, velquid horuin in plus fe habeat, & non fit vtrunque ſe cundum q
ipſum, ſed vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis æquales, atque
comunius,an potius triangulum effe, ad quam dübitacionein, dico quod
duobusrectis pates habere angulos, eſt quid communius, quam efſetrigonum, id
autem inanifeſtum eſt de pentagono, cuius quodlibet latus, duo ex reliquis
lateribus fec cat latera, id autem per primam partem 32, primiElementorum bis
fumptam & per fecundam partem eiuſdem zz. ſemel ſum pram, vt in figura
ſubſcripta deduci facile eft, & fi habere tres çqua les duobus rectis
conuertatur cum trigono,non tamen habere om nes angulos equales duobus rectis,conuertitur
cum effe trigonuir. Dico igitur, quod habere omnes angulos equales duobus
rectis,co mune eſt ipſi trigono, & pentagono, cuiusvnum latus ſeccat duo ex
reliquis latera, habet tamen penthagonus quinque equales tri bus, qui tres
duobus rectis pares funt, & fic figuramihabentem B omnes angulos
duobusrectis pares communius eft, quam fit trian gulus, non igitur eſt affectio
trianguli neque angulorum triangu. li, fed quid communius trigono, vel tribus
angulis trigoni, non eft igitur eius proprium,quod videturfoluere dubium fuper
textu mo tum,fed affectio trianguli eft habere tantum tres equales duobus
rectis,velęqualitas duobus rectis, conuenit tribus angulis figuræ triangulari,
& non omnes angulos, elle çquales duobus rectis. VEL pt buius a fecundum
lechu ius ſecundum acci dens, vt fecundum Se quidem quòd tri angulus duobus re
b Etis æquales habeat tres angulos, ſecun. dum accidens autē, quòd æquilaterus,
quoniam enim acci dit triangulo,& qui. laterum effe trian gulum, perhocco
gnoſcimusquòdduo bus reétis habeat internos. QVIDAM interprætes fic perperam
exponunt Ariſtotele, quod habere tres duobus rectis pares,ipfi triangulo per ſe
infit,ipfi vero Iſoſcheli cõuenit quidem habere tres duobus rectis parcs, ſed
non per ſe,ſed per accidens, fic vt hæc predicatio, Iloſcheles habet tres
duobusrectispares, ſit accidentalis,hec quidem ſua interprę. tatio & nulla
eſt, &nullo modo ad Ariſtotelis textum facit, quod nulla fit, & falfa,
manifeſtum eſt ex capite de per fe in poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori
per fe ineft &inferiori pariter per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe
& primo, inferioriautem, per ſe fed non primo. Aliter igitur exponendus
venit is textus, primo igitur aduertendum quod circa idem ſubiectum fit
prædicatio per fé & per accidens, vtpura circa triangulum, per fe quidem
fic, tri angulus habet tres duobus rectis pares, per accidens vero ſic, trian
gulus eſt Iloſcheles; vbi aduertendum,vtin præcedentibus libris declarauit
Ariſtoteles,omne inferius ſuo ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris
omnino fecludatur inferius, & vt alienum a fui natura ſibi conueniat.
SIQVIS infecabiles ponens lineas, indiviſibile genus earum dicat eſſe, nam
linearum habentium diuifionem non eft quod di Etum eſt genus, cumſint
indifferentes ſecundum ſpecicm, indiffe-, rentes enim ſibi inuicem fecundum
fpeciem rectæ lineæ omnes. TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus extat,e
greco latinitati donatus quem Ariſtotelis quidem effe exiſtimant, tametfi
Georgii pachimerñ nonnulli effe dicunt, quod, quia cuiuf cunque fuerit,non
facit ad expofitionem litteræ affequendam, me rito prætermitto auctorem fore
inueſtigandum,vt Ariſtotelis decla rationi infiftamus, pro quo in memoriam
reuocandī eft id, quod Porphyrius habet, ſuperius genus de inferioribus
ſpeciebusneceſe, fario predicari, quod fi de illis non prædicauerit,neque ad
illas, illud eſſe genus manifeſtum erit, quapropter fiquis inſecabiles poſuerit
lineas,atque ad illas genus id, quod eft indiuifibile,effe dicat,ftatim in
contradictionem reducitur,ob id, quia,diuiſibile,genus eſſe ad li ncas
conſtat,modo lineas omnes eandem deffinitionem ſuſcipien. tes,eiufdem ſint
fpetiei, fieri autem nequit, vt aliqua eiuſdem ſint ſpeciei, & genere fint
diuerfa, quod quidem contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas aliquas, genus
effe diceretur,tunc enim indiuiſibile di ceretur de lineis infecabilibus p
hypothefim cũ fic ſupponatur (fal ſo tamen ) ad illas eſſe genus, & etiam
de alñs, quæ per 10. primi Elementorum ſecabiles ſunt cum etiam adillas ſit
genus, quod qui dein efle, nullo modopoteft, propter contradictionem, ET ſi
differentiam ingenere poſuit tam quimſpeciem,vt im par quidem numerum,
Differentia quidem numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque videtur
participare differentia genus,nam omane quod eft, genus, velfpeties, vel
indiuiduum eſt, differentia autem, neque fpeties, neque indiuiduum, manifeftum
igitur quoniam non participat genus differentia, quare neque imparopetieserit,
fed differentia quoniamnon participat genus. B ñ 9 tra NVMERV S quieſt ex
vnitatibus profuſa multitudo,paro; titur in numeruin imparem, &in numerum
parem, vel perhas differentias diuiditur, quę ſunt, paritas, & imparitas,
quarum neu includit numerum, qui genus eſt ad omnes numeri ſpecies,& fi
ifta vera fic,rationale et animal, quando ly rationale accipitur pro Specie,
quæ homo eft, & non pro rationalitate in abſtracto, qux eſt hominis
conſtitutiua differentia,eodem modo, & numerus prædi catur de pari in
concreto & non de abſtracta paritare, hęcenin & fimiles illi, ſunt
ſemper falle, paritas eſt numerus, vel imparitas eſt numerus,quodquia oinnia
manifeſta, & nora Ariſtoteles cíle vo. luit, exemplo arithmetico
declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie pofirit, vt contiguitatem id ipſum
quod eſt continuitatem, non enim neceſſariuin contingui. tatem
continuitaternelle, led e conuerſo, continuitatem contigui tatem non enim omne
contiguum continuatur, led quod cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum effe
dico cuius partes copulantur ad terminuin vnum communem, qui quidem terminus
elt tantuin potentia inter illas partes ipſius continui, nõ etiam actu,
&opere, vt linea lineæ continuatur per punctum, qui non actu exiſtit, ſed
tantum potentia inter illas duas lineas, velinter duas partes linex, quod &
de partibus ſuperficiei, quæ per lineam in potentia copu lantur, &corporis
partes, per ſuperficiem in potentia, Contiguum autein illud effe dico, quod
alteri applicatur & iungitur non per mediuin potentia exiſtens,fed per
mediuin quod actu & opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de cæleſtibus orbibus,
concaua eniin ſuperó ficies ſuperioris orbis augem defferentis, &
fuperficies connexa or bis differentis epy ciclum ſunt due ſuperficies actu
exiſtēres inedia, per quas continguantur adinuicem illi orbes, non tamen
continu: antur adinuicem: Cælum primū continuum quoddam eſt, & con.
tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem concauam ipfius pri mi mobilis actu
exiſtentem,non tamen fequitur, primum mobile eſt contiguum cum nona ſphera,
igitur continuum eſt cum nona iphera,quemadmodī non fequitur, quinque digiti
adinuicem funt contigui, igitur quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur,
quinque digiti ſunt continui, igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt
quando clauditur manus, vel manus aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui,vel
aquç contigui, li in anforæ aquam inanum ponas, vel etiain cirotececontiguantur,
& ratio eft, quia vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur, ne
vacuum daretur in natura. CONSIDERAN DV M autem eſt, fi quod translatiue.
dictum eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam, confonantiam, nam omnegenus
proprie deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia,non proprie,fed
translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium
vocum acuti gra. uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris
percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue
dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat, non quidem a ſo no, quæ eft aeris
percuſsio, fed illa quidem eſt, quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc autem
non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia, quæ nil
aliud eſt, quam coeleſtium motuumdiuerſorum,in vnam munditotius conſeruationem
apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei, quos gratis in
libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam effe de
quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin. no Scipionis nomen indidit,
docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed illam quam
libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit Ariſtoteles. AVRSV
M ji non ad idem dicitur fpecies 2 ſecundum ſe, da fecundumgenus, vt fi duplum
dimidiy dicitur duplum o multi plum dimide oporter dici, li autem non, non erit
multiplam genus cupli, abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om. nia
fuperiora genera ad dimidium dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes
omnes fimul additæ in vnum exuperant totum illud cuius partes erant, vt duo,
cenarius eſt abundans, quia 6,4, 3, 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent
maiorem numerum duodenario, de quo quidem abun. danti, qui eſt fimilis
centimanugiganti, non loquitur Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft,
quod ſuperius eſt ad multiplum, ad ſuperparticularem, & ſuperparrienrem,
abundans præterea,vthic accipit Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de
multiplici, at& lu perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus
ſub illis contentis, dicitur,duplum igitur triplum,quadruplumque cummultiplun
lit & pariter vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non
eritmultiplum,neque etiam duplum, itaque abundans vniuer lale magis quam
multiplum eft. 1 era QVONIAM autem muſicum, qua muſicum eftfciens,elle muſica
ſcientia qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit, nõ quathenus cantorem,
qualitas eſt de prima qualitatis fpecie,quathenus autem ſcientia eft,
&fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in
prædicamentis determinatum. NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam
diuifibi le non omne, numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam
numero conuenit, non tamen omni numero, ſed numero tantum pari,impari autem ob
vnitatis interuëtum nequaquam, Veletiam melius erit dictu, diuifibilitas in duo
æqualia, numero tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter omni
numero conuenire, id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in duo
æqua. lia,vel in duo inæqualia numerus ipfe diuidatur, fic vtdiuiſibilitas in
partes integrales cuilibetnumero conueniat, non diuiſibilitas in partes aliquotas
omni numero, ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte etiam quod
ipfinumero primo conuenit diuili. bilitas in tot partes, quot vnitates habet;in
plus igitur ideft,quod diuiſibile eft, quam id,quod numerum eſſe, quia
diuiſibile, eſt com mune ad diſcretum, quod in partes aliquotas &in partes
integran tes diuiditur etiam ad continuum,ſequitur igitur recte,numerus eft,
igitur diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id, quod in ali quotas
& integrantes diuidatur partes, &non econuerſo, vt diui fibile eft,
igitur numerus, LOGICVM problema. PROBLEMA apud Euclidem eſt propoſitio,in qua
vnum datur, & aliud (vt in pluribus) quæritur, vt ſuper datamrectam li neam
triangulum collocare, linea quidem datum eſt, quefitum au tem ef trigonum ipſum
conftituendum ſuper lineam datam, ſem per enim problema verſatur circa praxim,quapropter,
problema Geometricum,eftpropofitio practica, Theoremavero Geometri. cum,eſt
ſpeculatiua propoſitio,modo Ariſtoteles non ingnarus hu. ius duplicis
fignificationis problematis Geometricc, & logice,pro pofitionem dubiam ad
vtráque partem, dixit problema logicum, &non Geometricum debuifTe
intelligi, inquit enim, logicum au tem eſt problema,ad quod rationes fiunt,
&crebræ quidē, & bong ERIT enim ſecundum hoc bene poſitum
humidiproprium, vt qui,qui dixit humidiproprium, corpus quod in omnem figuranı
ducitur, vnum aßignauit proprium, o non plura,erit fecundum boc bene pofitum
humidi propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore locante humidum,humi. dum
enim cum corpus fluxibile atque dilatabile fit, ſuſcipit quan cunque figuram a
re locànte, quæ figura, feu natura, fiue etiamarti ficis opere introducta fit,
in illo vaſe locantehumidum, accipere igitur hocmodo figuram a re locante,
proprium eft ipfius humi di, & non alterius cuiuſque, NON omne ſenſibile
extra ſenſum faftum,immanifeftum eft, latens enim eft, fi adhuc ineft, eo quòd
fenfu folo cognoſciiur, erit autem verum hoc,in his, quæ non ex neceſitate
ſemper conſequun tur, vt quia, qui pofuitſolis proprium, aštrum quod fertur
fuper terram lucidiſſimum, tale vſus eſtin proprio (ſuper terram in, quamferri)
quod ſenſu cognoſcitur, non vtique erit benefolis af fignatum proprium
immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol, si adhuc ferratur fuper terram, eo
quòd nos tunc deſeruimus fenfium. CECVS enim huius quod eft, folem fuper terram
ferri,nul. lam habet ſenſationem,ſed videns, illius ſenſationem habet quan do
folem ſuper terram in die artificiali conſpexerit, quam primum autem fol
occiderit, & fub orizonte conditus fuerit, definit ſenſus percipere folem
fuper terram ferri, fi igitur illud proprium eſſet folis, illo deficiente, (quod
contingeret nullo conſpiciente ſo lem ferri ſuper terram ) proprio, & Sol,
effe defficeret, quod quia abſurdum, non igitur proprium eft folis eum videri
ferri fuper terram, licet femper Sol ſuper terram fereatur, id etiam, haud
folis proprium eft, cum fyderibus omnibus, Igni, Aeri ſem per conueniat, id
autem quod proprium eſt, conuenit omni foli & femper,inodo fecunda
particula, (quod eft foli) non conue nit foli, fed etiam alijs a ſole, & a
fyderibus, & elementis, conuenit; Præterea folem femper ferri ſuper Terram,
& fi proprium ſolis ef fet,illud tamen non eſt ſenſibile, led immaginatum,perceptibile,vel
intelligibile, particula tamen illa aftrum lucidiſsimum, ipfi tantum foli
conuenit, CONSTRVENTI vero, fi tale aßignauerit proprium, quod non ſenſu est
manifeſtum, aut cum ſit ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc
benepoſitum proprium, vt quia, qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum
coloratum eſt, ſenſibili qui dem aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale
quidem quod ma nifeſtum est ineſſe ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum
fit perficiei propriim. IMMEDIATVM ſubiectumn coloris fuperficies eſt, ſub.
ftantia enim colorata eſt, quia corpus coloratum,etideo corpus co loratum eft,
quia ſuum extremum eft coloratū, extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo
corpuscontinetur ſuperficies eft, in qua im mediate color fuſcipitur, iſtud
autem proprium,non ex natura ſu perficiei profluit, fed extrinſece aduenit
color ipſi ſuperficiei, quæ quantitas quidem eſt, color, autem qualitas, fed
cum ſenſibili per fenfum percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat
exiſtimatio, et quia ſuperficies omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte
pro prium afsignabit ſuperficiei, fiquis dixerit eain effe coloratam & erit
proprium ſuperficiei, proprium quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura
ſuperficiei. PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad vnum quodque
eorum cuius proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non fecundum boc
quidem verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que eorumſecundum illud cuius
proprium aſsignauit; non enim erit proprium,quod pofitum eſt elle proprium, vt
quia de Geome tra non verificatur indeceptibilemeſe ab oratione (nam decipi tur
Geometra cum pſeudographiäfacit ) non erit hocſcientis pro prium, non decipi ab
oratione. HIC locus videtur opponi ei quod Ariſtoteles determinauit de Geometra
primo poſteriorum,vbi ait Geometram non mentiri concipientem 9 concipienten
lineam bipedalem, quæ tamenminimebipedalis eſt, fed fiquis recte
inſpiciat,nulla certe oppoſitio apparebit, fed vtera quelocorum mutuo ſeſe
alternatim declarabit, cuinam in dubium illud venit,fępemens ynī interne
concipere, quod falax manus ex trinſece, illud peruertit: hoc quidé
prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id
ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur, & id vitii non ſolum manui, fed
linguæ ſæpe etiam contingit, quis enim id in feipfo non eft expertus. vt quan
doque ynum ex inſperato lingua profferat, Q tamen aliter mente prius
conceperat,id autem etiam cuidam Geometræ, ſi contingar, vt perperam
ſemicirculos deſcribat veltrahat lineas,non vt opor tet (vt interiusprius mente
concepir) ficut primo topicorum capite primo fuit declaratuin,non tamen id
proprium eft Geometræ,cum non ſemper vnicuique Geometræ conueniat, ſed raſo
etiam vni accidat. SIMPLICITER igiturnotius, quod prius eſt poſteriore, vt
punctum linca, o linea ſuperficie, & ſuperficiesſolido, quem admodum vnitas
numero prius enim &principiã omnis numeris. VIDETVR hic textus contra
determinationem philoſophi primo de phiſico auditu capite de primo cognito, vbi
determinat de circulo p priino cognoſcitur, quam quod fit figura plana vna linea
contenta: pro cuius loci huius &illius intelligentia, fcire debes
deffinicum cum ignotum ſit, per deffinitionem explicatur,ipſa vero definitio
per ea quę nota ſunt, ingnotum definitummanife ftum facit, quod
Euclides,vbilineam rectam deffinit primo Elemē. torum prius punctum
explicuit,quiin deffinitionem lineæ ponere, tur, vt furt declaratum capite de
per ſe,primopofteriorum fubinde lineam per punctum, & fuperficies per
lineam, & tandem libro 11, corpus per ſuperficiem deffiniuit, quo autem
modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea ab eo modo, quo vnitas in numero,id in
na lyticis capite de per ſe fuit manifeſtīt, ſed id in dubiữ verticur, quo nam
modo corpore ſuperficies, & fuperficie linea, &linae punétus noctiora
fint:'cīí hæc omnia apud Geometrā, & ftereometram ab ſtracte conſiderentur.
Dico quod cum abſtractione in his omnibus minor & maior fimplicitas
repperitur,vt in puncto quam in linea &fic deinceps, Adid autem de primo
phiſicorum de circulo nulla videtur oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim
de vniuerfali con fufe aprehenſo hicauté de ſinipliciori dictincte concepto
loquitut C 1 pro no OPORTET autem non latere quædam fortaſſe aliter deffi niri
non poffe, vtduplum, line dimidio. ID notandum euenit hoc loco, quod
Ariſtotiles capite de ad ali quid poft multa examinara ibidemn
determinauit,quodad aliquid non eft, cuius effe fit elle alterius, fed cuius
eile eft ad aliud quodam modo refferri, vt dupli efTe, fic eft, vt abfque
relatione ad illud cu ius eft duplum minimne poflit percipi, licet non
cognoſcat illud fub nomine & natura dimidii,ſed tantum quathenus
duplationen ter minat, quę fundatur in eo, quod illa duplatione duplum eft.
OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere mine orationem, vt quod, dies, eſt
ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet diem artificialem (qui incipit ab
emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo accidat ) ponit in definitione lationem
ſtelle apparentis fuper terram (qui fol dicitur )nam qui die vtitur & ſole
vei neceffe eft, acquiſolem deffinir, ſtellam in die apparentem dicit, in qua
deffenitione alterius,alterum ponit eo modo quo ea, quæ ad aliquid
deffiniuntur, RVRSVS fieo quod e diuerſo diuiditur, id quod e diuerſo di
uiditur diffiniuit, vt impar eſt qui vnitate maror eſt pare, fimul enim natura,
quæ ex eodem genere e diuiſo diuiduntur, impar au. tem & parediuerſo
diuidunt,nam ambonumeri differentia. PRETER eas quas Euclidesin elementis &
Boetius primo Arithmeticæ deffitiones de impari atque,pari numero dederunt,hęc
Vna eít,qua in comparatione & non abfolute imparemnumerum in ordinead parem
deffinit fic vt neuter abfque altero intelligi que at, & alter
indeffinitione alterius ponatur,vtocto par, vnitatem imparem feptem ſuperet,
& hic fenarium parem eadem vnitate maior euadat. Duo enim funt quæ diuidunt
e diuerſo ipſum nume rum par, & impar, & in deffinitione alterius alter
ponitur,cum ad feinuicem rellatiue conſiderantur & non abfolure, SIMILITER
autem & fi per inferiora ſuperiora deffiniuit, pt parem numerum
quibipartiteſecatur, name bipartite ſuma ptumest à duobus quæ paria ſunt. HIC
textus obfcuriuſculus redditur in littera,ſenſus tamen fa. cilis eſt, ſuperius
enim fi per ſuum inferius deffinitur, vt notius fia at, fuperius hic eft quod,
bipartire ſecatur,inferius autem numerus eſt par,optime enim fequitur, hic
numerus par eft igitur, bipartite fecatur,fed fi arguas bipartite ſeccatur
igitur numerus eft,incõftans eft ifta argumentatio, neque y ſquam valida eft,
nifi intelligatur 1 numerus in confequente pro numéro numerato, vt funt etiam
ma. gnitudines, quæ nuineri ſunt, vt in pofterioribusdeciaratum eft per me, ita
vtin conſequente accipiatur numerus pro quodam comu. ni ad numerum numeratū
&ad numerum qui eſt ex vnitaubus profuſus aceruus,fic enim quod bipartitīī
par numeruseft, & ficin deffinitione ſuperioris, quod eſt bipartiri veimur
oumero pari,qui inferior eſt ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a binario numero
capias qui binarius inferioreſtad numerum parem,cum quaternarius, & ali
quam plurrimi fint pares numeri,modoqui in deffinitione nu. meri paris vtitur
bipartiri, ille quidem in ſuperioris definitione Vtitur ſuo inferiore, AVT
rurſum qui deffinit noĉtum umbram terra. TERRA eniin cum ſit opacum corpus radë
Colaresnon pof. funt illud ingredi & vltra progredi (quod in traſparenti
aericone tingit,) ſed impediuntur a parte terræ, quæ pars ad folem reſpicit, ex
alta autem terræ parte,luminis priuatio contingit, quæ priuatio luminis folaris
fuper terram nox appellarur & cft liquis igitur no Etem definiat, fic
inquiens nox eft priuatio luininis folis ob er iæ opacitatem proueniens,
fimiliter terram quis deftiniens dicet, terra eſt corpus ex cuius opacitace nox
fit, vide quo pacto &ter am in deffenitione noctis, & noctem in
deffitione terræ & vtrun que in vtriufque deffinitione ponitur, fequuntur
quædam Ariſtore lis verba in textu de multiplici & ſubmultiplici, atque de
duplo & dimidio, quæ quia alias declarata ſunt pretereunda duxi, fed id no.
tandum eft quod in deffinitione priuatiui, vtputa noctis, ponitur poftiuum,
vtputa terra, quod etiam in multis eft aduertendum, quia non ſolum ponitur
pofitiuum,fed etiam priuatiuum, vtly pri uatio lurninis. Si autem aliquurum
complexorum aßignetur terminus, con fiderandum eft aufſerendo alterius eorum,
quæ comple & tuntur ora tionem, fi eft & reliqua reliqui, Nam fi non,manifeftum
quonia, neque tota totius, vtſi quiſpam deffinit lineamfinalem rectam fic nem
plani habentis finis, cuius medium ſuperaditur extremis, ſi finalis linca ratio
est,finis plani habētis fines recte oportet effe re liqui, cuius medium
fuperadditur extremis,fed infinita,neque me dium neque extrema habet, re
&ta autem est, quare non est relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad
expofitionem textus deueniam primo liç terai Ariſtotelis in tralatione
Argyropili et in textu Auerois cor rigendam puto de mense Ariſtotelis ex
Euclide iuxta cheonem, le gitur enim in vtroque textu cuius medium ſuperadditur
extre mis, vbi legi debet, cuius mediuin ' non reſulta ab extremis 86 Aueroes
in expofitione fic interpretatur,cuius inedium non occu. lit duo extrema, &
videtur afſentiri ipfi Platoni deffinienti rectă, recta inquit linea eſt, cuius
medium non obumbrat extremna, cæ, terīt mens Ariſtotelis eſt, quo pacto
complexum deftiniatur often dere, vt fi homo gramaticus deffiniatur,hæcenim
erit ſua deffini tio, fíue terminus,aninal rationale mortale recte legens atque
ſcri bens, tota quippehec ratio, huic toti coplexo, nempe, homo gram
maticus,conuenit,modo liably homo, ly gramaticus aufferatur, &ab ly animal
rationale mortalely recte legens atque ſcribens, vt fic dicatur, homo eſt
aniinal rationale mortale, &gramaticus eft recte,legensatque ſcribens,
peroptime data erit deffinitio primo ipſius complexi,homo gramaticus,quod
Ariſtoteles in Geometria exemplificat,iminaginans (de mente aliorum,) planum
efle infini tum ſecundum longitudinem tantum, finitum ſecundum latitudi. nem,
quod quidein terminatur linea recta, quæ eius finis ſecundū latitudinem ellet,
modo ſiquis definiret lineam finalem rectam die cens,effe finem planihabentis (ſecundum
latitudinem ) fines,cuius (quidein finis) medium non relultat ab extreinis,hæc
particula, fi nes plani habentis fines, in definitione pofica recte conuenit
lineæ finalis, fed hæc particala, cuius medium non reſultat ab extremis,
nonconuenit illi particulæ pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta, velly linea,
quia non conuenit niſi recrę lineç finicę, & non infi nitę, quęinfinita, vt
fupponebatur, non habet medium, neque ex. trema,ideo deffinitio ipſius
totiuscomplexi minime recte data erat quia ficut vna ablata particula in
deffinitione conueniebat ablatę particule deffiniti, non fic reliqna particula
deffinitionis conuenit relique particule complexi deffiniti, $ I autem
differentia terminum alignauit confiderandum, fi eg alicuius numerun comunis
est aſſignatus terminus, vt cum imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit,
deter minandum est, quo pacto medium habentem, nam numerus qui dem, comunis in
vtrique rationibus eſt, imparis autem coaſſum pta eſt oratio, habent autem
&linea & corpusmedium, cum non fintimparia, quare non vtique erit
deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in
teruentum medium indiuilibilis denumerantis totum numerum cuius illa
vnitasıncdium eft, linea autem & corpus & ſi medium habeat,linca quidem
punctum medium, quod per 10 primielemen torum inuenitur fi diuidatur, &
fuperficies medium habet diame trum, illa tamen media,vt nec punctum lineam,neque
linea ſuperfi ciem dimittuntur, neque illa componunt ea, quoruin media ſunt,
determinatū igitur eft, quo pacto numerus medium habet, & quo pacto linea
atque ſuperficies, & hoc de numero iinpari intelligas, cuius inedium
interduas partes æquales,vnitas eſt, & non de pari, ficut etiam Ariftoteles
ait in textu, ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent ad inuicem, vt nibil ex
fiant; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt 45 primielementorum Eucli
dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum fuperficies pro ducitur,
pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro ducetur, vt ex ſeptimo
elementorum manifeftum eſt, non tamen idem prouenit per additionem, quia linea
lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc milliesmillienamillia addieris
adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies, neque fi puncta ad fe inuicem
addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li vnitatibus, velvnitati,nu.
merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex vnitatibus protufus, vt etiam in
prædicamento quantitatis fuit declaratum. Avr fi eodem ab vtroque ſublato, quod
relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi, co multiplum dimidij idem
dixerit elje, fublato enim ab vtroque dimidio, reliquu oporteret indicare, non
indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà quæ de
duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum illud
conſiderandum eſt, quod a nega. tionc dupli ad interremptionem multiplex fiquis
argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum
multiplum ipfo duplo, vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, &
duplum ad dimidium, &multiplum ad ſubmultiplum. VIDET V R autem &in
diſciplinis quædam ob definitionis deffe &tum, non facile deſcribi, vt
quoniam quæ ad latusſeccat planum linea,fimiliter diuidit &lineam
&locum, definitione au tem di&ta ftatim manifeftum eft quod dicitur,nam
eandem ablatio nem babent.loca d linea, eft autem definitio eius orationis hac.
DEFFINITIO ſecunda tertń elementorum intellectum prebet huius deffinitionis
pofitæ ab Ariſtorele, definitū eft ly linea fec cās planum, definitio eft ly
linea fimi a Jiter diuidēs lineam &lo ct, fic enim Jittera ordi netur,
linea quæ ad latus ſeccat pla num, eft li. nea diuidens lineam et locuni
terminatum ab ipla linea recta, fieri enim non po teft, vt linea ſecet planum
terminatum linea, quin il.. la linea terminans planum ſeccetur ab eadem
feccante linea, id autē manifeſtum g eft ex fecunda, tertia, & quarta
definitione tertń elementorum Euclidis, & alisexipfo tertio elemen forum,
& xi fecundi, ly li. mea quæadlatusfeccat pla num,vocatAriftoreies
orationem in hocloco, vbi ait, oautem: deffinitio eius orationis, hæc, id etiam
dignī notatu cum deffinitio per genus, & differentiam detur,loco generis in
hac definitione, eſt ly linea diuidens lineam, inodo cum linea prior fit plano,
manife, ftum eft,quodde genere dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER
autem prima elementorum, pofitis qui dem definitionibus (vt quid linea vel quid
circulus) facillimum oftendere, verum non multis ad vnumquodque eorum eft
argumen tari, eo quòd nonſunt multa media, ſi autem non ponanturprinci piorum
definitiones,fortaſſe autem omnino impoßibile. PRIM A elementorum hoc loco,non
ſunt intelligenda princie pia, quæ definitiones,petita,& animi conceptiones
ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt propoſitiones,quæ in probleniata &
theoremata diui duntur, quæ prima elementorum, ideo dicunturcum per ipfa, quæ
proponuntur in alís ſcientñs probentur, vt quid fit linea,videlicet longitudo
illatabilis, & quid linea recta,cuius mediñ ſua ex æquali interiacet
figna,tunc ſuper datam lineam rectam triangulum colo care proponit prima, primi
elementorum, & pofita definitione cir culi per ipſam probatur triangulum ſuper
datam lineam colloca. tum effe æquilaterum, & folum perilla media videlicet
definition nem circuli 17 & primam animi conceptionem primi elemento rum,
quæ definitio, & animi conceptio fi prius non ponantur diffi cile erit
oftendere, fortaſſe omnino impoſsibile, quod triangulus conftitutus fuper datam
lineam ſit æquilaterus, 1 SIMILITER autem his & in his quæ funtcirca
orationes Je habe nt; non igitur latere oportet, quando difficilis argumenta
bilis eft poſitio,quòd eft aliquid eorumquæ di&ta funt. LINE A quidem,
atque circulus ſunt quædam incomplexa quæ diffinibantur ab Euclide deffinitione
tertia & 17 primi ele mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat planum, fiue
linea ſeccans planum ad latus, id totum complexum eft,atque compoſitum, &
licut fieri non poterat, vt oftenderetur æqualitas laterum trianguli, abſque
definitione incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit, vt quippiam de
quopiam demonftretur, quando in demonſtratione ingreditur aliquod extremum
complexum, quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio,ly linea leccans ad
latus planum, nifi prius ipfius complexi atque orationis præierit deffinitio,
quę eſt,ly linea fimiliter diuidens lineam terminantem locum &locum, ita
vtpar. ticula illa circa orationes non intelligatur yt gramatici, &
rhetores intelligunt orationes, fed oratio, pro quodam intelligatur comple xo
indiſtantitamen, hoc eft fine copula, & verbo principali,parti cula illa,
pofitio, cum inquit Ariſtoteles quãdo difficilis eſt pofitio, non intelligitur
pro petitione, feu petito, quia petitum non eft argu mentabile,hoc eſt per
argumentum probabile,neque difficile, ne facile, cum ſit primum principium
&non probetur, fed petitio in hoc loco accipitur pro ipfa propoſitione, quæ
probanda venit, ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit, feu problema, vel etiam
theore, ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile argumérabilis eft, quando
inter probandam ipſam,contingit aliquod deffiniendī, quod com plexum fit, quod
nifi delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo ſitio, & fortaffe
omnino inpoſsibile, quando id quod dictum eſt contigerit,videlicet quod
complexum deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem omnino impoſsibile in
præcedenti textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis particula accipienda
eſt. VELV T Zenonis quòd non contingitmoneri, neque ſtadium pertranfire.
PROTERVI Zenonis eft fententia dicentis ftadium, quod octaua pars milliaris eft,pertranfiri
non polle, inter genera menſu. rarum quæ magis notæ ſunt,ftadium numeratur,quod
iuxta Ptho. Jamei ſententiã primo Geographiæ eft milliaris Italici pars octaua.
OPORT ET autem eum quibene transfert diale &tice,& non contentioſe
transferre, vt GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit; quod
concludendum eft. DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et
conuenientiam habet ad illam remi fecundumquam trallatio facta eft, & non
debet effe dubia,contentiofa, & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ,
qui nõ errat aliquo pacto circa ſuam materiam er formam, vt primo poſteriorum
declaraui, vel etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et
quadratum a nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum
vel æquicrus a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia
latera, quæ vt gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua
ſequuntur ſeinuicem ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle
diametrofi oportet dia meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum &
demonſtratū quo pacto diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis, quantum
autem ad hunc locum attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur
immediate,probatio fieri debet, fed medium debet effe aliquo modo idem cū
extremis,&aliquomodo diuerſum, vt in 10 clemë torum de diametro, &cofta
eftmanifeftū,Prçterea,non eft proban dumaliquod ingnotum per equc ignotum, quod
fi alterum peta tur in alterius probatione, nil penitus demonſtratur, IN PRIMO
ELENCORVM. CAPITE PRIMO, POSTQVAM enim ipſas per ſe res in difputationem alla
tas vfurpare dicendo non eſt, ſed vocum veluti nutibus,rerum die ce primur,
ſiquid in id incidit vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ in vocibus putamus,quod vfu
venire his,qui calculisrationem ineunt, ſolet. CALCULATORES noſtri temporis
characteribus caldaicis vtuntur, per quos, in numerorī cognitionem trahuntur,
ficut per voces in rerum cognitionem ducimur, IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE
vero,vt quoniam quinqueſuntduo et tria, fieri vt paria fint imparia, &
maius fit æquale. SI diuiſim ſummas3.& 2. nunquam, quinque faciunt, ſecue
autem fi coniunctim, &ceffatomnisinftantia. Neque dixit terna fium, &
binarium, quia due ſpecies numeri, non componunt terº tiam fpeciem numerorum,ſed
quinque vnitatcs pro materia quiné sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt
quantum. IN primo pofteriorum in de triplici errore circa vniuerfale fuit
oftenfum,proportionem proprie circa quantum &non circa qua le effe, ita vi
ſiquis pPomba proportionem proprie eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur
quanto vitioſe. IN QVARTO CAPITE. AVT quod idem eiuſdem duplum, & non
duplum, duplum quidem in longuni, non duplum antem inlatum. CVM dederic eiufdem
ad diuerfa: vt duo ad uſum &ad tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem
fecundâ diuerfa tama, Vt linca a b quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft,no
autem dú pla in latū immo quadrupla elt a badac duo quod eft effe fuũ in
potentia, quod manifeſtuin eſt, in triangulo a bccuius ca b'rectus eft, id
autem manifeftum eft ex 46 primi Elementorum, Eucli dis, vel dicas ab duplam ad
a cin longitudine, non autem in latiu dine, qua caret, eft dupla 1: 6 . NEQYE
ſi triangulusduobus rečtis tres æquoshabet, & ei. velfigură,del primum,vel
principium eſſe dicit;quod velfigura, del primum, vel principium eſt triangulus
eft, nam non quathe nusfigura del primum pel principium, ſed quatbenus
triangulus demonftratio erat. TRIANGVLVS enim rectilineus figurarum rectilinea.
sum prima eſt,ita vt fic & figura, & prima, & principium,vt qui
buſdam placet omnium figurarum rectilinearum,non tamen id ve tum eft fecundum
Euclidis fcicum; vtAs primi clementorum dos cet, &vt Amonius determinat
capite deſpecie ſupra porphirit, ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles,
& determinat quod no con uenit criangulo habere tres duobus rectis æquales,
ratione corum quæ de eo dicta funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem
quathenus,fi gura,vel primī, & principium neque etiam fi ifta fuſius
accipian tur,figura,primüm principium inferunt triangulum efle, arguere. tur
enim ex conſequente ad antecedens, & exmagis vniuerfale ad minus
vniuerfale,ex ſuperiorique ad inferius, figura enim nedum triangulo conuenit,
ſed pentagono &alijs multis,primum nedum figuræ, fed etiamnumero principium
quoque in naturalibus, & his quæ arte fiunt repperitur, nedum in figuris
cöpofitis (vt ais. bant ex triangulo ſape ſumpto, Hoc autem ab accidente
differt, quoniam accidens quidem 1 I 1 in uno ſolo ſummere eft, vt idem,elle
flauum of melse album ege cygnum,quod autem propter confequens in
pluribusſemper opora tet,nam quæ vni & eidem funteadem er fibi ipſa
poſtulantur elle eadem propter quodfit ea quæ propter conſequens eft
redargutio, eſt autem non omnino verum, viſifit album ſecundum accidens, nam
&nix cygnusalbedo idem,autrurſum Melyſji oratio, ide elle poftulat,fa
&tum eſſe, &principium babere', autæqualisfieri Geandem magnitudinem
accipere,quoniam enim principium ba bet quodfa &tum eft.co quod factum eſt,
babet principium,fa &tum elle postulatstam quam ambo eadem fint eo quod
principiū fa &tu elle finitumquc habent, ſimiliter auto e in his que æqualiafa
&ta Junt, ſi eandem magnitudinem & vnam ſumendo æqualia fiunt, et quæ
æqualia faéta funt eandem dim onam magnitudinem ſum munt, quare conſequens
ſummit. TRES modos errandiin falatia conſeguentis adducit philofa phus, primade
accidente, ve de albo,aiebant quidam cõſequencia hác valere, cignus eft,igitur
album eſt, & econuerſo,album eft,ige tur cygnus eft,determinat Ariſtoteles,
quod album elle,vniuerſali us fit,quã effe cygnum, a magis comune ad minus
comuneargud do cõinictitur fallacia cõrequêtis,albedo enim nedum eft in cygno,
fed etiã in niue, & alñs reperitur: Secundo vt Melyflus aiebat, hæc duo
videlicet, ly factum efle, & ly principium habere, vt recte fer quebatur
fecundum Melyſſum factum eft, igitur principiñ habet, principium habet igiturfactum
eſt, principium enim habere, vni uerfalius eft quam factum effe cælum enim
principium habet, ma teriain ſuam ſcilicet &formam, attamen, non eft factum,
quia fer cunduin falſam Ariſtotelis opinionem ſemper fuit, principiữenim.comune
eft & ad id quod materiam &formă haber, & adid quod cæpit efle, in
tempore modo a magis comune ad minus comune arguendo committitur error
confequentis, Tertio loco, aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo,
&æqualis magnitudonon couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem
effe,fiquis igitur inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo
'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis
quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus
triangulis eft, fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum
vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam (quæ duabos lineis ali
comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi
idem, vipatet, in 1.. tertia primi, Elementorum,cuin de longiori æqualis
breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio,
ne 11.propoſuit probandum,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem ſunt,quod
fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter ſe ſunt
equalia, non propoſuillet illud in quinto eile probandum,quod Ariſtoteles
confiderauit. QVARE manifeftum eft, quodeo demonſtraționes redargu. tiones funt
&veræ quidem,nam quæcunque demonftrare licet, ca Gredarguere eū,qui contradi
tione veri ponet,licet, vtſicomen furabilem diametra pofuerit;redarguatquis
demonftratione, quod incomenſurabilis;quare omnium oportet efle, nam alia
quidem ea quæ in Geometriaſunt principia eorumque concluſiones &cæt. SIQ
VIS diametrum commenſurabilem coſtæ ponat redar, guitur ab Euclide lib, 10
elementoruin propoſitione 115, vel leo cundum campanuin, per illam
demonſtrationem, quæ ibi adduci. tur,quæ demonftratio,redargutio eft ipfius
proteruiafferentis con. trarium, fic vt pro declaratione huius textus fatis fit,
quod ipía de monſtratio veri,redargutio eft falli allerti,vel afferendi a
proteruo, NAM ſecundum vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt fecunlum
Geometriam Geometricus, " VIDETVR ex hoc textú quod geometra paralogizet
quod oppoſitum eft ei, quod determinatum eſt in poſterioribus, Geometram
videlicet non paralogizare, Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico fyllogiſmo
in quo,neque circa materiam nec circa formam error contingit, fed de fyllogiſmo
in quo terminus, ſeu vox aliqua repperitur Geometrica, contraria lux fignifica
tioni a Geometra pofita, vt quod triangulus pro circulo accipia tur,vel error
paratur in conſequentia,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis clauditur,
& vtroque modorum erit pfeudogeometri cus fyllogifmus, vt fi quis
pſeudogeometra per numerum inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum
commenſurabilem effe ipfi coſtr,hoc ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin
potius fal fum ingerit, de quo fyllogiſmo pſeudogeometrico, hic Ariſtoteles
Intelligatur, & non de Geometrico, vt in pofterioribus determi, nauit
philoſophus, & per me fuit declararā, quo modo Geometra non paralogizat lad
ſyllogizat, & id, hoc loco in memoriam reuo candum eft, quod in prioribusde
prima figura dictum fuit, quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE.
ET la cuis viletur plura ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram
de qua concludebat quòd duo re&tis, verum ad in telle &tum illius
difputauit,hic an non? TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li. neis
contenta de qua Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod
habet tres angulos duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod
triãgulus aliquid aliud fit, a tali figura (qui triangulus eſt ) propter id
quod omnes anguli ipfius figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs,
vtoninesanguli pentagoni,cu. ius vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua
latera, talis pro fecto non diſputabit de triãgulo, quiaad intellectuin
triangulinon reſpicit,fed ad aliud, vt ad talem pentagonum, no enim neceffe
eft, vequicquid habet angulos duobus rectis pares, fit triangulus, nes quod
habent tres duobus rectis pares, fed quæ figura habet tan tum tres angulos
duobus rectis pares,ille triangulus eſt. VNITATEs binarijs in
quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic infunt illiautemſecus, SIQ
VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt æqualia, inferre tentauerit
quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes vnitates ſunt ęquales
vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt æqualesvnitatibus
binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales Vnitatibus binarij,igitur
quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem prime coufequentiæ dicendum,
quod fi vnitates ſingulę & diuiſion accipiantur concedendæ ſunt vtræque
& confequentia prima, fed fecunda confequentia interris matur, fi vero
vnitates in maiori & minori acceruarim ſuſcipian, tur vtraque præmiſſarum
eft falla & fequitur conclufio falfa, & les cundę conſequentiæ
anteccedens eft falluin, & conſequentia fequi tur, & conſequens etiam
falſum eſt. NEOVE liquod pſeudographum circa verum eft vt Hyppo cratis
quadratura que per lunulas, ſed qualiter Brifo circulã qua,
drauit,tametficirculus quadretur,tamen quis non ſecundum rem ideo ſophiſticus
est, quare etiam qui de bis apparens ſyllogiſmus cft,oratio plane eſt
contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum quadrareper lunulas et reduxit
lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati inſcripti in ciro culo ad figuram
rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam redu ci poffe ad rectilineam figuram,
ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas fuper latus exagoni circulo inſcripti,poffe
reduci adrectilineam figuram ex quo ſuppoſito non demonftrato, progreſſus eſt
ad cir. culi quadraturam &variauit diagramma,tranfiens à quadrato ad
exagonum, & tranfiens a lunula exiſtente ſuper lacus quadrati in fcripti
circulo ad lunulam deſcriptam fuper lacus exagoni inſcripti in circulo, &
fic preudographus factus eſt, Briſo fimiliter errauit circunſcribens circulo
& infcribens circulo quadratum,vterque fo phiſtice proceſsit,et
fyllogizarunt contētiofe, fed alter in diagrāma te vt Hyppocras, reliquus vero
in principäs proprös neque in illa rione, reliquus autem in conſequentia, &
quia vtebatur principös coinmunibus, & fi circulus quadretur fophiftice,
tamen non fecun dum rem, vt non per principia propria, neque per
deſcriptionetti diagramatum,hoceft per cõſtructionem debitam figurarum,nec ex
neceffaria cófequutione principiorum ad conclufionem ex illis
principñsneceffario illatam, fyllogiſinus igitur quo Hyppocrates & Briſo
fyllogizabant quadraturam circuli, contentioſa erat al tera,vt quæ Brilonis,
non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra. cis,vti Ariſtoteles inferius in hoc
capite declarat inquiens, CONTENTIOS A vero quodam modo ſic ſe ad dialetti cam
habet,quemadmodum pleudographa ad Geometriam, namex eiſdem, diferendi
modo,captiose & pſeudographa Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt
contentiofa,quia ex principys & con clufionibus quæ funt fub arte
pſeudographa facit,quæ autem ex his eftquafuntfub diale & tica,circa alia
quide contentiofam efle mani feftum eft,vt quadratura quidem, quæper lunulas
non contentio Sa, Brifonis autem contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit
vel potius artifex ille,an potius pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex
principiis veris vel ex theo rematibus probatis, vt fecit Hyppocras in
quadratura circuli,non contentioſe procedit, quia ex propriis principiis &
theorematibus Geometriæ,Briſo autem proceſſic ex his, quæ nedum Geometria, fed
etiam aliis diſciplinis applicari poffunt, vt, quæ vni & eidem funt æqualia
inter fe æquaha effe conftat,quod principium et Geo metriæ Arithmeticæ
ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus tractat diſciplinæ applicari poteft,
pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16 ra contentiora eft, qua negat
principium Geometriæ, quod eft fe cundum theorema certii elementorum Euclidis,
& negat etiam li. neain poffe in infinitum diuidi, & dicit rectum eſſe
curuum, & cur uum rectum, & dari duo puncta inmediata in linea
circulari, quæ omnia fequuntur ex conſtitutione hilochilium triangulorum qui
conſumunt lunulam contentam a circunferencia circuli & recta linea. VT
impar numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft igitur numerus,
numerus medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis incremento vel im
minutione, vt quinarius a quaternario, & ſenario, in his igitur vo cibus,
ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale committitur in
his quæ ad aliquid dicuntur, vt fimitas naſi quidem curuicas eft,modo fic
ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium. Sed numerus eft
impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis numerus reppetitur
in concluſionc, inaniter factum. ACCIDIT autem quandoque ficut in mathematicis
confia gurationibus, vt illic quæ foluimus quandoquecomponcre iterum non
queamus. OVADRATVM, penthagonum, & cæteras figuras re. etilineas reſoluimus
in triangulos,non tamen ex triangulis quadra tum fit ſed ex dacta linea recta
in fe ducta deſcribitur&, 45primi clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ,
vt ex quartolibro elemen torum Euclidis patet,fed per id non videtur factum
effe fatis textui Ariſtotelis,nifi dixeris, quod non ea facilitate idem
componimus, qua facilitate ſoluitur in triangulos, vel etiam dicas quodin Geo
metria abſolute non componitur figura ex triangulis, & fi omnia figura
rectilinea in triangulos refoluatur, fecus auteminri athmetica de mente
pythagoræ, tefte Boetio libro fecundo Arithmetices immo vnaqueque figurarum
ſpecies, componitur ex præcedenu fpecie et triangulo,vt eo loco demonftratur,
vel meliusex tot vni tatibus, quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus
triangulorum, vt illis declaratur locis. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв
LIS IN MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas
f 4 VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI,COLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum
limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum
eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud
aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem
Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in
fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus
denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum
Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena
Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino
Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique
publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN L MARCOLINI
GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel
ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim
indiſcriminatim. Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti
funt fecundum Ioannem Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly
aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in
Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ
Auerois, Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus
imprimere audeat ante decenniuń, fubpena Ducatorum centum, áammißionis librorum;
ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ
Theologie Doétori, pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano:
LASERLICH HOFBIB WIEN LCOLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius
ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe
fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud
aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem
Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in
fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus
denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum
Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena
Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino
Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique
publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK
PETRVS CATHENA VENETÝS PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO
LAVRETANO EPISCOPO NONENSI AC PATRONO S V O COLENDISSIMO. S. P. மரா NTER
munera,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura nobiscontulit,
uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes, ad poftremum haud quaquam
adducitur ipſa ratio, nempe ad quamomnia prope quæhumana addicuntur ſubstan tiæ
ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte ufus fuerit ipſum naturæ
aduerſari, atſi bonis artibus que de periere iam &deciderunt,
quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit & farcuerit, illum
rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat, hac de caufaconſiderans hominum
mentes eodem effe quo arua fato, quæ ſi excolantur bona ſinegligantur mala
perfe runt germina,uidiſſem multos, qui philofophi nominari uolunt prepoſteris
imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon stra, quibusuellicandisne unus
quidem Herculesſatiseffet, uin Etum in inestricabiles laberinthos quin potius
in carcerem te terrimum Aristotelem ut ciuimilites traxiſſe,qui inutilibus que
stionibus &Græcis tenue intincti literis, bomis artibusnegletis, fimiles
factifunt oculo, qui quòd in tenebris fit lucem flocifecerit Aij
decreuiquoingenijuires,etiam fi exignas(nam apprime noui quàm fitmihi
curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex illo obfcuro, id autem tam
comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica exempla ſua expreſsiora redderem,
quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe prefertim hoc tempore qua publi
cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio incumbebam, ad huius etiam
clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor tatio iuuamen ReuerendissD..
Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis &mecenatis optimi cuius expenſis
opus imprimeba tur, hortabaturque me ille, ne opus hocpermiterem ex ire in ho
minummanus fine duce aliquo cumpreſertim milta, &fere difi cilima hac
tempestate contineret, que aut ab interpretibus uniuer fis omiffa, autoppoſita
his effent que interpretati ſunt. Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui
& Ariſtoteleam Philo ſophiam uniuerſam cales, &qui has liberalesartes
Latinis duri bus inuulgauit. Itaque ea. Aristoteles loca qua potui diligentia
il lustraui, & quæ lucem claritatemque deſiderare uide bantur,
curſimebreuis annotamenti lumine perui afeci, qua in reſi effe cerim quod
uoluizesło iudex &cenfor. Has autem primores inge - ný nostri fæturastuo
nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem dicatas uolui,quo plane intelligeres
noftri animigratitudinem pro innumeris quibus me in dies cumulare deſideras
beneficijs, eoque quod aliter non datur temeum reuerear benefactorem; neque ob
aliud ſanete reuerear quàm quòd omni laude digniſsimum: Vale præfulum decus. ed
RE agat, ueletium num in ſemen uiri, uelmulieris, uel inmatricem, { OTS
PORPHYRII DE GENERE PETRI CΑΤΗΕΝΑ PRESBITERI VENETINOVA INTERPRETATIO. IcetVR
& alio modo genus uniuſcuiuſque principium or tus, tam ab co, qui genuit,
quám a loco in quo eft quiſ piam ortus. Dicitur quòd locus, os pater cauſe
funteffè &trices genis ti, diuerfimodetamen,quippe pater aétiua fit caufa,
locus uero conſer uatiua tantum,que ad cauſam effe's Etricem non immerito
reducitur,aps te magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod,
& locusnedum conſeruatiuum prin cipium est, fic ut genitum folummodo
conſeruet poftea quam genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum,ſed etiam adiuuin
principium eſt ipſe locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est
ipſius Ariſtotelis, quòd per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo
obliquo fiunt in hæc inferioragenerationes atquecorruptiones, folis igitur, e
planetarum aliorum lumine, ac motu, affectus locus, aštiue agit hoc pacto
adgenera = tionem, atque parentes, fi fecus quis audiuerit, tunc sol, &
pater non generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae
étis alterando aerem agatin ipſum, ca in contentum, quo autem pacto age
quodmodo eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia, o interræ
fuperficie plantas. PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies, debita
parilitate demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors
phyrio in prima ſpetiei ſignificatione uocatur., ut Facies priami dignaeſt
imperio, ad cuius fi militudinem, ill. est, quefub aßignato generepoa nitur,
curus pulcritudo, est differentia fpecifica, qua pulcritudine informe genus
contrahitur, atque pulcrumfit. Et Trianguluun, figuræ fpetiem ſimili modo
ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum, non figura in uniuerſum
quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam, que una
clauditur linea, & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui Triangulus
Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua est, claudi
tantum tribus reftis, qua etiam differentia pula crum redditur figure genus.
Indiuidua funt'infinita. Non intela ligas hoc uelim, niſi potentia,qua
infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur; ſed modo quodam diverſo,
numerus enim, quicunque fit, aexiſtat, finitus eſt, terminatus,ſic pariter
indiuidua on nia, quæ exiſtunt finita funt, sed que preceſſerunt omnia,o que
futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret Ariſtoteles, numerus uero cum
statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus eſt,« actu, o deſcenden do,uerum
indiuidua duobus modis dictis funt infinita, unico autem modo ut quæ
præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA ARISTOTELIS. DE QVANTITATE.
ENARAI numeri partes, ut quinque, & quinque. Animaduerſione dignum exemplar
hoc in loco pofuit Ariſtoteles, cum dixit quinque,& quin que partes eſe
denarij numeri, non enim dixit quis narium, oquinarium denarium numerum compone
re, quia nulla numerorun fpeties componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam
ex unis indiuiduis eiufdem fpetiei,ut diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel
quaternis, ant quinnis numeris nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex
unitatibus tamen quinis o quinis que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari
fpeties conflutur, eas ſententia Euclidis, Nichomaci, atque Boetij. Similiter
& in cor pore fuimere aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun
potes, quo partes corporis copulantur. Punctum esse lincæ terminum, or lineam
ſuperficiei, e ſuperficiem corporis nemo neſcit, niſi qui Euclidis doctrina
dignus est, ſed illud unum maiori egeret indagine, quo nam pa&o
lineaſitforſan etiam ima mediatus corporis terminus,ne id Ariſtoteles aſſerens,
quippiam affe rat contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi
Elementorum inquit ille, corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia
nem ocraßitudinem habet, folidi uero terminus fuperficies est, uide ergo quod
ſolidi terminusnonſit linea ipfa, ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea
terminusfit corporis manifeſtum est, fi idquod Euclides ait deffinitione nona
undecimi elementorum non ignores, solidus (inquit) angulus est, qui ſub
pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem plano, ad
unum ſignum conſtitutis, plurium linearum igitur contactus (nulla ſuperficierum
habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub illis igitur
lineis angulusfox Tidus contentus, terminusest illius folidi, ville lineæ
termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium, quin etiam
inmediati terinini funtillius corporis, cum linea continentes illos angulos in
puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de angulo, quod
fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci mi
Elementorum, & in fequentibus quatuor problematibus idem uit,in quibus
docet conſtruere corpora regularia, queſuis angulis tangant ſu perficiem
concauam circumſcribentis pheri, qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad
minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus
continentur, &punctus ille, nedum est linearum terris minus, fed etiam
regularis corporis finis,cum ſit terminus omnium linearum, quo termino tangit
fphærum,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum ueritatem
habere, ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum Euclidis
ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie, quòd non tantum lineis, ſedetiam
ipſis pun tis terminata fit, fide ea, quæ rectis lineis claudatur fermofiat,
øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis fuperficiebusclauditur,
hocquod dictum est in telligatur. Adid uero, quod Euclides primo Elementorum
ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione uigefima, refponde, quod
uerum dicit, figura rectilinea, inquit, contineturfub lineis reftis, enon die
cit contineturfub punctis, agequod contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab
terminari punctis. Ariſtoteles hoc uidens, dixit corpus lineis termia narinon
tamenfub illis contineri,quod deſuperficie ſimiliter eft dia cendum. Vel etiam
reétè dices, fi ita fenferis, quòd figura in uniuer. ſali, linea claudatur,
neque una,neque pluribus, & corpus in uniuer far liambitu ſuperficie
claudatur, neque itidem una aut pluribus, o neua tra deffinitio fic in
uniuerfum accepta habet exclufiuam particulam,cum autem ad circulum uel ſpherum
defcenderis,unum linea una clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias
elſe claufum,reliquæ uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula
exclufiua abEuclide,vel di cas, quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met
interpretatio, ubi enim dixe rit, in corporefumere aßignarequelineam comunem
terminum, statim correxit ſe, dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis
et Euclides non dixit quòd punctus, ſed quod angulus tangat fphærum. Rurſus in
pago quidem, multos homines, Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen funt
illis plures, & in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui quidem
& ipfi multo funt illis plures.Aduertas Ariſtotelem utroque exi emplo, o
paucos & multos dixiſſe, comparationem faciens hominum ad loca in
quibusfunt, non habens rationens hominum ad homines, ut fimile exemplun daretur
ſiquis dicat pauciaurcifunt in arca, @mule ti in crumena, fi in crumena eſſent
tantum fex, decem in arca, DE HIS QVÆ AD ALIQVID. VADRATIONIS enim circuli,
& fcibilis eſt, ſcientia quidem nondum eſſe uidetur eft autem fcibilis
ipſa. Quadam libertate hoc lo co loquutus eſt Arift.afferens id quod ignorauit,
quia ſi non ignoraſcet eam,habuiſſet illiusſcientiam, o non dixiſſet (niſi
forſan mendatio) ſcientia quidem now dum eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus
adtempus uſqueſuum proprijs principijs quadraturam inuenerit, nequecitra ad
hanc ufq; horam,quis oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu,et ipfa non
minoriproba tione egerent quàm ipſa circuli quadratio,fedquidper iftud exemplum
utilitatis Ariſtot. attulerit, illud effe puto, ut ammoto fcibili, oſcien tia
ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt, ut putacaufa nunquam cauſante
nuſquam effectus erit, quadratio igitur circuli cum non ſit, nequefcientia de
ip. fa quadratura circuließepoteft. Quid nam antiqui de quadratura ſe na ferint
in fractionibus Mathematicis declarabitur. DE QVALITATE. VARTVM qualitatis
gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque eft forma, & in fuper
rectitudo, & curvitas, & quicquid eſt hiſce fimile. De figura fcias
Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte conſiderata, Jed de
figura in re figurata exiſtente,ueluti in fubie & o, idem de forma,
rectitudine, atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen ordinem quendam
feruaffe hoc loco Ariſtotelem in his que proponit, à ſimpliciori ad magis
compoſitum. Primo enim defi gura,quæ linea, uel lineis clauditur, fecundo de
his, quæ ſimplici bus lineis, aut ſuperficiebus uniformibus, nempe uel tantum
re tis, aut tantum curuis, uelſolummodo conuexis,aut etiain tantum concauis
continentur, modus iſte ſecundus à primo non nihil differt, in hoc differentia
est inter utrumque, quia primomodo de co quod planum eft, ueluti ipſa papyrus,
ſecundo modo, de eo quod corpus, utmons, ficuti uulgus,quodfubtile eſt (ut
papyrus) planum uocat, quod autem eft ualde craſſum, corpus appellat, ut
montem, a facilioriperſuadens tya runculis ea,quæ etiam à uulgo principium
cognitionis ſumunt. Triana gulus autem & quadratum cæteræque figuræ, non
uidens tur talem rationem ſubire. Ariſtoteles parum ante dixit, que: nam ſint
et, quæ magis, minufue ſuſcipiunt, ut puta qualia ipſa, gridus fufcipiunt
intenfionis,modo uides quod neque trianguliis,nequequadras tum,qualia ſunt, fed
quanta, que intenſione remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem
circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter, aut circuli ſunt oinnia. Senſus
huius eft, quòd triangulus. quilibet, uel omnia que triangula ſunt, niſi id
quod tribus clauditur lineis,aliud non eſt, a circuli omnes, nil aliud funtquam
und çlaudi linea, in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à quo oma.
nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt cquales.com hoc
nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque cira B 10 IN
PREDICAMENT A culus triangulus eft, neque utrunque aliquid unum eſt, licet
utrunque figura ſit,ſed hoc æquiuoce, & non uniuoce eſt. Neque te turbet
hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo, « quadrato propoſuit,c finit ſena
tentiam de triangulo, e circulo, & non de triangulo, quadrato, quia de
triangulo o quadrato dicens, ſubiunxit cæteræque figuræ quo uerbo etiam circulă
intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur. Eorum uero, quæ rationein
hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale dicetur,non enim quadratum
ma gis quàm altera parte longius circulus elt, quippe cum neu trum circuli
fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat propoſiti, in quofit
comparatio rationem, alteruin altero magis tale mi nuſueminimèdicetur.
Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte longius circulus eſt,cum
igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat, neque quadratum circulus
eft,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte longius circulus est, idem
age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro hoc uerbo, ſcito
Ariſtot.ſententiam hanc eſe, o ſi quadratum, &altera parte longius circulus
eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum, atque circulus, non
eft qualis tas, fed quantitas,ideo à quadrato, o abaltera parte longiori, lymas
gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur contra id, quòd Aris ſtoteles
determinauit in capite de quali oqualitate, quo loco ait quara tum qualitatis
genus eft figura,ad quodfoluendum, dicas figuram capi uno, atquealtero
modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie &to quocunque,
cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in quarto qualitatis
genere, alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui largitur tale
eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non refutat. Neque
musica, cuiuſpiam musica, niſi generis ratione ad aliquid, & ipsa dicatur.
De uniuersali Aristoteles,& non para ticularimuſica loquens, ſiue humant
uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa intelligatur, biffariam
eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu genere ipſo caufetur,et
quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt, primo modo ad fubie &tum quod
genus uocat, tan quàm ad effectricem caufam reffertur, ut ad ſonum numeratum,
non due tem ad Platonem in quo recepta est, relatiue dicitur. Vel etiam dicas,
quòd refertur rationefuigeneris, ut quatenus scientia adfcibile. ARISTOTELIS.
IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONTSRATIVIS scientisprius eſt nimirum atque
pofterius ordine, Elemen ta nanque deſignationibus ordine priora ſunt. Scito
elementa, ut deffinitiones, petita, animi conceptiones precedere ipfis
propoſitiones in ſcientijs, id quod in Euclidis methodo patet,proa poſitio nem
ſubſequitur expoſitio, quam expoſitionem statim deſigndz tio
diagrammatisconſequitur, hancdeſignationem (que beneficio petia torum tantun
fit) determinatio, determinationem demonſtratio, ſexto loco epilogus, ſiue
propoſitionis repetitio. Vel dicas elementa,ipſatana tum eſſe petita reſpectu
deſignationis tantummodo. Elementa etiam non tantum principia,utdeffinitiones,petita,
& conceptiones animi, reſpectu propoſitionum, que per ea probantur
dicuntur, fed ipſa propoſia tiones probatæ, quatenus ad alias fequentes
propoſitiones probandas fumuntur, dicuntur elementa, hac de caufa, quidam
uolunt libros quindecim Euclidis uocari elementa, alij nero non ob id,
quindecim libri dicuntur elementa,ſed quia fingulis libris fua affiguntur
principia, ut apud Campanum, ſed neuter modus dicendi placet, quin potius elea
menta dicuntur oinnia, quæ in illis quindecim libris continentur, nedum propter
deffinitiones, petita, Oʻanimi conceptiones,ut iſti, neque prou pter hoc, quòd
alique prime propoſitiones, que demonſtratæ funt, fint pro alijs
propoſitionibus fequentibus probandis principia, &elea menta,ut illi dicunt,
quia tunc ultima propoſitio noneſſet elementuin ad. quippiam, cum ipſa ultima
eſſet, ſed elementa, atque principia omnia illa dicuntur, reſpectu omnium
propoſitionum per ipfa probandarum infcientijs fubalternatis ad illos quindecim
libros. IN PREDICAMENTA DESPETIEB.V.S. MOTVS. i bЬ & CRET 10 ', alteratio
non eft. Hoc perſuaa det Ariſtot. exs * emplo Geometri co (quod etiam multis
modis in Arithmetica Boetius docet)Gnomon quidem,ut in fecundo clementorum
deffinitione ſecunda ha betur,figura eſt ſex laterum,compoſi ta ex uno quadrato
conſiſtente circa diametrum, « ſuplementis duobus, quefigura ab Euclide primo
elemen torum propoſitione tirgeſima quar ta habetur, quæ est 6, quam fi huic
addideris quadrato a, quadratiſpe ties minime alteratur, licet fiat acre tio
quantitatis, ſic ut in hac figu ra ab, quod una diuerfa peties alteri fpetiei
addita non uariet fpes tiem,exempla plus centum in tabule Pythagora, apud
Nicomachum, Boetium,in numeris inuenies, ut pu ta ex duobus longilateris
altrinfecus ad quadratum pofitis, bis medio fumpto quadrato, quod fit, quadra =
tumest,licetfacta ſit acretio, ut ex duobus, fex, vbis quatuor, ut ofto,
ſexdecim exoritur,qui etiam quadratus eft, pari modo,ex duo bus quadratis, er
bis fumptomedio longilatero, nempe ex quatuor, e nouem,bisfumptoſenario
longilate ro, uiginti quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i. 13 est, que
intelligas uolo ex in ateria primi quadrati, atque longilateri, ut ex ipſis
unitatibus, ego non de numeris tūlis formaliter fumptis, cum prius
corrumpaturſpeties preceden tis quadrati minoris, atque longilas • teri, in
aliam petiem maioris quas drati, qui ex illis oritur, acretio. igitur ubique
facta eſt, nulla intera ueniente alteratione in fpetie ipſius quadrati, licet e
gnomonis atque longilateri apertiſsime facta fit alte ratio. Aduertas tamen, ad
id quòd Ariſtot. ait in hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum, ſic,
utfpetiesquadrati nõ alteratur.licet • fiat acretio, in Geometria uniuerſali
ter ueritatem habet, fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi intelles Xeris
de fpetie ſubalternāte,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen qua dratiſþeties
ſubalternata, oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero quadratoſexdecim,addus
gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta ſexdecim, fit impariter
par, uidelicet triginta fex, quorums uterque, o fifit quadratus, diucrfarum
tamen fpetierum funt, ut ex libris Euclidis de Arithmetica mani feftum eft,quod
exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis, quapropter uni uerfaliter Ariſtotelem
intelligas de quadrati, quatenus quadratum eft ', Apetie, hoceſt de fpetie
quadrati in uniuerfum, non de quadratiſpe= tie ppetialifsima. vel etiam dicas
quòd Ariſtoteles intelligit exemplifia cari in Geometria uniuerfaliter non
autem uniuerfaliter fimpliciter, hoc oft non in omnibus difciplinis. 11 14: IN
PRIMVM LIB. IN PRIMO PRIOR V M AN T E SECVNDVM SEC.TV M. n A M fine uniuerſali
nô erit fyllogiſmus aut non ad pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur
enim mulicam uoluptatem & c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de
ſcriptionibus, ut quòdæquicruriæquales, quiad baſin, ſintadcentruin ductæ a,b,
fi igitur æqualem accipiata, c, d, angulum, ipſib, d, c,non omnino exiſtimans
æquales, qui ſemicirculorum, & rur. fus c, ipfi d,non omnem aſunens eum qui
ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus, totis Angulis, & ablatorum, æqua les
eflc reliquos e,f; quod ex principio petet, nifi acceperit ab æqualibus
æqualibus demptis,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin omni oportet
uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis,an. ſemicirculi eiuſdem ornnes anguli
ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem circuliſunt
æquales per primam deffinitionem tertij elementorum,peripheria eiuſ de circuli
uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me dietas
circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia cumque omnes
recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe quitur igitur,
quod duo anguli a, c, d,cb, d, c, ſemicirculorum eiufdem circuli a, b, c, d,
ſint ad inuicem æquales, hæc perfuafio fiat ei, qui non omnino exiſtimat
æquales, qui ſemicirculorum, rurfus inquit c, ipſi d, angulus uidelicet uterý;
minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto angulo, ideſt,toto angulo
ſemicirculib, d,c, e a cd, quod ſic perſuadetur, árcus c, d, eiuſdem est
peripherie, que unir formis eſt, c, d, eſt unice, om eadem re&ta,ſi igitur
utrunque angus lorum minoris portionis ab utriſque ſemicirculorum angulis
detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e, of, erunt æquales æquicrurus
igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad bafim poſitos æquales angulos,
quod demonſtratum fuit,ſumpta iſta uniuerſali, ſi ab equalibus æqualia
aufferantur, reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR VM ANTE TERTIVM SECTV M.
ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere, ut de bono,aut fcientia,priuate
auten fecundum unamquainque, funt plurima quare principia quidem quæ ſecundum
unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au tem,ut Aſtrologicam
experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ, acceptis enim apparentibus fufficienter,
ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c. Compertum eſt aſtrolabio
ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad uſas finem Virginis, quam
à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o hiſtoria traditum eft,
propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem tres habere orbes, quorum
medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis apparentibus, facile
eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in unaquaque diſciplina,
prima principia hiſtoria data, &dereli Eta ſine probation funtpofteris,
quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis (hiſtoriæ enim proprium eft
ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de principijs aliquafiat
demonſtratio,illam « impro priain, a poſteriori, feu à ſigno eſſe, nemoeſt
quineſciat. ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM. On oportet autein
exiſtimare penes id, quod exponimus, aliquid accidere abfurdum nis hil cnim
utimur eo, quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum Geometra, pedalem, &
rectam hanc, fine latitudine dicit, quæ non ſunt: Textushic exponitur primo
pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto intellectus ea poſsit
ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ nunquam, fub fenfu
fuerunt? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod animam eſſe,
intelligit intellectus, quam tamen nunquam uidit oculus, aut manus tetigit.
Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus ſenſationem
habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem artem
abſtraftam, quætamen kon eſt, niſi indeterminatis, ſingularibus hominibus, fic
etiam li ncam ſuperficie?n intelligit, que tamen non ſunt, niſi in linea atrd.
mento picta, o ſuperficie, in corpore naturali, IN SECVNDO PRIORVM CAPITE DE
PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic facere,utſtatim cens ſeat quod
propofitum eſt, contingit uero, & in alia tranſeuntes apta nata per illud
mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie pio,uelutiſi,a, monftretur per
b,b autein per C, c autem natun efſet monitrari per a accidit cnim ita
ratiocinantes ipſum a,per ipſuninet a monſtrare, quod faciunt, qui coalternas
putant fcribere latent enim ipſi ſeipſos talia accipientes, quæ non eſt
poſsibile monſtra: re non exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita ratiocinans
tibus unumquodque eſſe dicere, fi eft unumquodque, ſed ita omne erit per
feipfum cognoſcibile, quod impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare, quod e
ſit a, &id oftendatur per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus (e est b,
beſt a, igitur e eſt 4. Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt hæc, e eſt b,
fit per hoc medium f, ut in hoc Syllogiſino (e eftc, c, eſt b, igitur e eſt b)
Cuius minor, uis delicet hæc, & eft c,fiprobetur. Tunc reſumitur prima
concluſio pris mi Syllogiſmi,quæ à principio probanda erat, ut in hoc
Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt c,igitur e eftc) &fic e eft a,quia e eſt a, Ofic
error ijte uerfatur in probanda minore primi Syllogiſmi per plura media per c,
oper a, propoſitio uero que probanda proponebatur, hæcuidelicet,e eft a, per
tria media per b., perc, & per a, probatur, ſimiliter errant illi, qui
nituntur probare parallelas effe per hoc, quod Triangulum habent tres æquales
duobusreftis, quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu = lus a, b, c. cuius
latusbc, ſi protendatur,caufabitur augulus d, c, d, exterior equalis duobus
angulis a, b, intrinſecis ex oppoſito colla * catis PRIORVM ARISTOT. 19 [ b N
catis, ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde primi elementorun Euclidis,
à punéto c, parallela dua catur ipſi b, a, quæ fitc, e, patea bit per ſecundam
partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi elementorum, - quòd triangulus a, b, c,
habebit tres duobus re&tis æquales. Si aus tem fumatur probandum quod b, a,
uc, e, fint parallelæ, per hoc medium, quia triangulus b, a, c, habeat tres
duobus re&tis æqua. les, ideo ipſe parallelæ ſunt, ſic, exterior æqualis
eft duobus intrinſe cis ex aduerſo poſitis, qui exterior angulus a, c, d, in
duos pars titur angulos in a, c, e,we, c, d,, c, e æqualis eſt b, a,, ere, c, d,
eft æqualis a,b, c; quorum utrunque probatur per lis neas eſſe parallelas,ut
per uigeſimamnonam primi elementorum,feques retur igitur, quod a,b,oc, e,
parallelæ funt,quia parallelæ ſunt,ut b, a,oc, f, parallelæ funt,quia
triangulus a, b, c, habet tres duoc bus rectis equales, fed a, b, c, triangulus
habet tres Angulos duos bus reftis equales, quia a, b, & c,e, parallelæ
ſunt,igitur a, b,a col, parallele ſunt,,quia parallelefunt, quod uanum eft,
oprobare quipe piam prius per aliquod pofterius, quod pofterius æget illo
priori adſui probationem. Aliter exponatur Textus,ut fiintentü fit defcriberec,
d, queſit parallela ipſi a, b, per uiges ſimamtertiam primi Elementorum d fiat
angulus e, c, d, æqualis angulo 4,6,6, & argue poſtea,quod d, 0,4, ſit
æqualis angulo b, a, 6, quod eſſe non poteſt, niſi b, d,egu c, d,"
parallele fupponantur, fic b connectatur inductio, quia Trian gulus a, b, c,
habet duobus reftis æquales,parallelæ funt a,b, c,d, &quia paralellæ funt,
ideo Triangulus habet duobus rectis æqualis, igitur paralella funt, quia
parallele fit. a: í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON EST PENES HOC. VONIAM
idem utique falſum per plures fup pofitiones accidere, nihil fortaffe inconue
niens, ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft extrinſecus intrinſeco,
& fi triangu lus haberet plures rectos duobus. Quod autem parallela a, b,
c, d, coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus extrinfecus e, 8, 6, maior eft
angulo intrinſeco g, b, d, (quod quidem ſummitur falfum, pe nes quodſequitur
impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per xiij.primi a -b Elementorumſunt æquales
duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8, erunt d minores duobus reftis per illam
igi tur communem fententiam, ſi una f recta ſuper duas rectas ceciderit at que
ex una parte cadėtis linee duo anguli intrinſeci fuerint minoris duobus reétis,
illas duas reétas ad pars tem illorum angulorum concurrere neceſſe erit, fi
protrahantur. Et fi triangulushaberet plures rectos duobus. Duo Anguli g, h, k,68,
k, h, ſuntmaiores duo. bus re&tis, multo magis igitur b, h, k, d, k, h,
ſuntmaiores duos, bus rectis,igitur duo a, h, k, k, h, ſunt minores duobus res
a. h b & is, quia omnes quatuor 6, h, k. a, b, k. d, k, h. @c, k, h. og
ſunt æquales quatuor reftis per des cimamtertiam primi Elementorum bis fumptam,igitur
b, a, d, c, f adpartem a, c, protracte concurs rent, per illam animi
conceptionem,fire &ta ſuper duas reétas cadensfes cerit duos angulos'ex una
parte minores duobus reétis, illa duæ lineæ ad illam partem protracte
neceſſario concurrent. ! Co Cс PRIORVM ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ FIT
SECVNDVM SVSPITIONEM. ELVTI fia, ineft omnib, buero omni c, a omni c inerit, fi
itaque quiſpiam nouit quòda ineſt omni, cuib, nouit & quòd cui c, fed nihil
prohibet ignorare c, quòd eft, ut ſia duo recti, in quo autem b, triangulus,in
quo uero c, ſenſibilis triangulus, fufpicari nanque poflet aliquis non eſſe c,fciens
quod omnis trian gulus haberet duosrectos, quare fimulnoſcet,& ignorabit
idem. Textum ſimilem habes in pofterioribus in principio primi,preu ter ea, quæ
ibi dicentur pro nunc ad explanationem huius Textus, prie mo littera exponatur,
omne b eft a, omne c eſt b, igitur omne ceſta, uel omnis triangulus habet tres
duobus rectisæquales, qui conſtitutus eſt in tabula est triangulus, igitur qui
conſtitutus eft in tabula habet tres: duobus reétis æquales,ſed ſimul dicas o
charateres terminos,omne, b trigonum eſt habens tres angulos duobus rectis
æquales, omnec fen. fibiletriangulum eſt triangulum, igitur omne c ſenſibile
triangulum habet tres angulos æquales duobus re &tis. Cum teneret quis hanc
uni uerfalem, omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis nondum
fciebat, quòd ſenſibile triangulum effet huiuſmodi, quòd han beret tres,
uidelicet duobus re &tis æquales, niſi potentia, non autem actu; quàm
primum autemfyllogizauit ſubſumptaminore, statim intua. lit, «cognouit, quod
ſenſibilis triangulus, tres duobus rectis pares haberet. Cum autem ait
ſuſpicarinanque poſſet aliquis, non eſſec, non eft intelligendum, ſic ut Græci,
o omnes exponunt, quaſi quod ignos retur an fit c, fed hoc non uult Ariſtoteles
dicere,ſed cum inquit fufpicari nanque poſſet aliquis non eſſe c, hoc
intelligas modo, quod stante prima uniuerſali, poterit ignorare anc, habeat
tres duobus re &tis equales, licet non ignorauerit c effe, fed ignorabit c
eſſe huiuf modi, utputa, quod habeat tres duobus rectis æquales; ſcietigitur po
tentia in uniuerſali propofitione, Waétu ignorabit in particulari ante quàmfiat
fyllogiſmus. Syllogiſmo autem fačto,feu fa & ainduftione Geos trica de qua
inprimo posteriorum Textufecundo)a & tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus
duobus re&tis tres pares habeat,nihil igitur prohibetfi. Cij 20 IN SECVN.
RIO. ARIST. mulſcire, ignorareidem ſecundum diuerſa, ut ſcire potentia iniſud
uniuerſali, & antequam fiat inductio, oignorare ſimpliciter, ut pus ta in
particulari. DE ABDVCTIONE. UT Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb, c, nanque
& fic proximius ipfi cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo autem e,re
etilineum, in quo uero z circulus, fi ipfius é z ſolum eſſet medium,hoc, quod
eft cum lunulis, æqualem fieri circulum rectilineo ce ſīpoflet prope ipfum
cognofcere. In predicamento ad ili quid circa quadrare circulum fuit
determinatum quantum fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem, e de quadratura
fuſius in fragmena tis noftris, fuper Logicis, multa declarabo, quo ad
preſentem te - xtum Ariſtoteles facit fyllogifmum, cuius minor, cumſit dubia e
oba ſcura, dicit unum eſſe medium ad probandam illam, arguit e, rectilis neun,
d quadratur, ſed z, circulus fit reetilineum, igitur circulum quadrari,poſſet
quis eſſe prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho, Hypocrates chiusprobare
per id medium, quod lunulas ad rectilis neas figuras nixi ſunt reducere,
diuerſis tamen medijs, alio enim mos do tentauit Antipho, o aliter Hypocrates
chius, qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad quadratum, eo artificio,
quo Euclides docet ultima ſecundi Elementorum, oſyllogiſmus connectatur ſic, ut
fimul dicam characteres, me terminos Ariſtotelis, e, rectilinea figura, d
quadratur, fed z circulus e figura rectilinea facta est, igitur zcirculus, d,
quadratur. IN PRIMVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA
INTERPRETATIO. TEXTVS SECVNDVS. VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere,
alia nanque, quia ſunt prius opinarineceffe eft,aliaueroquid eft, quod dicitur
intelligere oportet, quædam autein utraque, ut quoniam omne quidem, quod eſt,
aut affirmare, aut negare uerumeſt quia eſt, Triangulum autem quoniam hoc
fignificat; ſed unitatem utraque, & quid ſignificat, eſt quia eft, non
eniin fimiliter horum unumquodque manifeftum eſt nos bis. Græci omnes, pariter
& Latiniuniuerſi confuſione plenum rede dunthoc in loco Ariſtotelem, nedum
qui ſcripſerunt, fed etiam recens tiores, quihac tempeſtate eum interpretantur,
& priuatis colloquijs, epublicis etiam lectionibus. Anſammultorum errorum
pofteris omnis bus prebuit. Ioannes Grammaticus Cognoinento Philoponus, ſuper
hoc Textu in cuius expoſitione plufquain errorum mille contra Ariſto telis
ſententiamfcripſit, qua decaufa, ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ
logicorum utilitati conſulens, lucidum, facilein, atque clarum Aris stotelem in
hac parte reddere decreui, o inſaniam ignorantiæ depri = mere, ne etiam in
futura tempora amplius à forticulis doctrina tamclan
rißimiPhilofophilabefactetur, ſcito in primis, tres eſſe modos pres
cognofcendi, quos Aristoteles ponit, in hoc Textu, unicuique hos rum modorum
aptißimum,atquefacilimum exemplum poſuit, feruans exemplorum ordinem cum ordine
modorum precognofcendi, ſic, ut primo precognofcendi modo primum exemplum aptet,ſecundo
modoſe cundum, atque tertium tertio. Nequete perturbet, quod Ariſtoteles IN
PRIMVM LIB. ait, dupliciter fit neceſſarium præcognoſcere'. Tripliciter autem
dixes rim ego, primo autemmodo, opus eft præcognoſcere, quia eſt tantum, alio
autem modo, quid eft id, quod nomen dat intelligere folummodo quos duos modos
ab inuicem ſeiunctos, in tertio modo in unum aggregat uerum methodum
compoſitiuam ſeruans. Duo igiturfunt modi precos gnoſcendi, alter quidem in
parte oſeparatim, reliquus uero in totum, oin parte quidem biffariam. Vnus
tantum quia eft,reliquus uero tans tum quid ſignificet, in toto uero ille eft
modus, qui horum utrunque in ſe comple &titur. Exempla Ariſtotelis multos
Geometric ignaros turs batosego stupidos reliquerunt, qui ab Apoline reprehenfi,
&fpreti à Platone, uagantes fomniauerunt, hoc in loco, tria attůlliſje
Ariſtotes lem exempla, in ſcientijs diuerſis. Nempe Methaphisica,Geometria, O
Arithmetica, quod chimericum eſt, ex ipſa uunitate magis uanum, fi enim
ueftigijs fapientum Methaphiſices,Geometrie, & Arithmetica, prima limina
attigiſſent, non incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim, quod
artificio, id Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum
uniuerſale est, tria exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus
fpeculatiuis, &uniuerſalißimis attuliffe, ſic, uttandem concludant in ſua
expoſitione Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere,
&uarias plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere, ut tandem tria formoſa,
&pulcru exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione, datum
eſſet unitas, queſitum triangulus, e principium Methaphiſicum, ualeat pereatque
cim ins terpretibus hæc interpretatio. Non est Ariſtotelis confuetudo, exeine
pla afferre (aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi,ut
do&trina, que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura, atque diffi cilis,
fole clarior, atque perfacilis omnibus reddatur, quid rogo cons fufius, quàm in
una re logica explicanda, tria exempla mutila, o tim diuerfa afferre? ut in
unotantum quia,in alio exemplo,folum quid,c. in tertio exemplo, ey quia,
&quid, ut tandem in piſcem definat fora mofa demonſtratio. Dico, omnia tria
exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque determinata Arte; uel diſciplina
Geometrica, quicquid Niphlus fentiat & fequaces, ex nulla eſt alia ueritas
in hoc Ariſtotelis Textu, neque uerus fenfus, qui ad Ariftotelem faciat preter
hunc, quem fubfcribo, uelint nolint omnes atque uniuerſi, qui philoponifena
tentie initi uidentur, quem nullo modo ipſemet nec alij recteintelligunt, fcito
primum, quod de lineis re&tis a centro ad circunferentiam du &tis
POSTERIORVM ARISTOT. Veruin eſt dicere quod ad inuicem funt æquales, uel non
equales, ut etian de quolibet quidem quod est,aut affirmare,aut negare ucrum
est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ uni og eidem funt æqualia interſe funtæqualia,uel
in terſe nonſunt æqualia, uerum est dicere quia eſt,ſed alteram partem hu ius
diſiun £ ti fummit Geometra deffinitione xv. primi Elementorum, cum Similiter
alterum alterius diſiunéti partem prebet prima animi conceptio primi
elementorum, &hoc est uerum, quia est linearum à centro ad circunferentiam
protractarum, ut adinuicem ſintequales, « prima ani mi conceptionis,utſiab
æqualibus equalia auferantur remanentia æqua lia erunt. Secundo loco exemplum
poſitum est,quid hæc uox, Triangulus ſignificet,quod etiam fupponit Geometra
deffinitione xxi. primi Elemen torum, ex ſignificatfiguram tribus re &tis
lineis contentam,ſiue illud actu ſit ſiue actu non ſit, Quatenus tamen
quæritur,nondü habetur,poteft tas men eſſe. Tertio loco ponit Ariſt.unitatem,quæ
quidem unitas, a quid ſignificet, quia eft,utrunque habet. Hanc ego unitatem
contra oma nes loquentes, « ad Ariſtotelis ſententiam aio, eſſe non eam, qua
unaquaque res una dicitur,ut ea quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab
illa unitate, quæ eſt principium numeri dicitur, nempe una linea recta data
ſuper quam triangulum collocare oportet, ſiue ille fit æquilaterus, ut Euclides
proponit, uel iſoſcelesaut gradatus, ut Arisſtoteles querit in uniuerſum, quod
quidem Proclum diadocum,& Cam panumfuper primum primi Elementorum, non
latuit, quæ unitas linea feu quæ linea una concluditur in decimaquarta primi
Elementorum, tàm quàm queſitum, in qua quidem decimaquarta primi Elementorum ni
hil de unitate, quæ fit principium numeri, ſed, una linea concludi tur, quæ
linea una eſt datum inprimo problemate primi elementorum Euclidis, de qua lineæ
unitate precognoſcitur, quid, utſit a puncto in punctum breuiſsima extenſio per
diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum, precognoſcitur etiam, quia est,cum
ipfa detur in prima pros poſitione primi elementorum. Ab Euclidis igitur
methodo non recedens Ariſtoteles facilitat, declarat exemplis ubique
locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana Ariſtotelis interpretatio
eft, alia, ut dixi nulla, fomnia igitur quæcunque diluantur, putas ne Arie
ftotelem afferre illud Methaphiſice principium, nullo modo ad artem ali quam
peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica inſtituendo? ubi Methodus? que
maior ordinis peruerſio? quis nam in Logicum eua dere poterit niſi prius
Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11 nam, IN PRIMVM'LIB. 2 tate
plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas. De unitate aus temdicit
Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere, ſicut docet Euclides pros
poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum, fi unitas numeret quemli bet numerum,
quoties quilibet tertius aliquein quartum, erit quoque, pernutatim,ut quoties
unitas numerabit tertium, toties ſecundus quar tum numerauerit, datum inquit
Ioannes, eſt unitas, quæ eft principium numeri, de qua habetur &quid, &
quia eft, o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes ueritatem quidem dicere, licet non
ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod Ariſtoteles neq; exponitur, &
quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit,ut quod unitas,quæ eſt principium numeri,
fit datum,non enim eſt unitas datum in ſextadecima ſeptimi Elementorum, fed
unitas cum refpeétu ad numerum aliquem, quem numerat, eſt datum, que = ſitum
autem eſt, ut ipfa tertium numerum numeret, ut ſecundus nus merus numerat
quartum, quemadmodum amplius declarabitur in de tris plici errore circa
uniuerſale.Preterea dignitas ſiue premiſſa in hac loan nis indu &tione eſt
duodecinaſeptimi Elementorum, que probatur per precedentes, onon eſt immediatum
principium,exponitigitur Ariſtoc telem per unam demonſtrationem, quæ non
procedit per immediata prin cipia, quod non eſt imaginandumin hoc propoſito,
preualet igitur ex poſitio de unitate lineæ, quia ibifit deductio per immediata
principia ut per xv.deffinitionem,& prima animi conceptionem primi
Elementorum Ecce quàm aliena est loannis expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis.
Die co igitur datum, eſſe unam rectam lineam, quæſitum, ut ſuper ipfarn
trigonum conſtituatur, &quod, id conſtitutum, ſit trigonum, probas tur per
decimamquintam deffinitionem, vprimam animi conceptionem primi elementorum.
TERTIVS TEXT V S. ST autem cognoſcere alia quidem prius cognofcentem. Aliorum
vero, & fimul notitiam capientem, ut quæcunque, con= tingunt eſſe ſub
uniuerſalibus quorum haa bent cognitionem; quòd quidem omnis triangulus habet
tres Angulos æquales duobus rectis præfciuit, quòd uero hic, qui in ſemicirculo
cft, triangulus fit, fimul inducens cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM
ARIST. ſciendi hoc textu tangit Ariſtoteles, primus, qui eft per reminiſcens
tiam,de quo nondubitarunt antiqui. Alter uero, es ſecundus est, quo de nouo
aliquid ſcimus, qui fuit alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo,
ſit noſtra expoſitio. Ioannes Grammaticushanc para ticulam, fimul inducens
cognouit, interpretatur fic,ut per inducen tem intelligat eum, qui habens
triangulum in ſemicirculo pićtum, ofub penula abſconſum, oftendat eum
triangulum eſſe, quaſi abijciens penus lam, ey aperiens manum obijciat ipfum
triangulumoculis uidere uolens tium, &Latini omnes fimiliter,& Aueroes
fequuntur ipſum in hac interpretatione. Non poſſum non mirari hominisiftius
alias doétißimi expoſitionem & omnium fequatium,que quidem interpretatio,
fi ads mitatur,statim uidetur, quod Ariſtoteles uanus ſophifta effectus, id do
ceat, quod ipſe reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in fequenti
textu,Nemoaccipit talem propofitionem,oinnis triangulus quem tu ſcis eſle
triangulum,quod utique illi agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd
neſciebant eameffe parem, quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas. Ioannes
&omnes interpretes Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod illa
littera Ariſtotelis ſic debeat legi, quod ues ro est in femicirculo triangulus
fit, fimul inducens cognouit;cognouit quidem quodfit triangulus, per induétionem,
id eſt per oſtenſionem ad oculum, aperta manuin qua abfcondebatur, ſic ut illa
induétio certificet de eſſe triangul, quod ridiculum est, o uſque ad hæc
tempora, falfum pro uero habitum,henuga deſtruunt Ariſtotelis ſententiam; non
enim Ariſtoteles de trigono in ſemicirculo defcripto dubitat an trigonum ſit,
neque igitur estopus, ut dubium remoueatur per oſtenſionem ad oculum quòd
trigonum ſit, quia ut dixi, hoc non reuocatur in dubium, ſed has bita, hac
uniuerſali,omnis triangulus habet tres æquales duobus res Etis, dubitatur an
qui in ſemicirculo eft triangulus, &qui quidein a &tu uideturſit
huiufmodi, utputa, quòd habeattres angulos equales duo bus rečtis, quod quidem
manifeftatur non per ſenſitiuum indu &tio s nem, quia per illam oftenditur
tantum quòd fit triangulus, ut illi mda li interpretes exponunt. Neque id
oftenditur per inductioncm Topia cam, que à particularibus ad uniuerfalem
procedit, ocontrariatur huic poſterioriſtico proceſſui, quifit ab uniuerſali ad
particularia, rea ftat igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur
Ariſtoteles, quam dicunt aliqui elle ſenſitiuam, aliter tamen ſenſitiuam quàm
loans nes Grammaticus intelligat, dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1 1
D IN PRIM VM LIB. couptatur in Syllogiſmoſic, omnis triangulus habet tres
angulos equat les duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo, eſt triangulus,
igitur hic qui in ſemicirculo, habet tres duobus rectis aquales,ecce
inquiunt,quos modo minor eſt ſenſitiua, quia ponitur illud pronomen oftenfiuum,
isti funt in errore maiori forſan quàm precedentes, putant eniin quod illud
pronomen, &fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad fenfum, quid igitur dicendum
erit de hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam abraderefe cit Dioniſius,
huic Apolini coronam Papus, iufsit fieri, & iſte Aurifexfædauit aurum;
ueletiam iſte est Euclides,quem Plato in theetes to commemorat, non ne omnia
ifta pronomina oſtenfiua, funt ad intela lectum, & ſi quandoque per
accidens ad ſenſum ſint oſtenſiua? ideo pronomen in iủa minori, ſiper accidens
oftendatad ſenſum, oſtenſia uum tamen precipue eft ad intellectum, aliter cecus
non poffet illum Syla logiſmum efficere, quòd manifefte falfum eft, ueritas non
eis obuiam uenit ſic interpretantibus.Laborant adhuc dicentes,quod ila inductio
nil aliud est quàmfubfumptio huius minoris, fed hic qui inſemicirculo est
triangulus, fub illa uniuerſali nota, omnis triangulus habet tres angulos
æquales duobus reétis, illam quidem diſpoſitionem premijarum in figus ra
&modo, uocant inductionem, hoc autem non facit fatis ad Ariſtotea lis
litteram; quia ante quam inferatur concluſio, neſcitur de triangulo conſtituto
inſemicirculo quod tres habeat duobus reftis æquales niſi po= tentia, poſt quam
autem illatafuerit concluſio,fcitur a &tu, o noi ama plius potentia, quòd
uult Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma pletus ſyllogiſmus,
fimpliciter ſcitur,quod qui in tabula,habet tres æqua, les duobus rectis.
Agamus igitur & nos,o. Ariſtotelis litteram prius diſponamus, ſubinde ſententiam
exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo conſtituto fimul inducens
cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum particularem trianguluna,
quòd habet tres æquales duobus rectis, &hoc,inducens, uerbum hoc inducens
du asinductiones ſignificat. Alteram Geometricam,reliquam ſyllogiſticam, quæ
etiam ordine ponuntur in littera Ariſtotelis dicentis,antequàm in duétum
ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus, quæ duo uerba, non ſunt fynow nima, ita ut
und &eadem res per, utrunque uerbum, inductum ſit, uel fa& usfuerit
fyllogiſmus ſignificetur, quia in doctrinis,non utitur termin nis ſynonymis,neque
Ariſtoteles multiplicat uoces, terminos ean dem rem ſignificantes. Dicendum
igitur, quod aliam rem uox hæc indue dio, &aliam ifta uox,fyllogiſmus,ſignificat,
non gūteſt indu &tio aliqua POSTERIORVM ARISTT. prediétismodisfupra
citatis, ut probatum fuit, relinquitur igitur, ut inductio per quam
ſcimus,quodtreshabeat æquales duobus reitis is,qui infemicirculo defcriptus
est,nulla alia fit,neque excogitari poſsit quàm Geometrica induétio. Ila autem
huiufmodi est, fuppofita deſcription per trigeſimamprimum primi Elementorum,
Angulus c b d eft æquas lis ang ulo & c b, per primam par tem uigeſimenos
lice primi Ele - mentorum Euclia dis, &Angulus dibe equalis eft ang ulo cab
per fecundam partem uigeſimenone primi elementorum, totus igitu * cbe, eſt
æqualis duobus angulis cøa, fed cbre, cum c b a per xiij. primi Elementorum
equiualet duobusrectis, igitur angulia, cum eodem c b a, funt equales duobus
reétis,quod inducendum erat, de triangulo ac b in ſemicirculo deſcripto,qui
triangulus non erat abſcon fus immo ante oculos offerebatur, tamen illa
oblatio,non erat inductio de qua Ariſtoteles intelligit, quam inductionem quis
unquam utcun queetiam intin &tus litteris dicet, unum eſſe fyllogifmum?
quofyllogif mounico (it inferius declarabo) poteratidemfyllogizari, neque
enthis meina unum eft, cum ibi multe ſint conſequentie, Enthimemaautem und
tantum conſequentia eft, quòd neque Topica, inductio, patet; quia ibi à
ſingularibus ad uniuerfalem progredimur,in hac autem induétioneper
decimamtertiam Guigeſimănonam primi Elementorum,quæ uniuerſales magis funt
quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi Elementorum per quam patet intentum de
triangulo in tabula conſtituto. Neque mi reris quod in hacinduétione non
fumitur illa maior, omnis triangulus habet tresangulos æqualesduobus re&tis,
quia illa fumiturin inductione fyllogiftica, in inductione uero Geometrica,
fumitur decimatertia,cui gefimanona primi Elementorum, in utraque induktione
cumGeometri ca,tum etiam fyllogiſtica fit proceſfusab uniuerſalı ad
particulare,uel ad minus uniuerſale, Syllogiſtica uero induétio,ex duabus
premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit, quafyllogiſtica indu &tione
fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum partitionem loan.Grammatici,uel
Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna, pero expoſitione Tex.clxiij.prima
Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum, & alibi, habita o ſcita hac uniuerſali,
omnis triangulus habet tres equales duobus reétis,fatur modo aliquo idem de
conſti tuto in ſemicirculo triangulo, ſimpliciter autem non fcitur,ofacta ine
duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur, quod qui in femicirculo eft triane
gulus, ſit huiuſmodi, ſicut ſcita decimitertiaeuigeſimanona primi elee
mentoruin ſcitur potentia, quod qui in ſemicirculo eſttriangulus, duo bus
rectis tres habeat pares,licet nefciat, an qui in ſemicirculo,fit triana
gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem, o ſimpliciter fcitur per
Geometricam induétionem, quæ ſemper ex ueris, primis, caufis ila latiuis
conclufionis, ex magis notis procedit, non autem ex immediaa tis ſemper, nequc
ex cauſis quedant eße, fed ex his tantum, quæ dant propter quid iŪationis, tale
inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam uoco,non est una conſequentia, fed
plures, ut plurimum, neque per immediatafemper procedit,fedalternatim per
immediata, oper ea que probatafunt procedit,inmediata autem, uoco propoſitiones
per fe notas, etiam illas propoſitiones demonſtratas,quæ immediate proz bant
fequentes, de hoc quidem toto inſtrumento non aliter Ariftoteles traftauit,
nifi per particulas illas, utſupra commemoratas, ut ex ues ris Oc. Tractauit
tamen de fuis partibus, ut de enthymemate, quòd pluries fumitur in tali
induétione Geometrica,o de fyllogiſmo, ad quem reducitur talis inductio,non
tamenadunun tantum,ſed ad pluresfyllogif mos, neque uelim dicas propter hoc,
quod Logica, Geometriam debeat precedere,utplacet nonnullis niſi deLogica,que
natura nobis ſuccurrit. Quorundam enim hoc modo diſciplina eft, & non per
inedium ultimum cognofcitur, ut quæcunque fingularia jamelle contingit, uec de
fubiecto quoppiam. Hunc locum Ariſtotelis extorquent penė.omnes,uerum
quidemdicunt, ſed in fua ues ritate duo errores continentur, primus eft, quod
interpretatio non est ad propofitum, fecunduserror, quia id quodaiunt
contradicit huicloa ÇO Ariſtotelis, inquiunt enim, quod per medium, ſcitur
ultimum, hoc est, quod ultimum. Nempe maior extremitas concluditur per medium
de ipſa extremitate minori. V.ideas quanta fit horum hominum uanitas,
Ariſtoteles negatiue loquitur. Et non per medium ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi
autem uani exponunt, per medium ultimum cognofcia tur, aduertendum quod medium
in propoſito intelligit Ariſtoteles,quod non tantum fitu,medium intelligas,
quod bis in premißis capitur, fed me dium hoc loco,nil penitus aliud est quam,
quodquid eft ipſius rei, ut POSTERIORVM A R IST. fparfim in primo poſteriorum,
e in ſecundo manifeftuin eſt, in pri moenim, Textu 201. Juxta partitionein
philoponi, uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain partitionem; ait Ariſtoteles,
quod uniuerſale mon ſtratur per medium, &non particulare; uerbi gratia,hic
non per mea dium,omnis homoest riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates eſt
riſi bilis, ly enim hono, non eft quodquid est, ſed eſt ſubiectum, hic uero per
medium, omne animal rationale eſt riſibile, omnis homoeſt aniinat rationale,
ergo omnishomo eft riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium, fi inftes
fic,omne animal rationale eſt riſibile Socrates est animal rationale,igitur
Socrates est riſibilis. Dico quòd hoc non eft per fe,eta primo de Socrate, quòd
fit animal rationale, nec etiam riſibile per ſe, & immediate,argués igitur
fic,omnis triangulus habet tres æquales duo bus rectis,fed qui in ſemicirculo,
eſt triangulus, igitur qui in ſemicir= culo habet tresæqualesduobus rectis. Ibi
enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed potius ſubie &tum, feu genus,
ibi igitur non eſt demonſtras tio, licet fit fyllogifmus, &fi adhuc
inftetur,quod per decimumtertiam &uigefimamnonam prini,demonftretur quòd
qui in femicirculo, ha beat tres equales duobus rectis, igitur ei qui in
ſemicirculo eſt, non con uenit; quia triangulus;fed per decimamtertiam
euigeſimamnonam pris mi Elementorum. Dico quod in inductione Geometrica, qua de
triana gulo in ſemicirculo cöftituto oftendebatur,quod habet tres æquales duos
bus rectis per decinătertiam (uigefimamnonam primi, id immediate nõ conuenit
triangulo quatenusſit in femicirculo deſcriptus, fed ut trian. gulus eſt, ut
oſtenditur ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elemen torum,fecundoautem,
&per fe non immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam igitur
ſingularium (quorum quodque non predicatur de ali quo ſubiecto,
quiafingularenon predicatur deſubiecto aliquo, ut in pre dicamentis
determinatum est ab Ariſtotele ) diſciplina est, non per medium, ultimum cognofcitur,
cognofcitur quidem ultimum nempe mie iorem extremitatemineſſe minori,fedhoc non
permedium, id est non per quod quid est. Si vero non eft ita,quæ in Menone
contin. get dubitatio, aut enim nihiladdiſcet feruus Menonis,aut quæ prius
nouit addiſcet non eniin iam ueluti quidam ni. tuntur foluere dicendum eft
particula illa. Si uero non eſt ita,videlicet fi non eft fcire de nouo,ab
uniuerſali ad particulare progre diendo; tunc, quæ in Menone eſt, contingit
dubitatio, particuld illa: Non enim iam. Yerbum illud iamfuturi temporis eſt,
fic utfit ſens I N P R IM VM LIB.ſus habita mea doctrina,omodo quo dixi, nos
fcire de nouo,quod id addiſcimus, quod tamen aliquo modo fcimus, non foluas
poſt hac, eo modo, quo illi nitebantur foluere, fed eo palto ut predocui, it de
omni dualitate fciens quod par ſit, de abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea
fcis potentia, quodſcit par. Veluti quidam nituntur ſoliere dicendum eſt.
Exponunt Latini &Græci,hunc locum fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil
fcia rede nouo,fed fcire noſtrum eratreminiſci arguebant illos, qui dices bant
quod de nouo fcimus, &nitebantur Platonici ducere eos in contra dictionem,hoc
argumento interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem dualitatem eſe
parem, nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire, ita eſſe, ſübinde
atulerunt Platonici dualitatem dicentes, igitur fciebatis etiam hanc dualitatem,
quam manu tegebamus eſſe pas rem, quod tamen effe non poteſt, quia nefciebatis
ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio, prius fatebantur ſeſcire
omnemdualitatein eſſe par rem, &tamen neſciebantdualitatem hanc parem eſſe,
quod manifeſtum contradictorium eft, reſpondebant autem illi, qui dicebant
nosfcire de nouo, quod interrogati de omni dualitate, an par effet,
reſponderunt non de omni dualitate abſolute, fed de dualitate quam utique
dualitatem effe ſciebant, modo de illa, quæ abfconfam tenebant, oque non erat
fibi nota, ut eſſe dualitas, non fatebantur illam eſſe parem, quia neſciebant
illam effe dualitatem, ita ut hec expoſitio, eotendat, ut Ariſtoteles res
prehendat illos, qui dicebant nos ſcire de nouo, quia male foluebant Argumentum
Platonicorum, xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni. Cos. Expositio autem mea,
e directo opponitur, huic omnium expofie tioni, ſic ut Ariſtoteles arguat
Platonicos male foluentes argumentum dicentium nosfcire de nouo, & contra
hos dicentes, quòd fcimus deno uo, nihil in hoc Textu dicit Ariſtoteles. Pro
cuiusfententia declaranda, Queritate, est in primis aduertendum, quod in hoc
textu, quoſdam in telligit Ariſtoteles dicentes, quòd de nouo nos fcire
contingit aliquid, quod tamen etiam preſciebamus in uniuerfali, oiſti
inquiſitiuo argu mento probant intentum contra tenentes, quòd ron ſcimus
quippiam de nouo, quorum negantium de nouofcire reſponſionem redarguit Ariſtoa
teles, einterargüendum, peccant og errant in perſuadendo id, quod probare
nituntur, quem errorem, &peccatum dicentium nos de nouo ſcire, non
redarguit Ariſtoteles propter duas cauſas, altera est, quia eft adeo manifeftus,
ut fine reprehenſione à quolibet cognofcatur pre POSTERIORVM ARIST. meil,
habita intelligentia primi textus huius primi, reliqua caufa quare: non eos
redarguit est, quia primo textu feclufit fuam perſuaſionem, dicens omnis
doétrina, o diſciplina intellectiua a diſcurſiua, ex præexiftens ti fit
cognitione, ex preexiſtenti non quidem ſenſitiua, quia illa à Singue laribus ad
uniuerſalem, hæc uero poſterioriſtica e contrario, ab uniuer ſali ad fingulare
procedit, ideo eos non reprehendit Ariſtoteles, quia, quifq; per fe intelle
&to primo Tex.cognoſcit; quo modo errabat ilii inter arguendum. Inquiunt
enim arguentes, noftis neomnem dualitatem effe parem necne? afferentibus
Platonicis attullerunt eis quandam dualitas tem, quam non exiſtimabant eſſe,
quare neque parem, en dicebant iſti arguentes, ſciebatis in uniuerſali, quod
omnis dualitas est par, otas hoc, ideſt paritatem de hac dualitate, qua manu
abſcondebatur neſciebatis, quiaignorabatis quid eſſetin manu, num dualitas,uel
quips piam aliud, autnihil, « nunc uos fcitis iam per apertionem manus prius
eam tegentis, in particulari hanc determinatam, & particularem dualitatem
eſſe parem, ecce quomodo ab uniuerſalicognitione deuentum fuerit in cognitionem
particularis, quod prius dubium apud uos erat. isti ſic arguentes peccant
contra primum textum, utſupra dixi, ocon tra Tex. 112. Neque per ſenſum eft
fcire, putabant autem isti ars guentes illam intuitiuam ſenſationem eſſe
doctrinam ſeu diſciplinam. Quia tamen cum Ariſtotele in intentione, quod de
nouo fcimus, & quia etiam error in perſuadendo manifeſtus eft, ut predocui,
de intelle &tiua quidem & diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de
uirtute in uniuer ſali etiam in Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles
dimittit illos,tam quàm non concludentes propoſitum, quodfatebantur, &
diuertit ſe ad Platonicosmale foluentes argumentum,tenentes quod id quodaliquo
mo do ſcimus non poſſumus de nouo addiſcere, uel quòd nostrum ſcire,fit re
miniſci, foluunt argumentum ſic, non enim fatebantur Platonici ornem dualitatem
eſſe parem, neque dixerunt ſeſcire omnem dualitatem eſſe pa rem,ſed dixeruut
dualitatem, quam utique nouerunt dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id,
quod manu tegebatur effet dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe
parem uel etiam imparem,quiaſic aiebant, prius,debemusſcire,an fit
dualitas,&poſted,an parfit,uel etiam impar, ita ut quandointerrogati
fuerant,an omnem dualitatein ſcirent eſſe parë uel imparem reſponderunt utique
de dualitate hoc ſcire, quam quidem dualitatem eſſe nouerant, uerum eſſe, ſed
de dualitate in manu abſconſa, nihil fciebant, nec quippiam deea aliquo modo
fciebant, ideo nefciebant IN PRIMVM LIB. 3 idem uno modo, ut in uniuerſali de
illa dualitate,quòd effet par, u idem ut quod effet par ignorarent in
particulari, atqui ſciunt cuius des monſtrationem habent, & cuills
acceperunt. Acceperunt autem non de omni, de quo utique nouerint; quòd
triangulum aut quod numerus ſit, ſed fimpliciter acceperunt; illi arguebant
deomni numero duali, atque triangulo,&c. Similiter reſponderunt illi, quod
ſciebant omnem dualitatem efle parem. Verba hæcfunt Ariſtotelis contra tales
reſpondentes,nullus enim propo nitſeu interrogat, aut nulla propoſitio
accipitur talis, quòd quem tu. noſti eſſe numerum dualem, nofti ne eſſe parem?
aut quam noſti rectili neam figuram eſſe triangulum, quòd habeat tres æquales
duobis reétis? ſed accipit de omni numero duali, ede omni figura rectilinea
trilatera, quis enim proponeretſuo tam inerudito colloquio fic,nunquid nofti
oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem nofti, quòd par fit,autnon?ines ptam
igitur, contra loquendi modumfolutionem reprehendit Ariftot. reprehendens
quidem Platonicos malefoluentes, cui non illos de nouo fci re dicentes perperam
arguentes; &modum fciendiquo de nouo fcimus fimpliciter id, quod potentia
ſciebamus epylogando dicit, Sed nihil (ut opinor) prohibet, quod addiſcit
aliquis ſic in particula ri, ante ſciuiſſe in uniuerſali, & in particulari
priusignos raſſe, abfurdum enim non eft,fi nouit quodam modo, quod addiſcit,
ſed ita eſſet abfurdum, ut inquantum ads diſcit, co pacto ſciat. Idem diſcurſus
&expoſitio fiat ſuper Textu fecundo priorum, in capitulo de Deceptione
ſecundum fufpitionem, qué etiam Textum perperam interpretātur pſeudo
philofophi. De dualitate autemſiquis nunc interrogaretur, noſti ne omnem
dualitatem eſſe parent nec ne? annuat quod ſic, o ſi offeratur abfconfa in
manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in potentia parem effe, licet
neſciat a & u, quod dualitas ſit,e eft fententia Ariſtotelis Textu 101.0 in
hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione, cui dubium eft fecundam
eſſe pres ftantiorem prima?niſi quis dicat primam eſſe preſtantiſsimorum philo
fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium prefertim iuniorum mentem
Ariſtotelis interpretantium, fecunda uero interpre tatio noua est, o hominis
uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra tam
preclariſsimosphilofophos, quihæc uerba, &fimilia proa ferunt ex Macrologia
loquuntur,non ualentes intelligere nifi ea, que auctoritate proponuntur, fpreta
ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM ARIST. neruditus est,
quipPomba Platonicos, qui ætatem confumpferunt in fua opinione de reminiſcentia,
argumentari contra Peripateticos, niſi a Peripateticis prouocati ſint?
&quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur? quo pa &to excitabuntur,
nifi co argumenti modo, quem in ſecunda interpretatione narrauimus? deinde
quare magis redarguit Ari ſtoteles ſemiperipateticos illos, qui
conueniebantfecum in concluſione, quàm illos, quie diametro cpinabantur contra
ipfum? depoſitaigitur emulatone iudicet id quiſque, quodmagisueritatem ſapit,
uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum, & erit,fifecunde interpretationi
be rebit, primafpreta, &neglecta omni ex parte. TEXTVS NON VS. ERA quidem
oportet eſſe,quoniam non eſt fcire quod non eft,ut quòd diameter fit fie meter.
De diametro, coſta pluribus locis Arifto telesſermonemfacit, utinprioribus,
& in Methaphy: ficis, quapropter, hoc loco declarabo eius fententiam, ut
poſteafit omnibus in locis clara, primoſcire debes, quod uera eſſe oportet ea,
quæ fciuntur, ita ut ueritas ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in
concluſione, &non pro ueritate, quæ in prins cipijs est, a hoc probat
indire & te, quia fi falfum ſciremus, utputa quod diameter eſſet
commenfurabilis coſte, tunc imparia æqualia paribus fierent, o e conuerſo, ut
ſi paria equalia imparibusfunt, igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis,
quod estfalfumſi igitur hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris, fed
pofuit, quòd fcire ex ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris,
quod eſſe non poteft per immea diatam contradi tionem.Diametrum
igiturincommenfurabilem cofte ef ſe noſcimus, quia impar pari æqualisnon eſt,in
qua re,talis eſt demons ftratio ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum,
qua ducitur ad hocincommodum, pofita iſta, quòd diameterſit commenfurabilis co
ftæ,fequitur, quod numerus impar eſſet par, quod eftcontra primum principium ab
Euclide poſitumfeprimo Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam
nono Elementorum prima &ſecundafecundum Campanum. In quare demonftranda fit
diameter a b commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi
Elementorum ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum, quia illa
communis, mene Б IN: P R I MVM LIB. b Cee '. fo... h............. g k.... ei6
fo L. m 64 kıż8 h 81. a. fura,fehabebit ad illas duas lineds, diametrumfilicet,
&coſtam a bigo á c, ficut unitas ad unum atque ad alium numerum,unitas enim
ut duos numeros illos metitur, ſic illa communis menſura diametrum, o coſtam
dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte, quòd quoties continebitur in uno ats que
altero numerorum unitas, toties illa communis menfura, quæ linea eft,
continebitur in diametro, atque coſta, fint ergo numeri e @ f, qui ſint minimi
in fua proportione, eritque ob hoc, alter eorum impar, quod fic probatur, fi
enim uterque eorum effet par, non eſſent iammis nimi in fua proportione, ſi
enim par uterqueſit,uterque biffariam die uidi poſſet, outraque mediet asunius
ad utramque alterius medietatem eandem haberet rationemficut totum ad totum,quorumfunt
medietates, ut patet de octonario atq; ſenario, cuius medietates ſunt quatuor,
& qut tuor, atque tria etria,eadem enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua
tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi inſua proportione quod est contra
aſſumptum, quia fuæ medietates effent minores, quadratiigitür illorum minimorum
e « f, ſint ge h, ſi ergo e eſſet impar, a f par, erit quoque per trigeſimam
noni Elementorum g impar, fit itaque k duplus ad h, eritque k par,ex
deffinitione prima noni Eleinentorum, quia igitur a b ad a c, ut e -ad f, erit
per decimamodtauam fexti, ego decimāprimam octaui Elementorum, quadratum ab ad
quadratum ac, ut g ad h, eſt itaque g duplus ad h, ſic enim est quadratun a b
ad quadratum a c per penultimam primi Elementorum, quia ita k, etiam dupluseft
ad h per affumptum,ſequitur per nonam quinti Elemen torum, ut g numerus impar,ſit
equalis K numero pari. Quod fi e fit par, f impar, erit proportio f ad dimidium
e, quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIST. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad, o ideo
erit quadrati a c ad quadratum a d, ficut proportio numeri h, quieſt impar per
trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L, quifit m, cui K poa natur
effe duplus, eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par, at quia
quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi Elementorum,
erit h duplus ad m. Cumque Kſit etiam duplus ad m, erit per nonam quinti, impar
b, aequalis K nus mero pari, quod impoßibile à principio proponebatur
demonftrandum C f............ go!" k...... A Et ſi diceretur, quòd uterque
eorum, quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar, ut quinque ad tria, ut
ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint go b, eritigitur utraque
eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni Elementorum, ſit itaque K duplus
ad h, eritque k par ex deffinitioneprimanoni Elementorum,quia igis. tur a bad a
c, ut e ad f, erit per decimamoctauam fextielementorum vundecimam
octaui,quadratum ab ad quadratum a c, ut g ad h, eſt. itaque g duplus ad h, fic
enim est quadratum a b ad quadratum ac, per penultimam primi elementorum, &
quia etiam k duplus est ad h.. per affumptionem fequitur, per nonam quinti
elementorum, ut g numea rus impar ſit, æqualis k numero pari, quod est
impoſsibile. Illatum, ſeu concluſio habita per hanc induftionem Geometricam eft,quod
impar par ſit, Ariſtoteles autem dicit, quòd diametrum effe comenſurabilem
coft.e non ſcimus, quia ita non est, ſic ut illud fit conclufum, wnor af
fumptum, ut in predi&ta indutione fa& um est. Vt autem fiatconcluſio
Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id, quod aſſumptum fuit, aduertendum, quod ut
Ariftoteles in prima Poſteriorum determinat, Geometra non parallogizat, fed
tota illa Geo metrica inductio est conſequentia formalis,quæ in omnibustenet,
cs.com cludit,nequeinquit, parallogizat Geometra, ut textus 62 probat Arift.
ſubinde aliud etiam eſt aduertendum, ut in Topicis determinatAri ſtoteles,
oſparſim in Logica fua, quod illa formalis eſt conſequentit, quando ex oppoſito
confequentis infertur antecedentis oppoſitum, mos do cum ex contradiétione
poſita, ut diametrum cofte eſſe commenfuram bilem,ſequutum fit quòd impar
numerus fit par, exoppoſito igitur con ſequentis, ut per numerus eft æqualis
impari, igitur diameter coms menſurabilis ex coſte, id autem fequitur ex falfo
poſito, ut quod ime parſit æqualis pari,igitur id quodſciretur, non eſſèt ex
ueris, ſedpoſie tum fuit quod ex ueris oportet eſſe, igitur manifeſta eſt
contradi&tio,res linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta
commenſurabilis, eft igiturfalfum, igitur nonſcitur, quia uera effe
oportet,quæfcim us TEXTV EODEM VEL TEX. V. OSITIONIS autem, quæ quidemeſt utram
libet partium enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe,
fuppoſitio eft, quæ ue ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio
eft.Ponit enim Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem,
lup pofitio enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein
eſt. Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte
reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft,
ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa
deffinitio,poft quam intellecta ſit,etiam poſitio,cõmuni uoce diéta,et legatur
textus fic paulatim,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum quis
interroget, an unitas fit, uel non fit? annuat quòd ipſaunitas
fit,indiuiſibilem autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio,
os exponitur àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad
unitatem, ex qua numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam
reperitur, ut poſito quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque
parteſuper ſe numeri,esſuper illos, alij circumponantur, id toties
fieripoterit,quousq; ad unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum
fuerit,at ubi ad ill.im deuentum erit,non fit ultraproceffus,ut cir ca
tres,quatuor,& duo,etfuper hos,quinq; c unum,medium horū aggre gatorī erit
ternaris, hoc exemplari 1 2 345 signum eftigitur unitate eſſe principium
impartibile omnium numerorīt, ut Boetius in Arithmetica, docet,modo,
exſententia Ariſtotelis, non eſt idem,unitatem fupponere, oipſam deffinire, quæ
deffinitio eſt, unitas eft qua unumquodque unum effe dicitur, uel eft
principium numeri, uel eſt indiuiſibilis, ex quo tamen indiuifibili,
diuiſibilis numerus componitur, ad differētiam indiuifibilium fecundum
magnitudinem, quæ indiufibilianon componunt diuiſibile ali quod. Age igitur,ut
Ariſtoteli placet, quòd non eſt fatis ad demonſtratio nem procedere ex
fuppofitionibus, etiam immediatis, fed opus eſt etiam ex immediatis
dignitatibus, que etiam dignitates improprie poſitiones funt, ideo in
precedenti declaratione concludebatur,numerū imparé eſſe parë,quia ex
poſitione, quod diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros cedebatur, &non
ex dignitate &deffinitione intelle &ta,atque poſita. TEXT. DECIMUS
ALIAS QVINTVS, CH fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM autem oportet credere
& ſcire ré, in huiuſinodihabendo fyllogifmum, quē 110 cainus
demonſtrationein. Eft autem fic, eò quod ea ſunt,ex quibus eft
fyllogiſmus,necef ſe eſt, non folumpræcognoſcere prima, aut omnia, aut quædain
ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus habeat tres equales duobus
rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII. ey xxIx. primiElementorum actu,
non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa x xXJI cognos feenda,
omniaautem prima cognofceremus,ſiuſque ad deffinitiones ago Elementa, ad que
illius XIII. XXIX. primireſolutio fieret, que &fifitfactibilis, tedio
tamennosafficeret, fi femperfieret ufqueadele mentaiſta reſolutio,
fedfatis,quod hoc fieri poßit,ideo dicit Ariſtoteles neceffe eft præcognoſcere
prima,aut omnia,aut quçdam, Sed etiam magis aduertendum, ut declarabo fuſius
Tex. 108. huius primi,quòdquanto notitia eft deſimpliciori, illa, certior eft,
quam que compoſitioriseft.Cum autem principium fit minus compoſităipfa
concluſione, neceffe eft, ut &fua notitia ſit magiscerta, quam conclue
fionis notitia,ideo XIII, XXIX. per quas probatur fecunda pars IN PRIM VM LIB.
trigeſimeſecunde primi Elementorum, ſunt magis nota, oſcite,quàng illa fecunda
pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS V. MA 1 AGIs enim neceſſe eſt
credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam quam cons cluſioni. Aduertendum
quòd magis credere,fine pluri, nempe faciliorem effe credentiam aliud eft, à
credere per demonſtrationem, & propter quid, fe ptima, atque octaua
propoſitiones quinti Elementos rum, primo intuitu quando inſpiciuntur, facilius
eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur deffinitioni fextæ,atque o
&taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis principijs credimus
primointuitu, quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis, ideo
Ariſtoteles ait, aut: quibuſdam, non ſemper omnibus primo intuitu. Debentem
autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet principia magis
cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod deinonſtratur. Sed &
cete. Ada uertas quod & finotitia principiorü uideatur diſtantior
intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt uniri intellectui
concluſionis notis tia,niſi per notitiam principiorum,quæ uidebatur ab intelle
&u remotior, ut in illis concluſionibus, &principijs que precedenti
comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin omnilinea punctum finiliter eſt.
Proprie hoc in propoſito de linea recta intelligas, que atu punéta habet
terminantia, ficut homoactu eſt animal, o fi etiam de circulari intelligi poßit
quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde circulas ri expoſitio
uideturfuperftitiofa, aliena à nas tura exempli, quia exempla per
magisfaciliadantur, ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod fit linea
recta, de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM ARIS T.
TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe autem funt,
quæcunqueſunt in co, quod quid cft, utTriangulo ineſt linea, &: punctum
lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft, & quæcunqueinſunt in ratione di
cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit ſuper hoc textu, uel étiam id
quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot. declarandum, uidetur enim quod
tex. his contradicat que: determinat Ariſtoteles contra Platonem, uidelicet
quodlinea non compo natur ex punctis, præcipue ſexto phiſicorum, primo de
generatione, tertiometaphiſice,ubiex fententia concludit lineam non poſſe ex
punétis componi, quid autem ſuper hoc textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras
dictis dici poßit notaui in prædicamétis, capite de quantitate, uerba aus tem
illa, quia ſubſtantia corum ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea
terminat ſuperficiem triangularem ', pun &tum lineam termis nat, o nullo
modo intelligendñ eſt compoſitiue, ſic ut puncta lineam com ponant, nec etiam
linea triangulum, tametfi aliter ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter
textus hic concipiatur, ftatim fequitur, utſi linea ex punctis componeretur,
quod diameter o coſta eiuſdem quadrati eſſent comenſurabiles, quod textu nono,
eſſe falſum « impoßibile oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram
dimetiretur, nempe per pū &tum, quod eft contra Ariftot. sententiam, &
contra Euclidis ſcitum. Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro,
&ſic pars effet æqualis toti, ut coſta ipſi diametro, pro cuius indu
&tione, ſit quadratum a b cd, cuius diameter a d, Cofta uero a c, in qua
fuſcipiantur duo puncta e, f, immediata ſi poßibile ſit, ut aduerfarius
ueritatis diceret, cum com ponatur ex punétis,à quibus, e, of, pun &tis duæ
lineæ rectæ aufpicens tur innitia tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum
e regione pri me coſte collocatam,certü eft, quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam
diame trum in duobus pun &tis, quæ etiam puneta in diametro immediata
erunt, propter hoc quia lineæ protracte ex hypotheſiſunt immediate, igitur ſi
recte lineæ tot protendantur à coſta in coſtam oppoſitam,quot pū &ta fue
rint in ipſa coſta, per tot etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë
linee, nec erit in diametro punétum aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua
fic protracta ab immediatis pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia
tunin eſt. Uligas, o achi poßit rcula à ma eguna dicera IN PRIM VM LIB. diata
alterius coſte, ut patet in hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic
etiam &, ipſih, ſi l, fit immedias tum ipſi m, patet propoſitum,fi au tem
interl,om, intercipiatur pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi
elemétorum excitetur paralles lus K, o, ipſif, 8, uel ipſie, he tunc ipſa cadet
inter gb, ut in pun Eto, o, igitur g h, non erant imme diata,quod eſt
contraaſſumptum,uel extra utrumqueg,oh, uerſus b, ueld, & tunc k o, neutri
linearū f8, web, erit parallelus,quod eſt contra conſtructionem, patet igitur
quòd tot eſſent in diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea,
quod non componatur ex pun ftis, fic demonſtratur per tertium petitum primi
elementorum, fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor, ocirculus bc, maior,ficira
cunferentia maioris componatur ex punétis,duo immediata puneta fi gnentur b @c,
&per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad c,
hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur
circunferentiam in uno,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in
minori circulo, ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex
partibus æqualibus numero, ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium
punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in
maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars
æqualis eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee
a, b, 4, C, ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto, fit ille d, ſu =
per illam a c, erigatur linea recta perpendicularis per xi.primi Elea mentorum
ſecansſilicet eam in pun. &to d, quæ fit d e, que erit contina gens minorem
circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum, iftad, c.cum linea 4 b, ex
xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 2 d IN Elementorum conftituit duos
angulos rectos, aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c facit duos angulos
rectos ex conftru &tione, duo igitur anguli a de, obde, funt æquales duobus
angulis a de, cde per tertiam petitionem prini Elementorum Euclidis, dempto
igis tur communiangulo a d'e, reſidua eruntæqualia, igitur angulus b.de erit
æqualis angulo c d é, &pars toti, quod eftimpoßibile. Adiſtud diceret
aduerfarius, quod db, odc, non includunt ali = b. quem angulum; quia poſſet
tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto bad punétum c, quod est oppoſitum po
ſiti, quia b c, poſita ſunt ima mediata, quando igitur diceretur, quod angulus
c de, estmaior an gulo b.de negaretur ab aduerſa rio, quia per angulum b d c,
nihil additur in angulo c d e, quia inter bec nihil mediat, e in concurſu bdoc
din d, non est angulus. ifta reſponſio oſi ex ſe ipſa uideatur ua na,
negandoangulum, ubi duæ rectæ line: bd, cd, concurrunt quæ expanduntur in eadem
ſuperficie, oapplicantur non directe, o fit contra deffinitionem anguli,
deffinitione ſexta primi Elementorum, negando etiam à b inc poffe duci lineam,
neget primum petitum primi Elementorum, tamen quia aduerſarius non putaret iſta
inconuenientia, quia ſequuntur ad id, quod ipſe dicit, ideo contra reſponſionem
aliter ar. guo, angulus c d e includit totüm angulum b de, oaddit ſaltem pun
Aum ſuper b de, o ſiproteruias quòd non addat angulum, & puns Etus per te,
eſt pars, igitur c d e addit ſuper 6 d e partem aliquam, igitur c d e eſt totum
adb d e. Aſſumptum patet, uidelicet quòd c de addat ſuper bd e, quia ſi angulus
dicatur fpatium interceptum inter lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles
concipit in queſtionibus meca nicis, queſtione octaua, tunc pun &tus primus
lineæ b d extra circunfes rentiam minorem nihil erit anguli bde, o eſt aliquid
anguli c de, igitur c d e maior est b de, a probatum fuit, quòd æqualis, igi
tur aperta contradi&tio, fi autem angulus ultra ſpatiuin inter duaslie
neas,includat lineam includentem,fpatium tunc primus punctus lineæ cd extra
circunferentiam minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid ans F ino tis 0
th I N PRIMVM LIB. guli c d e, addit, igitur utroque modo angulus c d e punctum
fuper angulum b de, patet igitur ex principali demonſtratione & folutionis
bus ad inſtantias, quod linea non componatur ex punétis, neque recta; neque
circulari, ſubſtantia igitur lineæ ex punétis est terminatiue, o non
compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd Ariſtoteles famoſe,
oexemplo loquitur de cauſa quæ dat eſe, vel etiam dicas, quod punétus,in
deffinitione Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata. TEX. X X. ALIAS
I X. T rectum ineſt lincæ & rotundum. Verbum il lud rotundum legit Aueroes
circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o circulare, ſic
ut pro uerbo rotundum,legatur circulare,ratio quia circula re lineæ est
proprium,quod uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum queſtionum inquiens:In
primis enim lineæ illi, que circuli orbem amplectitur,nullamhabenti latitudinem
contraris quodam modo ineſſe apparent, concauum ſilicet,&conuexum. Rotondum
uero proprie corpori conuenit, non lineæ, ut etiam placet Ariſtoteli libro
fecundo Cali capite primo, quæ lectio non uidetur difplicere etiam Ioan ni
Grammatico, &quodſit iſta mens Ariſtotelis, utfic legatur manife ftum eſt,
per ea, quæ textu decimo ait, non enim, contingunt non ineſſc aut fimpliciter,
aut oppofita,ut lineæ rectum aut obliquum,capiens ob liquum pro circulare. TEXT
VSvs X. T par & iinpar numero. Par quidem ille eft, qui ab impari unitate
differt cremento uel diminue tione, ut quinque à quattuor, uel à fex unitate,
Vel par eſt, qui biffariam ſecatur, impar uero, qui ne in duo æqualia
diuidatur, impedimento eft unia tatis interuentus. POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ.
XXV. ALI AS XI. NIVERSALE autem dico, quòd cum fit de omni, & per ſe eſt,
& ſecundum quod ipfum eſt. Ioannes Grammaticus & fequaces determinant,
ut hæc tria inter ſeſint diſtincta, fic quod id, quodper ſe eſt inſit abſque eo,
quod fecundum, quod ipſum eſt, 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales
duobus reétis,non tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum, quia
fecundum quod ipſum ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina (qua
etiam fæpe Ariſtoteles utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus
reftis non tamen ſecundum quod ipſum. Alio autem modo per fe,id dicitur alicui
conuenire, quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum, ita quod, id quod non
conuenit ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe, niſi quodam modo, fic
quod perſe non immedia = te, oſecundum quod ipſum, diſtinguntur tanquam magis
&minus uni uerfale per fe autem immediate, &ſecundum quod ipſum, hec
quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem, Peccauit
igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod particulariter
uerum est, uniuerfaliter autem falfum, Triangulo igitur immediate, cu per ſe, o
ſecundum quod ipſum conuenit habere tresduobusre&tis æqua les, quodam autem
modo non per ſe ipſi iſoſceli conuenit habere tres duobus rečtis equalis. Vt
Ariſtoteles ſententia, hæc ſit, quòd per ſe immediate, ſecundum quod ipſum,
idem fint, neque ab inuicem in aliquo diſtinguuntur, per le autem non primum,
“ſecundum quod ip fum, hec duo uere diſtinguuntur, ut Ioannes ſuisexemplis,
immo Ari ſtoteles in Texu,exemplomanifeſtat. HET luben 10a TE X. X X VI. ALIAS
XI I. ## ling PORTET autem non latere, quoniam fæpe numero contingit errare,
& non eſſe quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum quòd uidetur
uniuerſale demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum aut ni hil
ſit accipere ſuperius,peti fingulare, aut Fij 44? IN PR ÍMVM LI B. ſingularia.
Aduertendum Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis interpretes, ſiue
Greci, Latini, uel Arabes fuerint perperam eſſe interpretatos hunc Ariſtotelis
Textum, &tres ſequentes textus @rita male fenferunt de Ariſtotele, quòd
litteram pariter & fenfum omnem peruertunt &corruinpunt. Circa
Ariſtotelis litteram, an tequim ad eius interpretationem acMilani, falſit as
loannis, oſequa tium est hoc loco non pretereunds. Primo circa hunc textum,
loans nes adfert exempla multa quorum neque unum tantum facit pro textus
declaratione, ait enim Ariſtoteles. Cum nihil fit accipere fupes rius. Nihil
fit, neque uox quidem, utputa nomen aliquod fictitium,& acceptum,cui tamen
in re nihil refpondeat ut eſt hoc nomen chimera, cui nomini nihil extra in re
conuenit,fic tandem, ut neque res ſi aliqua fie ue ens aliquod, ita ut nulla
ſit res, neque ſit nomen aliquod ſignifi cans illud non ens. ipſe autem loannes
explicat Ariſtot. litteram cirs ca illud, cui eſt accipere fuperius, &circa
illud, cui nomen impoſitum eſt,ut est, Terra,' Sol, øMundus, &triangulus,
horum omnium ex tant nomina, ut manifeftum eft; o ſingulum ſuperius est ad ſua
indiuis dua, nempe ad hancterram, ad hunc Solem, ad hunc mundum, ad -Scalenonen,
perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum ipfe adferat exemplum de
eo, cui ſit accipere fuperius, cui nomer impofitum eſt, Textus autem
Ariſtotelis dicat, cum non fit accipere fuperius. T E X. XXVII. i VT fi quid
eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus. Ioannes Toto errat
Cees loo.fequentes ipfum, circa litteram e doctrinam Ari stetelis,textusfic
habet. Si quid eft,illud tamen innominatum fit in differentibus fpetie res bus.
Ioannes inquit, non exiſtente commune aliquo de quo non exiſtente, prebet
exempla deexiſtentibus, contra feipſum V etiam de nominatis in differentibus
petie rebus, contra Ariſtotelis textum, ait enim Ariſtoteles. Sed innominatum
ſit in differens tibus fpetie rebus, exempla adfert Ioannes de Triangulo, qui
nominatur, eft in pluribus fpetiebus differentibus, ut in Iſopleuro Iſoſcele,
Scaler.one, o fimiliter de quanto prebet cxemplum loane nes, quod nedum nomen
habet, fed in differentibus fpetie pluribus est POSTRIO RVM ARIST. par A @
etiam in pluribus generibusdifferentibus eft, neque mireris uelimſi Joannes
ocæteri expoſitores aliò pedem retullerint, cumfaltus aſperie tatem ſenſerint
&iuerit uſque Gorcie inficias, obfcurans Ariſtotelem Platonicis ſuadelis. Ut
contingat eſſe ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę funt in te,
ineft quidem demonſtratio, & erit de omni, ſed tainen non huius erit primi
uni uerfalis demonftratio, dico autem huius primi, ſecundum quod huius
demonſtra tionem, cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces prefertim
Niphus fueſſanus medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus philoſophus, og
fequaces multi fimiles ſine nomine, pleni nominis bus, quos in interglutiendam
uniuerſam Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit, cū ad exempla
deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus modis errandi
circa univerſale dixit, loan nes (eg peius cæteri) circa finem comenti huius
textus fic ait,in reliquia trium modorum exempla per bec exponit, uerū non
utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi, propofitum enim exemplum
ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio ordiri otexere modos errandi
cum exemplis, ſicut modo cuique errandi correſpondeat pros prium &peculiare
exemplum, ut quemadmodum tres numerauerit ers randi modos circa uniuerfale,
tria exempla, ipſis correſpondentia fubiecit, ſic ut primum exemplum primo
errandi modo, fecundum exem plum; ut in littera Ariſtotelis ponitur fecundo
modo errandi correſpon deat, otertium exemplum ipſi tertio modo errandi apte
conueniat, quo ordine confuſionem omni ex parte inter cxempla os modos errandi
fuæ giens, in primis ſuo artificio, modum errandi &exemplum fibi corre
fpondens notificauit circa id quod debet effe medium demonſtrationis, ſe cundus
errandi modus &exemplum fibi correſpondens, cõcernitfubies Sum
demonſtrationis, tertius modus errandi circa uniuerfale cum exem plo ſibi
coherente, concernit totam demonftrationem, feu arguendi mo dum qui dicitur
permutata proportio, errauit igitur Ioannes v omnes alij, qui aliter quam ut
hucufque dixi extorquent Ariſtotelis textum, non intelligentes. I N P R I M VM
LIB. Pro declaratione igitur uigeſimi fexti textus, fit hæc noftra prima ina
ter expoſitores dilucidatio uel ſi difpliceat, dicas eam eſſe ſecundam,uel
etiam millefimam. Primī modum errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus lineis
reétis, tanquam de ſubiecto, concluditur hec paßio, nempe quod non intercidant;
uidelicet quòd parallelæ ſint ſeu equidiſt antes, per hoc, tanquam per medium,
quia linea recta ſuper duas line as rectas cadēs eſt poſita in omnibus quatuor
angulis rectis, ideo ille due recte parallelæſunt, oetiam per hoc me dium, quod
cum linea recta ſuper duas lineas rectas cadensfecerit an- A. 6 gulos
quomodolibet æquales, utputa alternos acutos ſibi inuicem æqua- c. d les, uel
alternos obtufos ſibi inuicem equales, illæ duæ lineæ funt æquidis ftantes,
iterum per hoc medium quãdo linea recta cadens fuper duas alias rectas lineas
fecerit exterio rem angulum æqualem interiori ex eadem parte, ille duæ lineæ
paraller le ſunt, &adhuc per iftud medium, ut fi linea recta cadens ſuper
duas rectas lineas, fecerit duos intrinſecos angulos æquales duobus reftis,ut
probant X X VII. XXVIII. primi elementorum quod adhuc illæ due recte linee
parallelæ ſunt. Modo ſi Geometra putaret demonſtras, tionem factam per ſingulum
mediorum di&torü,eſſe uniuerſalem,erraret primo errore circa uniuerfale,quia
nullibi medium eſt uniuerſale et unī; nulla enim natura, nec res aliqua eft
cómunisad omnes quatuor angulos rectos, ad binos acutos, binoſque obtuſos,ad
intrinſecum et extrinfecum ex eadë parteſumptos, et ad duos intrinſecos ex
eademparte acceptos, niſi quis uudeat dicere,quòd quædam cõmunis natura,eſt ad
omnes pres nominutos angulos, utputa æqualitas angulori, quæ quidem angulorum
equalitas,ratio eſſet, ut cõcludas lineas eſſeparallelas, iſtud ſomnium,ul tra
quodfit falfitate plenum, eft etiam nimis procul ab apparenti mena dacio, non
ne etiam in concurrentibus lineis repperitur æqualitas angu lorum? ut puta in
his angulis qui ſunt ad uerticem poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas
rectus lineas,illa enim cadens cum utralibet earumf1. per quas cadit, caufat
uerticales angulos æquales ut ſunt anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb,
ſtatim hoc reiciet dicens,quod de al 1 POSTERIORVM ARI'S T. ternis angulis
intelligenda eſt illa equalitas, ut natura illa communis tantum ſit equalitas
coalternorum, hec reſponſio eft uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca, uel
dicas analo gam, ad equalitatem retorum, acu torum, obtuforum angulorum, @etiam
dico, quod totã hoc,& qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta
naturd,una abſoluta (utputa) eſt unus atq; alter angulorum, reliqua natura eſt
reſpectiua et ad aliquid, ut æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur
pro medio, tantuin equalitas in omnibus illis fine pluri,dico quòd per
æqualitatem non con cluditur, quod lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě
talium angulorī, Et dico etiam quòd non tantum per equalitatem coalternorīt,
ſed etiam per æqualitatë extrinſeciad intrinfecum, et per duos
intrinſecos,quorīt alter acutus reliquus obtufus,qui equalesfunt duobus re
& tis, quæ omnia non habent unum ſuperiusuniuocum, igitur non eft aliquid
accipere ſus perius ad hæc omnia, igitur petimus tunc ſingularia media in
propoſito concludendo, &ſicerramus, ſi nobis uideatur uniuerſale
demonſtrare primū. Error igitur iſte circa uniuerſale,eſt circa medium
demonſtratio nis quod quidem medium uniuerfale, cum non fit, fingularia media
peti mus, ſimile habes huic per XXVII (XXVIII primi Elementorū, Euclidis per
quas Ariſtoteles manifeſtat propoſitum. Itidem fimile per quintam, fextam, a
ſeptimum fextiElementorum,quibus probat Eucli des per diuerſa media ſingularia,
o non per unum uniuerſale medium, triangula eſſe equiangula. Aliud etiam in
Euclide habes xui primi Elementorum « in ſexto Elementorum propoſitione xxx,
quibus lo cis ſimile huic probat, quod duæ lineæ,in dire&tum
cõiun&tafunt et lines und, ohoc per ſingularia odiuerfa media, quibus non
eft aliquid unis accipere fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit hec mea declaratio,
immo.eft ipſius Ariſto telis ad unguem, quam Ioannes grammaticus, neque nouus
aliquis, ſiue antiquus etiam interpres, non percepit, hoctextu affert
Ariſtoteles les cundum errandi modum, à primo modo errandi longe dißimilem,
atque diuerfum, in primo modo errandi nulla natura communis accipiebatur IN
PRIM VM LI B. 1 fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam uox habebatur, in
hoc aue, tem ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o inſuper nomen. ei
impoſitum eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe plures fpe=; cies, ideo
illa, &fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen differentibus fpecie rebus,
innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum, quiail Leſpecies non ſunt,
ut folis, terre, mundi natura, eſt innominatain plu ribus ſpeciebus terre, quia
plures ſpecies terre nonſunt, fi igitur quiſ piam demonſtrationemde cælo
tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com cluderet, &putaret quod eſſet
ſuademonſtratio uniuerſalis, quia no eft aliud primum cælum,erraret quia non de
hoc cælo, primofitdemöſtra tio, fed de natura coeli, ut eft quid uniuerfalius
ad hoc primum cælum, ſeu de cælo, fine contratione ad hoc ſingulare cælum, quam
doctrinants Ariſtotelesſuis mathematicis exemplis, &quidem aptißimis, fole
cans didiorum reddit; inquit enim in exemplo fecundo, quod quidem fecundo
errandi modo correſpondet, oſi triangulus non effet aliud quàm 1f0a) ſceles,
ſecundum quod Iſoſceles eſt. Videretur utiqiie ineſſe primo,has bere tres
æquales duobus rectis, cum nullus effet alius triangulus,uel nul la alia eſſet
ſpecies trianguli quam fofceles, &tunc error ſecundo mos: do contingeret.
Explico Ariſtotelis ſententiam. In primis eft aduerten dum, quòd triangulus re
ipſa hubet ſub ſe tres ſpecies triangulorum, fo pleurum, iſoſcelem oScalenonen,
quod ſi tamen per imaginationem ponamns, quod non haberet ſub ſe ljopleurum,
neque Scalenonen, per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum, tantum haberet
ſpeciem unā, ut iſoſcelem, eſſet tunctriangulu: innominatus in Scalenone atque
Iſos: pleuro, quia fi in illis ſpeciebus triangulus nominaretur, ut
fic,Scalenon eft triangulus, Iſopleurus eft triangulus, iam illæ ſpecies duæ
triangu. lorum effent, quas ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum
oſtendat. propoſitum. His ſuppoſitis, ſiquis de foſcele concluderet; quòd tres
haberet æquales duobus reétis,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des
monftratio, quia nullus eft alius triangulus, quam foſceles, crraretſes. cundo
errandi modo, quia Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe, nempe triangulum,
de quo primo concluditur talis affectio, & talis era, ror multa diuerſa à
prinoerrandi modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit
circa.medium, & iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum
demonſtrationis. Aliud, ut in primo nonſitfuperius ali quid nec etiam nominatum,
In hoc ſecundo eſte ſuperius og nominas, tum, ut triangulus, Tertio illud
innominatumſit in pluribusmedijs, hoc. autein? POSTERIORVMARIST DS autemfecundo
modo innominatumfit in duabusfpeciebus tantum, uideli cet in Iſopleuro w
Scalenone, Ibi ut in omnibus fit innominatum, Hic aue tem nominatum ſit tantum
in una ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum octauum textum cã
acceſſerit philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex inextricabılı
labirintho egredi, ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin interpretatione, perperam ej
tortuoſe ſit interpretatus,vt puta uerbum hoc, aliquando, non
temporaliter,inquit,audiendü eſt, ſed quaſi diminutius ut ait ipfe, non exacte
fit audiendum, fimili modo ergo ijtud uerbum, Nunc,haud,inquit,temporaliter
audiendum eſt, quin po tius, exacte, o ſecundum Methodum demonftratiuam,
Pedagogorā mo dum inſequutus, qui quattuorgrecis litteris intineti temerario
aufu, ſi ne quacunquefcientia aut liberaliarte ad explicandum Ariſtotelem uens
toſi cum accefferint ipſi implicati non ut loannes plicis binis uel ternis
terminos exponit, ſed denis centenis atq; millenis epiſtolis ſuos codiculos
imptent promittunt etiam multis nobilibus ſe expoſituros Ariſt.uocantų; fepe
illos nobiles nominatim ut teftes tādem ſint ſue infanie, et ut uidean tur
etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo chere illuſtraſſe, cum nondum pri ma
philoſophie elementa fufceperint, Pereant ipſi cum ſua ignorantia, uelfuis
fericis ueftibus addifcere poft multa těpora incipiant,oſiferico indueti,atque
equoinfedentes, o rabini facti addiſcere uerecundantur. fufcipiant eam quam
decet philofophum, ueftem, o Euclidis honeſtate accedant ad Socratem; ne fintpoſt
hac, fomenta praua difpofitionis preſtantißimæ iuuentuti in celebratißimis
terrarum gymnaſijs. Qui dam alij interpretes quorum eſſe nefcio, quia ſuum eſſe
nihil eft, neq; fuit unquam abradunt ly nunc, & locofuo,legunt, non,
&ly aliquando,fo litarie fine fenfu relinquunt, quibus expofitionibus uel
potius torturis iam iam incipiat Ariſtotelis lamétatio, Abigatur igitur cum
mufcis afta bulòunaatque alteru interpretatio, feu magis Ariftotelis deprauatio,
et legatur textus ut lacet in greco, quitextus græcus habet has particulas,
aliquando, et nunc, que uerba temporaliter onullo alio modo intelligan tur,
neque intelligi aliter poſſunt, onon legatur, loco de ly nunc, non, ut quidam
facit hoc tempore, quenſcies, ſi tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro
declaratione igitur uera, queunaſola eft, quă inferius fübi ciam, et nulla alia
ab ifta uers effe poteft, ad Arijtotelem redeundo, textum expono.
Proportionale, quod commutabiliter eſt. Aduertendū quod iftud de proportionale,
exemplum, eft tertij modi, pro cutus declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN
PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem proprium quantitatis determinaffe in fine
predicar menti quantitatis dicentem; Proprium autě quantitati cft maxi. me
çqualitas & inequalitas,reliqua uero queno ſunt quan ta no proprie æqualia
ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo ſitio,uel etiam habitus æqualis,
inequalisue non omnino propriedicitur, fed familispotius,atá; dißimilis, &
album itidem æqualeinæqualeue non onnino dicitur, fed fimile dici atque
dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab Euclide deffinitur in
quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem generis quantitatum
alterius ad alte ram habitudo quædam, ex Ariſtotele igitur habetur, quod
proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex Euclide uero quòd
propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero, quod tantum in quana
titate proprie reperitur proportio, quæ quidem eſtæqualitatis, in equalitatis;
inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum Boetium in primo
Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem,equalitatis proportio eſt
quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad duo, inequalitatis uero
proportio eft quando fundamenti eſt maius, terminus autē minor, et hæceft maior
inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum eftminus terminus uero maior,ut
sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor, Præter hæc ſcito, quidam modiarguenda
quibusmathematici utuntur(de quibusEuclides in quinto) indifferenter applicatur
quantitatibus eiufdem, fiue etiam alterius generis, dummos do bina
ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in equaproportionalitate patet, hic autem
modus-arguendi qui dicitur commutata proportio non niſi quantitatibus, quæ
eiufdem generisſunt attribuitur. Quibus pras intelectis o declaratis, uides
Platonem improprie applicuiffe uirtutia bus in Gorgia cõmutată
proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio nonconuenit, ex
deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt propria rerum
natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia,aliena docirina perturbanda.
Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut cótingit efle, ficut
in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft,partem uero inferius
ad ipfum uni uerfale, Mododico,quòd antiqui philofophi qui precefferütEuclidem
Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi modo, putantes de toto, feu
uniuerfalemfacere demonftrationem, que tamen erat in par te demonstratio,hoc
eſt particularis &non univerſalis, ideoait philoſos plus quemadmodum
demonftratum, eft aliquando, uidelicetabantiquis POSTERIORVM ARIST.
philoſophis, qui tempore Ariſtotelem,atque Euclidem preceſſerūt,quia ipfi non
aduerterunt quod quantum, eſt id (id eſt natura aliqua) quod fum perius accipitur,
nominatum eft in pluribus differentibus fpecie res büs, differt igitur iſte
modus à primo, quia ibi non erat accipere aliquid ſuperius, o etiam differt
àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon erat nominatuin in pluribus
differentibus ſpecie rebus, hoc autem, quod hic conſideratur, eft in
pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale onnibus quantis, fiue
illa diſcreta, ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki, feuetiam permanensſit,
ut numeri ſunt,lines, folida, tempora, &alia huiufmodiſpecie differentia,
feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui deſingulis
demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale
demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et
perſe attribuitur, ut ipſi quan titati, quatenus tale. Nunc dico, nedum in eo
Ariſtoteleo quidem tempo të, & à philofophis reéte fapientibus, ſed etiam
oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur demonſtratio
uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum docet,
propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando, arguendo
permutatim in numeris ſeorſun, in lineis feorfum, cæteris feorfum, nunc au =
tem non contingit iſte error his, qui ſequuntur Euclidis ſcitum, quia nunc,
ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur, hoc eſtmo:.
dusiftearguendi primo per fequantitati conuenit, quægenuseft ergo üniverſale
adomnia quanta, hæc autem eſt mea interpretatio, uera og germanaipſi
Ariſtoteli, ut etiam ipſe ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime
declarat propoſitum. Propter hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian
ĝulum demonſtrationeaut una, aut altera quod duos re čtos habet unuſquiſque
Iſopleurus feorfum & Scalenon,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum,
quòd duos rectos habet, niſi ſophiſtico inodo,rieque uniuerfaliter triangu huum,ne
quidem fi nullus eſt, pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod
trianguluseft cognouit,neque fi om= nem triangulum,ſed quatenus ſecundum
numerum, ſecun dum autem fpeciem no omnem, & fi nullus eſt, quem non nouit.
Non eſt ſurdaaure pretereundum artificium fummum, quod in hoc exemplo
Ariſtoteles docet, fcias hoc exemplo de triangulo, comple &ti duos errandi
modos, vel facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa IN PRIMVM: LIB. do,
atque tertio, cum primum defingulo modo, fecundo &tertio, fe. paratim
exempla aptißima e peculiaria pofuit, ftatim attulit aliud exemplum utrique,
ſecundo uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com. poſitiuam methoduin etiam in
exemplis feruauit. Littera autem per particulas, ſic declaratur; inquit enim,
demonſtratione aut una aut al tera; una enim demonſtratione numero fieri-non
poteft, ut deIſopleuro folcele, C Scalenone, concludatur quod tres equales
duobus reftis habeat, uia igitur fpecie demonſtratio erit, qua de his tribus
triangu lorum fpeciebus demonſtrabitur, quod tres habeat æquales duobusree Atis,
ideo dixit Ariſtoteles demonſtratione aut una aut altera; ac fi dices ret
pluribus numero demonſtrationibus, de tribus ſpeciebus illis cons cludi, quod
tres duobus rectis pares habeat hæc autem demonftratio, nullo modo intelligi
potest, quòd fyllogiſtica ſit, quia tuncmaior pre. miſſa acciperet de
uniuerfalitriangulo, quod haberettres equales duo bus reftis,ſic fyllogizando,
omnis triangulus habet tres angulos æquam les duobus rectis, ſed Iſoſceles, uel
Iſopleurus, uel Scalenon, eſt triangulus, igitur foſceles, uel Iſopleurus,uel
Scalenon habet tres, æquales duobus rectis, Sic igitur fyllogizando uel
particulatim abſque illo diſiunto, fed uno tantum affumpto triangulo, non ne,
ſcio de triangulo uniuerſaliter, in maiori aſſumpta quòd triangulus habet tres
æquales duobus reftis? quod e diametro opponitur ei quod Arift. ait,ut et fi de
Iſopleuro, et cæteris fciuero,quòd habeat tres æquales duo bus,nondūſcio de triangulo,niſiper
accidens,per accidés dico quatenus in ferius omne, ſuperiori accidit,modus
igiturilledicendi, quein uidentur omnes latini atque greciſequi, non
poteſtſtarecum Ariſtotelis ſentena tia, quia iam priusſciretuniuerſale in
maiore fumpta et per uniuerſale in cognitionem particulariñ deueniretur,qui
error non eſt, ſiquis autem di ceret, ut fic intelligi debeat
demonſtratione,aut una fyllogiſtica, aut alte ra Geometrica, dico quod nullo
modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia ſequeretur idein incommodum eo modo
arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex litteram Aristotelis, ut fupra dixi,
quia tunc per cognitio nem uniuerſalis deueniremus in cognitionem particularium
quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe textu Il docet, quo modo de nouoſci
mus,non hoctamen in hoc textu pertractat, ſed agit,hoc textu,& in hoc,
exemplo, de errore, qui opponitur uero modo ſciendi,onon de mo: do, quo de
nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica demonſtratio
neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1 / 0 POSTERIO
RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed triangulus iſoſceles
est, igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares, &de alijs
fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i
particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no
diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per
particularia, uel etiã altera,nempe Geoinetrica. Pro cuius ellucidatione, eft
fciendun; ultra ea, quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu tertio,
quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun demonſtrat quod
triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos æquales duobus-rectis,
fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris (non dico Ariftelis deuoratos,
res uel potius carnium «acephalorum ſeptem, unis bycis uoraces, quiafi
uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis do& rinam tenent,quam
falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione oſtendens de 1fofcele, quòd
habeat tres e qualesduobus reftis per decimamtertiam O vigeſimumnonam primi
Elementorum, aut altera numero, eadem ta menſpetie de Iſopleuro &
Scaleno.ne idein oftendat, ita quòd de ſingus lis trianguloruin þetiebus
inducat, quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum tres equales duobus,
nonduin cognouit inquit, triangus lum quòd duobus reftis æquales habet, niſi
ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe huiufmodi, ne quidein fi
nullus eft, preter, hec, triangulusalius, non enim quod triangulus eft
huiufmodi cogno uit, nequeſi omnem triangulum, hoc habere contingut, utputs
duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum, ideft fecundum nume
rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien, in uno uidelicet
uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem, id eſt ſe
cundumnumerum trium triangulorum petieruin, ſeparatim,quem non nouit. Erraret
igitur duplici errore ille, qui putaret eße unia uerſale fubie&tum, &
totum, id quod effet particulare fubieétum, parsfubieétiut, quia tunc acciperet
in parte totum, id eft partem, to tum effe exiftimaret. Si autem triangulus
immaginetur faluari in unica tantum fpetie, ut in iſoſcele, tunc exemplum
intelligatur, aptari feo cundo modo errandi tantum, non etiam tertio. Vides
igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa
uniuerfale,quorum cuique proprium, &peculiare exemplum aptauit. Neque legas
poſt hac lyaliquando, prominus exacte, nequely nunc,pro exacte ita,ut neutrum,tempusſignificet,
fed utrunque temporaliterlegatur, neque 1 i IN P R I M V M L I B. legendum eſt
ly nunc pronon, ut quidam, qui nullus homo est facit. Ad id autem quod Ioannes
de Gorgia tetigit, aie quod quantitas, natura ipſa, qualitatem precedit, fic ut
quantitas, fit prior ipſa qualitate non dico tempore necetiam natura ſed ordine,
oid quod propriumquan titati eſt prius est proprio qualitatis, fimiliter et
modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij, ut eſt proportio, & modus arguendi,
qui dicitur permu. tata proportio, funt hæc quantitati propria oſibi primo
conueniunt, deinde etiam qualitatibus ſecundario « improprie attribuuntur. Quem
admodum etiamSyllogiſmus, qui omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per
attributionem, de eo tamen primo oproprijsſime Logicafa cultas agit, quòd ſi
ſubſtantijs quantitate prioribus, quis tribuat come mutabiliter proportionari,
tunc uniuerfaliter reſponde, quod omnibus entibus poteft attribui
commutabiliter proportionari improprie tamen, oper quandam attributionem
fecrındariam, quatenus omnia entia,has bent quantitatem molis, aut uirtutis in
ſe,o ſic Plato attribuit in Gori gia commutabiliter proportionari illis
qualitatibus improprie, opro ut ille qualitates includunt quantitatem uirtutis,
quæ funtgradus pera feftionis. TE X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit
uniuerſaliter, & quando nouit fimpliciter, manifeftum eft utique. Quoniain,
li idem erit triangulo eſſe & Iſopleuro, aut unicuique,aut omnibus fi uero
non idem fed alteruin & cætera. Littera ſic exponatur, fi eadem deffinitio
quæ trianguli est, cſJet ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris, aut
unicuique 1fos pleuro iſoſceli o Scalenoniſeparatim, aut etiam omnibus fimul in
com muni à quanon ſit alia deffinitio ipſis conueniens, ſi uero non idem, id
est finon est eadem unica deffinitio, quæ bis omnibus æque primo conue ! niat,
fed alterum, id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus
lineis rectis claufa, fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus
claufa, iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus, una
inequali claufa, gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa, ecce
modo, quàm diuerſa ſint deffinitiones, fi ineſt igitur tres habere his omnibus,
hoc quidem eft unicuique, fecundum quod eſt triangulus, uelfecundum quod eft
figura tribus rectis claufa, o non POSTERIORVM ARIST. has pro eta quia illis
lireis equalibus, uel inequalibus claudatur. Vtrum autem fecundum quod eft
triangulus, aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo ſecundum hoc, eſt
primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio, manifeſtūeſt, quando remotis
infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto,triangulo infunt duobus rectis pares, fed
æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to infunt tres duobus rectis pares,
fed non inſunt tres duo bus rectis pares figura & termino remotis, quia
etiam ipfis inſunt duobus rectis tres æquales, fed eis non primo, ut fi gura
que clauditur termnino uel terminis, quo igiturprimo reinoto, cui priino
conuenit; remouetur, & habere tres, fi itaque triangulus remoueatur,
remouebitur & habere tres duobus rectis pares, & ſecundum hoc igitur,
id eft few cundum triangulum ineſt, & aliis per ipſum & huiuſmodi
trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio. Littera fic ordináta, artificiun
Ariſtotelis est conſiderandum, in hac regula, quam prebet ad cognofcendum,
quando erit uniuerfaliter demonſtratio, ego exem plum eft contraſecundum modum
errandicirca uniuerſale,ſic,utſeruans hanc regulam,non errabitſecundo modo
errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis accidentibus indiuiduorī,utremoto
ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut habere tres duobus reétis pares, as
enimfeu aneum effe,non conuenit fpeciebus triangulorum, niſi quia indiuiduis
triangulis conuenit remota,fubinde fpecie trianguli, ut Ifofcele remoto, non
pro pterea remouetur affectio uniuerſalis, quæ eft habere tres duobus reétis
pares, quia in alijs fpetiebusſaluatur natura,cui primo conuenit habere tres,ut
in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur naturatrianguli,cui prinoco uenit habere
tres,tertio remouet genus ad cuiusremotionem remouetur villa affeétio,ut remotafigura,
&tres habere duobus re &tis pares remo uetur, Quarto cultimo remota
deffinitione generis, ut remoto termino figura enim eſt, que termino uel
terminis clauditur, remouetur og illa affectio ſed non primo, primo enim
conuenit ipſi triangulo, triangulo igitur remoto, statim remouetur & illa
affectio, habere tres duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua concluditur
quòd triangulus habet tres angulos equalesduobus reātis, eft uniuerſaliter.
& eft Te i IN PRIMVM LIB. TEX. XXXVII. ALIAS XX. Pro quo VORVM autein genus
alterum eft, ficut Arithmeticæ, & Geometriæ,non eft enim Arithmeticam
demonftrationem accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi magnitudines
numeri fint. Gnarus Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non dubitanz do
loquutuseft inquiens,niſi magnitudines numeri fint, fed fuæ regulæ uniuerfalis
exceptionem faciens, niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas
magnitudines nunquam fieri numeri nifi numeri nuo merati, o adhuc numeri illi
numerati non fit diſcreta quantitas, ſic ut illinumerati numeri, non copulentur
ad aliquem communem terminum, ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum
copulantur communem,fed ad comunem terminum copulantar ille magnitudines que
numeri funt per folum tamen intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur
ille quidem magnitudines quæ numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter
quã ſint, eas percipiat oppoſito modo, fed eas tantum conhder atparticunt Latim,
no intelligendo eas niſi priuatiuenon effe coniunctas,non tamen in telligendo
eas negatiue, non effe coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id,quod Euclides
proponit propoſitione quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles
magnitudines,ad inuicem rationem habent quam numerusad numeră be cuius
deinonftratio talis est. Sint due inagnitudines a b communicantes, dico quod
earum pro portio eft,ſicut alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan
titas c cõmuniter menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ
inenfuret a fecundum numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad
unit atem eo quod ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi
b, ut unit as ad e, quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt
ſubmultiplex e, igitur per aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft
propoſitum, Ecce quod f linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima
partē linet a, à fecunda parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis,
punctus copulansprimam partem lineæ & cum fes cunda parte, manet idem, immo
eſt communis punétus &ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus tamen
intelligit primam, atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd conſideret,ut ad
comunem punétum f copulentur. Ecce uides quomodo Euclides utitur medio
Arithmetico,ut puta nume ro in constructione, «æqua proportionalitate ad
probandam affeétio nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi
utitur uns decima octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe
ftio ne de magnitudinibus, hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum
Magnitudines, numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter
dimetiantur, diameter igitur quadrati, Oſuacostanunquam funt, neque dicentur
quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides
in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo
pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala -
tini non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuerfaliter,
quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda
Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis
fenfum, inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo,
non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror,
ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis,eum admiror quòd cum
aliàsdiſciplinas mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem,
&quia etiam philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin,neque
pueritia,necſuafeneétu te eas fuo ingenio intellexiſſe, niſi dixeris, quòd ipſe
elleuatus in eſtaſi intelligebat omnia per intellectum in actu, quo multa
peruerſo modo,e ordine intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico uerbo
cupientes Aueroiſtas dici, ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis explicanda
propofuit, de quo intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere ſunt ante
quam intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam,quòd non de ſeparato
illo chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus intelligere,ut
quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur, pertranfeo tamëhæc
inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et utfic docentes falfo,reſipiſcăt,
et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et intelligeret &alios post
millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum contingit in quibuſdam, po fterius
dicetur. littera fic intelligi debet, magnitudines quando ſint 1 1 H S8 IN
PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam,nempein temporibus, ideft quádo ipfa tempord,
ut numeri concipiuntur, Poſterius dicetur,ut in libris de philoſophia et de
anima.Hoc loco habemus artificium ab Ariſtotele, quoGræcorumexpo fitorum abufius
mille,o latinorü millies millena millia errorum cognoſci mus,De interpretibus
uero noſtri temporis,ſierrent,non dico,fed intelli gas uelim, ut quot uerba
proferunt, tot mendacia contra Ariſtotelis or dinem ýmethodum committunt. Quis
enim legit Grecos, Latinos, o noftri temporis expoſitoresAriſtotelis, non
uideret conſiderauerit, illos ſepe, & fepe fepius adducereloca odoctrinam
datamin philofo phia uniuerſá, in libris de anima, methaphiſicis, pro
declaratione lo coruin logices, quis modus iſte obfcuritatis eſt, per
ignotißima declarda re ea, quæ aliquo modo ignota funt? eper ea quibus
accommodantur principia, ipſaprincipia uelle declarare, oper poſterior aignota
decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti declaratores,hominem eſſe philoa
fophum, animaſticum, & methaphiſicum antequàmfiat logicus,utille no Ater
bonus homo docebat, quòd Ariftoteles attulit tria exempla in fecun do textu,in
tribus ſcientijs,ut ibi notaui ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis
doctrinam,qui poftquàm exceptuationem uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc
autem, quomodo contingit, posterius dicetur, fic ut id,quod inphilofophia
dicit, nonreuocetin logicis declarandis, fedt diuerſo,exceptione qua in hoc
locofacit,Pombaur tanquam nota in philofo phia, ut ex notis ad ignota o utex
uniuerfali ad particularia tēpora procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx.
libro Elementorū ut des claratum eft, & non ex philofophiæ locis, vt proMilanius
utpúta ex his, quæ in Geometria notafunt, ad ea declaranda, quæ inlogicis traa
& antur, ut uera methodo, à notis diſcuramus adignota, fed fi idem in
theologos ſacrosobijcias, qui indiſcriminatim ad declarındas theologia cas
queſtiones loca uniuerſalis philofophiæ adducunt, igitur ipficra rant,refpondeo,
In thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi lofophia ancilantur
tanquam ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic eliberalium artium
theoremata adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota declaranda. Ita ut
ultra modum quo intelligimus Sacran do&trinam per reuelationem, ſunt quidam
alij modi intelligendi, ſuppoſia ta tamen reuelatione primo, unus eſt modus
deuotionis fpiritalis, quo particulariter dominusfuisfanétis, licet alias
indoctis tribuit intelligere, ut Petro intelligebat ea,quecontinebantur in
epiſtolis fratris noftri Pau li, quæ indocti deprauant ad fuum fenfum, non
intelligentes, Alius mo POSTERIORVMARIS T. 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi
facras litteras prouenit ex ingenij uiuacitate tantum, qui modusmultas hærefes
attulitfidelibus. Tertius eft modus intelligendi beneficio naturalis
philoſophic, &hic etiam decipit innaniterfideles nis fiunctione
fanétifpiritusmoliaturfua duricies, hoc quidem tertio modo non intelligit
aliquis facras litteras, niſi inſtructus illis difciplinis, que precedunt ipfam
reginam theologiam, valeant igitur, eantuna oma nes ad olas carnium,
nonadScotia Thome libros, qui, his artibus &philofophia non callent, non
peccant igitur Theologitertio modo di di, copeccato, quo multiGræci, Latini,
&præfertim noui interpretes in Ariſtotelem peccant,confundentes docendi
ordinem. Videtur hæc ex poſitio, Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt.
pofterius dicetur, ut in libris philofophiæ, dixi tamen ego ex decimo
Elementorum. Dico Arie ftotelem promittere quomodo continuum diſcretum
căcipiatur, fed Eye clides quo modo per principium Arithmeticum de
magnitudineaffeflio demonſtretur atq; concludatur. • Ex codem enim genere cft,
extrema & mcdia eſſe, fi namqucnonfunt per ſe accidentia erunt, propter hoc
Geo metrię non eft demonſtrare, quod contrariorum eadein eſt diſciplina, ſed
neque quòd duo cubi ſunt unus cubus, ſit heclitteræ expofitio, ut media
oextrema debeant effe eiufdemgeneris, media intelligas, feu in conſtructione
medium, ſeu medium ad probadum, quod eft, aut principium, uel etiam
propoſitiopredemonftrata,que fus mitur ad probandam aliam, propofitionem;
extremorum autem nos mine (ubiait extrema) intelligende funt ipſa concluſiones,
utfitfenfus facilis, premiſſão concluſiones ex codem genereeſſe debent. Sed ne
que quòdduo cubi unus cubus fit, Quomodounus tantum cus buserit,cum duo fint?duo
prius feparatim erant,quiſi in unum redigan tur, unum tantum efficiunt,ut due
lincæ etiam una linea tantum efficis citur, utdocet XIIII primi Elementorum xxx
ſexti Elementos rum,vltra aduertendum quod cötrariorum cadem eſtdiſciplina,ſed
hoc non probat Geometra ſimilitcr duo cubiunus cubus eft,quod etiam Geo metra
non probat, his habitis odeclaratis., ſtatim perit declaratio. cus iufdam
philoſophi noui qui maiorigrauitate quàm pondere utitur; dicit enim illa ſua
innani interpretatione, duo cubi in Arithmetica non faciunt ynum cubum, quod
eft di&tu, quod duo cubi numeri nonfaciunt unum cu bum numerum,ifta
interpretatio opponitur littere Ariſtotelis; li ttera anim affirmatiuc
loquitur, quòd duo cubi unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi De IN PRIMV
M LIB. ) uus philofophus exemplificat negatiue, quo mododuo eubi non faciunt
unum cubum; reiciatur igitur ſuainterpretatio, & Philoponi expoſitio
ſuſcipiatur, quæ hoc in loco fatis conſiderata eft, atque docta;Ratio enim
quare non demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt, eſt quia non
uerſatur Geometra circa genus folidorum, ut circa ſuuinſubiectum, fed uerſatur
tantun circa planorum genus, ut circa proprium ſubiectum, Stereometra autem
habet demonſtrare, quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum cõficiunt, ut
ftatim explicabo inferius, cum de duplatione are delorum, & in fragmentis
logicis de triplatione, quadruplatione, quincuplatione, fexcuplatione,
eptuplatione, es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut Ioannes refert
Apolonij peri gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis purgata, opermepri
ſtino candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis fuis,utdecet
appoſitis, ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro cuiusdemonſtrationis
notitia, aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata, eſto ſiuis ut trium eſſet
pedum, quando Apolo imperauit dea lijs peſte laborantibus, eiuſdem Are
duplationem, qui Geometrie impe riti (ut peneſunt in preſentiarum omnes totius
orbis Gymnaſiste )adide runt alteram tripedalem Aram prime are, etſicturbata,atý;
corrupta forma cubica are primæ,dederunt are duplate formă trabis, fic ut fex
pedű extendereturlongitudine, latitudineuero & craſitie trium pedum extenſa
eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo deperdita,fþreti igi tur propter hoc
delij ab-Apoline, & graue peſte adhuc laborantes, ad Platoně
confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric imperitos tana dem eos adhuc dubios
reliquit dicens eis, ut duas lineas medias inter exa tremas inuenirentſecundum
eandem proportionem continuam. Et tunc ſcirent duplare Aram, formam habětem
cubicam, In qua re plurimigre corum laborauerunt tandem unus Apolonius perigeus,
duas inuenit lia neasillas medias Oſummo artificio duplarunt Aram delij,fubinde
ad peſte quieuerunt. Dátis igitur duabus lineis inæqualibus, quarum altera ſit
longitudo Ar & primo fabricatæ triumpedum, fecunda uero lineaſit ed, que
deno tet longitudinem trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto pedum fex,ina
ter has duas reperiendæ funt duæ alia medie in continua proportionam
litate,quod in numerisfieri neutiquam eſt poßibile, fint igitur duæ data,
primafit b c, quæ erat longitudo prime Are, e a b.longitudo tras bis,
&ponatur per undecimam primi Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM
ARIST. tertiam eiufdem primi, ut rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb
a b c o compleaturparallelogrammum bd; per tertiam atque tri geſimamprimam
primi Elementorum;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum
ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur
circulus a d.c, os produ catur linee b a,b c, per fecundum poſtulatum primi
Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f
&, per lineam f g tranſeun b tem per punétum d, ita ut fe, æqualis fit
lineæ e g, hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum. (De quo, forſan
poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod ex fe
æqualis eft ipfi dg per hipoteſim, @primam animi conceptionem. f a f 6 f 6 6 G
gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a TE lik
mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo dufte
linee rette f b, feſecant circulum ad punéta a v d, quod igi tur fit ex bf in
fa, per trigeſimamquintam tertij Elementorum,æqua le eſt ei, quod fit ex ef, in
fd, ac eadem ratione, &quodfit ex b & in c g æquale est, ei, quod fit
ex dg ing e, aquale autem eft id quod fitex dg in g e, ei quodfit ex e f in f d,
utraque enim utrij que equales funt, e f ſilicet ipſi d 8, og f d, ipſi eg,
igitur, ego quòd fit, ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex bg ing c, eſt
igitur, 62 IN PRIM VM.; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam partem
decimequinteſexti Elementorum, ita g c ad f a,fed ut fb adb 8, fic es fa ad ad
per iij.fextiEleé mentorum, igitur per xi. quinti Elementorum g c ad f a,ut f a
ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum, ut dc adc 8, fic cg ad fa,
quia utraqueeft,ficutea, que est fb ad b 8, altera per fecundam partem xv.
reliquaper quartam fexti;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem triangulorum, est
autem dcdqualisipfi ab,04 d, ipſi b c per xxxiij. primiElementorum, igituraut
ab ad cg ita f a ad ad, erat autem, out f bad bg, ideft ut a bad c g,fic cg ad
fa, igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia, o ipſa fid, ad b c, quatuor igitur
rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom portionales funt,o propter hoc erit; uta
bad b c, ita quifit ex 4 b cubus, ad cubum, qui ex g cega qui ex g c, ad illum
qui fit ex f a, e qui ex fa, ad illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi
Elementorum, igitur ut a b ad b ©, ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c, fed
a b dupla fumpta fuità principio, ipſius b.c, eft igia tur cubus, qui exfa,
duplus ad cu bum, qui ex b c, quod demon - g strandum errat. Berlin. g c.8 F G
f 6 f 6 6 a. 6 6 G 8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d. o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM
ARIS T. Eleg TEX. XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes
funt & fcientiæ, ut lunæ deffectus, Quee dam noua queſtio à quodam nouo
interprete moues tur, circa particulas in textu poſitas, unde eft, quòdfæpefiat
demonſtratio of ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper,
nequeſe pe eclypſetur, neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici
ignorantia queex duplici menſtruoſitate contingit, uidelicet Solis Lune, quia
ille, qui eam mouerit, neque in die, neque nocte uidet, quid uelit Ariftoteles,
ſi tamen alta uoce Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc
apponeretforſan miringam, ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui
quidam homo erat,fed nunc nefcio an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ
menſtruo folutionem,uel potius ligas mina tribuit auditoribus centum. Videas,
ſepeenim inquit nofter nos uus interpres, fit Lune eclipſis, quia
quandofit,tunc orientalibus quar ta hora, occidentalibus autem hora tertia,
magis autem occidentalibus hora ſecunda noctis &alijs etiam ad indos magis
tendentibus prima non & is hora apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille
interpres do&tus,quid ſepefit, ut puta intot horis noftis,
utfecunda&tertia atque alijs plu rimis. Quemirabilis doctrina @ſcientia, in
dialogis &fabelis, quas apud ignem raulieres habentreponenda magis, quàm
àuiro quoquo moa do etiam docto redarguenda eft, uel etiam à quouis audienda.
Litteraſic ordinetur, eorum demonſtrationes & fcientia ſunt, eorum dico,
que fæpefiunt. Dico igitur lunc deffe tusſæpe, atque ſemper fieri in plenie
lunio, quum terra diametraliter ponatur inter Solem Lunam, quod quidemnon in
omni plenilunio contingit, fed cum sol in capite, & Lue na in cauda
draconisfuerit, quod Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium
obumbrat extrema, quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus
quàm doctor, &ille est, quem ſuperius dixi hae, bere grauitatem maioren,
quàm pondus, redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano
Gymnaſio in primis meis le &tionibus publicis dederam, explicans
deffinitionem lineæ rectæ, que eft, à pun Ao in punctum breuißimaextenſio, aut
cuius medium ex æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft, cuius medium non reſultat
ab extremis, ſic explis IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem
lineam, ut facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur, linea
recta eft, cuius medium non obumbrat extrema, neque eſt hæc mea explicatio
rectæ lineæ, Contrda ria illi à Platone datæ, cum hæc in Geometria, illa uero
Platonis in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia
igna rus Grecarum litterarum eſſem, ut ille efuriens greculus non lingua ne que
natione, fed apparentia tantum, Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam
le&tionem Latinam vidiffe, qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius
medium non obumbrat, cum Græcus textus, affira matiue legatur fic cuius medium
obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam, oad propoſitum à quo uidebar digredi
redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper & ſaepe fit
Luna defectus, de qua Luna menſtruata habetur ſcientia, per medium illud, quæ
eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter, que cauſa pro
pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe pe fiat
demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune, hoc non tangit
Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper, non determinant ly demon ſtrationes,
olyſcientia,fed determinantlydeffe &tusLune; illis igia tur cauſis
contingit Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille
phantaſticus, ſecunda uel tertia hora noétis. TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM
autem manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno.
quoque principiorum, fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud, non
eſt ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, &
inmediatis, eſt enim ficmon, ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum,per commune
enim demonſtrant rationes huiuſmodi, quod & alí ineſt, unde & alíjs
conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura circuli
fenferint, dicam quid fenferim ego, habita prius notia littere, &cognito
textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus, immediatis, fiat
demonſtratio, non autem fiat ex præmißis proprijs, opeculiaribus illi generi,de
quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per talia principia
primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 6 tla,immoneq; illa erit
demonftratio, quia per principia fieret talis pros ceſſus, que non tantum arti
Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari poffunt, quo errore Brifo.crrauit
tentans reducere aream circuli ad figuram rectilineam quadratam, quæ t alia
erant principia datur max ius, datur minus, igitur datur æquale, quidamſciolus
laborat, ut hæc principia uniuerfalia,propria fiant ipſiGeometric,dicens,daturquadra
tum maius circulo, datur quadratā minus circulo, igitur datur quadras kun
sequale ipſi circulo, et gloriaturinnani, & hoc fuum chimericâ con tulerit
cum yno do&tißimo huiys noftri Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam,
fed et demonftrationem eam effe affirmauit; fcito enim, quòd os folidis, e
linels, o numeris coaptatur iſta dedu &tio, ut datur numerus maior denario
eminor denario, igitur datur equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis,
dico tamen quod huius fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad
oſtendendum intenti, quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia
principia,errauit etiam errorç peßimo in conſequentia,ut ex his
quæfuperquintadecima terty Elemen torī Euclidis demonſtrantur &fuper
trigeſima ciufdem,Ariſtoteles au tem folum redarguit ipfum in co, quod egit
contra regulam de proprijs principijs,quicquid de confequentia fitprætermittens
tanquam non res Marguendum, ut oppoſitum ſuedat& regul«. De quadratura,
errore Brifonis, Anthiphontis, Hipocratisc Boetij atque iuniorum trattabo in
fragmentis mathematicis ſuper live bro pofterioruin. TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED
demonftratio non.conucnit in aliud nus, aliter quàm ut dictum eſt, Geometricæ
in mechanicas, aut perſpectiuas, & arithme ticæ in harınonicas. XXXVII
textu determis nauit Ariſtoteles quòd ad Geometram non pertinet de BRAVAS PRINT
monſtrare quod duo cubifaciant unum cubum, ratio, ut ibi declarani
aßignabaturquia Geometra O stereometrauerfantur cir ca diuerſagenera, alter
circa planum, & reliquus circafolidum, hoc au fem textu dicit, quod
geometrice demonftrationes conueniunt in genus mechanicum, ait enim geometrice
in mechanicas, pro qua apparenti contradictione, eft aduertendum quòd
Stereometrica per principia Gear I IN PRIMVM.LIB. metric probantur quia in
terminis corporis, qui ſunt ſuperficies, ille geometricæ demonſtrationes
attribuuntur, ideodemonftratio Geometri ca hoc modo in mechanicas,conuenit, o
ſinon fint circa idem genus, necfubfe inuicem diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS
XXIIII. VID quidem igitur fignificent, & prima, & quæ ex his funt,
accipiendum eft, quòd au: tem ſint principia quidem, eft accipere, Alia uero
demonftrare, ut unitas, & quid rectum, & quid triangulus,effe autem
unitate accipe re & magnitudinem,altera uero demonftra re. Dedatoibi quid
fignificent de dignitatibus ibi & priina. De que fito ibi, &
quæexhisfunt. Exempla omniafunt in boc textu dedato; primum eft in
decimaſextaſeptimi elementorum ubi de unitate,que ſe ba bet ad aliquemſecüdum
numerum, ficut quilibet tertius adaliquem quar tum,concluditur q, ipſa unitas,
itafe habebit ad tertiã numerum, ſicutfc cãdus numerus ad quartum,fecundã
exemplum eftde data linea in prima propofitione primiElementorum,de qua
demonſtratur quàd fit æqualis, welminor cæterisduabus lineis re&tis
continentibus,Iſopleurum, uel ifo feelem, uel Scalenonem,uel etiam exemplum hoc
apparet indecima pri mi Elementorum ubi concluditur de linea recta, quòd ſit
biffariamfe &ta, Tertium exemplum de dato, eſt in xxx 11 primi Elementorum,
ubi de dato Trigono concluditur. habeat tres angulos duabus re&tis paresnon
tantum, quid ſignificentoportet preaccipere, fed etiam iſta effe, vt tan dem de
dato nonfolum quidfignificet, quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo
quidſignificet effe, vtrumque fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit
unitas,et unitatem effe,quemadmodum ſecundo textu predocuit Ariſtoteles, uerbum
hoc, magnitudinem, intelligendum eſt, rectam lineam,ut decima primi elementorī,et
triãgulum,ut trigeſima ſe cīda primi elemétorum,quem triangulum,et reetū,
explicite protulit ab unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas,
quid rectiem, Oquid triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere &
magnitus dinem, hoc loco aduertendum est Ariſtotelem, ſeiunctam poſuiſſe unita
tem à refto trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe in
unico uerbo hoc, magnitudinem, propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM ARIS T.
effet unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis, de. qua
quidem unitate alia affe&tio concluditur, quàm de unitate linee, de qua
loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis apparet
exlittera, quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium queſitum, ut
hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721, pe Court Alle
Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus utimur in
demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ, alia uero
cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá. túeft in eo
(quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem, ut lincã elſe huiufinodi.
&rectum, De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de dignitatis bus
prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria Geometrie ſunt
ifta, utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro fonditate,hacde caufa
dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa finitione, & reétum, vt
puta recta linea est, que ſua ex æquali intera iacetſigna,uel linea recta eft à
punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas lineam, &rectum,
Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que complexa funtloquitur:
non de incomplexis utde linea tantă, ca de recto tantum ſed, dehoc cöplexo
linea est longitudo illa tabilis; ¢ linea recta eſt,quæ ex æquali ſua
interiacet ſigna,de linea in uniuerfali, fubinde de contracta uſpecificalinea
recta exempla explicăs, Communia autein ut æqualia ab æqualibus ſi auferas,quòd
æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores interpretum et inter pretes
Arifto, non intelligentes hunc locum; naturam Geometrie ſcien tie perdunt,
dicentes Geometram per principia communia procedere, id autem eft contra
ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do &tria nam. Pro
cuiusdifficultatis nodo extricando, aduertendum quod princi pium iftud,de
quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam in
demonftratione ponitur, nec eo utimur niſicontrate, oquae dam determinationeadgenus
aliquod terminatum, er pro altera diſiuna Eti parteaccepto,nulli enim fcientia
eft, aut diſciplina, que utatur illo principio pro utrag; diſiunéti,fed pro
altera tantū parte, Sinile de hoc (& alijs huiufmodi) principio, fi ab.equalibus
æqualia auferas, que re MON jpes non exti ell I i IN PRIM VM LI'B.
Manent,æqualia funt, audiendum eft, nulla quippe diſciplinaest, que es utatur
niſi contracte, fic quòd Geometra nunquam eo ufus eft præters quam inhisquæ
circa planum uerfantur, utfi ab equalibus lineis,uel fu perficiebus,aut
angulis,equates lineæ, uel fuperficies aut anguli deman tur, quæ remanent lineæ,uel
fuperficies,aut anguli funtæquales,quão primum autem principium hoc contrahitur,
non eft amplius commune Guniuerfale, fed fit proprium illius generis fcientiæ
ad quod contrahis tur, quod uerohæc noftra declaratio fit ad Ariſtotelis
mentemmanifes. ſtum eſt ex predicamento quantitatis ubi de diſcreto econtinuo
agens, determinat quod utrique proprium eft peculiare fecundum eamæqua leuel inæquale
dici, ſi inſtetur ex menteAriſtotelis dicentis, principiunt. - iſtud effe
commune, inquit enim,cõnunia autē &c. Dico illud prin cipium eſſe commune,
ſi non contrahatur, quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune amplius, ftatim
enin fequeretur contradi&tio, quod eſſet commune ono commune, doétrina
hæcmeacoheret his,quæ Aucroes commentationemagna affentiriuideturfuper hoc
textu, o his que Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens;fufficiens eft
autemunumquoda que iftorum quantum in genere eſt,hoc eft quatenusad determinatū
get nus contrahitur, de principijs loquens,ubi de datis dixerit, & tertio
lo co de queſitis, ibi quodautē ſint demóftrant, o fi adhuc inftes e Theon
&Campanus non contracteinquatuor primis libris Elemento rum, a quod
Euclides affixit illud principium primo libro, dico quod Căpanus
&TheonbreuiloquioStudentes accipiuntipſum principiū fne Contractione,
femper tamen op ubique uolunt ipſum intelligi contra &te cum determinatone
ad illud genus ad quod-co utimur, aliter. errarent, Euclides autem primo libro
affixit, quid utitur ipfo con tracto in primis quatuor libris, Adhuc fi
fortiuscontra hanc expo fitionem precipue inſtetur quod fiquid ueritatisſaperet,
statim haberea tur circuli quadratura per hæcprincipia contra&ta, datur
quadras tum maius circulo, datur quadratum minus circulo igitur dabitur
quadratum æquale circulo, refpondeo, quò du os errores commiſit Briſo, o talis
argutus doctorolus inter arguendum, primo quia Brie so per principia comunia,
iſte audem do&tor per contra &ta illa princi pra, feduterque in
æquiuocisarguebat, circulus enim et quadratum equi uoce funt figuræ altera enim
curuilinea reliqua uero re&tilinea eft, hunc errorem fecundum non inuenies
in mea hac expoſitione,&contra ipfam inftantianulla est, de crrore autem
Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T. 3 Logicis. Idem enim
faciet & fi non de omnibus accipiat fed in magnitudinibus folum,
Arithmeticæ autein in numeris. Diuinus Philoſophus quàmprimum explicuerit, quæ
namfunt propria per duplex exemplum uniusfeientia Geometria, linee uidelicet,
&lia neæ recte, •fubiunxerit, que nam ſint communia principia exent plum
prebens tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi auferas quod æqua lia ſint
remanentia, ſubiunxit quomodo hoc principium &fimilia cone trahantur ad
proprium genus ſcientiæ &propriafiant dicens, ſuffia ciens eſt,unum quodque
iſtorum, quantum in genere est, fufficiens quie dem acſi peculiaribus atqi
proprijs principijsuteretur Geometra uteng iſto principio, æqualia ab æqualibus
ſi auferas æqualia remanent, non quidemſi de omnibus accipiat, non quidem dico
demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus & uniuerfaliter ſine contractione
utatur, fed demon, ſtrabit quidem, inquit Philofophus,ſi in magnitudinibus
folum, id eſt contracte o determinatim,eo ufus fuerit.Vtfic, fi ab æqualibus
lineis ſuperficiebus, angulis, Arithmeticus, fi ab æqualibus numeris æqua les
lineas ſuperficies angulos uel numeros auferas quod æquales linea fuperficies
anguli onumeri remanebunt. Tunc uult Ariſtoteles quód iftud principiumſic
contractumreddatur propriumipſi Geometra, og Arithmetico &unicuique
artifici in fua arte, ac fi peculiari epros prißimo uteretur, non procedit
igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id, quia per cominunia
procedit Geometria, ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria, ut quidam
ingeniofus noftri teme poris immaginatur. Sunt autem propria quidem & quæ
acci piuntureſſe, circa quæ, fcientia fpeculatur, quæ ſunt per le, ut
Arithmetica unitates, Geometria autem figna & lineas. Euclides in
Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam
incluſiue accipit unitates, ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda
wtrigeſima prima primi Elementorum, lie neas uero in primt, ſecunda,&
tertia primi,atque in undecima undecimi Elementorum. Hæc enim accipiunt eſſe,
& hoc eſſe, idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato
precognoſcatur utrunque &quid &quia est, accipiunt eſſe,id est
deffinitionemſeu deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe,nempeactueſſe,
uel mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt, quod eſſe potentia,uel
effe aptitudinedicunt. Horum autem pafsiones funtper fe quid quidem figni IN
PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt, ut Arithmetica quidem quid par, Sicut
uigefimaquinta noni Elementorum, aut impar, ut trige fimanoni Elementorum, Aut
quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum, &quilibet numerus à duobus duplus,ut
xxxv. eiufdem, a eut declaraui ſuper textu xx. de altera parte longiori, Aut
cubus ut quarta noni Elementorum ſic intelligantur termini exemplorum in
Arithmetica;Geometra uero quid irrationale,ut XI. X. Elementorum, aut inflecti
per contactum in unico puncto ex xij.ex xv.tertij Elemen. aut concurrere, ut
xv.xi. Elementorum oprima Elementorum Geo metrie Vitellionis. Animaduerſione
dignum est hoc, quod Geometra nunquàm hanc affectionem, ut irregularitatem
deunica lineafola con = fiderat, neque etiam de una tantum linea id concludit,
quicquid Cama panus ſentiat, fed id de linea una ad aliam comparata atque
relata, cum qua non habet uliquam communem menſuram, ut est diameter wcofta
quadrati. Inflexio uero in una atque eadem linea circulari eft, quætan gat
aliam rectam lineam uel alium circulum interne, uel etiam exterins, in
unopuncto tantum, quia inflexa non fecat nequere & amlineam, nes que etiam
circulum, quorum utrumlibetfaceret linea recta, eifdem ! recte linee 6 circulo
non contingenter neque in directum applicata. Quod autem fint paſsiones per fe
demonſtrant per coin munia & ex his quæ demonftrata furt & Aftronomia
funi liter. De datis dequibusaccipiebamus quid fignificarent &effe, de
monſtrant artifices Arithmeticus OGeometra per communia, idef per uniuerſalia
principia (que tamen unius generis ſint) v ex his etiam propoſitionibus, quæ
prius demonſtrata funt, affectiones illas predis Etas, ſicut etiam aſtronomus
facit, utper ea quæ in Geometria probas ta ſunt, etiam per propoſitiones
probatas in Aſtronomia concludat etfiEtionesfequentrum Theorematun. TEX.
XLVIII. ALIAS X XV. VASDAM tamen fcientias nihil prohibet quædain hortin
defpicere, ut genus non ſupponere effe, & fit manifeftum quoniam eft,non
eniin ſimiliter manifeftuin eft,quo niam numerus fit, & quoniam calidur,
& frigidum fit. Natura enim &per fenfum notum POSTERIO RVM ARIST. $ 200
ill 0 si est, quonian calidum eft, ideo non eft opus precipere mente o ſuppoi
fitione aliqua intellettuali, «quadamſcrupuloſa indaginefuum quiade calido,
quando calidum eſt ſubiectum ſeu datum uel genus, hoc cafu, quandoeft notum
quia est dati, deſpicitur præcognoſcere mentis inda gatione de dato, an fit?
Quod noncontingit ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum, de eo enim eft
necefſe mente e intellectuali acte preaccipere quia numeri, Videlicet quod
numerusaétu est mente con: ceptus, ac fiexifteret aétu, uel aptitudinem ad
exiftendum habeat, en hoc quidempropter hoc, quod numerus neque nataraneque
fenfu aetud liter percipiturquòd fit, fed tantun intelleétu dignofcitur, @ hæc
duo exempla de dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de queſito feu paßione
facit exceptionem dicent, & paſsiones non eft accipere quid fi gnificent ſi
fint manifeltæ, ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men -notifsimam rem
ſignificet. Tunceo cafu non prerequiritur indas gando quid fignificet illud
nomen, quia iam notum eſt. De dignitatibus.au tem idein excipit ab
uniuerſaliregula,qua dixit fecundo textu, alia nana que quia funt prius opinari
neceſſe eſt,utomne quidem quod est,aut affir mareaut negare uerum eſt, quia eſt,
o textu xlvi.aliud prebet exem plum, utæqualiaab æqualibus fiauferas, quòd
æqualia reliqua ſunt, de his communibus principijs non eft preſuponerequia eft.
Cum ipſorīt ugritas quafi natura nota fint, quaſi natura dico, utputa quia
notis ter minis ipſarum dignitatum, statim notum est, quia est ipſarum
dignitatum fecus autem eft de dignitatibus proprijs cuique arti,quia tunc non
est,fa tis,quid fimplices terminiſignificent preaccipere,fed opus etiam eſt pré
cognofcere copulationem terminorū effe neceffariam, ueram,ut quòd circulus fit
figura plana unicalinea contentain cuius medio punctus est à quo ad
circunferentiam omnes recta linea duétæ funtæqualesfecludit, igitur
ariſt.àfubie&to ipſum quia quandoipſum eſſe,manifesti est,non ſecludit
ipfum quid est, ut exponit loan.Gram. Alexander, A queſito ſecludit aliquádo
quid eft,era comunibus dignitatibus ipſum quia,quando notumeft quid
queſitumfignificet, &quando ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod
autem hæcde datofeuſubiecto expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet
excludat àſubiecto ipſum quia,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in
littera,ubi ait,Genus non fupponere efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit
Arift.genus no ſupponere quid ſitexemplü de queſito,quandonon
accipiturquidſignificet est propoſitione xiiij.primi: Elemen.quod est,indiređã
linea una,quod quidē quid ſignificet non tung OI MI deo per da Jet OB um 10
& IN PRIM VM LI B. preaccipitur,cumfit notum ex deffinitione quarta primi
Elementorum, quodnon queratur, quia eft, quando est notum,id apertißime dicit
philofophus textu fecundo ſecundi Poſteriorum,inquit enim,inuenien tes autem,
quia deficit pauſamus, & fi in principio ſcirc mus, quia deficit,nó
queremus utruin, cum autem fcimus ipſum quia,ipſum propter quid querimus &
c. TEXTVS LII ALIAS XXV. EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant dicentes,
quòd non oportet falſo uti, Geometram autem mentiri, dis centem lineam eſſe
unius pedis,quę unius pedis non eft, autrectam lincam, non ree &tam
cxiſtentem, ut in prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam rectam
lineam triangulum collocare, etiam in decima primi Elementorum datam lineam
rectam, eum biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea, que atramento
pingitur, uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id tamen
dicendum eft, Geometram errare, quia non ad id intentionem dirigit Geometra
quod oculis fubijcitur, fed ad id potius, quod intus animo concipit, dirigit
intentionem, ideo non contingit Geometram circa aſſumptam materiam errare et
mentiri, Geometra enim nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam, quam ftilo
pinxerat, fed fecundum intus conceptam lie neam, demonſtrationem percurrit,idem
habet Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum reſolutionem non errat
etiam Geometra cir ca formam fyllogiſticam, ut textu 59 62, ait Ariſtoteles,
igitur cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non quiafenfatæ fint, ut falfo
quis dam dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX ALIAS XXVIII. VONIAM autem
ſunt Geoinetricæ inters rogationes non ne funt & non geometri. cæ? & in
unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt Geoinetricæ? & utrum
quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex oppoſitis fyllogifo mus,
POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus; an paralogiſinus? In
unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes, ficut in Geometria, In geometria
autembiffariam contin git interrogatiofieri, uno quidem modo,ut nihil fapiat de
illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an icoceruus habeat tres æquales
duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit Icoceruus, & quid ſithabere
tres duo bus reétis æquales, hic interrogans habet ignorantiam fecundum nega.
tionem, quia omnis habitus negatur in eo de illa re, quam querit. Altero autem
modo, ut interrogās ſciat quippe partim de illo, quod querit, par tim uero non,
ut adinuicem parallelas concurrere,fciat nanque que nani lineæ rectæ fint,
oſcit quòd in utranque partem protrahuntur, ſcit etiam, quisnam ſit duarum
linearum concurſus, &quatenus iſta nouit et interrogat,Geometrica queſtio
atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus autem opinatur an parallelæ in
infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non eft Geometrica quæſtio, et habet
hic ignorantium habitus, idest fecundum habitum, quo fcit lineas rectas, ceas
in infinitum pro trahi polle, et concurſum linearum effe in eadem ſuperficie,
cum illo qui dem habitu, ſtat hec ignorantia, ut ne ſciat quòd etiam ſi in
infinitura protrahantur, non căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er
rauit Pſcelus Grecus, quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum, qui
præter uoces re ipfa nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam
calımitatem credo plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe
diuidere tonum, qui fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos,
qui tacti, interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat,
fubinde arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat
toni ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate,ut medietas
toni ad toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni, hoc eſt ſemitonium
uerum adinueniſſe, ignorans pauper, quod proportio totius nerui ad totum neruum
eadem eft, que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam
@decimamnonam ſeptimi Elemětorum, erat igitur non Armonica quæa ftio, qua
quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet? Verus autem Geo. metra ille eft,
qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem, neque fecundum priuationem,
«ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque interrogationes
partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed interrogationesfacit
omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in tabula, habeat tres
æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat, circa uffumptam materiā,ut
tex. 52. determinauit phi lik line et K IN PRIM VM LIB.. lofophus,non errat
circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat in forma, in ſua
induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus igitur error in
Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc eandemfententia habet
Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo loco innumeras
Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT autem quofdam non
fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque conſequentia, ut
& Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit. Scito Ariſtotelem
Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica errabat
parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit,ſed aduertendum eſt in
materia parallogiſmi, quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia, quia
ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima ponit non
minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit aliter
exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi
auctoritate, qui Proclus, ſi ita fenferit, ut ioana nes refert, perperam hunc
locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente
Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit, non autem ait,
quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit, id cito creſcit ſicut ipſe
loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic, 1,2,4, 8, 16, 32, 64,
128, 256, $ 12, 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis ♡Cenei dico ex doctrina Eucli dis
deffinitione undecima quinti Elementorum, &ex deffinitione primi Geometrie
uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas proe portiones multiplicantur
non termini, ut loannes Proclus facies bant,arguebat ſic Ceneus,quæcung cito
creſcit augentur in multiplicata Analogia, ſed ignis augetur in multiplicata
Analogia, igitur ignis cito creſcit,ubi maior &minor in ſecundafigura ſunt
affirmatiua. Talis au tem error parallogizando à Geometra non committitur,
igitur certiſie ma, ca in primo certitudinis gradu Geometria reponitur,
POSTERIOR VM ARIST. 248 2 3 3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6 256 S 12, 1 256 65536
4 0 24 2 048 ei ad CI, C. qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63 8.4 32768 6 ss36 Julia
ima 1 eta infor TEXTVS LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club = 56 wich ro cies
ONVERTVNTVR autem magis, quæ funt in mathematicis, quoniam nullum reci s piunt
accidens. Secunda pars trigeſimaſecunde primi Elementorum eſt, quodomnis
triangulus duos bus rectis paret habeat, id autem probat prima pars
trigefimaſecunde,& ſecunda, o prima pars uigefi menone, &tertia decima
primiElementorum, quæ omnes propoſitio nes concurrunt ad probandam illam
conclufionem, quæ conclufio ſi in fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin
illareſolui poteſt, que ſupra commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam
methodum, ab illis principijs ad illam illatam conclufionem, reſolutiuam
methodum ab illa conclus fione ad illa principia regrediendo, quihabitus
reſolutiuus altißimus eft, e profecto ſignum eft re &te fapientis. Cumautem
conclufiones in mathematicis fequantur ex determinatis principijs, tunc ibi
facie lior eft reſolutio à concluſione in principia quàm in Topicis, ubi ex
uagis, ofolum apparentibus, quandoque etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij
7.6 IN PRIMVM LIB. @non ex unis principijs concluditur quippiam de hac re,
abundantius infragmentis nostris mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus
fum. TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX. & fit par eſt ers VGENT VR autein, non per
media, ſed in aſſamendo, ut a de b, hoc autem de c, rurfus hoc de d, & hoc
in infinitum. Et in Iatus, ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus, uel
infinitus,hoc autem fit in quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus
imparin quo c,eft ergoade c, & fit quantus numerus, in quo d par numerus in
quo e, go a de e. Exépla duo attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu
mendo, primo exemplī prebet in numerisin poſtfumendo,ut a numerus, de b numero
impari, et b,de numero c primodicitur igitur a numerus de c numero
primodicitur, In latus ſumendo numero pariter exemplificat, pro cuius notia,
imaginare arborem porphirianam,cui fimilē in numeris finge, &numerum quantū,qui
etiam potentia infinitus eſt, loco ſubſtans tiæ apta; infinitus ait propterhoc,
quia omnes imparis atque paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum
crefcunt,potentia continet,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties
continet, his autem numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus, quia
quicunque daretur, aut par effet, aut impar, qui non poteft effe communis pari
&impari, fed talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem
uti iſto uer bo, uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat
magis ad dialecticuin, ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet,
ins finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum
inſuis fpetiebus, & numerus fic acceptus diuiditur in imparem, atque pa rem,
&imparis numeri diuiſio est, in primum numerum,ocompofi tum, prinus autem
numerus dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium quemcunque
numerum,o ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3, 5, 85" 7, 13. Compoſitus
numerus eft, qui alio numeroaf e,oo ab unitate diuerſo, dimetitur, ut 9, aut 25,
à ternario, & à quinario dimetiuntur, is compoſitus diuiditur in parem,
atque imparem, et par quidem numerus ille eſt,qui biffariam ſecari poteft, ohic
partitur in pariter parem, qui in duo æqualia fecantur, partes eius, quoufquc
POSTERIORVM ARIST. 1 ad unitatem uentum ſit, ut trigeſima. In pariter imparem
qui quidem in duo equalia partitur, partes in duo æqualia non fufcipiunt
ſectios niem,ut quatuordecim. In impariter partem, qui quidem in duo æqualia
diuiditur partes ſimiliter in duo æqualia, fed hæc partitio, uſque ad unitatem
non peruenit, ut trigintaſex, de quibus Euclides libris ſeptia mo o octauo,
nono Elementoruin, Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo Arithmetice, Quo autem
ad Ariſtotelis textī attinet, manife ftum erit exemplumſuum, numerus infinitus
fiue quantusſit a numerus autē quantus &determinatus ſub ipſo ſit b,
numerus alius nempe infes rior ad b ſit cog,par autem numerus quantus ſit d,
qui trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum fuit fupra, eft ergo a ded,
&etiam de e k lo In latus autem dixit,quiane dum per rectam lineam arboris,
fed ex utra que partefumptio facta fuit. ES 11 in Exemplum in poſt.fummendo. 5,
Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111: 11CTUS -is 14 impar primus 13 50
ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis. 16 14 pariterper impariterpar
pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod exemplum in numeris eſt
contractius, quàm prius propofuerit per litteras,ideo ne labores in numeris tot
numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras, ibicommemorat, exempla duoin
numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne alia aliterdefiderentur. mo. 6 8
IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X X. Iffert autem quia & propter
quid fcire primo quidem in eadem ſcientia & in hac dupliciter uno quidein
modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus, non enim accipitur prima cau fa,
quæ uero fcicntia proprer quid, per pri mam caufam eft. Hoc quidem primo modo
non prebet exemplum aliquod philofophus, quicquid Aueroes, Philopou nus,
fequaces fentiant, fed exemplum profecundo modo appofuit unicum folummodo pro
quia, de ſintillatione planetarum, de rotons ditate autem Lune dedit etiam
exemplum,pro fecundomodo quia,quo ta men exemplo declarat etiam quo pacto
fieret propter quid demonſtratio O ob id imminutus aut ſuperfluus non fuit,
quia primo modo textus est clarus ſatis, c profecundo modo quia,duo exempla
prebetin diuers ſis ſcientijs, utrunque exemplum est in ſcientijs medijs,
alterum est in optica, reliquum est in Aſtronomia, &quia textus est
ſatisclarus in duobus exemplis quantum ad inductionis modum. Primo declaro
prie, mum modum, quo, quia à propter quid differt de quo primo modo,quo, quia a
propter quid differt nullum dat exemplum,ubi ait uno quidem modo,fi non per
immediata fiat fyllogif. ita habet textus Philo ponio Aucrois Argiropilus autě
habet, uno quidē modo fi ratio tinatio non per ea, quę uacant medio fiat,utloco
uerbiſyllogiſ. legatur ratiotinatio, omelius meo iudicio, cum illud
uniuerſalius fit uer bū, fenfus tamen ille est, utfi fiat deduétio, non per
immediata,erit demon ſtratio quia; ut fide homine concludatur reſpiratio, eo
quod ſitanimal, ſi uero de homine concludatur quòd reſpirat, eo quòd pulmonem
habet, eritdemonſtratio propter quid, oin utroque modo,concluditur res spiratio
follogifmo ut omne animal reſpirat,cæt.velomne habens pul: monemreſpirat &
c. Si uero lectiofiat ſecundum Argiropilum,Olegatur ratiotinatio, Tunc exemplum
dari poteft pro primo modo, quando non per immediata fiat inductio, ut prima
pars xxxij. primi Elementorum probatur per uigefimamnonam primi elementorum,
& non per immes diata principia, fic ut fenfus fit, quod illa que probantur
per alias pro poſitiones probatas prius, talia quidem probatione quia
probataſint illa uero queprobanturper immediata principia propter quid demonftrens
POSTERIORVM ARIST. zmo citer fiat maus prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio
extus iuers mes: FUS IN • prie quo, dem philo atio ogil uer tur, ut eſt
queſitum primi, ſecundi, atque tertij problematum primi Elea mentorum,que
quæfita per immediata principia demonſtrantur, facta prius deſcriptione, ut
conuenit, neque dicendum est, ut quidam exiſtie mant,quod eafit propter quid,quando
perimmediataspropoſitionesfiat deductio imediationem illam tribuentes adſitum
propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per primam partem illius, oprima pars
uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi Elementorum,fed hoc loco, non imme
diata accipit Ariſtoteles, omnes propoſitiones probatas,uel etiam, quæ per
prima probare poſſunt, cum demonftratio fiant ex primis, & im mediatis,
oppungat,ut immediatafint, o non fint primaabſolute. Et in Geometria etiam alio
modo quia eſt, differt à propter quit, ut quando ab effeétu ad caufam
progreffus fit, neinpe quando per æqualitatem an = gulorum concluditur
equalitas laterum,ut fexta primi Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid
autem eſt,quádo à caufa ad effectum proces ditur, utputa quando ab equalitate
laterum trianguli infertur æqualitas angulorum illa latera reſpicientium, ut
prima pars quintæ elementorum Euclidis proponit. Atio autemmodo per immediata
quidem non auteng percauſam, ſed per notius eorum que conuertuntur, ut lucidum
non ſcintillare,o prope eſſe, fimiliter, creſcere per rotunda incrementa luz.
cida, ceſſe rotundum æqualiter defe inuicem prædicant,notius tamen eft, non
ſcintillare, quàm prope effe, ¬ius eſt creſcere per increa menta lucida
rotunda, quàm eſſe rotundum, & primum eft per fenfum per induétionem in
fingulisplanetis notummagis, non tamen caufa eft quare planetæ prope ſint, fed
econtrario.Secundum etiam, ut quod incremento creſcere,non eſt caufa
rotunditatis, licetfit notumfolummo do per ſenſum, non autem per inductionem à
pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de unico incremento
creſcente certi fumus, *cum per ipfa, fiunt inductiones, quòd planeta
propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio eſt quid, quod
fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit demonſtratio, ifti
igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per priora quidem, non tas
men immediata procedit. Alius autem per immediata non tamen per priora, fed ea
quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex prio ribus fit, atque ex
immediatis. Amplius quare planetæ, haud fcina tillare uideantur fuſius ſuper
problemateultimo quintadecimæfectio nis problematum Ariſtotelis fiet per me
declaratio, quæ etiam faciet fatis huic textui, eft tamen hoc loco aduertendum
Ioannem dicere fira MON mal, het, pw atur non ros illa IN PRIMVM LIB.
tillationem prouenire, quod protendentes uifus ufque ad aſtra fixa de biliores
fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per extramißionem radiorum, ut Thimeo
&Empedocli placituin erat, quos Ariſtoteles reprehendit capi te ſexto De
Senſu &ſenſili. In hac igitur parte reiciendus est Philopo nus, niſi
exemplo loquatur famoſo. Alterum De rotunditate Lune fus per problemate oftauo
eiufdem feftionis aperietur, ubi querit Ariftote les unde eſt, quòd Luna
uideatur plana, cum fit rotunda. TEXTVS LXV. ALIAS X XX. MPLIVS in quibus
inedium extraponitur etenim in his nó propter quidſed ipfius, quia demonſtratio
eft, non enim dicitur caufa, ut propter quid non reſpirat paries, quia eſt ani
mał. Tertium modum quo quia in eadem ſcientia à propter quid differt, nunc
affert Ariſtoteles inquiens amplius eft, que quando neque cauſa probat 1,ut
primus modus effe&tum infert, neque est,quando ex effectu caufa infertur,
fed quando ex nega: tione pene cauſe infertur ipſius effe &tus negatio, feu
etiam econuerfo, ut quia non funt parallele, ideo alterni anguli non funt
æquales, opdo ri modo, quia extrinfecus angulus non eft æqualis intrinſeco'ex
eadem parte, igitur parallele non funt; oeſt hic modus tertius, quo quia à
propterquid differt in eadem ſcientia, dixi quando ex negationepene caufe, oc.
Quia parallelas effe,non eft caufa ut alterni anguli ſintæqua les,nifi fuper
ill. linea recta ceciderit, que propinqua caufa eft, quod al terni anguli
fintæquales,ficut animal quidem longinqua caufa eft refpira di, propinqua eſt
pulmo, totalis autem eſt animalhabemus pi Imonem me dium enim ad probandă
affeétionem in perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã, utputa in Geometria
& Mechanica ad Stereometriam.ld no tißimum erit pariter v iocundum, fi id
quod ait Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione x l'intelligatur,onera
qua mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam fi ſuper plauftra
mouerentur,ultrd rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles adducit, etiam
ratio propter quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis deffinitione decimao
taud uel undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum deffinitione fez
cunda, minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote, quia ana gulus
fcytalarum longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit ut angulus
POSTERIORVM ARIST. 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd longe minor eft
quàm angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b offenſat ſcytala
quam rota,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in questionibus mechaa
nicis declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas,quibus utuntur lapi cide in
trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad Aritmetica a -6 Tonum in duo
equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod muſicus dea terminat, ut Boetius
re&te fentit lis bro tertio capite primo muſices, le quicquid Pfelus
Greculus ſentiat, fedfecaturin apothomen eſemi tonium minus, huius autem
propter quid ratio, ab Arithmetico reddia tur, quiafuperparticularis propor tio
non poteſt diuidi in duo equalia, ut Boetius in Arithmeticis docet. Tonus autem
cum in ſeſquioctaua ſonorum proportione conſiſtat in duo equalia ſemitonia
diuidi haud quaquam poteft. & Apparentia ad Aſtronomiam. Apparentia, ipfa
eft phenomena de qua Euclides, e Aratus poeta agunt, atque VergiliusAgricolas
docens tempus quo mila lium feminaredebent, ait in Georgicis loquens de occafu
hellaco, Candi dus auratis aperit cum cornubus annum Taurus, oaduerfo cedens
cda nis occidit aſtro,rationemſiqnis agricola deſideret, cur eo tempore cda
nis, qui et Alabor dicitur, occidat beliace,id totum ab aſtronomo petat, qui rationem
propter quid redet; Sol enim in orbe eccentrico à propria intelligentisex
occidente in orientem motus, quicquid fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, &
fequaces,accedit annud orbita ad illud fydus, quod eft in geminis &fuo
maximofplendore, non finit illud uideri, id autë fit cum Sol diſcurrës
perſignum Tauri, attingit extremam partem Tauri, tunc enim canis perdit lumen
ſuum, non uidetur amplius, propter So lis ad ipſumſydus uiciniam, quouſque
iterum per motum eccentrici ab co fydere ellongetur Sol, quod iterum oriri
heliace incipit; hi ſunt igitur modi quatuor, quibuspropter quid, à quia
differt, tres quidem funt in eadem ſcientia fubalternante,oquartus, quando id
quoddemon ſtrandum eft inſcientia media,per ea quæ in ſubalternante ſcientia
nota funt, probatur, in quo quarto modo, funt plures demonſtratiomisgraa dus
fpeculandi, quos quia Ariſtoteles non tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM
LIB. -7. Sunt autem hæc quæcunque alterum quiddam exiſten tia ſecundum
fubftantiam, utuntur fpeciebils, Mathenati cæ enim ſecundum fpeciein funt, non
enim de ſubiecto alia quo,fi cnim & de fubiecto aliquo Geometrica funt, ſed
no quatenus Geometrica,de fubiecto funt. In præcedenti particu la huius textus
dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia
ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero propter quid,quòd uniuerfalium ejt, per
caufas habetur,ait,propter quid autem mathemde ticorum, hi enim habent
caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter neſci unt ipſum quia, ficut illi
uniuerſale conſiderantes, fepe quædam ſingula rium neſciunt propter id, quod
non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat philofophus, dicens eos
noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico more, ea non intendere
quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia igitur ipſius,quiu à
propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e quidemfcientiæ, quia
quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã quiddam fecundum
fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum ſubſtantium,fed
etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto materiali exiſtens,
Mathem matice enim, nempe quæ propter quid fient, circa fpccies ſunt, dubita.
tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o ſciétia propter quid circa
ſpeciesſit, quo nam puto, in quia, & quo modo in propter quid fpecies
intelligatur. Dico, quod quia ſenſibilium eſt, ut ait Ariſtoteles, utitur, quia
ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata perci piunt, fed
propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali, ut ſuperficie,
linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de ipſis inipſis
cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra quatenus in
ſubiecto funt,ſed preciſius abſtractione, ea conſides rat, fi talia nufquam,
ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam, ficut hæc ad Geome triam,
& alia ad iftam, ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar giropoli in hac,
precedenti particula facilior,atque candidior eft, quàmfit textus Philoponi, ne
uidear tamen in precedenti particula, e hac preſenti, litteram ſequi, quam
pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt, fæpe encruat; loannis textum
in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute continentur quam,
contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc Procli
interpretatio, ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti
Ariſtoteles cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. terno quodã ordine pofitæ
funt;primo Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia
&huic ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua,
quæponuntur,perfpecularia probantur&, quæ in peculi ria, per ea quæ in
perſpectiua funt notamanifeſtantur, qu: autê in pera fpectiua, per ea quæin
Geometrianoșa, fuerunt, ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus
Iridibus appareant; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo, per fcientias
ſuperiores, hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum,
ſcienriarun fe has bent fic, ut medicina ad Geometriam, q eniin uulnera, cir
cularia tardius fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ.
Parum ſupra in anteprecedenti particula dixit philofophus,qu& namfcientiæ
effentfere uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut
aſtrologia ' et mathematicaet na ualis, o harinonica quae mathematica, oque
fecundum auditum, in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo
modouniuoce funt. ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he
enim due non ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt, id quod
circa planum uerfatur, medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le,id, eft,
quod proponit; ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia
fciētia nota funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce, neque fubalternatæ,ut in
chierurgia,que pars eft medicina proponitür uulnusrotundum, difficultate
fanari, ut canumexcoriatoresteftantur. Geometria autem nobilis fcientia reddi
propter quid, primo Elemento * rum deffinitione decimaquinta, quia exomni parte
æqualiter diftat cas o, ficut ibi acentro ipfa circunferentia. ly tie 20 SMS
TEXT VS L XVII ALIAS X X X. 170 ot cs, tro autem modo, differt ipſum propter
quid ab ipfo quia, quodelt, peralia fciené Stianu nrruinqué, ſpeciilari,
Huiuſmodi au Matem funt, quæcunque fic fehabent, utals terum fub altero fit, ut
perſpectina ad Geo metriani. vbi ait, per aliam ſcientiam fic intellis gatur
per altam magis uniuerfalem et fubalternantem in aliam minus univerfalem.
Vtrunquefpeculari, utrunque dixit refferens &propter. quid, quia, alia enim
fcientia fpeculatur propter quid, c alia fpecus Ljj 84 IN PRIMVM LIB. 1.3 latur
ipſum quia, ut Geometria proprer quid, perfpeétiuauero, quia, inquitenim
Ariſtoteles. Hæ enimipſum quia, fenfibiliumest fcire, prom pter quid autem
mathematicorum. Verbi gratia,oculus exiſtens in a uidens cd, uidet ipfam
quantitatens minorem, quamſi idein oculus fiat in b, quia inquit
perfpe&tiuus,uide tur ca ſubmaiori angulo ab oculo exiſtente in b, quam ab
eodem oculo in a exiſtente,& quód angulus dbc ſit maior da c, Geometra id
demon ſtrat primo Element propoſitione xxi. Dubitatur circa hoc, quod di
cebatur de mente Ariſtotelis in dia & o exemplo perſpectiuo, quodne que
percurrendum eſt ſicco pede,ut indoctifaciunt no intelligétes bonas artes,
quicum ad Mathematica ex empla accedunt,pedem referunt,dia centes non eſſe uim
ponëdum in illis. Ego autem econtrario dico, totum neruiim rei, eſſe in exempli
intelles ione, ubi ait, quod perſpectiuus oftendit maius uideri id, quod de
prope eft, demonftratione quia, o Geometra, idein propter quid, demonſtrat in
vigeſimaprima primi Ele mentorum, qua uigefimaprimaprimi Elemen.non propter
quid demon ſtratur, fed demonſtratione quia, ut demonftratio quia diſtinguitur,
a propter quid primo modo, ficut textu 64. declaratumfuit, quòd illa des
monftratio, quæ per mediata a probatas propoſitiones procedit, eft demonftratio
quia, diftinguiturab illa ineadem ſcientia, quæ proces dit per immediata
principia,quæ demonftratio propter quid dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu,determinatur
quòd demonftratio uig eſi miprima primi Elementorum eſt, quia, hoc autem
exemplo perſpectis uo dicit, quod eft propter quid, contradictio igitur
manifeſta uidetur. Dico de mente Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis
Grammatici ins tentio fuper textu fexagefimoquarto,dicentis. Quodammodo autem
in precedéribus dicebamusquod ipſum quia eſt primomado,permediata mo firare,
cum fecundo modo ipſumquia per immediata,ſimiliter w propter quid, unde
aduertendum, quod demonftratio, quæfit fuper uigeſimam primam primi Elementorum,que
per uigefimam decimāfextam primi elementorum procedit, fi ad demonſtrationem
prime propoſitionis Elc. POSTERIORVM ARIST. es mentorum, quæ per
immediataprincipia procedit comparetur demon Atratio quia, merito dicitur, ſi
mero comparetur adperſpectiuam demone ftrationein, tunc propter quid dicetur,
quia perſpectiuus pier eam pros bat intentum, u ſictricic apparentis argumenti
explicite funt,fc cundum philofophiſcitum. TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IGVR A R v
M autem faciens ſcire maxime pri ma eſt, etenim Mathematicæ fcientiarum per
hanc demonſtrationes ferunt, ut Arith metica, & Geometria, &
perſpectiua, & fes re (ut eſt dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid
faciunt conſiderationem,aut enim omnino,aut licut frequentius, & in
plurimisper hanc fi guram (quieſt propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis
detur edirecto contra expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de
inductione illa Geometrica, que tanquam fictitium quoddam, uanißimum,
&nullo Greco & Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim
Ariſtoteles, etenim Mathematicæ ſcientiarum, per banc primam figuram
demonſtrationes ferunt, non igitur Mathematic & fea runt demonftrationes
per illam Geometricam inductionē, utibifuit des terminatum. Inftantia hæc,eft
hominisuaniloqui,qui ea profert& fcri bit; quæ nonfunt notæ earum, quæin
anima paßionumſunt, cum non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant, fed
potius tanquam ficcamcucurbitain, in qua nonniſi uentus reperitur, quia tamen
nonfo lummodo fapientuin habenda eft ratio, stultis etians atque infipientibus
pariter reſpondendum effearbitror, ne in fua ignorantia glorientur ua ne. In
hoc textu Ariſtoteles nil aliud determinat, niſi quod preſtantior est prima,
quàm fecunda & tertis figuræ,&quód Mathematica hac fepe utuntur,
&hoc quidem quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex. dicens, oin plurimis
per hancfiguram, que eſt propter quidfyllogif mus fit, modo quid refert, ſi
Geometra, utatur fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum, quo
modofyllogiſmo utitur Geomes tra, &quomodo inductione Geometrica?fimodo
quis ex hoc textu uca lit inferre, quod illa indu&tio Geometrica non detur,
ipfe faciet mendas cem Ariftotelem, dicentem in tertio textu, quòd nedum
fyllogifmo fed 70 IN PRIMVM LIB., oinduétione, ſcitur quòd triangulus in
femicir culo conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis. TEX.
LXXXVII. ALIAS XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his, quæcun queipſa quidem
inſunt, fecundum ſeipſa rebus, ſecundum feipſa uero, dupliciter, quæcunque enim
in illis infunt in co quòd quid eft, & in quibus, ipſa in eo quodqınd eft
inſunt ipſis, ut in numero, impar, quod ncit quidem numero, eft autem ipfe
numerus in ratione ipfius, & iteruụn multitudo,aut diuiſibile in ratione
nua meri, horum autem neutrum contingit infinita eſſe,nec ut impar numeri,
Secundum fe ipſum bipartitur, ut quando prie mum deffinitio de deffinito
predicatur. uel etiam quädo deffinitum de def finitione, ut numerus est
multitudo ex unitatibus aggreguta, ut Euclia des ait fecundadeffinitione
ſeptimi Elementori,et etiam multitudo ex unii tatibus agregata numerus est:
impar nuſquà inuenitur in deffinitione nu meriupud Arithmeticū, neq; etiä
numerusin deffinitione paris, quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à
Græcis etLatinis explicatum est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus,
quædum fecüdum quod ipfa inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit, ut fi
quippiam, nume rus eſt, id quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur,oſi
quid ims par uel parfit illud tale numerumeffe patet, ſic ut exempluinprimum
Ariſtotelis, ſit circa diuiſionem, fecundum exemplum de deffinitios ne, quia
tamen addit, aut diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem reperitur
quod diuſibile in numeri ratione ponatur, quatenus nu merus eſt, fed in
deffinitione numeri paris; recteponitur, ut diuidatur in æqualia, ut
primadeffinitione noni Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft, qui in duo
æqualia poteſt diuidi, & quicquid in duo equa lia diuiditur, id numerus
effe patet, fiueboc de numero, quo numerisa mus, feude numero numerato, hoc
intellexeris, ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam, in his exemplis ſeruauit Ariſtot.
primo enim in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco infpecie
contenta, fub deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt in
imparem atqueparem; ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica, definitio
estſecunda septimi Elementorum, deffinitio autem paris; patet ex prima
definitione noni Elementorum. Horum autem omnium nullum contingit infinita
eſſe, numerus enim in imparem atque parem, impar in primum, compoſia tum,
compoſitum in quadratun, o non quadratum, igitur quadratus compoſitus impar
numerus eft, onumerus, eſt impar compoſitus qua dratus, feu numerus eft impar
prinus, er prinus, impar numerus eft, ſicuti status eſt innumero,ut tandem ſit
ultima particulaque à par te fubieéti ponatur, ſiiniliter ſtatus erit in alijs
particulis, que ponun tur à parte predicati, quando ipfe numerus àparte
ſubiecti pofitus erit neque igitur inſurlum,ncque igitur in deorſum infinita
pre dicantia contingit eſſe in demonſtratinis fcientís, de quiz bus intentio
eft, in furfum ait deffinitionem refpicientes, neque in deorfum diuiſionein feu
partitionem animaduertit. d ac 38 mi TEX. LXXXVIII ALIAS XXXVII. for
ONSTRATJslautem his, &e. Non te prea terit, quòd habere tres duobus reétis
equales conie nito Joſcelio Scalenoni, neutri tamen per alte, rumconuenit,fed
utriqueperhoc, quodfigurarea Eilinea trilatera eft, idfæpe fuit in precedentie
bus declaratum exfecunda parte trigeſimeſecunda primi Elementorum.. other VA 16.
TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M ST autem inuin cuin iinmediatun fiat & una
propoſitio ſinplex eft immediata & queinadınodum in alís eſt principium
fimplex, hocautem non idem ubiqueeſt, fed in graui quidem untia, in melodia,alle
tem diefis, aliud autein in alio, fic eft in fyllogitno unum, propofitio
immediata, Secundum antiquos rumfcitum, ut Campanus refert ſuper oriaus xiiij.
Elementorum unumquodqueintegrum in xij.partes æquales per rationen og intelle
Etum diuiferunt, ipſum totuin fic diuifum in partes illas, aſſem uoc4 = werunt,
undecim earum dixerunt deuncem, decem dextantem, nchem IN PRIM V M. LIB:
dodrantem, o &to beſſem, feptem ſeptuncem, fex uero partes femiffen,
quinque quincuncem, quatuor trientem, tres quadrantem, duas ſexa tantem, unam
autem appellauerunt unciam, quam unciam in minorafra gmenta nonfecat
philoſophus, quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum initium fumit ipfum
integrum, tanquàm ab immediato prins cipio,ex quo,fumiturfimile, quod in
fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio, ultra quam nonfit refolutio in
terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit conſiderationem in
minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in terminos etiam
quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt pretereundum
filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit, id autem eſt, quod qui Logicam
ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille,omnibus diſciplinis Mathematicis debetin
primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei, ut in adagio dicitur, operam fimul
ooleum perdet, quid per dieſim intelligat, notum erit fitonum ſimpli cem,
interuallum integrum, nondum ad armoniam pertingens diuidi in duas equus partes
eſe impoßibile quis prius perceperit, ut etiam in tex. Lix. prædemonftratum eft,
duas tamen in partes inæquales diuidi, quarum altera maior eft, quæ apothomen,
ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft minor, quæ minusfemitonium nuncupatur,
oip fum minus femitonium in duas partes æquales diuiditur, quartum utras que
dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis, ut Boetio atque Nicomas co primo
libro Muſicæ,capite xxi. placet,idprincipium toni eft, quid minimum. Practici
uero Muſici dieſim uocant inciſionem duarum linearumfuper alias duas ſic *quam
incifionem fignant ipfi practici Cantores, ſuper eam notam, ſub quain deſenſus
toni, faciunt defen fum ſemitonij, ſed id cantoribus relinquatur, prima dieſis
acception Ariſtotelis ſententiam explicat, quia dieſis in illa acceptione, eft
minia mum conſideratum à mufico, fiue id, quodminimum eſt in concinentia
conſideratum, ſicut uncia in ponderibus oimmediata propofitio in de
monſtrutione fyllogiſtica, o boc intelligas de minutijs integri, non de
minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud Boetium libro tera tio capite
octauo agit,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non faciunt pretermito. MAGIS tur
POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX. AGIs autein ſeiinus
unumquodque, ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam fecundum
aliud,utmuficun Coriſcum,quá do Coriſcus muſicus eſt, quàm quod homo muſicus
fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod particularis
demonſtratio ſit uniuerfali potior. Quis nam fit muſicus aperit Nicomacus atque
Boes tius primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft, quinon ex eo quod
manu cytheram pulfat, fed ille qui rationis imperio cantillenas rum distonice,
cromatice,atque enarmonice ratum, atque firmum ſta tum agnoſcit diiudicat,
atque imperat, qua re intellectu,quærit Ariſto teles,num illa demonftratio, qua
Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus co:rcluditur, quod eft, an
particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior, Cui rationi reſpondendum; ut Ariſtoteles
innuit per interemptios nem, negando quodCoriſcusſit muficus per fe, fiue quòd
ifta cognofca tur per fe, Coriſcus eft muſicus. BI 74 1 142 ca TEXTVS XCIII.
ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt de eſſe quain de non eſſe, & propter
quam non errabi tur quàin proptcr quam crrabitur eſt au tem uniuerſalis
huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant uniuerſale, quemadmo dum de eo quod eſt
proportionale,ut quo = niam quod utique fit talc,erit proportionale, quod ncque
linea; neque numerus, ncque ſolidum, neque planum eft, fed præter hæc aliquid.
illud idem totum quod text. xx v di& um fuit, hoc loco repetatur, ubi
Ariſtoteles text. xx v dixit hæc uer ba, nunc uniuerſalemonſtratur,hoc textu,
magis aperit dicens, proces dentes enim demonſtrant uniuerfale, quod neque
lined, &cæt. fed pre ter hæc aliquid, quod quidem eſtipſum quantum,
quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus quantis, neque illudeſſe tale
immagineris, quod oquanto &quali communefit,ut immaginabatur,lo4nnes gram M
IN PRIMVM LIB. maticus afequaces, quia illud,analogum eſſet, quod à
propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo quinto textu reſpondens ad fecundam
difficulta tem. TEXTVS XCIIII. S IGIT VR triangulus in plus eft, & ratio
eadem, & non fecundum æquiuocationem, conuenit triangulo & Iſoſceli,
& ineſt oinni triangulo duobus rectis æquales,non utique triangulus
ſecundum quod eſt Iſoſceles, led Iſoſceles ſecundum quod eft triangulus,ha bet
huiufmodi angulos. Concludit Ariſtoteles hoc textu uniuers falem
demonſtrationem particulari demonſtratione potiorem eſſe, o eft quando per
rationem uniuocam concluditur affectio de ipſo uniuerfali, eper eandem uniuocam
rationem concluditur eademet affeétio de par. ticulari aliquo, ut habere tres
æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte x x x 11primi Elementorum de
triangulo primo, deinde de iſopleuro, ſoſcele, oScalenone non primo, fed
quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis concluditur perfyllogifmum, uel
etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde primiElementorum Eft in hoc
textu non minima conſideratione dignum, quod etiam non eft prætereundura
immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt, quia o nomine for rede
uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur, utpuu tafigura,quæ
tribus reétis lineis clauditur, non tamen per ipfam ratios nem, cõcluditur de
Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les, ſed per primam partem
trigeſimæ ſecunda, eper uigeſimā nonam Otertiä decimă primiElementorum,
quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ Ariſtotelis,de
ratione uniuoca,Di cendum, quod naturaexemplieſt, ut non conueniat. Cum re in
omni mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res ipſa.Dico fecundo
quod memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque perpéfum,quod nulla
demonftratio mathematica eſt potißima, & ob idmathematicæ nul leſunt
ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in nulla conclu ditur aliqua
affectio deſubie &to per deffinitionem fubie &ti,quod tamen uo lunt
uirigraues de mente Scoti, neque etiam per deffinitionem paßionis ut alij
determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod quando per cane dem deffinitionem,fiue
uniuocam rationem, demonſtratur affectio aliqua POSTERIORVM ARIST. ineſſeſubie
o uniuerſali, &eadem ineſſeparticulari per eandem deffini tionem, quòd de
uniuerſali, immediate & per fe,de particulari autem non immediate, neque
per ſe, ſed per uniuerſale concluditur, ideo uniuer. falis ipſa particulari
demonſtratione potior, atque præftantior est, ut fi per rationale mortale,
concludatur de homine riſibilitas, &deinde per id, de Socrate, quod fit
riſibilis, illa in qua de homine, quàm illa in qua de Socrate demonftratio, eft
potior, ſicuti de triangulo uerbigratia,in fecunda parte trigeſime ſecunde
primi Elementorum, &etiam de 1foſce le, probatur habere tresæquales duobus
reftis, illa tamen inductio,que probat de triangu o potioreſt illa industione,
quæ de iſoſcele idem cons cludit, quia primo de triangulo uniuerſali, ſubinde
de particulari trian. gulo concluditur, hoc pacto Ariſtotelis regula o exemplum
intel ligendafunt. TEXTVS XCVII. fed 72 th po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus
propter quid, & tunc opinamur ſcire, cum non fit aliquid aliud propter quid
fciamus, quàm hoc, aut quòd fiat, aut quòd fit, & cetera uſque ibi, Cum
igitur cognoſcamus quidē, quod quiſunt extra æquales funt quatuor ſcétis,
quoniam æquitibiarum,adhuc decft propter quid, quia triangulus, & hoc, quia
eft figura rectilinea, ſi aus. tem hoc, non amplius propter quid aliud, tum
maxi mc ſcimus & uniuerſale, tunc uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu
Ariſtoteles determinatquòd, tunc arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas
procedit nofter reſolutiuus diſcurſus, ait enim cum igitur cognoſcamus quidem
quod, hi, quiſunt extra æquales ſunt quatuor rea &tis, o redit rationem,
quoniam equitibiarum, ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere,
pentágone, adiecit proximiorem cau Jam dicens, quia triangulus, quia tamen
trianguli diuerfa funt latera,ut curua, conuexa, conuexa o curua, curua Qrecta,conuexa
a recta,ut omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea, que cauſa magis
udhuc proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa, cumfucrit inuens
taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc mas xime fcimus,
uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id, quod exem = plo, Ariſtoteles ait,
paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij IN PRIM VM LIB.
mnes extrinfecos angulos, quatuor reétis æquales effe dico, protrahan tur enim
omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per tertiã decimam primi
elementorum duo anguliad c, pofiti æquales duobusrex & is, eadem ratione
duoilli ad a, o reliqui duo ad b ſimiliter equales duobus re& tis, itaque
omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt æquales ſex reftis, fed per
fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi Elementorum, tres intrinfecifunt
æquales duobus re&tis, igitur tres reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis
equales,quod demonſtrandū erat. Non enim omnis triangulus uni uerfaliter
fumptus, hahet tres an gulos duobus reétis equales, ſed ali quis habet duos
angulos rectos, tertium acută, et quidam triangulus eft qui habet tres angulos
rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda dictionis magnæ cõſtructionis theoremate
pri G mo, e ſequentibus manifestum faa cit, neque tamen id cötrariatùr pro
poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis ut quod duo anguli cuiusli bet
trianguli fint minores duobus rectis, nec etiam eſt contra fecundam partem xxxl
primi Elemen. Euclidis, quòd uidelicet omnis triangulos, habet tres duobus
reftis æquales, ratio, quòdnulla inter hos fapientißia mosſit contradictio,
eſt, quia de rectilineis Euclides, de fphelaribus ues ro Ptholameus &
curuilineis triangulis agit, quod aduertens Ariftotea les adiecit, quia est
figura rectilinea; ut fit abſolutus fenfus, quod equis tibia figura trilatera
rectilinea, habet extrinſecos angulos quatuor ree Stis equales. TEXTV S CI. I
MPLIV's autein & fic, uniuerſale enim ina. gis demonſtrare eft, co quòd
eſtper medium demonſtrare, cuin propius fit principio, pro xime autem
immediatum eſt, hoc autem eft principium;fi igitur quæ ex principio eſt, ea quæ
non eft cx principio, quæ magis ex prin POSTERIORVM ARIST. cipio, ea quæ minus
eft, certior eft demonſtratio. Hoc textu Ariſtoteles apponit extremammanum
determinans,quòd uniuerfalis ſit particulari demonfiratione dignior, in quo
quædamnon conſiderata à grecis,neque à latinis., difta tamen ohic ab Ariſtotele
tertio tex tu, ibi, quorundam enim hoc modo diſciplina eſt, onon permedium ube
timum cognoſcitur, ut quæcunque iam fingularia eſſe contingit, nec de fubiecto
quopiam, ubi aduertit quod quidammodus est, quo fciuntur af fertiones
deſingularibus, onon per medium,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur
de particularibus per medium, fed non primo de eis, ut declaraui in textů
tertio 'nonageſimoquarto huius, affectiones uero que de uniuerſali
cognofcuntur, he quidem per medium cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis
demonſtratio, eſt ipſa particulari potior, quia particularis non per medium,
uniuerfalis uero per medium demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis
demonſtrare est,eo quod eft per medium de monstrare,id autem Geometrico
exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis cognouit, quia omnis triangulus
habettresduobus rectis æqualesfciuit, quodammodo, & quod ifcoſceles duobus
reftis tres pares habet,utputa potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu,
potentia etiam fcit. ea, quæfub. ipfo continentur, &ſi non cognouerit
1fofcelem quòd actu,oper aper tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces
interpretabane tur) triangulus ſit, hanc habens propoſitionem,hæcparticula
legenda eft, cum particula aduerfatiua fic,hanc autem habens propoſitionem,
nempefciens tantum potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés,
uniuerſale nullo modo cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus
rectis, neque potentia, neque actu, non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt
uniuerfale ad triangulum,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet.
Accedit ad hoc etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu, non ſcitur potentia
fuum particulare, fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī,quifieripoteft,ut
propter id,ſuū uniuerſale potentia fciatur? non etiam actu fcitur
uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile
potētia, non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat
Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari
habetur de particularibus difciplinam eſſe, particularem eſſe demonſtratioa nem
quæcunquefit illa,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter
uniuerfalem o particularem demonſtrationem. Preterea etiam nos tatu dignum
habetur, contra omnes interpretes, id autem eft, quod ali IN PRIMVM LIB.
quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians
ſcimus, introducit eos, qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant
Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis, quod de nouo ſci mus inquiunt
enim, noftis ne quod omnis dualitas par ſit,nec ne? Vel etiam, quòd omnis
triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem
Platonicis attulerunt dualitatem, uel triangulum manu aba fconfum dicentes,
ecce quomodo uos de nouoſcitis, hanc dualitatem eſſe parem, quia
priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt
locum, ſic ut nedum ipſi intelligant, fed eshi qui cos audiunt ita faſcinentur,
ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim ſine propoſito,
quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa, ueltriangulo
conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales haberet, quia
neſciebant illam eſſe dualitatem, vel illum effe triangulum, putant iſti
exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes, anon aduertunt, quòd id
dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit, quod illi qui dicebant de nouo fcire,
male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum, egr reſpondentes perperam,
dicebant fe nonſcia re eſſe purem, niſi quam dualitatem eſſe
ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit, quòd qui ſcit omnem dualitatem eſſe
parem, uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet, fcit quòd
dualitas ſitpar, quod Ifofceles, tres duobus reftis æquales habet potentia,
licet neſciat a &tu perſenfum, quòd iſoſceles triangulus ſit, quem locum à
me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum propter fal
fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem. TEXTVS CVII. ALIAS
XLII. T ca certior quæ non eſt de ſubiecto, ca quæ eſt de ſubiecto, ut
Arithmetica armo nica. Numerus, ſubiectum eſt in ipfa Arithmetica qui quidem
abſtractißimus est, nullum materiale ſubie &tum concernens, Armonica, uero
de nume ro ſonoro, uel magis, de ſono numerato, quod magis concernitmateriain,
ut fonum ipſum., qui fonus numeratus, ſub iectum in armonia eft, ut Boetio
placet libro primo muſices, modo Arithmetica cum circa ſubiectum minus immerfum
matericfit, certior POSTERIORVM ARST. estquamſit ipſa Armonia, quæfubie£tum
conſiderat magis immerſum ipſimateria, eftigitur alia certioraltera
propterſubiecti maioremabe ſtractionem? TEXTVS CVIII. T quæ eft ex minoribus
certior eſt, & prior ea, quæ eft ex appofitione, utArithmetica Geometria.
Dico autem ex appoſitione,ut unitas fubftantia eft fine poſitione, pun. tum
autein fubftantia pofita,hoc autem eft ex appoſitione. Hoc in primis
conſiderandum eft, quod hoc textu non loquitur Ariſtoteles de ſubie&to
fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus abſtracteconſideratur, quia id in
precedenti tex. determinauit; una enimſcientia determinat de abſtracto numero,
reli qua uero defono numerato, unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est
ſubiectum in Arithmetica, niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione, utin
15 ſeptimi ElementorumEuclidis,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium
librorum Arithmeticæ Euclidis. Dico autem,ut unitas, ſubſtantia eſt, fine
appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta, hoc est ex appoſitione,Nicomacus,Boetius,
Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus, in primis lordanus, o Euclides recte
interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent, quem locum obſcurant rabini
cum * ueſtra excellétia ex appoſitione nominati,heu me, in manusquorü inter
pretum incidifti Ariſtoteles? quæ hominum dementia te torquet: erant ne ſimile
hominum genus tuo tempore, ita inſipidi atque macrologia op preßi, qui Platonem,
quique te audirent, expoliati Geometricis, &dis fciplinis orbati?ut funthoc
tempore nedum iuuenes non recte imbuti lite teris, fed magis ſeneſcentes in fua,
non tua philoſophia homines, exurs gant Romani uiri, liberalibus diſciplinis
præditi, quorum bonarum are tium hereditas, negligentia pofteritatis, uerfa eft
ad extruneas nationes o inter Barbaros fruftratim etiam dilaniatur, eo locum
hunc inter pretentur. Non eget unitas ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto
affe & a, uellined, uelalio quoppiam alieno, fed punctus, uel linea',
ſeufuæ perficies, uel etiam corpus,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus
unus, uel una ſuperficies, aut corpusunum, uel plurafint: Plura autem pun &
a, eſſe non poffunt, niſi prius punctum unum,uel unafuperficies,aut corpus
unumfit, minus igitur eft unitas, quim punétum unum, Pombaiam IN PRIMVM LIB.
ipfa uocemanifeſtum eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat: non ut fuum fubie
&tum, fed ut id, quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur tanquàm
pars ad ſuum totum. Vnum pun &tum, feu lineam unam, uel etiam unum corpus
Geometra, atque stereometraconſiderans appos nit lineam,pun & um
&corpus ipſum unitati, uel illis unitatem appos nens, ex pluribusfacit fuam
conſiderationem,quàm fit illi Arithmetici, qui unitatem conſiderat
abſtractiſsime, nulli reiappoſitam. Ex hac declaratione patet id quod
Ariſtoteles ait primo de anima in principio, quòd fcientia de anima nobiliſsima,
eſt, duabus de cauſis prima ex nobi litate ſubie &ti, ſecunda ex
certitudine, ex certitudine dico, non ut quis dam inueterati in philofophia
craſſa exponunt, uidelicet ex demonſtra tionis certitudine,ſedcertior dico,
quia exſubiecto ſimpliciori eft, que anima eſt, atque minus compoſito, quàmſint
ſubiecta librorum,librum de anima precedentium, ex precedentis textus, atque
huius expoſis tione id totum colligas uelim, ex precedenti, ſi de anima, ex
præfens ti autem ſi de anime particula, loca libri de anima intelligantur.
Claret etiam, ex hac noftra interpretatione,quod Mathematicæ diſcipline non
ideo dicendæfunt non ſcientia, quia non funt circafubftantias, ut ans
tiquusætate indostus quidam in hac parte, philoſophus non erubes fcitaſſerere',
ofequaces,quia illas inquit merito dicendasſcientias los quitur, quæ tantum
circa fubftantiasfunt; non autem que circa accia dentia, ut funt Mathematicæ,
quod apud Ariſtotelem nunquam legitur Dico quòd Mathematice uere e in primis
ſcientie, ſecundum nos & re ipfa funt, ex fententia doétifsimi Boetij in
principiofue Arithmeticæ,ubi ait, ſcientiæ atque ſapientia uerehe funt, quæſunt
circa res, quæ nunquàm mutantur, fed fua natura femper funt,utſunt fubftantia,a
quantitates; quo nammaiore auctore hec noſtra ſentens tia corroboratur, quàm
ſitipſemet Ariſtot. in hoc præexpoſito textu ! qui in fua doctrina conftans,
punctum ſubſtantiam appellit, itidem unitatem ſubſtantiam dicit, ſi igitur fole
ille ſint ſcientiæ, quæ circa fubftantiasfunt, in primis Arithmetica atque
Geometria merito (quics quid balbitiant alij) ſcientiæ appellande nedum nomine,
fed natura digna funt. Quia tamen de mente Ariſtotelis teneo Mathematicas
diſciplinas, non eſſe ſcientias, non ob id, quia de accidentibus ſint,neque ex
eoquod percominunia principia procedunt, ſed quia affectiones que in ipſis con
cluduntur, non perdemonſtrationem, quemfyllogifmum ſcientialem Ariſtoteles
uocat, concluduntur ut declaratum fuit textu nonageſia men, mo POSTERIORVM
ARIST. moquarto,merito ſcientia non funt, ſiſcrupulofa indagine ſcientiæ not
men indagari, quis uelit. TEX. CXII. ALIAS XLIII. 3 EYE per fenfum eft ſcire id,
Exemplis duobus. Altero Geometrico reliquo, Vero Aſtro Nnomico, declarat
Ariſtoteles, ſi enim ſenſus uifus uideret id, quod intellefius percipit fecunda
par te trigeſimæſecundeprimi Elementorum,quód trian gulus. uidelicet, habet
tres duobus rellis pares, non tamen propterea uidens illud diceretur fciens,
fed ut fciensfieret ad huc demonſtrationem quereret,o huius rationem reddit
dicens, necef= feenimquidem eſt ſentireſingulariter, ſcientia autem eſt in
cognoſcen= douniuerfale, unde eſi ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe
defferente augem Lune, uel in orbe defférente caput draconis,uel etiam in cælo
Mercurij, uideremus Lunam ingredi umbram terra, e par timenftruum non propter
hoc diceremur fcientes, quia illud, quod uiá deretur,effet ſingulare, &cum
ſcientia ſit circa uniuerſale diſcurrene do, o per intellectionem ipſius
uniuerfalis, ſequitur, quod per ſenſum non eft fcire. Aliter etiam exponaturſic,
ut ſi eſſemusſuper planetum, qua Luna est, &in illa parte planete que
terram, & centrum uniuerſi confpicit, &foc'es noſtra uerſus idem
centrum mundi,quod.eſtterre cen trum ſentiremusquidem per ſenſum uifus, quòd
deficeret Lund tunc, fed non propter quidomnino,quiaſenſus non plures percipit
ecclipſes ſimul neque actu,neque potentia,fed unam tantum,necobid tumen
ſcientes dice remur, non enim uniuerfalis est ſenfus, fed particularis ut ait,
ex conſi deratione multotiesaccidente univerſale uenantes demonſtrationem ha
bemus, non ſecludit hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de purticularibus, ut Tex.
iij. fuit determinatum, fed ita intelligas, quod ſenſus eft tantum
particularium, intellectus autem utriuſque, Sunt tamen quædam reducta ad fenfus
defeétum in propofitis & c. · In hac particula huius textus, idem perſuadet
diuerſo exemplo, quòd. videlicet neque per ſenſum eſt ſcire, in prima huius
textus particulas Exemplum attulit in phænomena eGeometria, in hac autem
particula exemplum est in perſpectiua, eft etiam quoddam aliud diuerfum, quia
precedensexemplumeft,de unica wſingulari eclypſi. In hac auten pars N IN PRIM
VM LIB. ticula exemplum præbet de multis illuminationibus faétis per uitra pera
forata, ſiue foraminailla ſint pori uitrorum, feu etiam foramina ſint ma
gna,artificio quodam facta, que fenfusuifus in multis uitris confpiciens,
compertum haberet, &manifeſtum eſſet, & propter quid illuminat, id
eft,propter,quid illuminationes multæ fierent,quoniam, ut inquit,uis deremus
quid ſeparatum in unoquoque uitro, id est foramina multa, per qua
radijtranſeuntes illuminationes multe fierent in pariete e re gione collocato,
uel in pauimento domus,quapropterſi plures eclypſes ſimul perciperet fenfus
uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam hoc euenire ex obiectu terræ
inter Solem of Lunam, illud de Luna ex emplum nullo modo diuerfum eſſet ab iſto
de uitris perforatis, niſi quod alterum in Phænomena, reliquum eſſet in
perſpectiua; Ne.credas tam men propter multas irradiationes a uiſu
ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul, uel poris in uitris
per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur fciens,ſed ex his
fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus
intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens,
illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum
eclypſi uiſa, fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco
habetur quod non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter
quid habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad
minus uniuer ſalia, ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter
multa foramina fiebant, nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA
Textus particulam illam, Aut æquale maius, autminus, Scire eſt, quod primi Elea
mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem, ut fi una quantitas comparetur ad
aliam eiufdem genes ris, aut erit ei æqualis, aut eadem maior, uel e46 dem
minor, ut quatuor, ad quatuor, uel ad tria, aut ad quinque,ſi comparentur,
fieri nequit, quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam di &tarum
comparata, fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur
contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur, verumquidein poteft
effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum, fedfi ad
plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius Textu,
Neque omnium. uerorum principia funt eadem, neque con ueniunt,ut unitates
punétis non conueniūt, læ quidem enim non habent poſitionein,illa autem habent,
Deappoſitione in punétis, eo pacto intelligas, ut tex.108 declaraui. Exemplo
enim loqui tur de principijs,non quidem ex quibus inferatur conclufio, fed ex
qui dus compoſitumfit, quia ex unitatibus pluribus ſimul coaceruatis com
ponitur numerus, ex pluribusautem punctis non componitur quippiam ut terminaui
tex. xix.huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates, que funt numerorum
principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas enim,uel etiam
unitates non ſupponunt punétum,uel punéta,punétus 'tamen uel puncta eſſe non
poſſunt, quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint,non igiturconueniunt
inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite, wepropter non
appoſitionem, puncti ipſi unitati, unitas enim non ideo unitus est, propter
unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem, ®ultra ait,
quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta, hecuero in continua
conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII. VONIA'M autem idein
multipliciter dicitur eft autem, ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum
uere opinari inconueniens eſt, ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones)
idem, fic eiufdem eſt, ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem non
eſt idem, Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media tamen
diuerſa, falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum commenſurabilem coſte
eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis demonftrationibus
inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit in qua re tex: 1x.
huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe diameter
incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin, par numerus, impar effet, Circa
idem igitur contingit diuerſitas, feu idem multipliciter dicitur, ut quòd
diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta. Nij IN SECVNDVM
LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA: V ENETV S. ** 3 TEX T
VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit, aut hoc, quærimus in nume
rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non, ipſuin quia quærimus. Luna enim
defficit in ſe a lumine, a patitur menſtruum, propter interpoſitam terram diame
traliter inter Solem u Lunam, Sol autem non defficit lumine unquam in ſe, fed
tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis res peritur fimul
cum Luna hoc quidem prouenit, ex eo quod inter afpes Eum noſtrum o corpus
folare interponitur Lund, quæ cum ſit core pus denfum, coppacum magis quàm alia
pars fui orbis impedit fo lares radios, enon finit eos ad afpe&tum nostrum
protellari. Dubita tur circa id quod fuit di&tum paruin ante,o quód
fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in ſequentibus,ufque ad textum nonum an
Luna defficiat penitus lumine, quando patitur menftruum, quod eſt querere,an
Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis
bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes, propterea quod, quandotota eclypfatur
uidetur non nihilhabere luminis, apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius
rotunditas extra plenilunium, ad quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum
habet lumen,niſi à Sole ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia
liquorem aquæum, cauſaaus të apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ
rotunditatis antequam POSTERIOR V MARIS T. fit in oppoſitione Solis eft, quă
ſtatim declarabo quibuſdam paucis pres intellectis, cum ipſa ſint corpus denfum
&politum quemadmodum cæte ra fydera, radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad
ipfam pertingunt non talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram
reuerberantur, Tempore autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu
nõ attın gunt lunam, ſed tunc radij aliorum fyderum, qui debiliores
ſuntſolaribus radijs, pertingunt corpus lunare, &fua tenui uirtute Lunam
illuftrat, ob id Luna uidetur habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et
pro pter hanc eandem caufam dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple
nilunium. TEXT VS I x. + 1 1 + VID conſonantia, ratio numerorü,in acu to &
graui, & propter quid conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem
has bent numerorum graue & acutum, utrum eſt conſonare acutum & graue,
utrum ſit in numeris ratio corum,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt
ratio querimus. inter ea quæ elucidan da funt in hoc textu, idin primis
occurrit, notatu dignum; graue enim Cum motum fuerit, citius ad quietem redit
quam leue æquali pulſumo tüm, Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic
notandum quòd neruus cumpellitur ininftrumentis non unumfolummodo ſonum
efficere ſedmul tos, quiquidem multi à feinuicem distinti non percipiuntur, ut
diſtins Eti, propter celeritatein unius poſt alium, Exemplum præberem de Tur
bone,uiride, aut rubra linea lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur
uiridis, aut rubcus, ſunt igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi
foni illi, qui leuiori neruo procreatifunt,comparentur has beanto ad illos
ratione, ut quatuor ad tria,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi
ueroeam quæ eſt nouem adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient, quæ
quatuor ad duo, que concinentie, cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ
funt generantur,tanquam ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon,o
biſdiapaſſon, quæ ome nia ex Boetio clara habentur, o ſibi do toresqui Calepino
student, in declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant, Alia exempla à
tertio textu uſque ad undecimum,que Ariſtoteles præbetfua Palade in mathea
1 IN SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ
quiaaliàs in præcedétibus dilucidata per mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed
quæ di&ta funtfuper hoc textu non plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi
enim nonfuerintplures pulfus ad pa uciores com parati, ut in humand uoce,
căcinentia quidem reperitur inter re, ala licet nõ niſi ſingula,&fingula
uox emittatur,non igitur interfonos paus ciores tantum, eu plures concinentia,
ſed primo inter graue ego acutum reperitur, quæ autein uocum diftantia inter ſe
reperiatur, ut debita; fiat concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis
accepto, cumetiä per ea que Boetius tractat manifeſtum est, ſed'in dubium
occurrit illud, quod muſicifaciunt, quando fuper breuem ſillabam, plus temporis
cona ſummunt, quim par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la
festinant, ita ut ea,quæ naturaſunt breues, fiant longe, &quæ longe
ſuntſillabæ,breuesfiant, ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica, fed
Barbara o contra ufum loquendi appareat, Ad quod dico, ſequen tia dubia quæ
funt,an concinentia proueniat ex mouente, ut Aristoteles in libris
degeneratione animalium, uel ex motis rebus, ut in rethoricis, an exnumeratis
pulſibus, ut hoc textů tangit, quòd in nostris fragmens tis logicis hæc omnia
clarafient, fed pro declaratione littera, huius tex tus,uideturexpoſitio
feciſſe fatis. TEXTVS XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs omnis demonſtratio aliquid de
aliquo demonſtrat, ut quia eſt, aut non eft, in deffinitione autem nihil
alterum de altero prædicatur, ut neque animal de bis pede,neque hoc de
animali,neque de plano figura, non eniin planum figura eſt, neque figura planum
eft. Euclides póst quam deffinitionem plani dederit in primoElementoruin
deffinitione quinta, ſtatim de angulis planis, e de fiquris planis adiecit
deffinitiones, que figure ideo planæ dicuntur, quia in plano picte ſunt,feu
quia in ſuperficie plana ſunt deſcripte, fi gura plana, hefunt due particulæ
deffinitionis, quarum altera deals tera non predicatur, quia id quod planum,
& id que in plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio uero cõcludit,
quia eft hoc de hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis equales habeat,
et q latus trigoni, quod fubtendien maiori angulo, nõ eft minies lateri
fubtenſo minori angulo. POSTERIORVM ARIST. TEXTVS XLIX ALIAS X I. V ANIFEST VM
eft autem & fic, propter quid rectus eſt, qui in ſemicirculo eft, quo
exiftente rectus eft,fit igitur rectus in quo a, inediun duorum rectorü in
quob, qui eft in feinicirculo in quo c, eius igitur, quod eſt a rectum inelle
c, qui eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a æqualis eft, c autem
ipſi b, duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia ſtente dimidio diiorum
rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo rectum eſſe. Euclides
xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc loco ait magis contracte,
ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic, ſit ſemicirculus a b d cuiuscentrum c,
quo perpendicularis excitetur per undecimā primi Elementorum cd, ſecans arcum a
b in puncto d, à quo, duæ lineæ protrahantur ad ter minos diametri dia,db,
ſequiturper quintam primi angului a dc, bdc effe medietates reéti,quæ
ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d bre&tum,ficut duæ unitates bi
narium numerum, quia tamē non uide tur quòd philofophus particulariter proponat
id, quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut uidelicet quod perpendi çularis à
puncto c excitetur, &quòd folus angulus,qui fit in puncto de deter minato,
ubi perpendicularis ſecat ar cum, re & tus ſit, licet illa due medietates
formaliter ſint unius re &ti, fina gulađ; dimidium refti, quæ pro materia
recti accipiuntur, ficut due uni tates materia numeri binarij, Ideo aliter
declaro & litteræ philoſoa phi magis cohærebit non in figura præfcripta,ſit
angulus rectus a datus, b autemfit medietas duorum rectorum, c uero in
ſemicirculo conſtitus tus, ſit æqualis b, quæ uero uni veidēfunt æqualia inter
ſe funt æquae lia, cum autem a ſit æqualis b, quia uterqueeſt medietas duorum
res. & orum, or ſimiliter c qui in ſemicirculo eſt ſit eidem b æqualis, c
ipfi a equalis erit, a quippe rectus eſt ex dato igitur c, in ſemicircula
conſtitutus rectus eſt, quod propoſuit Ariſtoteles, quis ſit angulus rer IN
SECVNDVM L I B. Aus patet per deffinitionem octauam primi Elementorum, quod
autem b in quocunque puncto peripherie femicirculi fit medietas duorum rectos
rum, patet per trigeſimam tertij Elementorum, quodetiam omnis alius angulus in
quocunque puncto arcus ſemicirculi fit æqualis 6, utputa 0, patet per uigeſimam
tertij Elementorum, qubi in priori expoſitione di cebatur,quòd duæ medietates
erant materia totius relti anguli, hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli
b, ſunt materia torius anguli recti, fic ut demonftretur, quod angulus, qui in
ſemicirculo conſtitutus, eſt re ctus, per materialem caufam, quæ materialis
caufa, ſunt iple partes recti anguli ipſum integrantes. TEXTVS LIII. ONTINGIT
autem idein & gratia alicuius eſſe, & ex neceſsitate, ut propter quid
pe netrat laternam lumen, etenim ex neceſsitas te pertranſit, quod in parua eft
partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo,
Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis,quæ
propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter
oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius, exemplum eſt in optica,inaterialis
caufa eft uitrum, fi nalis,neolfendamus; fornalis eft illa compago uitrorum,lignorumq;,
effi ciens autem,eſt ipſe luterne artifex,quantum ad matheſimſpectat non eft
niſi materialis cauſa in conſideratione, o radios fractos ipfius ignis in
corpus disphinum, per quos illuminationes fiunt. TEXTVS LVI. ALIAS XII. CLIPSIS
Lunæ futura, preſens, atque prete rita,medio interpofitionis terre,
diametraliter in ter Solem & Lunam,nunc, olum, & in futurum con
cluditur, cumfuerit Luna in capite uel cauda dras conis uelprope, o ſub'nadir
Solis. SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII. ALIAS XIIII. IGVt ergo non funt
puncta, adinuicem co pulata, ticque, quæ facta ſunt, utraque enim indiuifibilia
funt. Puncta enim fiadinuicem copula rentur, statim haberetur, lineam ex pun
&tis componi quod impoßibile effe demonftratum eft in primo, textu Wdecimo
octauo. TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co autein in plus ineſſe quæcúque, infunt
quidem unicuique uniuerfaliter,Atuero & alij,ut eft aliquid quod oinni
Trinitati, in eft fed & non Trinitati, ficut ens ineft Trini tati, ſed
& non numero, numerum quemlibet ex materia oforma conſtare nemo eft qui
neſciat, aliter cnim numerorumſpecies noneſſent numerofinitæ, potentia
ueroinfis nite per unitatis additionem, fpecies autemexgenere odifferentia con
ftat, genus uero materia differentia autemforma eft in numero, materia
numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario numero, tres unitates materia eft
numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas, ens inquit ineſt Trinita ti népe
ternario numero,o hoc prædicatū, ens, extra genus arithmetică eft, quod quidem
ens, alijs multo diuerſis genere à numeroconuenit. Impar uero & ineft omni
Trinitati& in plus eſt. Etenin ipſi quinario ineft, fed non extragenus, ens
quidem alijs ab arithmetico genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his,
quæ infra arithmeticum genus continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario
&alijs multis. Huiufmodiigitur accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot
accipiantur primum, quorum unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in
plus. inquit quouſque tot dccipiantur primum, uerbum hoc, primum intelligatur
ex æquo, feu ad equate, ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non
fint ſuper abundantes, neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod
ille,qui tetragonicum latus alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet
phi bofophus. Duo præterea funt hic notanda precepta,ut unumquodquefit LO 6 IN
SECVNDVM LIB. cum non in plus, nempeunaqueque particula deffinitionis
uniuerſalior ſitdeffini to, ut animal,rationale,mortale,capaxbeatitudine, que
omnes particu ie, in hominis deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior
eft ip sohomine, omnesautem fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur,
an illa, quae in Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt,
utunapromultis fimilibus excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana,claufa,tribuslineis
re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis deffinientibus,quarū una,et
altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo triangulo rectilineo? Dicendum
confequenteradAriftotelem pro pter particulam illam, tribus lineis reftis,
illam non eſſe deffinitionem, fit uniuerſalior ipſo triangulo rectilineo,
quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm deffinitiones,nifidixeris,
quodAriſtote les intelligit de his particulis definientibus, quæ recto cafu,
& non oblis quo explicantur, & fic proprie dicerentur deffinitiones,
que interpreta tio qualiſcunque fit,non habetur ex Ariſtotelis littert, neque
tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe eſt fubftantiam rei eſſe, ut
trinitati in cft oinni,numerus,impar, primusutroque modo, & ficut non
menfurari numcro, & licut non componi ex numeris, hæ duæ particulæ,numerus,impar,nõ
patiuntur, difficultaté,quinipſo. ternario uniuerſaliores ſint, ſed particula
iſta primus utroq; modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod fit uniuerſalior
ternario numero,propter altes rī modorū, quonumerus primus dicatur eſſe ut
unitatefola metiri poßit, multis conuenit numeris, ut quinario, ſeptenario,atque
ternario, et alijs multis non cõponi ex numeris pariter multis cõuenit, ut
ternario, qui ex binario ounitate conſtat, ſimiliter binario,qui conſtat non ex
pluribus numeris,fed ex binis unitatibus, Ex hoc locohabeturnefcio quid contras
Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo Elementorü deffinitione x 15, XIII,
quibus ait, quod primus numerus eſt, qui fola unitatemetie tur, Compoſitus
autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab unitate numero, quo loco uidetur
quòdaliud fit dimetiri numero; &aliud numeris dia uerſis componi, ut
ſeptenarius, nullo alio número ab unitate dimetina tur eſi componatur ex
diuerfis numeris,ut ex binario o quinario,c. ex ternario &quaternario,
primo enim modo aliquis poterit effe pris inus, qui compoſitus erit fecundo
modo ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI V Componunt nullus tamen
eorum dimetia tur eorum alterum, var vi nullo modo dimetitur XI, VIII pariter
POSTERIORVM ARIST.to v nullo modo dimetiuntur x1, cum neuter fit alicuius
maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti, &tertia deffinitione
feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt,hoc igitur loco dico, quod
Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum,fed famoſe, ut philofophoa
rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam partes aggregae tiua, que c
irrationales, e integrantes dicuntur, quàm partes ali quote,qua rationales,
odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed ſecundum Euclidis fcitum, non
niſi partes proprie fumpte, que aliquotæfunt, numerum componunt; quod etiam
Nicomachus & Boce. tius in arithmeticis aſſentiuntur, niſi dixeris quod
etiam fecüdum Euclia dem,non omnem numerum,qui alium componit compoſitum
dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi. TEXTVS LXXVIII ALIAS XXV.
ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam Grecio Latini pretereunt,
Aueroes tamen magna comentatione tangit nefcioquid, fed fcopum rei non tetigit
iudicio eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis, Textus Ioannis
grāmatici etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu pulchram
Ariſtot.doctrinam, quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum, ſeu Bu, rinam
inſpexeris, ipfius Aucrois interpretes, qua Ariſtotelis doctrina ex Aueroico
textu bahita, illam poſtea ex loanne grammatico, Argi ropilo uidebis neceſſario
effluere, loannis textus ita habetur, fi uero ficut in genere, finiliter fe
habebit,ut propter quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim eit cauſa in
lineis, & in numeris, & eadem, inquantum quidem lineæ, alia eft,in
quantuin nero habens augınentun tale, eadem eſt, fic in omnibus, Argilopilus
ſichabet fi fint ut in genere, medium ha bebunt finiliter,ueluti propter quid
etiam mutato ordia oc, funilitudinein ſubeunt rationum, eft enim alia caufa in
lincis, & in numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea rum rationem
fubit,eadem autem, ut tale habet incremen tum, & codem in omnibus modo;
Aueroes fic habet commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum modum
generis,eft eis. affection IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine, uerbi gratia,
cur quando permutantur: fint proportionalia, huius cnim caufæ in lineis &
numeris ſunt diuerfæ, qua autem addit, hac ſpecie additionis, hoci modo eft una
per ſe in omnibus,hoc textu nõ minus laboris fum pſi propter uarietatem textuum,
quam etiam ob id, quod interpretes: non ita interpretari uidentur, ut textui
Ariſtotelis cohæreant fue interpretationes aut nug & potius, præter Aueroin,
qui magna come mentatione, confuſo tamen ordine dicit aliquid, faciens ad Aristotex:
lis ſententiam, non tamen aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro vera
igitur Ariſtotelis ſententia, in primisſcire debes, quod mas gnitudines ſeu
continue quantitates, &multitudines feu quantitates die ſcrete omnes,
uerfantur circa unum genus quanti, omnes enim quane titates funt, quæ antequàm
permutentur, proportionalia eſſe debent, ut affeétio hæc,permutata
proportionalitas,ſeu permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus
proportionalibus, ratio autem qua concluditur hoc; de lineis,
fuperficiebus,temporibus, vt corporibus, eadem de numeris concluditur, primum
demonftratur propoſitione dea cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia
principia, opropos ſitiones diuerſas ab his propoſitionibus &principijs,
quibus de nume ris eadem permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum,
propoſitione decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li
neiseft,quia diuerſa e uniuerſalior, atque per diuerſa media, à ratio: ne qua
idem de numeris concluditur, huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt
diuerfæ, cauſas has, eas uoco, quæ folum dant propter quid & de his cauſis,
que etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim, quia tamen dicebam,quòd
non concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de
proportionalibus quantitatibus. Si modofieret queſtio, o
cauſainueftigaretur,quare quantitates dicantur proportionales, uel que nam ſint
quantitates proportionales, aut quando proportionales funt, Ariſtoteles dicit
unam eſſe cauſam in omnibus, cum difcretis tum etiam continuis, quæ eft ex
additione fimili utrobique pro cuius notitia mania feſta deffinitio ſexta
quinti Elementorum, minime negligenda eſt, oeft Quantitates quedicuntur eſſe
fecundum proportionem unam, prima ad fecundam vtertia ad quartam ſunt, quarum
prime otertiæ æques multiplices, ſecunde «quarte equemultiplicibus comparat
&, fimiles fuerint uel additione, ueldiminutione,uel æqualitate,eodem
ordinefum POSTERIORVM ARI T. 10% ple. V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu
difcrete ſint, feu etiam continuefuerint,héc uidelicet fimilis
additio,ueldiminutio,feu æquatio inter equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait
in textu Ariſtoteles, in quantum uero habens augmentum tale, eadem eft fic in
omnibus,hac igi: tur ſpecie additionis est una pér fe caufa in omnibus. Similem
autem eſſe colorem colori, & figuram figuræ, aliam efſe alñ æquiuocum enim
eft fimile in his. Hic quis dem eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere latera,
& æquales angulos. Figuræ rectilinee funtfimiles ex prima deffinitione
fexti Elemen.quæ habent angulos omnesæquales, es latera illosæquales angulos
continentia proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet commus nefiguris
ocoloribus, niſi nomenclaturam, non autem rem naturam unam, in coloribus enim
non concernes, neque latera, neque angulos. Habent autem fe fic propter
conſequentiam ad inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt cauſa,
unumquodque tamen accipienti, cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor rectis
æquales, qui funt extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus, in
omnibusautem æqualiter. Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra,textus
hicdeffétis uus eft, & mutilus apud Ioannem Grammaticum & Argiropilum,
ma. gne commentationis textus est clarior, ſed non ad plenumfacit fatis,ut mens
Ariſtotelis, fatim appareat. Caufe illationis, ſeu conſequentie, que mutuæ funt,
feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea, quæ pri mo libro tex. xcvij. di
&ta fuere inſpiciendum eſt, oultra aduertas quod uniuerſaliuseft habere
omnes angulos extrinfecos æquales quatuor res Ais,quàm eſſe triangulum,uel
quadrangulum,aut pentagonum,uel exago num, aut quippiamtale feorfum, fi autem
accipiatur fic reétilineum est, igitur omnes anguli quiſunt extra, funt equales
quatuor re& is, oecon uerfo, fic infertur, omnes anguli quiſunt extra funt
æquales quatuor rectis,igiturid cuiusfunt anguli extrinſeci accepti, rectilineñ
eft,quo uet bo, re &tilineum, comprehenduntur nedum triangulus,
quadrangulus,co penthagonus, fed omnes figuræ re& ilinec, hoc igitur uult
Ariſtoteles quandoinquit, quod habere extrinfecos quatuor re&tis æquales,
uniuer Jalius eſt trigono, otetragono, ſi uero hec omuia accipiantur, ut in hoc
uerbo, rectilineum, omnes figure rectilineæ comprehenduntur, ajo fic hoc pacto
habentſe propter confequentiam,ut ad inuicem caufa «cu us caufa, &cui eft
caufa. ilo: CAVSAB IGITVR ILLI SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA
MENS CONCIPERE POTEST. FINISI RE G I S T R V M.. A B Omnes ſuntduerni. 37 Pac.
4. lined s publicis, à publicis. fac.4.li.6 incumbebam,abſtinere decreui..li.io
laberinthos,labyrinthos.li.21 literis litteris ubique. Pd.4 li.3 comode,
commode.li. 11 prefertim, præfertim ubique. li.12cales, calles. li. 16
Ariſtoteles, Ariſtotelis. Facis li.24 age, aie. Fac. 6.li. 2 pulcra, pulchra
ubique. li, z fpetie, fpecie percubique. li. 32. quinnis, quinis. lin. 3 3
unis,pluribus ubique. Fac. 7 lin.6 neſcit, fcit.Fa.8 li.25 comunem,communem
ubique. F2.13 li. 3 precedentis,precedentis ubique F &c.14 li.9 affumens,
afſummens ubique. li.16 ſempliciter, fimpliciter. li. 12 equales æqualesubique.
Fac.15.li.20 probation, probatione. Fa. 26 li. 26 reſumitur, reſummitur ubique.
Fd. 19.3 1 Geotrica, Geomes trica. fac.20 li. o quadrati, quadrari. li. 10 e e
Spoffet, effe poffet. li. 20 eeſſ;eſe. Fac.22 li. 10 A poline, A polline. Pac.
23 li. innitide tus,initatus. Fac.30 li. 12 fcit,ſit.fac.31.li.12 atulerunt
attulerunt. fa. 3 2.li.27 manus, manu. fac. 34.li.7 ſilicet, ſcilicet ubique.
fuc.36.li.4 Textus, Textu. li.25. aget, & get. fac.41. li:3 2 queſtione,
queſtione ubique. fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa. 48 li.34 prinus, primus.
Fac.49 li.16.fue, ſua. fac.49.li.20 induéti, induti. fac. stili. 12recte,recti.
fac.53 li. 11 A'riſtelis, Ariſtotelis.fac.53 li. 12 bucis, buccis ubique. li. 6
nltera, altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24 puerost, pueros, li. 25
illeuatus, eleuatus. fac.59 li. 7 olas, ollas. li. 3i ſimilitcr, ſimili ter.
li. 3 4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi. li.25. apolini, apollini
per,, ubique.lin. 28 pret, preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet,
ſcilicet ubique.fac.62 li. 23 rrrat, erat. fac.64. lin. 31 nos tid,
notitia.fa.67 li.14 prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68
li. 20 queſitis, quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares.
fac. 76 li.16.notia.notitia. fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27
preciſiua, preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique fac. 83. li.
8.ſcienriarum, ſcientiarum. lin. 21.chierurgia, chirurgia. fac. 86 li. 10.
neft, ineft.li. 17.angregata, aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum,
prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28.
redit,reddet.fac.95li,31. eget,eget.fac.96.li.20 fequacea, fequaces. li. 32,
balbitiant,balbutiant.fac. 104.11.18.uirum,uitrum. Et fi qua alia (que non funt
pauca ) pretermiffa funt, diligens le& tor surum colligat &mufcas
abigat.Grice: “The motivation behind my Immanuel Kant Lectures, Aspects of
reason and reasoning, was to shed light on what Catena calls ‘demostrazione
potetissima’.” Grice: “The Latin language – and the Italian language to some
degree – allows for some fine inflections: there’s potius, which when cmbined
with esse, gives posse, or potere – the ‘t’ is sometimes inarticulated as a
‘d’, as in ‘poderoso’, which goes for potius. Now, the interesting thing about
potius, as Ross, and Mansel, and Aldrich and some Italian semioticians have
found out – dealing with Roman law – is that a demonstrazione cn be ‘able’
(potis), in the positive degree. When it becomes comparative, the
demonstrazione becomes ‘dimonstratio potior’, i.e. not able, but abler not
capable, but capabler. Finally, if it’s the ablest or capablest, it’s
demostrazione potissima, or demonstratio potissima. The ‘scuola padovana’ goes
on to qualify ‘dimonstrazione potisima’ into two types, ‘dimonstrazione
potissima affirmative,’ and ‘dimostrazione potisima negativa’. These are higher
types of demonstration than the ‘demonstratio potior affirmativa’ and
‘demonstratio potior negativa’.” Petrus Cathena. Petrus Catena. Pietro Catena.
Keywords: logica matematica, logica aritmetica, logica arimmetica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Catena” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Catone Maggiore – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Grice
e Catone: Minore – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Marco Porcio Catone
-- M. Porcio Catone il Giovane ha come maestri due stoici, Atenodoro Cordilione
-- che si reca a visitare a Pergamo perchè lo seguisse a Roma ove lo tenne come
ospite -- e Antipatro di Tiro. In Sicilia Catone Uticense conosce
l’accademico Filostrato. Nei suoi ultimi giorni in Utica, Catone Uticense
ha vicino a sè lo stoico Apollonide e il liceale Demetrio. Catone Uticense
e questore e pretore.Catone Uticense i oppose ai triumviri e nella guerra
civile si schiera con Pompeo. Dopo Tapso, Catone Uticense si reca a
presidiare Utica, ove si uccide.Catone Uticense coltiva con molto successo
l’eloquenza e si compiace di introdurre discussioni filosofiche nelle orazioni. Catone
Uticense scrive anche giambi. Cicerone chiama Catone Uticense
perfettissimo stoico e nel "De finibus" gli assegna l'esposizione
delle dottrine etiche di quella scuola di cui aveva studiato intensamente le
opere. A statesman and a philosopher, he studied the philosophy of the
Porch. He was a pupil of Antipater of Tyre and later befriended Apollonides and
Demetrius the Peripatetic, and looked after Athenodorus Cordylion. A staunch
republican, he committed suicide when he believed the ultimate victory of
Giulio Cesare in the civil war was inevitable. He was much admired by Cicerone
and many regarded him as an embodiment of traditional Roman values, just as his
great-grandfather, Cato the Censor, had been before him.
Grice e Cattaneo: l’implicatura conversazionale
longobarda -- Vico e la sapienza italiana – il dialetto milanese e il sostratto
latino -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo.
Grice: “I like Cattaneo; in fact, I LOVE Cattaneo; he is so much like me! I
taught at Rossall, and he defended the the teaching in what the Italians (and
indeed the ‘Dutch’) call the ‘gym’ not just of Grecian and Roman, but Hebrew –
He famously claimed to know Hebrew when he interviewed for a job as a
librarian! – From a semiotic point of view, he saw semiotics as the phenomenon
the philosopher must consider when dealing with communication – he explored
semantics, but also ‘sintassi’ in connection with ‘logic,’ and obviously,
pragmatics – He was interested in comparing systems of communication in Homo
sapiens sapiens and other species – and being an Italian, he was especially
interested in how Roman became Latin – he opposed the Tuscany rule!” -- Grice: “Only a philosopher like Cattaneo is
can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio di Melchiorre,
un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, trascorse
gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e
lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti. Fu
proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del pro-zio,
un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia, soprattutto dei classici
della filosofia romana. Il suo amore per le lettere humanistiche classiche
lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi,
che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di
diciassette anni, abbandonò il seminario papista per continuare la sua
formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al ginnasio e liceo
classic di Porta Nuova dove si diploma. La sua formazione filosofica fu
plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Cristoforis e Gherardini,
i quali gli aprirono le porte del mondo filosofico milanese. Grazie a queste opportunità,
oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi
di carattere sstorico. Sempre in questo periodo furono fondamentali per la
sua formazione filosofica le letture presso la Biblioteca di Brera e il
contatto con il cugino paterno, direttore del gabinetto numismatico, era anche
un importante esponente del mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per
il percorso formativo degli suoi interessi furono la frequentazione assidua
dell’Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto
Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio. La Congregazione
Municipale di Milano lo assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel
ginnasio comunale di Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli
filosofi milanesi, entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi
stessi anni sono le sue amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a
frequentare le lezioni di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e
allievo. Si laurea Pavia con il massimo dei voti. Risale il suo saggio
dato alla stampa e apparso sull’antologia, si tratta di una recensione
all'assunto primo del concetto di “giure naturale”. Saggio sulla Storia della
Svizzera italiana. Convinto sostenitore di richieste di maggiore autonomia del
regno lombardo-veneto dalla corte di Vienna, pensava di puntare su una politica
non violenta per avanzare tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei
confronti della violenza si può comprendere da questa affermazione poco conosciuta
del filosofo milanese che al tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne
pensasse di un'annessione al Regno di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero,
non vedo perché dovremmo uscirne. Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore
austriaco, subito annullate dal generale austriaco Radetzky. Purtroppo
l'evoluzione tragica delle Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza,
fecero capire a C. che un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di Vienna
e effettivamente difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe anche Radetzky
che nel periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a cercare il favore
del volgo. C. e i suoi amici
parteciparono quindi e contribuirono alle cinque giornate di Milano, senza
agire con azioni di violenza gratuita. Ma dopo di esse, rifiuta l'intervento
piemontese. Considera il Piemonte meno sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere
democratico. Presidente del Consiglio di guerra di Milano, che governa insieme
al Governo provvisorio fino alla caduta di Milano al ritorno degli austriaci.
Dopo una serie di moti popolari, nel frattempo, viene proclamata la repubblica
romana, guidata da un triumvirato costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini.
In seguito alla conclusione dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a
Castagnola, nei pressi di Lugano, nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere
maggiormente la sua amicizia con Franscini, potente filosofo ticinese, e di
partecipare alla vita filosofica del Cantone e della città. Fonda il liceo di
Lugano, che volle fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal
giogo del papa, al fine di formare una generazione liberale e laica che era
alla base dello sviluppo economico del resto della Svizzera. Amico di Manara,
anda a Napoli per incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso
dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche. Pur
essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia
unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare
fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue idee federaliste impostate
su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive ideali vicine al
nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema politico basato su
una confederazione di stati italiani sullo stile della svizzera. Avendo stretto
amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira nei suoi viaggi
l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputa
proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico Mazzini -- è
un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e in lui è forte
la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di
rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose logge
massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una sua
lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria,
per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e
negata. Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso della
communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di
pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo,
comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione
alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione
dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto
collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o
autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli
uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di “contratto”
comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La comunita,
la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario, permanente,
universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze umane -- è
sorto perché è un elemento necessario di due menti individuali. Pur
riconoscendo il valore della singola intelligenza monadica, afferma però, che
più scambio, conversazione, dialettica, e confronto ci sono, più la singola
intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro nella diada. In questo modo
anche la società e la comunita diadica e più tollerante. Le due sistemi
cognitivi dei individui della diada devono essere sempre aperti, bisogna essere
sempre pronti ad analizzare nuove verità. Così come le due menti si
devono federare, lo stesso devono fare gli stati europei che hanno interessi di
fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli, le comunita, possono gestire
meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica. La communita, il popolo deve
tenere le mani sulla propria libertà. La comunita, il popolo non deve delegare
la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie esigenze. La
libertà economica è fondamentale per C. -- è la prosecuzione della libertà di
fare -- la libertà è una pianta dalle molte radici. Nessuna di queste radici va
tagliata sennò la pianta muore. La libertà economica necessita di uguaglianza
di condizioni. La disparità ci saranno ma solo dopo che tutti avranno avuto la
possibilità di confrontarsi nella conversazione aperta. E un deciso repubblicano
e una volta eletto addirittura rinuncia ad entrare in parlamento rifiutandosi
di giurare dinanzi all'autorità e la forza del re. Viene richiamato quale
iniziatore della corrente di pensiero federalista in Italia. Fonda il periodico
Il Politecnico, rivista che divenne un punto di riferimento dei filosofi lombardi,
avente come intento principale l'aggiornamento tecnico e scientifico della
cultura nazionale. Guardando all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla
democrazia diretta), define il federalismo come "teorica della
libertà" in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota
al riguardo che abiamo pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa,
alla svizzera. Cattaneo e Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di
vera attuazione dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di
orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno
dall'impegno politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale
della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento
alternativo a quello dei Savoia. In accordo con il Tuveri redattore del
Corriere di Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave
autonomistica locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del
governo centrale nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di
ettari (più di un quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i
soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il diritto
di ademprivio, per usi civici. A lui è dedicato l'omonimo istituto di
ricerca. Altre saggi: “Scritti filosofici”; “Interdizioni israelitiche”; “Psicologia
delle menti associate” – questo saggio – associazione -- non è stata completata
e rimane allo stato di frammenti. Il tema de saggio sarebbe dovuto consistere
nel cercare un'interpretazione sociale – diadica -- nello sviluppo
dell'individuo o monada. La città – cittadino – cittadinanza -- considerata
come principio ideale delle istorie italiane; Dell'India antica e moderna; Notizie
naturali e civili su la Lombardia Vita di ALIGHIERI (si veda) di Cesare Balbo
Il Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura
sociale e comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e della successiva guerra. Rapporto
sulla bonificazione del piano di Magaldino a nome della società promotrice, In
Lugano, Tipografia Chiusi. Le cinque giornate di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato
da Giannini. C. e le cinque giornate di Milano
Secondo una tesi, non comprovata e non accolta dai dizionari biografici,
C. sarebbe nato a Villastanza, frazione del comune di Parabiago in provincia di
Milano. Certamente più antica è la Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza
ed attualmente in proprietà del signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per
eredità dagli avi. Un'insistente tradizione vuole che in questa casa, abbia
avuto i natali nientemeno che C.. Ma C. deve aver passato qui soltanto alcuni
anni della sua infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai propri
genitori. Si veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e sviluppi
dalle origini ad oggi, Unione Tipografica di Milano. (Tortora), da Filosofico
(Fusaro) Arch. Fant Milano Bertone, Camagni, Panara, La buone società:
Milano industria. Almanacco istorico d'Italia, Battezzatti. C. genealogy
project, su geni_family_tree. Il Famedio, su
del Comune di Milano; Lacaita, Gobbo, Turiel La biblioteca di C., Le
riforme illuministiche in Lombardia, articolo dal saggio introduttivo a Notizie
naturali e civili della Lombardia, come riportato da Pazzaglia in Antologia della
letteratura italiana, Il monumento
milanese che lo raffigura reca l'iscrizione, A C. -- La massoneria italiana, Mola, Storia della
Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani. Fonte:// manfredi
pomar.com/. l'Enciclopedia, alla voce
"Politecnico", in La Biblioteca di Repubblica, POMBA-DeAgostini; Petrone,
Massoneria e identità, Taranto, Bucarest; Fiorentino, Non proprio un modello:
gli Stati Uniti nel movimento risorgimentale italiano; Teodori, "C.,
Garibaldi, Cavallotti": i radicale anti-clericali, anti-papa, in
Risorgimento laico. Gli inganni clericali sull'Unità d'Italia, Rubbettino; M.
Politi, D. Messina, G. Pasquino, Teodori, Dibattito "Risorgimento
laico". Presentazione del saggio di Teodori, su Radio Radicale, Milano,
Fondazione Corriere della Sera. Tuveri, in Rassegna storica del Risorgimento; Ambrosoli
(scelta e introduz. di). C. e il federalismo, Roma, Ist. Poligrafico e Zecca
dello Stato, Archivi di Stato, Bobbio,
Una filosofia militante: studi su C., Einaudi, Torino; Campopiano, "C. e
La città considerata come principio ideale delle istorie italiane", in
"Dialoghi con il Presidente. Allievi ed ex-allievi delle Scuole
d'eccellenza pisane a colloquio con Ciampi", M. CampopianoL. Gori; Martinico,
E. Stradella, Pisa, La Normale. C. e Tenca di fronte alle teorie linguistiche di
Manzoni, in «Giornale storico della letteratura italiana; Colombo, Montaleone,
C. e il Politecnico, Angeli, Milano, Frigerio, dir. de Rougemont, Bruylant,
Bruxelles, Fubini, Gli scritti letterari di C., in Romanticismo italiano,
Laterza, Bari. Lacaita, L'opera e l'eredità di C., Feltrinelli, Milano. Puccio,
Introduzione a Cattaneo, Einaudi, Torino); C. nel primo centenario della morte,
antologia di scritti, edizioni Casagrande, Bellinzona, Antonio Gili, Pagine
storiche luganesi, Arti grafiche già Veladini, Lugano; Lacaita, Economia e
riforme in C., Ibidem; Cotti, C. in una lettera inedita di Lavizzari, C.:
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Manzoni e la via italiana al realismo, Napoli, Liguori, Cattaneo una biografia.
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Casagrande, Bellinzona; Cattaneo federalista europeo, in «Il Cantonetto, Lugano,
Fontana Edizioni SA, Pregassona, L'istruzione educante nel pensiero di C., Carlo
Moos, Carlo Cattaneo: il federalismo e la Svizzera, Mariachiara Fugazza, Una
lettera inedita di Cattaneo a De Boni. La Repubblica Romana, Ibidem, Moos, C. in Ticino, Bollettino della Società Storica
Locarnese, Tipografia Pedrazzini, Locarno, Michelin Salomon, C.. Una pedagogia
socialmente impegnata, Messina, Samperi; Mario: C. Cenni. Cremona. Cantoni, Il
sistema filosofico di C., Milano; Torino: Dumolard, Matteucci, Romagnosi Cinque
giornate di Milano Federalismo in Italia, Ferrari (filosofo) Liceo di Lugano
Stati Uniti d'Europa Sostrato (linguistica) Università Ca. C. su Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C. in Enciclopedia Italiana,
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Enciclopedia Britannica, C. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
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contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Colombo, C.,
in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Opere Scritti di C. in classicis; Scritti di C.:
testi con concordanze e lista di frequenza Indice Carteggi di C. Altro
Cronologia della vita di C. su storia dimilano. C. Il contemporaneo dei posteri
a cura del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della
nascita Filosofia Letteratura Letteratura Politica Politica Risorgimento Risorgimento Categorie: Patrioti italiani
Filosofi italiani Politici italiani Professore Milano Lugano Scrittori italiani
Personalità del Risorgimento Positivisti Insegnanti italiani Filosofi della
politica Repubblicanesimo Linguisti italiani Sepolti nel Cimitero Monumentale
di MilanoPolitologi italiani Federalisti Deputati della VII legislatura del
Regno di Sardegna Deputati dell'VIII legislatura del Regno d'Italia Deputati
della IX legislatura del Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione
di C., Comitato di Redazione matania edoardo ritratto di c. xilografia, Matania, Ritratto di C.,
xilografia, di Prato La centralità della figura di C. nell’ambito della
cultura italiana giustamente ricollegata
al suo pensiero liberale e laico, agli studi giuridici che hanno contrassegnato
l’intera sua formazione, all’interesse verso l’etnografia e la psicologia sociale.
La sua personalità di studioso poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata
dalla cultura classicista e dalla filosofia dell’illuminismo, si è
concretizzata in varie forme tutte di grande rilevanza: il filosofo,
l’economista, il critico, lo storico, lo scrittore politico, il fondatore della
rivista Il Politecnico e, non da ultimo, il linguista. Nel quadro di
questa ricerca intellettuale così ricca e variegata un posto rilevante assumono
i suoi studi etnico-linguistici di impianto storico-positivo e i suoi progetti
politici orientati sul concetto di “nazionalità”. Con questo termine egli si
riferiva allo stesso tempo sia alla più alta e unitaria aggregazione culturale,
sia alla diretta partecipazione popolare allo sviluppo della società civile.
Proprio sugli interessi linguistici di C. concentreremo la nostra attenzione
mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione
dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della
lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il
vincolo unitario in senso geografico e sociale» (Vitale), perché è da essa che
dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso della
cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della lingua
faceva sì che C. potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua – rifiutando
quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi provinciali – e
sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente visione culturale
di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo manzoniano, sia
all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità di cultura e di
vita civile nazionale. Questa impostazione spiega poi la sua duplice
posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini nuovi, non
antitetici, i rapporti fra i dialetti e la lingua, riconoscendo la
validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio storico da
preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e sottolineando
anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però considerava i
dialetti come elementi superabili nel processo dialettico fondativo della
lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei parlanti nella
lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi riuscivano
progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto. Il primo
scritto di linguistica di C. è quello sul Nesso della nazione e della lingua
Valacca coll’italiana, pubblicato come parte di un lavoro più generale che
riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla lingua italiana e che
non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio sul passaggio dalla
società tardo romana a quella feudale e poi comunale, condotto sulla scia
dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale differenza: mentre
Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in storia degli istituti
giuridici e solo marginalmente si interessava di questioni linguistiche, C. già
in questo primo scritto – il cui carattere storico generale è evidente –
metteva al centro della sua trattazione il problema linguistico, considerando
la lingua come espressione della nazionalità e testimonianza delle vicende
della storia dei popoli. La funzione sociale e in senso lato
politica della lingua viene così enfatizzata con la finalità di studiare le
interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che compongono le catene sociali
che tengono uniti gli individui in quanto membri di una comunità: le parole,
che sono ricche di sottili significati, possono essere comprese pienamente solo
se situate in un contesto sociale più ampio di quello del loro svolgersi
immediato (Lewis). Il nucleo che tiene insieme le memorie individuali e
collettive è insomma costituito dalla lingua e l’esercizio della lingua rafforza
tale nucleo dal quale poi dipende in buona parte l’identità di un popolo, la
sua coscienza storica. In questo caso C. non si riferiva alla lingua solo come
insieme di regole sintattiche e di etichette fonologiche, ma anche come
modalità socialmente e regionalmente differenziata, dunque non la lingua come
sistema, bensì come norma e istituzione: «è nelle parole della lingua che si
condensano i path, i “sentieri” della memoria propri di ciascuna comunità»
(Mauro). Poli C. mostrò fin dagli anni giovanili grande interesse per
l’opera di VICO, anche grazie all’influenza che ebbero su di lui le opere di
Romagnosi e Ferrari che la interpretavano alla luce dell’antropologia laica
dell’illuminismo. Proprio dal saggio di Ferrari, Vico e l’Italie uscito a
Parigi, egli prese spunto per un saggio Sulla scienza nuova che pubblicò sul
Politecnico nello stesso anno. L’interesse per le età primitive e per la vita
collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e nazione denotano la presenza di
motivi vichiani, con i quali C. corresse certi eccessi del razionalismo
settecentesco, senza mai però rinunciare all’idea di progresso, e allo stesso
tempo senza farsi influenzare dagli aspetti teologici della filosofia di Vico.
La sua formazione illuminista lo portò a non condividere nessun mito del
Risorgimento romantico e spiritualista, a celebrare come maestro Locke
contrapponendolo alle fumosità dell’idealismo, ad avversare le posizioni di
Rosmini, Gioberti e anche Mazzini. L’illuminismo nella sua opera «si
rivela sotto il carattere di una radicale antimitologia» (Alessio). Rispetto al
Romanticismo la posizione di C. è contrassegnata da una sostanziale estraneità:
giustamente Timpanaro osserva che parlare – come spesso si è fatto – di un
romanticismo di Cattaneo può essere giusto se ci riferiamo al romanticismo come
una categoria spirituale generale, definendo romantico ogni forma di interesse
per le età primitive, per le tradizioni popolari e per il nesso lingua\nazione.
Ma questo non ci deve far dimenticare che per il Romanticismo inteso come
movimento culturale storicamente definito Cattaneo – come del resto anche
Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento critico e distante motivato dalla sua
avversione al medievalismo, a quella concezione religiosa della vita che i
romantici – sia pure con sfumature diverse – condividevano e al modo ambiguo
con cui veniva da loro esaltato lo spirito popolare, inteso più come
attaccamento alle tradizioni locali e forma di ingenuità, che come aspirazione
democratica. Sui rapporti tra romani e barbari e sulle origini della
lingua italiana C. tornò diverse volte in altri scritti successivi quel saggio,
sostenendo la derivazione dell’italiano dal latino volgare e limitando al
massimo l’influsso delle lingue dei barbari sulla formazione dell’italiano,
tanto più che secondo lui il numero dei barbari dominatori era stato assai
esiguo contrariamente a quanto pensavano molti storici. Per valutare al meglio
questa continuazione dell’italiano dal latino volgare per C. era necessario
tener conto anche dell’influsso esercitato dalle antiche lingue dei popoli
italici conquistati dai romani (etrusco, umbro, celtico ecc..). Questa è
l’importante teoria del sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare
la varietà dei dialetti italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica
piuttosto che il lessico: non si tratta quindi di una generale mescolanza di
lingue, ma della stessa nuova lingua pronunciata in modo diverso in base ad
abitudini fonetiche precedenti che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei
parlanti. Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per
spiegare la posizione che C. ha assunto nel dibattito sulla questione della
lingua, che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del
tempo. C., infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di linguista
militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario riteneva lo
studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento, della
linguistica normativa. Di fronte al problema di come la lingua italiana avrebbe
dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una rigorosa battaglia
antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era diretto –
riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi lombardi
del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia della Crusca,
che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea a ogni
innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il secondo
fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del Manzoni,
ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un concetto di
popolarità che egli non condivideva: «la dottrina della popolarità da cui
primamente si presero le mosse, oramai non significa più che si debba agevolare
l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì che si debbano
raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più domestiche a
quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende un’angusta e inutile
popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità dell’uso e dei frutti»
In alternativa, C. opponeva una forma di lingua che costituisse un punto
d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter
svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo
stesso tempo illustre, «insieme austera e moderna» (Timpanaro), adeguata non
solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e
filosofica. Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già fatto riferimento,
C. dimostra inoltre di avere due maggiori capacità rispetto ad altri autori
italiani suoi contemporanei. La prima era quella di saper andare al di là dei
ristretti confini nazionali, interessandosi ad esempio delle lingue germaniche
e del romeno. La seconda consisteva nell’avere ben presente il principio che la
comunanza di origine tra due lingue è dimostrata dalla somiglianza delle
strutture grammaticali, più che dei vocaboli – principio che ricavava dalla
nuova linguistica comparata di Bopp e dei fratelli Schlegel che, proprio in
quegli anni, erano diventati per lui importanti interlocutori anche polemici e
avevano impresso nuovi sviluppi alle sue idee linguistiche. Biondelli pubblica sul
Politecnico una serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo
anche importanti opere dei comparatisti, informando così il pubblico italiano
sui risultati scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno indotto C. a
prendere una posizione critica di fronte a questa corrente di studi e a
scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee. In questo
saggio C. critica l’idea che dall’affinità delle lingue fosse possibile
ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era invece convinto che non
ci fosse una connessione essenziale tra affinità linguistica e affinità
razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero attentamente distinte;
inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità dell’indoeuropeo,
trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al sostrato. Guardava con
sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva forse la conseguenza più
effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo (Marazzini). Per Schlegel il
sostrato svolgeva soprattutto una funzione negativa corrompendo la perfetta
forma del sanscrito; per C., al contrario, la commistione del sanscrito con le
lingue europee primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato
«rappresentava appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata
dall’azione unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro). La
parentela linguistica non è quindi nel sistema di C. identità di origine, bensì
il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni, dovuto
all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali. Non si
tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo: «Le lingue vive
d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune, che
tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una lingua
commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende
all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle
isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il
carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella
Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i
nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le
lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le differenze
dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione promovono
sempre più l’unificazione dei popoli. Non è che una lingua madre si
scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse, assimilandosi
ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che l’opera si
continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e infine mettono
foce commune in lei. (C.) Sulla base di queste considerazioni, C., nell’ambito
dell’acceso dibattito sulla monogenesi o poligenesi del linguaggio, sosteneva
una posizione particolare: rifiutava evidentemente il primo, ma allo stesso
tempo era anche distante da quel particolare tipo di poligenismo sostenuto da
Schlegel, che consisteva nel separare nettamente pochi tipi linguistici
originali dai quali sarebbero derivate tante lingue cosiddette “figlie”. Per
lui invece esistevano tante lingue primitive originarie che si erano ridotte di
numero, via via che le tribù avevano cominciato a unirsi in aggregati più ampi.
Non esistevano quindi – come per Schlegel – delle lingue perfette fin
dall’inizio (le lingue flessive); tutte le lingue avevano origini umili o, come
scriveva lui stesso, “ferine”. I modelli di questo modo di intendere il
poligenismo linguistico sono Epicuro, VICO e Cesarotti Sempre contro Schlegel,
rivendica la giustezza della teoria agglutinante secondo la quale anche le
forme flessionali più perfette e sofisticate derivavano dall’agglutinazione di
monosillabi che all’origine avevano una funzione autonoma. E in quel articolo
osserva infatti che le declinazioni della lingua latina e greca potevano
derivare da semplici nomi con un articolo affisso (C.). Psicologia delle menti
associate carlocattaneoeditoririuniti La polemica con Schlegel riguardava anche
la questione dell’origine del linguaggio: mentre per il primo la flessione
indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un intervento divino, per Cattaneo,
l’origine del linguaggio non poteva che essere umana, e su questo avrebbe
mantenuto una posizione coerente anche negli scritti successivi come le Lezioni
di ideologia, dove, ad esempio, confutava il sofisma di Bonald che negava
all’uomo la facoltà di costruirsi un linguaggio. Su questo tema come per tanti
altri Cattaneo è vicino alla grande tradizione della linguistica illuminista
che con Locke e Herder aveva respinto recisamente la concezione delle idee
innate e l’origine divina del linguaggio (Prato) ed è del tutto immune dalla
concezione misticheggiante della linguistica tanto cara ai romantici.
Proprio nel Saggio sul principio istorico delle lingue europee, C. si propone
di verificare il rapporto tra fenomeni linguistici e tradizioni culturali,
considerando la ricerca linguistica in stretta correlazione con una riflessione
propriamente filosofica. L’analisi dei fenomeni linguistici non si riduceva per
lui solo a una raccolta estemporanea di dati ma si traduceva in una vera e
propria scienza sociale. Alla filosofia analitica degli Idèologues – che era
rappresentata per gli scrittori italiani soprattutto da Condillac e Tracy –
egli riconosceva senz’altro il merito di aver esaminato con acume e precisione
i problemi del linguaggio, inserendoli in una prospettiva il più possibile
concreta e razionale. Allo stesso tempo era tuttavia consapevole anche dei suoi
limiti, che consistono nell’aver indicato come proprio oggetto di riflessione
una figura di uomo dai caratteri astratti e indipendente dal rapporto con i
suoi simili. Proprio «la famosa ipotesi della ‘statua’ condillachiana gli
appariva emblematica di un concetto destorificato della natura umana»
(Gensini). Non a caso alle conferenze tenute presso l’Istituto Lombardo di
Scienze e Lettere, C.volle dare il titolo di Psicologia delle menti associate,
dove il termine di “psicologia sociale” è inteso appunto in senso antropologico
sia come riflessione sull’uomo a partire dai rapporti che lo legano agli altri
suoi simili, sia come ricostruzione delle mentalità e dei sistemi simbolici
quale risultato di mediazioni sociali. In queste lezioni Cattaneo osservava che
il lievito che fa fermentare le idee non si svolge in una mente sola perché «la
corrente del pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti.
(C.). La genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire dal
linguaggio, in questa nuova prospettiva aperta da C., non può che radicarsi
nella pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da felici
condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto delli
elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità. (C.) Il
linguaggio stesso è la società (C.), ed è proprio su questo terreno che
l’ideologia – ovvero l’analisi delle idee – iincontra la linguistica. Ideologia
è del resto il titolo di una parte del corso di Filosofia che C. aveva tenuto
presso il liceo di Lugano. Non a caso aveva scelto questo titolo se
consideriamo che per la sua chiara derivazione illuminista, l’ideologia
rappresentava la sola reale forma di opposizione al conformismo della cultura
del suo tempo perché l’ideologia era «un’arma efficace per una filosofia
democratica, atta ad opporsi alla marea montante della filosofia restaurata,
allo spiritualismo eclettico in Francia, all’ontologismo cattolico in Italia»
(Formigari). I principi che contrassegnano l’intera ricerca di C. e che spaziano
dal riconoscimento del valore del pensiero scientifico, alla negazione della
metafisica e alla difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente
ai problemi e alle esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori
forme di sviluppo e approfondimento. Dialoghi Mediterranei. Per un ritratto complessivo di C. e dei
rapporti con i suoi contemporanei rimandiamo a Alessio e Mazzali. Studiati in
particolare da Timpanaro. Si veda anche Gensini; Benincà; Geymonat. Negli
Annali universali di statistica, si leggono ora in C. Si trova in C. [Anche per
Giordani la lingua è il vincolo di una comunità che si identifica con la
nazione (Cecioni). Per esempio nella recensione alla Vita di Dante di Balbo
pubblicata sempre sul Politecnico(ora in C.) di cui viene criticato il
contenuto religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. Questa teoria
del sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri scritti
linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense pagine di
Timpanaro e Timpanaro. Qui lo scrittore lombardo riprendeva un’idea ben
radicata nella cultura italiana e che risaliva al De vulgari eloquentia di
Dante. Su questo si può cogliere l’eco della Proposta di alcune correzioni ed
aggiunte al Vocabolario della Crusca del Monti che Cattaneo del resto aveva
letto fin da giovanissimo con passione e interesse. Sulla linguistica dei
comparatisti si veda Morpurgo Davies. Sulla funzione positiva svolta da Biondelli
per lo sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro. Per esempio la
Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. Pubblicato sul Politecnico è certamente il
suo scritto linguistico-etnografico più ampio e originale. Qui C. fa
riferimento a Uber die Sprache und Weisheit der Indier, Sulle idee
filosofico-linguistiche di Schlegel vedi Timpanaro; In particolare su Cesarotti
e sul suo Saggio sulla filosofia delle lingue, che è stato per Cattaneo una
lettura importante vedi Gensini. Pubblicate postume da Bertani nella raccolta
di Opere edite e inedite, ora in C. Ideologia è del resto il titolo stesso di
una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il liceo di Lugano: si
trova ora in C.; Alessio, C. illuminista”, in C.; Benincà, “Linguistica e
dialettologia italiana”, in Lepschy; Bobbio, “Introduzione”, in C., Scritti filosofici,
Firenze, La Monnier, C. Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, a
cura di A. Bertani, Firenze, Le Monnier. C. Scritti filosofici, letterari e
vari, a cura di F. Alessio, Firenze, Sansoni; C., Scritti filosofici, a cura di
N. Bobbio, Firenze, Le Monnier. C., Scritti su Milano e la Lombardia, a cura di
E. Mazzali, Milano, Rizzoli. Cecioni, Lingua e cultura nel pensiero di Pietro
Giordani, Roma, Bulzoni. Mauro, Idee e ricerche linguistiche nella cultura
italiana, Bologna, Il Mulino. De Mauro, Il linguaggio tra natura e storia,
Milano, Mondadori Università. Formigari,L’esperienza e il segno. La filosofia
del linguaggio tra Illuminismo e Restaurazione, Roma, Editori Riuniti.
Formigari, L. e Lo Piparo, a cura di,
Prospettive di storia della linguistica. Lingua linguaggio comunicazione
sociale, Roma, Editori Riuniti. Gensini, Volgar favella. Percorsi del pensiero
linguistico leopardiano da Robortello a Manzoni, Firenze, La Nuova Italia.
Gensini, Cesarotti nei dibattiti linguistici del suo tempo”, in Roggia; Geymonat;
C. linguista. Dal “Politecnico” milanese alle lezioni svizzere, Roma, Carocci.
Lepschy, a cura di, Storia della linguistica, Bologna, Il Mulino; Lepschy,
“Presentazione”, in Timpanaro; Lewis, Prospettive di antropologia, Roma,
Bulzoni. Marazzini, Conoscenze e riflessioni di linguistica storica in Italia
nei primi vent’anni dell’Ottocento”, in Formigari e Lo Piparo, Mazzali,
Introduzione”, in C. Morpurgo Davies, La
linguistica, in Lepschy; Prato, Filosofia e linguaggio nell’età dei lumi. Da
Locke agli idéologues, Bologna, I libri di Emil. Roggia, a cura di Cesarotti.
Linguistica e antropologia nell’età dei lumi, Roma, Carocci. Timpanaro,
Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi. Timpanaro,
Sulla linguistica dell’Ottocento, Bologna, Il Mulino. Vitale; La questione della
lingua, Palermo, Palumbo. Almagià, Anghiera, Pietro Martire d’, in Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana; Baldi, L’origine
del significato romantico di ‘ballata’, in Id., Studi sulla poesia popolare
d’Inghilterra e di Scozia, Roma, Edizioni di storia e letteratura. Biondelli, Atlante
linguistico d’Europa, Milano, Rusconi-Chiusi. C., Epistolario, raccolto e
annotato da Caddeo, Firenze, Barbèra. Id.; Gli antichi Messicani, in Id.,
Scritti storici e geografici, a cura di Salvemini e Sestan, Firenze, Le Monnier;
Tipi del genere umano, in Id., Scritti storici e geografici, a cura di Salvemini
e Sestan, Firenze, Le Monnier, Lezioni, in Id., Scritti filosofici, a cura di
Bobbio, Firenze, Monnier; On the origin etc. Sulla origine delle specie con
mezzi di scelta naturale, ossia la Conservazione delle razze favorite nella
lotta per vivere, di Darwin, Londra, in Id., Scritti letterari, a cura di
Treves, Firenze, Monnier; Id. Carteggi, serie I. Lettere di C., a cura di M.
Cancarini Petroboni e M. Fugazza, Firenze-Bellinzona, Monnier-Casagrande. Id.; Carteggi,
sLettere dei corrispondenti, a cura di C. Agliati, G. Albergoni e R. Gobbo,
Firenze-Bellinzona, Le Monnier- Mondadori-Casagrande. Cella, I gallicismi nei
testi dell’italiano antico, Firenze, Crusca. Cortelazzo; Zolli, Dizionario
etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli. Cotugno, «Rinascimento»
e «Risorgimento», in “Lingua e stile”; Ancona; Carteggio, D’Ancona-Mussafia, a cura di L. Curti, Pisa,
Scuola Normale Superiore; Filippi, L’uomo e le scimie, in “Il Politecnico”; Forcellini
E. Totius latinitatis Lexicon, Padova, Tipografia del Seminario, Bettinelli.
Foscolo, Epoche della lingua italiana, in Id., Opere, a cura di Puppo, Milano,
Mursia, Fugazza. C., Scienza e società, Milano, Angeli. Galton F., C., Osservazioni
meteorologiche sincrone fatte in Inghilterra e ridutte in forma di mappa dal
Sig. F. Galton di Londra, in “Il Politecnico”; Geymonat, C. linguista, Roma, Carocci, C. prepara le Lezioni di Ideologia a Lugano, in
“Nuova informazione bibliografica”; Gherardini, Voci e maniere di dire italiane
additate a’ futuri vocabolaristi, Milano; Bianchi. Id., Supplimento a’
vocabolari italiani, Milano, Bernardoni. Giovannetti, Nordiche superstizioni.
La ballata romantica italiana, Venezia, Marsilio. Lacaita, Gobbo, Priano.,
Laforgia (a cura di), Il Politecnico” di C.. La vicenda editoriale, i collaboratori,
gli indici, Lugano-Milano, Casagrande; Marazzini, L’ordine delle parole. Storia di vocabolari
italiani, Bologna, il Mulino. Mussafia, Reihenfolge der Schriften Ferdinand
Wolf’s, Wien, Hof- und Staatsdruckerei. Ramusio, Navigationi et viaggi,
Venezia, Giunti, vol. III Ranalli, Vite di uomini illustri romani dal
risorgimento della letteratura italiana, Firenze, Pagni. Romanini, Se fossero
più ordinate, e meglio scritte. Ramusio correttore ed editore delle Navigationi
et viaggi, Roma, Viella. Rusconi, Sopra i lai o canti degli anglo-normanni, in
“Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti o Biblioteca
italiana”; Delle Lezioni tenute al Liceo di Lugano tra anni Cinquanta e
Sessanta, si analizzano le versioni preparatorie di un paragrafo dedicato
all’originarsi della poesia da canti e balli popolari, con particolare
attenzione alla cosiddetta ballata. Ciò consente di riconoscere in Cattaneo,
che in quel periodo ha ripreso l’attività di studio e divulgazione, il
perdurare d’interessi terminologici e il legame con dibattiti che avevano
coinvolto suoi maestri, colleghi e amici. Curiosità e passioni s’intrecciano
con letture, alcune delle quali avranno eco nella seconda serie de "Il
Politecnico", altre rimarranno limitate alla pratica didattica e si
possono in parte scoprire grazie agli appunti preparatori. Indice del saggio su
C. linguista – recensione Resurggimento.
Anche il latino
è lingua di
tutta Italia, ma
gl'Italici non sono tutti
romani. I dialetti ne sono testimonianza. La
serbata integrità nativa
delle molteplici favelle
del Caucaso di fronte
alle indo-perse riflette
l'imagine di quelle
che popolano l'Italia
innanzi che la
copre LO STRATO LATINO. Ne
invasioni armale, né
importazioni di civiltà,
ne sovrapposizioni di lingue
alterarono i confini
etnografici dei tusci,
dei liguri, dei cisalpini, dei veneti e
d'ogni altra . Non conosciamo ancora le
svariate forme naturali
del nostro paese,
e nemmeno i nostri dialetti
e le riposte
loro derivazioni. Non conosciamo
i secreti nessi
che collegano questa
lingua nostra alla civiltà
precoce della Persia
e dell' India,
e alla lunga
barbarie dell' antico
settentrione. La filologia puo classificare le
duemila lingue e dialetti
morti e vivi
in famiglie, come
si costuma nelle faune
e nelle flore.
La scienza della lingua
è luce aggiunta
alla scienza dei
luoghi, dei tempi
e dei monumenti, a
rischiarare il buio
della storia. Per lei
si scoprono le
cause onde i
popoli comunicarono tra
loro con certi
modi peculiari i
propri pensieri. Per lei
si rileva, da
lieve indizio di
scrittura salvata, una
gente ignota alla
storia. Si sorprendono
sorelle nazioni che l'
idioma apparentemente diverso
inimica e in un
dialetto si palesano
segni di origine
disforme e di ANTICHI ODII IN NAZIONE STIMATA OMOGENEA. Per
lei si assiste
al ritorno su
straniere labbra d'un
vocabolo esulato dalla patria
in età remota. Per
lei si rintracciano
in una valle
le reliquia di una
lingua fuggita dalla
pianura negl’ attriti del
commercio o della
conquista. Per lei si contemplas
il transito d'una favella celebrata
da una letteratura e
l'ascensione d'oscuro
dialetto del Lazio a dignità
di idioma illustre
in compagnia della fortuna
militare del popolo romano. Per
lei rilucono le affinità e
le diversità delle
lingue tutte. La nostra
lingua italiana ha una
nota affinità primamente
col latino -- e colla altra lingua
dal latino derivata: il francese. Queste lingue
viventi e li
innumerevoli loro dialetti
si classificano dai
linguisti sotto il
nome commune di lingue
romane o romanze
o latine. Come una
famiglia, si deduce che
i dialetti e
pronuncie provinciali sono
fili conduttori ad un’origine
prima. Si deduce che
la varietà dei dialetti,
delle pronuncie e
dell'aspetto degl’italiani
trova esplicazione e
commento nella varietà
delle stirpi e di
quella lingua dei romani. Si deduce
che l'azione cementatrice
della lingua dei Romani s’ è
compiuta soltanto sovra
popoli barbari, e tali sono gl’ europei
alla comparizione delle
caste asiatiche; che
avendo raggiunto un
certo grado di
coltura, ì baschi
RESISTENO alla lingua dei Romani. Quando noi
troviamo nel tedesco
e nel gotico
la radice della
parola latina iraesagus,
dobbiamo indurre che qualche
antichissima relazione vi
fu tra li
avi dei Romani
e li avi
de' Goti. Nello stesso
modo in cui
possiamo riferire l'italiano ed il francese – o lingua gallica, come preferisco
-- alla commune loro
madre, la lingua
latina, o dei romani, come preferisco,
possiamo riferire il latino,,
il greco, il
sanscrito, il zendo
ad una commune
origine celata nella
notte dei tempi. Se
si paragona la lingua dei romani alle due lingue
sue figlie, l’italiano e il
gallico, si trova che
queste, cioè le
lingue moderne, hanno
maggior copia di
voci astratte. La lingua dei romani ha
la voce “fortis” -- ma non ha
la voce “forza.” Da
vir abbiamo della lingua dei romani la “virtus”,
l'italiano e il
francese virtù, vertu. Ma
l'italiano e il francese
hanno inoltre le
parole derivate “virtuoso”,
:virtuosamente”, vertueux, vertueusement; e
il francese ha
inoltre il verbo
évei^tuer. Le voci
italiane ente, entità,
essenza, essenziale, essenzialmente, se
vengono ricondotte alla
forma della lingua de romani: ens, entitas,
essentia, essentialis, essentialiter, non si
trovano mai nei romani antichi , ma
solo in quelli
dei bassi tempi. L’'inglese, che
per una metà
de' suoi vocaboli deriva
dall'antica lingua anglo-sassone e per
l'altra metà dalla lingua dei romani. Nelle lingue
indo-europee la radice
è quasi sempre
unisillaba. Una radice bisillaba
-- come animo, columna,
vidua, susurrus, titubare,
vacillare, oscillare tentennare, dondolare -- si puo considerare
o come raddoppiamento o
come derivazione di una voce
semplici più antiche. Nella lingua dei Romani, un verbo
semplice p. e.
mitto, fero, traho
colle sue inflessioni
di persona, di
numero, di tempo,
di modo, e
coi diversi casi
de' suoi participj. produce nella
sola forma attiva ,
circa un centinaio
dì inflessioni -- mitto,
mittis, mittens, missuriis
etc. etc. -- coir aggìuiìta
delle forme nella voce passiva --
mittor, mitteris, missus,
mittendus -- e dei nomi
ed aggettivi verbali
-- missio, missilis y missivus -- ne
forma duecento. Questo numero
può ripetersi tante
volte quanti sono
i verbi derivati
e composti, p.
e. mittito, AD-mitto,
A-mitto , eie. epperò
dalla sola radice
unisillaba di mitt-o
possono diramarsi tremila
suoni piu o
meno diversi, ciascuno
dei quali esprime
un'idea in qualche
grado modificata e
distinta. P. e. , nelle tre
voci mitto, misi,
mitfam, vi è
per lo meno
la differenza del
tempo; nelle voci missuris
e mittendis sono
espresse tutte quelle
idee che in
italiano significhiamo con
dire: a quelli
che manderanno , ovvero
a quelli che
devono essere mandati.
Cosicché qui tre
sillabe della lingua dei Romani equivalgono da
sette a tredici
sillabe nella lingua
degl’italiani. Codesti tremila vocaboli
nell’ idioma primitivo
sono rappresentati da
una sola sillaba:
“mit.” È come
la quercia rappresentata
da una ghianda.
Qualunque sia dunque
la dovizia delle
forme nelle lingue
derivate, abbiamo questa legge
di linguistica che
le lingue veramente
primitive hanno potuto
consistere in poche
centinaia di radici
monosillabe. È un fatto
linguistico che la lingua dei
Romani, la lingua madre, nel
propagarsi di paese
in paese e
nel venir adottate
da numerose persone,
hnnno perduto gran
numero delle loro
inflessioni. La lingua
degl’italiani paragonata alla lingua dei Romani, non ha
più i verbi
passivi, né i
participi futuri, né i partecipali,
né il genere
neutro, e le
declinazioni dei nomi
sono ridutte a
due sole desinenze: singolare e
plurale. Per rilevare
le affinità non
basta paragonare isolatamente
una lingua con
un'altra, ma è
necessario ravvicinarla a
tutta la serie
delle lingue della
stessa famiglia. A prima
vista non appare
similitudine tra il
vocabolo dormire e il
tedesco traumen, che
vuol dire sognare. Ma
appare di più
nell’ inglese “dream”,
che ha le
stesse consonanti della lingua dei Romani e lo
stesso senso del
tedesco. Inoltre nelle due
voci della lingua dei Romani,
somniis e somnium,
e nelle italiane
“sonno” e “sogno”
si trova il
doppio senso di
dormire -- e sognare. La pronuncia
della lingua dei Romani e della lingua degl’italiani proviene dalle
loro origini, ossia dal
genio imitativo più
o meno delicato,
dalli organi vocali
più o meno
flessibili, e dalle
abitudini passate in
tradizione. E più
facile mutare il VOCABOLARIO
dagl’italiani, dargli una
nuova lingua, che
mutare la sua
pronuncia. Questa pronuncia sopravvive nei
dialetti, anche dopo
che le lingua e mutata. Ancora
oggi, la pronuncia e
il dialetto segnano
in Italia precisamente
i confini antichi
della Gallia Cisalpina
e della Carnia
con la Venezia ,
la Toscana e
la Liguria. In Italia, due
soli dialetti hanno
aspirazione: il toscano
e il bergamasco.
I due dialetti
più dolci (forse) sono
il veneto e
il siciliano, alle
opposte estremità dell'Italia. VICO
rinvenne nelle radici
latine le vestigia
d'una antica sapienza italica e fa essendo
a quei tempi
ignota ancora la
scienza linguistica e
non osservata la
consonanza della lingua dei
Romani col zendo e
col sanscrito, Vico
attribuì quella sapienza alli
aborigeni dell'Italia, e
perciò scrive il
De antiqiiissima Italorum
sapientia et latinae
linguae originibus emenda, a correttamente! Carlo Cattaneo.
Keywords: cinque giornate, community, communita, diada, monada, associazione,
contratto sociale, conversazione, psicologia filosofica, psicologia, sociologia
filosofica, ego e alter ego, logica e linguaggio, il latino, l’italiano di lombardia,
il natale di Cattaneo – regione Lombardia – provincia -- – Milano. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cattaneo – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I love
Cattaneo, but then you would, wouldn’t you – He reminds me of H. L. A. Hart,
and then *I* am reminded that Cattaneo translated Hart to Italian as a pastime!
What I like about Cattaneo is that instead of focusing on “Roman law” and
Cicero – he focuses on Pinocchio!”. Si laurea a Milano sotto Treves. Su consiglio
di Treves e Bobbio ha soggiornato al St. Antony's, criticando Hart, professore
di Giurisprudenza, di cui su suggerimento di Bobbio e Entreves ha tradotto “Il
concetto di legge”. Insegna a Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza
l'evoluzione storica delle teorie della pena e le opere dei grandi giuristi
italiani. Membro della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre
opere: Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il
positivismo giuridico” (Milano); “Il partito politico nel pensiero
dell'Illuminismo e della Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche”
(Milano); Illuminismo e legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione”
(Milano); “Diritto liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia
del diritto, Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena”
(Milano); Il problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato
totalitario, Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica
del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano);
“Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la
filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena,
diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della
rivoluzione” (Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto
Discorsi alla nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo
giuridico penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo
ed arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo
penale di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la
critica della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo
giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza.
Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta
ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio
filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica”
(Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto,
Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la
separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e
Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del
problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e
diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano,
Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune
osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della
giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del
V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes
e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione
francese, in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo
giuridico inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito
politico nel pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano,
Giuffre); Le dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica
Stampa); Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto«, “Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’
della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di
Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di
Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu,
Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso
di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico
di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni
sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi
Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto
Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di
Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita
della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della
Politica, Bari, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e l'opera, testo della
commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna dell'U niversita di Sassari,
in »Studi sassaresi«, Milano); Le elezioni e il liberalismo. Autonomia
dell'Universita e neo-corporativismo, in »La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes,
ovvero i limiti del potere supremo e il diritto co-attivo dei cittadini contro
il sovrano (Milano, Giuffre); Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini
--; Considerazioni suI diritto di resistenza e liberalismo, in »Studi
Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di resistenza, Milano); La dottrina penale
nella filosofia giuridica del criticismo, in Materiali per una Storia della
Cultura Giuridica, ICorso di filosofia del diritto, Ferrara, Editrice
Universitaria); La filosofia della pena nei secoli XVII e XVII: corso di
filosofia del diritto, Ferrara, De Salvia). Discutendo giurisprudenza con
Treves, pone il problema che sarebbe stato al centro di tutta la sua vita di
uomo impegnato nello studio, nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi
suI rapporto fra “rivoluzione” e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto”
(de facto) e “diritto” (de iure), giunge alIa conclusione che da un punto di
vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo non e possibile
distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza, autoritatismo, perche il
diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma soltanto se e concretamente rivolto
ad attuare il valore del giusto e rispetto della persona umana. Il rapporto fra
forza autoritaria e la forza della legge, che da il titolo a uno suo
saggio, e la relazione fra diritto o gius come valore, costituisce infatti la
questione su cui non cessa mai di interrogarsi, nella prospettiva del
fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del concetto di ‘giure’ non e
riducibile alla volizione o ragione pratica del legislatore propriamente
adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo, C. indica la ricerca del giusto
come compito specifico della filosofia del diritto e pre-annuncia il suo
intero percorso filosofico caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia,
come assere Socrate, ha il suo carattere precipuo nel porre un problema
piuttosto che nel risolverlo o dissolverlo, e, come nel mito platonico della
caverna, l’analisi concettuale si muove suI piano della trascendenza
escatologica, diverso e superiore a quello della realta empirica o naturale. Anche
la filosofia giuridica, in quanto filosofia, e aperta alla escatologia metafisica
e, avendo come base la conoscenza del codice u ordine del diritto
romano-italiano *positivo*, pone il problema della sua valutazione escatologica
alIa luce del valore della dignita kantiana umana e del concetto di un “stato
di diritto”. Compito del filosofo non e dunque *descrivere* il diritto positive
fattico empirico esistente, ma conoscerlo per condurne una meta-analisi critica
al fine del suo adeguamento al modello ideale platonico socratico di giustizia
contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema giuridico della rivoluzione. Il concetto di rivoluzione nella scienza e nel
diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia del diritto di Treves, in
Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un delicato rapporto, Paova. La
filosofia del diritto: il problema della sua identita, in Filosofia del
diritto. Identita scientifica e didattica oggi, Cattania. IL tema del rapporto
tra Diritto e Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo
che ha pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di
Dante Alighieri”, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato
nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari., “Goldoni e
Manzoni. illuminismo e diritto penale” e “Suggestioni penalistiche in testi
letterari. Nella Introduzione del volume su Goldoni e Manzoni rileva che i
rapporti tra diritto e letteratura e la discussione di problemi giuridici in
opere letterarie non sono stati in generale molto studiati; non mancano
tuttavia alcune ricerche concernenti soprattutto il diritto nel teatro
Sono stati compiuti degli studi sul significato giuridico di alcune opere di
Shakespeare daJhering e Kohler ed è stato esaminato il pensiero di
alcuni poeti tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono occupati
Carrara, Vaturi , Vecchio, Mossini e lo stesso Cattaneo.
Vi sono importanti opere della letteratura europea che hanno affrontato
problemi giuridici rilevanti come il “Kolhaas” pubblicato da H. von
Kleist e “Delitto e Castigo” di
Dostoevskijj,l’ Autore rileva peraltro che la presenza di temi giuridici nella
letteratura è particolarmente rilevante nell’illuminismo data la sensibilità
civile di questo movimento. Il volume è dedicato all’esame degli aspetti
giuridici – soprattutto di diritto penale – di due grandi autori italiani:
Goldoni ed Manzoni. Cattaneo rileva l’accostamento tra i due grandi
letterati deriva da alcuni elementi di contatto: Goldoni passò l’ultima parte
della vita in Francia e vide il declino dell’ancien regime francese e Manzoni
trascorse parte della giovinezza in Francia nel periodo napoleonico. Goldoni
visse gli ultimi anni della sua vita a Parigi nei primi anni della Rivoluzione
francese ma non sappiamo come abbia seguito le fasi della stessa mentre Manzoni
li seguì e scrisse l’ode “Del trionfo della libertà” che manifesta le opinioni
del suo Autore e verso la conclusione della vita scrisse “La rivoluzione
francese e la rivoluzione italiana” un saggio che fu pubblicato postumo e che,
secondo C., è ispirato a sentimenti di libertà i due
scrittori hanno un orientamento differente Goldoni, bonario ed
ottimista, esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una punta di
satira e critica della società mentre Manzoni esamina gli aspetti essenziali e
drammatici della esistenza umana, sotto il profilo religioso Goldoni
risulta tiepido ed alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere
affronta il problema religioso. Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra
i due letterati è già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione
espressa da Ferdinando Galanti che evidenzia che Goldoni diede all’ Italia
la nuova commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è importante per
la nuova tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri originali,
vivi e che rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe, parlanti,
che saranno ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro di
famiglia. Galanti ritiene che Manzoni abbia continuato, nel cammino della
verità, l’opera di Goldoni. Questo giudizio è ripreso da Federico
Pellegrini in uno scritto che indica come elemento comune <il rispetto della
natura> e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni in materia di
lingua. Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei Promessi Sposi
l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme e vi è una
processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è una
idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i drammi.
Pellegrini raffronta ed accosta i personaggi delle opere dei due
letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano. Il Mazzoleni ha
istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”
commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese
Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di
Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza. Il Petronio nel
suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro
volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica”: “Una prima volta con
l’illuminismo, col Parini e Goldoni; una seconda con il romanticismo lombardo,
i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del Manzoni
nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale ma singolare,
senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo
dopoguerra” Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e Collodi nel suo
studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più grandi umoristi
del mondo” scrivendo che “Mentre Manzoni narra di lotte intime di uomini
travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e degli sforzi di quel
Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli elementi dell’essere
umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla ripida china che conduce
a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col quale Goldoni guarda i suoi
attori dice che il suo problema è la socialità: scontri ed incontri, beffe e
incomprensioni, cadute e risollevamento nelle opinioni altrui” C. evidenzia
anche che un breve cenno comparativo tra Goldoni e Manzoni sotto il profilo
giuridico è svolto anche daJemolo il quale scrive a riguardo che Goldoni,
che aveva studiato giurisprudenza, cercò nella commedia “L’Avvocato veneziano”
di darci una figurazione di avvocato virtuoso, per cui la toga è davvero una
divisa di soldato: Manzoni nel mondo del diritto non ci ha lasciato che la
immagine imperitura di Azzecca-garbugli, il ricordo caricaturale delle Gride
dei Governatori e quello del conte-zio, alto burocrate del suo tempo, il quadro
atroce dei giudici della Colonna infame. Padoan ha rilevato in un suo
scritto che anche oggi, e non senza qualche ragione, potremmo indicare in
Goldoni una polemica contro l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un
atteggiamento di interesse verso il mondo degli umili, che non fu senza
influenza sul Manzoni. C. conclude l’introduzione al volume affermando che
le citazioni prima esposte sono sufficienti a giustificare la trattazione dei
due autori in un unico volume , la sua analisi prende in considerazione la
visione del problema giuridico dei due scrittori ed analizza il pensiero
giuridico nelle sue premesse di fondo.nelle sue fondazioni filosofiche, nella
misura in cui fare questo è possibile; a tal fine ritiene che l’elemento
unificatore dei due autori in relazione al diritto, indicato anche nel titolo è
l’illuminismo L’autore evidenzia che nel Goldoni avvocato,
difensore della professione forense, che mette in rilievo diversi problemi
giuridici in molte sue commedie, si risente, in modo non marcato, l’influenza
dell’Illuminismo, che è la radice della sua satira sociale, della sua garbata
critica della nobiltà e delle disuguaglianze sociali, come in Manzoni critico
della giustizia umana e della incertezza giuridica, che satireggia i pubblici
funzionari e gli avvocati, raccogliendo l’eredità del grande nonno
Beccaria. C. ritiene che, oltre le apparenti differenze,.<< sia
rintracciabile, nel pensiero di Goldoni e di Manzoni, il filo conduttore dato
dai principi fondamentali dell’illuminismo giuridico, principi che si possono
individuare essenzialmente nella certezza del diritto e nella dignità della
persona umana. L’autore riferisce degli Studi su Goldoni avvocato rilevando che
la critica ha tenuto presente in modo primario del significato letterario delle
sue opere un breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto
da un grande recensore contemporaneo al commediografo Schiller nelle due
recensioni alla traduzione tedesca dei “MÉMOIRES.” nella
letteratura italiana Zanardelli, importante esponente dell’Italia
risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume “L’Avvocatura”
soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato veneziano” delineato come
il tipo ideale dell’avvocato. Gli scritti italiani più importanti dedicati
a Goldoni avvocato, scarsamente ricordati nelle bibliografie goldoniane,
sono opere di due studiosi parenti di C. Il primo è l’articolo “Goldoni
avvocato” di Pascolato il secondo è di Cevolotto, avvocato di Treviso
Pascolato rifiuta la tesi che Goldoni sia stato un dilettante della
giurisprudenza ed afferma la reale e profonda cultura giuridica attestata
dall’esercizio dell’attività forense a Pisa dove vinse persino tre cause in un
mese e che evidenziano il carattere schietto e buono anche in mezzo ai volumi
dei dottori; Cervolotto esamina gli studi giuridici di Goldoni di tre anni a
Pavia, ad Udine, la sua attività di coadiutore del cancelliere criminale a
Chioggia e la sua laurea in legge a Padova. Un capitolo è dedicato alla
attività professionale a Pisa dove esercitò più nel criminale che nel civile.
Il penultimo capitolo è dedicato all’esame degli aspetti giuridici delle
commedie goldoniane specie la commedia “L’Avvocato veneziano” che costituisce
una esaltazione del foro veneto e altre note commedie. Cervolotto ritiene che
Goldoni fu senza dubbio giurista, oltre che avvocato di valore non certo
mediocre o comune evidenziando i buoni studi benché saltuari da lui compiuti e
la sua conoscenza di molte questioni giuridiche presenti nelle sue opere.
Cattaneo cita anche gli studiCozzi e di Zennaro Il secondo capitolo
è intitolato “Goldoni, la procedura criminale e Il problema penale” e C.
riporta un passo dei “Mémoires” di Goldoni che tratta il tema della procedura
criminale ed è commentato dal Pascolato che rileva che <<quella procedura
criminale, colla continua ricerca della verità, coll’assiduo studio dei
caratteri, lo aveva ammaliato: è una lezione interessantissima per lo studio
dell’uomo. Di verità e di caratteri Goldoni faceva allora provvisione per i
giorni, ancora lontani, della sua gloria. E intanto voleva diventare
cancelliere Goldoni sottolinea la presenza nel diritto vigente di limiti
posti all’inquisizione dell’imputato, a tutela di questi ma non appaiono nelle
sue opere chiari intenti riformatori della procedura criminale. IL terzo
capitolo è intitolato “L’Avvocato veneziano: Goldoni fra diritto civile e
diritto naturale” C. rileva che Goldoni stesso mette in rilevo i due
fondamentali temi della commedia: la difesa della onorabilità della professione
forense mettendo in scena la figura di un avvocato onesto ed onorato e la
contrapposizione di due sistemi giuridici e giudiziari, quello di diritto
comune e quello veneto, dando a quest’ultimo la preferenza; la commedia
come è stato evidenziato da alcuni studiosi, rompe una tradizione letteraria e
teatrale di derisione e messa in cattiva luce della figura dell’avvocato,
dell’uomo di legge che troveremo invece nella figura completamente negativa del
dottor Azzeccagarbugli ne “I Promessi sposi” Il quarto capitolo si
intitola “Il giusnaturalismo illuministico di Goldoni: La Pamela e altre
opere” C. rileva che le radici illuministiche e giusnaturalistiche
del Goldoni si manifestano in rapporto alla procedura penale, al diritto
penale, al problema delle fonti del diritto, ai rapporti fra la funzione del
giudice e le opinioni dei giuristi. Il giusnaturalismo e l’Illuminismo di
Goldoni si manifestano soprattutto nelle opere teatrali aventi come oggetto, o
come sottofondo, il tema fondamentale della uguaglianza fra gli uomini, al di
là delle differenze fra le classi sociali. Tra le opere significative per
questa prospettiva giuridica teatrali emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la
Dama”, “Il Feudatario” “Le femmine puntigliose” il dramma giocoso per musica “I
portentosi effetti della Madre Natura” e la tragicommedia (così definita
dall’autore stesso) in versi “La bella selvaggia” che trattano il contrasto tra
natura e società, infine la commedia in versi “La peruviana” che vengono
esaminate negli aspetti più essenzialmente rilevanti sotto il profilo
filosofico-giuridico dall’autore che conclude il capitolo
affermando che: “Quando si trattava dei valori supremi, come la pace, anche
Goldoni sapeva essere religioso e invocare la grazia del cielo” La
seconda parte del volume è dedicata all’analisi di Alessandro Manzoni. Il
primo capitolo si intitola “Studi su Manzoni e il diritto” e Cattaneo
passa in rassegna gli studi esistenti dedicati espressamente ed esclusivamente
o all’idea di giustizia nel pensiero di Manzoni, o agli aspetti giuridici della
sua opera. L ‘autore commenta il lungo articolo di Zino, “Il diritto privato
nei “ Promessi Sposi”, esamina poi l’articolo di Alessandro Visconti “Il
pensiero storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue opere”.. Il più
importante e più completo studio sul pensiero giuridico di Manzoni è il volume
di Roberto Lucifredi. “Manzoni e il diritto”. Tale volume si conclude con
alcune considerazioni generali sulla mentalità giuridica di Manzoni e Lucifredi
ritiene che Manzoni era molto dotato per lo studio del diritto e sarebbe
divenuto un ottimo cultore delle discipline giuridiche, un ottimo magistrato,
un ottimo avvocato nel senso più nobile della parola e della funzione.. Nel
1939 Fortunato Rizzi ha pubblicato il volume “Alessandro Manzoni. Il Dolore e
la Giustizia” di cui la terza parte è dedicata al problema della
giustizia. Nel 1942 è uscito il saggio di Opocher “ Il problema della giustizia
nei Promessi Sposi” in cui ribadisce che tutto il capolavoro manzoniano è
essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude affermando: ”I Promessi
Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso cui la Provvidenza sana
le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire soprattutto, la storia
attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze, facendone lo strumento
della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda ha pubblicato uno
scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni” in cui ribadisce
che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una grande aureola giuridica,
nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico di Rosmini; per lo
scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai contrastare con la
morale. Concludo ricordando la strenna natalizia dell’editore Giuffrè
pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il titolo “<Se
a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei Promessi Sposi” con saggi
di noti docenti quali E. Opocher e Cotta. In “Valori morali, giustizia, diritto
naturale” C. ritiene opportuno esaminare la concezione manzoniana della
giustizia, anche nelle sue premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di
pensieri inediti e di scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due
postille redatte da Manzoni e da un brano scritto dallo stesso C. deduce che il
grande scrittore lombardo esalta la tesi della certezza delle verità morali,
tra le quali l’idea del giusto istituendo un paragone tra verità morali e
verità matematiche. Secondo C. questo brano manzoniano è affine alla
dottrina platonica delle idee espressa nel dialogo “Parmenide” , vi è
inoltre una affinità con Kant che afferma che non è cosa assurda pretendere di
far derivare il concetto di virtù dall’esperienza, perché ciò significherebbe
fare della virtù qualcosa di ambiguo e di mutevole secondo le circostanza. In
realtà è sulla base della idea di virtù che si giudicano gli esempi
empirici di virtù e di comportamento morale. L’Autore richiama anche la
filosofia di Rosmini, il più grande filosofo italiano, la cui filosofia si
fonda sull’idea dell’essere e cita un brano del “Nuovo saggio sull’origine
delle idee” .Va anche evidenziato che Manzoni ribadisce una sostanziale e
piena identità fra morale e religione, come si rileva dalle “Osservazioni sulla
morale cattolica “ dedicato alla critica della distinzione fra filosofia morale
e teologica. Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi umane non raggiungono
mai la giustizia, viceversa, la religione conduce naturalmente alla giustizia,
senza ostacoli, perché si appella alla coscienza, perché porta a dare volontariamente
(in vista di un bene futuro), il che non provoca opposizioni, ma solo
ringraziamenti e benedizioni. In “Le gride e l’illuminismo giuridico ne
< I Promessi sposi>”. C. rileva che se il problema morale e
religioso della giustizia pervade tutta l’opera di Manzoni, ed in particolare
il suo celebre romanzo, Stampa, figliastro dello scrittore lombardo, narra che
Manzoni dichiarò che la prima idea del suo romanzo gli venne dalla lettura
della grida fatta vedere dal dottor Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono
minacciate pene contro coloro i quali <con tirannide> e con minacce
costringono un prete a non celebrare un matrimonio. Dall’esame dei brani
di ”Fermo e Lucia” e dei “I Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una
pesante critica al sistema, in quei tempi diffuso, di consorterie e di caste,
inoltre, descrivendo criticamente la società e la situazione giuridica di
Milano sotto la dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le
leggi penali non dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non
dovrebbero avere Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato
l’impunità del colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei
privati indifesi da parte dell’autorità Manzoni raccoglie l’eredità
dell’Illuminismo giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e
dell’incertezza giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione
precisa delle fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente
prolissa dei delitti, a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio
degli esecutori della legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle
gride ed ai quali è sottoposta ogni mossa dei cittadini Lo scrittore lombardo
critica anche la comminazione di pene sproporzionate, misura considerata
ingiusta ed inefficace per la prevenzione dei crimini, l’impunità dei colpevoli
è indicata dagli illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla
eccessiva severità o crudeltà delle pene. Il quarto capitolo si
intitola “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale”.
Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si
traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito
e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi”;
l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la
conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo,
relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la
carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e
ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza
processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti.. Questo
brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base della
teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare esorbitante
rispetto alla effettiva colpevolezza del reo, mirata esclusivamente a <dare
un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed utilitaristico; in tal modo
viene peraltro giustificata la punizione dell’innocente. In altri passi
del celebre romanzo manzoniano si rileva un atteggiamento mirato ad indicare
non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia e l’inutilità della prevenzione
generale, unitamene ad una condanna della moltiplicazione dei supplizi, che
finisce per favorire l’impunità, come messo n evidenza dagli scritti di molti
giuristi illuministi. Significativo è a riguardo la conversione dell’Innominato
e le ragioni per cui il potere pubblico non intende procedere contro lo stesso
per i suoi passati delitti, in al modo viene dimostrata l’inefficacia della
punizione nel caso di una persona che ha cambiato vita perché questa potrebbe
avere solo l’effetto opposto a quello voluto Nel penultimo capitolo il
commento di Manzoni sulla situazione del bando di Renzo dal Ducato di Milano
dopo le vicende della giornata di San Martino denota la tesi dell’impunità come
risultato dell’eccessiva proliferazione di minacce legislative e del carattere
esorbitante, situazione che porta ad una frattura tra il comando legislativo e
l’esecuzione della pena. C. conclude istituendo un parallelo sostanziale
ed oggettivo (se pure a qualcuno potrà apparire sforzato) tra Manzoni e Kant,
dato che: “la visione della morale, nonché del diritto, ed in particolare
del diritto penale è svolta in una prospettiva anti-empiristica e
ani-utilitaristica, ed è caratterizzata da un <liberalismo cristiano >,
vòlto a difendere la persona umana da ogni prevenzione collettivistica e
<sociale>” Il quinto capitolo si intitola“ La storia della
Colonna Infame” L’autore ribadisce che il motivo fondamentale della
critica conto la ragione di stato, contro l’utilitarismo sociale, contro il
prevalere dell’interesse generale e sociale sui diritti individuali sta
alla base dello scritto “Storia della Colonna Infame” due anni dopo l’edizione definitiva de “I
Promessi Sposi”.. Di recente tale opera ha sollevato critiche severe sotto il
profilo storiografico e si è accusato il Manzoni di non essere uno storico, ma
di guardare alla storia da moralista, sul modello del cosiddetto
<astrattismo> illuministico settecentesco, e quindi di non studiare le
vicende storiche con partecipazione e simpatia ma di giudicare i comportamenti
umani secondo un codice morale superiore Tale critica è stata formalizzata da
Benedetto Croce . Dopo una lunga ed attenta analisi dello scritto e di
alcuni dei suoi maggiori studiosi C.conclude che i punti di vista in relazione
ai quali il volume manzoniano ha dato un importante contributo sono tre:Manzoni
ha dato un contributo alla comprensione della storia, affermandone la non
inevitabilità e questo punto ha suscitato le maggiori discussioni
interpretative e le reazioni negative dei seguaci dello storicismo. Tale
scritto manzoniano, come ha sottolineato Rovani, <non è per nulla inferiore
alle altre opere del Manzoni, anzi rivela il suo ingegno e la sua dottrina e la
profonda sua acutezza anche nelle materie giuridiche> Tale scritto è
un’opera giuridica, è senza dubbio la più giuridica del Manzoni. Il significato
più importante del saggio è quello morale, come rilevato da Tenca, Rovani e
Passerin d’Entreves e consiste nella difesa del libero arbitrio, della libertà
del volere e nella rivendicazione della responsabilità morale dell’uomo.
Libertà interiore dell’uomo, responsabilità morale, dignità umana; questo è il
trinomio in cui Manzoni fonda la sua lezione morale o, come potremmo dire, la
sua lezione etico-giuridica Il sesto capitolo si intitola “Manzoni
e la criminologia” L’autore evidenzia che l’analisi della “Storia della
Colonna Infame” ha portato a mettere in rilievo l’idea del libero arbitrio
dell’uomo quale elemento centrale dell’impostazione manzoniana dei problemi
giuridico-penali, della sua condanna dell’operato dei giudici milanesi. Vi sono
studiosi come Graf e Sergi che hanno creduto di vedere in tale opera di
Manzoni ed in alcune figure di criminali de “I Promessi Sposi” dei
precorrimenti delle correnti criminologiche sviluppatesi nell’ambito della
Scuola positiva di diritto penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del
libero arbitrio dal problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada
del determinismo. L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri
Laura “Il delinquente ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il
pensiero manzoniano in chiave naturalistico-deterministica e lo
scritto del Preve “Manzoni penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri
Laura e delinea nelle figure dei criminali del romanzo i tipi classificati
dalla scienza lombrosiana. Dopo un attento esame critico di numerosi passi
delle opere dei due autori prima citati e di altri studiosi C. conclude
che non ritiene valida la concezione di Manzoni come precursore del positivismo
penale e criminologico, dato che per i positivisti non è questione di giustizia
e di libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa sociale. In “Manzoni
teorico generale del diritto?”, secondo C., la forma mentis giuridica di Manzoni appare
evidente anche negli scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa
si manifesta in modo tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia
longobardica in Italia” oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione
francese. C. mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro presente nel
libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e Longobardi e le
leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di natura di una teoria
generale del diritto. Le osservazioni riguardano in particolare la
concessione data agli Italiani di vivere secondo la legge romana che fu
considerata dal Muratori <un bel tratto di clemenza, e una prova, fra le
mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori longobardi> Manzoni
dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa secondo C. di rendersi
conto di come fosse strutturato l’ordinamento giuridico sotto i Longobardi e
evidenzia la <struttura a gradi> dell’ordinamento giuridico, per dirla
come Kelsen e definisce alcune norme <leggi costituzionali>, le
leggi così designate sono le <norme di competenza> di Ross e le
norme secondarie di Hart, cioè le norme che conferiscono il potere di emanare,
modificare, abrogare le altre norme, concernenti direttamente il comportamento
dei cittadini. Manzoni si preoccupa di esaminare quali fossero le norme di
statuto, di competenza o secondarie, espressione del potere longobardo, le
quali regolavano la permanenza delle leggi romane, che regolavano il comportamento
dei cittadini di origine romana. L’ottavo capitola si intitola “Manzoni e
la Rivoluzione francese” Il rapporto tra Manzoni e la Rivoluzione
francese durò in varie forme per tutta la vita del letterato lombardo. Questi
visse molti anni in Francia nel periodo napoleonico, scrive il “Trionfo della Libertà“ un poemetto
di sentimenti giacobini ed anti-monarchici con la condanna delle spietate
repressioni penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un giudizio equanime su
Napoleone dapprima glorioso e poi rapidamente caduto e rileva la caducità
degli idoli umani Nel dialogo “Dell’Invenzione” Manzoni esamina la
figura di Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di <mostro> del
politico francese pur non abbandonando la tesi di una responsabilità avuta da
Robespierre nel Terrore ridimensionata dalle moderne storiografie Lo
studio che esprime nel modo più chiaro il rapporto di Manzoni con la
Rivoluzione francese è il saggio pubblicato postumo a cura di Ruggero Bonghi
“La rivoluzione francese e la
rivoluzione italiana” I motivi su cui si basa La critica di Manzoni
alla Rivoluzione francese sono La mancanza di un giusto motivo per la
distruzione del governo di Luigi XVI e di una autorità competente nei deputati
del Terzo Stato che ne furono gli autori. Questa distruzione avvenne
indirettamente ma effettivamente in conseguenza dei loro atti. Il nesso di
queste cause con gli effetti indicati Le riforme legittime, sentite dal popolo
francese, avrebbero potuto avvenire per vie pacifiche e legali; Manzoni
peraltro non si rende conto che la sua critica non tiene conto della situazione
dell’ancien régime, in cui il potere trovava la legittimità dal diritto divino
mentre la critica da lui avanzata è accettabile entro i presupposi
giuridico-costituzionali creati dalla Rivoluzione francese Il letterato
lombardo sottolinea l’aumento del dispotismo dal Terrore, al Direttorio,
al bonapartismo come risultato immediato degli atti iniziali della Rivoluzione
francese. Trattando della “Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo”
Manzoni discute il suo rapporto con la precedente Dichiarazione americana
sottolineando le differenze. Lo scritto di Manzoni ha senza dubbio il merito di
evidenziare il contrasto fra gli ideali e le realizzazioni pratiche della
Rivoluzione francese, nella sua critica lo scrittore lombardo critica, come in
altre opere, il potere politico umano che riveste in forme giuridiche la
sostanza dell’arbitrio e della prepotenza ed ad esso contrappone il valore
assoluto dell’idea del diritto, che è <una verità> Tale
considerazione induce C. a proporre un altro parallelo fra la posizione di
Manzoni e quelle di Kant e Robespierre. Kant ha negato il diritto di un popolo
alla rivoluzione ed ha considerato l’esecuzione di Luigi XVI un crimine
inespiabile ma nello stesso tempo è stato un convinto sostenitore della
Rivoluzione francese; Robespierre <rivoluzionario legalitario, giudicato non
equamente dal Manzoni, fu un uomo dal forte sentimento giuridico e, nel momento
della sua caduta,pur proscritto e ricercato all’Hotel de la Ville, benché
fosse esortato dagli amici a redigere un appello all’insurrezione popolare
esitò e si chiese <Au nom de qui?> come è attestato dalla
sorella Charlotte Nella lunga ed articolata conclusione C.
ribadisce che il pensiero giuridico di due letterati ha numerosi elementi in
comune e svolge alcune considerazioni sul metodo seguito. L’autore evidenzia
che il suo saggio ha <un taglio diverso> dagli studi citati sull’attività
forense di Goldoni, sul significato riformatore delle sue commedie e sulle
implicazioni politiche del pensiero di Manzoni. Il punto di vista seguito
nel volume dal docente è quello della considerazione a un lato del diritto come
<categoria autonoma>, dotato delle sue specifiche caratteristiche e
dall’altro del diritto inteso come fondato filosoficamente, posto in relazione
con problemi storici, politici e sociali. Lo studio degli aspetti giuridici e
dei problema del diritto nl pensiero e nell’opera di Goldoni e Manzoni non è
stato disgiunto all’esame dei temi della riforma sociale e della riflessione
politica nella loro attività letteraria. Il punto di vista seguito sempre
dall’autore , come da lui steso dichiarato, è stato quindi¨<quello
dell’ autonomia del diritto , ma non inteso secondo una prospettiva
meramente logico-formale, bensì basato su una fondazione filosofica, e dotato
di rilevanza politica. . L’angolo visuale usato come punto di riferimento per i
due letterati è l’illuminismo giuridico. L’illuminismo è coevo di
Goldoni, che anticipa Rousseau nella proclamazione del principio
dell’uguaglianza naturale ed è aperto al problema della riforma sociale,come è
riconosciuto da numerosi interpreti delle sue opere. I rapporti tra Goldoni e
l’illuminismo giuridico sono più evidenti nel passo dei “Mémoires “ sulla
procedura criminale e nelle commedie L’uomo prudente e L’Avvocato
veneziano . Manzoni è posteriore all’illuminismo ma l’autore ha cercato di
indicare la presenza di una eredità Illuministica, con riferimento ai problemi
giuridici, ne “I Promessi sposi” e nella “Storia della Colonna infame”
dove peraltro sono presenti degli elementi di superamento delle concezioni
illuministiche. Il docente ritiene di rifiutare la tesi diffusa di coloro
che interpretano Manzoni esclusivamente dall’angolo visuale della linea
agostiniana-pascaliana con venature giansenistiche negando il profondo legame
con l’illuminismo, in realtà Manzoni si dimostra erede dell’illuminismo per
l’habitus mentale razionalistico del suo pensiero, per la sua considerazione
della ragione e per la sua ricerca delle radici razionali della fede; in tal
modo il grande scrittore lombardo fa propria l’eredità migliore
dell’illuminismo, il filone etico-religioso che si contrappone al filone ateo e
materialistico di alcune correnti. Ragonese e
Caretti hanno bene sottolineato i rapporti tra Manzoni e
l’illuminismo. C. conclude il suo saggio ribadendo che il motivo comune
fondamentale di Goldoni e Manzoni è il principio cristiano ed illuministico (e
kantiano) della dignità umana. In Goldoni questo principio è meno
evidente ma è legato soprattutto all’idea della comune natura umana, al di là
delle differenze sociali, che appare in numerose commedie ed opere drammatiche,
in Manzoni la difesa della dignità umana è svolta ad un livello di maggior
profondità ed è connessa ad una prospettiva religiosa come traspare chiaramente
dal testo recitato dal coro de “Il Conte di Carmagnola” Nella
Appendice viene riproposto lo studio di Pascolato “ Goldoni Avvocato”
pubblicato su “Nuova Antologia” Cattaneo pubblica “Suggestioni penalistiche in
testi letterari”. Il libro, che è dedicato alla memoria del Prof. Renato
Treves, per molti anni ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli
Studi di Milano, tratta le opere di numerosi letterati. Il libro, che si
articola in 12 capitoli ed una appendice, tratta di scrittori che
nelle loro opere hanno affrontato il tema della pena o problemi di natura
giuridica. Il lavoro, rileva l’Autore, non ha avuto una genesi unitaria
Il primo saggio scritto riguardava Parini, un “poeta civile” rappresentante di
un Illuminismo cristiano ed equilibrato, è seguito il saggio su Collodi, l’uomo
del Risorgimento che ha combattuto a Curtatone e che mostra nel suo aperto
scetticismo nei confronti della legge e dell’autorità costituita una opinione
diffusa di molti uomini dell’Italia post-unitaria tra cui il grande giurista
liberale Carrara..Il terzo saggio è stato dedicato a Foscolo che nello scritto
< L’orazione sulla giustizia> ed altri due scritti <La difesa del
sergente Armani> ed <una lettera al “Monitore Italiano”> tratta
problemi relativi alla pena Il primo saggio del volume si intitola “Studi
Dante e il diritto penale” Lo studio riguarda il rapporto tra il grande
poeta ALIGHIERI ed il diritto penale.. C. rileva che gli studi di storici e
filosofi del diritto che hanno trattato il pensiero giuridico di Dante hanno
trascurato l’aspetto penalistico. ALIGHIERI non si è occupato di diritto penale
ma l’analisi del suo capolavoro mostra un elaborato sistema di rapporti tra
colpa e pena. Numerosi studiosi hanno rilevato che le pene crudeli descritte
nell’Inferno del poema dantesco sono molto lontane dalle prospettive della
legislazione penale moderna anche se occorre distinguere tra la prospettiva
morale e religiosa del poema dantesco e le finalità delle legislazioni penali
attuali Dante peraltro opera una distinzione tra peccati puniti fuori e dentro
la città di Dite che può corrispondere ad una distinzione tra peccati e delitti,
il più rilevante contributo indiretto dato da Dante al diritto penale è il
criterio di graduazione delle gravità delle colpe e le corrispondenti pene come
è stato evidenziato da Vecchio. Il maggior contributo diretto di
Dante alla cultura giuridica moderna sono l’affermazione del principio di
uguaglianza e di personalità delle pene e l’affermazione della volontà del
volere dell’uomo quale presupposto della conseguente valutazione del merito o
del demerito delle sue azioni. C. conclude che:” Certamente, fare
apparire Dante come un grande giurista, un grande penalista, può risultare
sforzato e retorico. Ma nello stesso tempo, non è assolutamente possibile e
lecito ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha dato anche al
diritto penale; la Divina Commedia è un costante punto di riferimento per
qualunque problema, religioso, filosofico, umano; ricordo che mio Padre
diceva che nella Commedia <<c’è tutto>>” Nella introduzione
ho accennato a due recenti approfonditi studi su Dante ed il diritto, un tema
caro a molti studiosi Il secondo saggio si intitola “Giuseppe Parini e
L’Illuminismo giuridico”. C. rileva che Parini, sacerdote non per
vocazione ma uomo profondamente credente, fu sensibile a numerosi ideali
illuministici di riforma civile ed attraverso una delle sue Odi riprende
le idee illuministiche sul diritto penale, che propugnavano il principio
umanitario della doverosità della mitigazione delle pene considerando
l’inefficacia di pene eccessive in determinati contesti sociali. Vi è dunque
una continuità di principi da Parini, cattolico ed illuminista, a Manzoni e
Rosmini, cattolici liberali, una continuità di principi ed ideali umanitari
relativi al problema della pena e nell’ode Il bisogno è presente una concezione
penale cristiana ed illuminista. C. conclude il suo saggio affermando che
Parini poeta civile e morale interpreta il momento migliore dell’Illuminismo e
si fa portavoce dei suoi più significativi valori. In “Foscolo e la
giustizia come forza,” C. rileva che notoriamente Foscolo fu un poeta impegnato
nelle vicende politiche del suo tempo segnato dalla rivoluzione francese e
dall’epopea napoleonica. Negli scritti di natura penalistica il poeta
accoglie i principi della dottrina giuridica illuministica, come la difesa
della certezza del diritto ed il rispetto delle garanzie processuali. Foscolo
inoltre critica la teoria della retribuzione morale e quella della prevenzione
generale. Il quarto capitolo è intitolato. “Le <veglie notturne> di
Bonaventura e la critica dei giuristi” un libro tedesco poco conosciuto
in Italia, opera uscita anonima nel 1805 a Penig (Sassonia) presso il poco noto
editore F Dienemann, che l’aveva pubblicata nel suo <Journal von neuen
deutschen Original Romanen>. C. evidenzia che nelle pagine dedicate a temi
giuridici viene messo in rilievo l’invito a rendere il diritto più umano ed a
metterlo al servizio degli uomini. La descrizione del giudice freddo paragonato
ad una macchina o ad una marionetta, il rimprovero ai giuristi che si assumono
il compito di tormentare i corpi, come i teologhi tormentano le anime,
l’uccisione della giustizia da parte dei tribunali, il richiamo al diritto naturale,
che dovrebbe essere il vero diritto positivo, la critica di una giurisprudenza
svincolata dalla morale sono chiari segnali di una aspirazione ad
umanizzare il diritto, specie quello penale. In “Heine e la satira delle teorie
della pena”, C. analizza il breve scritto che Heine aveva aggiunto quale
appendice al suo volume “ Lutezia”Lo scritto è dedicato al problema della
riforma delle prigioni ed alla legislazione penale e porta il titolo
<Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung>. Il saggio, pur nella
brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali della pena. C.
suggerisce che l’analisi critica del poeta si traduce in una satira delle
dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e dell’emenda e coglie i punti
centrali di tali concezioni. Heine sottolinea l’ingiustizia della teoria
dell’intimidazione generale ed evidenzia il carattere patriarcale e
paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare il principio di una
prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla pena, Heine ritiene
che bisogna agire con durezza, reclusione ed addirittura con la pena di morte
concepite come prospettiva di difesa sociale. C. rileva che è sempre più chiara
e più facile la parte negativa della filosofia penale, cioè la critica delle
dottrine sulle pena che la parte costruttiva cioè l’indicazione di un
fine positivo nella funzione penale. Heine critica inoltre il sistema
carcerario filadelfiano e quello auburniano In “Victor Hugo e la pena
come fonte di delitti,” C. rileva che il problema giuridico penale è presente
nell’opera letteraria di Hugo con una severa critica del sistema penale
dell’epoca e la sua difesa della dignità dell’uomo. Il problema emerge
chiaramente nel celebre romanzo “Les Miserables” e nel suo protagonista
l’ex-forzato Jean Valjean. Il romanzo affronta il problema di una pena
sproporzionata ed inumana, che è causa di nuovi delitti e di una spirale
indefinita di reati e pene successive. Il tema è sviluppato nella figura
centrale di Valjean. Tutte le tragiche vicende del protagonista nascono
da un tentativo di furto dovuto alla miseria ed alla fame; a causa del furto di
un pezzo di pane,che poi viene gettato via,Valjean è condannato a 5 anni di
detenzione e, in seguito a tre successive evasioni di breve durata, la sua
detenzione dura ben 19 anni. Vi è una enorme sproporzione tra il
danno causato dal reato e la pena che trasforma ed indurisce Valjean, la cui
psicologia viene analizzata in profondità da Hugo. La pena continua a gravare
su Valjean anche dopo la liberazione per cui questi riesce a lavorare solo per
una giornata data la sua qualità di ex-forzato. Hugo critica sia
l’atteggiamento di diffida e di rifiuto di tutta la popolazione sia la macchia
di infamia stabilita dalla legge. C. rileva che è ammirabile la battaglia
combattuta da Hugo contro la pena di morte, la sua denuncia della
sproporzione tra la gravità dei delitti e le pene, la critica dell’assurdo
criterio nel valutare la recidiva. Queste battaglie sono importanti
contributi all’evoluzione del diritto penale ed alla difesa della dignità
umana. In “Dostoevskij la coscienza e la pena,” C. evidenzia la centralità del tema del delitto,
della colpa e della pena nello scrittore russo, come è stato rilevato nel
profondo scritto di Italo Mancini, che ha evidenziato sia la validità di una
ricerca su Dostoevskij pensatore e filosofo sia che per lo scrittore
russo < la questione penale non rappresenta solo un contenuto ma il
contenuto>. Gobetti a proposito dei personaggi dello scrittore russo ha
rilevato che <I suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una
verità, ma piuttosto di chiarire e capire sé stessi>> Nel volume “I
ricordi della casa dei morti “ lo scrittore russo ricorda l’esperienza
personale della prigionia in Siberia e sottolinea chiaramente
l’incapacità del carcere di procurare l’emenda del reo dato che
Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non ha visto tra quella gente
il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso; lo
scrittore russo indica anche nella solitudine e nella mancanza di
privatezza un elemento di particolare tormento della prigione. Il lavoro
nella prigione, rileva lo scrittore russo, non era faticoso ma era penoso
perché obbligato sotto la minaccia di un bastone. Dostoevskij evidenzia anche
l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti in relazione alla classe
sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia della pena. Radicale è la
sua critica svolta nei confronti del regolamento carcerario e del comportamento
ottuso e crudele delle guardie carcerarie, severo è il giudizio sulla prassi
della fustigazione definita una piaga della società> Nel
<L’idiota> lo scrittore russo pone un giudizio duro e severo
sulla pena di morte in bocca al principe Miskin nelle prime pagine del
romanzo. Nel brano Dostoevskij sottolinea la svalutazione del carattere meno
afflittivo della decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti e
la sofferenza morale generata dalla attesa della esecuzione, che è peggiore
della sofferenza fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo” Dostoevskij
evidenzia la tesi della necessità della pena giuridica quale espiazione della
colpa e come risultato del rimorso avvertito dal colpevole. La trama del
romanzo mette in luce la progressiva conversione, il rimorso e la ricerca di
espiazione del colpevole. Cattaneo sottolinea che il Leitmotiv del celebre
romanzo è la ricerca della espiazione sulla base di una spinta interiore e del
rimorso e che tale impostazione pone lo scrittore russo sulla linea del
Platone del Gorgia e di BOEZIO nel <Consolatio philosophiae>. La
conclusione giuridica processuale del romanzo rileva una sensibilità giuridica
moderna che pende in considerazione le circostanze attenuanti, le cause
sociali, psicologiche e morali del delitto ed il recupero morale e sociale del
colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità del problema penale e
l’interesse di Dostoevskij, spirito umanitario e riformatore, per la
riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul piano morale, rileva
il desiderio di espiazione che conduce all’emenda.
Dostoevskij manifesta l’atteggiamento del cristiano che si sente
corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo “Chi di
voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” C. ribadisce che per
Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa commessa e la
auto-condanna da parte del delinquente. La pena giuridica non ha rilevanza, ciò
che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di redenzione che
avviene nella coscienza del colpevole. In “Tolstoj e la abolizione della pena,”
C. ribadisce che lo scrittore russo
postula una radicale abolizione del diritto penale in una prospettiva di amore
cristiano e di non violenza. I temi giuridici vengono affrontati da Tolstoj un
due opere “Resurrezione” e la novella “Il racconto di Koni”. Il romanzo
Resurrezione è fondato su una vicenda processuale, la condanna ad alcuni
anni di deportazione in Siberia della protagonista Ekaterina Maslova, diventata
prostituta a seguito di tristi vicende. Tolstoj analizza il processo e la
successiva pena dei forzati deportati ed evidenzia che negli istituti di pena
gli uomini erano sottoposti ad ogni genere di umiliazioni inutili, catene,
teste rasate, divise infamanti per cui si inculcava l’idea che qualsiasi
violenza, crudeltà e atrocità era autorizzata dal governo per chi si trovava in
prigionia nella sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra la condanna e
la concreta esecuzione della pena con le sue brutalità. In Tolstoj il tema
fondamentale è l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero sistema
repressivo-penale e la sottolineatura delle cause sociali dei delitti come
Victor Hugo. Lo scrittore suggerisce anche la necessità di abolire
la pena e sostituirla con il perdono, un ideale sublime ma difficile da
realizzare in pratica e che indica tutta la complessità del problema, C. si
chiede se si tratta “del sogno di un visionario, una utopia generosa o di un
ideale verso cui la società deve tendere.” In “Pinocchio e il diritto”,
C. rileva che l’opera di Collodi è stata oggetto di numerose indagini . Le
ricerche sulla natura pedagogica ed educativa sono state sviluppate da
Bertacchini, Il testo di Collodi è stato esaminato sotto il profilo filosofico
e teologico nei due volumi scritti da Frosini e Biffi . Frosini evidenzia
che: << Il mito di Pinocchio si rivela……come un mito tipicamente
risorgimentale, al tramonto di un’epoca; e anzi proprio di un
risorgimentalismo di stampo repubblicano e mazziniano>> basato su
principi di umanitarismo positivistico. Biffi sottolinea che Pinocchio fu
scritto quando l’Italia era unita politicamente ma non era una nazione
consapevole di sé e concorde sui valori che danno senso alla vita. Il Collodi
aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, un carisma profetico più alto
della sua militanza politica, così poté porsi in comunione forse ignara con la
fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo. . La lettura
di Pinocchio evidenzia interessanti problemi e temi di natura giuridica e
filosofico-giuridica e lo scritto di Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più
rilevanti dal punto di vista penalistico. Cattaneo sottolinea che
Lorenzini (ovvero Collodi) era un fine umorista che sapeva cogliere il
lato ridicolo ed insieme doloroso della vita umana (opinione espressa
anche da Lina Passarella nel suo scritto prima citato su Goldoni filosofo), e
cita ad esempio l’episodio dei pareri opposti dei medici al capezzale di
Pinocchio in casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e quello della condanna
del burattino derubato degli zecchini dal giudice-scimmione. Pinocchio scappa
di casa ed è acciuffato da un carabiniere per il naso (Cattaneo rileva in
tal modo la naturale predisposizione dei cittadini ad essere oggetto delle
interferenza da parte del potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a Geppetto e
le sue proteste il carabiniere, a seguito dei commenti della gente, rimette in
libertà il burattino e conduce in prigione Geppetto che piange disperatamente.
L’episodio mostra un membro dell’apparato giudiziario che arresta Geppetto
sulla base delle opinioni della <voce pubblica> compiendo un atto
arbitrario senza motivazioni precise e mostra un innocente debole ed inerme che
non riesce a difendersi di fronte all’atto arbitrario del potere. Un altro
episodio interessante è narrato nel capitolo XXVII, dove si descrive la
battaglia con i libri di testo fra Pinocchio ed i suoi compagni. Un grosso
volume scagliato verso Pinocchio colpisce alla tesa un compagno che cade come
morto. Tutti i ragazzi fuggono e rimane Pinocchio a soccorrere il compagno.
Arrivano due carabinieri che,dopo un breve colloquio, arrestano Pinocchio
malgrado le sue dichiarazioni di innocenza. Il burattino fugge inseguito dal
cane Alidoro al quale salva la vita mentre stava per annegare. Cattaneo
evidenzia a riguardo che la vittima del potere è l’innocente, l’unico trovato
vicino ad Eugenio, che viene arrestato perché le circostanze sono contro di lui
La frase dei carabinieri “Basta così” è commentata da Biffi che evidenzia che
l’invito a ragionare insospettisce spesso l’autorità, la quale è incline a
tagliar corto. In molte vicende giudiziarie si nota che una concatenazione di
indizi sfavorevoli dà l’avvio a processi indiziari seguiti da condanne di
persone innocenti. Un altro episodio clamoroso di palese ingiustizia è la
vicenda che conclude il rapporto tra Pinocchio ed il due truffatori La Volpe ed
il Gatto. Pinocchio incontra la Volpe ed il Gatto e viene convinto a
seminare i 4 zecchini d’oro nel Campo dei miracoli vicino alla città di Acchiappacitrulli.
Tale città descritta minuziosamente da Collodi è,secondo C., e il
simbolo dell’ingiustizia e di un diritto positivo basato sul puro potere
politico; tale città esprime in modo chiaro il pericolo del prevalere della
politica sulla giustizia nella amministrazione della giustizia, come
dimostra l’episodio giudiziario che riguarda Pinocchio. Pinocchio accortosi di
essere stato derubato delle monete d’oro torna in città e denunzia al giudice i
due malandrini che lo avevano derubato, ma,invece di ottenere giustizia, è
vittima di una tragica beffa. Il giudice scimmione, al quale Pinocchio si
era rivolto, ordina che il burattino venga messo in prigione.
L’ordine viene eseguito da due mastini che tappano la bocca al burattino, il
quale resta 4 mesi in prigione e viene liberato a seguito di una vittoria
dell’imperatore della città di Acchiappacitrulli. Per ottenere la libertà
Pinocchio dichiara al carceriere di appartenere al numero dei malandrini e così
viene salutato rispettosamente e può scappare. C. rileva che la figura dello
scimmione sottolinea la miseria della giustizia umana ed il carattere
insoddisfacente dei tribunali umani dove, come scrive Platone, si discute sulle
“ombre della giustizia” Biffi nel suo volume rileva dapprima l’aspetto positivo
della figura del giudice che è descritto come un personaggio rispettabile,
benevolo, attento al racconto del burattino, successivamente Biffi sottolinea
che la figura dello scimmione della razza dei gorilla rappresenta la
caricaturalità della giustizia terrena rispetto a quella vera, per cui il
giudice finisce con applicare la legge umana che con i suoi meccanismi colpisce
il debole anche se innocente. Cattaneo rileva che la situazione proposta da
Collodi ricorda quella descritta da Manzoni ne I Promessi Sposi dove i violenti
erano organizzati e protetti ed i deboli, non sorretti da consorterie, erano
vittime dei soprusi del potere. La lettura di Pinocchio di Collodi
ed in particolare di alcuni brani può dar luogo a considerazioni di natura
filosofico-giuridica e giuridico- penale, come suggerisce acutamente C.
nel suo volume. Merito indubbio di Collodi è descrivere alcune situazioni
caratterizzate da abuso di potere, oppressione dei deboli e sfasamento dei
corretti rapporti stabiliti dagli ordinamenti giuridici, come del resto è stato
rilevato da numerosi importanti interpreti. E’ opportuno sottolineare che il
capolavoro di Collodi, come molte altre opere letterarie, affronta importanti
problemi giuridici tra i quali va segnalata l’importante e costante aspirazione
perenne che la legge in essere non sia solo la volontà del gruppo sociale
dominante, una forma di controllo sociale, e che inoltre l’ordinamento
giuridico tuteli la dignità e le aspirazioni degli uomini come attesta la
storia del diritto. Il capitolo decimo è intitolato “Wilde e le sofferenze del
prigione” Wilde in alcune sue opere ha descritto la sua penosa esperienza
carceraria ed il clima del carcere., lo scrittore inglese fu condannato a due
anni di carcere che scontò interamente. C. evidenzia che <Wilde fu il
tipico capro espiatorio dell’ipocrisia della società vittoriana> Lo stesso
letterato nel <De Profundis>, redatto in carcere, attesta di essere
passato dalla gloria all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla
esaltazione al disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel
suo celebre <De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading
Gaol> hanno fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma
del sistema carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde
negli ultimi anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico
Alfred Douglas <Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi
atteggiamenti durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte
controversie, fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan
Holland. All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas e
soprattutto sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e
rovinata <a disgraced and ruined man> lo angoscia dopo la
sentenza e l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi
vive in carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il
fondamento del proprio continuare ad esistere Wilde evidenzia che la
terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e
si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca
l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo scrittore
rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita peraltro
la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la prigione
li rende dei <paria>, per cui i condannati di ceto abbiente non hanno più
diritto all’aria ed al sole,la loro presenza infetta i piaceri degli altri e
bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la reputazione della
persona condannata è leso. Wilde evidenzia anche che molte persone,quando
escono di prigione, nascondono il fatto di essere stati in carcere che
considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,, è orribile che la
società li costringa a tale comportamento. La società ha il diritto di punire i
colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e lascia l’uomo al
termine della pena, quando dovrebbe iniziare la riabilitazione, sarebbe giusto
invece che non ci fosse amarezza o rancore tra le parti (colpevoli e vittime).
Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro l’idea della retribuzione
morale e cioè che subendo la pena il colpevole abbia pagato il suo debito
verso la società, se si applicasse tale principio, dopo la fine della pena
tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né fedine penali né
casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia sulla persona che è
stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e l’onta non deriva dal
delitto commesso ma dalla pena scontata. La società riconosce implicitamente
l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole incarcerato rimane.
Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le privazioni e restrizioni
del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce i cuori dei condannati.
L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns, oggetto di derisione e
berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei condannati sono
contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma come profonda
esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che tutti i processi
sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono sentenze di morte;
spesso anche una condanna alla prigione genera delle sofferenze che conducono
alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi anni dopo il carcere in
Francia . Wilde scrisse anche <The Ballad of Reading Goal> , l’anno
del suo rilascio. in questa lunga ballata il poeta inglese descrive le
sofferenze e le crudeltà cui aveva assistito durante la prigionia e dalle sue
considerazioni sulla triste sorte dei carcerati risulta un grande senso di
pietà per i carcerati ed i condannati a morte. La poesia è pervasa da spirito
religioso e Wilde mette in confronto il vero spirito cristiano, la pietà per i
sofferenti ed i peccatori con l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente
delle istituzioni religiose ufficiali e dei cappellani delle carceri .
Cattaneo rileva che la tragica esperienza personale ha portato Wilde ad
affrontare il tema della riforma delle prigioni e del sistema penale del quale
si era occupato nello scritto “The soul of man under socialism” . Dalle
riflessioni dello scrittore inglese redatte nelle opere dopo il carcere si
ricava una denuncia della brutalità del trattamento carcerario e della
inumanità nell’esecuzione della pena con critiche alla utilità sociale della
stessa In “Gide e il non giudicare,” il problema giuridico-penale è
stato esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo Gide, che lo
ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la Cour d’Assise” che
racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi penali, “L’affaire
Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi sono stati pubblicati insieme
in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas” Cattaneo rileva che di tale
scritto non si sono occupati molto i critici ed i commentatori, come sempre
avviene quando si tratta di problemi giuridici in veste letteraria. L’analisi
del volume di Gide è interessante perché il libro è molto rilevante per lo
studio di rapporti tra diritto penale e letteratura e costituisce
delle precise prese di posizione dirette su temi giuridico-penali, desunti
dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce l’attenzione, la precisione, la
serietà e la preparazione dimostrate dallo scrittore francese nel trattare i
temi giuridici, soprattutto per la precisione del linguaggio giuridico. Gide
dimostra competenza nel trattare problemi giuridico-penali e probabilmente “l’
indagine di certi casi criminali lo induce all’analisi di talune zone
inesplorate della psiche umana” L’atteggiamento dominante di Gide è
il “favor rei” che si esprime in due modi o a due livelli: da un lato sul
piano processuale lo scrittore volge l’attenzione al rispetto delle garanzie
dell’imputato, ad una equilibrata ed equa conduzione dell’interrogatorio, alla
escussione di tutti i testimoni, specie quelli della difesa. Lo scrittore
francese solleva anche nei suoi scritti l’esigenza di una riforma del
modo di porre le domande ai giurati e di chiarire il loro contenuto. Gide si
mostra sempre umano e compassionevole verso i colpevoli, mostra l’esigenza che
la pena sia in generale ridotta e che si tenga conto degli elementi che valgono
a titolo di difesa, quali motivi di giustificazioni e scuse. Lo scrittore
francese si preoccupa che la pena possa causare mali peggiori e cerca di
evitare risultati negativi della stessa. C. evidenzia che in sostanza nel libro
di Gide “è primaria l’attenzione per l’uomo, la sua complessità e la sua
imperscrutabilità psicologica, che porta al dubbio e alla perplessità circa il
fatto che alcuni uomini possano giudicare altri uomini, queste pagine sono
dunque dominate dal monito evangelico, per cui particolarmente adatto risulta
il titolo complessivo della raccolta: Ne jugez pas.” In “Franz Kafka, la
legge e il totalitarismo” C. ha discusso in molte opere il problema
del totalitarismo che è stato analizzato soprattutto nel suo volume “Terrorismo
ed arbitrio Il problema giuridico del totalitarismo” Analizzando le opere
di Kafka C. premette che è particolarmente rilevante il pericolo di un forte
divario fra la letteratura critica ed interpretativa ed il testo originario
dello scrittore per cui ritiene che siano legittime molte diverse
interpretazioni dell’opera di Kafka, e molte <chiavi di lettura> .,
certamente l’interpretazione più interessante dello scrittore ceco è quella
data dall’amico Max Brod, che evidenzia la religiosità ebraica presente
nelle opere di Kafka ed in questa chiave interpreta i brani relativi al
problema della legge, del processo e della colpa. Una interpretazione
giuridica delle opere di Kafka è stata compiuta da Pernthaler.C. intende
esaminare alcune opere di Kafka dalle quali il problema della legge emerge
anche dal punto di vista filosofico-giuridico In tali opere di Kafka
ricorre il tema del difficile rapporto dell’uomo con la legge, che è
interpretato in chiave religiosa o in chiave psicologica o psicoanalitica ma
che può essere analizzato anche dal punto di vista filosofico-giuridico. C.
esamina alcuni temi che emergono da “Il Processo” dall’apologo “Vor dem
gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage der Gesetze” e dalla novella “In der
Strafkolonie” e dall’analisi complessiva di tali opere interpreta Kafka come
profeta e critico del totalitarismo che fu instaurato in alcune nazioni dopo la
sua morte, lo scrittore ceco delinea situazioni di angoscia, di incertezza, di
impossibilità di comunicazione, di errore e di ferocia tipiche del
totalitarismo. Kafka collega la burocrazia e l’oppressione del potere sugli
uomini caratteristica del nascente totalitarismo . PCitati rileva che
<Nel Processo, l’immenso Dio sconosciuto, di cui non ascoltiamo mai
pronunciare il nome, ha invece una vita così intensa e un potere così
illimitato, come forse non ha ma avuto nei tempi> L’interpretazione di
Citati è più psicanalitica che religiosa ma è priva di prospettiva
giuridico-politica. Di impronta psicoanalitica è l’interpretazione data da
Sgorlon del <Processo> di Kafka ma la prospettiva giuridico
politica, trascurata da questi studiosi, è presente e C. evidenzia che proprio nel primo capitolo, in
cui è narrato l’improvviso arresto mattutino di Joseph K esprime in modo
preciso proprio la sensazione del passaggio graduale ed insensibile dallo Stato
di diritto allo Stato totalitario .Di seguito le indicazioni che Joseph K
riesce a ricevere da parte di vari personaggi connessi al Tribunale concernenti
il meccanismo, il funzionamento, l’andamento del processo mettono in luce la
totale assenza di garanzie giuridiche e processuali, di tutela dell’imputato,
elementi che costituiscono l’esatta antitesi dello Stato di diritto Il tema
della inconoscibilità e irragiugibilità delle leggi è ripreso da Kafka nello
scritto <Zur Frage der Gesetze> In tale scritto Kafka delle <nostre
leggi> che non sono conosciute da tutti, ma sono un segreto del piccolo
gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka dichiara di non avere in mente tanto gli
svantaggi derivanti dalle diverse possibilità di interpretazione, quando questa
è riservata ad alcuni e non all’intero popolo, questi svantaggi non sono poi
molto grandi. Le leggi sono antiche, secoli hanno lavorato alla loro
interpretazione, l’interpretazione è diventata essa stessa legge, e sussistono
sempre, benché limitate, alcune libertà di scelta dell’interpretazione Il
motivo dominane l’intero scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato
che la legge è misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla
per cui è comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza
delle leggi e riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà
La fredda descrizione di uno strumento di supplizio, nell’ambito di un sistema
processuale completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del
racconto <In der Strafkolonie> (Nella colonia penale) e la conclusione
della novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il
viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema
punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di
tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si
denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina
del supplizio inizia a funzionare e l’ufficiale muore senza aver capito
il senso del supplizio come ogni sistema totalitario si
autodistrugge e divora i propri figli C. cita la fucilazione dei coniugi
Ceausescu operata nell’ambito del totalitarismo comunista. L’Appendice del
volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come <<alibi>> nel
sistema post-totalitario” Havel, noto scrittore contemporaneo, che è stato
Presidente della repubblica cecoslovacca, è autore di numerose opere letterarie
e teatrali. C. ritiene che se Kafka rappresenta il tempo del pre-totalitarismo,
Havel rappresenta il post-totalitarismo,al quale ha dedicato uno scritto
bblicato che l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca. Havel
delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario, come
tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un
sistema che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere
etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica
dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e
post-totalitario. Tale sistema politico è caratterizzato, secondo lo
scrittore ceco, come una dittatura della burocrazia politica su una
società livellata. Lo scrittore ceco elenca le caratteristiche del
sistema <post-totalitario> che lo distinguono dalla dittatura
tradizionale ed evidenzia che tale sistema non è delimitato
territorialmente ma domina in un ampio blocco di forze ed è retto da una
superpotenza mentre le dittature classiche non hanno una solida radice
storica, la radice di tale sistema dono i movimenti operai e socialisti. Tale
sistema dispone di una ideologia strutturata ed elastica che ha i caratteri di
una religione secolarizzata ed offre una risposta ad ogni domanda dell’uomo in
una epoca di crisi delle certezze esistenziali. Alle dittature tradizionali
spettano elementi di improvvisazione per quanto attiene alla tecnica del potere
mentre lo sviluppo di anni nell’Unione sovietica e di anni nei paesi dell’Est
europeo ha dimostrato la creazione di un meccanismo perfetto, che permette la
manipolazione diretta ed indiretta della società. La forza di tale sistema è
incrementata dalla proprietà statuale e dalla amministrazione
centralizzata dei <mezzi di produzione> Nella dittatura classica vi
è una atmosfera di entusiasmo rivoluzionario, di eroismo, di spirito di
sacrificio che sono scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco sovietico, che
è un elemento solido del nostro mondo, è caratterizzato dalla stessa gerarchia
di valori presenti nei paesi occidentali sviluppati e sono una forma di
società consumistica ed industriale. Il sistema sopra descritto è
designato da Havel come <post-totalitario> perché è un sistema
totalitario con caratteristiche diverse dalle dittature classiche e, rispetto
al totalitarismo classico, è caratterizzato da una misura più attenuata di
terrore ed arbitrio Havel considera il sistema post-totalitario come
caratterizzato dalla menzogna, ciò è un effetto del dominio della ideologia;
gli uomini non devono credere alle mistificazioni totalitarie ma tollerarle in
silenzio ed accetta, ciò è un vivere nella menzogna e lo scrittore
insiste sul valore e sul significato morale ed esistenziale della dissidenza.
Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario
lo scrittore rileva che tale sistema sente la necessità di regolare tutto
con una rete di prescrizioni, norme, istituzioni e regolamenti per cui gli
uomini sono delle piccole viti di un meccanismo gigantesco. Le professioni,
le abitazioni ed i movimenti dei cittadini e le sue manifestazioni sociali e
culturali sono controllate, ogni deviazione viene considerata un passo falso ed
una manifestazione di egoismo ed anarchia. Havel rileva che non bisogna
prendere alla lettera l’ordinamento giuridico e ciò che conta è< come è la
vita> e se le leggi servono alla vita o la opprimono ¸la battaglia per la
<legalità> deve vedere questa <legalità> sullo sfondo della vita
come è realmente. Analizzando il rapporto tra la società post-totalitaria
e la moderna civiltà tecnologica, con riferimento anche agli scritti di
Heidegger, Havel rileva che il sistema post-totalitario è solo un aspetto della
generale incapacità dell’uomo contemporaneo di divenire <padrone della
propria situazione> e la prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione
esistenziale> generalmente comprensiva L’aspetto più interessane di
Havel è la delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come
fenomeno sorto dall’incontro della dittatura con la società industriale e
consumistica. Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva
che Havel sottolinea il significato autentico del diritto, che deve avere
coscienza dei propri limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore,
deve difendere alcune esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla
violenza e dalle invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di
adempiere a compiti per cui non è adatto - In tal modo, sottolinea C., il
letterato ceco riprende la migliore lezione del liberalismo classico per cui il
diritto non è al servizio del potere, ma può essere un valore solo in quanto
esso sia un mezzo di difesa e la garanzia della libertà e della dignità
dell’uomo Il grande insegnamento del letterato Havel è la tutela
del valore più calpestato dal totalitarismo, la dignità umana che è lo scopo
fondamentale ed essenziale del diritto, dato che diritto e libertà sono
collegati ed il diritto ha valore se garantisce e protegge la libertà. DISSERTAZIONÉ
• SULL ORIGINE DELL’ANTICA IDOLATRIA E SULLA FORMA DE'
PRIMI IDOLATRICI SIMULACRI COMPOSTA DALL'ABATE;
Giuseppe luigi traversari H Patrizio Ravennate ,
Canonico Arciprete della Infigne Collegiata di Meldola, e tra gli
Arcadi.LANIO' ATENIENSH. PRESSO GIOSEFFANTONIO ARCHI.
DISSERTAZIONE SULL' ORIGINE DELL’ ANTICA
IDOLATRIA E SULLA FORMA DE' PRIMI IDOLATRICI SIMULACRI. AL
NOBILISSIMO CAVALIERE , E DOTTISSIMO LETTERATO IL SIGNOR
CONTE AURELIO GUARNIERI PATRIZIO OS1MANO L’AUTORE. Veneratissimo
Signor Conte fi 'S T fi Aria, intralciata, difficile , e per
nju- /. X no, ch’io fappia, di proposto rifchia- tt » rata fi
è la Queftione , che mi vien pro- OS A porta a trattare, veneratiffimo
Sig. Con- te ; cioè fe i Simulacri primieri delle pagane divinità fodero
lemplici e rozze Pietre, o quadrate, o rotonde, lenza veruna umana, o
animalel- ca ferabianza . Io ricevo con Ibmmo giubbilo per una
parte l’onore de’ voftri cenni, e vi fi) al mag- gior fegao buon grado
per avermeli gentilmente partecipati . E’ una degnazion Angolare la
voftra il credermi pur capace di l'oddisfarvi in materia di eru-
dizione . Ma per l’ altra ben coaofcendo la pochez- A 3 za del v/ 6
' Dksert. sull* Origine za del mio talento, e la fcartezza di mie
cognizioni , provo un eftremo roflòre di non potervi ubbi- dire in quel
modo, che ad un voftro pari, ed alla qualità dell’ argomento fi
converrebbe. Inclinato per genio all’ amena Letteratura , ma Tempre da
im- pieghi fagri , e da gravi Itudj recinto , e fommer- lo in
occupazioni tutte diverte , lenza tempo , lèn- za relpiro come potrò
teftenere la qualità di Lette- rato innanzi a Voi , che in ogni maniera
di colte Lettere liete Maeflro ? E ben fapete quanto male in-
contrante a colui , che fu ardito parlar di guerra in- T 4 nanzi ad
Annibaie. Ciò non pertanto , fcnibrando- mi più teoncia la taccia di
malcreato , e di (cono- fcente , che non quella d’ignorante , e di mal
efper- to , a telo fine di tellimoniarvi per alcun modo la mia oltervanza
, mi farò lecito di comunicarvi i miei penlamenti. Sarà quindi gentile
impiego del voltro bel cuore infieme, e della vofira dottrina il
com- patirli te rozzi , o il rigettarli fe erranti. Per- mettetemi
però , gentilifitmo Sig. Conte , che io nel diitenderli mi allontani
alquanto dal metodo fecco e digiuno, che per alcuni fi tiene , e che
foltanto confine nel produrre Autori a rifate , e inzeppar fe- lli
, e affafteflar citazioni. Comecché molto io lodi la fatica e l’
induftria di chi procede fifFattamente , la materia, che abbiamo tra
mano, fe io non vò lungi dal vero , brama di fpaziare in più aperto
cammino , « di venir rintracciata da’ Tuoi vetulti principi. In due parti
perciò credo ben fatto il dividere la prefente Dillèrtazione , che a Voi
trafmetto, e cou- facro . Ragionerò nella prima alcun poco della
ori- gine, delle maniere , e degli oggetti di quella fatale
Idolatria , che a poco a poco lopprimendo i lumi della natura , della ragione
, della Religione , della lloria , coprì di tenebre , e manommite tutta
la faccia dell’ Univerfo . Difcenderò pofeia naturalmente nel- la
feconda a rendere , per quanto io polla , proba- bile la opinione, che t
primi Idolatrici Simulacri tollero di quadrata, o rotonda forma, e non
aven- ti figura alcuna o di Animale , o di Uomo . In
questa dell'antica Idolatria 7 quella guila
crederò di potere all* autorità voìtra , ed alla mia ubbidienza per
alcuna via foddisfare. Si laici a Maimonide ( i J , ed alla Scuola
Ra- binica il fidare lenza prove agli Antidiluviani tem- pi l’epoca
della nafcente fuperftizione. Entrando nell’argomento, quel che puolli da
noi con cer- tezza affermare fi è, che poco tempo dopo il Di* luvio
s’ intrulè il Politeifmo a pervertir le menti de- gli Uomini . Il libro
di Giosuè f a ) ne avverte , che Tare Padre di Abramo , e di Nachor aveva
fer- vito a* Dei menzogneri . Óra la nalcita di Tare ? fecondo i
calcoli dell’ Uflerio, accadde non più di 22 1. anni dopo la generale
inondazione del nofiro Globo . Il libro poi di Giuditta ( 3 ) ci fa
lapere , che non pur Tare , ma eli Antenati di Abramo fe- guivano
gli empj riti della Caldea adoratrice di più falle Divinità. Labano
chiama Tuoi Dei gl’ Idoli * che Rachele tua Figliuola gli avea involati
(”4), e Giacobbe prima di offrire un facrificio all’ Altiifi- mo fa
recarli da tutti quelli di fua comitiva gl’ Ido- li , che ferbavano , e
li nafconde (otterrà . Molto, dagli Eruditi fi difputa qual folle
dell* Idolatria nafcente il primiero oggetto. Pretende il Clerico (
5 J elfère fiati gli Angeli adorati lenza limitazione , e lenza relazione
all* Onnipotente. Volilo d* altra parte lòltiene , che il Dogma de’
due Principi buono , e cattivo folle dell’ Idola- tria più antica
generatore. Noi non fiamo per di- partirci dalla fentenza più comune, e
più compro- vata, cioè che gli Altri, e quindi gli < Elementi
follerò i primi a rifcuoter l’ adorazione de’ tralignan- ti mortali. Fra
un nembo di monumenti, e di au- torità , che in conferma di tale fentenza
recar po- . A 4 * ' trei * \ r » ( 1 ) De
Idolat. curri Interpr. Dionyfi VoJJìi . ( 2 ) Cape 24. v. 2. ( 3 )
Cap. p. v. 8. C4) Genef.cap. 31. v. 19. £?. 30., Cap . 3$. v.
2. 4 * (5 J Index Philolog. ad HiJÌ. Thil. Orienta in voce
Angelus , V Ajlra . ( 6 ) De idolat . lib. 1. 8 Dissert.
sull* Origine trei 3 e che in Macrobio C i ) , in Gerardo
VofTio già citato C 2 )> ne l Le Plucne ( 3 ), nel Bergero ( 4 )
lt polfòno agevolmente vedere , io trafcelgo il folo Eufebio Cefarienlè ,
tanto più che in Lui rinven- go accennata non pur 1 ’ origine , ma V
ingànnevol motivo di quella umana depravazione.' Egli adun- que
colia (corta del gravilTìmo Diodoro Sici- liano, parlando prima degli
Egiziani, poi de’ Fe- nici , popoli , fra’ quali ebbe forfè 1 ’ Idolatria
la fua culla , e finalmente de’ Greci , dice , che (6 ) ,, i „
primi Abitatori di Egitto , avendo volti gli oc- chi a contemplare il
Mondo, e con alto ilupo- „ re coixfiderando la natura di tutte le cole ,
ili- 3> marono, che il Sole, e la Luna follerò Dei lem- 3,
piterni , e primarj , de’ quali per certo rapporto „ chiamarono 1’
uno Ofiride , e 1’ altra Ilide ,, infegnando eller quelli due Dei
dell’ Univerfo 3, tutto moderatori. Rapporto poi ai Fenicj egli
afferma che • ,, i primi fra loro datifi ( 7 ) a filo- ,, fofare ,
tennero unicamente in luogo di Dei il ,, Sole , e la Luna , e gli altri
Pianeti , e gli Ele- ,, men- 33 . > (1 )
Saturnale lib. 1. C 2 ) De Idololat. Orig. lib ». 3. per totum . (3 )
Storia del Cielo Tom. I. C 4 ) Trattat . Storie, della Relig. Tom.
1 . 4 5 ) Yraparat. Evang. lib. I. c. 9. ( 6 ) Tot* owj
xotr A lyuirrov Avd’p'jìTHS ro 7 rcchctiQt ywofJLtviss ccvccfihr^ccvrcce
tov xo$[jlov , xou rlw rctfr oKw xa.rcLT'Kccyv/rcts re xoui rocrras
UTTohccfìett/ uvea Osar otihas re xou irpu- ru$ vihiW) xou rlw <relwnv
y w rov \xiv Osipiv ; rlw ’Be Kit ovoyxKOA rara? Sé .Tttf Ozag
u<pirrocvr<u rov $i[/,tccvtcc xospLw ì>ioixe*v . ( 7
) HA/ok , xcu (reXlw/iv 5 xou r»? Tkoittxs T rKetfY\rots ctrrepccs , xou
rot sto%£cc } xta tvtoìs nwoufiiy pLQvov lyivwsxov .
dell'antica Idolatria. 9 „ menti in oltre con quanto a !or fi
congiunge ,, Finalmente paHando a far parola dei Greci , reca il
bel palio di Platone nel Cratilo, che in queite note fi elprime ( i ): ,,
A me certamente ralfem- ,,bra, che i primi ad abitare la Grecia quelli
fol- „ tanto per Dei riputalfero , che dalla maggior , pane de’
Barbari prefentemente fi adorano , il ’, Sole cioè , la Luna , la Terra ,
gli Altri , il Cie- lo , quali vedendo e.fi con perpetuo corlb
aggi- ,, rarfi , dalla parola ra G«y correre , Aosi Dei li ,,
chiamarono. ,, t Il lèntimento di Eulebio, o di Diodoro, che
dee chiamarli il lèntimento di tutti gli Storici più fenfati , potrebbe!!
agevolmente con facra au- torità comprovare. Mosè ( *J, Giobbe (i ) ,
I* .Autore del libro della Sapienza ( 4 ) col profcri- vere il
culto fuperltiziofo degli Altri, e degli Ele- menti , il fuppongono tacitamente
come il più an- tico , perchè il dipingono come il più lulinghie-
j>o , e capace a pervertire l'umano cuore. Così fu veramente. Il
cuore umano aggirato da un fafeino teuebrofo di licenziole palliont ,
am- mollito dal lbverchio amor del piacere , fcollò dal natio genio
d' indipendenza , languido , e indiffe- rente negli efercizj della
Religione , la quale già inftillata nel primo Padre erafi poi tutta pura
da INoè trafmellà ne' difeeudenti , cominciò palio pal- io a
( 1 ) tyojyovTout tj.ot 01 t porrà ruv P 1 tìpuiruv rwv Trìpi
TW EAÀa^a J T 8 TKf ^JjOVtSi Stai «y«>' 6 cU , • WiTTlp vuù
T0XK01 TVV (locpQctpW , t{KlOV , XOU xcu ylw, xou carpa , xou tspcaov .
art OVLU tWTOC OpWTK TTOO/TCO OMrl 10 VTCL , XOU
Piovra, j curo tojuths tìk <piKi'j>s rns tu Orir Qks curasi
(tovoijlkìou . (2) Deuter. c. 4. v. ip. (3) Job. C. 31. V.
16. 1 ( 4 ) Sap. c. 1 3. Digitized by Google io
Dissert. sull'Origine fo a perdere la giufta idea del vero Nfume , elio
gli brillava all’ intorno con tanta luce* Un guitto* e terribil giudizio
di Dio medeilmo , il quale, come avverte S. Agostino , fparge penali
tenebre (opra . le illecite cupidigie , permife nell’ Domo un sì
fa- tale dementamento. Chi fdegnava di rendere al Facitore 1’ onor
dovuto come a Sovrano , meritò di perder colpevolmente lino le tracce per
ravvi- farlo . Abbandonato così alla stoltezza de' Tuoi pen- fieri,
fcambiò la gloria sfolgoreggiarne, ed immenia dell' incorruttibile Iddio
co'’ limitati river- beri , che ne vedea nelle Creature. Gli Astri pri-
. ma di tutto a lui parvero contrallegnati co' mag- giori caratteri
della Divinità . Quel movimento •. loro non interrotto , que’ periodi
tempre uniformi , quello fplendore Tempre brillante, quegl' in Aulii
: sempre benefìci fermarono il corfo alla di lui am- mirazione , e
riconofcenza , quando pur dovevano lervirgli di guida per falire ad amar
la bontà, a riconofcere la potenza del Creatore . Egli lciocca- mente
impadulò ne’ rulcelli , e dimenticò la lòrgen- te , e invece di riguardarli
come Ministri delle divine beneficenze, li adorò come Dei. L’ amor
proprio , la fuperbia , la mollezza , il libertinaggio trovarono il loro
conto in fimil delirio. Gli Astri comparivano Dei benigni, comodi, utili,
che nul* la eligevano, nulla vietavano, per nulla al più cor* rotto
genio opponevanlì , nè mettean freno alle più torte inclinazioni . Il
culto degli Elementi , della Terra, del Fuoco, dell’Aria, de’ Venti lì
congiun- te ben presto con quello degli Astri, perchè appog- giato
fopra gli stelli principj , e come un palio mal mifurato lud’un pendio
fdrucciolevole cagiona pre- cipizi Tempre maggiori , fi venne ad
attribuire la divinità alle inlenfibili cole, ed infieme agli
utili, e dannofi animali, agli uni per riconolceili de’ be- nefizi
, che fanno agli Uomini \ agli altri per pla- carli , e distornarli dall’
infierire . L’ antichiflima opmio- Afojì. ad Rom, c. x. dell'
antica Idolatria . n opinione de’ due Principj buono , e cattivo ebbe
for- fè gran parte in questi folleggiamenti, eia vera- ce , ma poi
alterata dottrina degli Angeli , de’ De- moni , delle Anime de’
trapalfati trovolfi molto op- portuna per dilatarli. Si volle credere
tutta la na- tura animata . Animati lì tennero gli Astri dagl’
Indiani , dai Caldei, dagli Egizj , dai Maghi, da Pitagora , da Platone ,
da Cicerone , da Varrone . Il mare , i fiumi , le fontane , la pioggia ,
il tuo- no , le rupi , le caverne , le pietre , i monti , gli
alberi , le piante , gli erbaggi , e tutti poi gli Ani- mali li
coniìderarono come alberghi d’ una infinità di attive prelìdi
Intelligenze producitrici di quelli effetti or nocevoli , .or vantaggiolt
, che feulco- no il fenlo umano . Le Anime de’ Trapalfati o dalla
riconolcenza , o dall’ amor degli Uomini con- fecrate ricevettero ben
prello 1’ Apoteolì , ed ac- crebbero il numero delle Intelligenze motrici
del- la natura . Come Macrobio C i ) , e 1’ Abate Le Pluche ( 2
_),il primo in aria da Filofofo , il fecon- do in aria da Storico,
diffiifamente ci mollrano, Oliride, Ifidè , Amone,Oro, Serapide degli Egizj
; Zeus , o Dios Giove , Marte , Saturno , Venere , Mercurio ,
Giunone , Cibele de’ Greci , e de’ Roma- ni ; Dionilìo, Urotalt ,e Alilat
degli Arabi; Marnas de’ Fililtei; Moloch degli Ammoniti; Adad de’ Sirj
; Adonai , Achad , Architi , Baelet , Belfamin , Mel- chet de’
Paleltini , non erano da principio che il Sole, la Luna, o la Terra, e
quindi in progredii Anime di Principi o Principelle, d’ Eroi o
Eroi- ne ite a regnar nel Sole, nella Luna, negli Altri, o a
preledere alla Terra. Quindi la turba degl’ Id- dj Confenti o maggiori ,
degl’ Iddj fecondar) o minori ; e 1’ altra infinita plebaglia di unte
varie Divinità regolatrici di tutti gli effetti , e di tutti gli
elleri naturali , quale non meno accuratamen- te, che leggiadramente ci
viene dal grande Ago- stino ( t ) Saturnal. lib. I. f a J
Star, del Ciel. lib. I* i2 Dissert. sull* Origine ftino
C 1 J accennata . In Quella guifa le due opi- nioni del Volito, e del Clerico
amichevolmente fi legano colla opinione comune, e tutte unite ci
additano la prima origine del più grande acceca- mento degli Uomini. ,,
Deplorabile acciecamen- ,, to ! (" concluda quello paragrafo il
facro Autore del Libro della Sapienza ) vana illufione di quelli ,
„ che non conolcono Dio ! Attorniati da’ Tuoi be- ,, nefizj non hanno
veduta la mano, che li dif- „ fonde ; dalla magnificenza delle opere
della na- ,, tura non ne hanuo faputo riconofcere 1’ Artefi- ce .
Si fono perfuafi , che il fuoco , 1’ aria , i ,, venti , le llelle.
Tacque, il Sole, la Luna fof- fero i Dei , che reggono il' Mondo
Più „ miferabili ancora , perchè ripongono la lor fìdu- ,,
eia in fimulacri morti , ed inanimati ; elfi dan- „ no il nome di Dei
all’ opera della mano degli „ Uomini , alT oro , all’ argento
indullriofamente ,, lavorati a figure d’ animali , a pietre
modellate ,, fecondo il gulto di un Artefice L’Uomo ,,
fi forma un Dio d’ un tronco inutile, a cui dà •la propria forma dia',
oppur quella d’ un Ani- „ male. ,, Qui però vuole avvertirli
, che T ufo de’ Si- mulacri in figura d’ Uomini , e d’ Animali
appar- tiene bensì a’ tempi della già groil'olana , ed avanzata
Idolatria , ma non a quelli della nalcen- te . ,, Un Uom fa J , che
dritto ragioni f pro- fieeue fi) De Civit. Dei lib. V.
VI. ( 2 ) AM' ort y.ev oi rpurrot } koa tMcuot«- TOl
TUV (XV&pWTUJV , «Té VOCUy O/XoBojWfOWf TpO- tìx.o * , «Té hot#
ccipttpufjLcuriv j «tu t ore ypot~ tylXJfc , «Sé xA.afT.XW J yi yAlTTtXW
, » « vlpict - rrOTQITLKH f rCKVYK tpiUpyifAWYIS , 8^£ fJ.IV QLKQÒOUt-
*W, B^é op^iTtKTOVtKVis o-vujKTurrg y ra.ru ry o ifjca mfaoyityj.(vy
ìiyiXov etra*dell'antica Idolatria;. fiegue il noftro Eufebio,
rapportandoli alle telli- monianze di tutti gli Autori gentili ) può
facil- „ mente rimanere perfuafo , che i primi ed an- „ tichiffimi
Uomini niuna fatica , o Audio ripofe- „ ro nel fabbricare Templi , ed
innalzar Simula- cri , non etlèndo Aate per anco inventate le „
Arti della Pittura , della Statuaria , della Scol- „ tura, anzi neppure
1’ Architettonica . „ Quindi dopo avere ripetuto il già detto circa la
primige- nia adorazione degli Astri conclude , che „ da „ principio
niuna menzione vi fu di greca , o di yy babilonica Teogonia , niun ufo di
Simulacri y „ niuna ridevole vanità nella denominazione de- ,, gli
Dei parte mafchj , e parte femmine • fi) È veramente lembra cofa aliai
naturale , che la fòrgente Idolatria ne' vetustiffimi tempi ,
comecché avelie cangiato 1* oggetto della Religion prima e verace ,
non giungeiìè però sì tosto a cangiarne i riti e le cerimonie . Porfirio
fcortato da Teo- frasto , e citato da Eufebio ( 2 J pretende
delinear- ci il religiofo culto innocente degli antichi Poli-
teisti . Ma in verità quell'impostore Filofofo ne- mico giurato del
Cristianefimo nell’ adombrarci ì* estrinseca religione de’ primi
adoratori de’ falfi Dei , non fa che prendere in prestito que’ colori ,
con cui la Scrittura Santa ci adombra la Religione de’ Patriarchi
adoratori del vero Dio. Nulla infatti di più fèmplice e di più fchietto .
Que' fanti IH mi v Uomini negli efercizj di Religione poco
curavanfi dell’esteriore, e del fasto. Ellì la facev.an confi-
stere in picciol numero di estrinfeche azioni , per- fuafi , che il vero
culto è quello del cuore. L’ in- nalzamento de’ Templi non oltrepalla per
avventu- ra l’età di Mosè. Un femplice Altare in un luo- go
( I ) Oux tstpct ng Iw Qtoyoviccs EXXfuwX'f? , # fiapGctpiKK rote
TaXouTaTOtf f «^6/x »; tcw 7\oy<K y • bhe &X.0VW ìlpustS y ìtìt Ó
c. « (a} Prjepar. Evang. lib, J,Djssert. sull’Origine
go mondo , e fpartato , lènza statue e lènza figu* re , lènza
adornamenti e lènza ricchezze , in un bofco , o fovra d’ una eminenza era
il luogo dove Abele , Noè , Abramo , Ifiacco , Giacobbe colle lo-
ro famiglie fi raunavano per tributare all* Altiflìmo i loro voti ed
omaggi . Ivi a Lui predavano le primizie dell’ erbe e de’ frutti , ovvero
il latte , i «radumi , e le lane degli Animali , che dopo il Di-
luvio cominciarono ad immolarli . Ora fu quelle medefime tracce di
religiofa femplicità io tengo per certo , che nella fua infanzia
procedette la Idola- tria . Intela a venerar come Dei il Sole, la
Luna, la milizia celefte, gli elementi , le prelidi Intelli- genze
non Teppe sì tofto ufare altra forma di culto , fe non fe quella , con
cui aveva intefo , e veduto adorarli da’ Patriarchi fedeli il fommo
Conditore dell’ Univerfo . Niun ulo adunque per anco de’ Si-
mulacri rapprelentanti fiotto animalefica , o umana lembianza le pretelè
Divinità . Niun ufo di quelle datue , che rozzamente in feguito , e
grottefcamen- te modellate dagli Egizj , ottennero poi e castiga-
to difiegno , e fipiccata *. motta , ed energico atteg- giamento lotto lo
ficalpello indulìre di Dedalo. An- zi qui dee acconciamente fioggiungerfi
, che anche dopo la coftruzione de’ Templi fi tardò molto prefi* fo
le antiche Nazioni ad ergere in elfi le llatue fi- gurate ; come degli
Egiziani parlando afièrma Lu- ciano , il quale aggiunge ( i ) d’ aver
nella Siria veduti Templi dell’ antichità più remota lènza im-
magine , o rapprefientanza veruna . Che più? Ro- ma detta , che in
paragon degli Egizj , e de’ Greci nacque sì tardi, per oltre anni 170. (
come ci atte- da Varrone citato ( 2 ) da S. Agofiino ) Simulacri
non ebbe ( 3 ) ne’ proprj Templi,, finché Tarquinia Fri fico
( 1 } De Dea Syria . ( 2 ) De Civit. Dei lib . 4. c. 3 1. (
3_) Dicit eiiam Varrò , antiquos Rcmanos ylufi quam annos 170. Deos
fine Simulacro coluijje . Qiiod fi adhuc , inquit , manfijjet y
caflius Dii ob - fervarcntur . S. Auguft. citat. dell’antica
Idolatria. t? Prifco Uomo di Greco , e di Tofcano genio tutta
di Simulacri inondolla . Anzi più didimamente aflerifce Zonara ellervi
date leggi , forfè di Numa , £ roibitive a’ Romani di rapprelentare
la immagine livina fotto la forma di Uomo, ovvero di Anima- le .( i
) Ma l’ Idolatria finalmente è l’opera del- le tenebre, e per poco
crefciuta, non potea a me- no di non addenfarle nel cuor dell’Uomo. L’Uo-
mo divenuto più empio circa gli oggetti dell’inter- no fuo culto , non
tardò guari a fard ridicolo circa le maniere di elercitarlo. Egli avea
degradata ab- ballala la fua ragione , adorando come Dei le fem-
plici Creature . Quello medelìmo fpirito di verti- gine il tratte ben
pretto ad avvilirli viemmaggior- menfe coll’ adorare 1’ opera fletta
delle fue mani . Ei volle oggetti fenfibili e materiali anche all’
•efterno fuo culto. Ei pretefe di circolcrivere li fuoi Dei per
converfarvi più da vicino , ed innal- zò , e venerò .Simulacri . Or di
qual forma erede- rem noi , che follerò in quello genere le prime
in- venzioni dell’ umana ttoltezza > Quali gli fcogli , in cui
da quella banda urtarono primamente gli Uomini deliranti ? Eccomi alla
feconda parte della Dittertazione pervenuto, ed eccomi al punto di
nia- nifeltare la mia opinione . Io reputo adunque
probabiliflìmo , che follerò in primo luogo i Pilieri , o le grotte
pietre qua- drate , le quau chiamate furon Betilie , e che ori- f
linariamente non erano, che Are ferventi alle rc- igiole adunanze.
Sanconiatone , Scrittore antichit- fimo delle tradizioni Fenicie ,
portato da Portino fino alle ftelle , e da Lui creduto
informatilfimo della Storia Giudaica , come non molto dittante
dalla età di Mosè , nel celebre fuo frammento , là dove narra le imprefe
del Dio Urano , o Cielo , affer- ( i ) At'typvrou$v ,
xan tyofiop$ov nxwa. tu Sa eariSTca Pvy.yjois aTe-r/wcoo'. / uuar . Tom.
a . y. io- I T 6 DlSSEftf. sull* Ortgtné
afferma, che ,, Egli trovò le Betilie ( i ) coftrtien- „ do con inlolita
mirabil arte Pietre animate. ,, Io non ho letto di tale Frammento fé non
la ver- done greca fatta già da Filone Biblico , e riporta- ta
diftefamente da Eufebio . ( 2 J So, che il Si- gnor di Gebelin colla
fpiegazione di quello antico irjonumento ha fatto vedere, che il
Traduttor gre- cò ne avea malamente recato il lenfo, e che ridu-
cendo i termini al vero loro fignificato , 1 ’ Autor Fenicio trovali
uniforme al Legislator degli Ebrei. (3) Checché ne fia , dilHetto non
vengami di le- guir le tracce già legnate dal grande Uezio , e
dall* erudito Calmet , affermando , che Sanconiatone in quell’
accennato ritrovamento delle Betilie , e co- struzion di Pietre animate
ci adombra , benché in modo affai alterato , la vera Storia del celebre
mo- numento, o Altare di Giacobbe. Quest’ottimo Pa- triarca (~ 4 J
nel fuo viaggio da Berfabee in Melo- potamia postoli in certo luogo a
dormire fu di un grande , e ruvido Saffo acconciatoli a forma di guan-
ciale , ebbe la sì nota vifion della Scala corfeggia- ta dagli Angeli ,
fu la di cui lòmmità appoggiato flava 1 ’ AltilTìmo , da cui lènti
rinnovarli le grandi promelfe fatte ad Abramo . Deftatofi egli ,
efcla- mò Quanto è mai terribile quello luogo / Vera- mente non è
egli altro , che la Cafa di Dio , e la porta del Cielo . Diede a quel
luogo il nome di Beth - el , che lignifica nell’ ebreo linguaggio
Cafa. di Dio Conlècrò il Saffo, che la notte lèrvUo gli aveva di
guanciale , verfandovi dell’ Olio , e in monumento 1 * erefle. Quindi
concependo un Vo- to , il conclufe col dire cs II Signore farà il
mi® Dio se e quella Pietra chiameraffì Cafa di Dio c 5 ( I )
Et/ miwe 0»? Oupcao? ( 2 ) Pr*p. Evang. lib . I. c. 9. C 3 ) AUeg.
Orien- tai. p. 22. e 9 5. Memor. de V Accad. des Infcrip* T . 6 1.
in 12. p, 24 3. (4) Cenef. 28. 18. Dalla
V* dell'antica Idolatria; 17 Dalla Mefopotamia
tornando nella Terra di Ca* naan , giunto allo Stello luogo , e Soddisfar
volen- do al già fatto voto d’ offerire a Dio la decima de’ Tuoi
beni , innalzò fimil mente un Altare di pietra , e replicò il nome di
Beth - el , Cafìz di Dio. Finalmente di bel nuovo in que’ contorni
felicitato dall’ apparizien del Signore , nove! mo- numento di pietra
cortrulle , d’ olio , e di liba- zioni Spalmandolo, ed a lui pure
comunicando la denominazione di Beth - el . Io ammetterò , che
quello termine Beth - el dato agli Altari , ed ai mo- numenti facri ,
quanto all’ edema efprelfione , fofr fe uri ritrovamento di Giacobbe; ma
follerrò con egual verità, che quanto all’ idea , ed all’interno .
concetto degli Uomini ei difcendelfè dalla tradi' zion più rimota. Beth -
el , Caja di Dio , potea fi- milmente confiderai , e chiamarli 1’ Altare
nell* ulcir dall’ Arca edificato dal buon Noè , perchè ivi 1’
AltiSTimo a lui diede fegni fenfibili di fua prelenza , e mifericordia .
Beth-el per Somiglian- te ragione potea appellarli 1’ Altare edificato
da Abramo fui monte Moria per fagrificare il Figliuo- lo; éd egli
infatti chiamò quel monte Dominus vi - debit. Beth-el giuftamente nomar
fi poteano tutti gli Altari innalzati da’ Patriarchi fedeli per ufo
an- tichilfimo, forle dagli antidiluviani fecoli proceden- te ,
perchè tutti onorati da qualche' Speciale com- mercio della Divinità ,
percnè diftinti da qualche fuperna verfata beneficenza , perchè in certo
modo protetti , ed invertiti dal Nume , e destinati a tri- butargli
culto , Sacrifizio , e riconofcenza dalle cir- costanti Generazioni
. Ora da quefti Altari , e monumenti di pietra , chiamati da
Giacobbe per la prima volta Beth - el , cioè Caja di Dio , e già tenuti
per tali fino da* remotiSfimi tempi , chi non conofce ( entra qui
acconciamente il Le Pluche) (i J etìerne derivate le sì note Betilie ,
quelle grolle pietre quadrate , B che to Stor. del
Cielo , 1 8 D r SSERT. SULL* ORIGINE che con ol) preziofi , ed
aromatiche eircnze irriga- vano , e che poi furono in tanti luoghi
oggetto di veturtiffima adorazione, come da più Autori , e no-
minatamente da Fozio nella fua Biblioteca dinto- ftrafi ? Chi non conofce
dal Bethel di Giacobbe C foggiunge opportunamente il Voflìo ) ( i )
deri- vato il famofò Betilos , quel (allo prelentato a Sa- turno
invece di Giove, come per relazione favo- lofa Efichio ( 2 ) ci narra , e
che ottenne poi tan- to culto dalla forfennata Gentilità ? Ed io al
Vof- iìo , ed al Le Pluche fottofcrivendomi , concludo : Chi non
conofce in quelti monumenti, ed Altari il primo inciampo degl’ Idolatri ,
ed il primo og- getto fènfìbile , e materiale delle adorazioni
fuper- ìtiziofe ? Mettiamci di grazia in varj punti di villa
naturalismi . Confideriamo il genere umano dopo la confufion delle lingue
, e la differitone delle .Nazioni già prefo da uno fpirito di vertigine ,
e già declinante al Politeifmo . Malgrado le volon- tarie tenebre ,
che incominciano ad acciecarlo et l'erba tuttora nel cuore il fème della
religion pri- migenia ; e nella memoria i fagri riti, e le reli-
giofe cerimonie dal Patriarca Noè tramandate . Egli perciò innalza, e
confagra in ogni luogo pie- tre modellate a fòggia d’ Altare per onorarvi
la Divinità : ei vi ft proftra all’ intorno: ci vi ce- lebra le
religiofè adunanze : ei vi prefenta i Tuoi Sagrifizj , comecché forfè non
più al folo , e vero Nume, nta agli altri ' ancora , agli elementi,
agli fpiriti . Ei fa però , ed una tradizione non rimo- ta glielo
rammenta , che il primo Riparatore de- gli Uomini dopo il Diluvio ergendo
un limile Al- tare , il vide torto adombrato dalla fènfibil pre-
lenza , e maeftà dell’ Altiflìmo difeefo in atto di ricevere , e di
gradire placabilmente i fuoi Olo- caufti . CO De PhU.
ChriJIUn. C? Theol. Gent. Vib. 6. t. :p. ( 2 ) BatTuho? «toj
fjtocXe-fTO o AtGo; to> K poeti) cari &ios ,
Dell* antica Idolatria; taufti . Comecché la Scrittura noi dica ,
io noa credo temerità 1* aderire , che limili degnazioni
compartifle talvolta il Signore anche ai Figliuoli, o ai Nipoti di Noè ,
che fi mantenner fedeli pri- ma d' Aoramo. Ben il vecchio Sacerdote, e
Re di Salem Melchifedecco ne avea tutto il merito. Checché ne fia ,
certamente il genere umano non può non confiderar quelle pietre , od
Altari , che qual cola rilpettabile , e (anta. Fi le vede fèrbate
ad un culto Speciale della Divinità , e ad un peculiar commercio col
Cielo : ei le vede in- nalzate o per rinnovar la memoria d' alcun
luper- no ricevuto favore , o per invitar gli animi ad una fedele
riconofceitza : ei le vede anche ufate per edere teftimonio , e monumento
durevole delle al- leanze , de' patti , delle folenni prometle , e de'
giu- ramenti , ne’ quali s’ interpone il tremendo nome » e la
Maeftà Divina. Gli efempli , che fu di ciò abbiamo nella Scrittura , non
fanno , che dinotarci una vetuftidìma poftumanza. A tutto quello s' ag-
giunga 1' opinione già di fopra accennata , e che fi- no dai primi tempi
fi propagò fra i mortali , cioè che tutto ripieno folle d’ Intelligenze
regolatrici degli elleri , e degli effetti della natura . Con-
nettali pure l’altra opinione d’ antichità non mi- nore da S. Agoffino
rammentataci ( i J colle pa- role del celebre Mercurio Trifmegifto , cioè
che per certe conlecrazioni rimanellèro li Simulacri non pure
inveititi , ma realmente animati dalli Dei venuti ad abitarvi , affin di
nuocere, o d? giovare più da vicino ai loro adoratori . Ciò , che
forfè adombrar volle Sanconiatone con quella ef- preffione di 7 ^ 0
^$ Pietre animate. Con- siderando noi il genere umano in tali
profpetti , qual cola più probabile, e naturale a concluderli, eh'
egli , parte abufando delle antiche tradizioni veraci , parte ingannato
dalle nuove folli perlua- B 2 fioni, C t J De Civit.
Dei lib. 7. e. 23. e 24* f 2 o Dissert. sull*
Origine fioni j e già rilbluto di voler oggetti fenfibili al
proprio culto , cominciale ben pretto a venerare quegli Altari , que’
monumenti di pietra , quelle Eetilie , .riguardandole o come Alberghi
della Di- vinità , o come fimboli della prefenza divina , e finalmente
, tempre più creteendo 1* accecamen- to , come tanti veraci Iddii ? Se il
genere umano è pure intefiato di adorare l’opera delle tee ma- ni ,
qual cofa più reverenda , e più degna di culto ai di lui occhi pretentali
, che i mentovati Altari , o monumenti , o Betilie ? Qui
vorrà alcuno per avventura obbjettarmi , che quando trattali d’antichità
olcurilfima , più che^ col raziocinio , voglionfi colla fioria , e co’
fatti fiabilir le opinioni j ed io non fono per conten- derlo.
Forte però, che l’opinione da me propo- sta non li deduce naturalmente in
gran parte dai Libri Storici di Mosè , i quali ( lanciando anche
ftare quella ifpirazione divina , che li confacra, e mirandoli tei con
occhio di Filotefo non tumido per alterezza , nè da paliioni alterato )
ben va- gliono aliai più, che tutti li Vedam de’Bramini, gli Zend
di Zoroaftro , i Kinghi di Confucio , e di Se-ma-fiien, ed i racconti
favololi di Erodo- lo ? Pur i*on fi creda , che io voglia in quella
ma- teria lafciare affatto il mio Leggitore digiuno di monumenti ,
e di autorità . Il Volilo C i ) rapportaci , che il Beth - el ,
o Pietra di Giacobbe , di cui tanto abbiamo parlato , fu a
fomiglianza del Serpente di bronzo , per lun- ga età foggetto di
fuperfiiziofa adorazione a molti Giudei , finché da’ veri Ifraeliti prete
giuftameu- te in abbominio , gli fu cambiato il nome di JBef/i- el
% Cafa di Dio, in quel di Beth - ave , cioè Cafa della Menzogna .
Quali poi furono i primi Simulacri degli Ara- bi , tra i quali i
Moabiti , e gli Ammoniti fi com- prendevano? Gli Autori antichi, a’ quali
rappor- tali i ) lai’, d. r. 2p. dell’ antica
Idolatria. 21' tali il Calmet , e che ci parlano delle prime
Divinità di que’ Popoli , le defcrivono come fem- pjici Pietre informi, o
fcalpellate, ma non con umana forma. ,, Voi ridete, dice Arnobio,
(2) „ che ne’ vetufti tempi gli Arabi adoraflero una ,, Pietra
informe . „ Malììmo Tirio ( 3 ) o di que* ito , o d’ altro Arabico
Simulacro parlando il chia- nia Tfrrpxyjìm Pietra, quadrangolare. Ed
Eu- timio Zigabeno nella fua Panoplia ragionando co’ Saraceni
: ,, Ed in tjual modo , efclama , voi ab- ,, bracciate la Pietra di
Brachthan , e la baciate ? ,, Alcuni rilpondono : Perchè Abramo fopra di
efc „ fa eboe il fuo primo commercio con Agar. Al- ,, tri poi
: Perchè ad ella legò il fuo CameTo quan- ,, do fu per lagrifìcare Ilàcco
. f 4 ) „ Non pen- io di meritar la taccia di capricciofo , fe
giudico quelle Pietre adorate in feguito nell’ Arabia nuli* altro
elfere fiate da principio, che vetulte Beti- lie , o rozzi Altari fors’
anche al vero Dio confe- crati . Certamente Mosè , ("5 J in ciò
ieguendo S er avventura la tradizione , e il più vetullo co-
ume , prefcrive , che di rozze Pietre dal ferro non tocche , e informi
fallì , ed impoliti follerò gli Altari , che dopo il patlàggio del
Giordano fi volelfero al Dio d’ Ifraello innalzare; e nuli’ al- tro
, che grandi Pietre fpalmate alquanto di calce folfero i monumenti
defiinati. a fcrivervi lòpra le parole della legge. Temette forfè il
grande Le- B 3 gisla- ( 1 ) 7 efor. cP Antich. tratto dai
Coment, del Cal- met T. 2. ( 2 J Lib. 6 . C 3 J Sermon. 3 8.
( 4 ) Ili* VfJUHi TposrpiQtsrt toj ?u 9 u» t ts Bpxyficxv j xou
tpiKsirt raro» ; kou tiiik j aa> ewrw tpctti y %tQTi tir coki) aura s
trasloca rn Ay cefi 0 Afipaont. AÀA01 ?>£ ori rpotilìiKur carro»
thv xxiju iXov , fJ.iKho»r (jusai rov I sotux. . C s )
Deuter. 27. 5.22 Dissert. sull’Origine gislatore , che fé tali
monumenti , ed Altari fi f 0 f. fero con più eleganza collutti ,
divenilfero più fa- cilmente al rozzo fuo Popolo, e vacillante
pietra d’inciampo, e fomento d’idolatrica fuperllizione . E
qui , giacché dell’ Arabica fuperllizione ho fatto parola , voglio
avvertire, che della per lungo tem- po mantenne!! nella lua primigenia
feniplicità. Giobbe Arabo, o Idumeo , forfè contemporaneo ,
le- non anteriore a Mosè, accenna lenza meno l’ Ido- latria del fuo
Pael'e. Or ei non parla nè di lla- tue , nè di figure . Indica fidamente
1’adorazione , ed il faluto del Sole , e della Luna, che poi Uroralt, ed Alilat
furono nominati . Se- gno manifelto, che fra que’ popoli non fi era
introdotto per anco quel lopraccarico di moftruole follie, con cui dalle
Scolture Egiziane rimale ag- gravata l’ Idolatria. Che fe non pertanto
gli Ara- bi ab antico proltravanfi a Pietre informi , o qua- drate
, quali io reputo Betilie , ed Altari , ben con- cluder potrai!! , che
quelli follerò il primo. fco- glio, e il primo fcandalo al/ materialifmo
de’ più antichi Politeilli . Teltiinonio ne facciano i primi
Abitatori del- la Germania . Colloro finché rimaforo nella vern-
ila loro rozzezza, finché la fuperllizione fra eli! col commercio delle
arti Greche , e Romane non giunfe a farli più vaga infieme , e più llolta
, al- tri Simulacri non ebbero, come Tacito ( a J av- verte , che
folli informi di legno , e di rozze pie- tre . Erano quelle le forme
degl’ Iddii , che por- tavanocon elfo loro alla guerra , penlando ,
che folle un offendere la Divinità il rapprelèntarla fotto umana
fembianza . Ciò , che pure da molti altri C. 31. v. 16. ( 2 J
De Morìb. Germart. Sta- tua ex stipitibus rudibus , i? impolito
lapide effi- gi e s , CP Jìgna quxdam detracia luci s in prxlium
ferunt . Nec cohibere parietibus Deos , ncque in ullam humani oris
Jpeciem affimilare ex magni- tudine cotlejìium arbitrantur. altri
Popoli di non peranche ingentilito collume , per quanto narrano gravi
Autori , collantemente penfolfi . Ma e dove lalcio la celebre Madre
degl* Iddìi , o fia Cibele di Frigia portata in Roma da Pelìinunte
col miniftero di Scipione Nafica , e da* Romani ottenuta per mediazione
del Re di Perga- mo al tempo della feconda guerra Cartagine!?
? Livio le dà il nome di fagra Pietra„ Pietra informe la chiama
Minuzio Felice . Arno- bio la defcrive come una Selce non grande di
forco, ed atro colore , e per angoli prominenti ineguale . Eravi fra quei
Popoli tradizione , che quella Pietra caduta folle dal Cielo, e che
ap- punto da jrK&y cadere la Città Pelfinunte folle Hata chiamata
. La Grecia ftefTa non fu priva di quelle fog- gie di
Simulacri. Paufania ci attefta, che in una loia parte d’ Acaja furono da
trenta Pietre taglia- te in quadro , aventi ciafcuna il nome di una
qual- che Divinità , e con fomma venerazione riguarda- te , fendo
llato collume antico de* Greci il prellar culto a limili Pietre , non
meno di quello , che pofcia faceflèro alle figure, e alle llatue. Mi farà
egli difdetto il probabilmente congetturare per le ragioni di fopra
addotte , che quelle , ed altre* limili Pietre di Grecia nuli’ altro da
principio fof- fero , che Betilie ? Servirono un tempo a niun altro ufo,
che agli efercizj delle facre adunanze. L* Idolatria col farli più
tenebrola giunte a diviniz- zarle . Betilie ùmilmente , o imitazione
fenza me- no delle Betilie pollòno crederli gli Ermi , di cui la
Grecia , e Roma furono ripiene , e che pofcia ad abellire fervirono
fpecialmente le Biblioteche. Bili non erano da principio , che tronchi
informi di legno , o di marmo , o di pietre tagliate in quadro
fenza mani , e fenza piedi : T runcoque fiinillimus Her- inu?, dille
Giovenale. ("3) Ne* quattro di loro lati pretendeva!! dinotare o le
quattro ltagioni, o le quat- B 4 tro ( 1 J Lib. 2$4 ( 2
J Lib . 6 • ("3 ) SiiU 8. 1 '24 Dissert. sull* Origine .
tro parti del Mondo. Si confiderarono poi come ilatue degli Dei , e
di Mercurio principalmente „ Il di lui capo , che vi fi aggiunfe , fu
fenza meno un poderiore ornamento. Anche il Dio Termine non fu
nell* età più vetude rapprefentato , che fot- to la figura di grolfi
Saffi quadrati , cubici , privi di mano, e di piede : Ttrpctywoi ,
xuQoziìitls y K'Xttp&y xou airone? ; quantunque al Dio
Termine pur s* aggiungere la teda umana ne’ fecoli confeguen-
ti . E che non può in quella parte una matta per- fuafione a poco a poco
crelciuta fra i barlumi di tradizioni parte vere* e parte mendaci? A
tutti è noto , che da molti Popoli fi giunte per fino a ve- nerare
le Montagne , quali grandilfimi Simulacri della Divinità. Il monte
Atlante era il Dio de- gli AfFricani. Occidentali : un monte il Dio
de* Oappadoci per allerzione di Malfimo Tirio : Moni a pud
Cappadoces prò Deo ejl , prò jur amento , atquc Simulacrum . Un
monte , o fia rupe SxotéA© r y xoputplw il chiama Stefano , ( i )
rifcoire pure adorazione dagli Arabi. Giove fi venerava nella cima
de’ più alti monti , come dell’ Olimpo , del Callo , dell’ Ida ; e il
nome quindi ne rifcuotea di Giove Oljmpico , di Giove Cafio , di Giove
Ideo . Gl’ Italiani ilelfi predarono al monte Appennino venerazione
, come apparifce da una Ifcrizione ri- ferita dal Matfèi nel tuo Mufeo
Veronefe, la qua- le comincia IOVI APENINO. Ora e per qual ra-
gione crederemo noi , che adorati veniflero tal» monti , te non per la
della , che confecrate avea le Betilie ? Ce la prelenta naturalmente il
Berge- ro . ( 2 ) Fu fcelta la cima de’ monti per offrirvi
de’ facrihzj , perchè credevano gli Uomini d’ e fie- re più vicini
al Cielo, e conseguentemente agli Dei, qualora fi adoravano gli Altri.
Per tal mo- tivo (" i ) In Avsccpq . ( 2 ) Trattai,
della vera Relig. ìf tfvo <i feielfero le pili alte. Tali cime
per eli .«lercizj della Religione confècrare ben predo dir vennero
rilpettabili Immaginoifi , che gli Dei vi fodero difcefi^ p®* ricevervi
T’ incenfo , e gli omag- gi degli Uomini. Pài non vi volle.
Riguardata prima come abitazione de* Numi , fi confidcrarono ben
predo quai Simulacri immenfi animati dalla Divinità, ed ottennero una
fpecie d’Apoteofi. . Gon quanto fi è da me finora ragionato, e
che, le il tempo lo permettelle , con altre notizie, e cagioni
facilmente potrebbe!* dilatare, io giudico refa ormai probabile la
opinione di chi accinger vogliali a fo denere , che. i primi Simulacri
delìq Gentilefche Divinità fodero femplicl Pietre riqua- drate , od
informi, fenza alcuna umana, q anima- • Jefca fembianza . Reda ora
, che alcuna cola ragionili de* Simu» * a , cr * ° rot °ndi , o tendenti
a rotondità, a cui pre- ito fuo culto primiero la cieca' fuperdizione , pfi*
ma che folle ai figuri te Statue provveduta. Io non fono per
ripetere quanto di fapra ba* ftevolmente ti £ detto intorno a| culto
degli Adri* e degli Elementi , degli Spiriti, e degli Eroi. Ag-
giungerò (blamente , che non sdendo per anche giunto lo fcalpello Adirio
, o. Egiziano a rapprefentar le figure degli Uomini, e degli Animali, e
per elprelfioni di Arnobio , ( i J avanti 1’ ufo , e U difciplina
della fcoltura , già penfato avea 1* Idolatria a procacciarli , oltre le
Betilie , oggetti temibili alle lue adorazioni. Gonfiitevano quelli
iti certi fimboli q dinotanti, la potenza, e dabi- hta de’ Numi , o
adombranti in qualche modo alcuna or qualità, J Battoni , le Verghe, le
Afte, che al dir di Trago Pompeo (a) furono la prima “^gna .dei Re,
lignificavano il fommo imperio . de Numi, Le colonne, i cilindri , le pur
non erano una imitazione più ‘ ingrandita dei Badoni da comando, ne
accennavano l’ eternità. Gli Obe- B 5 Ufchi, ' fi) Lib,
& (Lib % ultima t6 Dissert.
sull* Origine lifchi , le Piramidi , i Coni efprimevano i
»gg* «}el • Sole , e delle Stelle , o la natura del fuoco , che -in
alto vibrava!! acuminato. Menianrto pur buone a Porfirio ( i ) le
interpretazioni sì fatte . Concediamogli ancora, fe piace , che tali
monu- menti alzati dalla pili vetulla gentilità non fi ri- guarda
fiero da principio , che come fimboli , o meri Pegni d’ onore . Il Volfio
, e forfè con trop- po impegno, è dello fleflo parere ; ma poi di
Por- firio più ragionevole , perchè non tanto foffifta , nè così
empio , s’ arrende a concludere , che ben pretto divennero occafione di
lcandalo alla materiale Idolatria , e oggetto furono di profane ado-
razioni . Elfi in una parola ne’ primi tempi flet- terò in luogo di
quelle ftatue figurate, che poi ot- tenner l’ incenfo dalle corrotte
umane generazio- ni . E qui bramo s’ avverta ? che dove di fopra io
dilli , aver preffo molte nazioni tardato non poco le ftatue ad
innalzarfi ne’ Templi anche dopo la erezione de’medefimi, io intefi
favellar foltanto delle Statue rapprefentanti le Teodie fotto la forma di
Uomo , oppur d’ Animale ; ma non volli giammai includere i Simulacri ,
per così dire , fim- Eolici , e non aventi figura . Quelli fono anteriori
, non pure alla ftabil mole de’ grandi Templi , ma eziandio a quei
Padiglioni, o Tabernacoli, o Tempietti portatili , con cui gli antichi
Idola- tri ebbero in ul'o di condurre a patteggio i loro Numi
. Ora di quelli non figurati Simulacri parlando , m’aprirò il
varco con l'autorità di Filone Bibli- co ( aj , il quale nel fuo proemio
alla interpreta- zione di Sanconiatone, diftinguendo gli Dei immor-
tali , come il Sole , e la Luna , dagli Dei mortali , cioè da que’
Principi , ed Eroi , che per le loro getta avevano confeguita l’ Apoteofi
, ci avverte «fiere flato vetullo immcmorabil collume ,
fpecialmente (ij Apud Eufeb. Trap. Evang. lib, 3. c. 7.
(a) JW. lib. 1. e. 9. mente degli Egiziani , e Fenici , da’
quali preferì norma le altre fazioni, d’ innalzare a quelle Chili
d’Iddii Colonnette, o Baftoni , o fia Scettri di le- • J_ - -t
fn..: ninmimpntl il nome di (cerando. (i),„
Sanconiatone poi nel fuo frammento racconta- ci fa J, che molti
fecoli prima della coftruzione de’ Templi, e formazione delle Statue Ufoo
primo navigatore avea dedicate due Colonne %uo sTtfKxS al
fuoco , e al vento, e prellato ad entrambe cul- to , e facrificio col
fangue degli Animali. Proiie : f He indi a narrare , che dopo la
morte de primi roi già divinizzati la grata pofterita onorata avea
la lor memoria , lotto i loro nomi confecrando ver- ghe , e colonne, e
con feftivi giorni , e fagre ce- rimonie adorandole . Finalmente ci
addita , che dopo lunghiffima età fu innalzata al Dio Agro vera
effigiata Statua nella Fenicia . .. Giu Teppe Ebreo f 3 ) non
diubmigliantl noti- zie prefentaci , aderendo , che i Tir) da
principio a’ loro Dii fornirono Afte , e Baftoni , poi Colon* ne ,
e finalmente le Statue . .Certo nella primitiva Egiziana Scrittura fimbo-
lica ( 4 ) non in altra foggia, che d’ un Bafton da comando con un occhio
efiprimevafi Ofmde , il S uale originariamente fu il Sole ,
fignificar volen- o la fua regale potenza, ed il mirar ch’egli fa
dall’alto tutte le cole. Ed io ben credo efftre agli Eruditi notiffime le
Piramidi , gli Obelifchi , ed i Coni dall’ Egitto al Sole innalzati ,
come per imitar- * i 'Tru'Xas rt , xcu
pa<i; aipitpoiw coope- ro? ccuTiM , xoa rocurot ju.yaAw? ,
kou ioprrccs m/J.or carrots Taf pryisrccs. fi) Apud
Eufeb. ibi c. io. ( 3 ) Cont. Apìon. lib. I. (4J Macrok. SatumaL lib.
I.c. ai. Digitized by Google aS DisserY. ' suit*
Ormine imitarne I fuqi raggi . Da ciò forfè provennero quelle corna
, d* cui in fedito 1 Egizia bizzaria li compiacque ornar gentilmente il
capo del tuo Giove Amone, del fpo Apollo d*Eliopoli,e della fua
Ifide. Ove à no\ piaccia di ftare * certe le- zioni per altro antiche del
tetto di Quinto Cur- zio, CO ammetter dovremo, che 1' Amone ado-
rato da’ Trogloditi , e proceifionalmente a fpalle di Uomini condotto in
una dorata barchetta per aver- ne eli Oracoli , altra forma non avea ,
che d un Goiìò, ó d’ un Ombelico tutto di fmeratdi , e P rc ~ ziofe
gemme fmaltato . Almeno rigettar non po- tralTi 1* autorità di Brodiano,f
2 J il quale ci delcrive il Simulacro del Sole (otto nome di Elegalu
, venerato iq Edeilfo della Siria Apamena • Di tale Simulacro (e ne può
vedere adombrata «. forma in una medaglia pretto il Vaillant
battuta ali* ùltimo e più pazzo degl’ Imperadori Antonini . Or ecco
la defcrizione di Erodiano, giufta la ver- fione latina fatta dal
^oliziarfo . „ In Edefla non v’ ha Simulacro atta Greca , o alla
Romana em- ” «iato fecondo P immagine di quel Dio -, ma un latto
grande rotondo da imo > e , a P oco a P oco crefcente in punta quali a
figura di Cono . Nero V, è il color della pietra , cui facciano eflere
ca- V, data dal Cielo. ed affermano quella 1 ” fer 1*
immagine del Sole no n da umano artificio 3y lavnrata Su tali parole fa
una riflettìone op- /.ante voi* citato G^>
del soie : uiciiuc , 7 - , -, *• Tentare gl* Iddìi fotto
umana fembianza fu de po- fteriorf Greci, e Romani. Ma gli Afiatici più
ve., tutti, ecl anche gli Egizj moltq divamente fi *i- P ° rt
Chi °fà pertanto, che, fe ci rimane^ro le me- rie delle più antiche
orientali Divinità , ^noi^noi* mone Lib. s. (2) Lih 5- CO Uh.
9. c. io > dell'antica IdoiatrYa. 19 le trovaffimo
quali tutte in figura di Colonne , d? Obelifchi , di Piramidi , o di Coni
rappreleutate ? Certo non fenza ragione i Settanta hanno in co(ìu«
me di traslatar per Colonne la voce ebrea Matgaba , che ordinariamente
traduce!! per ljìatue ; e come il Calmet ( t J ci avverte , il nome di
Colonne lem- bra meglio corrifpondere al lignificato del termine
originale. Forfè que’ dottilììmi Interpreti vollero dinotare la forma
antica , con cui 1 ’ Oriente , e la Terra di Canaan rapprefentar foleva i
fuoi Numi ; E forfè Mosè coll’ imporre , che fi demolillèr tutte le
ftatue delle profane incontrate Divinità , nuli’ altro impofe nella maggior
parte , che la demolizio- ne di Piramidi , e di Colonne . Dilli nella
maggior parte, e non in univerfale, poiché quel Sacrifica- verunt
fiulptilibus Canaan , che abbiamo nel Salmo 105. , mi lece ellèr più
continente nelle parole . E de’ famofi Serafini di Rachele , primo
monumento d’ Idolatria materiale , che s’ incontri nella Scrittura, e
degli altri Idoletti elìdenti prellb la làmiglia di Giacobbe dalla
Melopotamia recati, che diremo noi ? S’ io pretendelfi figurarmeli come
piccioli Coni , o colonnette , con quai monumenti , ed autorità po-
trei ellère contradetto? Per verità io miro Giacob- be , che intefo a
ripurgare la fua Famiglia , pren- de , e (otterrà , non folo gl’ Idoli
chiamati Dei ftra- nieri : Deos alienos , ma angora i pendenti , che
fi trovavano all’ orecchie de’ fuoi feguaci Io non crederò
già, che le Pedone della comitiva di Giacobbe , e malTìme le piilfime
Donne Lia , e Rachele ardlllèro di portare sfacciatamente agli
orec- chi appefe le (lamette, od immagini d’ alcuna pro- fana
Divinità . Primieramente potrebbe!! con tut- ta ragione foftenere , che
di que’ tempi non eranò peranco T. 2. DiJJìrt. de' Templi
degli Antichi . Genef C. 25. Dederunt ergo ei omnes Dcos alienos ,
quos habebant , IP inaures , qua : erant in auribus eorum. At ille
infodit eas subter Terebin -thum .30 Dissert. sull* Origine perineo in
ufo le dame figurate. Le Rabbiniche tradizioni dell’ arte datuaria
efercitata fuperdiziofa- mente da Tare Padre di Àbramo fono già
(eredi- tate prellò degli Eruditi. La pretefa antichità della Statua di
Nino alzata a Belo fuo Padre rella dai calceli dell’UHèrio fmentita. Nino
regnò in Affi- na parecchj fecoli dopo Giacobbe . All’etàdique^ fio
Patriarca il Sole , gli Aflri , e malfime il fuoco adorati nella Caldea ,
Affiria , e Mofopotamia probabiliffimamente non aveano che Simulacri fimbolici.
Quando pure fenza fondamento ammetter fi voleflèro le Statue figurate ai
giorni dello ftefiò Giacobbe, io non potrò perfuadermi giammai, che
1’Uom fanto permeili avelie in alcun tempo ne’ fuoi l’ irreligiol'a
ollentazione di tenerle appele agli orecchi, comecché per folo ornamento
. Il motivo ideilo, oltre a varj altri, che addurre potrei, mi trattiene
dal fottolcrivermi all’ opinione del Grazio, e del Wandale , i quali
pretendono , che tali orecchini follerò fuperdiziofi Amuleti .
Quale relazione adunque degli orecchini cogl’ Idoli per dovere
anch’ «Ili meritare il fotterramento ? Se avefi fi luogo ad edernare un
mio non inverifimil pen- dere, direi , che la relazione confidelle in una
cer- ta edrinfeca fomiglianza colla fimbolica figura degl’ Idoli .
Forle l’ ornato di quegli orecchini potea edere qualche gemma , o
preziofo metallo cadente , e travagliato a maniera di goccia , di cono, o
vergherà, che molto raflòmiglialTe la forma appunto degl’ Idolatrici
Simulacri . Quindi Giacobbe volen- do abolita per fempre di quedi ultimi
la memoria predo de’luoi, nalcolè unitamente fotterra tutti quegli
ornamenti, che per la loro forma, e lavoro potuto avrebbero in alcun
tempo rifvegliarne la rimembranza. Ma fi torni in carriera , e col Voffio
( i ) ornai fi rammenti , che non in figura umana , ma bensì in
figura di colonne o piramidi acuminate furono i Si-
Lib. g. c. 5. i Simulacri , a cui nei primi , e più rimoti
fuoi tem- pi l’ idolatrante Grecia prodrofli ; che le per con-
ientimentò di tutti gli Autori ebbe la Grecia dagli Orientali , e dall'
Egitto principalmente i fuoi Nu- mi , e le cerimonie di Religione , farà
quella una riprova novella, che di cilindrica, piramidale, o conica
forma federo i Simulacri almen più vetulli dall’Oriente, e dall' Egitto
inventati. Ora nuli’ altro appunto , che una Colonna fu la
Giunone Argiva. Ce lo atteda Clemente Alef- fandrino ( i ) recando alcuni
verlì di un vecchio Poeta Greco in lode di Callitoe prima Sacerdo-
tellà di quella Diva predò gli Argivi . Io mi farò lecito di darne una
mia Traduzione; Della Donna del Ciel preliede al Tempio Clavigera
Callitoe , che intorno Di ferti , e bende un dì già ornò primiera
Dell’ Argiva Giunon 1 ’ alta Colonna . Non altro , che femplici
acuminate Colonne , o Piramidi furono i Simulacri podi ad Apollo , e
a Diana, come lo Scaligero (3 ) dalle antiche me- morie deduce. Non
altro, erte una rozza Colon- na di legno la Statua di Pallade Attica. ,,
Quan- „ to ( dicea perciò Tertulliano) ( aJ diltinguelt ,, dallo
dipite d' una croce la Pallade Attica , o „ la Cerere Farrea , che lènza
effigie coda d’ un „ rozzo palo , e d’ un legno informe . Un legno
„ non dolato ( proliegue Arnobio ) ( $ ) adorodì ,, da que’ di Caria in
luogo di Diana : in luogo „ di Giunone un Pluteo da que’ di Samo ; un’
Atta „ dai Romani in luogo di Marte , come le Mule » ài
'Zrpuu.eerwv I K «XfaQoti cXifjLTtcìbos BajiAtw H/W fi
pryutK W> {Tìia/axsi , XM buiOCVOKl ripa irti tx.orjj.tKur rtpt tttwx
jJMxpw curctsitK . Ad an. Eufib. 377, f 4 ) AJverf. Cent.
C 5 J Lib. 6. 3 2 Dissert. suix’ Origine „ di Vairone ci
additano. ,, E giacché Arnobio un Romano Autore ha citato , qui giovi
connet- terne un altro , cioè Trogo Pompeo , o fia il Tuo
Compilatore Giurino ( i ) , il quale d’ Amulio ,~e di Numitore parlando
ultimi fra i Re d’ Alba , in quella foggia h efprime. ,, In que’ tempi
tuttora ,, dai Re invece di Diadema portavanfi 1 ’ alle » ,, che
lcettri dai Greci furon chiamate. Conciof- ,, liachè dalla prima origine
delle cofe furono ado- ,, rate 1 ’ Alle in luogo de’ Simulacri degl'
Iddii im- ,, mortali . Ed in memoria di tal religione ai Si- „
mulacri degl’ Iddii tuttora 1' Alte s’ aggiungono. „ Finalmente non altro
, che un rozzo malconcio legno , e deforme» liccome Ateneo ( 2 ) ne fa
fede era il Simulacro di Latoua prello a quelli di Deio y c per fitìfatta
guilà ridevole, che al ibi vederlo n’ ebbe a icoppiar dalle rifa quel
Parmenilco di Metaponto , che dopo 1 * ufeita dall’ antro di Tri-
ionio non avea rifo giammai. Quindi non ci ltu- piremo altrimenti al
fapere» che un breve defeo attaccato ad una lunghi ifima pertica folle il
Simu* lacro del Sole venerato da que’ di Peonia ; e che informi
tronchi , maltagliati , e fenz' arte fodero 1 Numi degli antichi Germani
» e de’ prilchi Galli , come ne allicura Lucano . ( 3 ) Molto mena furem
meraviglia in vedere queiti primi idolatrici monumenti di legno più tolto
, che d’ altra mate- ria lavorati . Per poco che fiali nell’
erudizione verfato » non può ignorarli » che i Simulacri pri- mieri
dell’ ancor giovane Idolatria materiale , giu- lta il collume degli
Orientali pattato nella Grecia » e nel Lazio, furono quali comunemente d’
argil- la, o di legno , a cui fuccedè ben prello il mar- mo »
quindi i metalli v e finalmente 1’ avorio . Non lafcianci dubitarne i be'
palli, che abbiamo in C O Lib. 43. (z) Mb. 5.
( 3 ) Simulacraque moejla Deorum Arte careni , caefisque
extant informia truficis . in Ifiaia ( i ) , in Geremia ( 2 ) in Ofiea
(3), e nel Libro della Sapienza ( 4 ) . Gli eleganti verfi poi di
Tibullo CìJ 1 non Ibi rapporto a quello capo, ma tutta in generale
confermano la mia pre- fente opinione . Non di legno però -
ma di pietra in figura di gran piramide , al dir di Pautania , fi* il
Simula- cro fiotto il nome di Apollo da’ Megarefi guarda- to , e
Umilmente una pietra fu la sì celebre Ve- nere Pafia , il di cui
Santuario tanta venerazione rifico Uè non pur dall’ Ifiola di Cipro , ma
dalla Grecia tutta, e dall’ Alia minore. Venere Pafia, che ha data
occafione , e primo impullò al mio fieri vere , quella fi a appunto , che
ornai gli dia compimento. Il di lei Simulacro viene da
Maflimo Tirio ( 6 ) ad una piramide bianca paragonato . Noi però
più efatta ne prenderemo la detenzione da Tacito ( 7 ) , le di cui parole
nel fiuo nativo linguaggio mi fo lecito di produrre : Haud crtt lon- gum
initi a religionis , temyli fitum , formanti Dea 9 ncque alibi fic
habetur , vaucis dijjerere. Simulacrum Dea non effigie fiumana continuus orbis
, la - tiore initio tenuem m ambitum , met a modo exurgens , C? ratio in
obfcuro - Or di quefia Venere Pafia noi coi noftri proprj occhi ne
potremo facilmente rilevar Ja figura tutta appunto conforme *
alla C o f. 29. ( 2) I. f 3 ) 4. 12, co «$• Eleg. 1.
lib. I. O) Nam veneror, jèu Jìiyes habet defertus in agris ,
$eu vetits in trivio florida Certa lapis f Eleg. io. lib. I.. Sed
yatrii fervute lares , coluiflis CP idem Curfarem veflros cum tener ante
lares ; Kec yudeat yrifios vos ejfe e fliyite faclos ,
Sic veteris JeJes incoluiflis evi . T unc melius tenuere
fidem , cum ytniyere teSÌ 9 l Stabat in exigua ligneus ade Q$us •
(d) Orat. 38. (7) Lib , 2. 54 Dissert. sull'Origine alla
defcrizione di Tacito. Balla oflervar tre Me** daglie riportateci dal
Patino ( i). La prima bat- tuta dalla Città di Paflo a Drulo Celare ( 2 )
. La feconda coniata da’ Cipriotti a Vefpalìano La terza da’ Cipriotti
Umilmente dedicata a Tra- mano C4J • Anzi non l’ Itola lòia di Cipro,
co- me di lòpra toccai , e come attella , e compro- va P
eruditiffimo incomparabile Spanemio (5), adorò la Venere Pafia . Il di
lei culto propagolfi ancora in altre Nazioni , e Città , le «juali
perciò lì fecero vanto di ornare col di lei Simulacro , e Tempio i
rovefci di lor medaglie . Fede ne fac- cia la Medaglia di Adriano battuta
da que’di Sardi nell’ Afia minore, e riferita dal Sirmondo (< 5 ) ,
e Umilmente un’ altra coniata da Pergameni fpet- tante ad Euripilo
prellò il citato Spanemio ( 7 ) ; ed anche un’ antica Corniola prodotta
dall’ Ago- ltini , fenza accennare però, le Greca, o Roma- na ( 8
_) . Ed io lòn di parere , che dal tempo , e dagli Eruditi altri limili
monumenti o fcoperti lì fieno , o (coprire lì pollano dinotanti la
venera- zione dilatata, in che lì ebbe quella folle Palla divinità,
e infieme comprovanti la veridica deferii zione , che del di Lei
Simulacro Tacito ci rap- prefenta . Debbo però confettare , che quanto
ne* monumenti addotti io riconol'co per vera ed el'at- ta la
delcrizione mentovata , mi lòrprende altret- tanto il modo , con cui
Tacito la conclude : Me- t.r modo exurgens , ei dice , i? ratio in
olj'curo . Pof- fibile , che ad un Uom si erudito , quale fu Taci-
to, sì gran meraviglia facelle il mirar Venere Pafia in figura di un cono
, o di una piramide ? Non dovea egli piuttollo da una tale figura
defumere 1* antichità di tal Simulacro , o almeno la derivazio- ne
di C 1 J Imy. Roin. Numis . (*2 ) Ibi pag. 80. C 3
) (4) Ibi pag. J 3 o. ( $ ) De
Praeft. , t? Ufìi Numism. Dijf. 5. ) Colleg. del- le Med. del Col.
Chiaram. di Parigi . ( 7 ) Ibi . C»J DiaL 5. pag. 176.
ne di una veturtilfima coltomanza ? Non dovea Ta- pe re , che ne’ più
rimoti tempi, e come Trogo di- cea , ab origine rerum , altri Simulacri
non ebbero i Numi , che o pietre quadrate , o piramidi , od obe-
lifchi , o coni , o colonne di legno , e di fallo ? Come ignorar potea il
conico Simulacro d’ Apollo in Megara , e del Sole in Ed e Ila , e gli
obelifchi, è le piramidi al Sole ideilo alzate in Egitto ? Come gli
ufeiron di mente i furti, o colonnette rozze di legno , e le impolite
pietre , che per di lui alfer- zione rifeuoteano le adorazioni della
Germania ? Come sfuggirono alla di lui maflima erudizione le due
colonne porte a Giove nel Tempio d’ Ercole in Tiro ; come le altre molte
collocate nel Tempio di Gadi ; come le due confecrate al Sole dal
Re Ferone nel di lui Tempio in Egitto? Tante co- lonne infine fi J
, con cui adombrar (i folevano e Giove , e Giunone , e Bacco chiamato
perciò TUputiovios Colutnnarius , e Apollo detto Ayiftfs
Compitali , ed Ercole , e Marte , e Bellona , non do- vevano farlo
falire all’ origine delle cole , ai colto- mi dell’antica, e primiera
rozzezza, e deporre la meraviglia circa la forma del Simulacro di
Venere Pafia ? Ma qual cofa Tacito fi penfaflè in quella Tua
fofpenfione, egli fel vegga, e noi non ce ne brighe- remo
altrimenti. Raccoglieremo bensì le vele ad una Dillerta-
zione , che in vallo pelago trafeorfe ornai troppo lungi. Voi, o dottiamo
Sig. Conte, farete telfi- monio o del Tuo felice tragitto, o del Ilio
infaufto naufragio ; e onorar dovrete o di compatimento i fuoi
rilicofi viaggi , o i luoi errori di correzione . Se 1 amor proprio non
mi fa velo al giudizio , ere. c " e ^ della tratto avelie a
qualche porto di 1 ufficiente probabilità 1 opinione da Voi
propolla- ™ l . \ c }°£ che i Simulacri più vernili delle pagane
Divinità follerò di quadrata, o di rotonda figura , o al- C O
Ue^io Aìnetan. Qjiejì . lib. 3<5 Dissert. SuliTdolatria;
( o almeno tendente a rotonditi . Un più ralente Piloto e di forze
, e di tempo , e di finimenti più agiato faprà condurla felicemente ad un
porto di fìcurezza . Quanto a me , fe altro non averti po- tato
ottenere , Tarò almeno contentiamo d avervi f er alcun modo
tellimoniata la mia. ubbidienza , alto pregio , in che tengo 1’ autorità voftra
, e ij voltro merito Angolare . l'idi t prò lUtàe , ac Revino
D. V. Domini co Al archi one Mancinforte Epifcopo F aventino
Albertus Raccagni Farocbus Sanfli Antonini. Fr. Angelus Maria
Merenda Ordinis Predicato- rum Sacra Scripturx LeElor , ac f^icartus Gg~
neralis SaaEli Offici* F aventi a . In tale direzione, si riscontra
la necessità di condurre la ricerca a un livello sem iotico-sem iosico,
ricorrendo alla sem iotica di Peirce, e in particolare alla sua definizione di
“interpretante iconico”, segno creativo capace di comprendere meglio ciò che è
altro dall’identico, ciò che differisce dal segno “idolo”. Attraverso una
semiotica dell’interpretazione, si cercherà quindi di spiegare teoricamente il
funzionamento degli elementi che compongono un testo, per una comprensione del
concetto di scrittura e le prospettive che questa propone per la costruzione di
un approccio critico alla problematica della lettura del testo BACON, LE
QUATTRO SPECIE DI IDOLI Bacon espone in queste pagine la sua teoria sugli idola
(i pregiudizi) che occupano la mente umana e le rendono difficile “l’accesso
alla verità”. Bacon, Novum Organon, Gli idoli e le false nozioni che
penetrarono nell’intelletto umano fissandosi in profondità dentro di esso, non
solo assediano le menti umane in modo da rendere difficile l’accesso alla
verità, ma addirittura (una volta che quest’accesso sia dato e concesso) di
nuovo risorgeranno e saranno causa di molestia nella stessa instaurazione delle
scienze: almeno che gli uomini, preavvertiti, non si agguerriscano, per quanto
è possibile contro di essi. Quattro sono le specie degli idoli che assediano le
menti umane. Per farci intendere abbiamo imposto loro dei nomi: chiameremo la
prima specie idoli della tribú; la seconda idoli della spelonca; la terza idoli
del mercato; la quarta idoli del teatro. Gli idoli della tribú sono
fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribú o razza umana. Pertanto
si asserisce falsamente che il senso umano è la misura delle cose ché al
contrario tutte le percezioni, sia del senso sia della mente, derivano
dall’analogia con l’uomo, non dall’analogia con l’universo. Rispetto ai raggi
delle cose l’intelletto umano è simile a uno specchio disuguale che mescola la
sua propria natura a quella delle cose e la deforma e la travisa. XLII
Gli idoli della spelonca sono idoli dell’uomo in quanto individuo. Ciascuno
infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura in generale) ha una specie
di propria caverna o spelonca che rifrange e deforma la luce della natura: o a
causa della natura propria e singolare di ciascuno, o a causa dell’educazione e
della conservazione con gli altri, o della lettura di libri e dell’autorità di
coloro che si onorano e si ammirano, o a causa della diversità delle
impressioni a seconda che siano accolte da un animo preoccupato e prevenuto o
calmo ed equilibrato. Cosicché lo spirito umano (come si presenta nei singoli
individui) è cosa varia e grandemente mutevole e quasi soggetta al caso. Perciò
giustamente affermò Eraclito che gli uomini cercano le scienze nei loro mondi
particolari e non nel piú grande mondo a tutti comune. Vi sono poi gli
idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del
genere umano: li chiamiamo idoli del mercato a causa del commercio e del
consorzio degli uomini. Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi,
ma i nomi vengono imposti secondo la comprensione del volgo e tale errata e
inopportuna imposizione ingombra in molti modi l’intelletto. D’altra parte le
definizioni o le spiegazioni, delle quali gli uomini dotti si provvidero e con
le quali si protessero in certi casi, non sono in alcun modo servite di
rimedio. Anzi le parole fanno violenza all’intelletto e confondono ogni cosa e
trascinano gli uomini a controversie e a finzioni innumerevoli e vane.
XLIV Vi sono infine gli idoli che penetrano negli animi degli uomini dai vari
sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li chiamiamo idoli
del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono state ricevute o
create come tante favole presentate sulla scena e recitate che hanno prodotto
mondi fittizi da palcoscenico. Non parliamo solo dei sistemi filosofici che già
abbiamo o delle antiche filosofie e delle antiche sètte perché è sempre
possibile comporre e combinare moltissime altre favole dello stesso tipo: le
cause di errori diversissimi possono essere infatti quasi comuni. Né abbiamo
queste opinioni solo intorno alle filosofie universali, ma anche intorno a
molti princípi e assiomi delle scienze che sono invalsi per tradizione,
credulità e trascuratezza. (Il pensiero di F. Bacon, a cura
di P. Rossi, Loescher, Torino. The idol fixes one's gaze on itself ; the icon ,
for its part , demands that one go throughGrice: “Cattaneo’s philosophical
background is much stronger than Hart’s! Hart always doubted his philosophical
abilities – as he kept comparing himself to me! When Cattaneo was at St.
Antony’s, Hart found that he had to play brilliant, since a ‘continental’ was
watching! Cattaneo is especially good in the study of Roman-Italian
giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara, and Manzoni, onwards! They
don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario A. Cattaneo. Mario
Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon, idolo, idol of the
market place – bentham -- autorita, autoritarismo, positivismo di H. L. A.
Hart, il concetto della legge, filosofia del linguaggio ordinario, scuola
oxoniense di filosofia del linguaggio ordinario, il gruppo di giocco di Austin,
il primo o vecchio gruppo di giocco di Austin al All Souls, giovedi notte; il
nuovo gruppo di giocco di Austin sabato alla mattina. Hart, Hampshire, Grice.
Grice, neo-Trasimaco, giustizia, fairness, valore legale, valore morale, le
legge e la morale, priorita della moralita sulla legalita, concetti di priorita,
priorita evaluativa, neo-trasimaco, neo-socrate, platonismo giuridico,
positivismo pre-Kelsen: hobbes, bentham, autin. I giuristi italiani. Storia
della giurisprudenza italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni, Collodi, Lorenzini,
Pinocchio, Foscolo, Perini, Beccaria, Colonna infame, letteratura italiana,
fizione italiana, prosa italiana, giurisprudenza italiana, avvocatura ed
implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool
Library. Cattaneo.
Grice e Catucci: l’implicatura
conversazionale d’ego et alter, E ed A – i giocchi cooperativi – Meinong et al.
teoria del valore -- l’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Grice. Filosofo italiano. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read
profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian
phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher,
viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” -- Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via
‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics
the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre
opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven
Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La
Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della
musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto
Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri);
Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a Roma sotto Garroni.
Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a Camerino e Roma. Pubblica
il saggio La filosofia critica di Husserl (ed. Guerini e Associati) la cui
preparazione ha richiesto un periodo di ricerca presso lo
"Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui manoscritti di
Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di carattere
fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica
trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi
husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è
stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio
spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri).
Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per
Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La
linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in
particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed.
Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto
ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra
l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival
Wired di Milano, e al Congresso
Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di
Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora
regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica
Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino,
Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo
filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it
di Firenze, L'arte è un progetto? C. Estetica Elementare - L'esperienza del
coro fra etica e tecnica C.-Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto,
relazione e musica in gruppo - La storia dell'estetica come critica e come
filosofia C. -AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) -
Di cosa parliamo quando parliamo di teoria C. Cinque temi del moderno
contemporaneo. Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe - Bellezza C.
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole. Il Kitsch: ieri, oggi, domani C. Riga -
Aesthetics and Architecture Facing a Changing Society C. International Yearbook
of Aesthetics (JP Službeni glasnik, ) Introduzione a Foucault. Saggio, Trattato
Scientifico Imparare dalla Luna. Nuova edizione riveduta e ampliata C. Il corpo e le forme. Note sul discorso
spirituale nella filosofia e nell'arte C. Della materia spirituale dell'arte -
On the spiritual matter of art - - Perché gli artisti nei luoghi del disastro C.
-Terre in movimento - The Prison Beyond its Theory. Between Foucault's
Militancy and Thought C.- Prison Architecture and Humans - Postfazione C. -
Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e pensieri
nella composizione - Prefazione. Vite di architetture infami C. - Incompiute, o
dei ruderi della contemporaneità - Potere e visibilità. Studi su Foucault C.
Prefazione a L. Romagni, Strutture della composizione C. - Strutture della composizione. Architettura e
musica - - Presentazione. Leo Popper: l'etica e le forme C. Articolo in rivista
paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) L'angelo
della matematica C. La vetrata artistica
della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana - A roadmap
toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro; Mattoni;
Gugliermetti; Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo; Tomei, Francesco; Ca. Atto di
convegno in volume conference: 16th International Conference on Environment and
Electrical Engineering, EEEIC (Florence
Italy) book: EEEIC 2016 - International Conference on Environment and
Electrical Engineering - Luce, Illuminazione, Illuminismo C. - I percorsi
dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani - L'opera d'arte e la sua
ombra C. L'estetica e le arti. Studi in
onore di Giuseppe Di Giacomo - (La linea del crimine. Foucault e la vita degli
uomini infami C. AGALMA (-Roma: Meltemi -Roma: Castelvecchi, = Materia
primordiale e Growing Design C.; Lucibello, ANANKE (Firenze: Alinea,
Preliminari a un'estetica della plastica C.Plastic Days. Materiali e Design /
Materials & Design - Antropomorfismo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - Arte C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Wikitecnica - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - (Sovrastruttura C. - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Strutturalismo Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica Il nome del presente. The
name of the present C. DOMUS (Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) Imparare
dalla Luna C.- 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Imparare dalla Luna -
Filosofia dell'eccedenza sensibile C. - 02a Capitolo o Articolo book: Vice
Versa - La Gaia estetica C. - 02a Capitolo o Articolo book: Costellazioni
estetiche: dalla storia alla neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo
- - Conversazione con S. Gregory, Paola; C. - 02a Capitolo o Articolo book:
Progetto e Rifiuti. Design and Waste. No-Waste - La contingenza impossibile:
note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. C. - 02a Capitolo o
Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie, esperienze, competenze -
Metamorfosi: un'architettura dopo il postmoderno C. - 02c
Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del progetto
- - Mission to Mars- C.- HORTUS (Roma: Facoltà di Architettura "Valle
Giulia", universita' la "Sapienza" Direttore -Necessity and
Beauty C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks and territory: new
perspective in planning and organization -
Eyes Wide Shut. Architecture without Philosophy C. - 04b Atto di
convegno in volume conference: The Signifiance of Philosophy in Archtectural
Education (Patrasso - Grecia - Dipartimento di Architettura dell'Università di
Patrasso) book: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education -
Estetica della speranza C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Teoria critica
del desiderio - "Reimparare a sognare". Note su sogno, immaginazione
e politica in Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La
coscienza e il sogno. A partire da Valéry -Visione e dispersione. La regia
architettonica Moretti Catucci, Stefano -
Atto di convegno in volume conference: Moretti architetto del Novecento
(Facoltà di Architettura, Università di Roma "Sapienza") book:
Moretti architetto del Novecento - Critica del contesto C. - 01a Articolo in
rivista paper: PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ): LISt- Laboratorio
Internazionale di Strategie editoriali,
-Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala Editore
Pescara Pescara: Clua) Essere giusti con Marx C. - 02a Capitolo o Articolo
book: Foucault-Marx: paralleli e paradossi - La terza dimensione C. Articolo in
rivista paper: VEDUTE (Roma-Macerata: Quodlibet, «Eine eigene fremde Welt»: le
utopie terrestri di Karlheinz Stockhausen C. - 01a Articolo in rivista paper:
ATENEO VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin Venice Italy: "Des moustiques
domestiques”: Notes on the Tautology of Visual Writing C. Atto di convegno in
volume book: Beyond Media: Visions, catalogo della 9. Edizione
dell’International Festival for Architecture and Media - Prolegomeni a
un'architettura della relazione C. Capitolo o Articolo book: L'esplosione
urbana - I generi musicali: una problematizzazione C. Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II,
Comunicare e rappresentare - Senso e progetto. Il contributo dell’estetica C. -
Capitolo o Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di
discipline - Il progetto di architettura come sintesi di discipline C.;
Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato Scientifico Il lavoro della
dispersione C.- Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli
altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - Introduzione a
Foucault C. Tutto quello che "la musica può fare". Conversazione con
Francesco e Max Gazzè. Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco;
Giuriati, Giovanni; C.; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone - Capitolo o Articolo book: Parlare di
musica Costruire, abitare, patire C. -
Capitolo o Articolo book: Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - Elogio del
parlare obliquo: la musica classica alla radio C. Parlare di musica - La
proprietà intellettuale come problema estetico C. FORME DI VITA (Roma:
DeriveApprodi) L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov C. GOMORRA (Roma:
Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, - Per una critica delle
narrazioni urbane Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO
(Faenza Italy: Gruppo Editoriale Faenza Editrice) Foucault filosofo
dell’urbanismo C. Lo sguardo di Foucault - La cura di scrivere C. Atto di
convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno -La via
dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani C. Atto di comunicazione a
congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società
del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana) book: Nel convivio
delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, a cura di E.
Scognamiglio e A. Trevisiol - Spartacus: i dilemmi della libertà Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Una strana rivista: «Gomorra»
Dizionario di Estetica C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di
Estetica - Il colosso senza immaginazione C. Osservatorio Nomade: immaginare
Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea Il visibile e
l’invisibile. Riflessioni sul potere in Foucault C.- 02a Capitolo o Articolo
book: Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza - Un passato che non
passa. Bachelard e la fine dell’abitare C. Simbolo, metafora, esistenza. Saggi
in onore di Trevi - Corridoi Transeuropei C. - 01a Articolo in rivista paper:
GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, La
“natura” della natura umana Catucci, Stefano - Prefazione/Postfazione book: Della
Natura Umana. Invariante biologico e potere politico. - Estetica e Architettura
C. Capitolo o Articolo book: Contaminazioni culturali. Materiali di studio del
Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e Recupero Insediativo - (Criticare
l’estetica per criticare il presente C.Articolo in rivista paper: GOMORRA
(Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Le Corbusier
a Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI
STUDI DI CAMERINO) Foucault: dalla novità storica all’estetica dell’esistenza C.
Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi La pensée
picturale C. Atto di convegno in volume
conference: Colloque de Cerisy - Foucault: La littérature et les arts (Cerisy -
Francia) book: Michel Foucault, la littérature, les arts - Attraverso
Velázquez: Foucault, Las Meninas, la filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo
o Articolo book: Il classico violato. Per un museo letterario- Tre versioni del
misurare C. SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI
STUDI DI CAMERINO) Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il
senso; a partire da Lukács C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Per una
filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács
- L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano Articolo in rivista paper: GOMORRA
(Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Estetica
dell'abitare C. Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica italiana - Spazi e
maschere Catucci, Stefano - 06a Curatela Ambiguità C. - 02d Voce di
Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica Poetica Catucci, Stefano -
Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Architettura,
teorie della C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Censura Ca. -Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Distruzione delle opere d'arte C. Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Fenomenologica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Fisiognomica C. Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Fotografia, teorie della C. Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica Kitsch C.Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Marxista, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Musica, teorie della C. Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Opera d'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario
Dizionario di Estetica - Originalità C/ Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Particolarità Catucci, Stefano Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Realismo C.-Voce di
Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Retorica C. Voce di
Enciclopedia Dizionario book: Dizionario
di Estetica - Rispecchiamento C.Voce di Enciclopedia Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Ritmo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - - Scientifica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Sociologia dell'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Storicità C.Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Struttura C. Voce di Enciclopedia Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Strutturalista, estetica C. Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Terapie artistiche C. -
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Tipico C.Voce di
Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Autenticità C.Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Oggetto estetico C.
-Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Estetica e
politica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fra tempo e spazio: rassegna sul vuoto in
musica C. GOMORRA (Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan)
- Estetica della censura C. Capitolo o Articolo book: La cortina invisibile -
Figures de l’art, figures de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune
Lukács C. - 02a Capitolo o Articolo book: Life - L'etica e le forme C. Capitolo
o Articolo book: Scritti di estetica - - Saggi di Estetica Catucci, Stefano -
06a Curatela - Gli animali di Céline Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg & Sellier:via Andrea Doria
1Turin Italy:: tina.cesaro rosenbergesellier.it, Dall’estetica all’ontologia.
Lukács lettore della «Critica del Giudizio» C. Senso e storia dell'estetica - La filosofia
critica di Husserl C. Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica
di Husserl - La fenomenologia negli Stati Uniti: metodo e fondazione C. Capitolo
o Articolo book: Specchi americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - La
fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F.
Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI:
Mimesis, Bologna: CLUEB) LA TEORIA
COOPERATIVA Come accennato in precedenza, l’idea di gioco cooperativo `e stata
introdotta da von Neumann e Morgenstern. Il contributo del loro libro `e fonda-
mentale per aver reso lo studio dei giochi una disciplina sistematica, e per
aver proposto un cambiamento radicale nel modo di studiare i problemi
dell’economia, delle scienze politiche e di quelle sociali. Il metodo proposto
consiste nel tradurre i problemi in giochi opportuni, nel trovare le soluzioni
di questi con le tecniche sviluppate dalla teoria, e nel ritradurre le
soluzioni trovate in termini di comportamenti economici ottimali. L’idea di GIOCO
COOPERATIVO dall’esigenza di analizzare il comportamento razionale di agenti
che interagiscono in situazioni non strettamente competitive. In tal
15Strategia dominata invece `e quella tale che, ne esiste un’altra che procura
al giocatore maggiore utilit`a, qualunque cosa faccia l’altro. Una strategia
dominata non pu`o far parte di un equilibrio di Nash. caso `e ragionevole
pensare che i giocatori possano fare alleanze, formare coalizioni ecc. Ogni
coalizione sar`a in grado poi di garantire una certa distribuzione di utilit`a
all’interno dei suoi membri. Che cosa distingue IL GIOCO COOPERATIVO da quello
non cooperativo? Il fatto che si ipotizzi la nascita delle coalizioni non
significa che si suppone che i giocatori siano diversi, meno egoisti; le
coalizioni sono uno strumento possibile per ottenere migliori risultati individuali,
come nel caso non cooperativo. La differenza nei due approcci sta in un’altra
cosa: secondo Harsanyi, con Nash, per l’Economia, un gioco `e definito
cooperativo se GL’ACCORDI TRA I DUE GIOCATORI SONO VINCOLANTI. In caso
contrario, il gioco `e non cooperativo. All’interno dei giochi cooperativi, la
teoria distingue fra quelli d’utilit`a trasferibile e quelli d’utilit`a non
trasferibile. Qui ci limitiamo a qualche esempio di gioco d’utlita trasferibile
gi`a sufficiente comunque a introdurre le idee principali di questo approccio.
Per definire un gioco cooperativo abbiamo bisogno dell’insieme N = {1, . . . ,
n} dei giocatori, e dal dato, per ogni A ⊂ N, di un
numero reale, denotato con v(A). “A ⊂ N” rappresenta
una possibile coalizione; “v(A)” rappresenta l’utilit`a, o in altri casi un
costo, che la stessa `e in grado di garantirsi se i giocatori di A si alleano. V
`e detta la funzione caratteristica del gioco. Il modo migliore di capire
l’idea sottostante questa definizione `e di illustrarla con qualche esempio.
Due persone sono interessate ad un bene che `e in possesso di una terza
persona. Il giocatore 1, che possiede il bene, lo valuta meno di chi lo vuole
comprare (altrimenti non c’`e situazione di interazione tra i tre). Fissiamo
per esempio a 100 il valore che il possessore assegna al bene. Gli altri due,
che chiamiamo rispettivamente 2 e 3, valutano il bene 200 e 300. Possiamo
allora definire il gioco come N = {1,2,3}, e le coalizioni sono otto: {φ, {1},
{2}, {3}, {1, 2}, {1, 3}, {2, 3}, {1, 2, 3} = N}16. Possiamo inoltre porre
v({1}) = 100, v({2}) = v({3}) = v({2, 3}) = 0, v({1, 2}) = 200, v({1,3} = v(N)
= 30017. Consideriamo invece il caso di un compratore (giocatore 1) e due
venditori dello stesso bene; la situazione pu`o essere descritta efficacemente
ponendo v(A) = 1 se A = {1, 2}, {1, 3}, {1, 2, 3}, zero altrimenti. In questo
caso, quando la funzione caratteristica v assume solo valori zero e uno, il
gioco si chiama semplice, e v assume piu` il significato di indice di forza
della coalizione (A `e coalizione vincente se e solo se v(A) = 1). Il gioco non
cambia se al posto di 1 mettiamo un altro numero positivo. 16φ rappresenta
l’insieme vuoto, cio`e la coalizione che non contiene giocatori. Anche se pu`o
sembrare inutile, `e invece opportuno tenerla in considerazione; qualunque sia
v, si assume che v(φ) = 0. 17 Perch ́e abbiamo definito in questo modo il
gioco? Vediamo un paio di casi. Ad esempio, v({2,3}) = 0 perch ́e la coalizione
{2,3} non possiede il bene, v({1,3}) = 300 perch ́e la coalizione {1, 3}
possiede il bene, che valuta 300 (infatti non se ne priva per meno).
Esempio: La pista dell’aeroporto, la bancarotta, la societ`a per azioni). Gli
Esempi 4, 5 e 6 sono anch’essi descrivibili come giochi cooperativi. Nel caso
della pista dell’aeroporto, v rappresenta un costo e non un’utilit`a. E`
naturale pensare che a una coalizione venga assegnato il costo della pista piu`
lunga necessaria per le compagnie che formano la coalizione. Dunque si ha v({1})
= c1, v({2}) = c2, v({3}) = c3, v({1,2}) = c2, v({1,3}) = v({2,3}) = v(N) = c3.
Il caso della bancarotta, anche se si intuisce facilmente che `e un problema
analogo a quello dell’areoporto, `e un pochino piu` complicato, perch ́e non `e
chiaro a priori che cosa una coalizione possa garantire per s ́e. Una stima
molto prudente potrebbe essere quello che rimane dopo che tutti gli altri
creditori sono stati pagati. Nel caso della societ`a per azioni, siamo in
presenza di un gioco semplice, e daremo valore 1 a quelle coalizioni in grado
da avere la maggioranza dei voti necessaria nei vari tipi di votazioni
(semplice, qualificata ecc). Una generica soluzione di un gioco cooperativo con
N = {1, 2, . . . , n} come insieme di giocatori `e un vettore ad n componenti,
ciascuna delle quali `e un numero reale. Il significato dovrebbe essere chiaro:
se (x1, x2, . . . , xn) `e tale vettore, allora xi `e l’utilit`a assegnata (o
il costo, se v rappresenta dei costi) al giocatore i. Tanto per fare un
esempio, nel caso dei due compratori e un ven- ditore, se proponessimo come
soluzione (100,100,100) ci`o significherebbe che l’esito del gioco prevede
un’utilit`a di 100 a testa per i tre18. Un concetto di soluzione invece
rappresenta un modo per trovare vettori che soddisfino particolari propriet`a.
Ad un gioco una soluzione pu`o associare un insieme grande di vettori, ad un
altro nessun vettore, ad altri ancora un solo vettore. E` bene osservare che la
soluzione in genere non `e interessata a quanto viene assegnato alle coalizioni,
ma solo a quel che viene dato ai giocatori. Ancora una volta va ricordato che
le coalizioni sono solo un mezzo che gli individui utilizzano per ottenere il
meglio per se. L’idea di gioco cooperativo `e cos`ı generale da rendere
necessaria l’introduzione di molti concetti di soluzione: qui accenniamo
rapidamente ad alcuni fra i piu` importanti. Una soluzione deve per prima cosa
essere un’imputazione, cio`e un vettore (x1, . . . , xn) tale che: 1. xi ≥
v({i}) per ogni i; 2. x1 +x2 +···+xn =v(N)19. SI RICHIEDE CIOE AD OGNI
SOLUZIONE DI GODERE DELLE PROPRIETA DI *RAZIONALITA* INDIVIDUALE E DI
EFFICIENZA COLLECTIVE. Ogni giocatore deve ricavare almeno quel che `e in grado
di garantirsi da solo (altrimenti esce dal gioco), e tutto l’utile disponibile.
Per il momento, non ci poniamo il problema se la suddivisione di utili proposta
sia ragionevole. Vogliamo semplicemente capire che cosa significa in questo
modello soluzione. Ad esempio sono imputazioni i vettori (100,100,100) nel
gioco dei due compratori e un venditore
( 13 , 13 , 31 ) nel gioco dei due venditori e un compratore, mentre in
quest’ultimo non lo sono (0, 0, 0) e (1, −1, 1). va distribuito (e
ovviamente non di piu`). Questa richiesta `e quindi da ritenere minimale. In
realt`a, visto che le coalizioni sono possibili, sembra naturale richiedere che
esse stesse gradiscano una distribuzione di utilit`a, altrimenti una parte dei
giocatori potrebbe ritirarsi. Si arriva cos`ı ad uno dei concetti fondamentali
di soluzione: il nucleo del gioco v `e l’insieme di quelle distribuzioni di
utilit`a che nessuna coalizione ha interesse a rifiutare. D’altra parte, la
coalizione A rifiuta quel che le viene proposto se la somma delle utilit`a
proposte ai suoi giocatori `e inferiore al valore v(A) che, come detto,
rappresenta quel che lei `e complessivamente in grado di procurarsi. Per capire
meglio l’idea vediamo di caratterizzare il nucleo in un esempio. Quello dei due
venditori e un compratore. Un elemento del nucleo `e un vettore x fatto da tre
elementi, scriviamo x = (x1, x2, x3). Ora scriviamo i vincoli che questo
vettore deve soddisfare: x1 ≥0,x2 ≥0,x3 ≥0 x 1 + x 2 ≥ 1 x1 + x3 ≥ 1 .
x 2 + x 3 ≥ 0 x1 + x2 + x3 = 1. La prima riga impone le disequazioni
relative alle coalizioni fatte dai singoli individui. Essi non accettano meno
di zero, evidentemente. La seconda riga riguarda il vincolo imposto dalla
coalizione {1, 2}; essa `e in gradi di garantirsi 1, quindi la somma di quel
che viene proposto ai giocatori 1 e 2, cio`e x1 +x2, deve essere maggiore o
uguale a 1. E cos`ı via, fino all’ultima coalizione N = {1, 2, 3}. Ora,
confrontando l’ultima equazione con la seconda si vede che deve essere x3 ≤ 0,
ma la prima dice x3 ≥ 0, quindi x3 = 0. Analogamente x2 = 0. Poich ́e la somma
delle utilit`a deve essere uno, allora x1 = 1. Quindi, il nucleo consiste del
solo vettore (1, 0, 0). Vediamo ora che cosa ci propone il nucleo in alcuni dei
giochi. Nel gioco dei due compratori e un venditore, la soluzione proposta dal
nucleo `e che il primo vende l’oggetto al terzo (che lo valuta di piu` rispetto
al secondo), ad un prezzo che pu`o variare fra 200 e i 300 Euro (quindi il
nucleo propone in questo caso piu` spartizioni possibili). Nel gioco invece in
cui ci sono un compratore e due venditori dello stesso bene, come abbiamo visto
il nucleo consiste nell’unico vettore (1,0,0), il che significa che il
compratore ottiene il bene per nulla. E` interessante notare che, nel primo
esempio, il ruolo del secondo giocatore, che pure alla fine non fa nulla, `e
messo in evidenza dal fatto che il prezzo di vendita `e influenzato dalla sua
presenza. D’altra parte questo `e logico. Se il terzo facesse un’offerta minore
di 200 Euro, allora il secondo potrebbe a sua volta fare un’offerta superiore,
fino a un massimo di 200 Euro. 20Anche se non si assume esplicitamente,
l’ipotesi che v(N) ≥ v(A) per ogni A ⊂ N `e
verificata in quasi tutti i giochi interessanti. Anzi, spesso i giochi
verificano l’ipotesi detta di superadditivit`a, che cio`e v(A ∪
B) ≥ v(A) + v(B) se A ∩ B = ∅, che stabilisce
che l’unione fa la forza. Questo fa s`ı che sia ragionevole assumere che i
giocatori si metteranno d’accordo per spartirsi tutta la quantit`a v(N).
In questo caso, il nucleo propone tante soluzioni possibili. Nel secondo
caso ci`o che indica il nucleo `e un fatto ben noto in economia, anche se qui
espresso in maniera brutale: l’eccesso di offerta mette i venditori in balia
del compratore. Infatti nel nucleo sta solo il vettore che assegna tutto al
compratore, nulla ai venditori. Altre soluzioni propongono una soluzione
diversa, che tiene conto del fatto che in qualche modo i due venditori non sono
del tutto inutili. Un esempio ancora piu` interessante di come il nucleo possa
proporre soluzioni bizzarre `e il famoso gioco dei guanti, di cui esistono
infinite varianti. Una versione che ne mette bene in luce la stranezza `e
quando si hanno 4 giocatori; il primo ed il secondo possiedono uno e due guanti
sinistri, rispettivamente, mentre il terzo e quarto un destro ciascuno.
Naturalmente lo scopo del gioco consiste nel formare paia di guanti. In questo
caso il nucleo `e costituito dal solo vettore (0, 0, 1, 1), il che significa
che i possessori di un guanto sinistro (guanti che sono in eccedenza) devono
cedere il loro per nulla. Risultato che appare ancora piu` bizzarro se si pensa
che il giocatore due potrebbe cambiare la situazione semplicemente eliminando
un guanto in suo possesso. A dispetto del fatto che a volte le soluzioni
proposte dal nucleo sembrino controintuitive, esso rappresenta un concetto di
soluzione molto importante, soprattutto in applicazioni economiche. Per`o il
nucleo presenta ancora un altro problema: `e facile verificare che in molti
casi pu`o essere vuoto! L’esempio piu` semplice `e quando siamo in presenza di
tre giocatori che si devono spartire a maggioranza una somma fissata (possiamo
porre l’utilit`a della stessa uguale a 1). In tal caso, le coalizioni di due
giocatori risultano vincenti (v(A) = 1) se il numero dei componenti la
coalizione A `e almeno due, 0 altrimenti-ancora un gioco semplice- ed un
calcolo immediato mostra che il nucleo `e vuoto21. Il che rende indispensabile
la definizione di altre soluzioni, che possano suggerire possibili spartizioni
anche nel caso in cui almeno una coalizione non sia soddisfatta della spartizione
proposta. Una soluzione, che qui illustro solo a parole, considera, per ogni
possibile imputazione, il grado di insoddisfazione e(A, x) della xi.
L’imputazione x sta nel nucleo, ad esempio, se e solo se e(A, x) ≤ 0 per ogni
A, cio`e se nessuna coalizione si lamenta. Se per`o il nucleo `e vuoto, allora
qualunque sia la distribuzione proposta c’`e almeno una coalizione che si
lamenta. Che fare in questo caso? Un’idea intelligente `e di considerare, per
ogni imputazione x, il lamento della coalizione piu` sfavorita (cio`e di quella
che si lamenta maggiormen- te), e poi scegliere quella distribuzione di
utilit`a efficiente che minimizza questo lamento massimo. Se poi sono molte le
distribuzioni che hanno questa propriet`a, fra queste si pu`o scegliere quelle
che minimizzano il secondo massimo lamento, e cos`ı via. Si dimostra che in
questo modo si arriva ad un’unica distribuzione di utilit`a, che viene chiamata
il nucleolo del gioco. Nel gioco precedente dei compratori, il prezzo di
vendita `e 250, e cio`e il prezzo 21Supponiamo (x1, x2, x3) sia un vettore del
nucleo. Le condizioni x1 + x2 ≥ 1, x1 + x3 ≥ 1, x2 + x3 ≥ 1, imposte dalle
coalizioni formate da due giocatori implicano, prendendo la loro somma, 2(x1 +
x2 + x3) ≥ 3, che `e in contraddizione con la condizione di efficienza x1 + x2
+ x3 = 1. Quindi il nucleo `e vuoto. coalizione A per la distribuzione
dell’imputazione x: e(A, x) = v(A) − i∈A
intermedio fra quello minimo e quello massimo proposti dal nucleo; nel
gioco di maggioranza a tre giocatori, propone l’imputazione ( 13 , 13 , 31 ):
in questo caso ogni coalizione di due giocatori si lamenta 13 , e non `e
difficile verificare che ogni distribuzione di utilit`a diversa farebbe
lamentare di piu` una coalizione. I risul- tati precedenti non sono
sorprendenti, dal momento che il nucleolo `e soluzione che gode di forti
propriet`a di simmetria; purtroppo per`o anche il nucleolo pu`o dare risultati
bizzarri: ad esempio, siccome appartiene al nucleo, purch ́e natu- ralmente
questo non sia vuoto, nel gioco dei due venditori ed un compratore il nucleolo
assegna tutto al compratore. Passiamo al terzo concetto di soluzione che qui
consideriamo: si chiama indice di Shapley. La sua formula `e un po’ complicata,
ad una prima lettura, ma non bisogna spaventarsi. Se poi non si capiscono i
dettagli, come ha scritto Nash nella sua celebre tesi, questo non impedisce a
chi vuole di capire lo stesso le idee. Dunque, intanto va osservato che questa
soluzione, come il nucleolo, ha l’interessante propriet`a di assegnare un’unica
distribuzione di utilit`a ad ogni giocatore. La indichiamo con S, in onore di
Shapley. Risulta cos`ı definita, per un qualunque gioco v22: Si(v) = (a − 1)!(n − a)![v(A) − v(A \ {i})]. i∈A⊂N
n! L’indice di Shapley associa al giocatore i i contributi marginali23 che esso
porta ad ogni coalizione, pesati secondo un certo coefficiente (per la
coalizione A \ {i} esso `e (a−1)!(n−a)! ). Tale coefficiente ha
un’interpretazione probabilistica inte- n! ressante: supponendo che
i giocatori decidano di trovarsi per giocare, in un certo luogo e ad una data
ora, il coefficiente (a−1)!(n−a)! rappresenta la probabilit`a n! 24 che i
al suo arrivo trovi gli altri giocatori della coalizione A, e solo loro . Nel
gioco di maggioranza semplice fra tre giocatori, l’indice di Shapley pro- pone
( 31 , 13 , 13 ), come il nucleolo. Nel gioco dei guanti, invece la soluzione
`e ( 1 , 7 , 7 , 7 ). Vettore che presenta caratteristiche interessanti: tiene
conto del 4 12 12 12 fatto che c’`e un eccesso di offerta di guanti sinistri,
il che rende un po’ piu` debole degli altri il giocatore uno; il secondo ne
risente relativamente, perch ́e sfrutta il fatto di poter soddisfare da solo la
domanda dei giocatori col guanto destro. Questo mostra che il valore tiene
conto di altri aspetti, ignorati dal nucleo. L’indice di Shapley ha
applicazioni importanti anche nei giochi semplici. Come esempio, si pu`o
pensare all’analisi della composizione di un Parlamento, potrebbe essere il
Parlamento Europeo, o il Congresso negli Stati Uniti. Il problema fondamentale
in questi casi `e come ripartire i seggi fra i vari stati. Tutti i metodi di
ripartizione dei seggi hanno dei difetti: esiste persino un celebre risultato
che lo afferma: si tratta del teorema di Arrow. Data una coalizione A, indicheremo
con a la sua cardinalit`a, cio`e il numero dei giocatori che formano la
coalizione A. 23Il contributo marginale che il giocatore i porta alla
coalizione C `e la quantit`a v(C ∪ {i}) −
v(C). Chiaramente pu`o essere interpretato come l’apporto che il giocatore
porta alla coalizione. 24Assumendo equiprobabile l’ordine d’arrivo dei
giocatori. per l’Economia), forse il piu` celebre di tutte le Scienze
Sociali. Il valore Shapley `e quindi uno dei modi possibili per valutare il
potere dei giocatori in un gioco. Per concludere, ecco la risposta che d`a
l’indice di Shapley al problema di come suddividere le spese per la costruzione
della pista dell’aeroporto (Esempi 4 e 12): il primo paga 13c1, il secondo 12c2
− 16c1, il terzo c3 − 16c1 − 12c2. Detto cos`ı non sembra molto significativo
ma, per prima cosa `e utile osservare che la somma dei tre pagamenti fa proprio
c3, il che mostra su un esempio quel che `e vero sempre, e cio`e che l’indice
`e efficiente; poi, e questo `e molto interessante, il risultato, ha la
seguente interpretazione molto naturale: il primo, che da solo spenderebbe c1,
divide questa spesa equamente con gli altri due, che usufrui- scono dello
stesso servizio. Il secondo chilometro porta un costo aggiuntivo di c2 − c1:
questa spesa viene equamente divisa tra gli altri due che utilizzano la pista.
Il resto che manca (c3 − c2) infine `e pagato dall’unico utente che ha bisogno
del terzo chilometro. Concludo questo paragrafo riprendendo un concetto gi`a
espresso: il fatto che esistano tante soluzioni per i giochi cooperativi non
deve essere considerato sintomo di confusione. La variet`a di situazioni che
vengono descritti come gioco cooperativo impone, in un certo senso, che si
considerino diverse soluzioni possibili. Sta a chi utilizza questi modelli
scegliere la soluzione piu` adatta. E nessuna soluzione `e adatta ad ogni
gioco: per esempio l’indice di Shapley per il gioco del venditore e dei due
compratori `e ( 650 , 50 , 200 ), cui sembra difficile dare un 333 significato
sensato. Per questo le varie soluzioni vengono caratterizzate da pro- priet`a
che servono a descriverle: abbiamo ad esempio ricordato che l’indice di Shapley
ed il nucleolo godono di propriet`a di simmetria, il che significa che non
privilegiano alcuni giocatori rispetto ad altri.Stefano Catucci. Catucci. Keywords:
la via conversazionale, l’originarieta della conversazione; estetica della
conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie, rispecchiamento, parlare
obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief,
Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del crimine”, potere, la luna,
musica, estetica della musica, estetica dell’archittetura, critica
fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catucci” – The
Swimming-Pool Library. Catucci.
Grice
e Catulo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Ccombatte a
Numanzia sotto Scipione Emiliano l'Affricano minore e così fu accolto nel suo
circolo. C. e console con Mario e partecipa con lui alla vittoria di Vercelli
sui cimbri. Sorse allora fra loro una mutua gelosia che provoca l’implacabile
inimicizia di Mario la quale costrinse C., che era stato dalla parte del
Senato, a darsi la morte col veleno per sottrarsi alla condanna capitale che lo
attende. Compose epigrammi latini, un liber de consulatu et de rebus
gestis suis, che CICERONE loda al pari dei suoi discorsi. Gaio Lutazio
Catulo.Catulo.
Grice
e Catulo: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). A member of the Porch and a tutor of Antonino. Cinna Catulo.
Catulo.
Grice e Cavalcanti: l’implicatura
conversazionale del sìnolo degl’amanti -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian,
but he is surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the
Italians call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but
interesting!” Come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo,
così ne’ suo fiosofare non so che più degli altri bello, gentile e peregrino
rassembra, e nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo
nelle sentenze, copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le
quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste,
sono adorne. Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano
all'Inferno. Ritratto di C., in Rime. Figlio di Cavalcante dei C., nacque in
una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a
Orsanmichele e che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in
esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei
ghibellini nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la
preminente posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di
Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i
figli Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel
Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo
punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si
considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà
un'importante testimonianza attraverso un sonetto. Alighieri, priore di
Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi
delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a
Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La
condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a
causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato
oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu
amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei che
tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché meno
conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i due
amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo ricorda
anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De
vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia
e in una novella del Decameron. La sua personalità, aristocraticamente
sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli filosofi contemporanei,
Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile figlio di Cavalcante C.,
nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento alla
filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella di Alighieri, con la
importante differenza del carattere laico. Noto per il suo ateismo,
Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio (Decameron VI, 9: si
dice tralla gente volgare che questa sua speculazione filosofica sull’amore e
solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e. Villani (De civitatis
Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata tra l'altro rilevata
nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” -- certamente il testo
più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di tutta la poesia
stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti radicali
dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal Boccaccio di
una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due fiorentini a
cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da Italo Calvino in
una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui compiuto, diventa un
emblema della leggerezza. L'episodio figura anche nell'omonimo testo di
France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i fatti risalienti della sua
vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica. La opera di
Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici
ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza
ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto,
seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché
incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in
una costruzione armoniosa. Peculiare di C. è, nei sonetti, la presenza di rime
retrogradate nelle terzine. Temi Quadro di Johann Heinrich Füssli.
Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato C.. I temi della sua
opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua canzone manifesto
“Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato sull’amante. La
concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale che sostene
l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e l'anima
sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo le varie
parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano
raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce
che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta,
compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa –
L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che,
destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della
devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da
un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo
dell'amante. Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia
ma senza comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei
temi fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al
contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al
desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di
vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante. C. e un fine filosofo
– scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci
resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente
scritte. Il poetare di C., dal ritmo soave e leggero è di una grande
sapienza retorica. I versi di C. possiedono una fluidità melodica, che
nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato,
dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche. Cavalcanti:
la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza).
“Species intelligibilis”, C.laico e le origini della poesia italiana,
Alessandria: Edizioni dell'Orso); C. auctoritas”; C. laico; La felicità: Nuove
prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); C. (Torino, Einaudi); C.: poesia
e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); C.: uno studio sul lessico
lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti,
Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro,. Guido
Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario biografico degli
italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia.
Inferno, Mondadori, Milano); La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia
al primo Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo C. lo deve
essenzialmente ad una sua poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa,
sia per la metrica che per i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta
parlerà di “amore” con gli strumenti della filosofia naturale (“natural
dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e
le cause. Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore C. ce
l’ha già fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che
l’amore è un accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa
definizione, tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua
dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La
sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che
cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di
essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una
caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza,
mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido,
paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a C., egli afferma che
l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come, ad
esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso esiste
piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità) dell’uomo
(sostanza). Innanzitutto, C. ci dice che l’amore si insedia nella memoria.
Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia di Aristotele,
poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel De anima,
Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per forma non
intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la struttura
che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà al corpo
la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur essendo
unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre parti:
anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima riguarda le
funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la riproduzione)
degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda, invece, comprende i
sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e dell’uomo; la
terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali, ed propria solo
dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per C., appartiene
all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o estensione della
sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette all’uomo di
vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di
questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è creata da una
sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che l’immagine di essa si
imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una operazione dell’anima
sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono sia la funzione
della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci dice che questa
immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che cosa
intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia
aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può
essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il
pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo Aristotele,
dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di esso si è
impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che modo? Una
parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve
l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra
componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un
esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora
intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre i sensi
producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente imprime
nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine. Ricapitolando,
nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista della
donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene
nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e
disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto
della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene
all’anima sensitiva. C. ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima
sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché essa attua tutte le potenzialità
insite nell’individuo umano. Il poeta, infatti, seguendo l’interpretazione che
di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè, ritiene che esista un unico
intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli uomini, con il quale le
facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun essere umano entrano in
contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In altre parole, egli,
affermando l’esistenza di un intelletto unico ed eterno, separa l’anima
intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e mortali di
ciascun uomo. Questa complessa psicologia che C. mutua da Averroè è la base del
suo celebre pessimismo amoroso. La passione amorosa ottunde la capacità di
giudizio poiché l’immagine della donna amata, ormai insediata nella memoria e
desiderata dai sensi, determina il netto prevalere dell’anima sensitiva su
quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che l’amore ottenebra
l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le facoltà intellettuali
sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il poeta, seguendo
Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata dalle anime
sensitive degli uomini. Quello che C. intende, dunque, è questo: la passione
amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato totalmente dai bisogni
dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con l’intelletto e quindi di
avere raziocinio. In questo senso egli parla dell’amore come di un vizio, che
porta chi ne è colpito a non saper più distinguere il bene dal male (“discerne
male”). Ciononostante, C. ci dice che l’amore non è cosa contraria alla natura
(“non perché oppost’a naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni
naturali, la passione amorosa sviluppa una potenzialità propria dell’anima
sensitiva e, pertanto, rinunciarvi sarebbe deleterio e controproducente. Come
interpretare questa affermazione apparentemente contraddittoria? È necessario,
anche in questo caso, richiamare Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo
greco afferma che ognuno è felice quando realizza bene il proprio compito (ad
esempio, il costruttore sarà felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il
compito dell’uomo, però, non potrà certo essere quello di assecondare l’anima
vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione;
pertanto, secondo il filosofo greco, la felicità per l’uomo consiste
nell’attività razionale, nella vita secondo ragione. C., dunque, seguendo
Aristotele, ci dice che l’amore è deleterio e mortale solo quando ci allontana
violentemente da questo tipo di vita; poiché una vita vissuta in preda ai
bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva è una non-vita, più adatta agli
animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che riesce ad essere temperante, e
che cioè non allontana l’uomo dalla vita razionale, è espressione di un
naturale bisogno della nostra sensualità. sìnolo s. m. [dal gr. σύνολον,
comp. di σύν«con» e ὅλος «tutto»]. – Nel linguaggio filos., termine
aristotelico che designa la concreta sostanza (v. sostanza, n. 1 a), concepita
come sintesi di materia (ciò che è mera potenza) e forma (ciò che porta
all’atto la potenzialità della materia). Alighieri sends out among the best
known Italian poets a sonnet asking interpretation of a dream. The god of
love, so it seemed, had come carrying Beatrice asleep, and had fed
her with Dante's own heart, and had then departed weeping.
Several poets answered. One, Dante of Maiano, suggested as a
probable solution of this, and other such distressing visions, a dose of
salts ; the others fell in with Dante's mood and answered seri- ously. Of
their various interpretations that which best pleased Dante, though not
quite satisfied him, was C.’s " And this," wrote Dante later in
the New Life, " was, as it were, the beginning of the friendship
between him and me, when he knew that I was he who had sent it (the
sonnet) to him." C.s interpretation was in an important
particular ambiguous. Love, he wrote, fed your heart to your lady, seeing
that "vostra donna la morte chedea" To understand this clause
as meaning " Death claimed your lady" is natural, and would
make the interpretation interestingly prophetic; but, whether or not this
reading might be justified symbolically, Dante himself forbids it. For,
in spite of his pleasure in his " first friend's " explanation
of the dream, he added : " The true meaning of this dream was not
then seen by any one, but now it is plain to the simplest." It was
easy for him after the event to read prophecy of Beatrice's death into
the dream ; but he expressly denies to Guido among the rest the
prescience. We are bound, therefore, to take as the interpreter's meaning
that there was malice prepense in the cannibal appetite of the sleeping
lady, that she claimed the death of her servant's heart. No wonder the
love god wept as he carried her off sated ! Irreverent though
it be, one thinks of The Vampire of Kipling. For Guido the gentle
Beatrice was as "the woman who couldn't understand," sucking,
asleep, in a sort of diabolical innocence, the life blood, literally
eating the heart, out of her helpless victim. And Dante, the lover, the
victim, approves the picture ! Of course the gruesomeness of this
symbolism may be explained away as merely a conceitfully emphatic
reassertion of the ancient fancy that a lover's heart is no longer his
own, but has passed into the custody of his mistress. Only, the dream
then and its interpre- tation would indeed be a much ado about nothing.
And why, at so customary a happening, should love weep? In fact, Guido's
thought cuts deeper, and is, I venture to urge, not so remote, in a
sense, from the thought underlying The Vampire. It is The Vampire
uplifted into the more tenuous, yet.no less intense, atmosphere of
mysticism. Before attempting to let in light directly upon this dim
utterance it is expedient to recall certain facts in Guido's life and
personality. " Cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e
intento alio studio " — so Guido is introduced into the Florentine
Chronicle of Dino Compagni, who knew him personally. Guido could not have
been much over twenty-five when, at the death of his father, his elder
brother being in orders, he became head and champion of one of the two or
three most powerful and aristocratic families in the republic. For
gen- erations the Cavalcanti had been leaders in the state,
haughtily contemptuous of the mere people, yet fierce partisans of civic
inde- pendence against those who were willing to sacrifice this for
the dream of a " Greater Italy " united under a revivified
Emperor of the West. To this great feud and to the lesser local feuds
which grew out of it Guido may be said to have been a predestined, yet
mostly a willing, sacrifice. He was born into the feud ; he lived his
life long in the heat of it ; it married him ; it perhaps lost him his
best friend ; it certainly killed him before his time. It
married him. In 1267, a vear a *ter the decisive battle of Bene- vento,
when the last hope of the Imperialists, the Ghibellines, fell with
Manfred, in Florence an attempt was made towards permanent peace by
marrying together certain sons and daughters of victors and vanquished.
Among the rest C. was wedded, or then more likely betrothed, — for he
could not have been more than fifteen, — to Bice, daughter of the
Ghibelline leader, the Florentine " Coriolanus," Farinata degli
Uberti. Seven years before Farinata had "painted the Arbia red"
with the blood of Florentine Guelphs at Monteaperti; and it had been a
kinsman of Guido who com- manded the Guelphs on that disastrous day. We
do not know how this real " Capulet-Montague " match turned
out, — only that Monna Bice bore children to her husband and outlived him
many years, and that the peace which their union, among others, was
intended to effect did not come to pass. On the contrary the
great Guelph families, in secure possession of the city, soon quarreled,
even connived against each other with the ever-ready Ghibelline exiles,
or with popular dema- gogues, so great was their common jealousy.
Meanwhile, during the distraction of the nobles, the middle classes had
been prosper- ing ; and coming at last to feel their strength and the
weakness of those above them, they rebelled and crushed the
aristocrats. In the first insolence of triumph they excluded the nobles
abso- lutely from public office, but two years later conceded eligibility
to such nobles as would join one of the Arti, or trades unions.
This virtual abdication of caste C. refused to make. In vain good
easy Dino pleaded with him. I am ever singing your praises," he
wrote in a kindly sonnet, " telling folks how wise you are, and
brave and strong, skilled to wield and ward the sword, and how compact
with sifted learning your mind is, and how you can run and leap and
outlast the best. Nor is there lacking you high birth nor wealth ... in
fine, the one thing wanting to give scope to all these gifts and powers
is a mere name. " Ahi! com saresti stato om mercadiere!
" Now almost certainly some generations back the C. had
been in trade, and had made their fortune in trade, but latterly it had
pleased them to entertain a genealogy reaching royally back into Germany
and descending into Italy with Charlemagne's baronage. To traverse this
pleasing legend with the gross title "om merca- diere,"
tradesman, was out of the question : Guido declared himself
irreconcilable. Meanwhile Dante, unfettered by a legend or a
temperament, had accepted the situation even cordially, and was taking
active part in the councils of the new bourgeois regime. That Guido
must have regarded his friend's secession with disgust seems natural.
It was worse than an offense against party; it was an offense
against caste. " Uomo vertudioso in molte cose, se non ch'egli era
troppo tenero e stizzozo," writes Giovanni Villani of Guido.
Fastidious, exclusive, thin-skinned, choleric, Guido was just the man to
feel this consorting of his friend with vulgar political upstarts
incompatible with their own intimacy. And the matter was made worse by
its open denial of their poetic profession of faith in the " cor
gentile." This vulgar folk was that " fango," that human
" mud " of which Guinizelli had written : Fere lo
sole il fango tutto'l giorno, Vile riman . . . how might the
" gentle heart " mix itself with this irredeemable
"mud" and be not defiled? So Guido addressed to his friend a
sonnet at once haughty and tender — like Guido himself: 1 lo vengo
il giorno a te infinite volte e trovoti pensar troppo vilmente :
allor mi dol de la gentil tua mente e d'assai tue virtu che ti son
tolte. Solevanti spiacer persone molte, tuttor fuggivi la
noiosa gente, di me parlavi si coralemente che tutte le tue rime
avei ricolte. Or non ardisco per la vil tua vita, far
mostramento che tu' dir mi piaccia, ne vengo 'n guisa a te che tu mi
veggi. Se '1 presente sonetto spesso leggi lo spirito noioso
che ti caccia si partira da Panima invilita. 2 1 1 believe
that Lamma, in his Questioni Dante sche, Bologna, is the first to propose
this construction of the famous " reproach." It seems to me the
best of all. 2 1 come to thee infinite times a day And find
thee thinking too unworthily : Then for thy gentle mind it grieveth
me, And for thy talents all thus thrown away. Whether the two
friends again came together in life is not known. The next situation in
which we hear of them is tragic. Dante is sit- ting among his "
first friend's " judges ; Guido is condemned to exile, and goes — in
effect — to his death. Under the new bourgeois rule civic disorders
rather increased than otherwise. Prime mover of discord was the
Florentine " Catiline," as Dino calls him, Corso Donati.
Somewhat ineffectually opposing his self-seeking machinations were the
parvenu Cerchi, powerful only through wealth and the popularity of their
cause. With these also stood Guido. Hatred, no less than misfortune,
makes strange bed- fellows ; and the hatred between Guido and Corso was
intense. Each had sought the other's life : Corso meanly, by hired
assassins ; Guido openly, in the public street, by his own hand. Violence
followed violence ; the number of factionaries increased, until at last
the city Priors determined to expel the leaders of both parties. Guido
was conspicuous among these leaders ; Dante, as has been said, among
these Priors. The place of exile, Sarzana, proved to be pestilent with
fever ; and although Guido and the Cerchi, less culpable than Corso, were
recalled within the year, it was too late. A few months afterward, Guido died.
" E fu gran dommaggio" wrote Dino. It was a strange
preparation for "gentle and gracious rhymes of love," — this
short, tumultuous, hate-driven career. Yet there is but one direct echo of
the feudist in all Guido's verse, — a sonnet to a kinsman, Nerone C.i.
Nerone had made Florence too To flee the vulgar herd was
once thy way, To bar the many from thine amity ; Of me thou spakest
then so cordially When thou hadst set thy verse in full array.
But now I dare not, so thy life is base, Make manifest that I
approve thine art, Nor come to thee so thou mayst see my face.
Yet if this sonnet thou wilt take to heart, The perverse
spirit leading thee this chase Out of thy soul polluted shall
depart. hot for the rival Buondelmonti, and Guido hails him with
ironical deprecation. Novelle ti so dire, odi, Nerone,
che' Bondelmonti treman di paura, e tutt* i fiorentin' no li
assicura, udendo dir che tu a* cor di leone. E piu
treman di te che d' un dragone veggendo la tua faccia, ch* e si
dura che no la riterria ponte ne mura se non la tomba del re
faraone. De ! com' tu fai grandissimo peccato si alto sangue
voler discacciare, che tutti vanno via sanza ritegno. Ma ben
e ver che ti largar lo pegno, di che potrai V anima salvare se
fossi paziente del mercato. Guido's disdainful temper both piqued and
puzzled his townsfolk. Sacchetti's anecdote of the Florentine small boy
who, having slyly nailed Guido's gown to his bench, then teased him until
the irate gentleman tried — naturally to his discomfiture — to chase him,
has 1 News have I for thee, Nero, in thine ear. They of
the Buondelmonte quake with dread, Nor by all Florence may be
comforted, For that thou hast a lion's heart they hear. And
more than any dragon thee they fear, For looking on thy face they
are as dead : Bastion nor bridge against it stands in stead, Nor
less than Pharaoh's grave were barrier. Marry ! but thou hast done
a wicked thing, Having the heart to scatter such high blood,
For without let now one and all they flee. And 'sooth, a truce-bait
too they proffered thee, So that thy soul might still be with the
Good, Hadst but had stomach for the bargaining. For the first
quatrain of this sonnet I have slightly altered Rossetti's translation.
In the rest a mistaken understanding of the sonnet as if addressed to the
pope has misled him. 2 // aVm 53^ its point in a very
human satisfaction at the scorner scorned. Boc- caccio's novella 1 is
more significant, illustrating vividly, if perhaps by a fictitious
occurrence only, the subtle mingling of awe and defi- ance which Guido
inspired. Boccaccio's " character " of Guido is a eulogy.
" He was one of the best thinkers (Joici) in the world and an
accomplished lay philosopher (filosofo naturale), . . . and withal a most
engaging, elegant, and affable gentleman, easily first in what- ever he
undertook, and in all that befitted his rank." This character,
together with the mood of tragic doubt upon which the point of Boccaccio's narrative
turns, inevitably, if tritely, brings to mind Ophelia's character of
Hamlet : The courtier's, soldier's, scholar's eye, tongue, sword
; The expectancy and rose of the fair state, The glass of fashion
and the mould of form, The observed of all observers. . . .
But, if we may still trust Boccaccio, " that noble and most
sovereign reason " of Guido was also " out of tune and harsh
" with scrupulous doubt ; " so that lost in speculation, he
became abstracted from men. And since he held somewhat to the opinion of
the Epicureans, gossip among the vulgar had it that these speculations of
his only went to establish, if established it might be, that there was no
God." BOCCACCIO (si veda) does not call Guido an atheist ;
that was mere vulgar gossip. He does not even declare him a convinced
Epicurean, one of those who with his own father . . . P anima
col corpo morta fanno. Boccaccio's charge is qualified : " he
held somewhat to the opinion of the Epicureans " {egli alquanto tmea
della opinione degli Epicurj). Dante's commentator, indeed, Benvenuto da
Imola, is more cate- gorical and extreme : " Errorem, quern pater
habebat ex ignorantia, ipse (Guido) conabatur defendere per
scientiam." Benvenuto is even remoter in time, however, than
Boccaccio ; and his phrasing suggests at least a mere perpetuation of
that vulgar gossip which Boccaccio con- temptuously records. But can we
trust Boccaccio's own testimony? At least there is no antecedent
improbability. Skepticism was common, especially in the highly educated
class to which Guido (Decam.) belonged ; and it was not unnatural at any
rate for him to weigh carefully an opinion held by his own father. Again,
there is noth- ing in either his life or writings to indicate an active
faith. Much indeed has been made of his " pilgrimage " to the
shrine of St. James at Compostella; but the mood of this was so little
serious that a pretty face at Toulouse was enough to change his
intention. The ironical sonnet of Muscia of Siena is a hint that his
contemporaries could not take him very seriously as a pious pilgrim; and
Muscia stresses Guido's excuse for breaking his supposed vow that there
was no vow in the case — " non v' era botio" Guido may have
started in a moment of reaction from his doubt — does not doubt itself
imply a wavering will ? He may have left Florence as a matter of
prudence — Corso tried to have him assassinated on the way as it was.
As for his writings, these, considering the intimate theological
associa- tions of the school of Guinizelli, are noticeably barren of
religious feeling or phrase ; and he certainly scandalized the worthy, if
narrow, Orlandi by his jesting sonnet about the thaumaturgic shrine of
"my Lady." The hypothetical confirmation of Guido's skepticism,
on the other hand, in his "disdain for Virgil, ,, mentioned by Dante
in his answer to the elder Cavalcanti's question 1 why Dante's
"first friend " had not accompanied him, has beendiscredited
after twenty years of support by its own proposer, D'Ovidio. The passage
is, to be sure, still a moot question ; and D'Ovidio, even in the zeal of
his recanta- tion, still admits the allegorical taking of it to be
plausible as a sec- ondary intention on Dante's part. In any case, even
waiving the confirmation, the tradition of Guido's skepticism is not
impugned ; and in view of the persistent tradition, and of the antecedent
probability in its favor, the burden of disproof would seem to rest on
those who reject the tradition. Meanwhile, I propose to test the
credibility of the tradition by assuming it. If the assumption proves to
be a factor in a coherent and credible interpretation of Guido's poetry,
the credi- bility of the assumption proportionately increases. The
argument is of course a circle, but I think not a vicious circle.
There is also another tradition, which happens likewise to be sub-
sidiary to the same end. As the one tradition charges Guido with unfaith
in religion, so the other charges him with faithlessness in love. i
Inf., X, 60. Hewlett, in his Masque of Dead Florentines, has
seized upon this supposed fickleness of Guido as Guido's char- acteristic
trait. Guido is made to say : My way was best. From lip to
lip I past, from grove to grove : I am like Florence ; they call me Light
o' Love. I am dubious indeed about that literal criticism which
surmises a " family skeleton " in every locked sonnet. Heine
assuredly reckoned without his Scholar when he complained :
Diese Welt glaubt nicht an Flammen, Und sie nimmt's fur Poesie.
When Guido writes a sonnet describing how Love had wounded him with
three arrows, — Beauty, Desire, Hope of Grace, — it is hardly fair for
Rossetti to entitle his own translation He speaks of a third love of his.
Rossetti the scholar should have known better. Of course Guido is simply
copying a conceit from the Romance of the Rose : the three arrows are
three arrows from the eyes of one lady, not of three ladies. Again, it is
almost worse when poor Guido essays a pretty pastourelle, which is by
definition a gallant adventure between a pass- ing knight and a
shepherdess, to discuss the " peccadillo " in a solemn footnote
! Yet Rossetti, himself a poet, does so. Nay, Guido's latest learned
editor, Signor Rivalta, speaks 1 of his singing "anche i suoi
desideri meno puri e piu umani come nella ballata : In un boschetto
trovai pasturella . . ." This ballata is the pastourelle in
question. Stifl, waiving such pseudo- revelations of a stethoscopic
criticism, there are, considering the meagerness of Guido\s poetical
remains, hints enough besides the mention of several ladies — Mandetta,
Pinella, and by, inference her whom Dante calls Giovanna — to accept with
discretion sober Guido Orlandi's perhaps malicious insinuation, when he
inquires of C. concerning the nature, the effects, the virtues of Love :
Io ne domando voi, Guido, di lui : odo che molto usate in la sua
corte ; Le Rime di C. Bologna. and even the cruder implication in
Orlandi's boast of his chaster mind : Io per lung' uso disusai lo
primo amor carnale : non tangio nel limo. Reckless feudist,
unbeliever, " light o' love," squire of dames, pro- found
thinker, gracious gentleman — a perplexing motley of a man; it is no
wonder that his poetry, reflecting himself, more easily with its
many-faceted light dazzles rather than illumines the understand- ing. In
addition, one has to contend in his more doctrinal pieces, especially in
the famous canzone of love, with a rigorous scholastic terminology
dovetailed into a most intricate metrical schema, and with a text at the
best corrupt. In spots Guido — as we have him — is as hopeless as
Persius; yet we may waive these and still venture upon a general
interpretation. In general, Guido's love poems hinge upon two
parallel but opposite moods, — a radiant mood of worshipful admiration of
his lady, a tragic mood of despair wrought in him by his love of her. His
sight of her is a rapture, as in the most magnificent of his sonnets, beginning
" Chi e questa che ven ": Chi e questa che ven ch' ogn'
om la mira e fa tremar di chiaritate V a're, e mena seco amor si
che parlare null' omo pote, ma ciascun sospira? O Deo, che
sembra quando li occhi gira dica '1 Amor, ch' i' no '1 savria contare
: cotanto d' umilta donna mi pare, ch' ogn' altra ver
di lei i' la chiam' ira. Non si poria contar la sua piagenza,
ch' a lei s' inchina ogni gentil virtute, e la beltate per sua dea
la mostra. * Non f u si alta gia la mente nostra e non
si pose in noi tanta salute, che propriamente n' aviam canoscenza.
1 1 Lo! who is this which cometh in men's eyes And maketh
tremulously bright the air, And with her bringeth love so that none
there Might speak aloud, albeit each one sighs ? The sonnet is a
superb tribute ; but it is also more. It contains, as I conceive, the
pivotal idea in Guido's philosophy of love, — namely, in the lines
describing his mistress as Lady of Meekness such, that by
compare All others as of Wrath I recognize, (cotanto d* umilta
donna mi pare, ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira.)
Ira . . . umilta : wrath . . . meekness — the antithesis dominates
Guido's thought. Wrath is in his vocabulary the concomitant of
imperfection, of desire ; meekness the concomitant of perfection, of
peace. He, the lover, is therefore in a state of wrath ; she, the
lovable, in a state of meekness, — Quiet she, he
passion-rent. The identification of passionate love with a state of
wrath is fun- damental in Guido's philosophy. It is the germinal idea of
the doctrinal canzone beginning " Donna mi prega." In answer to
the query as to the where and whence of the passion — La ove
si posa e chi lo fa creare — he declares that In quella parte
dove sta memora prende suo stato, si formato come diaffan da
lume, — d'una scuritate la qual da Marte vene e fa dimora. 1
" In that part where memory is love has its being ; and, even as
light enters into an object to make it diaphanous, so there enters into
the Dear God, what seemeth if she turn her eyes Let Love's
self say, for I in no wise dare : Lady of Meekness such, that by
compare All others as of Wrath I recognize. Words might not
body forth her excellence, For unto her inclineth all sweet merit,
Beauty in her hath its divinity. Nor was our understanding of
degree, Nor had abode in us so blest a spirit, As might thereof
have meet intelligence. 1 vv. 15-18. I use here as elsewhere the edition
of Ercole Rival ta, Bologna, 1902. constitution of love a dark ray from
Mars, which abides." Now Dante conceives love as an emanation from
the star of the third heaven, Venus, along a bright ray : " I say
then that this spirit (i.e. of love) comes upon the * rays of the star '
(i.e. of the third heaven, Venus), because you are to know that the rays
of each heaven are the path whereby their virtue descends upon things
that are here below. And inas- much as rays are no other than the shining
which cometh from the source of the light through the air even to the
thing enlightened, and the light is only in that part where the star is,
because the rest of the heaven is diaphanous (that is transparent), I say
not that this ' spirit/ to wit this thought, cometh from their heaven in
its totality but from their star. Which star, by reason of nobility in
them who move it, is of so great virtue that it has extreme power upon
our souls and upon other affairs of ours," etc. 1 So Dante. Guido,
on the other hand, while accepting the notion of love as an emanation,
holds the emanation to be rather from the star of the fifth heaven, Mars, along
a dark ray. The power over the soul of this star is no less extreme
than that of Venus; only it is, in a sense, a power of darkness rather
than of light. It may strike at life itself — Di sua potenza
segue spesso morte. The passion which its influence excites passes all normal
bounds in any case, destroying all healthful equilibrium :
L'esser e quando lo voler e tan to ch' oltra misura di natura
torna: poi non s' adorna di riposo mai. Move cangiando color riso e
pianto e la figura con paura stoma. . . . Finally, — and here we reach
the gist of the matter, — the influ- ence of the choleric planet
engenders sighs and fiery wrath in the Conv.. (Wicksteed's
translation.) 2 It has its being when the passionate will
Beyond all measure of natural pleasure goes : Then with repose
unblest forever, starts Laughter and tears, aye changing color
still, And on the face leaves pallid trace of woes. lover, impotent
to reach the ever-receding goal of his desire (non fermato
loco): La nova qualita move sospiri e vol ch' om miri
in non fermato loco destandos' ira, la qual manda foco.This
strangely pessimistic reading of love seems to have struck at least one
of Guido's contemporaries with indignant surprise, not only at the
apparent slight upon love, but also at the silence seeming to give assent
of other poets, especially of Dante. Cecco d'Ascoli, in his Acerba, iii,
1, denies that so sweet a thing as love could emanate from the planet
Mars, seeing that from that planet rather " proceeds violence with
wrath " (procede Vimpeto con Fire) ; wherefore : Errando
scrisse C. . . . qui ben mi sdegna lo tacer di Danti. In
fact, Dante, in the sonnet in the sixteenth chapter of the New Life,
apparently alludes sympathetically to Guido's dark rays of love —
Spesse fiate vegnommi a la mente l'oscure qualita ch' Amor mi
dona — and proceeds to describe, though not by this name, just such
a " state of wrath " in himself as Guido believes inseparable
from love. With Dante, of course, the mood is but passing. For him love
is in its essence a beneficent power. For Guido also it might
seem that this tragic wrath of desire is not incurable. There is a power
in meekness to overcome wrath and to subdue wrath also to meekness. And
the meek one is impelled to exercise this power, to confer this boon, by
pity for the one suffering in wrath. It is the failure to follow this
blessed impulse for which Guido reproaches his lady in the octave of
the sonnet beginning " Un amoroso sguardo," when he says that
she is one . . . for whom availeth not Nor grace nor pity nor
the suffering state. . . . (. . . verso cui non vale Merzede
ne pieta ne star soffrente. . . .) 1 The novel state incites to
sighs, and makes Man to pursue an ever-shifting aim, Till in him
wrath is kindled, spitting flame. Meekness, grace, pity, the suffering
state of wrath — the terms have a scriptural sound, and of right ; for
they are actually scriptural anal- ogies applied to love. Precisely this
poetical analogy was the innova- tion of Guinizelli, whom Dante called
" father of me and of my betters," — of which last C. was in
Dante's mind first, if not alone. Before Guinizelli Italian poets had
accepted the other analogy of the troubadours of Provence, which applied
to love the canon of feudal homage. For these the lady of desire was as
the haughty baron to whom they owed servile fealty, and whose
inaccessible mood was not of gentle meekness but of cruel pride, claiming
willfully of her vassal perhaps life itself. But feudalism and its harsh
canon of service were alien to the Italian communes ; Italian poetry
built upon an analogy with it must needs be an affectation. These
burgher poets were only play knights; these frank Tuscan and Lombard
girls were only play barons. Affectation, the pen following not the
dicta- tion of the feelings but of hearsay feelings, — this is the
precise charge which Dante, from the standpoint of the " sweet new
style," brings against the older style. 1 But if as free burghers
Italians could not really feel the alien mood of feudal homage, yet as
Christian gentle- men they could, and should, sanctify their love of
women with the mood of religious awe. There need be no affectation in
that. Free burghers, they recognized no temporal overlord, no absolute
baron ; Catholics, they did believe in, and might with sincerity worship,
min- istering angels — "donne angelicate," the meek ones whom,
as the Psalmist had declared, the Lord has beautified with
salvation. Guido therefore can no more worthily praise his mistress
than by calling her his " Lady of Meekness." Indeed, by further
analogy he sets her above the angels themselves; for the Christ himself
had said : "Mitis sum et humilis corde — I am meek and lowly in
heart." For him- self, " passion-rent " in his love, the
poet speaks as St. Paul, — " we . . . had our conversation ... in
the lusts of our flesh, fulfilling the desires of the flesh and of the
mind ; and were by nature the children of wrath (filii irae)" And
the merzede, the "grace," for which he sues — solu- tion of
wrath by the spirit of meekness — is again in accord with Paul's promise
to these very "children of wrath," — "By grace are ye
saved through faith" — faith, that is, in loving and serving the one
divinity as the other. i Purg. This is pious doctrine indeed for
the righting cavalier, skeptic, Love- lace I have in a measure assumed
Guido to be. Is then his love creed also a pose, worse than the apes of
Provence whom Dante exposed, because he thus adds hypocrisy to
affectation ? Well, if so, the same Dante would hardly have hailed him as
"first friend" in life and master after Guinizelli in poetry,
nor have outraged the memory of Beatrice by associating her in the New
Life with Guido's lady Joan. The solution of the apparent antinomy
lies in the meaning for Guido of that rnerzede, that " grace,"
the granting of which by ; the lady, the meek one, might appease the
lover, the one in "wrath." The term itself — Italian merzede or
English " grace " — has a fourfold significance according as it
is a function of the lady, of the lover, or of the reciprocal
relationship between them. "Grace" in her signifies her
beatitude, her "meekness"; in him, his "merit" which
through faith and loving service deserves the boon, or "grace,"
of her con- descension to redeem him from his "state of wrath,"
for which condescension it would be befitting him to render thanks,
"yield graces, — a phrase now obsolete in English but used by Dante,
— render mercede. Of this fourfold intention of the term the one
funda- mentally doubtful is ,the " grace " which is constituted
by the act of condescension of the lady : what then is the grace or boon
that the lover asks and hopes ? In other words, what is the end of desire
? The answer is no mystery. The end of desire is always
possession, in one sense or another, of the thing desired. In the
practical sense possession of the loved one means union, physical or
social, or both, sacramentally recognized, in marriage ; but the
sacrament of marriage allows a more mystical sense, presenting the
ideal, hardly realizable on earth, of a spiritual union which is also a
unity of two in one : The single pure and perfect animal,
The two-cell'd heart beating with one full stroke,
Life. So Tennyson modernly ; but more in accord with the
metaphysical mood of Guido is the old Elizabethan phrasing :
So they loved, as love in twain Had the essence but in one ;
Two distincts, division one: Number there in love was slain.
To the " gentle heart " there is no love but highest love ;
there is no union but perfect union, wherein two shall Be
one, and one another's all. Until the "gentle heart " may
attain to that perfect union its desire is unappeased, its " wrath
" unsubdued. Tennyson premises it for the right marriage; but there
is ever the doubter ready to remark that if such marriages are really
made in heaven, they certainly are kept there. Human sympathy cannot
quite bridge the span between two souls: self remains self; and though
hands meet and lips touch and wills accord, there is always something
deeper still, inexpressible, unreachable. Yes ! in the sea of
life enisled, With echoing straits between us thrown, Dotting the
shoreless watery wild, We mortal millions live alone. In
vain, says Aristophanes in Plato's Banquet, in vain, "after the
division (of the primeval man-woman in one), the two parts of man, each
desiring his other half, came together, and threw their arms about one
another eager to grow into one. . . ." True, Aristophanes in effect
goes on, Zeus in pity consoled the loneliness of dissevered "
man-woman " by physical union ; but that consolation the "
gentle heart " must forever regard as of itself inadequate and
unworthy. There is indeed a solution. Guinizelli and Dante read
further into the Banquet of Plato — or into the Christian doctrine built
upon that — to where the wise woman of Mantineia reveals the mysteries of
a love extending into a mystic otherworld — at least so Christians
read her teaching — where in the bosom of God all become as one.
There "wrath" is resolved into "meekness"
perfectly. The love of Guinizelli, and of Dante, was the love of
happier men of which Arnold speaks : Of happier men — for
they, at least, Have dream '</ two human hearts might
blend In one, and were through faith released From
isolation without end Prolong'd. But if Guido, even as Arnold,
lacked this faith, doubted this mystic otherworld whither therefore he
might not accompany his first friend to find his Giovanna, as Dante his
Beatrice, perfect in meekness, purged of all wrath, and to learn from her
release hereafter from the dividing flesh, union at last with her spirit
at peace ? — if he was of those, even uncertainly wavered with those,
who . . . F anima col corpo morta f anno ? — then
indeed for him, in degree as his desire was ideally exalted, so its
grace, its merzede, became an irony, a tragic paradox. His must be a
passionate loneliness forever teased by an illusion, a phantom mate of
its own conjuring. And I at least so understand the concluding words of
the canzone : For di colore d'esser e diviso, assiso
mezzo scuro luce rade : for d'onne fraude dice, degno in fede,
che solo di costui nasce mercede. That is, the only love of which grace
is born, entire possession granted, is love of the dim immaterial idea, —
" la figlia della sua tnente, Vamorosa idea" as Leopardi calls
it. Ixion embraces his Cloud. Guido's lady's desirable perfection, her
" meekness," exists not in her, but in his glorified ideal of
her, " bereft " as that is " of color 1 Bereft is
(love) of color of existence, Seated half dark, it bars the light
(i.e. which might make it visible). Without deceit one saith, worthy of
faith, That born of such a love alone is grace. Rivalta's
reading without in would apparently make mezzo adverbial. The commoner reading,
" assiso in mezzo oscuro luce rade' 1 more naturally gives mezzo as
a noun: " seated in a dark medium," etc. The meaning is not
substantially different. The reading in mezzo, however, is more
suggestive, as implying not only the immateriality of the mental fact but
also the darkening of the " medium," i.e. the imagination, by
the " Martian " ray of passion. The assertion of the
invisibility of love is in answer to Orlandi's question restated by C. — "
s* omo per veder lo po y mostrare." Question and answer are alike
absurd, however, unless we understand "love" to mean the object
loved, which it may naturally do ; one's §l love " means both one's
passion and one's lady. of existence." Therefore Guido's mood is
essentially one with Leo- pardi's when the latter exclaims :
Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar
sepolto, Alia guardia seder del mio dolore. 1 Guido has
himself described with quaint " preraphaelite " symbol- ism the
process of progressive detachment of the ideal from the real in the
ballata beginning " Veggio ne gli occhi." Cosa m* avien
quand* i' le son presente ch' i' no la posso a lo 'ntelletto dire :
veder mi par de la sua labbia uscire una si belladonna, che la
mente comprender no la pu6 ; che 'nmantenente ne nasce un* altra di
bellezza nova, da la qual par ch' una Stella si mova e dica: la
salute tua e apparita. 2 The imagery here is manifestly in accord
with contemporary pictorial symbolism, in which souls as living manikins
issue forth from the lips of the dead; but the significance of the passage
is, I take it, at one with that of the so-called Platonic " ladder
of love " by which through successive abstractions the pure idea,
the intelligible virtue, is reached. The following stanza in the same
ballata again defines this "virtue" as "meekness,"
and again declares it to be merely " intelligible,"
for di colore d' esser . . . diviso, assiso mezzo scuro luce rade
; 1 Only my heart pleased me, and with my heart In a
communing without cease absorbed, Still to keep watch and ward o'er
my own smart. 2 Something befalleth me when she is by
Which unto reason can I not make clear: Meseems I see forth
through her lips appear Lady of fairness such that faculty
Man hath not to conceive ; and presently Of this one springs
another of new grace, Who to a star then seemeth to give
place, Which saith: Thy blessedness hath been with thee. only
instead of the metaphysical directness of the canzone, the poet employs
the theological tropes of the dolce stil. La dove questa bella donna
appare s'ode una voce che le ven davanti, e par che d' umilta '1
su' nome canti si dolcemente, che s' P '1 vo' contare sento che '1
su* valor mi fa tremare. E movonsi ne 1' anima sospiri che dicon :
guarda, se tu costei miri vedrai la sua vertu nel ciel salita. 1
And now the tragic note in Guido's is explained. It is neither the
polite fiction, the " pathetic fallacy " of the Sicilian school,
nor yet the quickly passing shadow of this life set between Dante and
the sun of his desire. La tua magnificenza in me
custodi, SI che P anima mia che fatta hai sana, Piacente a te
dal corpo si disnodi. Cosi orai "So I prayed," writes
Dante, triumphant in expectation ; but for those Che 1 'anima col corpo
morta fanno, there could be health of soul neither now nor
hereafter. Wherefore Guido's text in the analysis of his own passion is
in all literalness the words of the Preacher, — " All his days ...
he eateth in dark- ness, and he hath much sorrow and wrath in his
sickness." Until 1 There where this gentle lady comes in
sight Is heard a voice which moveth her before And, singing,
seemeth that Meekness to adore Which is her name, so sweetly, that
aright I may not tell for trembling at its might. And then within
my soul there gather sighs Which say: Lo ! unto this one turn thine
eyes: Her virtue to heaven wingeth visibly. 2 Farad., XXXI,
88-91.Guido prays indeed for release in death, not triumphantly as Dante,
but piteously, in the spirit of Leopardi's words in Amore e Morte:
Nova, sola, infinita Felicita il suo (the lover's) pensier figura
: Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in suo cor, brama
quiete, Brama raccorsi in porto Dinanzi al fier disio, Che
gia, rugghiando, intorno intorno oscura. 1 Poi, quando tutto
avvolge La formidabil possa, E fulmina nel cor Tinvitta cura,
Quante volte implorata Con desiderio intenso, Morte, sei tu dair
affanoso amante ! 2 Precisely in this mood Guido invokes death
: Morte gientil, rimedio de' cattivi, merze merze a man
giunte ti cheggio : vienmi a vedere e prendimi, che peggio mi face
amor : che mie' spiriti vivi 1 Not only are Guido and Leopardi
saying the same thing in effect, but even their figures of speech are in
accord. There is evident similarity of symbolism between the
soul-darkening storm blast of the one and the soul-darkening Martian ray
of the other ; although doubtless the mediaeval poet may have conceived
his " dark ray " as a real phenomenon. 2 New,
infinite, unique Felicity ... he pictures to his mind : And yet
because of it the wrath of storm Foreboding in his heart, he longs for
calm, Longs for the quiet haven Far from that fierce desire,
Which even now, rumbling, darkens all around. Then, when
o'erwhelmeth him The fury of its might, And in his heart
thunders unconquerable care, How many times he calls In agony of
need, Death, upon thee in his extremity ! son consumati e spenti si,
che quivi, dov* i' stava gioioso, ora mi veggio in parte, lasso, la
dov' io posseggio pena e dolor con pianto : e vuol ch' arrivi
ancora in piu di mal s' esser piu puote ; perche tu, morte, ora
valer mi puoi di trarmi de le man di tal nemico. Aime ! lasso
quante volte dico : amor, perche fai mal pur sol a' tuoi come
quel de lo 'nferno che i percuote ? 1 At other times Guido
describes the combat to the death between his " spirits " of
life and love. He enlarges his canvas and, calling to aid a whole
dramatis personae of the various " souls " and "animal
spirits" of scholastic psychology, objectifies his mood into
miniature epic and drama. This mythology of the inner world arose
naturally enough to mind from the ambiguity of the term "
spirits," meaning at once bodily humors and bodiless but personal
creatures ; and in Guido's delicate handling the symbolism is singularly
effective. Only by exaggeration of imitation did it grow stale and
ludicrous, meriting the jibes of Onesto da Bologna at such " sporte
piene di 1 Gentle death, refuge of th' unfortunate,
Mercy, mercy with clasp'd hands I implore : Loo^ down upon me, take
me, since more sore Hath been love's dealing : in so evil state
Are brought the spirits of my life, that late Where I stood
joyous, now I stand no more, But find me where, alas ! I have much
store Of pain and grief with weeping : and my fate Yet wills
more woe if more of woe might be; Wherefore canst thou, death, now
avail alone To loose the clutch of such an enemy. How many
times I say, Ah woe is me 1 Love, wherefore only wrongest thou
thine own, As he of hell from his wrings misery ?
3spiriti." The following curiously rhymed sonnet may illustrate
his manner in this kind. L' anima mia vilment' e
sbigotita de la battaglia ch* ell' ave dal core, che, s T
ella sente pur un poco amore piu presso a lui che non sole, la more. Sta
come quella che non a valore, ch' e per temenza da lo cor partita
: e chi vedesse com' ell* e fuggita diria per certo : questi non a
vita. Per gli occhi venne la battaglia in pria, che ruppe
ogni valore immantenente si, che del colpo fu strutta la mente.
Qualunqu* e quei che piu allegrezza sente, se vedesse li spirti
fuggir via, di grande sua pietate piangeria. 1 It transpires
then for Guido as for Leopardi that the only grace, the only boon of
peace, to which love leads is death ; and so is verified 1 The
spirit of my life is sore bested By battle whereof at heart she
heareth cry, So, that if but a little closer by Love
than his wont she feeleth, she must die. She is as one dejected
utterly ; The heart she hath deserted in her dread : And who
perceiveth how that she is fled, Saith of a certainty : This man is
dead. First through the eyes swept down the battle-tide,
Which broke incontinently all defense, And by its wrath wrecked the
intelligence. Whoever he that most of joy hath sense, Yet if
he saw the spirits scattered wide, In his excess of pity must have
sighed. %\ the warning of those who came to meet him when he
first entered the court of love : Quando mi vider, tutti con
pietanza dissermi : fatto se' di tal servente che mai non dei
sperare altro che morte. 1 In reality, he knows the futility of any
appeal to his lady for aid. She is indeed the innocent occasion of his
suffering, but of it she is a mere passive spectator, hardly
understanding it, and certainly help- less to relieve it ; and so Guido
himself describes her in the sonnet beginning " S' io prego questa
donna." In the midst of his agony, Allora par che ne la mente
piova una figura di donna pensosa, che vegna per veder morir lo
core. 2 Here then at last we find the explanation of his
interpretation of Dante's sonnet, when he said that love fed Dante's
heart to his lady, vegendo che vostra donna la morte chedea.
She claimed its death not willfully indeed, as the capricious mistress
of Ulrich von Lichtenstein " claimed " his mutilation, but
innocently, unwittingly, in that her beauty was as a firebrand, her
perfection, her " meekness," a goal of unavailing consuming
desire. She is helpless to relieve him, because — and here is the core of
the matter — it is not she, not the real woman, that he loves, but that
idealization of her which exists only in his own mind — for
di colore d' esser e diviso, assiso mezzo scuro luce rade.
Compared with this glorified phantom "nel ciel (that is, into
the intelligible world) salita," the real woman also is but
"ira," wrath and imperfection. So he pines for his lady of
dreams, who thus a 1 When they beheld me, unto me all cried
Pitiful : bondman art thou made of one Such that for nought
else mayst thou look but death. 2 " Into my mind then seems it
that there rays a figure of a pensive lady, com- ing to behold my heart
die." ghostly " vampire " feeds upon his human heart ; but
the real woman, " the woman who does not understand," is no
longer of moment to him. She is, as it were, but the nameless model to
his artist mind. When that has drawn from her all that is of fitness for
its master- piece, it straightway leaves her for another otherwise
completing the ideal type. Giovanna passes ; Mandetta arrives.
Una giovane donna di Tolosa bell' e gentil, d' onesta
leggiadria, tant' e diritta e simigliante cosa, ne'
suoi dolci occhi, de la donna mia, ch' e fatta dentro al cor
desiderosa P anima in guisa, che da lui si svia e vanne a lei
; ma tant* e paurosa, che no le dice di qual donna sia.
Quella la mira nel su* dolce sguardo, ne lo qual face rallegrare
amore, perche v' e dentro la sua donna dritta. Po' torna,
piena di sospir, nel core, ferita a morte d* un tagliente
dardo, che questa donna nel partir li gitta. 1 Plainly it is
not of Giovanna, nor of any actual woman, but of his ideal woman, of whom
Giovanna herself was but a reminiscence, that 1 A lady of Toulouse,
young and most fair, Gentle, and of unwanton joyousness, So is the
very image and impress, In her sweet eyes, of one I name in prayer,
That my soul's wish is more than it can bear : Wherefore it
'scapeth from the heart's duress And cometh unto her ; yet for
distress What lady it obeys may not declare. She looketh on
it with her gentle mien, Whereunto by the will of love it
yearns, Because that lady there it may perceive. Then to the
heart it, full of sighs, returns, Unto death wounded by an arrow
keen, The which this lady loosed when taking leave. Mandetta reminds
him. In her turn Mandetta will pass also. Then will come Pinella, or
another — what does it matter? What cared Zeuxis for any one of his five
Crotonian maidens, once each in her turn had supplied that particular
trait of loveliness which only she, perhaps, had to offer, but had to
offer only ? Mentre ch* alia belta, ch* i* viddi in prima
Apresso V alma, che per gli ochi vede, L' inmagin dentro crescie, e
quella cede Quasi vilmente e senza alcuna stima. 1 The words
are Michelangelo's, but the idea is in effect Guido's. And it is an idea
which, I think, renders perfectly compatible in him con- stancy in ideal
love with inconstancy in real loves. To keep faith with perfection is to
break faith with imperfection. The love of Guido brooked no compromise.
The perfect one might be unattain- able in this life; perfect union with
her, even if found, might be impossible in this life; there might be no
other life than this so marred by the perpetual " state of wrath
" to which his impossible desire in its impotence doomed him ; yet
nevertheless Guido was willing to be damned for the greater glory of
Love. In conclusion, I would quote a passage from the elegy to
Aspasia of Leopardi, which puts into modern phrasing exactly what I
con- ceive to be Guido's intention, obscured as that is for us by
its scholastic terminology and its mixture of chivalric and
obsolete psychological imagery. Especially I would call attention to
the precisely similar way in which Leopardi, like Guido, combines in
his mood the loftiest idealization of Woman with the most
contemptuous conception of women. So Hamlet insults, even while he
adores. Dante too had his cynical time, to judge from Beatrice's
immortal rebuke, — when he . . . volse i passi suoi per via
non vera, Imagini di ben seguendo false. 1 While to the
beauty, which first drew my gaze, My soul I open, which looketh
through the eyes, The inward image grows, the outward dies In scorn
away, unworthy all of praise. But Dante was saved from ultimate cynicism,
ultimate unfaith, by the promise of perfect union with his ideal in
paradise. That promise Guido, like Leopardi, rejected. Here is
Leopardi's confession : Raggio divino al mio pensiero
apparve, Donna, la tua belta. Simile effetto Fan la bellezza e i
musicali accordi, Ch' alto mistero d* ignorati Elisi Paion sovente
rivelar. Vagheggia II piagato mortal quindi la figlia Delia sua
mente, l'amorosa idea, Che gran parte d* Olimpo in se racchiude,
Tutta al volto, ai costumi, alia favella Pari alia donna che il rapito
amante Vagheggiare ed amar confuso estima. Or questa egli non gia,
ma quella, ancora Nei corporali amplessi, inchina ed ama. Alfin
Perrore e gli scambiati oggetti Conoscendo, s' adira . ("
Sadira /" — " is wrathful " — Leopardi's very words form a
gloss to Guido's. But as little as Guido's is Leopardi's wrath
directed against the real woman, innocent occasion of his illusion and
disillu- sion. Leopardi continues :) e spesso incolpa La
donna a torto. A quella eccelsa imago Sorge di rado il femminile
ingegno; E ci6 che inspira ai generosi amanti La sua stessa belta,
donna non pensa, Ne comprender potria. (" The woman who does
not understand " !) Non cape in quelle Anguste fronti ugual
concetto. E male Al vivo sfolgorar di quegli sguardi Spera V uomo
ingannato, e mal richiede Sensi profondi, sconosciuti, e molto Piu
che virili, in chi dell' uomo al tutto Da nature e minor. Che se piu
molli E piu tenui le membra, essa la mente Men capace e men forte
anco riceve. 1 So the idealist skeptic of the nineteenth century
aligns himself with the idealist skeptic of the thirteenth, even to that
last truly mediaeval touch — confusio hominis est femina. And, if I have
not somewhere gone off on a tangent, I have described my circle.
Guido's philosophy of love at least fits with the hypothesis of his
skepticism, and a practical consequence of both would be that actual
fickleness of heart to which tradition again bears witness. 1
A ray celestial to my thought appeared, Lady, thy loveliness. Similar
effects Have beauty and those harmonies of music Which the high
mystery of unfathomed heavens Seem ofttimes to illumine. Even so
Enamoured man upon the daughter broods Of his own fancy, the amorous
idea, Which great part of Olympus comprehends, In feature all, in
manner, and in speech Unto the woman like, whom, rapturous man, In
his false lights he seems to see and love. Yet her he doth not, but that
other, even In corporal embracings, crave and love. Until, his
error and the intent transferred Perceiving, he grows wrathful ; and oft
blames With wrong the woman. To that ideal height Rarely indeed the
wit of woman rises ; And that which is in gentle hearts inspired By
her own beauty, woman dreams not of, Nor yet might understand. No room
have those Too straitened foreheads for such thoughts. And fondly
Upon the spirited flashing of that glance Builds the infatuate man, and
fondly seeks Meanings profound, undreamt-of, and much more Than
masculine, in one than man in all By kind inferior. For if more
tender, More delicate of limb, so with a mind Less broad, less
vigorous is she endowed.Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria
dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante
non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo
perfetto, I due sinola, sinolo, Greco sinolon, da sin, co- e holos, tutto. – l’amore come incontro disastroso di due
entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” – The Swimming-Pool
Library. Cavalcanti.
Grice e Cavallo: l’implicatura
conversazionale di Frankenstein, homo electricus – la morte di Fedro –
fulminated by one of Giove’s lightnings -- elettrico – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Cavallo,
and so did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t
strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a
couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to …
electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a
‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that
it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still
sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine
abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore
di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche
studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia.
Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la
possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo
elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio di un medico. Si
dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni suoi studi. Si
ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti, inventore e
realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali, anche su
commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per chiarezza,
sistematicità e completezza. Si lo ricorda in particolare per i suoi
studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come gas
portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità
ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da
Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo
salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano
inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo
pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non
riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta
riempito di gas. Fisico; recatosi per commercio in Inghilterra, ivi si dedicò a
ricerche di fisica e di chimica. Ha intuito la possibilità del volo per via
aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito
una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con
idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio. Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi
interessi includeno l’elettricità, lo sviluppo di strumenti scientifici, la
natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy
of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della
Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico.
Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso
citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro
tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle
osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto
dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In
seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti
sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi
volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas
e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso).
Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame
giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto”
(citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni
contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che
descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di
idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una
delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo
secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i
suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo
lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace
comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in
generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard.
Storia e pratica dell'aerostazione, C. La piastra I, che illustra l'apparato
chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno La piastra II,
che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di
idrogeno C. pubblicò anche sul temperamento musicale nel suo trattato “Del
temperamento di quegli strumenti musicali, in cui sono fissati i toni, le
chiavi o i tasti, come nel clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc. Il
memoriale di Coutts, Old St. Pancras. Il nome di C. è verso il basso, ma
mancano le lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di
Old St. Pancras in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è
elencato nel memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte
in essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic,
tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze:
Cambiagi); “Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e
le proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato
completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica
dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria
fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia
di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma
gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici
di C. comunicato da Henley, FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di
Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI
ORIGINALI. FIRENZE, CAMBIAGI STAMP.
GRANDUCALE CON LICENZA DE SUPÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING
PRINCIPE E CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN
BRETTAGNA ec. A voi solo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione
dall'origi nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle
preſenti ſtampe e di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio. Ella è
d'uno della vostra nazione, è ſtata intrapreſa per Voſtro comando, fatta ſotto
i Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro
copioſo ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune
vantag gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali.
Proſeguite come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa; mentre ſotto i
Vo ftri fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter
paſſare a di chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa Umiliſſimo Servo. Mi ſarei
facilmente diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi
creduto in dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima, della ſtampa che
meditavo fare della preſente verſione, anco per ſentire da ello ſe avea niente
da aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig. Ma
gellan alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta
parte, e traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che
foſſerofatti, come èſtato eſeguito, accompagnati con una corteſe let tera del
tenore ſeguente. Signore. Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune
poche addizioni e cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero
inſeriti nella traduzione del mio Trattato ſull'E. lettricità. La prego fare
intendere al Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto
obbligato per aver mi dato parte di queſta intrapreſa, e che ſon pronto a
ſervirgli in quel poco che poſſo. Suo C., Sig. Magellan Nevils Court Ferter
Lane. 1 NEL TRATTATO DI C. SULL' ELETTRICITA'. In vece di è quaſi tutte le dure
pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre prezioſe. Pag. 40. Il
paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e finiſce da un corpo ad un'
altro ſi dee totalinente omertere. Pag. DEL TRADUTTORE } . Il paragrafo che
comincia Le caufe e gli effetti ſono così intimamente, e termina nella pag.
100. colle parole cer tezza epreciſione fi dee omettere affatto. . Alla nota in
cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi poſſono aggiungere i fe guenti verſi: Higgins ha
ultima mente inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno,
perchè una piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più
potentemente, ma dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di
fagno. Queſt' amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer. curio
meſcolati inſieme. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto
recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo
ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi,
cioè dee dir così, non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag.
335.v.8. Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di
circoſtanze. Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e
LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che
la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati
ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig.
PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità
promoſſo queſto lavoro. In tanto vivi felice, e godi di queſta fatica. 1. HL
diſegno di queſto Trattato è di pre ſentare al pubblico un proſpetto che
comprenda lo ſtato preſente dell'elettri cità ridotto in quei limiti più
riſtretti che la natura della ſcienza può tollerare. Eſſo è diviſo in quattro
parti, in ciaſcuna delle quali ſono contenute certe particolarità che avevano
anche minor conneſſione col rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto,
che poteſſe eſſere un mezzo da impedire la confuſione dell' idee nella mente di
quei lettori che non fi erano prima refa molto familiare queſta materia. La
prima parte tratta ſolamente delle leggi dell'elettricità; cioè di quelle leggi
naturali relative all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi
ſono trovate coſtantemente vere, e che non dipendono da veruna ipoteſi. In
queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità, la quale non foſſe
chiaramente ſicura, o la quale foſſe di poca conſeguen za; ma nel tempo
medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante, o che ſembraſſe
promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote tica, non
per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande improba bilità
della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore a renderla più
breve che foſſe poſſibile. La parte terza contiene la pratica dell' elettricità.
Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di tutti i nuovi mi
glioramenti fatti nell'apparato, i quali nel tempo medeſimo ſervono a minorare
la fpefa, e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In riguardo agli
eſperimenti medeſimi, egli ha principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari
che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi
dell'elettricità, omettendo un gran numero d'altri che ha trovato non eflere
altro che i primi in qualche coſa va rjati. Egli niente di meno ha dato un rag
guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero
però meritare che ſene defle notizia. La quarta ed ultima parte contiene un
breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in
conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte
di fi loſofia. Quì egli ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi
che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to, maancora d'innumerabili
congetture che ha formato intorno a' medeſimi, e intorno ad altri non ancora
ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione. L'autore prende queſt'
opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per
diverſe eſperienze comunicategli, e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il
quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di ciaſcuna
particolarità che ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera. Non è
ſembrato neceffario il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of
fervazioni recate in queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo; per lo che
l'autore ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze
erano nuo ve, o non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia. Per
rendere il trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole
in rame, e un copioſo indice delle materie che meritano maggiore attenzione.
Neroduzione pag. Leggi fondamentali dell'elettricità. Contenente la spiegazione
d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati nelle lettricità. Degli
elettrici, e dei conduttori. Delle due elettricità. Dei differenti metodi di
eccitare gli elet trici. Dell elettricità comunicata Dell' elettricità
comunicata agli elettri ci. Degli elettrici caricati, ovvero della Boccia di
Leida '. Dell elettricità atmosferica go. Vantaggi derivati dall elettricità..
Che contiene un proſpetto compendioſo del le proprietà principali dell
elettrici tà. Teoria dell'elettricità, Ipoteſi dell' elettricità poſitiva, e
negati Va 126. Della natura del fluido elettrico Della natura degli elettrici,
e dei con duttori... Del luogo occupato dal fluido elettrico. Elettricità
pratica. Dell'apparato elettrico in generale. Deſcrizione d' alcune particolari
macchine elettriche ze... Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti
neceſſarie dell'apparato elettrico. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap
parato elettrico, ed il fare l'eſperien Sperimenti relativi all'attrazione, e
re pulſione elettrica Sperimenti ſulla luce elettrica... Sperimenti colla
bottiglia di Leida. Sperimenti con altri elettrici caricati. Sperimenti ſull'
influenza delle punte, e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per
difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine Elettricità medica..Sperimenti
fatti con la batteria elettri Sperimenti promiſcui Ulteriori proprietà della
boccia di Leida ovvero degli elettrici caricati. Nuovi ſperimenti dell' elettricità.. .
Coſtruzione dell' aquilone elettrico, e di altri ſtrumenti uſati con ello
Sperimenti fatti con l' aquilone elettri . co Sperimenti fatti
coll.elettrometro atmosfe rico, e coll' elettrometro per la prog gia.
Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire
l'elettricità perpetua · Sperimenti ſu i colori. Sperimenti promiſcui L E arti
e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni
fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano
l'umana attenzione, e fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo
divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo; ma queſti periodi terminan
preſto, e pochi anni di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi
ſecoli d'oblivione. Da queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono
riſervate ed elenti, le quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del
loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano, ſono ſempre flo
ride; e ſebbene una volta ſiano ſtate incognite, pure quando la fama ne ha
fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli, giammai dopo
declina no, e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono. Di
queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra
tutte le parti della Filoſofia naturale, che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo.
Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua
forza, dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura, è
ſtata ſempre in voga, è ſtata col maſſimo profitto coltivata, e ſenza
interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi, che ora è ridotta a uno ſtato in
cui in vece di divenire ſterile, ſembra ulteriormente impegnare la generale at
tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe.
Gli Ottici è vero, moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà, ma ſempre
relative alla ſola viſione: il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione, re
pultione, e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama
ca lamita; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi:
ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola
eſibiſce gli effetti di molte ſcienze, combina in ſieme le diverſe energie e
ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra, dà piacere ed è di
grand'uſo all'igno rante ugualmente che al FILOSOFO, all' opulento ugualmente
che al povero. Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante
luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua
attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi, reſtiamo
ſorpreſi dall'urto, atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria; ma
quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2, Come cauſa del tuono, del fulmine,
dell' aurora boreale, e di altri fenomeni na turali, i cui terribili effetti
poliamo in parte imitare, ſpiegare, ed anche allon tanare, allora sì che
reſtiamo attoniti per la maraviglia, la quale non ci per mette di contemplare
altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della
ſorpreſa. Il più remoto rag guaglio a noi cognito, che abbiamo di qualche
effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto
che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto. Ei ci dice che l'ambra il cui
nome greco è nextpor, e da cui il nome d'E lettricità è derivato, come pure il
Lincurio poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri. Queſto ſolamente era
tutto cio [E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di Teofraſto è
la medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui avremo occae
fione di parlare nel corſo di queſto trattato. ciò che ſi conoſceva ſu tal
ſoggetto per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto, nel qual lungo periodo non
troviamo nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna
ſcoperta, e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia, eſſendo
rimaſta queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert
medico Ingleſe, che viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo; ed il quale
a cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente
chiamarſi il padre della preſente Elettricità. Offerva egli che la proprietà
d'attrarre i corpi leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà
particolare dell'ambra o del Lincurio, ma che molti altri corpi la poſſeggono
egualmente. Rammenta un gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie
particolarità, che conſide rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo poſſono
ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando
benchè con piccoli progrefli, paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità,
a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte
ope razioni. Tale fu Bacone, Boyle,
Guericke, Newton, e più di tutti Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati
per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità.
Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro, ſoſtanza
che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in
preferenza di qualunque altro elettrico. Egli fu il primo che notaſie le varie
apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa, inſieme con
una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica. Dopo
il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata,
rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete, eſſendo l'attenzione dei
Filoſofi in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in
riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora
grandemen. te in reputazione. Il Sig. Grey fu il primo dopo queſto periodo d'
oblivione a portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo. Egli mediante le
gran ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da
lui ſi può dire che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell'
Elettricità. Il numero degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato
dal tempo del Sig. Grey, le ſcoperte fatte, e gli uſi che ne ſon derivati fino
al tempo preſente, fono materia realmente degna d'atten zione e meritano
l'ammirazione di qua lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere.
Chiunque vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza,
legga l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Priestley,
opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto
ſoggetto fino alla ſua pubblicazione. Io per me mi diſpenſerò dal farre un
lungo dettaglio iſtorico; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio
dello ſtato preſente dell'Elettricità, e non a for marne un'iſtoria. Soltanto
oſſerverò in generale, che quantunque la ſcienza ab bia, mediante l'indefella
attenzione di molti ingegnoſi foggetti, e mediante le ſcoperte che furono
giornalmente pro dotte, eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro
attenzione; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o
grande, cognita o incognita, di rado ſono oſſervate con at tenzione, ſe i loro
effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino
all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi. La ſua attra zione
può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita, la ſua luce dal fosforo, e in
una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto
della pubblica attenzione, e ad eccitare una generale curioſità, fin che non fu.
accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza, in ciò che
ſi chiama boccia di Leida in ventata da Muſchenbroeck. Allora lo ſtudio dell'
Elettricità divenne generale, ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore, e invitò alla caſa
degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello che avanti ſi
foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico ſpe rimento.
Dal perta del Dal tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero d'elettriciſti,
di ſperi menti, e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente prodotti da
ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del mondo, è quafi incredibile. Le
ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte, i megliora menti ſopra altri
meglioramenti, e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido corſo, ed ora ſi
eſtende con sì mi rabile velocità, che ſembra che il fog getto dovrebbe eſſere
tutto eſaurito, e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro ricerche: per
altro non è così. Il non plus ultra è con tutta probabilità ancora molto
lontano, e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo che mé rita
altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte forſe o d'
uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte.Of Natural Philosophy;—~its
Name;•—its Objeft —its Axioms; —and the Rules of Philofophizing. The word FILOSOFIA,
though used by ancient authors in senses somewhat different, does, however, in
its most usual acceptation, mean the love of general knowledge. It is divided
into moral and natural. Moral philosophy treats of the manners, the duties, and
the condud of man, considered as a rational and social beings but the business
of natural philosophy, is to colled the history of the phenomena which take
place amongst natural things, viz. among the bodies of the universes to investigate
their causes and effects; and thence to deduce such natural laws, as may
afterwards be applied to a variety of useful purposes. The word philosophy is
of Greek origin. PITAGORA, a learned Greek, seems to have been the firfl who
called himfelf philosopher j viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom.
2 Of Philosophy in general. Natural things means all bodies; and the assemblage
or fyftem of them all is called the universe. The word “phenomenon” signifies
an appearance, or, in a more enlarged acceptation, whatever is perceived by our
senses. Thus the fall of a stone, the evaporation of water, the folution of salt
in water, a tlafh of lightning, and fo on; are all phenomena. As all phenomena
depend on properties peculiar to different bodies; for it is a property of a
ftone to fall towards the earth, of the water to be cvaporable, of the fait to
be foluble in water, &c. therefore v/e fay that the bufinefs of natural
philofophy is to examine the properties of the various bodies of the univerfe,
to inveftigate their caufes, and thence to infer ufeful deductions. Agreeably
dom, from the words piaoj, a lover or friend, and croplxi, of knowledge or
wifdom. Moral philofophy is derived from the latin mos, or its plural mores,
fignifying manners or behiyiour. It has been likewife called ethics, from the
Greek r,ccs, mos, manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p
hylics, phyfology, and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is
derived from nature, or gv-T.hr., natural; the fecond is derived from pvair,
nature, and >. a dijeourfe; the laft deno nination, which was introduced not
many years ego, is obvioufly derived from the juft method of experiment. '
inveftigation, which has been univerfally adopted ftnee the r P.vul of
learnin-"- 'n Europe. “Phenomenon,” whose plural is “phenomena”, owes its
origin to the Greek word pf.-.ai, to appear. and the Rules of Philofophizing. 3
Agreeably to this, the reader will find in the courfe of this work, an account
of the principal properties of natural bodies, arranged under diftincft heads,
with an explanation of their efFefts, and of the caufes on which they depend,
as far as has been afeertained by means of reafoning and experience; he will be
informed of the principal hypothefes that have been offered for the explanation
of faffs, whofe caufes have not yet been demonflratively proved; he will find a
flatement of the laws of nature, or of fuch rules as have been deduced from the
concurrence of fimilar facts; and, laftly, he will be inftrudted in the
management of philofophical inflruments, and in the mode of performing the
experiments that may be thought neceffary either for the llluftration of what
has been already afeertained, or for the farther inveftigation of the
properties of natural bodies. We need not fay much with refpect to the end 01
defign of natural philofophy.—Its application and its ufes, or the advantages
which mankind may deuve therefrom, will be eafily fuggefted by a very
fuperficial examination of whatever takes place about us. The properties of the
air we breathe; the action and power of our limbs; the light, the found, and
other perceptions of our fenfes; the adcions of the engines that are ufed in
hufoandry, navigation, &c.; the viciffitudes of the feafons, the movements
of the celeflial bodies, and io forth; do all fall under the con fideration of
b 2 the 4 Of Philosophy in general; the philofophcr. Our welfare, our very
exiftenee-. depends upon them. A very flight acquaintance with the political
ftate of the world, will be fufficient to fhew, that the cultivation of the
various branches of natural philofophy has actually placed the Europeans and
their colonies above the reft of mankind. Their. difcoveries and improvements
in aftronomy, optics, navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the
numerous arts which depend on thofe and other branches of philofophy, have
fupplied them with innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied
their riches, and have extended their powers to a degree even beyond the
expectations of our predeceffors. The various properties of matter may be
divided into two claffes, viz. the general properties, which belong to all
bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to certain bodies
only, exclufively of others. In the firft part of this work we fhall examine
the general properties of matter. Thofe which belong to certain bodies only,
will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall examine the
properties of fuch fubftances as may be called hypothetical; their exiftenee
having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our
views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number, the movements,
and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules of
Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached
articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines,
&c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The
axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and
conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be
fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence,
JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot
be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily
admit, the propriety of this axiom; feeing that a great many things appear to
be utterly deftroyed by the action of fire; alfo that water may be caufed to
difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that
in thofe cafes the lubftances are not annihilated; but they are only difperfed,
or removed from one place to another, or they are divided into particles fo
minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the
fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain, the
weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of the
original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3
its 6 O/Philosophy in general; its component fubdances, which the atdion of the
fire drives different ways: the fluid part, for inftance, becomes fleam, the
light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed through the air,
&c. And if, after the combuftion, the fcattered materials were collecded
together, (which may in great meafure be done), the fum of their weights would
equal the weight of the original piece of wood. Every effect has, or is
produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general be obferved
with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has been
conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled either
by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they are as
evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe
limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and
whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings. Having
dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to
mention the rules of philofophizing, which have been formed after mature
confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible, and in
order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the
attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four;
viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more caufes
of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in the
appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as
poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not
capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies
within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities
ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon
propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or
very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined,
till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected,
or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of
evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to
remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute
certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter
fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as
to convey perfect convi&ion to the mind; nor can any of them be denied
without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that
becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain
circumftances; therefore they will moft likely continue to bV produced as long
E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl; and
likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And
this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined
in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies,
and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain
confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch
confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned,
the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the
principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable,
according as the principles upon which they depend are true, or faife, or
probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty,
does always direct itfelf to certain parrs of the world; upon which property
the mariner’s compafs has been conftructed; and it has been likewife obferved,
that this directive property of a natural or artificial magnet, is not
obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or,
in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and
ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally
follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of
any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft
anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of
Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain
as a geometrical one; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly
probable; for though all the bodies that have been tried with this view, iron
excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet
or magnetic needle, yet we are not certain that a body, or fome combination of
bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property.
Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm;
my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which
ought to be annexed tophyfical knowledge; fo that the ftudent of this fcience
may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt
adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency
in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various
branches of mathematics, at leaft with the elements of geometry, arithmetic,
trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or
fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers,
whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible;
and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute
date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the
Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. A General Idea of
Matter, conic fedions; for fincc almoft every phyfical effed depends upon
motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities,
powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical
knowledge; which fcience may in truth be called the language of nature. Mary
Shelley Who put the spark in Frankenstein’s monster? On the 200th anniversary
of Mary Shelley’s gothic horror, a new edition discusses its roots in
experiments with electricity on the dead Jamie Doward It is one of the most famous novels of all
time, often cited as the first work of science fiction, with a genesis almost
as well known as its terrifying central character. Mary Shelley’s
Frankenstein: or the Modern Prometheus was published. It was the result of a challenge laid down by
Lord Byron, when Shelley and her lover – later her husband – Byron’s fellow
poet Shelley were holidaying at Lake Geneva in Switzerland. The party had
hoped for good weather, but the eruption of a volcano in the East Indies, the
greatest event of its kind in recorded history, had ushered in three years of
bone-chilling cold that killed crops and cast a shadow across Europe. As they
huddled for warmth around a fire one night, Byron suggested each of them should
write a horror story. For days Shelley suffered writer’s block until she
came up with the idea of a scientist who reanimated a creature stitched
together from body parts, only to be horrified by his success. Some believe
Shelley was inspired by a trip to Germany, where she is thought to have learned
the legend of Frankenstein Castle and one of its 17th-century inhabitants, an
alchemist called Dippel, who was rumoured to have exhumed bodies for
experimentation. But it now appears Shelley’s true source of inspiration
for Victor Frankenstein’s monster was considerably closer to home. In a foreword
to a new edition of the classic, to be published by Oxford University Press
next month, Nick Groom, of Exeter, sometimes referred to as the “Prof of Goth”,
suggests it was her husband’s fascination with galvanism – chemically generated
electricity – that sparked her imagination. Shelley. Shelley. Photograph:
Getty Images Percy Shelley, one of Britain’s most cherished Romantic poets and
author of the celebrated sonnet Ozymandias, was fascinated by science, in
particular the creation of electricity. “He was very excited by galvanic
apparatus,” Groom explained. “His sister, Helen, would recall that he would, as
she put it, ‘practise electricity upon us’. He used to make all the family sit
around the dining room table holding hands, and he’d turn up with some brown
paper, a bottle and a wire and they’d all get electrocuted.” On one
occasion Percy even threatened to electrocute the son of his scout at Oxford.
Mary and Percy enjoyed a symbiotic working relationship. She corrected his
proofs and he helped edit Frankenstein. But Groom is clear that the book was,
contrary to what some have argued, Mary’s creation. “The work is by her and
should be attributed to her.” Sent down from Oxford for co-authoring a
pamphlet on atheism, Percy attended anatomy classes for a term at St
Bartholomew’s hospital in London.. “One of the things she would have got from
talking to her husband about laboratories was that they were really filthy
places,” Groom said. “The cadavers would be in a state of advanced putrefaction
when they arrived. These were not antiseptic places full of chaps in white
coats. They were unpleasant. The word filthy turns up a lot in Frankenstein.
There was something really disreputable about medical science, which Mary
Shelley is fascinated in.” She would have been aware of notorious public
experiments involving galvanism. “There was a particularly chilling one in
London when galvanism was used on the body of an executed criminal,” Groom
said. “The very first thing that happened was that the corpse opened its eyes.
A very Frankenstein moment.” At the time Mary was writing, the rights of
animals had become a concern for many of the intelligentsia. “The being that
Victor creates knows he’s not human but still believes that he should have
rights,” Groom said. “Part of the conundrum of the novel is, do you afford
comparable rights to non-human sentient creatures?” Two centuries on, the
novel continues to shape contemporary thinking, Groom suggested, posing
questions about matters such as artificial intelligence and genetic
modification. But Mary’s astonishing foresight has yet to be fully
recognised. “Her reputation has been overtaken by the films, which have
oversimplified these questions in ways that don’t really reflect the
sophistication of her novel,” Groom said. “Boris Karloff’s monster has none of
the subtlety that the being has in the novel. He’s not a zombie, he’s
intelligent and sentient. “People need to see this as a novel for today.
It’s very much entangled with the pressing questions of humanity, which still
concern us.”Cavallo. Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: elettrico, filosofia
naturale, filosofia trans-naturale, la rana ambigua. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library. Cavallo.
Grice
e Cazio – Roma – filosofia ialiana – Luigi Speranza (Roma). He is
presented by Orazio as something of a philosophica dilettante obsessed with
food.
Grice
e Cazio: l’orto a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Catius
insuber. Member of the Garden. He wrote four books in which he set out the
school’s teachings on the nature of the universe and the most important hings
in life. The books were aimed at making the teachings available and accessible
to a wide audience.
Grice e Cazzaniga: l’implicatura
conversazionale dell’iniziazione – You only get first penetrated once –
BACCHANALIUM -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity is not a
myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of the
‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and
latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies;
only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a
handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close
circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!” --
Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa con
Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e
conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli,
Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità:
fra stati nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica
italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico "Belfagor”;
Le Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI);
Storia d'Italia. Annali: La Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia.
Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). C., “Massoneria e letteratura: Dalla
'République des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia,
ed. C. et al. (Milan: Unicopli), C., “Origine ed evoluzione dei rituali
carbonari italiani,” in C., La Massoneria, Chi anche in questa fine di
millennio continua a nutrire interesse per la storia delle vicende umane, per
la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per concretarle -
soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà, fraternità,
uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La religione dei
moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario scavare molta terra,
C. ha dissodato a fondo un terreno a prima vista assai ingrato: l'arcipelago
multiforme e delirante della massoneria e delle sue sette. Il risultato è però
la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa tornare con un bottino non
solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra stessa auto-comprensione
spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane isole e penisole culturali
in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D. (leggasi: Uomini
Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si sono ribattezzati i
mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere per il vizio e
un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra i massimi
intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau, Condorcet,
Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di confondere
massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai più
nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e nato
praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana, comunismo... -
risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si chiedesse cosa e
chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un intellettuale lucido,
raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio come C., il saggui
non manca di rispondere. Da esso emerge netta l'opzione per una filosofia
curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di generare il nuovo e attenta ai
valori della differenza, nutrita da quella passione per le radici culturali del
nostro mondo che già aveva indotto C. a esplorare "Fin'amors e cortezia
nella poesia trabadorica" quali matrici dello "spirito laico".
Nel caso attuale si aggiunge un'indicazione di Marx che, in compagnia di
Engels, criticava i "critici-critici" tedeschi alla luce delle
esperienze realizzate della critica pratica del cervello sociale messo in moto
dalla Rivoluzione Francese. C. stesso segnala il debito con i dioscuri
fondatori del moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità
citando a conclusione del commento su Bonneville le parole che hanno costituito
l'input decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social
indicato dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento
rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge
rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base
della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i
membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria
pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel
terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e
le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi
moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale
dalle guerre di religione. Per molti cittadini della République des Lettres la
massoneria più che società segreta è infatti una società che tratta segreti,
terreno embrionale di una nuova possibile convivenza inter-umana, progetto e
luogo possibile di rifondazione di quel legame sociale posto in crisi dalla
nascita dell'individuo come nuovo protagonista spirituale della storia europea
e dalla distinzione tra religione naturale e religioni positive. Con le sue
radici giusnaturalistiche e neo-stoiche, dal mondo classico il progetto
massonico recupera anzitutto l'idea di cittadinanza, primo grande esperimento
riuscito di costruzione artificiale di un legame sociale ispirandosene per
costruire, nella situazione di crisi dell'ancien régime, un progetto analogo.
Collocandosi da questa prospettiva la ricerca di C. trascende ampiamente la
storiografia auto-celebrativa intra-massonica e illumina di nuova luce origine
e natura della politica, identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una
“religione”. L'elezione del mondo delle logge massoniche quale oggetto di
analisi avviene cioè in base alla convinzione storica-teorica circa il loro
carattere di "laboratorio" di nuove forme del vivere associato,
anzitutto a proposito del vero opus magnum ch'esse hanno contribuito ad
edificare, ovvero la costruzione di quella forma politica, sostenuta da partiti
di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che poi la nottola filosofica
spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente ideali, al tramonto
dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti politici di massa,
per oltre un secolo protagonisti della democrazia rappresentativa e di una vita
politica basata sulla cittadinanza, insieme al tempismo di C. è dimostrazione
di come la sua fedeltà al marxismo intelligente non abbia spedito in soffitta
neppure quell'Hegel che qui, insieme a Heine, ottiene il tributo di due
splendidi saggi. Oggi la storia ha cominciato un capitolo nuovo e l'autore non
ha dubbi che si stia voltando pagina. Non condivide però la convinzione che ciò
significhi fine della modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati
nazionali pongono in crisi partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali
artificiali sui cui la modernità ha costruito la propria storia", la
transizione in atto "lungi dall'essere una negazione dei principi
costitutivi della modernità, è in realtà "un'affermazione radicale di
essa". E la prospettiva indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum
dalla storia. Il comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne
riprospetti il nucleo vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza,
né dalla giustizia sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione
comunitaria solidaristica, ma dalla capacità progettuale collettiva, dal
controllo consapevole del ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità
storica che si apre per la società e per i singoli, in rapporto alla
rivoluzione scientifica e tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio
destino. Nessun dubbio per noi che qui l'impeccabile storico di questa
religione riveli la sua personale cifra
ideologica e la passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa,
peraltro sobria, cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una
espressione, questa, inerente, più che alla politica, a un ambito
filosofico-esistenziale, a tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse
ancora imparare a cimentarsi. THE MASCULINE CROSS
t PHALLIC WORSHIP PHALLIC WORSHIP A
DESCRIPTION OF THE MYSTERIES OF THE SEX WORSHIP OF THE
ANCIENTS WITH THE HISTORY OF THE MASCULINE CROSS AN
ACCOUNT OF PRIMITIVE SYMBOLISM, PHALLICISM, BACCHIC
FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND THE MYSTERIES OF THE ANCIENT
FAITHS LONDON. The present somewhat slight sketch of a most
interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet
embraces the cream, so to speak, of various learned works of great
cost, some of which being issuedfor private circulation only, are
almost unobtainable. During the past few years several books
have been written upon Phallicism in conjunction with other kindred
matters, but not devoting themselves entirely to one ancient
mystery, the writers have only partially ventilated the subject.
The present work seeks to obviate this failing by confining its
attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the ancient
world. Many of the topics have received only slight
treatment, being little more than indicated ; but the work will enable
the reader to understand and possess the truth concerning the
Phallic Worship of the Ancients. Those who desire to know more, or
to authenticate the statements and facts given in this book, should
consult the large and important works of Payne Knight, Higgins,
Dulaure, Kolle, Inman, and other writers. It was intended to
give with this volume a list of works and miscellaneous pieces written on
the subject, but the length of the list prevented its being
added. PHALLIC WORSHIP NATURE AND SEX WORSHIP Sex Worship
has prevailed among all peoples of ancient times, sometimes
contemporaneous and often mixed with Star, Serpent, and Tree Worship. The
powers of nature were sexualised and endowed with the same
feelings, passions, and performing the same functions as human
beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or
the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the same—the veneration
of the generative principle. Thus we find a close relationship between the
various mythologies of the ancient nations, and by a comparison of
the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring from the same
source, namely, the worship of the forces and operations of nature, the
original of which was doubt¬ less Sun worship. It is not necessary to prove
that in primitive times the Sun must have been worshipped under
various names, and venerated as the Creator, Light, Source of Life, and
the Giver of Food. In the earliest times the worship of the
generative power was of the most simple and pure character, rude in
manner, primitive in form, pure in idea, the homage of man to the supreme
power, the Author of life. Afterwards the worship became more
depraved, a religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a
priesthood who were not slow to take advantage of this state of affairs,
and inculcated with it profligate and mysterious ceremonies, union of
gods with women, religious prostitution and other degrading rites. Thus it was
not long before the emblems lost their pure and simple meaning and
became licentious statues and debased objects. Hence we have the
depraved ceremonies at the worship of Bacchus, who became, not only the
representative of the creative power, but the God of pleasure and
licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries,
willing to be captives to a pleasant bondage by the impulse of physical
bliss, as was the case in India and Egypt, and among the Phoenicians,
Babylonians, Jews and other nations. Sex worship once
personified became the supreme and governing deity, enthroned as the
ruling God over all; dissent therefrom was impious and punished. The
priests of the worship compelled obedience; monarchs complied to
the prevailing faith and became willing devotees to the shrines of Isis
and Venus on the one hand, and of Bacchus and Priapus on the other, by
appealing to the most animating passion of nature. This is the
worship of the reproductive powers, the sexual appointments revered as
the emblems of the Creator. The one male, the active creative
power; the other the female or passive power ; ideas which were
represented by various emblems in different countries. These emblems
-were of a pure and sacred character, and used at a time when the
prophets and priests spoke plain speech, understood by a rude and
primitive people ; although doubtless by the common people the
emblems were worshipped themselves, even as at the.present day in
Roman Catholic countries the more ignorant, in many cases, actually
worship the images and pictures themselves, while to the higher and more
intelligent minds they are only symbols of a hidden object of worship. In
the same manner, the concealed meaning or hidden truth was to the
ignorant and rude people of early times entirely unknown, while the priests
and the more learned kept studiously concealed the meaning of the
ceremonies and symbols. Thus, the primitive idea became mixed with
profligate, debased ceremonies, and lascivious rites, which in time
caused the more pure part of the worship to be forgotten. But Phallicism
is not to be judged from these sacred orgies, any more than
Christianity from the religious excitement and wild excesses of a
few Christian sects during the Middle Ages. In a work on the
“ Worship of the Generative Powers during the Middle Ages,” the writer
traces the superstition westward, and gives an account of its prevalence
through¬ out Southern and Western Europe during that period.
The worship was very prevalent in Italy, and was invariably carried
by the Romans into the countries they conquered, where they introduced
their own institutions and forms of worship. Accordingly, in Britain
have been found numerous relics and remains; and many of our
ancient customs are traced to a Phallic origin. “ When we cross over to
Britain,” says the writer, “ we find this worship established no less
firmly and extensively in that island; statuettes of Priapus, Phallic
bronzes. pottery covered with obscene pictures, are found wherever
there are any extensive remains of Roman occupation, as our antiquaries
know well. The numerous Phallic figures in bronze found in England are
perfectly identical in character with those that occur in France and
Italy.” All antiquaries of any experience know the great
number of obscene subjects which are met with among the fine red
pottery which is termed Samian ware, found so abundantly in all Roman
sites in our island. “ They represent erotic scenes, in every sense of
the word, with figures of Priapus and Phallic emblems.” The
Phallus, or Lingam, which stood for the image of the male organ, or
emblem of creation, has been worshipped from time immemorial. Payne
Knight describes it as of the greatest antiquity, and as having
prevailed in Egypt and all over Asia. The women of the former
country carried in their re¬ ligious processions, a movable Phallus of
disproportionate magnitude, which Deodorus Siculus informs us
signified the generative attribute. It has also been observed among
the idols of the native Americans and ancient Scandinavians, while the
Greeks represented the Phallus alone, and changed the personified
attribute into a distinct deity, called Priapus. Phallus, or
privy member (membrum virile), signifies, “ he breaks through, or passes
into.” This word survives in German pfahl, and pole in English. Phallus
is supposed Phallic Worship ii to be of Phoenician origin, the Greek
word pallo, or phallo , “ to brandish preparatory to throwing a
missile,” is so near in assonance and meaning to Phallus, that one
is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit it can be traced
to phal, “ to burst,” “ to produce,” “ to be fruitful ” ; then, again,
phal is “ a ploughshare,” and is also the name of Siva and Mahadeva, who
are Hindu deities. Phallus, then, was the ancient emblem of
creation: a divinity who was companion to Bacchus. The Indian
designation of this idol was Lingam, and those who dedicated themselves
to its service were to observe inviolable chastity. “ If it were
discovered,” says Crawford, “ that they had in any way departed
from them, the punishment is death. They go naked, and being
considered as sanctified persons, the women approach without scruple, nor
is it thought that their modesty should be offended by it.”
The Phallus and its emblems were representative of the gods
Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and Asher, who were all
Phallic deities. The symbols were used as signs of the great creative
energy or operating power of God from no sense of mere animal
appetite, but in the highest reverence. Payne Knight, describing
the emblems, says : Forms and ceremonials of a religion are not always to
be understood in their direct and obvious sense, but are to be considered
as symbolical representations of some hidden meaning extremely wise and
just, though the symbols themselves, to those who know not their
true signification, may appear in the highest degree absurd and
extravagant. It has often happened that avarice and superstition have
continued these symbolical representations for ages after their original
meaning has been lost and forgotten; they must, of course, appear
nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant. Such is the
case with the rite now under consideration, than which nothing can be
more monstrous and indecent, if considered in its plain and obvious
meaning, or as part of the Christian worship ; but which will be found to
be a very natural symbol of a very natural and philosophical system
of religion, if considered according to its original use and
intention.” The natural emblems were those which from their
character were most suitable representatives; such as poles, pillars,
stones, which were sacred to Hindu, Egyptian, and Jewish
divinities. Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone,
to be found at Narmada and other places, which is sacred to the
Hindu deity Siva; these emblem stones were anointed, like the stone
consecrated by the Patriarch Jacob. Blavalsky further says
that these stones are “ identical in shape, meaning, and purpose with the
* pillars ” set up by the several patriarchs to mark their adoration of
the Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might even
now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta without its Hebrew
derivation being suspected.”The Pole was an emblem of the Phallus, and with
the serpent upon it, was a representative of its divine wisdom and
symbol of life. The serpent upon the tree is the same in character, both
are representative of the tree of life. The story of Moses will well
illustrate this, when he erected in the wilderness this effigy, which
stood as a sign of hope and life, as the cross is used by the
Catholics of the present day ; the cross then, as now, being simply
an emblem of the Creator, used as a token of resurrection or
regeneration. iEsculapius, as the restorer of health, has a rod or
Phallus with a serpent entwined. The Rev. M. Morris has shown that
the raising of the May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom
of India or Egypt, and is typical of the fructifying powers of
spring. The May festival was carried on with great
licentious¬ ness by the Romans, and was celebrated by nearly all
peoples as the month consecrated to Love. The May-day in England was the
scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to the Roman
Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a relic
of Paganism, and in their writings may be gleaned much of the
licentious character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan
writer in the reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England: “
Every parishe, towne, and village assemble themselves together,
bothe men, women, and children, olde and younge even indiffer¬
ently ; and either goyng all together, or devidyng themselves into
companies, they go some to the woods and groves, some to one place, some
to another, where thei spend all the night in pleasant pastymes; and in
the mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes and branches
of trees, to deck their assemblies withall. But their cheerest jewell thei
bryng from thence is their Maie pole, whiche thei bryng home with
great veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke of
oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers placed on the tippe of
his homes, and these oxen drawe home this Maie pole (this stinckyng idoll
rather), which is covered all over with flowers and hearbes, bound
rounde aboute with strynges from the top to the bottome, and sometyme
painted with variable colours, with two or three hundred men, women, and
children, foliowyng it with great devotion. And thus beyng reared up,
with handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei strawe
the grounde aboute, binde greene boughes aboute it, sett up sommer
haules, bowers, and arbours hard by it. And then fall thei to banquet and
feast, to leape and daunce aboute it, as the heathen people did at the
dedication of their idols, whereof this is a perfect patterne, or
rather the thyng itself.” The ceremony was almost identical with the
Roman festival, where the Phallus was introduced with garlands.
Both were attended with the same licentiousness, for Stubbes gives a
further account of the depravity attending the festivities. PILLARS Another
type of emblem was the stone pillar, remains of which still exist in the
British Isles. These pillars or so called crosses generally consist of a
shaft of granite with a carved head. In the West of England crosses are
very common, standing in the market and receiving the name of “ The
Cross.” These stone pillars were first erected in honour of
the Phallic deity, and on the introduction of Christianity were not
destroyed, but consecrated to the new faith, doubtless to honour the
prejudices of the people. These monolisks abound in the Highlands, they
are stones set up on end, some twenty-four or thirty feet high,
others higher or lower and this sometimes where no such stones are
to be quarried. We learn that the Bacchus of the Thebans was a
pillar. The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,
consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an account of this
practice, as also does Theophrastus, who speaks of it as a custom for a
superstitious man, when he passed by these anointed stones in the streets
to take out a phial of oil and pour it upon them and having fallen
on his knees to make his adorations, and so depart. In various
parts of the Bible the Pillar is referred to as of a sacred character, as
in Isaiah xix. 19, 20, “In that day shall there be an altar to Jehovah in
the midst oi the land of Egypt, and a pillar at the border thereof to
Jehovah, and it should be for a sign and a witness to the Lord.”
The Orphic Temples were doubtless emblems of the same principle of
the mystic faiths of the ancients, the same as the Round Towers of
Ireland, a history of which was collected by O’Brien, who describes the
Towers as “ Temples constructed by the early Indian colonists of
the country in honour of the 'Fructifying principle of nature, emanating
as was supposed from the Sun, or the deity of desire instrumental in that
principle of universal generativeness diffused throughout all
nature.”According to the same author these towers were very ancient, and
of Phoenician origin, as similar towers have been found in Phoenicia. “
The Irish themselves,” says O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that
is the tower of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and
the priest who attended them * Aoi Bail-toir ’ or superinendent of Baal
tower.” This Baal was worshipped wherever the Phoenicians went, and was
represented by a pillar or stone or similar objects. The stone that
Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship, became
afterwards an object of worship to the Phoenicians. The earliest
navigators of the world were the Phoenicians, they founded colonies and
extended their commerce first to the isles of the Mediterranean, from
thence to Spain, and then to the British Isles. Historians have
accorded to them the settlements of the most remote localities. They
formed settlements in Cyprus, and Atticum, according to Josephus, was the
principal settle¬ ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s
testimony is, that the Phoenicians, even before Homer, had
possessed themselves of the best part of Spain. Where the
Phoenicians settled, there they introduced their religion, and it is in
these countries we find the remains of ancient stone and pillar
worship. Loggin stones are by Payne Knight considered as Phallic
emblems. “ Their remains,” he says, “ are still extant, and appear to
have been composed of a crone set into the ground, and another placed
upon the point of it and so nicely balanced that the wind could move it,
though so ponderous that no human force, unaided by machinery, can
displace it; whence they are called * logging rocks * and * pendre
stones,’ as they were anciently * living stones ’ and * stones of God,’
titles which differ very little in meaning from that on the Tyrian
coins. Damascius saw several of them in the neighbourhood of Heliopolis
or Baalbeck, in Syria, particularly one which was then moved by the
wind; and they are equally found in the Western extremities of
Europe and the Eastern extremities of Asia, in Britain, and in
China.” Bryant mentions it as very usual among the Egyptians
to place with much labour one vast stone upon another for a religious
memorial. Such immense masses, being moved by causes seeming
so inadequate, must naturally have conveyed the idea of spontaneous
motion to ignorant observers, and persuaded them that they were animated
by an emanation of the vital spirit, whence they were consulted as
oracles, the responses of which could always be easily obtained by
interpreting the different oscillatory movements into nods of approbation
or dissent. Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria,
and many other places, even in modern times. A physician, writing
to Dr. Inman, says : “ I was in Egypt last winter (1865-66), and there
certainly are numerous figures of gods and kings, on the walls of the
temple at Thebes, depicted with the male genital erect. The great
temple at Karnak is, in particular, full of such figures, and the
temple of Danclesa likewise, though that is of much later date, and built
merely in imitation of old Egyptian art. The same inspiring bas-reliefs
are pointed out by Ezek. B 14. I remember one scene of a king
(Rameses II) returning in triumph with captives, many of whom were
undergoing the process of castration.” Obelisks were also
representative of the same emblem. Payne Knight mentions several
terminating in a cross, which had exactly the appearance of one of those
crosses erected in churchyards and at cross roads for the adoration
of devout persons, when devotions were more prevalent than at present.
Stones, pillars, obelisks, stumps of trees, upright stones have all the
same signification, and are means by which the male element was
symbolised. The Triune idea is to be found in the system of almost
every nation. All have their Trinity in Unity, three in one, which can be
distinctly recognised in the cross. The Triad is the male or triple, the
constitution of the three persons of most sacred Trinity forming the Triune
system. In the analysis of the subject by Rawlinson, we find the Trinity
consisted of Asshur or Asher, associated with Anu and Hea or Hoa. Asshur,
the supreme god of the Assyrians, represents the Phallus or central
organ or the Linga, the membrum virile. The cognomen Anu was given
to the right testis, while that of Hea designated the left.
It was only natural that Asshur being deified, his appendages
should be deified also. “ Beltus,” says Inman, “ was the goddess
associated with them, the four together made up Arba or Arba-il, the four
great gods,” the Trinity in Unity. The idea thus broached
receives great confirmation when we examine the particular stress
laid in ancient times respecting the right and left side of the body in
connection with the Triad names given to offspring mentioned in the
scriptures with the titles given to Anu and Hea. The male or active
principle was typified by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and
the females or passive by the principles of “ water,” “
soft¬ ness,” and other feminine principles. Thus the goddess
Hea was associated with water, and according to Forlong, the Serpent, the
ruler ot the Abyss, was sometimes repre¬ sented to be the great Hea,
without whom there was no creation or life, and whose godhead embraced
also the female element water. Rawlinson also gives a similar
conclusion, and states as far as he could determine the third divinity or
left side was named Hea, and he considered this deity to correspond
to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep, ruler of the
abyss, and king of the rivers. As Darwin and his coadjutors teach,
mankind, in common with all animal life, originally sprung from the sea ;
so physiology teaches that each individual had origin in a pond of
water. The fruit of man is both solid and fluid. It was natural to
imagine that the two male appendages had a distinct duty, that one formed
the infant, the other water in which it lived, that one generated the
male, the other the female offspring; and the inference was then drawn
that water must be feminine, the emblem of all possible powers of
creation. It will be seen that the names and signification of
the gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in Genesis
xxx. 13, we find Asher given as a personality, which signifies “ to be
straight,” “ upright,” “ fortunate,” “ happy.” Asher was the supreme god
of the Assyrians, the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male
structure and creative energy. The same idea of the creator is still to
be seen in India, Egypt, Phoenicia, the Mediterranean, Europe, and
Denmark, depicted on stone relics. To a rude and ignorant
people, enslaved with such a religion, it was an easy step from the crude
to the more refined sign, from the offensive to a more pictured and
less obnoxious symbol, from the plain and self-evident to the mixed,
disguised, and mystified, from the unclothed privy member to the
cross. THE CROSS The Triad, or Trinity, has been
traced to Phoenicia, Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur,
Anu, and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,
Greeks, and Hebrews became the sign or type of the deities representing
the Phallic trinity, and in time became the figure of the cross. It
is remarked by Payne Knight that “ The male organs of generation are
sometimes found represented by signs of the same sort, which
properly should be called the symbol of symbols. One of the most
remarkable of these is a cross, in the form of the letter (T), which thus
served as the emblem of creation and generation before the Church adopted
it as a sign of salvation.” Another writer says, “ Reverse the
position of the triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the
figure of the ancient c tau ’ of the Christians, Greeks, and ancient
Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of the cross. It is also met with in Gallic,
Oscan, Arcadian, Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic,
and Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the exact
prototype and image of the cross, or rather, to state the fact in order
of merit and time, the cross is made in the exact image of the Ethiopic *
tau.’ The fig-leaf, having three lobes to it, became a symbol of the
triad. As the male genital organs were held in early times to
exemplify the actual male creative power, various natural objects were
seized upon to express the theistic idea, and at the same time point to
those parts of the human form. Hence, a similitude was recognised in a
pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a club between
two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two ribbons with the
two ends pendant, a thumb and two fingers, the caduceus. Again, the
conspicuous part of the sacred triad Asshur is symbolised by a single
stone placed upright—the stump of a tree, a block, a tower, spire,
minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while eggs, apples, or
citrons, plums, grapes, and the like represented the remaining two
portions, altogether called Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name which
seems designed to perpetuate the triad, since it signifies * my
Lord the Trinity,’ or * my God is three.’ ” We must not omit to
mention other Phallic emblems, such as the bull, the ram, the goat, the
serpent, the torch, fire, a knobbed stick, the crozier; and still further
per¬ sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules, Hermes,
Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal, Asher, and others.
If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as Asshur, Anu, and
Hea, was made of gold and silver, and was in his day not symbolically
used, but actually employed; for he bluntly says “ whoredom was committed
with the images of men,” or, as the marginal note has it, images of
“ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this god-mark —a cross in the
form of the letter T—that Ezekiel was directed to stamp the foreheads of
the men of Judata who feared the Lord (Ezek. ix. 4). That the
cross, or crucifix, has a sexual origin we determine by a similar rule of
research to that by which comparative anatomists determine the place and
habits of an animal by a single tooth. The cross is a metaphoric
tooth which belongs to an antique religious body physical, and that
essentially human. A study of some of the earliest forms of faith will
lift the veil and explain the mystery. India, China, and
Egypt have furnished the world with a genus of religion. Time and culture
have divided and modified it into many species and countless
varieties. However much the imagination was allowed to play upon
it, the animus of that religion was sexuality—worship of the generative
principle of man and nature, male and female. The cross became the emblem
of the male feature, under the term of the triad —three in one. The
female was the unit ; and, joined to the male triad, con¬ stituted a
sacred four. Rites and adoration were sometimes paid to the male,
sometimes to the female, or to the two in one. So great was
the veneration of the cross among the ancients that it was carried as a
Phallic symbol in the religious processions of the Egyptians and
Persians. Higgins also describes the cross as used from the
earliest times of Paganism by the Egyptians as a banner, above
which was carried the device of the Egyptian cities. The cross was
also used by the ancient Druids, who held it as a sacred emblem. In Egypt
it stood for the significa¬ tion of eternal life. Schedeus describes it
as customary for the Druids “ to seek studiously for an oak tree,
large and handsome, growing up with two principal arms in the form
of a cross , besides the main stem upright. If the two horizontal arms
are not sufficiently adapted to the figure, they fasten a cross-beam to
it. This tree they consecrate in this manner: Upon the right branch
they cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’; upon
the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius ’; upon the left branch
‘ Belenus ’; over this, above the going off of the arms, they cut the
name of the god Thau ; under all, the same repeated, Thau.”
YONI There is in Hindostan an emblem of great sanctity, which
is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of a simple pillar in the
centre of a figure resembling the outline of a conical ear-ring. It is
expressive of the female genital organ both in shape and idea. The Greek
letter “ Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a
house. Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means (1)
the vulva, (2) the womb, (3) the place of birth, (4) origin, (5) water,
(6) a mine, a hole, or pit. As Asshur and Jupiter were the
representatives of the male potency, so Juno and Venus were
representatives of the female attribute. Moore, in his “ Oriental
Fragments,” says : “ Oriental writers have generally spelled the
word, * Yoni,’ which I prefer to write ‘ IOni.’ As Lingam was the
vocalised cognomen of the male organ, or deity, so IOni was that of
hers.” Says R. P. Knight: “ The female organs of generation were revered
as symbols of the generative powers of nature or of matter, as
those of the male were of the generative powers of God. They are
usually represented emblematically by the shell Concoa Veneris , which
was therefore worn by devout persons of antiquity, as it still continues
to be by the pilgrims of many of the common people of Italy ” (“ On
the worship of Priapus,” p. 28). If Asshur, the conspicuous feature
of the male Creator, is supplied with types and representative figures of
himself, so the female feature is furnished with substitutes and
typical imagery of herself. One of these is technically known as
the sistrum of Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the
fenestrum, or opening, are bent so that they cannot be taken out, and
indicate that the door is closed. It signifies that the mother is still
virgo intacta —a truly immaculate female—if the truth can be strained to
so denominate a mother. The pure virginity of the Celestial Mother
was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted Virgin Mary now
adored was born. We might infer that Solomon was acquainted with the
figure of the sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my
spouse, a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv.
12). The sistrum, we are told, was only used in the worship of
Isis, to drive away Typhon (evil). The Argha is a contrite form, or
boat-shaped dish or plate used as a sacrificial cup in the worship of
Astarte, Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.
The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian monuments, and yet
more frequently on bas-reliefs. Equivalent to Iao, or the Lingam, we find
Ab, the Father, the Trinity; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam, Esau,
Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius, Bacchus, Apollo,
Hercules, Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal,
Osiris, Thor, Oden; the cross, tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and
a host of others ; while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte,
Juno, Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres,
Eve, Frea, Frigga ; the queen of Heaven, the oval, the trough, the delta,
the door, the ark, the ship, the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole,
pit. Celestial Virgin, and a number of other names. Lucian, who was
an Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the
Euphrates, says there are two Phalli standing in the porch with this
inscription on them, “ These Phalli I, Bacchus, dedicate to my
step-mother Juno.” The Papal religion is essentially the feminine,
and built on the ancient Chaldean basis. It clings to the female
element in the person of the Virgin Mary. Naphtali (Gen. xxx. 8) was a
descendant of such worshippers, if there be any meaning in a concrete
name. Bear in mind, names and pictures perpetuate the faith of many
peoples. Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A 1 or El being
God, one of the unavoidable renderings of Naphtali is “ the Yoni is my
God,” or “ I worship the Celestial Virgin.” The Philistine towns
generally had names strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb
or esb, means “ fire, heat,” and dod means “ love, to love,” “
boiled up,” “ be agitated,” the whole signifying “ the heat of love,” or
“ the fire which impels to union.” Could not those people exclaim .
Our “ God is love ” ? (i John iv. 8). The amatory drift of
Solomon’s song is undisguised. 26 Phallic
Worship though the language is dressed in the habiliments of
seem¬ ing decency. The burden of thought of most of it bears direct
reference to the Linga-Yoni. He makes a woman say, “ He shall lie all
night betwixt my breasts ” (S. of S. i. 13). Again, of the Phallus, or
Linga, she says, “I will go up the palm-tree, I will take hold of the
boughs thereof” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms of
the male genitals. The nations surrounding the Jews practising
the Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not to
be supposed that the Jews escaped their influence. It is indeed certain
that the worship of the Phallics was a great and important part of the
Hebrew worship. This will be the more plainly seen when we bear
in mind the importance given to circumcision as a covenant between
God and man. Another equally suggestive custom among the Patriarchs was
the act of taking the oath, or making a sacred promise, which is
commented upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopedia. He says :
“ Another primitive custom which obtained in the patriarchal age was,
that the one who took the oath put his hand under the thigh of the
adjurer (Gen. xxiv. 2, and xlvii. 29). This practice evidently arose from
the fact that the genital member, which is meant by the euphe¬
mistic expression thigh, was regarded as the most sacred part of the
body, being the symbol of union in the tenderest relation of matrimonial
life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much
coveted by the ancients. Compare Gen. xlvi. 26; Exod. i. 5 ; Judges
vii. 30. Hence the creative organ became the symbol of the Creator, and
the object of worship among all nations of antiquity. It is for this reason
that God claimed it as a sign of the covenant between himself and
his chosen people in the rite of circumcision. Nothing therefore could
render the oath more solemn in those days than touching the symbol of
creation, the sign of the covenant, and the source of that issue who may
at any future period avenge the breaking a compact made with their
progenitor.” From this we learn that Abraham, himself a Chaldee, had
reverence for the Phallus as an emblem of the Creator. We also learn that
the rite of circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From
Herodotus we are informed that the Syrians learned circumcision from the
Egyptians, as did the Hebrews. Says Dr. Inman: “I do not know anything
which illustrates the difference between ancient and modern times
more than the frequency with which circumcision is spoken of in the
sacred books, and the carefulness with which the subject is avoided
now.” The mutilation of male captives, as practised by Saul
and David, was another custom among the worshippers of Baal, Asshur, and
other Phallic deities. The practice was to debase the victims and render
them unfit to take part in the worship and mysteries. Some idea can
be formed of the esteem in which people in former times cherished
the male or Phallic emblems of creative power when we note the sway that
power exercised over them. If these organs were lost or disabled, the
unfortunate one was unfitted to meet in the congregation of the Lord,
and disqualified to minister in the holy temples. Excessive
28 Phallic Worship punishment was inflicted upon the
person who had the temerity to injure the sacred structure. If a woman
were guilty of inflicting injury, her hand was cut off without pity
(Deut. xxv. 12). The great object of veneration in the Ark of the
Covenant was doubtless a Phallic emblem, a symbol of the preservation of
the germ of life. In the historical and prophetic books of
the Old Testament we have repeated evidence that the Hebrew worship
was a mixture of Paganism and Judaism, and that Jehovah was worshipped in
connection with other deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3,
to have “ removed the high places, and broken the images, and cut
down the groves (Ashera), and broken in pieces the brazen serpent that
Moses had made, for unto those days the children of Israel did burn
incense to it.” The Ashera, or sacred groves here alluded to are
named from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith describes as the
proper name of the goddess ; while Ashera is the name of the image of the
goddess. Rawlinson, in his Five Great Monarchies of the Ancient World ,
describes Ashera to imply something that stood straight up, and
probably its essential element was the stem of a tree, an analogy
suggestive of the Assyrian emblem of the Tree of Life of the Scriptures.
This stem, which stood for the emblem of life, was probably a pillar, or
Phallus, like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a grove
or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We read in 2 Kings xxi.
7, that Manasseh “ set up a graven image in the grove,” and, according to
Dr. Oort, the older reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an
image or pillar. During the reigns of the Jewish kings, the worship
of Baal, the Priapus of the Greeks and Romans, Phallic
Worship 2 9 was extensively practised by the Jews.
Pillars and groves were reared in his name. In front of the
Temple of Baal, in Samaria, was erected an Ashera (i Kings xvi. 31, 32)
which even survived the temple itself, for although Jehu destroyed the
Temple of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x. 18, 19;
xiii. 6). Bernstein, in an important work on the origin of the legends of
Abraham, Isaac, and Jacob, undoubtedly proves that during the monarchial
period of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between
the two kingdoms of Judah and Israel were between the Elohistic and
Jehovahic faiths, kept alive by the priesthood at the chief places of
worship, concerning the true patriarch, and each party manufacturing and
inserting legends to give a more ancient and important part to its
own faith. It is not at all improbable that the conflict was
between the two portions of the Phallic faith, the Lingam and Yoni
parties. The cause of this conflict was the erection of the consecrated
stones or pillars which were put up by the Hebrews as objects of Divine
worship. The altar erected by Jacob at Bethel was a pillar, for according
to Bernstein the word altar can only be used for the erection of a
pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar of stone, in Gilead,
and finally he set one up upon the tomb of Rachel. A great
portion of the facts have been suppressed by the translators, who have
given to the world histories which have glossed over the ancient rites
and practices of the Jews. An instance is given by Forlong on
the important word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the
Jews addressed their devotions. He says, “ It should not be, but I fear it
is, necessary to explain to mere English readers of the Old Testament
that the Stone or Rock Tsur was the real old god of all Arabs, Jews, and
Phoenicians, that this would be clear to Christians were the Jewish
writings translated according to the first ideas of the people and Rock
used as it ought to be, instead of ‘ God,’ * Theos,’ £ Lord,’ etc., being
written where Tsur occurs . Numerous instances of this are given in Dr.
Ort’s worship of Baal in Israel, where praises, addresses, and
adorations are addressed to the Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18.
Stone pillars were also used by the Hebrews as a memorial of a sacred
covenant, for we find Jacob setting up a pillar as a witness, that he
would not pass over it. Connected with this pillar worship is the
ceremony of anointing by pouring oil upon the pillar, as practised by
Jacob at Bethel. According to Sir W. Forbes, in his Oriental
Memoirs, the “pouring of oil upon a stone is practised at this day upon
many a shapeless stone throughout Hindostan.” Toland gives a similar
account of the Druids as practising the same rite, and describes many of
the stones found in England as having a cavity at the top made to receive
the offering. The worship of Baal like the worship of Priapus was
attended with prostitution, and we find the Jews having a similar custom
to the Babylonians. Payne Knight gives the following account of it
in his work: “ The women of every rank and condition held it to be
an indispensable duty of religion to prostitute themselves once in their
lives in her temple to any stranger who came and offered money, which,
whether little or much, was accepted, and applied to a sacred
purpose. Women sat in the temple of Venus awaiting the selection of
the stranger, who had the liberty of choosing whom he liked. A woman once
seated must remain until she has been selected by a piece of silver being
cast into her lap, and the rite performed outside the temple.”
Similar customs existed in Armenia, Phrygia, and even in Palestine,
and were a feature of the worship of Baal Peor. The Hebrew prophets
described and denounced these excesses which had the same characteristics
as the rites of the Babylonian priesthood. The identical custom is
referred to in i Sam. ii. 22, where “ the sons of Eli lay with the women
that assembled at the door of the tabernacle of the congregation.”
Words and history corroborate each other, or are apt to do so if
contemporaneous. Thus kadesh , or kaesh, designate in Hebrew “ a
consecrated one,” and history tells the unworthy tale in descriptive
plainness, as will be shown in the sequel. That the religion
was dominating and imperative is determined by Deut. xvii. 12, where
presumptuous refusal to listen to the priest was death to the
offender. To us it is inconceivable that the indulgence of passion
could be associated with religion, but so it was. Much as it is covered
over by altered words and substituted expressions in the Bible—an example
of which see men for male organ, Ezek. xvi. 17—it yet stands out
offensively bold. The words expressive of “ sanctuary,” “ conse¬
crated,” and “ Sodomite,” are in the Hebrew essentially the same. They
indicate the passion of amatory devotion. It is among the Hindus of
to-day as it was in Greece and Italy of classic times ; and we find that
“ holy women ” is a title given to those who devote their bodies to be
used for hire, the price of which hire goes to the service of the
temple. As a general rule, we may assume that priests who
make or expound the laws, which they declare to be from God, are
men, and, consequently, through all time, have thought, and do think, of
the gratification of the masculine half of humanity. The ancient and
modern Orientals are not exceptions. They lay it down as a
momentous fact that virginity is the most precious of all the
possessions of a woman, and, being so, it ought, in some way or
other, to be devoted to God. Throughout India, and also through the
densely inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a class
of females who dedicate themselves to the service of the deity whom they
adore; and the rewards accruing from their prostitution are devoted to
the service of the temple and the priests officiating therein.
The temples of the Hindus in the Dekkan possessed their
establishments. They had bands of consecrated dancing-girls called the
Women of the Idol , selected in their infancy by the priests for the
beauty of their persons, and trained up with every elegant accomplishment
that could render them attractive. We also find David and the
daughters of Shiloh per¬ forming a wild and enticing dance ; likewise we
have the leaping of the prophets of Baal. It is again
significant that a great proportion of Bible names relate to "
divine,” sexual, generative, or creative power; such as Alah, “ the
strong one ” ; Ariel, “ the strong Jas is El ” ; Amasai, “ Jah is firm ”
; Asher, “ the male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is
Jah ” ; Eliab, “ the strong father ” ; Elisha, “ El is upright ” ; Ara, “
the strong one,” “ the hero ” ; Aram, “ high,” or, “ to be uncovered ” ;
Baal Shalisha, “ my Lord the trinity,” or “ my God is three ” ;
Ben-zohett, “ son of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ;
Cainan, “ he stands upright
” ; these are only a few of the many names of a similar
signification. It will be seen, from what has been given, that the
Jews, like the Phoenicians (if they were not the same), had the
same ceremonies, rites, and gods as the surrounding nations, but enough has
been said to show that Phallic worship was much practised by the Jews. It
was very doubtful whether the Jehovah-worship was not of a
monotheistic character, but those who desire to have a further insight
into the mysteries of the wars between the tribes should consult
Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER The following interesting chapter
is taken from a valuable book issued a few years ago anonymously :
“ Mother Earth ” is a legitimate expression, only of the most
general type. Religious genius gave the female quality to the earth with
a special meaning. When once the idea obtained that our world was
feminine, it was easy to induce the faithful to believe that natural
chasms were typical of that part which characterises woman. As at
birth the new being emerges from the mother, so it was supposed that
emergence from a terrestrial cleft was equivalent to a new birth. In
direct proportion to the resemblance between the sign and the thing
signified was the sacredness of the chink, and the amount of virtue
which was imparted by passing through it. From natural caverns being
considered holy, the veneration for apertures in stones, as being equally
symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are still
to be seen in those structures which are called Druidical, both in
the British Isles and in India. It is impossible to say when these first
arose; it is certain that they survive in India to this day. We recognise
the existence of the emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge
to look “ to the hole of the pit whence ye are digged.” We have
also an indication that chasms were symbolical among the same people in
Isaiah lvii. 5, where the wicked among the Jews were described as “ inflaming
themselves with idols under every green tree, and slaying the
children in the valleys under the clefts of the rocks.” It is
possible that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a
similar signification. In modern Rome, in the vestibule of the
church close to the Temple of Vesta, I have seen a large perforated
stone, in the hole of which the ancient Romans are said to have placed
their hands when they swore a solemn oath, in imitation, or, rather, a
counterpart, of Abraham swearing his servant upon his thigh—that is
the male organ. Higgins dwells upon these holes, and says: “ These stones
are so placed as to have a hole under them, through which devotees passed
for religious purposes. There is one of the same kind in Ireland,
called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham Crags there is
a place made for the devotees to pass through. We read in the accounts of
Hindostan that there is a very celebrated place in Upper India, to
which immense numbers of pilgrims go, to pass through a place in
the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the Island of Bombay, at
Malabar Hill, there is a rock upon the surface of which there is a
natural crevice, which communicates with a cavity opening below. This
place is used by the Gentoos as a purification of their sins, which
they say is effected by their going in at the opening below, and emerging
at the cavity above—“ born again.” The ceremony is in such high repute in
the neighbouring countries that the famous Conajee Angria ventured
by stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform the
ceremony, and got off undiscovered. The early Christians gave them a bad
name, as if from envy; they called these holes “ Cunni Diaboli ” (
Anacalypsis , p. 346). The Romans call the feasts of Bacchus, Bacchanalia
and Liberalia, because Bacchus and Liber, while two names for the same
god, the festivals were celebrated at different times and in a somewhat
different manner. The Liberalia is celebrated on the 17th of March,
with the most licentious gaiety, when an image of a Phallus is carried
openly in triumph. These festivities are more particularly celebrated
among the rural or agricultural population, who, when the preparatory
labour of the agriculturist is over, celebrate with joyful activity Nature’s
reproductive powers, which in due time is to bring forth the
fruits. During the festival, a car containing a huge phallus is
drawn along accompanied by its worshippers, who indulge in rather obscene songs
and dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest
matron suddenly lays aside her decency and runs screaming among the
woods and hills half-naked, with dishevelled hair, interwoven with which
were pieces of ivy or vine. The Bacchanalian feasts are celebrated in the
latter part of October when the harvest is completed. Wine and figs
are carried in the procession of the Bacchants, and lastly come the
Phalli, followed by honourable virgins, called canephora , who carry baskets
of fruit. These were followed by a company of men who carry poles, at
the end of which are figures representing the organ of generation.
The men sing the Phallica and are crowned with violets and ivy, and have their
faces covered with other kinds of herbs. These are followed by some
dressed in women’s apparel, striped with white, reaching to their ancles,
with garlands on their heads, and wreaths of flowers in their hands,
imitating by their gestures the state of inebriety. The priestesses run
in every direction shouting and screaming, each with a thyrsus in
their hands. Men and women all intermingle, dancing and frolicking
with suggestive gesticulations. Deodorus says the festivals are carried
into the night, and it is then frenzy reaches its height. Deodorus says,
“ In performing the solemnity virgins carry the thyrsus, and run
about frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then the
women in a body offer the sacrifices, and roar out the praises of Bacchus
in song as if he were present, in imitation of the ancient Mamades, who
accompanied him.” These festivities are carried into the night, and as
the celebrators become heated with wine, they degenerate into
extreme licentiousness. Similar enthusiastic frenzy is
exhibited at the Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan
(under the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in his
Worship of Serpents , on the morning of the Feast run naked through the
streets, striking the women they met on the hands and belly, which is
held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing the
same ostentatious display as the Bacchants at the festival of
Bacchanalia. The festival of Venus is celebrated towards the
beginning of April, and the Phallus is again drawn in a car, followed by
a procession of Roman women to the temple of Venus. Says a writer, “ The
loose women of the town and its neighbourhood, called together by the
sounding of horns, mix with the multitude in perfect nakedness, and
excite their passions with obscene motions and language until the
festival ends in a scene of mad revelry, in which all restraint is laid
aside.” It is said that these festivals take their rise from
Egypt, from whence they were brought into Greece by Metampus, where
the triumph of Osiris was celebrated with secret rites, and from thence
the Bacchanals drew their original; and from the feasts instituted by
Isis came the orgies of Bacchus. It seems not at all
improbable that the deities wor¬ shipped by the ancient Britons and the
Irish, were no other then the Phallic deities of the ancient Syrians
and Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius Periegites,
who lived in the time of Augustus Caesar, states that the rites of
Bacchus were celebrated in the British Isles ; while Strabo, who lived in
the time of Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier
writer described the worship of the Cabiri to have come
originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,
says, the supreme god above the rest was called Seodhoc and Baal. The
name of Baal is found both in Wales, Gaul, and Germany, and is the same
as the Hebrew Baal. The same god, according to O’Brien, was the
chief deity of the Irish, in whose honour the round towers were
erected, which structures the ancient Irish themselves designated
Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers, xxii, will be found a
mention of a similar pillar consecrated to Baa]. Many of the same customs
and superstitions that existed among the Druids and ancient Irish,
will likewise be found among the Israelites. On the first day of
May, the Irish made great fires in honour of Baal, likewise offering him
sacrifices. A similar account is given of a custom of the Druids by Toland,
in an account of the festival of the fires ; he says :—“ on May-day
eve the Druids made prodigious fires on these earns, which being
everyone in sight of some other, could not but afford a glorious show
over a whole nation.” These fires are said to be lit even to the present
day by the Aboriginal Irish, on the first of May, called by them
Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as given them in the
Highlands of Scotland. A similar practice to this will be noticed
as mentioned in the II Book of Kings, where the Canaanites in their
worship of Baal, are said to have passed their children through the
fire of Baal, which seems to have been a common practice, as Ahaz, King
of Israel, is blamed for having done the same thing. Higgins in his
Anacalypsis, says this super¬ stitious custom still continues, and that
on “ particular days great fires are lighted, and the fathers taking
the children in their arms, jump or run through them, and thus pass
their children through them; they also light two fires at a little
distance from each other, and drive their cattle between them.” It will
be found on reference to Deuteronomy, that this very practice is
specially for¬ bidden. In the rites of Numa, we have also the
sacred fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of Mithra, and
of India, accompanied with an establishment of nuns or vestal virgins. A
sacred fire is said to have been kept burning by the nuns of Kildare,
which was established by St. Bridget. This fire was never blown with
the mouth, that it might not be polluted, but only with bellows;
this fire was similar to that of the Jews, kept burning only with peeled
wood, and never blown with the mouth. Hyde describes a similar fire which
was kept burning in the same way by the ancient Persians, who kept
their sacred fire fed with a certain tree called Hawm Mogorum; and
Colonel Vallancey says the sacred fire of the Irish was fed with the wood
of the tree called Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at
Kildare, the glorious Bridget was rendered illustrious by many
miracles, amongst which was the sacred fire, which had been kept burning
by nuns ever since the time of the Virgin. The earliest
sacred places of the Jews were evidently sacred stones, or stone circles,
succeeded in time by temples. These early rude stones, emblems of
the Creator, were erected by the Israelites, which in no way
differed from the erections of the Gentiles. It will be found that the
Jews to commemorate a great victory, or to bear witness of the Lord, were
all signfied by stones : thus, Joshua erected a stone to bear witness ;
Jacob put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the same
for a place of worship; Samuel erected a stone as a boundary, which was
to be the token of an agreement made in the name of God. Even Maundrel in
his travels names several that he saw in Palestine. It is curious
that where a pillar was erected there, sometime after, a temple was
put up in the same manner that the Round Towers of Ireland were,—always
near a church, but never formed part of it. We find many instances in the
Scriptures of the erection of a number of stones among the early
Israelites, which would lead us to conclude that it was not at all
unlikely that the early places of worship among them, were similar to the
temples found in various parts of Great Britain and Ireland. It is
written in Exodus xxiv. 4, that Moses rose up early in the morning, and
builded an altar under the hill, and twelve pillars, according to
the twelve tribes of Israel, were erected. It is also given out that when
the children of Israel should pass over the Jordan, unto the land which
the Lord giveth them, they should set up great stones, and plaster
them with plaster, and also the words of the law were to be written
thereon. In many other places stones were ordered to be set up in the
name of the Lord, and repeated instances are given that the stones should
be twelve in number and unhewn. Stone temples seem to have
been erected in all countries of the world, and even in America, where,
among the early American races are to be found customs,
superstitions, and religious objects of veneration, similar to the
Phoenicians. An American writer says:—“ There is sufficient evidence that
the religious customs of the Mexicans, Peruvians and other American
races, are nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . .
. We moreover discover that many of their religious terms have,
etymologically, the same origin.” Payne Knight, in his Worship of
Priapus, devotes much of his work to show that the temples erected at
Stonehenge and other places, were of a Phoenician origin, which was
simply a temple of the god Bacchus. Of all the nations of
antiquity the Persians were the most simple and direct in the worship of
the Creator. They were the puritans of the heathen world, and not
only rejected all images of God and his agents, but also temples and
altars, according to Herodotus, whose authority we prefer to any other,
because he had an opportunity of conversing with them before they
had adopted any foreign superstitions. As they worshipped the
ethereal fire without any medium of personification or allegory, they
thought it unworthy of the dignity of the god to be represented by any
definite form, or circumscribed to any particular place. The universe was
his temple, and the all-pervading element of fire his only symbol. The
Greeks appear originally to have held similar opinions, for they were
long without statues and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built
by Adrastus—who lived in an age before the Trojan war— which
consisted of columns only, without wall or roof, like the Celtic temples
of our northern ancestors, or the Phyroetheia of the Persians, which were
circles of stones in the centre of which was kindled the sacred fire,
the symbol of the god. Homer frequently speaks of places of worship
consisting of an area and altar only, which were probably enclosures like
those of the Persians, with an 42 Phallic
Worship altar in the centre. The temples dedicated to the
creator Bacchus, which the Greek architects called kypcethral, seem
to have been anciently of this kind, whence probably came the title (“
surround with columns ”) attributed to that god in the Orphic litanies.
The remains of one of these are still extant at Puzznoli, near Naples,
which the inhabitants call the temple of Serapis ; but the
ornaments of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it
to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same deity worshipped under
another form, being usually a personification of the sun. The
architecture is of the Roman times ; but the ground plan is probably that
of a very ancient one, which this was made to replace—for it
exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland, published in
Stukeley’s Itinerary. The ranges of square buildings which enclose it are
not properly parts of the temple, but apartments of the priests, places
for victims and sacred utensils, and chapels dedicated to the sub¬
ordinate deities, introduced by a more complicated and corrupt worship
and probably unknown to the founder of the original edifice. The portico,
which runs parallel with these buildings, encloses the temenss , or area
of sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was
circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple in Zeeland,
and the Indian pagoda before described. In the centre was the holy of
holies, the seat of the god, consisting of a circle of columns raised
upon a basement, without roof or walls, in the middle of which was
probably the sacred fire or some other symbol of the deity. The
square area in which it stood was sunk below the natural level of the
ground, and, like that of the Indian pagoda, appears to have been
occasionally floated with water; the drains and conduits being still to
be seen, as also several fragments of sculpture representing waves,
serpents, and various aquatic animals, which once adorned the
basement. The Bacchus here worshipped, was, as we learn from the
Orphic hymn above cited, the sun in his character of extinguisher of the
fires which once pervaded the earth. He is supposed to have done this by
exhaling the waters of the ocean and scattering them over the land, which
was thus supposed to have acquired its proper temperature and
fertility. For this reason the sacred fire, the essential image of the
god, was surrounded by the element which was principally employed in
giving effect to the beneficial exertions of the great attribute.
From a passage of Hecatasus, preserved by Diodorus Siculus, it
seems evident that Stonehenge and all the monu¬ ments of the same kind
found in the north, belong to the same religion which appears at some
remote period to have prevailed over the whole northern hemisphere.
According to that ancient historian, the Hyperboreans inhabited an island
beyond Gaul , as large as Sicily , in which Apollo was worshipped in a
circular temple considerable for its si^e and riches. Apollo, we know, in
the language of the Greeks of that age, can mean no other than the
sun, which according to Caesar was worshipped by the Germans, when
they knew of no other deities except fire and the moon. The island can
evidently be no other than Britain, which at that time was only known to
the Greeks by the vague reports of the Phoenician mariners ; and so
uncertain and obscure that Herodotus, the most inquisitive and
credulous of historians, doubts of its existence. The circular temple of
the sun being noticed in such slight and imperfect accounts, proves that
it must have been some¬ thing singular and important; for if it had been
an inconsiderable structure, it would not have been mentioned at
all; and if there had been many such in the country, the historian would
not have employed the singular number. Stonehenge has
certainly been a circular temple, nearly the same as that already
described of the Bacchus at. Puzznoli, except that in the latter the nice
execution and beautiful symmetry of the parts are in every respect
the reverse of the rude but majestic simplicity of the former. In
the original design they differ but in the form of the area. It may
therefore be reasonably supposed that we have still the ruins of the
identical temple described by Hecatasus, who, being an Asiatic Greek,
might have received his information from Phoenician merchants, who
had visited the interior parts of Britain when trading there for tin.
Anacrobius mentions a temple of the same kind and form, upon Mount
Zilmissus, in Thrace, dedicated to the sun under the title of Bacchus
Sebrazius. The large obelisks of stone found in many parts of the
north, such as those at Rudstone, and near Boroughbridge, in
Yorkshire, belong to the same religion; obelisks being, as Pliny observes,
sacred to the sun, whose rays they represented both by their form and
name .—Pajne Knight’s Worship of Priapus. Says Hyslop
:—“ The hot cross-buns of Good Friday, and the dyed eggs of Pasch or
Easter Sunday, figured in the Chaldean rites just as they do now. The buns
known, too, by that identical name, were used in the worship of
the Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte), as
early as the days of Cecrops, the founder of Athens, 1,500 years before
the Christian era.” “ One species of bread,” says Bryant, “ ‘ which used
to be offered to the gods, was of great antiquity, and called Boun’
Diogenes mentioned * they were made of flour and honey.’ ” It
appears that Jeremiah the Prophet was familiar with this lecherous
worship. He says :—“ The children gather wood, the fathers kindle the
fire, and the women knead the dough to make cakes to the Queen of Heaven
(Jer. vii., 18). Hyslop does not add that the “ buns ” offered to
the Queen of Heaven, and in sacrifices to other deities, were framed in
the shape of the sexual organs, but that they were so in ancient limes we
have abundance of evidence. Martial distinctly speaks of such
things in two epigrams, first, wherein the male organ is spoken of,
second, wherein the female part is commemorated ; the cakes being
made of the finest flour, and kept especially for the palate of the
fair one. Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p.
365) says :—“ When the people of Syracuse were sacrificing to
goddesses, they offered cakes called mulloi, shaped like the female
organ, and in some temples where the priestesses were probably
ventriloquists, they so far imposed on the credulous multitude who came
to adore the Vulva as to make them believe that it spoke and gave
oracles.” We can understand how such things were allowed in
licentious Rome, but we can scarcely comprehend how they were tolerated
in Christian Europe, as, to all innocent surprise we find they were, from
the second part of the “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in
Saintonge, in the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked
in the form of the Phallus are made as offerings at Easter, carried
and presented from house to house. Dulare states that in his time the festival
of Palm Sunday, in the town of Saintes, was called le fete des pinnes
—feast of the privy members—and that during its continuance the
women and children carried in the procession a Phallus made of bread,
which they called a pinne , at the end of their palm branches ; these
pinnes were subsequently blessed by priests, and carefully preserved by
the women during the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be
remembered, is a euphemism of the male organ, and it is curious to
see it united with the Phallus in Christendom. Dulare also says that,
in some of the earlier inedited French books on cookery, receipts are
given for making cakes of the salacious form in question, which are
broadly named. He further tells us those cakes symbolized the male, in
Lower Limousin, and especially at Brives ; while the female emblem
was adopted at Clermont, in Auvergne, and other places. THE
ARK AND GOOD FRIDAY The ark of the covenant was a most sacred
symbol in the worship of the Jews, and like the sacred boat, or ark
of Osiris, contained the symbol of the principle of life, or creative
power. The symbol was preserved with great veneration in a miniature
tabernacle, which was considered the special and sanctified abode of the
god. In size and manner of construction the ark of the Jews and the
sacred chest of Osiris of the Egyptians were exactly alike, and were
carried in processions in a similar manner The ark or chest
of Osiris was attended by the priests, and was borne on the shoulders of
men by means of staves. The ark when taken from the temple was
placed upon a table, or stand, made expressly for the purpose, and
was attended by a procession similar to that which followed the Jewish
ark. According to Faber, the ark was a symbol of the earth or female
principle, containing the germ of all animated nature, and regarded as
the great mother whence all tilings sprung. Thus the ark, earth,
and goddess, were represented by common symbols, and spoken of in the old
Testament as the “ ashera.” The sacred emblems carried in the ark
of the Egyptians were the Phallus, the Egg, and the Serpent; the
first representing the sun, fire, and male or generative principle
—the Creator; the second, the passive or female, the germ of all animated
things—the Preserver; and the last the Destroyer: the Three of the sacred
Trinity. The Hindu women, according to Payne Knight, still carry
the lingam, or consecrated symbol of the generative attribute of the
deity, in solemn procession between two serpents; and in a sacred casket,
which held the Egg and the Phallus in the mystic processions of the
Greeks, was also a Serpent. “ The ark,” says Faber, “ was
reverenced in all the ancient religions.” It was often represented in the
form of a boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of
the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan, show that an ark,
chest, cell, boat, or cavern, held an important place in their mysteries.
In the story of Osiris, like that of the Siva, will be found the reason
for the emblem being carried in the sacred chest, and the explanation of
one of 48 Phallic Worship the mysteries
of the Egyptian priests. It is said that Osiris was torn to pieces by the
wicked Typhon, who after cutting up the body, distributed the parts over
the earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought them
back to Egypt; but, being unable to find the part which distinguished his
sex, she had an image made of wood, which was enshrined in an ark, and
ordered to be solemnly carried about in the festivals she had instituted
in his honour, and celebrated with certain secret rites. The Egg,
which accompanied the Phallus in the ark was a very common symbol of the
ancient faiths, which was considered as containing the generation of
life. The image of that which generated all things in itself. Jacob
Bryant says :—“ The Egg, as it contained the principles of life was
thought no improper emblem of the ark, in which were preserved the future
world. Hence in the Dionysian and in other mysteries, one part of the
nocturnal ceremony consisted in the consecration of an egg.” This
egg was called the Mundane Egg. The ark was likewise the symbol of
salvation, the place of safety, the secret receptacle of the divine
wisdom. Hence we find the ark of the Jews containing the tables of
the law; we find too that the Jews were ordered to place in the ark
Aaron’s rod, which budded, conveying the idea of symbolised fertility :
showing that the ark was considered as the receptacle of the life
principle—as an emblem of the Creator. With the Egyptians
Osiris was supposed to be buried in the ark, which represented the
disappearance of the deity. His loss, or death, constituted the first
part of the mysteries, which consisted of lamentations for his decease.
After the third day from his death, a procession went down to the
seaside in the night, carrying the ark with them. During the passage they
poured drink offerings from the river, and when the ceremony had been
duly performed, they raised a shout that Osiris had again risen—that the
dead had been restored to life. After this followed the second or
joyful part of the mysteries. The s imila rity of this custom with
the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the rejoicings on
account of his resurrection on Easter Sunday, will be at once observed.
It is further said that the missing part of Osiris was eaten by a fish,
which made the fish a sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and
Good Friday brought together, also the Egg, for the origin of the
Easter eggs is very ancient. A bull is represented as breaking an egg
with his horn, which signified the liberating of imprisoned life at the
opening or spring of the year, which had been destroyed by Typhon.
The opening of the year at that time commenced in the spring, not
according to our present reckoning; thus, the Egg was a symbol of the
resurrection of life at the spring, or our Easter time. The author of the
“ Worship of the Generative Powers,” describes the origin of the hot
cross¬ bun at Easter, which is a further parallelism of the
Christian and Pagan festivals. The author also draws a further
conclusion—that the cakes or buns have in reality a Phallic origin, for
in France and other parts, the Easter cakes were called after the membrun
virile. The writer says :—“ In the primitive Teutonic mythology,
there was a female deity named in old German, Ostara, and in
Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her is the simple
statement of our father of history, Bede, that her festival was
celebrated by the ancient Saxons in the month of April, from which
circumstance that month was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or
Eoster- mona, and that the name of the goddess had been
frequently given to the Paschal time, with which it was identical.
The name of this goddess was given to the same month by the old
Germans and by the Franks, so that she must have been one of the most
highly honoured of the Teutonic deities, and her festival must have been
a very important one and deeply implanted in the popular feelings, or
the Church would not have sought to identify it with one of the
greatest Christian festivals of the year. It is understood that the Romans
considered this month as dedicated to Venus, no doubt because it was that
in which the productive powers of nature began to be visibly
developed. When the Pagan festival was adopted by the Church, it
became a moveable feast, instead of being fixed to the month of April.
Among other objects offered to the goddess at this time were cakes, made
no doubt of fine flour, but of their form we are ignorant. The
Christians when they seized upon the Easter festival, gave them the
form of a bun, which indeed was at that time the ordinary form of bread ;
and to protect themselves and those who ate them from any enchantment—or
other evil influences which might arise from their former heathen
character— they marked them with the Christian symbol—the cross.
Hence we derived the cakes we still eat at Easter under the name of hot
cross-buns, and the superstitious feelings attached to them; for
multitudes of people still believe that if they failed to eat a hot
cross-bun on Good Friday, they would be unlucky all the rest of the
year.” The earliest capital seems to have been the bell or seed
vessel, simply copied without alteration, except a little expansion at
the bottom to give it stability. The leaves of some other plant were then
added to it, and varied in different capitals according to the
different meanings intended to be signified by the accessory
symbols. The Greeks decorated it in the same manner, with the
foliage of various plants, sometimes of the acanthus and sometimes of the
aquatic kind, which are, however, generally so transformed by excessive
attention to elegance, that it is difficult to distinguish them. The most
usual seems to be the Egyptian acacia, which was probably adopted
as a mystic symbol for the same reasons as the olive, it being equally
remarkable for its powers of reproduction. Theophrastus mentions a large
wood of it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so
that we reasonably suppose it to have been employed by the Egyptians in
the same symbolical sense. From them the Greeks seem to have borrowed it
about the time of the Macedonian conquest, it not occurring in any
of their buildings of a much earlier date ; and as for the story of the
Corinthian architect, who is said to have invented this kind of capital
from observing a thorn growing round a basket, it deserved no credit,
being fully contradicted by the buildings still remaining in Upper
Egypt. The Doric column, which appears to have been the only
one known to the very ancient Greeks, was equally derived from the
Nelumbo; its capital being the same seed-vessel pressed flat, as it
appears when withered and dry—the only state probably in which it had
been seen in Europe. The flutes in the shaft were made to hold
spears and staves, whence a spear-holder is spoken of in the “ Odyssey ”
as part of a column. The triglyphs and blocks of the cornice were also
derived from utility, they having been intended to represent the
projecting ends of the beams and rafters which formed the roof.
The Ionic capital has no bell, but volutes formed in imitation of
sea-shells, which have the same symbolical meaning. To them is frequently
added the ornament which architects call a honeysuckle, but which seems
to be meant for the young petals of the same flower viewed horixontally,
before they are opened or expanded. Another ornament is also introduced
in this capital, which they call eggs and anchors, but which is, in fact,
composed of eggs and spear-heads, the symbols of female generation
and male destructive power, or in the language of mythology, of Venus and
Mars .—Payne Knight. Stripped, however, of all this splendour and
magnificence it was probably nothing more than a symbolical instrument,
signifying originally the motion of the elements, like the sistrum of
Isis, the cymbals of Cybele, the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter
is said to have overcome the Titans with his aegis, as Isis drove
away Typhon with her sistrum, and the ringing of the bells and
clatter of metals were almost universally employed as a means of
consecration, and a charm against the destroying and inert powers. Even
the Jews welcomed the new moon with such noises, which the simplicity
of the early ages employed almost everywhere to relieve her during
eclipses, supposed then to be morbid affections brought on by the
influence of an adverse power. The title Priapus , by which the
generative attribute is distinguished, seems to be merely a corruption of
Brt'apuos (clamorous); the beta and pi being commutable letters,
and epithets of similar meaning, being continually applied both to
Jupiter and Bacchus by the poets. Many Priapic figures, too, still
extant, have bells attached to them, as the symbolical statues and
temples of the Hindus are; and to wear them was a part of the worship
of Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find them of
extremely small size, evidently meant to be worn as amulets with the
phalli, lunulas, etc. The chief priests of the Egyptians and also the
high priests of the Jews, hung them as sacred emblems to their sacerdotal
garments ; and the Brahmins still continue to ring a small bell at
the interval of their prayers, ablutions, and other acts of
devotion; which custom is still preserved in the Roman Catholic Church at
the elevation of the host. The Lacedaemonians beat upon a brass vessel or
pan, on the death of their kings, and we still retain the custom of
tolling a bell on such occasions, though the reason of it is not
generally known, any more than that of other remnants of ancient
ceremonies still existing. 1 It will be observed that the bells used by
the Christians very probably came direct from the Buddhists. And from
the same source are derived the beads and rosaries of the Roman
Catholics, which have been used by the Buddhist 1 The above
description is from Payne Knight’s “ Symbolical Language of ancient Art
and Mythology.” monks for over 2,000 years. Tinkling bells were
suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and during the service the
gods were invited to descend upon the altars by the ringing of bells ;
they were likewise sacred to Siva. Bells were used at the worship of
Bacchus, and were worn on the garments of the Bacchantes, much in
the same manner as they are used at our carnivals and masquerades.The
following curious fable is given by Sir William Jones, as one of the
stories of the Hindus for the origin of Phallic devotion:—“ Certain
devotees in a remote time had acquired great renown and respect, but the
purity of the art was wanting, nor did their motives and secret
thoughts correspond with their professions and exterior conduct.
They affected poverty, but were attached to the things of this world, and
the princes and nobles were constantly sending their offerings. They
seemed to sequester them¬ selves from this world ; they lived retired
from the towns ; but their dwellings were commodious, and their
women numerous and handsome. But nothing can be hid from their
gods, and Sheevah resolved to put them to shame. He desired Prakeety
(nature) to accompany him; and assumed the appearance of a Pandaram of a
graceful form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.
She went before the devotees who were assembled with their disciples,
awaiting the rising of the sun, to perform their ablutions and religious
ceremonies. As she advanced the refreshing breeze moved her flowing robe,
showed the exquisite shape which it seemed intended to conceal.
With eyes cast down, though sometimes opening with a timid but tender
look, she approached them, and with a low enchanting voice desired to be
admitted to the sacrifice. The devotees gazed on her with astonishment.
The sun appeared, but the purifications were forgotten; the things
of the Poojah (worship) lay neglected; nor was any worship thought of but
that of her. Quitting the gravity of their manners, they gathered round
her as flies round the lamp at night—attracted by its splendour,
but consumed by its flame. They asked from whence she came; whither she
was going. ‘ Be not offended with us for approaching thee, forgive us our
importunities. But thou art incapable of anger, thou who art made
to convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,
indignation and resentment are unknown. But whoever thou mayest be,
whatever motive or accident might have brought thee amongst us, admit us
into the number of thy slaves; let us at least have the comfort to
behold thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul
seemed ready to take its flight; the vow was forgotten, and the policy of
years destroyed. Whilst the devotees were lost in their passions,
and absent from their homes, Sheevah entered their village with a
musical instrument in his hand, playing and singing like some of those
who solicit charity. At the sound of his voice, the women immediately
quitted their occupation; they ran to see from whom it came. He was as
beautiful as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their
jewels without turning to look for them ; others let fall their garments
without perceiving that they discovered those abodes of pleasure which
jealousy as well as decency had ordered to be concealed. All pressed
forward with their offerings, all wished to speak, all wished to be
taken notice of, and bringing flowers and scattering them before
him, said—‘ Askest thou alms ! thou who are made to govern hearts. Thou
whose countenance is as fresh as the morning, whose voice is the voice of
pleasure, and they breath like that of Vassant (Spring) in the opening
of the rose! Stay with us and we will serve thee; not will we
trouble thy repose, but only be zealous how to please thee.’ The Pandaram
continued to play, and sung the loves of Kama (God of Love), of Krishen
and the Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. But the
desire of repose succeeds the waste of pleasure. Sleep closed the eyes
and lulled the senses. In the morning the Pandaram was gone. When they
awoke they looked round with astonishment, and again cast their
eyes on the ground. Some directed to those who had formerly been remarked
for their scrupulous manners, but their faces were covered with their
veils. After sitting awhile in silence they arose and went back to
their houses, with slow and troubled steps. The devotees returned
about the same time from their wanderings after Prakeety. The days that followed
were days of embarrass¬ ment and shame. If the women had failed in
their modesty, the devotees had broken their vows. They were vexed
at their weakness, they were sorry for what they had done; yet the tender
sigh sometimes broke forth, and the eyes often turned to where the men
first saw the maid—the women, the Pandaram. “ But the women
began to perceive that what the devotees foretold came not to pass. Their
disciples, in consequence, neglected to attend them, and the
offerings from the princes and nobles became less frequent
than before. They then performed various penances; they sought for
secret places among the woods unfrequented by man; and having at last
shut their eyes from the things of this world, retired within themselves
in deep meditation, that Sheevah was the author of their
misfortunes. Their understanding being imperfect, instead of bowing the
head with humility, they were inflamed with anger; instead of contrition
for their hypocrisy, they sought for vengeance. They performed new
sacrifices and incantations, which were only allowed to have effect in
the end, to show the extreme folly of man in not submitting to the will
of heaven. “ Their incantations produced a tiger, whose mouth
was like a cavern and his voice like thunder among the mountains. They
sent him against Sheevah, who with Prakeety was amusing himself in the
vale. He smiled at their weakness, and killing the tiger at one blow
with his club, he covered himself with his skin. Seeing them¬
selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse to another,
and sent serpents against him of the most deadly kind; but on approaching
him they became harmless, and he twisted them round his neck. They
then sent their curses and imprecations against him, but they all
recoiled upon themselves. Not yet disheartened by all these
disappointments, they collected all their prayers, their penances, their
charities, and other good works, the most acceptable sacrifices ; and
demanding in return only vengeance against Sheevah, they sent a
fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at this attempt,
turned the fire witti indignation against the human race; and mankind
would soon have been destroyed, had not Vishnu, alarmed at the
danger, implored him to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah
relented ; but it was ordained that in his temples those parts should be
worshipped, which the false doctrines had impiously attempted to
destroy.” THE CROSS AND ROSARY The key which is still
worn with the Priapic hand, as an amulet, by the women of Italy appears
to have been an emblem of the equivocal use of the name, as the
language of that country implies. Of the same kind, too, appears to
have been the cross in the form of the letter tau, attached to a circle,
which many of the figures of Egyptian deities, both male and female,
carry in their left hand ; and by the Syrians, Phoenicians and other
inhabitants of Asia, representing the planet Venus, worshipped by them as
the emblem or image of that goddess. The cross in this form is
sometimes observable on coins, and several of them were found in a temple
of Serapis, demolished at the general destruction of those edifices by
the Emperor Theodosius, and were said by the Christian antiquaries
of that time to signify the future life. In solemn sacrifices, all the
Lapland idols were marked with it from the blood of the victims ; and it
occurs on many Runic ornaments found in Sweden and Denmark, which are of
an age long anterior to the approach of Christianity to those
countries, and probably to its appearance in the world. On some of the
early coins of the Phoenicians, we find it attached to a chaplet of beads
placed in a circle, so as to form a complete rosary, such as the Lamas of
Thibet and China, the Hindus, and the Roman Catholics now tell over
while they pray. BEADS Beads were anciently used to reckon
time, and a circle, being a line without termination, was the natural
emblem of its perpetual continuity ; whence we often find circles
of beads upon the heads of deities, and enclosing the sacred symbols upon
coins and other monuments. Perforated beads are also frequently found in
tombs, both in the northern and southern parts of Europe and Asia,
whence are fragments of the chaplets of consecration buried with the
deceased. The simple diadem, or fillet, worn round the head as a mark of
sovereignty, had a similar meaning, and was originally confined to the
statues of deities and deified personages, as we find it upon the
most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in the “ Iliad,”
brings the diadem, or sacred fillet, of the god upon his sceptre, as the
most imposing and invocable emblem of sanctity ; but no mention is made
of its being worn by kings in either of the Homeric poems, nor of
any other ensign of temporal power and command, except the royal
staff or sceptre. THE LOTUS The double sex typified by
the Argha and its contents is by the Hindus represented by the “ Mymphoea
” or Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where the
whole plant signifies both the earth and the two principles of its
fecundation. The germ is both Meru and the Linga; the petals and
filaments are the mountains which encircle Meru, and are also a type of
the Yoni; the leaves of the calyx are the four vast regions to the
cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant are the Dwipas or
isles round the land of Jambu. As this plant or lily was probably the
most celebrated of all the vegetable creation among the mystics of the
ancient world, and is to be found in thousands of the most beautiful
and sacred paintings of the Christians of this day—I detain my
reader with a few observations respecting it. This is the more necessary
as it appears that the priests have now lost the meaning of it; at least
this is the case with everyone of whom I have made enquiry ; but it is
like many other very odd things, probably understood in the
Vatican, or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the
different plants which ornament our globe, there is not one which has
received so much honour from man as the Lotus or Lily, in whose
consecrated bosom Brahma was born, and Osiris delighted to float. This is
the sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in oriental
mythology, and in truth not without reason, for it is itself a lovely
prodigy. Throughout all the northern hemispheres it was everywhere held
in profound veneration, and from Savary we learn that the
veneration is yet continued among the modern Egyptians. And we find
that it still continues to receive the respect if not the adoration of a
great part of the Christian world, unconscious, perhaps, of the original
reason of this conduct. Higgins's Anacalypsis. The following
is an account given of it by Payne Knight, in his curious dissertation on
Phallic Worship : The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant grows
in the water, among its broad leaves puts forth a flower, in the centre
of which is formed the seed vessel. shaped like a bell or inverted cone,
and perforated on the top with little cavities or cells, in which the
seeds grow. The orifices of these cells being too small to let the
seeds drop out when ripe, they shoot forth into new plants in the
places where tney are formed : the bulb of the vessel serving as a matrix
to nourish them, until they acquire such a degree of magnitude as to
burst it open and release themselves, after which, likfe other aquatic
weeds, they take root wherever the current deposits them. This
plant, therefore, being thus productive of itself, and vegetating from
its own matrix, without being fostered in the earth, was naturally
adopted as the symbol of the productive power of the waters, upon which
the active spirit of the Creator operated in giving life and
vegetation, to matter. We accordingly find it employed in every
part of the northern hemisphere, where the symbolical religion,
improperly called idolatry , does or ever did prevail. The sacred images
of rhe Tartars, Japanese, and Indians are almost placed upon it, of which
numerous instances occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat,
etc. The Brahma of India is represented as sitting upon his Lotus
throne, and the figure upon the Isaaic table holds the stem of this plant
surmounted by the seed vessel in one hand, and the Cross representing the
male organs of generation in the other; thus signifying the
universal power, both active and passive, attributed to that
goddess.” Nimrod says :—“ The Lotus is a well-known allegory,
of which the expansive calyx represents the ship of the gods floating on
the surface of the water ; and the erect flower arising out of it, the
mast thereof. The one was the galley or cockboat, and the other the mast
of cockayne ; but as the ship was Isis or Magna Mater, the female
principle, and the mast in it the male deity, these parts of the flower
came to have certain other significations, which seem to have been as
well known at Samosata as at Benares. This plant was also used in the
sacred offices of the Jewish religion. In the ornaments of the temple of
Solomon, the Lotus or lily is often seen.” The figure of Isis
is frequently represented holding the stem of the plant in one hand, and
the cross and circle in the other. Columns and capitals resembling
the plant are still existing among the ruins of Thebes, in Egypt,
and the island of Pbilce. The Chinese goddess, Pussa, is represented
sitting upon the Lotus, called in that country Lin, with many arms,
having symbols signifying the various operations of nature, while
similar attributes are expressed in the Scandinavian goddess Isa or
Disa. The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and
Egyptian cosmogony. This plant appears to have the same tendency with the
Sphinx, of marking the connection between that which produces and that
which is produced. The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the
blue Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of
celestial love so frequently seen mounted on the back of Leo in the
ancient remains. The following is a translation of the Purana relating to
the cosmogony of the Hindus, and will be found interesting as showing the
importance attached to the Lotus in the worship of the ancients: We find
Brahma emerging from the Lotus. The whole universe was dark and covered
with water. On this primeval water did Bhagavat (God), in a
masculine form, repose for the space of one Calpho (a thousand
years); after which period the intention of creating other beings for his
own wise purposes became pre¬ dominant in the mind of the Great Creator .
In the first Phallic Worship 63 place,
by his sovereign will was produced the flower of the Lotus, afterwards,
by the same will, was brought to light the form of Brahma from the said
flower ; Brahma, emerging from the cup of the Lotus, looked round on
all the four sides, and beheld from the eyes of his four heads an
immeasurable expanse of water. Observing the whole world thus involved in
darkness and submerged in water, he was stricken with prodigious
amazement, and began to consider with himself, £ Who is it that produced
me ? ’ * whence came I ? ’ ‘ and where am I ? * “ Brahma,
thus kept two hundred years in contem¬ plation, prayers, and devotions,
and having pondered in his mind that without connection of male and
female an abundant generation could not be effected—again entered
into profound meditation on the power of the Supreme, when, on a sudden
by the omnipotence of God, was produced from his right side Swayambhuvah
Menu , a man of perfect beauty; and from the Brahma’s left side a
woman named Satarupa. The prayer of Brahma runs thus :—‘ O Bhagavat!
since thou broughtest me from nonentity into existence for a particular purpose,
accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a short time a small
white boar appeared, which soon grew to the size of an elephant. He now
felt God in all, and that all is from Him, and all in Him. At length
the power of the Omnipotent had assumed the body of Vara. He began
to use the instinct of that animal. Having divided the water, he saw the
earth a mighty barren stratum. He then took up the mighty ponderous
globe (freed from the water) and spread the earth like a carpet on
the face of the water; Brahma, contemplating the whole earth, performed
due reverence, and rejoicing exceedingly, began to consider the means of
peopling the renovated world.” Pjag, now Allahabad, was the first
land said to have appeared, but with the Brahmins it is a disputed point,
for many affirm that Cast or Benares was the sacred ground.
MERU The learned Higgins, an English judge, who for some
years spent ten hours a day in antiquarian studies, says that Moriah, of
Isaiah and Abraham, is the Meru of the Hindus, and the Olympus of the
Greeks. Solomon built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus,
which because mounts of Venus, mans veneris —Meru and Mount
Calvary—each a slightly skull-shaped mount, that might be represented by
a bare head. The Bible translators perpetuate the same idea in the word “
calvaria.” Prof. Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its
name from its being the place of the crucifixion of Jesus. Looking
elsewhere and in earlier times for the bare calvaria, we find among
Oriental women, the Mount of Venus, mons veneris , through motives of
neatness or religious sentiment, deprived of all hirsute appendage. We
see Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of a
priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles, continue to shave
the head. To make a place holy, among the Hindus, Tartars, and people of
Thibet, it was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,
or Arba. This marvellous work of excavation by the slow process of
the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards published a
volume describing the temple and its vast statues. The beauty of its
architectural ornaments, the innumerable statues or emblems, all hewn out
of solid rock, dispute with the Pyramids for the first place among
the works undertaken to display power and embody feeling. The stupendous
temple is detached from the neighbouring mountain by a spacious area all
round, and is nearly 2 5 o feet deep and 15 o feet broad, reaching to
the height of 100 feet and in length about 145 feet. It has
well-formed doorways, windows, staircases, upper floors, containing fine
large rooms of a smooth and polished surface, regularly divided by rows
of pillars ; the whole bulk of this immense block of isolated excavation
being upwards of 500 feet in circumference, and having beyond its
areas three handsome figure galleries or verandas supported by regular
pillars. Outside the temple are two large obelisks or phalli standing, “
of quadrangular form, eleven feet square, prettily and variously carved,
and are estimated at forty-one feet high; the shaft above the
pedestal is seven feet two inches, being larger at the base than
Cleopatra’s Needle.” In one oi the smaller temples was an image of
Lingam, “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily
strewed on its circular top. This Lingam is larger than usual, occupying
with the altar, a great part of the room. In most Ling rooms a sufficient
space is left for the votaries to walk round whilst making the usual
invocations to the deity (Maha Deo). This deity is much frequented
by female votaries, who take especial care to keep it clean washed,
and often perfume it with oderiferous oils and flowers, whilst the
attendant Brahmins sweep the apartment and attend the five oil lights and
bell ringing.” This oil vessel resembled the Yoni (circular frame), into
which the light itself was placed. No symbol was more venerated or
more frequently met with than the altar and Ling, Siva, or Maha Deo. “
Barren women constantly resort to it to supplicate for children,” says
Seeley. The mysteries attended upon them is not described, but doubtless
they were of a very similar character to those described by the
author of the “ Worship of the Generative Powers of the Western Nations,”
showing again the similarity of the custom with those practised by the
Catholics in France. The writer says :—“ Women sought a remedy for
barren¬ ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they
appear to have placed a part of their body, naked, against the image of
the saint, or to have sat upon it. This latter trait was perhaps too bold
an adoption of the indecencies of Pagan worship to last long, or to be
practised openly ; but it appears to have been innocently represented
by lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,
understood to represent him without the presence of the energetic member.
In a corner in the church of the village of St. Fiacre, near Monceaux, in
France, there is a stone called the chair of St. Fiacre, which confers
fecundity upon women who sit upon it; but it is necessary nothing
should intervene between their bare skin and the stone. In the church of
Orcival in Auvergne, there was a pillar which barren women kissed for the
same purpose and which had perhaps replaced some less equivocal
object.” The principal object of worship at Elora is the stone,
so frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he
apologises for using the word so often, but asks to be excused, “ is an
emblem not generally known, but as frequently met with as the Cross in
Catholic worship.” It is the god Siva, a symbol of his generative
character, the base of which is usually inserted in the Yoni. The
stone is of a conical shape, often black stone, covered with flowers (the
Bella and Asuca shrubs). The flowers hang pendant from the crown of the
Ling stone to the spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the
same as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly used in
the worship at the symbol, or one lamp with five wicks. The Lotus is
often seen on the top of the Ling. The characteristic attribute of the
passive generative power was expressed in symbolical writing, by
different enigmatical representations of the most distinguished
characteristic of the female sex: such as the shell or Concha Veneris ,
the fig-leaf, barley corn, and the letter Delta, all of which occur very
frequently upon coins and other ancient monuments in this sense. The
same attribute personified as the goddess of Love, or desire, is
usually represented under the voluptuous form of a beautiful woman,
frequently distinguished by one of these symbols, and called Venus,
Kypris, or Aphrodite, names of rather uncertain mythology. She is said to
be the daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and
female personifications of the all-pervading Spirit of the Universe ;
Dione being the female Dis or Zeus, and there¬ fore associated with him
in the most ancient oraculai temple of Greece at Dodona. No other
genealogy appears to have been known in the Homeric times ; though
a different one is employed to account for the name of Aphrodite in
the “ Theogony ” attributed to Hesiod. The Genelullides or Genoidai
were the original and appropriate ministers or companions of Venus, who
was however, afterwards attended by the Graces, the proper and
original attendants of Juno; but as both these goddesses were
occasionally united and represented in one image, the personifications of
their respective sub¬ ordinate attributes were on other occasions
added: whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a beard,
and other appearances of virility, which seems to have been the most
ancient mode of representing the celestial as distinguished from the
popular goddess of that name—the one being a personification of a
general procreative power, and the other only of animal desire or
concupiscence. The refinement of Grecian art, however, when advanced to
maturity, contrived more elegant modes of distinguishing them ; and, in a
celebrated work of Phidias, we find the former represented with her
foot upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,
the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an androgynous
animal, was aptly chosen as a symbol of the double power ; and the goat
was equally appropriate to what was meant to be expressed in the
other. The same attribute was on other occasions signified by
a dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the polypus, which
often appears upon coins with the head of the goddess, and which was
accounted an aphrodisiac, though it is likewise of the androgynous class.
The fig was a still more common symbol, the statue of Priapus being
made of the tree, and the fruit being carried with the Phallic
Worship 69 Phallus in the ancient processions in
honour of Bacchus, and still continuing among the common people of
Italy to be an emblem of what it anciently meant: whence we often
see portraits of persons of that country painted with it in one hand, to
signify their orthodox elevation to the fair sex. Hence, also arose the
Italian expression far la fica , which was done by putting the thumb
between the middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic
orna¬ ments extant; or by putting the finger or thumb into the
corner of the mouth and drawing it down, of which there is a
representation in a small Priapic figure of exquisite sculpture, engraved
among the Antiquities of Herculaneum. The same liberal and humane spirit
still prevails among those nations whose religion is founded on the
same principles. “ The Siamese,” says a traveller of the
seventeenth century, “ shun disputes and believe that almost all
religions are good ” (“ Journal du Voyage de Siam ”). When the ambassador
of Louis XIV asked their king, in his master’s name, to embrace
Christianity, he replied, “ that it was strange that the king of
France should interest himself so much in an affair which concerns
only God, whilst He, whom it did concern, seemed to leave it wholly to
our discretion. Had it been agreeable to the Creator that all nations
should have had the same form of worship, would it not have been as easy
to His omnipotence to have created all men with the same sentiments and
dispositions, and to have inspired them with the same notions of the True
Religion, as to endow them with such different tempers and inclinations ?
Ought they not rather to believe that the true God has as much
pleasure in being honoured by a variety of forms and ceremonies, as
in being praised and glorified by a number of different creatures ? Or
why should that beauty and variety, so admirable in the natural order of
things, be less admirable or less worthy of the wisdom of God in
the supernatural ? ” The Hindus profess exactly the same
opinion. “ They would readily admit the truth of the Gospel,” says a
very learned writer long resident among them, “ but they contend
that it is perfectly consistent with their Shastras. The Deity, they say,
has appeared innumerable times in many parts of this world and in all
worlds, for the salvation of his creatures ; and we adore, they say, the
same God, to whom our several worships, though different in form,
are equally acceptable if they be sincere in substance.” The
Chinese sacrifice to the spirits of the air the mountains and the rivers
; while the Emperor himself sacrifices to the sovereign Lord of Heaven,
to whom all these spirits are subordinate, and from whom they are
derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged this primitive
elementary worship with some of the allegorical fables of their
neighbours ; but still as their creed—like that of the Greeks and
Romans—remains undefined, it admits of no dogmatical theology, and
of course no persecution for opinion. Obscure and sanguinary rites
have, indeed, been wisely prescribed on many occasions ; but still as
actions and not as opinions. Atheism is said to have been punished with
death at Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted
whether the atheism, against which the citizens of that republic
expressed such fury, consisted in a denial of the existence of the gods ;
for Diagoras, who was obliged to fly for this crime, was accused of
revealing and calum¬ niating the doctrines taught in the Mysteries ; and
from the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe
that his offence was of the same kind, though he had not been
initiated. These were the only two martyrs to religion among
the ancient Greeks, such as were punished for actively violating or
insulting the Mysteries, the only part of their worship which seems to
have possessed any vitality; for as to the popular deities, they were
publicly ridiculed and censured with impunity by those who dared not
utter a word against the populace that worshipped them; and as to
the forms and ceremonies of devotion, they were held to be no otherwise
important, then as they were constituted a part of civil government of
the state; the Phythian priestess having pronounced from the
tripod, that whoever performed the rites of his religion according to
the laws of his country, performed them in a manner pleasing to the
Deity. Hence the Romans made no alterations in the religious institutions
of any of the conquered countries ; but allowed the inhabitants to be as
absurd and extravagant as they pleased, and to enforce their absurdities
and extravagances wherever they had any pre-existing laws in their
favour. An Egyptian magistrate would put one of his fellow-subjects to
death for killing a cat ora monkey; and though the religious fanaticism
of the Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely
free from restraint, a chief of the synagogue could order anyone of his
congregation to be whipped for neglecting or violating any part of the
Mosaic Ritual. The principle underlying the system of emanations
was, that all things were of one substance, from which they were
fashioned and into which they were again dissolved, by the operation of
one plastic spirit universally diffused and expanded. The polytheist of
ancient Greece and Rome candidly thought, like the modern Hindu, that
all rites of worship and forms of devotion were directed to the
same end, though in different modes and through different channels. “
Even they who worship other gods, says Krishna, the incarnate Deity, in
an ancient Indian poem ( Bhagavat-Gita ), “worship me although they know
it not ''— Payne Knight. Mario Cazzaniga. Gian Mario
Cazzaniga. Keywords: rito di passage, solo una volta, l’iniziazione, massoneria,
esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato nazionale,
conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library. Cazzaniga.
Grice e Ceccato: l’implicatura
conversazionale del plusquamperfectum -- implicatura imperfetta -- il perfetto filosofo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Montecchio Maggiore). Filosofo italiano. Grice: “I
like Ceccato – like other Italian philosophers, he has an obsession with
geometrical conjunctions and my
favoruite of his tracts is “La linea e la strischia’ – but he has also
philosophised on other issues – notably on ‘cybernetics,’ where he purports to
give a ‘mechanical explanation’ of language – he has also talked about the
‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian philosophers hardly use as they see
it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly philosophised
on ‘eudaimonia,’ without taking into account J. L. Ackrill’s etymological findings
– but then the Italians use ‘felicita’! – ‘the ingeneering of happiness’ – and
also of the ‘fabrica del bello’ --. Grice: “How to, and how not to” “Are all
‘how not to’ ironic? Ceccato thinks not – he has philosophised on sophistry in
‘how NOT to philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to be ‘imperfect,’
(i. e. ever unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the perfect philosophy
– ‘il perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver proposto una
definizione del termine "filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico
di questa disciplina ha preferito prenderne le distanze e perseguire la
costruzione di un'opzione alternativa, denominata inizialmente
"metodologia operativa" e in seguito "cibernetica".
Filosofo prolifico, ha numerosi saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica.
Pur ottenendo notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso
successo nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad
interessarsi alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti
contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in
collaborazione con il Gruppo V di Rimini. Studioso della psicologia
filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per
costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in
termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente
elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze
operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della
espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale.
Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è
tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione
musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della
successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua
adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a
Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di
Attività Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il
Professore di Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo
incontro ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32
dicembre" di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier
Sanfilippo che si crede Socrate. Un tecnico tra i filosofi, così intitolò
il saggio apparso nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli:
"Come filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il
linguaggio con la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et
Industrielles, Éditions Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale
dell'Automatismo, Milano); “Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica
per tutti, Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi,
Milano); “Il gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista
da un cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa
e responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed. Priuli&Verlucca,
Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista
inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille
tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia”
(Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la
Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di
Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La
cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e
attualità della logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova,
Universitas Studiorum. PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE,
di C.. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione
delle Attivita... L ' Anatomica methodus, di Laguna, Pisa, Giardini, C., comp: Corso di
linguistica operativa. A cura di Silvio Ceccato. Centoventotto illustrazioni
nel testo. Milano, Longanesi, lllus.
Language and Behavior was published in Italian translation, thanks to C. (cf.
Petrilli). C., padre della cibernetica italiana, che in quegli anni stava
mettendo a punto insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “
intelligente ”, di cui si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle
macchine. Studi in memoria di C. - Page 5books.google.com › books·
Translate this page · Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio
Ceccato Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, i
giornali hanno dedicato pochi, imbarazzati e, a volte, imbarazzanti articoli
alla figura di C.. Se qualcuno, tramite questi articoli... Silvio Ceccato's
little volume Corso di linguistica operativa (Ceccato 1969 ) sits on a quiet
shelf in Lauinger library, the work of a semantic pioneer. C.. C. (Civilta
delle Macchine) This monograph presents a discussion of the problems
encountered by members of the Italian Operational School in their attempts to
develop techniques to be used in... Foundations of Language, Page
171books.google.com › books 1965 · Snippet view FOUND INSIDE .. with his hand,
when he moves the pieces, he performs a manual, a physical activity.
Foundations of Language. The two types of activity can be distinguished in a
171 C.. I use an operational approach to mental activity based on C.. TECNICA
OPERATIVA " (Ceccato), one of the earliest approaches implemented on a
computer (University of Milan). 2 - I look at the. Debbo la spinta a studiare
processi di questo tipo alla ' tecnica operativa ' di C., di cui un primo
abbozzo in Language with the Table of Ceccatieff. Paris: Herman & Cie. 1951.
Die C. si verdano anche articoli in Methodos... C., the Italian pioneer in the
analysis of mental operations and construction, told me that once, after a
public discussion of his theory, he overheard a philosopher say: " If
Ceccato were right, the rest of us would be fools ! C.'s group exploited
semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames,
and C.s approach also involved the use of world knowled. It is the
purpose of this paper to define and differentiate the various uses of the
imperfect indicative, to discover if possible their origin and trace
their interrelations, to outline in fact the history of the tense in
early Latin. The term ' early Latin is used somewhat elastically as
including not only all the remains of the language down to about the time
of Sulla, but also the first volume of inscriptions and the works of VARRONE,
for Varrone belongs distinctly to the older school of writers in
spite of the fact that the Rerum rusticarum libri were written as
late as 37 B. c. But exact chronological periods are of little
meaning in matters of this sort, and the present outline, being but a
fragment of a more complete history of the tense, may stop at this point
as well as another. Before proceeding to the investigation of the
cases of the imperfect occurring in early Latin it is necessary to
describe briefly the system by which these cases have been classified.
In the first place all cases of the same verb have been placed
together so that the individual verb forms the basis of classification.
Then verbs of similar meanings have been combined to form larger
groups. There result three main groups, and some subdivisions, which for the
better understanding of this may be
tabulated thus: Verbs of physical action or state. Motion of
the whole of a body, e. g. eo, curro. Action of a part of a body, e. g.
do, iacio.Verbal communication, e. g. dico, promilto. 4. Rest or
state, e. g. sum, sto, sedeo. Verbs of psychic action or state.
Thought, e. g. puto, scio, spcro. Feeling, e. g. metuo, atno. Will,
e. g. volo, nolo. Cf. Trans. Am. Philolog. Ass. Auxiliary verbs, i. e.
verbs which represent such English words as could, should, might, &c,
&c, e. g. possum, oportet, decet. Such a system has, of course, many
inconsistencies. The verb ago, for instance, may be a verb of action or
of verbal com- munication, but since instances of this sort are
comparatively rare and affected no important groups of verbs it has
seemed best not to separate cases of the same verb. Again I. 3 is
logically a part of I. 2, or the verbs grouped under III might perhaps
have been distributed among the different subdivisions of I and II. But
the object of the classification, to discover the function of each case,
has seemed best attained by grouping the verbs as described. By this system,
verbs of similar meaning, whose tenses are therefore similarly affected,
are brought together and this is the essential point. In a very
large collection of cases a stricter subdivision would doubtless prove
of advantage. There are about 1400 cases of the imperfect
indicative in the period covered by this investigation. Of these,
however, it has been necessary to exclude 2 from 175 to 180 leaving 1226
from a consideration of which the results have been obtained. The TENSE
appears, therefore, NOT TO HAVE BEEN A
FAVOURITE, and its comparative infrequency which I have noted already for
Plauto and Terenzio 3 may here be asserted for the whole period of early
Latin. About three-quarters of the total number of cases are supplied by
Plauto, Terenzio, and Varrone. A study of these 1226 cases reveals three
general uses of the imperfect indicative: the progressive or true
imperfect; the aoristic imperfect, and the shifted' mperfect. Let us
consider these in order. In the following pages I have made an effort to
state and illustrate the facts, reserving theory and discussion for the
third section of this paper. These are cases doubtful for one reason or
another, chiefly because of textual corruption or insufficient context.
For the latter reason perhaps too many cases have been excluded, but I
have chosen to err in this direction since so much of the material
consists of fragments where one cannot feel absolutely certain of the
force of the tense. The true imperfect shows several subdivisions: the
simple progressive imperfect, the imperfect of customary past action, and the
frequentative imperfect. Of these I A and I B include several more
or less distinct variations, but all three uses together with their
subdivisions betray their relationship by the fact that all possess or
are immediately derived from the progressive function. This progressive
idea, the indication of an act as progressing, going on, taking place, in
past time or the indication of a state as vivid, is the true ear-mark of the
tense. The time may be in the distant past or at any point between that
and the immediate past or it may even in many contexts extend into the
present. In duration the time may be so short as to be inappreciable or
it may extend over years. The time is, however, not a distinguishing mark
of the imperfect. The perfect may be described in the same terms.
The kind of action * remains, therefore, the real criterion in the
distinction * of the imperfect from other past tenses. I A. The Simple
Progressive Imperfect. Under this heading are included all cases in
which the tense indicates simple progressive action, i. e. something in
the 'doing', ' being ', 4 &c. The idea of progression is present in
all the cases, but there are in other respects considerable differences
according to which some distinct varieties may be noted. All told there
are 680 cases of this usage constituting more than half the total.
I I have chosen progressive as more expressive than durative which seems
to emphasize too much the time. 2 'Kind of action' will
translate the convenient German Aktionsart while ' time ' or ' period of
time ' may stand for Zeitstufe. % Herbig in his very interesting
discussion, Aktionsart und Zeitstufe (I. F. '896), comes to the
conclusion that 'Aktionsart ' is older than ' Zeitstufe ' and that though
many tenses are used timelessly none are used in living speech without
'Aktionsart.' The progressive effect is also found in the present
participle (and in parti- cipial adjectives), and indeed the imperfect,
especially in subordinate clauses, is often interchangeable with a
participial expression, falling naturally into participial form in
English also. How close the effect of the imperfect was to that of the
present participle is well illustrated by Terence, Heaut. 293-4 nebat . .
. texebat and 285 texentem . . . offendimus. Cf. Varro R. R. Ill, 2. 2
Of these 449 are syntactically independent, 231 dependent. 1 In its
ordinary form this usage is so well understood that we may content
ourselves with a few illustrations extending over the different groups of
verbs. I.i. Verbs of motion. Plautus, 2 Aul. 178, Praesagibat mi
animus frustra me ire, quom exibam domo. 1 With the
principles of formal description as last and best expressed by Morris (On
Principles and Methods of Syntax) all syntacticians will, I believe,
agree. Nearly all of them will be found well illustrated in the present
paper. For purposes of tense study, however, I have been unable to see
any essential modification in function resulting from variation of person
and number, although some uses have become almost idiomatic in certain
persons, e. g. the immediate past usage with first person sing, of verbs
of motion (p. 15). Just how far tense function is affected by the kind of
sentence in which the tense stands I am not prepared to say. In cases
accompanied by a negative or standing in an interrogative sentence the
tense function is more difficult to define than in simple affirmative
sentences. It is easier also to define the tense function in some forms
of dependent clauses, e. g. temporal, causal, than in others. This is an
interesting phenomenon, needing for its solution a larger and more varied
collection of cases than mine. At present I do not feel that the
influence upon the tense of any of these elements is definite enough to
call for greater complexity in the system of classification. While,
therefore, I have borne these points constantly in mind, the tables show
the results rather than the complete method of my work in this respect.In the
citation of cases the following editions are used: Fragments of the
dramatists, O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis fragmenta (I &
II), Lipsiae -8 (third edition). Plautus, Goetz and Schoell, T.
Macci Plauti comoediae (editio minor), Lipsiae, Terence, Dziatzko, P. Terenti
Afri comoediae, Lipsiae Orators, H. Meyer, Oratorum romanorum fragmenta,
Turici. Historians, C. Peter, Historicorum Romanorum fragmenta,
Lipsiae. Cato, H. Keil, M. Porci Catonis de agricultura liber,
Lipsiae, and H. Jordan, M. Catonis praeter lib. de re rustica quae
extant, Lipsiae i860. Lucilius, L. Mueller, Leipsic, Auctor ad
Herennium, C. L. Kayser, Cornifici rhetoricorum ad C. Herenium libri tres,
Lipsiae. Inscriptions, Th. Mommsen, C. I. L. I. Ennius
(the Annals), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli.
Naevius (Bell, poen.), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae,
Petropoli. Varro, H. Keil, M. Terenti Varronis rerum rusticarum
libri tres, Lipsiae Varro, A. Spengel, M. Terenti Varronis de lingua latina,
Berolini Varro, BUcheler, M. Terenti Varronis saturarum Menippearum
reliquiae, Lipsiae. Id. Amph. 199, Nam quom pugnabant maxume, ego
turn fugiebam maxume. Lucilius, Sat.,l ibat forte aries'
inquit; I. 2. Verbs of action. Ex incertis incertorum fabulis
(comoed. pall.) XXIV. R., sed sibi cum tetulit coronam ob coligandas
nuptias, T\b\ ferebat; cum simulabat se sibi alacriter dare, Turn
ad te ludibunda docte et delicate detulit. Plautus, True. 198 atque opperimino
: iam exibit, nam lavabat. Cf. id. Men. 564 (ferebam), Mil.
1336 (temptabam), Epid. 138 (mittebam); Terence, Andr. (dabam); Auctor
ad Herenn. 4, 20, 27 (oppetebat). Verbal communication.
Plautus, Men, Quin modo Erupui, homines qui ferebant te. Apud
hasce aedis. tu clamabas deum fidem, Ex incert. incert. &c. 282.
XXXII. R., Vidi te, Ulixes saxo sternentem Hectora, Vidi tegentem
clipeo classem Doricam : Ego tunc pudendam trepidus hortabar
fugam. State. Plautus, Aul. 376, Atque eo fuerunt cariora, aes
non erat. Id. Mil. 181, Sed Philocomasium hicine etiam nunc est?
Pe. Quom exibam, hie erat. Varro, R. R. III. 2. 2., ibi
Appium Claudium augurem sedentem invenimus . . . sedebat ad
sinistram ei Cornelius Merula . . . Cf. also Plautus, Rud.
846, (sedebanf), Amph. 603 (stabam) &c. &c.
Verbs of thought. Hist. frag. p. 70, 1. 7, Et turn quo irent
nesciebani, ilico manserunt. Plautus, Pseud. 500-1, Non a me
scibas pistrinum in mundo tibi, Quom ea muss[c]itabas ? Ps.
Scibam. Cf. also Plautus, Rud. 1 186 ,(credebam); Varro R. R. I. 2.
25. (ignorabat), &c. II. 2. Feeling. Plautus, Epid.
138, Desipiebam mentis, quom ilia scripta mittebam tibi. Id.
Bacch. 683, Bacchidem atque hunc suspicabar propter crimen,
Chrysale, II. 3. Will. Lucilius, Sat. incert. 48,
fingere praeterea adferri quod quis- que volebat: In these
cases the act or state indicated by the tense is always viewed as at some
considerable distance in the past even though in reality it may be
distant by only a few seconds. The speaker or writer stands aloof, so to
speak, and views the event as at some distance and as confined within
certain fairly definite limits in the past. If, now, the action be
conceived as extending to the im- mediate past or the present of the
speaker, a different effect is produced, although merely the limits
within which the action progresses have been extended. This phase of the
progressive imperfect we might term the imperfect of the immediate past 1
or the interrupted 2 imperfect, since the action of the verb is
often interrupted either by accomplishment or by some other event.
A few citations will make these points clearer: Plautus, Stich.
328, ego quid me velles visebam. Nam mequidem harum miserebat. — '\
was coming to see what you wanted of me (when I met you) ; for I've been
pitying (and still pity) these women.' In the first verb the action
is interrupted by the meeting ; in the second it continues into the
present, the closest translation being our English compound pro- gressive
perfect, a tense which Latin lacked. The imperfect ibam is very common in
this usage, cf. Plautus, True. 921, At ego ad te ibam = l was on my way
to see you (when you called me), cf. Varro, R. R. II. 11. 12; Terence,
Phorm. 900, Andr. But the usage is by no means confined to verbs of
motion (I. 1) alone. It extends over all the categories: I.
2. Motion. Plautus, Aulul. 827 (apparabas), cf. Andr. 656. 1
In Greek the aorist is used of events just past, but of course with no pro-
gressive coloring, cf. Brugmann in I. Miiller's Handbuch, &c. E.
Rodenbusch, De temporum usu Plautino quaest. selectae, Argentorati 1888,
pp. n-12, recognizes and correctly explains this usage, adding some
examples of similar thoughts expressed by the present, e. g. Plautus, Men.
280 (quaeris), ibid. 675 (quaerit), Amph. 542 (numquid vis, a common
leave-taking formula). In such cases the speaker uses imperfect or
present according as past or present predominates in his mind, the
balance between the two being pretty even. Verbal communication.
Terence, Eun. 378 (iocabar), Heaut. 781 (dicebam) ; Plautus, Trin. 212
(aibanf). I. 4. Rest. Plautus, Cas. 532 (eratn), cf.
Men. n 35. Terence, Eun. 87 (stabam), Phorm. 573 {cotnmorabar).
II. 1. Thought. Terence, Phorm. 582 (scibam), cf. Heaut. 309.
Plautus, Men. 1072 (censebam), cf. Bacch. 342, As. 385 &c. II.
2. Feeling. Plautus, Stich. 329 (miserebaf) ; Turpilius, 107 V
R. (sperabam). II. 3. Will. Plautus, As. 392 and
395 (volebatn), Most. 9, Poen.Auxiliary verbs. Plautus, Epid. 98
(so/ebam), cf. Amph. 711. Terence, Phor- mio 52 (conabar). In this
usage the present or immediate past is in the speaker's mind only less
strongly than the point in the past at which the verb's action begins.
The pervading influence of the present is evident not only because
present events are usually at hand in the context, but also from the
occasional use with the imperfect of a temporal particle or expression of
the present, cf. Plaut. Merc. 884, Quo nunc ibas = ' whither were you
(are you) going ? ' Terence, Andr. 657, immo etiam, quom tu minus scis
aerumnas meas, Haec nuptiae non adparabanfur
mihi, Rodenbusch labours hard to show that this case is like the
preceding and not parallel with the cases of volui which he cites on p.
24 with all of which an infinitive of the verb in the main clause is
either expressed or to be supplied. Following Bothe, he alters deicere to
dice (which he assigns to Adelphasium) and refers quod to the amabo and
amflexabor of I230 = 'meine Absicht'. But there is no need of this.
Infinitives occur with some of the cases cited by Rodenbusch himself on
p. II, e. g. Bacch. 188 (189) Istuc volebatn . . . fercontarier, Trin.
195 Istuc voUbam scire, to which may be added Cas. 674 Dicere vilicum
volebatn and ibid. 702 illud . . . dicere volebatn. It is true that the
perfect is more common in such passages, but the imperfect is by no means
excluded. The difference is simply one of the speaker's point of view:
quod volui = ' what I wished * (complete) ; quod valebant = ' what I was
and am wishing ' (incomplete). As. 212, which also troubles Rodenbusch,
is customary past. Nee postulabat nunc quisquam uxorem
dare. Merc. 197, Equidem me tarn censebam esse in terra atque
in tuto loco : Verum video. In the last two cases note the
accompanying presents, set's and video. The immediate past
also is indicated by a particle, e. g. Plautus, Cas. 594 ad te hercle
ibam commodum. There are in all 207 l cases of this imperfect of
the immediate past. They are distributed pretty evenly over the various
groups of verbs as will be seen from the following table: No. of
Cases. I. I Verbs of motion, 26
I. 2 it " action, 17 I. 3 (i
"verbal communication, 31 I. 4 state, 35 II. 1
it " thought, 36 II. 2 " "
feeling, 35 II. 3 " " will, 13
Auxiliary verbs, The verbs proportionately most common in this use are
ibam and volebam which have become idiomatic. The usage is
especially common in colloquial Latin, but 16 cases 5 occurring outside
the dramatic literature represented chiefly, of course, by Plautus and
Terence. By virtue of its progressive force the imperfect is a
vivid tense and as is well known, became a favorite means in the
Ciceronian period of enlivening descriptive passages. It was especially
used to fill in the details and particulars of a picture (imperfect of
situa- tion). 8 This use of the tense appears in early Latin also, but
with much less frequency. The choice of the tense for this purpose
is a matter of art, whether conscious or unconscious. At times, indeed,
there is no apparent reason for the selection of an imper- fect rather
than a perfect except that the former is more graphic, 1 Somewhat less
than one-third of the total (680) progressive cases. 5 These cases
are Ennius, Ann. 204, C. I. L. I. 201. 1 1 (3 cases), Varro, L. L. 5. 9
(1 case), and Auctor ad Herenn. 1. 1. 1 (2 cases), 1. 10. 16, 2. 1. 2, 2.
2. 2 (2 cases), 3. 1. 1 (2 cases), 4. 34. 46, 4. 36. 48, 4. 37. 49. All of
these are in passages of colloquial coloring, either in speeches or,
especially those in auctor ad Herenn., in epistolary passages.
3 I use this term for all phases of the tense used for graphic
purposes. and if it were possible to separate in every instance these
cases from those in which the imperfect may be said to have been
required, we should have a criterion by which we might dis- tinguish this
use of the imperfect from others. But since the progressive function of
the tense is not altered, such a distinction is not necessary.
Statistics as to the frequency of the imperfect of situation in
early Latin are worth little because the chief remains of the language of
that period are the dramatists in whom naturally the present is more
important than the past. The historians, to whom we should look for the
best illustrations of this usage, are for the most part preserved to us
in brief fragments. Nevertheless an examination of the comparatively few
descriptive passages in early Latin reveals several points of
interest. In Plautus and Terence the imperfect was not a favorite
tense in descriptions. Bacch. 258-307, a long descriptive passage
of nearly 50 lines, interrupted by unimportant questions, shows
only 4 imperfects (1 aoristic) amid over 40 perfects, historical
presents, &c. Capt. 497-5151 Amph. 203-261, Bacch. 947-970, show
but one case each. Stich. 539-554 shows 5 cases of erat. In Epid.
207-253 there are 10 cases. In the descriptive passages of Terence
the imperfect is still far from being a favorite tense, though relatively
more common than in Plautus, cf. Andr. 48 ff., 74-102, Phorm. 65-135
(containing 11 imperfects). But Eunuch. 564-608 has only 4 and Heaut.
96-150 only 3. Another very instructive passage is the
well-known description by Q. Claudius Quadrigarius of the combat between
Manlius and a Gaul (Peter, Hist. rom. fragg., p. 137, 10b). In this
passage of 28 lines there are but 2 imperfects. The very similar passage
describing the combat between Valerius and a Gaul and cited by Gellius
(IX, n) probably from the same Quadrigarius contains 8 imperfects in 24
lines. Since Gellius is obviously retelling the second story, the
presumption is that the passage in its original form was similar in the
matter of tenses to the passage about Manlius. In other words Gellius has
'edited' the story of Valerius, and one of his improvements consists in
enlivening the tenses a bit. He describes the Manlius passage thus : Q.
Claudius primo annalium purissime atque illustrissime simplicique
et incompta orationis antiquae suavitate descripsit. This simplex
et incompta suavitas is due in large measure to the fact that
Quadrigarius has used the simple perfect (19 times), varying it
with but few (4) presents and imperfects (2). A closer com- parison of
the passage with the story of Valerius reveals the difference still more
clearly. Quadrigarius uses (not counting subordinate clauses) 19
perfects, 4 presents, 2 imperfects ; Gellius, 4 perfects, 9 presents, 8
imperfects. In several instances the same act is expressed by each with a
different tense : Quadrigarius. Gellius. processit
(bis), f procedebat, \ progrediiur, constitit, c
congrediuntur, consistent, constituerunt, conserebantur
manus, 8 perfects of acts in 5 imperfects of acts
combat. of the corvus. Gellius has secured greater vividness at the
expense of simplicity and directness. This choice of tenses
was, as has been said, a matter of art, whether conscious or unconscious.
The earlier writers seem to have preferred on the whole the barer,
simpler perfect even in passages which might seem to be especially
adapted to the imperfect, historical present, &c. The perfect, of
course, always remained far the commoner tense in narrative, and
instances are not lacking in later times of passages 1 in which there is
a striking preponderance of perfects. Nevertheless the imperfect, as
the language developed, with the growth of the rhetorical tendency
and a consequent desire for variety in artistic prose and poetry, seems
to have come more and more into vogue. 2 The fact that the function
of a tense is often revealed, denned, and strengthened by the presence in
the context of particles of various kinds, subordinate clauses, ablative
absolutes, &c, &c, 1 E. g. Caesar, B. G. I. 55 and
124-5. s The relative infrequency of the tense in early Latin was
pointed out on p. 164. Its growth as a help in artistic prose is further
proved by the fact that the fragments of the later and more rhetorical
annalists, e. g. Quadrigarius, Sisenna, Tubero, show relatively many more
cases than the earliest annalists. This is probably not accident. When
compared with the history of the same phenomenon in Greek, where the
imperfect, so common in Homer, gave way to the aorist, this increase in
use in Latin may be viewed as a revival of a usage popular in
Indo-European times. Cf. p. 185, n. 2. was pointed out in Trans. Am.
Philol. Ass. What was there 1 said of Plautus and Terence may here be
extended to the whole period of early Latin. The words and phrases used
in this way are chiefly temporal. Some of those occurring most frequemly
are: modo, commodum ; turn, tunc; simul; dudum, iam dudum; iam, primo,
primulum ; nunc; ilico; olim, quondam; semper, saepe; fere, plerumque ;
Ha, 2 &c, &c. A rough count shows in this class about 120 cases,'
accompanied by one or more particles or expressions of this sort.
Some merely date the tense, e. g., turn, modo, dudum, &c. Others,
as saepe, fere, primulum, have a more intimate connection with the
function. Naturally the effect of the latter group is clearest in the
imperfects of customary past action, the frequentative, &c, and will
be illustrated under those headings. Here I will notice only a few cases
with iam, primulum, &c, which illustrate very well how close the
relation between particle and tense may be. The most striking cases are
: Plautus, Merc. 43, amare valide coepi[t] hie meretricem.
ilico Res exulatum ad illam <c>lam abibat patris. Cf. Men. 1
1 16, nam tunc dentes mihi cadebant primulum. id. Merc. 197,
Equidem me iam censebam esse in terra atque in tuto loco
: Verum video . . . id. Cist. 566, Iam perducebam illam ad me
suadela mea, Anus ei <quom> amplexast genua . . . id.
Merc. 212, credet hercle: nam credebat iam mihi. The unquestionably
inceptive force of these cases arises from the combination of tense and
particle. No inceptive* function can be proved for the tense alone, for I
find no cases with inceptive force unaccompanied by such a particle.
Cf. also Morris, Syntax, p. 83. 5 How far the nature of the
clause in which it stands may influence the choice of a tense is a
question needing investigation. That causal, explanatory, characterizing,
and other similar clauses very often seem to require an im- perfect is
beyond question, but the proportion of imperfects to other tenses in such
clauses is unknown. Cf. p. 166, n. 1. s No introductory
conjunctions are included in this total, nor are other particles
included, unless they are in immediate connection with the tense. 4
In Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 21, I was inclined to take at least
Merc. 43 as inceptive. This I now believe to have been an error. The
inceptive idea was most commonly expressed by coepi -\- m&n. which is
very common in Plautus and Varro. We have here the opposite of the
phenomenon discussed on p. 177. There are a few cases in which the
imperfect produces the same effect as the imperfect of the so-called
first periphrastic conjuga- tion : Terence, Hec. 172, Interea in Imbro
moritur cognatus senex. Horunc: ea ad hos redibal lege
hereditas.=reditura erat, English ' was coming ', ' was about to revert
', cf. Greek pi\\a> with infinitive. Cf. Phorm. 929, Nam
non est aequum me propter vos decipi, Quom ego vostri honoris causa
repudium alterae Remiserim, quae dotis tantundem <fti£«/.=datura erat
&c. In these cases the really future event is conceived very
vividly as already being realized. Plautus, Amph. 597 seems
to have the effect of the English 'could': Neque . . . mihi
credebam primo mihimet Sosiae Donee Sosia . . . ille . . . But the
* could ' is probably inference from what is a very vivid statement. A
Roman would probably not have felt such a shading. 1 I B. The
Imperfect of Customary Past Action. The imperfect may indicate some
act or state at some appreci- able distance in the past as customary,
usual, habitual &c. The act or state must be at some appreciable
distance in the past (and is usually at a great distance) because this
function of the tense depends upon the contrast between past and present,
a contrast so important that in a large proportion of the cases it is
enforced by the use of particles. 2 The act (or state) is conceived
as repeated at longer or shorter intervals, for an act does not
become customary until it has been repeated. This customary act
usually takes place also as a result or necessary concomitant of
certain conditions expressed or implied in the context, e. g. maiores
nosiri olim &c, prepares us for a statement of what they used to
do. The act may indeed be conceived as occurring only as a result
of a certain expressed condition, e. g. Plautus, Men. 484 mulier
quidquid dixerat, 1 Some of the grammars recognize ' could' as a
translation, e. g., A. & G. § 277 g- 8 E. g. turn,
tunc, olim &c. with the imperfect, and nunc &c. with the con-
trasted present. Idem ego dicebam = my words would be uttered
only as a result of hers. 1 There are 462 cases of the
customary past usage of which 218 occur in independent sentences, 244 in
dependent. This large total, more than one-third of all the cases, is due
to the character of Varro's De lingua latina from which 289 cases come.
This is veritably a ' customary past ' treatise, for it is for the most
part a discussion of the customs of the old Romans in matters
pertaining to speech. Accordingly nearly all the imperfects fall under
this head. Plautus and Terence furnish 112. The remaining 61 are
pretty well scattered. As illustrations of this usage I will cite
(arranging the cases according to the classes of verbs) : I.
1. Plautus, Pseud. 1180, Noctu in vigiliam quando ibat miles, quom tu Has
simul, Conveniebatne in vaginam tuam machaera militis ? Terence,
Hec. 157, Ph. Quid ? interea ibatne ad Bacchidem ? Pa.
Cottidie. Varro, L. L. 5. 180, qui iudicio vicerat, suum sacramentum
e sacro auferebat, victi ad aerarium redibat. I. 2. Plautus,
Bacch. 429, Saliendo sese exercebant magis quam scorto aut saviis.
(cf. the whole passage). Hist, fragg., p. 83. 27, Cn., inquit, Flavius,
patre libertino natus, scriptum faciebat (occupation) isque in eo tempore
aedili curuli apparebat, . . . I. 3. Terence, Eun. 398, Vel rex
semper maxumas Mihi agebal quidquid feceram : Varro, L. L.,
5. 121, Mensa vinaria rotunda nominabalur Cili- bantum ut etiam nunc in
castris. Cf. L. L. 7. 36, appellabant, 5. 118, 5. 167 &c.
1 This usage seemed to me formerly sufficiently distinct to deserve a
special class and the name 'occasional', since it is occasioned by
another act. It is at best, however, only a sub-class of the customary
past usage and in the present paper I have not distinguished it in the
tables. It is noteworthy that the act is here at its minimum as regards
repetition and that it may occur in the immediate past, cf. Rud. 1226,
whereas the customary past usage in its pure form is never used of the
immediate past. The usages may be approxi- mately distinguished in
English by 'used to', 'were in the habit of &c. (pure customary past),
and 'would' (occasional), although 'would' is often a good rendering of
the pure customary past. Good cases of the occasional usage are :
Plautus, Merc. 216, 217 ; Poen. 478 S ; Terence, Hec. 804 ; Hist, fragg.
p. 202. 9 (5 cases), ibid. p. 66. 128 (4 cases). Plautus, Bacch. 421, Eadem ne
erat haec disciplina tibi, quom tu adulescens eras ? C. I. L.
I. 1011.17 Ille meo officio adsiduo florebat ad omnis. II. 1.
Auctor ad Herenn. 4. 16. 23, Maiores nostri si quam unius peccati
mulierem damnabant, simplici iudicio multorum rnaleficiorum convictam
putabant. quo pacto ? quam inpudicam iudicarant, ea venefici quoque
damnata existutnabatur. Cato, De ag., 1, amplissime laudari
existimabatur qui ita lau- dabatur. II. 2. Plautus, Epid.
135, Illam amabam olim: nunc tarn alia cura impendet pectori.
Varro, R. R. III. 17.8, etenim hac incuria laborare aiebat M.
Lucullum ac piscinas eius despiciebat quod aestivaria idonea non haberent.
III. 3. Plautus, As. 212, quod nolebant ac votueram, de industria
Fugiebatis neque conari id facere audebatis prius. Cf. the whole
passage. Varro, L. L. 5. 162, ubi quid conditum esse volebant, a
celando Cellam appellarunt. III. Terence, Phorm. 1 90,
Tonstrina erat quaedam : hie sole- bamusfere Plerumque earn
opperiri, . . . Varro, L. L. 6. 8, Solstitium quod sol eo die sistere
videbatur . . . The influence of particles 2 and phrases in these cases
is very marked. I count about 1 10 cases, more than I of the total,
with which one or more particles appear. Those expressions which
emphasize the contrast are most common, e. g. turn, olim, me puero with
the imperfect, and nunc, iam &c. with the contrasted present.
This class also affords excellent illustrations of the reciprocal
influence of verb-meaning' and tense-function. In Varro there are 50
cases, out of 289, of verbs of naming, calling, &c, which are by
nature evidently adapted to the expression of the customary past. Such
are appellabam, nominabam, vocabam, vocitabam, &c. But the most striking
illustration is found in verbs of customary action, e. g. soleo,
adsuesco, consuesco, which by their 1 Cf. Trans. Am. Philolog. Ass.
XXX, p. 19. s Note as illustrations the italicized particles in the
citations, pp. 175-6. 3 Cf. Morris, Syntax, p. 47, and p., with
note. meaning possess already the function supplied to other verbs
by the tense and context. When a verb of this class occurs in the
imperfect of customary past the function is enhanced. Naturally, however,
these verbs occur but rarely in the imperfect, for in any tense they
express the customary past function. It is interesting to note the
struggle for existence between various expressions of the same thought. A
Roman could express the customary past idea in several ways, of which
the most noticeable are the imperfect tense, soleo or the like with
an infinitive, or various periphrases such as mos erat. Of these
possibilities all are rare save the first, the imperfect tense. There are
but 12 cases of soleo, consuesco, &c, occurring in the imperfect
indicative in early Latin. These are all cases of solebam, and 9 of them
are imperfects of customary past action. 1 One would expect to find in
common use the perfect of these verbs with an infinitive, but, although I
have no exact statistics on this point, a pretty careful lookout has
convinced me that such expressions are by no means common. 2 Periphrases
with mos, consuetudo, &c, are also rare. Comparing these facts with
the large number of cases in which the customary past function is
expressed by the imperfect, we must conclude that this was the favorite
mode of expression already firmly established in the earliest literature.
8 I C. The Frequentative Imperfect. In the proper
context 4 the imperfect may denote repeated or insistent action in the
past. Although resembling the imperfect of customary past action, in
which the act is also conceived as 1 Terence, Phorm. go; Varro,
R.R. 1.2. 1, and II. 7. I, L. L. 5. 126; Auctor ad Herenn. 4. 54. 67 ;
Lucilius, IV. 2, &c. s A collection of perfects covering 18
plays of Plautus shows but 15 cases of solitus est, consuevit, &c. My
suspicion, based on Plautus and Terence, that these periphrases would
prove common has thus been proven groundless. 8 The variation
between imperfect and perfect is well illustrated by Varro, L. L. 5. 162,
ubi cenabant, cenaculum vocitabant, and id. R. R. I. 17. 2, iique quos
obaeratos nostri vocitarunt, where the frequentative verb expresses even
in the perfect the customary past function. For the variation
between the customary past imperfect and the perfect of statement cf.
Varro's L. L. almost anywhere, e. g. 5. 121, mensa . . . rotunda
nominabatur Clibantum. 5. 36, ab usu salvo saltus nominarunt. So compare
5. 124 (appellarunt) with R. R. I. 2. 9 (appellabant). Cf. also L. L. 5. 35
qua ibant . . . iter appellarunt ; qua id auguste, semita.ut semiter
dictum. 4 Cf. Herbig, Aktionsart und Zeitstufe (I. F. 1896, § 59). repeated,
the frequentative usage differs in that there is no idea of habit or
custom, and the act is depicted as repeated at intervals close together
and without any conditioning circumstances or contrast with the present.
I find only 13 cases of this usage, 7 of which are syntactically independent,
6 dependent. All occur in the first three classes of verbs. The cases are
: Plautus, Pers. 20, miquidem tu iam eras mortuos, quia non
visitabam. Ibid. 432, id tibi suscensui, Quia te negabas
credere argentum mihi. Rud. 540, Tibi auscultavi : tu promittebas mihi
Mi esse quaestum maxumum meretricibus : Capt. 917, Aulas . . .
omnis confregit nisi quae modiales erant : Cocum
percontabatur, possentne seriae fervescere : As. 938, Dicebam, pater,
tibi ne matri consuleres male. Cf. Mil. Gl. 1410 (dicebaf).
True. 506, Quin ubi natust machaeram et clupeum poscebat sibi
? Epid. 59, Quia cottidie ipse ad me ab legione epistulas
Mittebat: cf. ibid. 132 (missiculabas). Merc. 631, Promittebas te
os sublinere meo patri : ego me[t] credidi Homini docto rem
mandar<e>, . . . Ennius, Ann. 43, haec ecfatu' pater, germana,
repente recessit. Nee sese dedit in conspectum corde cupitus,
quamquam multa manus ad caeli caerula templa iendebam lacrumans et blanda
voce vocabam. Hist, fragg., p. 138. 11 (Q. Claudius Quadrigarius), Ita
per sexennium vagati Apuliam atque agrum quod his per militem
licebat expoliabaniur. This class is so small and many of the cases are
so close to the simple progressive and the imperfect of situation that it
is tempting to force the cases into those classes. 1 A careful con-
1 How close the frequentative notion may be to the imperfect of the
immediate past is well illustrated by As. 938 (cited above). In this case
we have virtually an imperfect of the immediate past in which, however,
the frequentative coloring predominates : dicebam means not ' I've been
telling ', but 'I've kept telling', &c. Cf. also Pseud. 422
(dissimulabam) for another case of the imperfect of the immediate past
which is close to the frequentative. In its pure form, however, the
frequentative imperfect does not hold in view the
present. sideration of each case has, however, convinced me that the
frequentative function is here clearly predominant. In Plautus, Pers. 20,
E pid. 131, Capt. 917, it is impossible to say how much of the
frequentative force is due to the tense and how much to the form of the
verbs themselves ; both are factors in the effect. Verbs like
mitto,promitio, voco, and even dico, are also obviously adapted to the
expression of the frequentative function. It is noteworthy that in
this usage a certain emphasis is laid on the tense. In eight of the cases
the verb occupies a very em- phatic position, in verse often the first
position in the line, cf. the definition on p. 177. I D. The
Conative Imperfect. The imperfect may indicate action as attempted
in the past. There must be something in the context, usually the
immediate context, to show that the action of the verb is fruitless.
There are no certain cases of this usage in early Latin. I cite the
only instances, four in number, which may be interpreted as
possibly conative : Plautus, As. 931, Arg. Ego dissuadebam,
mater. Art. Bellum filium. Id. Epid. 215, Turn
meretricum numerus tantus quantum in urbe omni fuit
Obviam ornatae occurrebant suis quaeque | amatoribus : Eos
captabant. Auctor ad Herenn., 4. 55. 68, . . . cum pluribus aliis
ire celerius coepit. illi praeco faciebat audientiam; hie
subsellium, quod erat in foro, cake premens dextera pedem defringit
et . . . Hist, fragg., p. 143. 46, Fabius de nocte coepit hostibus
castra simulare oppugnare, eum hostem delectare, dum collega
id caperet quod capiabat. But in the second and fourth
cases the verb capto itself means to 'strive to take', 'to catch at'
&c, and none of the conative force can with certainty be ascribed to
the tense. In the first case, again, the verb dissuadebam means 'to
advise against', not 'to succeed in advising against' (dissuade).
Argyrippus says : ' I've been advising against his course, mother', not '
I've been trying, or I tried, to dissuade him'. The imperfect is,
therefore, of the common immediate past variety. 1 1 Cf. a
few lines below (938) dicebam. In Auct. ad Herenn., 4. 55.
68, the imperfect is part of the very vivid description of the scene
attending the death of Tiberius Gracchus. Indeed the whole passage is an
illustration of demon- stratio or vivid description which the author has
just defined. The acts of Gracchus and his followers are balanced against
those of the fanatical optimates under Scipio Nasica: 'While the herald
was silencing 1 the murmurs in the contio, Scipio was arming himself
&c. Though it may be true that the act indi- cated by faciebat
audientiam was not accomplished, this seems a remote inference and one
that cannot be proved from the context. If my interpretation
of these cases is correct, there are no certain 1 instances of the
conative imperfect in early Latin. There is but one case of conabar
(Terence, Phorm. 52) and one of temptabam (Plautus, Mil. gl. 1336). Both
of these belong to the immediate past class, the conative idea being
wholly in the verb. II. The Aoristic Imperfect.
The imperfect of certain verbs may indicate an act or state as
merely past without any idea of progression. In this usage the kind of
action reaches a vanishing point and only the temporal element of the
tense remains. The imperfect becomes a mere preterite, cf. the Greek
aorist and the Latin aoristic perfect. The verbs to which this use of the
imperfect is restricted are, in early Latin, two verbs of saying, aio and
dico, and the verb sum with its compounds. There are 56 cases
of the aoristic imperfect in early Latin (see Table II), 48 of which
occur in syntactically independent sen- tences. Some citations
follow: Plautus, Bacch. 268, Quotque innocenti ei dixit
contumelias. Adulterare eum aibat rebus ceteris. Id. Most.
1027, Te velle uxorem aiebat tuo gnato dare : Ideo aedificare hoc velle
aiebat in tuis. Th. Hie aedificare volui? Si. Sic dixit mihi. Id.
Poen. 900, Et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere: Ingenuas
Carthagine aibat esse. 1 Faciebat audientiam seems a technical
expression, cf. lexicon. 2 The case cited by Gildersleeve- Lodge, §
233, from Auct. ad Herenn., 2. I. 2, ostendebatur seems to me a simple
imperfect and there is nothing in the context to prove a conative force,
cf. 3. 15. 26 demonstrabatur. In these cases note the parallel cases of
dixit, cf. id. Trin. 1140, Men. 1 141 &c, &c. I note
but three cases of dicebam: Terence, Eun. 701, Ph. Unde [igitur] fratrem
meum esse scibas ? Do. Parmeno Dicebat eum esse. Cf. Plautus, Epid.
598 for a perfect used like this. Varro, R. R. II. 4. 11, In
Hispania ulteriore in Lusitania [ulteriore] sus cum esset occisus,
Atilius Hispaniensis minime mendax et multarum rerum peritus in doctrina,
dicebat L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duabus costis
. . . Ibid. III. 17. 4, pisces . . . quos sacrificanti tibi, Varro,
ad tibicinem [graecum] gregatim venisse dicebas ad extremum litus
atque aram, quod eos capere auderet nemo, . . . In these cases the verb
dico becomes as vague as is aio in the preceding citations.
Plautus, Poen. 1069, Nam mihi sobrina Ampsigura tua mater
fuit, Pater tuos is erat frater patruelis meus, Et is me
heredem fecit, Id. Mil. gl. 1430, Nam illic qui | ob oculum habebat lanam
nauta non erat. Py. Quis erat igitur? Sc. Philocomasio
amator. Id. Amph. 1009, Naucratem quem convenire volui in navi
non erat, Neque domi neque in urbe invenio quemquam qui ilium
viderit. 1 Id. Merc. 45, Leno inportunus, dominus eius
mulieris, Vi sum<m>a[t] quicque utpoterat rapiebat
domum. In such cases as the last the imperfect has become formulaic,
cf. quam maxime poter at, &c. 1 Rodenbusch, pp. 8-10, after
asserting that the imperfect of verbs of saying and the like is used in
narratio like the perfect (aorist), cites a number of illustrations in
which (he adds) the imperfect force may still be felt ! But a case in
which the imperfect force may still be felt does not illustrate the
imperfect in simple past statements, if that is what is meant by
narratio. Only four of R.'s citations are preterital (aoristic), and
these are all cases of aibam (Plautus, Amph. 807, As. 208, 442, Most.
1002). The same may be said of the citations on p. g, of which only Eun.
701 is aoristic. J. Schneider (De temporum apud priscos latinos usu
quaestiones selectae, program, Glatr, 1888) recognizes the aoristic use
of aibat, but his statement that the comic poets used perfect and
imperfect indiscriminately as aorists cannot be accepted. The Shifted
Imperfect. In a few cases the imperfect appears shifted from its
function as a tense of the past, and is equivalent to (i) a mere present;
or (2) an imperfect or pluperfect subjunctive. The cases
equivalent to a present 1 are all in Varro, L. L., and are restricted to
verbs of obligation {oportebat, debebaf) : L. L. 8. 74, neque oportebat
consuetudinem notare alios dicere Bourn greges, alios Boverum, et signa
alios Iovum, alios Ioverum. Ibid. 8. 47, Nempe esse oportebat vocis
formas ternas ut in hoc Humanus, Humana, Humanum, sed habent quaedam
binas . . . ibid. 9. 85, si esset denarii in recto casu atque infinitam
multi- tudinem significaret, tunc in patrico denariorum dici
oportebat. Ibid. 8. 65, Sic Graeci nostra senis casibus [quinis non]
dicere debebant, quod cum non faciunt, non est analogia.* The
cases equivalent to the subjunctive are confined to sat &c. + erat (6
cases), poteram (3 cases), decebat (1 case), and sequebatur (1 case). As
illustrations may be cited : Plautus, Mil. gl. 755, Insanivisti
hercle : nam idem hoc homini- bus sat [a] era\ti\t decern.
Auct. ad Herenn. 2. 22. 34, nam hie satis erat dicere, si id modo quod
esset satis, curarent poetae. = ' would have been,' cf. ibid. 4. 16. 23
(iniquom erat), Plautus, Mil. gl. 911, Bonus vates poieras esse : = '
might be ' or ' might have been '. Id. Merc. 983 b, Vacuum
esse istac ted aetate his decebat noxiis. Eu. Itidem ut tempus anni,
aetate<m> aliam aliud factum condecet. Varro, L. L. 9. 23, si
enim usquequaque non esset analogia, turn sequebatur ut in verbis quoque
non esset, non, cum esset usquequaque, ut est, non esse in verbis . . .
This is a very odd case and I can find no parallel for it.* 1
Varro uses the perfect also of these verbs as equivalent to the present
of general statements. Cf. L. L. 8, §§ 72-74, where debuit occurs 4 times
as equivalent to debet, § 48 (debuerunt twice), § 50 (pportuit =
oportet). The perfect infinitive is equivalent to the present, e. g. in
8, §61 and §66 (debuisse . . . dici). The tenses are of very little
importance in such verbs. 8 Note the presents expressed in the
second and fourth citations. 3 The remaining cases are: Plautus,
True. 511 (poterai), id. Rud. 269 (aequittserat), Lucilius, Sat. 5. 47 M.
(sat erat), Auctor ad Herenn. 4. 16. 23 (iniquom erat), ibid. 4. 41. 53
(quae separatim dictae infimae
erant). Total. Imperfect. Aoristic. Shifted. Progressive. Cust.Past. Frequent. Terence Dramatists
Historians Auctor ad Her. Inscriptions The fragments of Cato's historical
work are included in the historians. 'Including the epic fragments of
Ennius and Naevius. Verbs and Functions. Cases. Imperfect. Classes
of Verbs. Progressive. Cust. Past. Frequent. Aoristic. Shifted.
Ind.Dep. Ind. Dep. Ind. Dep. Ind. Dep. Ind. Dep
.I. Physical. Verbal commun. Rest, state, &c. (tram
220) Psychical. Will Auxiliaries. american
journal of philology. Historical and Theoretical. The
original function of the imperfect seems to have been to indicate action
as progressing in the past, the simple progressive imperfect. This is
made probable, in the first place, by the fact that this usage is more
common than all others combined, including, as it does, 680 out of a
total of 1226 cases. This proportion is reduced, as we should remember,
by the peculiar character of the literature under examination, which
contains relatively so little narrative, and especially by the nature
of Varro's De lingua latina in which the cases are chiefly of the
customary past variety. 1 Moreover, the customary past usage itself, and
also the frequentative and the conative, are to be regarded as offshoots
of the progressive usage of which they still retain abundant traces, so
that if we include in our figures all the classes in which a trace of the
progressive function remains we shall find that 11 55 of 1226 cases are
true imperfects (see table II). Another support for the view
that the progressive function is original may be drawn from the probable
derivation of the tense. Stolz 2 (after Thurneysen) derives the imperfect
from the infinitive in -e and an old aoristof the root *bhu. The idea of
progression was thus originally inherent in the ending -bam.
Let us now establish as far as possible the relations subsisting
between the various uses of the true imperfect (IA, B, C, D), turning our
attention first to the simple progressive (IA) and its variations.
The relation between the progressive imperfect in its pure form and
the usage which has been named the imperfect of the immediate past is not
far to seek. The progressive function remains essentially unchanged. The
only difference lies in the extension of the time up to the immediate
past (or present) in the case of the immediate past usage. The transition
between: ibat exulatutn'' = ' he was going into exile ' (when
l See p. 175. 2 In I. Muller's Handb. d. kl. Alt. II., 2 §
113, p. 376. Lindsay, Latin Lang., pp. 489-490, emphasizes the nominal
character of the first element in the compound, and suggests a possible
I. E. *-bhwam, -as, &c, as antecedent of Latin -bam, -ids, -bat. He
also compares very interestingly the formation of the imperfect in
Slavonic, which is exactly analogous to this inferred Latin formation,
except that the ending comes from a different root. 3 Cf. Plautus,
Merc. I saw him at a more or less definite point in the
past) and ibat exulatum = ' he was going (has been going)
into exile' (but we have just met him) is plain enough. The
difference is one of context. In this imperfect of the immediate past the
Romans possessed a sub- stitute for our English compound perfect tense,
'have been doing ', &C 1 In the imperfect of situation
also the function of the tense is not altered. The tense is merely
applied in a different way, its progressive function adapted to vivid
description, and we have found it already in the earliest 2 literature
put to this use. In its extreme form it occurs in passages which would
seem to require nothing more graphic than a perfect. Indeed, we must
guard against the view that the imperfect is a stronger tense than the
perfect; it is as strong, but in a different way, and while the earlier
writers preferred in general the perfect, 8 the imperfect grew gradually
in favor until in the period marked by the highest development of style
the highest art consisted in a happy combination * of the two.
The imperfect of customary past action is, as we have seen, already
well established in the earliest literature. A glance at Table I would
seem to show that it grew to sudden prominence in Varro, but the peculiar
nature of Varro's work has already been pointed out, so that the apparent
discrepancy between the proportion of cases in Varro and in Plautus and
Terence, for instance, means little. It should be remembered also that
this discrepancy is still further increased by the nature of the drama,
whose action lies chiefly in the present. While, therefore, in Plautus
and Terence the proportion of customary pasts is i, 1 Latin also
exhibits some similar compounds, cf. Plautus, Capt. 925, te carens dum
hie fui, Poen., ut tu sis sciens, and Terence, Andr., ut sis sciens. Cf.
Schmalz in I. Mttller's Handb. s In the Greek literature, which
begins not only absolutely but relatively much earlier than the Latin,
the imperfect was used to narrate and describe, and Brugmann, indeed,
considers this a use which goes back to Indo- European times. Later the
imperfect was crowded out to a great extent by the aorist, as in Latin by
the (aoristic) perfect. Cf. Brugmann in I. Mailer's Handb. i
The power of the perfect lies in its simplicity, but when too much used
this degenerates into monotony and baldness. and in Varro f , the
historians with J probably present a juster average. The
relation of this usage to the simple progressive imperfect has already
been pointed out, 1 but must be repeated here for the sake of
completeness. If we inject into a sentence containing a simple
progressive imperfect a strong temporal contrast, e. g., if facit, sed
non faciebat becomes nunc facit, olim autem non faciebat, it is at once
evident how the customary past usage has developed. It has been grafted
on the tense by the use of such particles and phrases, expressions which
were in early Latin still so necessary that they were expressed in more
than one-quarter of the cases ; or, in other words, it is the outgrowth
of certain oft-recurring contexts, and is still largely dependent on
the context for its full effect. Transitional cases in which the
temporal contrast is to be found, but no customary past coloring, may be
cited from Plautus, Rud., Dudum dimidiam petebas partum. Tr. Immo etiam
nunc peto. Here the action expressed by petebas is too recent to acquire
the customary past notion. 2 The progressive function caused the
imperfect to lend itself more naturally than other tenses 3 to the
expression of this idea. 4 Although the customary past usage
was well established in the language at the period of the earliest
literature, and we cannot actually trace its inception and development, I
am con- vinced that it was a relatively late use of the tense by the
mere fact that the language possesses such verbs as soleo,
consuesco, &c, and that even as late as the period of early Latin the
function seemed to need definition, cf. the frequent use of particles,
&c. The small number of cases (13) which may be termed
frequenta- tive indicates that this function is at once rare and in its
infancy in the period of early Latin. The frequentative function is
so closely related 5 to the progressive that it is but a slight step from
1 Trans. Am. Philolog. Ass., Cf. Men. 729. s How strong the
effect of particles on other tenses may be is to be seen in such cases as
Turpilius, p. 113. I (Ribbeck), Quem olim oderat, sectabat ultro ac
detinet. 4 The process was therefore analogous to that which can be
actually traced in cases of the frequentative and conative uses.
5 Terence, Adel. 332-3, affords a good transitional case : iurabat . . .
dicebat — (almost) ' kept swearing ' ... 'kept saying' &c, cf. p. 47
n. 1. It should the latter to the former. Latin 1 seems, however, to
have been unwilling to take that step. The vast number of frequentative,
2 desiderative and other secondary endings also prove that the
tense was not the favorite means for the expression of the frequentative
idea. Nevertheless since the progressive and fre- quentative notions are
so closely related and since frequentative verbs must again and again
have been used in the imperfect subject to the influence of the
progressive function of particles such as saepe, etiam atgue etiam, and
since finally a simple verb must often have appeared in similar
situations, e. g. poscebat for poscitabat, the tense inevitably acquired
at times the frequentative function. We have here, therefore, an
excellent illustration of the process by which a secondary function may
be grafted on a tense and the frequentative function is dependent to a
greater degree than the customary past upon the influence and aid of the
context. That it is of later origin is proved by its far greater rarity
(see Table II). If the frequentative imperfect in early Latin
is still in its infancy, the conative usage is merely foreshadowed. The
fact that there are no certain instances proves that relatively too much
im- portance, at least for early Latin, has been assigned to the
conative imperfect by the grammars. Statistics would probably prove
it rare at all periods, periphrases with conor &c, having sufficed
for the expression of the conative function. The most
powerful influence in moulding tense functions is context. 3 In the case
of the conative function this becomes all powerful for we must be able to
infer from the context that the act indicated by the tense has not been
accomplished. The also be pointed out that the frequentative
imperfect is very closely related to the imperfect of situation. To
conceive an act as frequentative necessarily implies a vivid picture of
it. (Cf. next note). It is possible, therefore, to interpret as vivid
imperfects of situation such cases as Ennius, Ann. 43-4; Plautus, True.
506, Capt. 917, but a careful study of these has convinced me that the
frequentative idea predominates. 1 In Greek, however, the imperfect
was commonly used with an idea of repetition in the proper context. This
use is correctly attributed by Brugmann (I. Milller's Handb. &c.) to
the similarity between the progressive and frequentative ideas as well as
to the fondness for description of a re- peated act. 5 Ace.
to Herbig, § 62 (after Garland?) there were probably no iterative
formations in Indo-European. 8 Cf. Morris, Syntax, pp. 46, 82,
&c. 1function thus rests upon inference from the context- The
presence in the language of the verbs conor, tempto, &c, proves that
the conative function, like the frequentative, was a secondary
growth grafted on the tense in similar fashion, but at a later period,
for we have no certain instances in early Latin. This function of
the imperfect certainly originates within the period of the written
language. The fact that the preponderance of the aoristic cases
occurs in Plautus and Terence (see Table I) indicates that this
usage was rather colloquial. This is further supported by the fact
that the majority of the cases are instances of aibam, a colloquial
verb, and of eram which in popular language would naturally be con-
fused with/i«. In this usage, therefore, we have an instance of the
colloquial weakening of a function through excessive use in certain
situations, a phenomenon which is common in secondary formations, e. g.
diminutives. The aoristic function is not original, but originated in the
progressive usage and in that application of the progressive usage which
is called the imperfect of situation. Chosen originally for graphic
effect the tense was used in similar contexts so often that it lost all
of this force. All the cases of aibam, for instance, are accompanied by
an indirect discourse either expressed (38 cases) or understood (2
cases). The statement contained in the indirect discourse is the
important thing and aibam became a colorless introductory (or
inserted) formula losing all tense force. 1 If this was the case with the
verb which, in colloquial Latin at least, was preeminently the mark
of the indirect discourse it is natural that by analogy dicebam, when similarly
employed, should have followed suit. 2 With eram the development
was similar. The loss of true imperfect force, always weak in such a
verb, was undoubtedly due 1 Cf. Greek iXeys, tjv <5' iyi>
&c. and English (vulgar) ' sez I ' &c„ (graphic present).
Brugmann (I. Muller's Handb. &c. II, 2 p. 183) denies that the Greek
imperfect ever in itself denotes completion, but he cites no cases of
verbs of saying. Although one might say that the tense does not denote
completion, yet if there was so little difference between imperfect and
aorist that in Homer metrical considerations (always a doubtful
explanation) decided between them (cf. Brugmann, ibid.), Brugmann seems
to go too far in dis- covering any imperfect force in his examples. The
two tenses were, in such cases, practical equivalents and both were
colorless pasts. 8 Rodenbusch, p. 8, assigns as a cause for the
frequency of aibat in this use the impossibility of telling whether ait
was present or perfect. This seems improbable. to the vague
meaning of the verb itself. Indeed it seems probable that eram is thus
but repeating a process through which the lost imperfect of the root *fu}
must have passed. This lost imperfect was doubtless crowded out " by
the (originally) more vivid eram which in turn has in some instances lost
its force. If the aoristic usage is not original, but the product
of a collo- quial weakening, we should be able to point out some
transitional cases and I believe that I can cite several of this
character: Plautus, Merc. 190, Eho . . . quin cavisti ne earn
videret . . .? Quin,sceleste,<eam>afo/7'«dfe&w,ne earn
conspiceret pater? Id. Epid. 597, Quid, ob earn rem | hanc emisti,
quia tuam gnatam es ratus ? Quibus de signis agnoscebas? Pe.
Nullis. Phi. Quarefiliam Credidisti nostram ?* In these
cases the tense is apparently used for vivid effect (im- perfect of
situation), but it is evident that the progressive function is strained
and that if these same verbs were used constantly in such connections,
all real imperfect force would in time be lost. This is exactly what has
occurred with aibam, dicebam, and eram. The progressive function if
employed in this violent fashion simply to give color to a statement,
when the verbs themselves {aibam, dicebam) do not contain the statement
or are vague (eram), must eventually become worn out just as the
diminutive meaning has been worn out of many diminutive endings.
In the shifted cases also the tense is wrenched from its proper
sphere. But whereas the aoristic usage displays the tense stripped of its
main characteristic, the progressive function, though still in possession
of its temporal element as a tense of the past, in the shifted cases both
progressive function and past time (in some instances) are taken from the
tense. In those cases where the temporal element is not absolutely taken
away it becomes very unimportant. This phenomenon is apparently due
in the first place to the contrary-to-fact idea which is present in the
context of each case, and secondly to the meaning of some of the verbs
involved. In many of the cases these two reasons 1 There was no
present of this root ace. to Morris, Syntax, p. 56, but cf. Lindsay, Lat.
Lang., p. 490. 'Also if *bhwam <.-bam was derived from *bhu
</«- in fui &c., then the fact that it was assuming a new function
in composition would help to drive it out of use as an independent form,
eram (originally *isom) taking its place. 3 Cf. Terence, Phorm.;
Adel. 809, Eun. 700. Ennius, Fab. 339. are merged into one,
for the verbs themselves imply a contrary- to-fact notion, e. g. debebat,
oportebat, poterat (the last when representing the English might, could,
&c). In Varro, L. L. the phrase sic Graeci . . . dicere debebant implies
that the Greeks do not really so speak; so Plautus, Mil. gl., 911
Bonus vaies poteras esse implies that the person addressed is not a
bonus vales. In these peculiar verbs, which in recognition of their chief
function I have classified as auxiliary verbs, 1 verb- meaning coincides
very closely with mode, just as in soleo, conor, &c, verb-meaning
coincides closely with tense. The modal idea is all important, all other
elements sink into insignificance, and the force of the tense naturally
becomes elusive. 2 Let us summarize the probable history of the
imperfect in early Latin. The simple, progressive imperfect represents
the earliest, probably the original, usage. Of the variations of
this simple usage the imperfect of the immediate past and the im-
perfect of situation are most closely related to the parent use. Both of
these are early variants, the latter probably Indo- European, 3 and both
may be termed rather applications of the progressive function than
distinct uses, since the essence of the tense remains unchanged, the
immediate past usage arising from a widening of the temporal element, the
imperfect of situation from a wider application of the progressive
quality. Later than these two variants, but perhaps still pre-literary,
arose the custom- ary past usage, the first of the wider variations from
the simple progressive. This was due to the application of the tense
to customary past actions, aided by the contrast between past and
present. Later still and practically within the period of the earliest
literature was developed the frequentative usage, due chiefly to the
close resemblance between the progressive and frequentative ideas and the
consequent transfer of the frequentative function to the tense. Finally
appears the conative use, only foreshadowed in early Latin, its real
growth falling, so far as the remains of the language permit us to infer,
well within the 1 Cf. Whitney, German Grammar, § 342. 1.
8 The same power of verb-meaning has shifted, e. g., the English ought
from a past to a present. Cf. idei, &c. If I understand Tobler,
Uebergang zwischen Tempus und Modus (Z. f. V51kerpsych., &c.), he
also con- siders the imperfect in such verbs as due to the peculiar
meaning of the verbs themselves. Cf. Blase, Gesch. des Plusquamperfekts,
§ 3. »Cf. note. Ciceronian period. In all these uses
the progressive function is more or less clearly felt, and all alike
require the influence of context to bring out clearly the additional
notion connected with the tense. The first real alteration in
the essence of the tense appears in the aoristic usage in which the tense
lost its progressive function and became a simple preterite. This usage,
due to colloquial weakening, is confined in early Latin to three verbs,
aidant, dicebam, and eram (with compounds). It is very early, pre-
literary in fact, but later than the imperfect of situation, from which
it seems to have arisen. A still greater loss of the essential features
of the tense is to be seen in the shifted cases in which the temporal
element, as well as the progressive, has become insignificant. This
complete wrenching of the tense from its proper sphere is confined to a
limited number of verbs and some phrases with eram, and is due to the
influence of the pervading contrary-to-fact coloring often in combination
with the meaning of the verb involved. In his Studien und Kritiken zur
lateinischen Syntax, I. Teil, Mainz, 1904, Dr. Heinrich Blase has devoted
considerable space to my article, "The Imperfect Indicative in Early
Latin" (American Journal of Philology). Since Blase professes
to present the substance of my article, except to the 'relatively few'
German scholars who have access to the American periodical, and since he
makes a number of errors in mere citation and statement, it becomes
necessary for me in self-defense to make some corrections. 1 But apart
from these errors of detail, which will be pointed out at the proper
places, Blase disagrees with some of the more important conclusions of my
paper and it is with the purpose of elucidating these views in the light
of his criticism and contributing something more, if possible, to a
better understanding of the problem that I offer the present
discussion. The functions of the imperfect indicative in early Latin
may be summarized as follows: I. The Progressive 2 or True
Imperfect, comprising several types or varieties: A. Simple
Progressive. 1. dicebat = il he was saying." 1
That such corrections are justifiable is proved by the fact that K. Wimmerer,
who knows my article only through Blase's presentation, reproduces
several of Blase's in- correct statements. I regret the unavoidable delay
in the publication of this paper the less because it has enabled me to
use Wimmerer's article, "Zum Indikativ im Hauptsatze
irrealenBedingungsperioden," Wiener Studien. The first four pages of his
article are devoted to a general discussion of Blase's critique of my
views. 2 In this paper technical terms will be used as follows :
progressive = German vor sich gehendes (less exactly fortechreitendes) ;
continuative or durative = wiaftrendes; nature or kind of
action=^Lfc<ionsarf; shifted = verschobenes ; descA\)tive=
schilderndes; reminiscent = erz&hlendes (see p. 365) ; relation
(relative, etc.)= Beziehung, etc. Other terms are, it is hoped,
intelligible or will be defined as they occur. Classical Philology. The
nature of the action may be either progressive 1 or con- tinuative
(durative). The time is past, but the period covered by the action of the
tense may vary with the circumstances described from an instantaneous
point to any required length. The time is contemporaneous with, usually
more extensive than, the time of some other act or state expressed or
implied. When the tense- action is continuative and extends into the
immediate past or, by inference, the present of the speaker, I would
distinguish a sub-class : a) The Imperfect of the Immediate
Past: dicebat—"he was saying" or "he's been saying."
The action may or may not be interrupted by something in the context. If
interrupted, it ends sharply and we may term the tense the
"interrupted" type of this immediate past. 2. The
Descriptive Imperfect (better, the imperfect used in description) .
dicebat="he was saying" (in English often rendered by
"said"). This is in its purest form a simple progressive
imperfect employed in the vivid presentation of past actions or
states. 3. The Reminiscent Imperfect (better, the imperfect used
in reminiscence). dicebat=^ u he was saying" (as I
remember, or as you will remember). In this usage the
imperfect is a simple progressive implying an appeal to the recollection
of the speaker or hearer. B. Customary Past Type.
dicebat="he used to say, would say, was in the habit of
saying, etc." The nature of the action is the same as in A
except that with the aid of the context there is an implication that the
act or state recurred on more than one (usually many) occasions.
These recurrences are usually at some considerable distance in the
past and contrasted with the present, but cases of the immediate
past usage (Ala)) with customary coloring occur. i Hoffmann
Zeitpartikeln 2 , p. 185, characterizes excellently this feature of the
im- perfect : " die actio infecta, pendens, die Handlung in der
Phase ihres Vollzuges, ein Geschehenes im Verlaufe seines Geschehens, ein
Vergangenes Sein noch wahrend seines Bestehens." Impebfect
Indicative in Eably Latin 359 C. The Frequentative or Iterative
Type. dicebat = "he kept saying" (at intervals very close
together). This type is like B, except that it has no customary element
and the repetitions refer to one situation within comparatively
narrow limits of time. The link connecting all these
varieties with one another is the progressive function. 1 II.
The Aoristic Imperfect. aibat = "he said" (equivalent to
dixit, aoristic perfect). The time is still past, but the progressive
force is lost. III. The Shifted Imperfect. debebat = "he
ought" (now). The time is shifted to the present and the
progressive force is very much weakened, in some cases wholly lost,
because of the auxiliary character of the verbs involved. For
a more detailed treatment of the foregoing classes (except the imperfect
in reminiscence) I must refer to Am. Jour. Phil. In what follows I shall select
certain points for discussion by way of elucidation and supplement to
what was said there. the impebfect of the immediate
past The simplest progressive usage is well enough
understood, but the usage termed by me the imperfect of the immediate
past or interrupted imperfect 2 calls for some remarks. As a type
of this imperfect in its interrupted form cf. Plautus Cas. 178: nam
ego ibam ad te. — et hercle ego istuc ad te. Here the action is con-
ceived as continuing until interrupted by the meeting of the speak- ers.
The fact of the interruption does not, of course, inhere in the tense but
is inferred from the context. Indeed, the interruption may not occur at
all, as will be seen by comparing the second type, e. g., Stick. 328 f. :
ego quid me velles visebam. nam mequidem harum miserebat. Here visebam is
interrupted like ibam above, 1 The nature of the action seems to me
the most distinctive feature of the tenses. In this I differ radically
from Cauer, who considers contemporaneousness the essential feature of
the imperfect, cf. Grammatical militans, against Methner, whose
Untersuchungen zur lat. Tempus- und Moduslehre, Berlin, 1901, 1 have not
seen. 2 B. Wimmerer Wien. Stud., Anm. 2, calls attention to the
fact that this imperfect of the immediate past in its interrupted form is
still common in Italian. 360 Arthur Leslie Wheeler
but the action of miserebat is conceived as continuing not only up
to the immediate past, but into and in the present of the speaker. But
again this continuance in the present is not inherent in the tense; it is
inferred from the context. The nature of the action is in both these
types still progressive, or more exactly, continua- tive, but temporally
stress is laid on that period of time immediately preceding or even
extending into the present. 1 In this usage the Romans possessed a
somewhat inexact sub- stitute for the English progressive perfect
definite, e. g., mequidem . . . . harumnusere6a/ = (practically)
"I've been pitying,"a form which, like the Latin, may be used
in the proper context to indi- cate that the pity still continues in the
present. 2 On the other hand, the English "I was pitying,"
superficially a more exact rendering, does not so clearly indicate this
continuance in the present, though "I was going to your house,
etc." is an exact rendering of Cas. 178. Blase himself
has collected some exactly similar cases, 3 of which he says:
Das Imperf. wird gelegentlich auch von Zustanden gebraucht die zwar
in der Gegenwart des Redenden noch fortdauern aber nur mit Bezie- hung
auf die Vergangenheit genannt worden: Plaut. As. 392 quid quae- ritas?
Demaenetum volebam. Das Wollen dauert fort, aber hier ist es nur in
Beziehung auf die in Gedanken vorschwebende vorausgehende Zeit bis zur
Ankunft vor dem Hause gebraucht. 'Blase {Kritik, p. 6)
misrepresents my statement concerning this usage. He cites from my paper
Stich. 328, apparently as given by me in illustration of both the pro- gressive
use in its simplest form and of this immediate past usage, although it was
used as an illustration of the immediate past usage only. Again he quotes
me as believing that in the immediate past usage the action takes place
within exactly defined limits ("genau bestimmten Granzen").
Here is atwofold error. My statement (Am. Jour. Phil.) is "fairly
definite limits" and refers to the simple progressive usage, not to
the immediate past usage. Blase's critique confuses the two usages.
2 There are traces of a tendency on the part of the Romans to express
these shades of thought with greater exactness, e. g., by the combination
of a present participle with the copula, Plautus Capt. 925 : quae adhuc
te carens dum hie fui sustentabam. Here carens .... fui is exactly
equivalent to the English "I've been lacking," whereas
sustentabam is inexactly equivalent to "I've been supporting." But
Latin did not develop such expressions as carens .... fui into real
tenses, and remained content with the less exact imperfect, cf . also iam
diu, etc., with the present. See Am. Jour. Phil. XXIV, p. 185, and Blase
Hist. Syntax, p. 256. A complete collection of such cases would be
interesting. I would add here Amph. 132 : cupiens est, Rud. 943 : sum
indigens, and cf. the verse-close ut tu sis sciens (Poen. 1038), etc.
"Hist. Syntax III, 1903, Tempora und Modi, p. 148, Aran. This book
had not reached me when my article in Am. Jour. Phil. XXIV was
written. Imperfect Indicative in Eably Latin 361 With the
first part of this statement I fully agree, but is it true that in As.
395 the imperfect is used "nur mit Beziehung auf die Vergangenheit,
etc." ? If, as Blase says, "das Wollen dauert fort," then
we are forced to say that the imperfect is used not merely with reference
to the past, but with reference to the present. The speaker really has in
mind both past and present, and uses the imperfect to express this double
temporal sense, the action continuing from the past into the present, because
at the moment of speaking the past is somewhat more prominent. The tense
is, therefore, as explained above, only an approximate expression
of the thought. Had the present been more prominent, other elements being
equal, some expression like iam diu volo would have been
employed. Blase asserts (Kritik, p. 6) that my statement that the
speaker has in mind both beginning and end of the action is not
capable of proof. It is true, I think, that the speaker has usually
no definite point in mind at which the action began. He simply
indicates the action as beginning somewhere in the past and con- tinuing
in the present. But in the very numerous "interrupted" cases he
has in mind a sharply defined end of the action. Blase's criticism seems
justified, then, only with reference to those cases of which Stich. 328,
.... harum miserebat is a type. But Blase classifies cases of this usage
under no less than three different heads in his Tempora und Modi. In
addition to the case cited above, As. 392 volebam, which he interprets,
as I have tried to show, almost correctly, he cites Trim. 400: sed
'Of. also the use of nunc, etc., with some of the cases: Plautus Merc.
884; quo nunc ibas? , Ter. Andr. 657 f. : iam censebam. 2 B.
Wimmerer Wien. Stud., says: "Sohalteich .... die Konsta- tierung
eines," imperfect of the immediate past or the interrupted imperfect,
"fiir einen glucklichen Gedanken," though he would not make a
special type of this use. It seems to me so common (about 200 cases) as
to deserve the degree of special notice which I have given it (Am. Jour.
Phil He adds in a note: "Hier tut Blase m. E. Wheeler einigermassen
unrecht, wenn er dessen Behauptung, dass der Sprecher in diesen Fallen
Anfang und Ende der Handlung tiberschaue, unerweislich nennt. Wheeler
kann dies mit Becht behaupten, wenn es sich um einen Gedanken handelt,
der einen beherrschte bis zu dem Augenblick, wo man ihn
konstatiert," pointing out also that Blase would be justified only
in criticizing the form of my ex- pression so far as I wished to apply it
to the cursive " Aktionsart" (i. e., those cases where there is
no interruption?). 362 Arthur Leslie Wheeler
aperiuntur aedes, quo ibam 1 as "erzahlendes" (p. 148), Merc.
885: quo nunc ibas as "sogenannt. Oonatus." The function of
the tense is essentially the same in all these cases, the only
variant being the presence or absence of interruption which is inferred
in all cases from the context. Since Blase classifies so many
of these cases under the head of the conative imperfect, a consideration
of that usage seems here in place. A "conative"
imperfect ought to mean an imperfect which expresses attempted action,
but since there is no trace, at least in early Latin (cf. Am. Jour. Phil.
XXIV, pp. 179, 180), of such a function, the term is a bad one. 2 Why then
retain it, as Blase does, for those imperfects which express "den
wahrenden, aber nicht zu Ende, geftihrten Handlung?" These
imperfects are chiefly of the type which I have termed
"interrupted," where the context implies it, or imperfects of
the "immediate past," where there is no interruption. 3 In
neither case is there anything more than a simple variation of the
progressive (here more exactly continuative) imperfect. But
most of Blase's cases are not even of this idiomatic inter- rupted or immediate
past variety. They are simple progressives in contexts which imply that
the action was interrupted 4 or not liftam occurs often in this use
: True. 921, Cas. 178, 594, Merc. 885, Tri. 400, etc. ; cf . Am. Jour.
Phil. XXIV, pp. 168-70. 2 Blase Syntax, p. 148, recognizes the
inexactness of the term by his expression, "sogenannten
Oonatus." In Greek its unfitness is well expressed by Mutzbauer
(cited by Blase Kritik, p. 10, and Delbriick, Vergl. Syntax II, p. 306):
"Ungenau werden solche Imperf ekta conatus bezeichnet, von einem
Versuch liegt in der Form nichts" (Grundlagender griech.
Tempuslehre, p. 45) ; cf. now Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 264 : "
In der Form liegt allerdings von einem Versuche nichts."
^Wimmerer Wien. Stud., 1905, pp. 263, 264, remarks that he does not see
why Blase appears to think that there is a difference between his
conception of the imperfect de conatu and mine. Blase says (Kritik, p.
11), after defining these imperfects as above : " Die hier
vertretene Anschauung scheint mehr auf die Imperf ekta zu passen, die
Wheeler," the interrupted imperfect " nennt." This is the case,
so far as Blase confines his citations to instances of the interrupted
type. There is, then, no essential difference in our interpretation of
the function of the tense in these cases. Blase clings, apparently
against his will, to the old terminology to which everybody seems to
object, whereas I would group these cases under a new term which seems to
me more exact. But Blase does not, as it seems to me, group together all
the cases that belong together. 4 1 use interrupted here not
of what has been termed the "interrupted" usage, whose
distinctive feature lies in the fact that the time is in the immediate past,
but as Impeepect Indicative in Early Latin 363
completed: Men. 564 pallam ad phrygionem deferebat (Peniculus
simply depicts Menaechmus as he had last seen him; cf. 469: pallam ad
phrygionem fert) ; Cic. Sulla 49 consulatus vobis pariebatur (just like
all the other imperfects in the passage — progressive of the descriptive
variety); id.Milo 9: interfectus ab eo est, cui vim afferebat (simple
progressive, the interruption being expressed by interfectus est) ; id.
Ligar. 24: veniebatis in Africam (progressive, the interruption being
implied in prohibiti 1 five lines below) ; Caesar B. G. v. 9. 6 : ipsi ex
silvis rari propug- nabant nostrosque intra munitiones ingredi
prohibebant (but prohibebant is exactly like propugnabant — both were
interrupted by the act expressed by ceperunt in the next sentence, and
note the verb-meaning); Sallust Jug. 27. 1: atrocitatem facti
lenie- bant. at ni, etc. ( progressive = they were in the act of
mitigating, but, etc.); ibid. 29. 3 redimebat (progressive); Livy:
mittebatur (progressive); Florus 1. 10. 1: nam Porsenna .... aderat et
Tarquinios manu reducebat. hunc reppulit (progressive in description —
that the act did not succeed is shown by reppulit) ; Curtius vi. 7. 11:
alias .... effeminatum et muliebrieter timi- dum appellans, nunc ingentia
promittens .... versabat animo tanto facinore procul abhorrentem (again
graphic description: there is here nothing in the immediate context to
show that an effect was or was not produced. In fact versare animum does
not mean necessarily to succeed in turning one's mind, but merely to work
on one's mind; cf. Livy i. 58. 3 : Tarquinius .... ver- sare muliebrem
animum in omnes partes, where versare sums up the preceding infinitives,
but no effect is produced. So in Cur- tius, loc. cit. , versabat has the
same kind of action as is indicated by the participles appellans ....
promittens, which are summed up in versabat); Ammianus xvi. 12. 29: his
et similibus notos pariter et ignotos ad faciendum f ortiter accendebat (
again graphic description, cf. ibid. xvi. 32: his exhortationibus
adiuvabat). referring to interruptions in the more distant past.
Where the interruption belongs to the immediate past I have so indicated
in the following criticism. 1 Surely the hearer in such a case as
this would not have connected even the idea of " nicht zu Ende
gefiihrten Handlung " with veniebatis until he heard prohibiti, i.
e., the interruption belongs purely to the context and not the immediate
context at that. This is true of many other so-called conative
imperfects. 364 Arthur Leslie Wheeler Vergil
Aen. i. 31: arcebat longe Latio, cf. errabant (graphic description = what
Juno "was doing" at the time, and only the outcome of the story
proves that she did not succeed). : hoc equidem occasum Troiae tristisque
ruinas solabar, fatis contraria fata rependens; nunc eadem fortuna viros
.... inse- quitur (immediate past with customary coloring, cf. contrast
in nwnc = I have been in the habit of comforting .... but now, etc.
This is one of the transitional cases between the pure custo- mary part
and the pure immediate past; cf. Am. Jour. Phil. XXIV, p. 186, where
Plautus, Mud. 1123: dudum dimidiam petebas partem, immo nunc peto; Men.
729: at mihi negabas dudum surripuisse te, nunc ea<V>dem ante
oculos, attines, are cited. In both of these passages, though there is no
customary coloring, there is the same contrast between continuance in
the past and the present as in Vergil loc. cit. Blase would
probably term both of the Plautus passages "erzahlende").
Tacitus Ann. i. 6. 3 trudebantur in paludem ni Caesar, etc. (a very
common form of graphic description in Tacitus = the soldiers were
being crowded into .... but (ni) . . . . i. e., the effect was
partly produced, but was prevented, cf. Sallust Jug. 27. 1 above).
In all these cases, then, I can see no essential alteration in the
function of the tense. The idea "der nicht zu Ende geftihrten
Handlung" is derived in each case wholly from the context and there
is no reason for making a special category of imperfects which happen to
occur in contexts of this kind. Moreover, the meaning of the verb has
often been overlooked, e. g., prohibebant (Caesar B. G. loc. cit.) may
easily, with but slight aid from the context, express "die nicht zu
Ende gefuhrte Handlung;" cf. redimebat, mittebatur, versabat,
etc. Whether the idea of real attempted action ever became
con- nected functionally with the imperfect remains to be
investigated. Certainly this did not occur in early Latin, and I doubt
whether it ever occurred. Among the cases cited by Blase are two
which more closely approximate this idea than any others. These are
Sallust Jug. 29. 3 : sed Jugurtha primo tantummodo belli moram redimebat,
existumans sese aliquid interim Romae pretio aut gratia effecturum;
postea vero quam, etc.; cf. Florus i. 10. 1: reducebat.
Impebfect Indicative in Early Latin 365 It is hard for us to
feel the progressive force as the more promi- nent in such cases. We
regard as more important the attempt which is implied in the context, but
the Romans preferred to rep- resent the act graphically as in progress,
leaving the idea that it was not successful to be inferred. When a Roman
wished clearly to express attempt (real conatus), he chose a clear
conative expression, 1 e. g., conari with infinitive. In strict
accuracy we ought not to speak of a "descriptive" imperfect,
but of the progressive imperfect in description. The term
"descriptive" imperfect would be justified only in case we
could distinguish from the simple progressives those cases in which the
tense is used purely for graphic presentation of actions which might more
naturally have been indicated by the perfect. Such a distinction may
often be drawn, especially after the development of a consciously
artistic style, but the separation would be worth little since the
progressive function is equally characteristic of both. The tense was
chosen for graphic purposes because its pro- gressive function made it the
most vivid of the past tenses. The chief difference between Blase's
treatment here and my own will become evident from a consideration of his
definition (Hist. Syntax) : Aber seiner Hauptverwendung nach
ist das Imperf. im latein. ein Tempus der Schilderung geworden welches
einmal im Nebensatz seine Stelle hat zur Bezeichnung von Zustanden und
Handlungen, die wahrend anderer genannter Zustanden und Handlungen
dauerten, und dann im Hauptsatz bei Schilderungen von Zustanden, Sitten,
Gebrauchen, welche in Beziehung stehen zu irgead einer vorher oder
nachher genannten praeteritalen Handlung. ! This whole
question needs investigation. All the forms of expression of real conatus
should be collected and compared with the tenses as has been done for
"cus- tom" by Miss E. M. Perkins The Expression of Customary
Past Action or State in Early Latin, Bryn Mawr dissertation, 1904.
2 " Reminiscence, reminiscent" are here proposed as equivalents
for the German "Erz&hlung, erz&hlendes, etc.," since
the English "narrative," whether noun or adjective, does not,
as may the German "Erz&hlung," etc., imply an appeal to the
memory or recollection. Blase points out (Kritik, p. 12) that I misunderstood
the Latin equivalents narratio, etc., as employed by Rodenbusch (De
temporum usu Plautino, Strassburg, 1888) who thus translates this
peculiar German "Erzahlung" into Latin. My error may seem
pardonable under the circumstances. 366 Abthub Leslie
Wheeler This elevates the descriptive power of the imperfect to a
higher position than seems to me justified, unless one defines all
cases having the progressive function as descriptive which Blase
evi- dently does not do, for he makes separate categories of the "erzahlendes"
(reminiscent) function and, as has been seen, of the conative, 1 in all
of which he recognizes the nature of the action as progressive.
Again it is to be noted that he speaks of the 'description of
customs,' etc., i. e., he does not regard the use of the imperfect to
indicate customary action as important enough even for a sub- class,
although he makes at least varieties of the reminiscent and conative
uses. I shall take up this point more fully below, 2 merely remarking
here that the cases usually termed customary are fully as peculiar as
those termed by Blase conative and far more numerous, at least in early
Latin. 1 would, then, understand as an imperfect used in
description one which is used in a descriptive passage to present any act
or state vividly to the hearer or reader. What Blase's conception
is, I can not discover. He appears to make a distinction (Kritik,
p. 7) between "Erzahlung" 3 (= here "narrative"?)
and"Schilde- rung" ( — description), e.g., in Plautus Bacch.
258-307, Capt. 497-515, Terence Andr. 48ff., 74-102 — passages which I
had cited as descriptive, 4 he sees "reine Erzahlung, keine
Schilde- rung." On the other hand, in Terence Phorm. 60-135, which
I had also cited, he sees "eine Erzahlung mit einzelnen
Situations- malereien." Without quibbling over our characterization
of the i "Conative" is used in this passage merely as
representing Blase's classification. 2 With regard to Blase's
peculiar distinction between imperfects in dependent and independent
clauses I would remark that in the study of probably two or three
thousand cases of the tense I have never been able to see any essential
difference in function due to the presence of a case in a dependent
clause, cf . Am. Jour. Phil. And certainly customs, etc. ("Sitten,
Gebrauchen") maybe described in a subordinate clause as well as in
an independent clause. sif " Erzahlung " is here used by
Blase in its technical sense as explained on p. 365, note, my objections
are strengthened, for there is certainly no special "appeal to
recollection" in the imperfects of these passages. One might as well say
that the descriptive presents and infinitives (so-called historical) in
the Bacchides passage, etc., are different from the same usages in, say,
Livy, because here the speaker is supposed to be telling of personal
experiences, which is chronologically impossible in Livy's case.
4 Some of the imperfects are primarily customary.
Imperfect Indicative in Early Latin 367 passages in question
let us consider the main point, so far as it can be discerned in Blase's discussion:
that there is to him some difference between the imperfects in the first
group of passages and those in the Phorm. 60-135. With his
characterization of the latter passage I agree, and I had classified the
imperfects in it as imperfects used in description
("Situationsmalereien"). 1 But what is the difference in the
effect of imperfects in this pas- sage and those in the Bacchides or
those, to take a typical passage from Blase's Tempora und Modi, in Caesar
Bell. civ. i. 62. 3 ? I give the essential parts of the three
passages: Phorm. 80 if. : hie Phaedria continuo quandam nactus est
puellulam .... hanc amare coepit . . . . ea serviebat lenoni .... neque
quod daretur quicquam .... restabat aliud nil nisi oculos pascere, ....
nos otiosi operant dabamus 2 .... in quo discebat ludo exadvorsum
ilico tonstrina erat quaedam, etc. Bacch.flf . : dum
circumspecto, atque ego lembun conspicor .... is erat communis cum
hospite et praedonibus .... is ... . nostrae navi insidias dabat. occepi
ego opservare .... interea nostra navis solvitur .... homines remigio
sequi, navem extemplo statuimus .... Caesar Bell. civ. i. 62. 3 (in
which Blase expressly characterizes nun- tiabatur, etc., reperiebat as
" schildernde," cf . Syntax III, p. 147): Caesar .... hue iam
reduxerat rem, ut equites, etsi difficultate, .... fiebat, possent tamen
.... flumen transire, pedites vero ad transeundum impediuntur. sed tamen
eodem fere tempore pons in Hibero prope effectus nuntiabatur, etc.
To me there is no difference between the imperfects in the passages
of the Phormio and Bellum civile, on the one hand, and those of the
Bacchides, Captivi, and Andria on the other. All seem to me to be
progressive imperfects in description, some are also customary (see the
collection) and have been classified under that head as the more
important element. Is it not better to separate such cases as Phorm. 87
operant dabamus, 90 solebamus from the progressive-descriptive types than to
group all together, 3 as is done by Blase?* 1 This term
refers to the imperfects, I suppose, though Blase does not specify
exactly what he means. 2 Primarily customary. 3 Blase
apparently takes a similar view of the frequentative imperfect; cf. Kritik,
p. 7 and see below. 4 In his Kritik, p. 7 Blase attempts to refute
my assertion that the words of Quad- rigarius are not exactly given by
Gellius ix. 11 by pointing to the words of Gellius : ea res
368 Arthur Leslie Wheelek The usage termed by Blase
"erzahlendes," for which I have proposed in English the term
"reminiscent," seems to me to be closely related to the
so-called descriptive imperfect. Blase not only considers this an
important variety {Syn. Ill), but is inclined to regard it as perhaps an
original function. 1 According to his definition {Syn., loc. cit. after
Delbriick) the imperfect is thus used "wenn der Sprechende etwas aus
seiner personlichen Erinnerung mitteilt oder an die personliche
Erinne- rung des Angeredeten appelliert." Both the descriptive
and reminiscent uses, therefore, result from the use of the
progressive function to represent a past act vividly. The reminiscent
effect is due to the fact that in this usage the past acts are restricted
to those which concern the personal experience of the speaker or
hearer; it is a more intimate usage. As clear cases I cite from Blase's
list: Cicero Rep. iii. 43; ergo ubi tyrannus est, ibi non vitiosam, ut
heri dicebam, sed ut nunc ratio cogit, dicendum est plane nullam esse rem
publicam. Here Cicero clearly indicates that he is repeating the
substance of his own words of the day before = " as I was saying
yesterday, let me remind you." 2 So Catullus 30. 7: eheu quid
faciant, die, homines, cuive habeant fidem ? certo tute iubebas animam
tradere, inique, me .... idem nunc retrains te, etc., where the poet
reminds his friend (?) of the latter's advice. In both cases the
progressive force is clear, and, as Blase says, the tenses stand in no
clear temporal relation to any preterite in their context. Now since the
peculiar .... sicpro/ecfoest in libris annalibus memorata. But
profecto refers to the content, not to the exact, words of the passage in
the libri annates. And when Gellius gives a word-for-word citation, he
introduces it by more definite language, cf . ix. 13. 6 verba Q. Olaudii
.... adseripsi. In ix. 11 he is almost certainly paraphrasing, cf. haut
quisquam est. nobilium scriptorum, and in libris annalibus. This is the opinion
of Hertz, who prints this passage in ordinary type. The name of
Quadrigarius is not given, but Gellius was probably taking the substance
of the account from him. I have excluded this passage from the certain
remains of early Latin. iKritik, p. 15: "War die
vorliterarische Periode des Lateinischen ahnlich der des Alt-Indischen
(vgl. Delbruck, p. 272) und des Alt-Griechischen (Brugmann Gr. Or. s , §
539. 2), so haben wir in den Resten des erzahlenden Gebrauchs ebenfalls eine
uralte Verwendung zu sehen;" cf. pp. 49 f. 2 The English
imperfect is employed in the same way, e. g., " The facts are as
fol- lows, as I was saying yesterday," or in vulgar expressions like
" Warn't I tellin' ye?" Usually the time is denned by some
adverb as by heri in Cicero. Notice, too, the contrast between past and
present as expressed in both passages by nunc. Impebfect
Indicative in Early Latin 369 appeal to recollection is the
distinguishing feature of this remi- niscent imperfect, it would seem
proper to confine the usage to those cases in which such an appeal is
clear. Without discussing doubtful cases I content myself with indicating
those found in Blase's lists which seem to me clearly not reminiscent.
Plautus Tri. 400: sed aperiuntur aedes quo ibam 1 (an immediate past
of the interrupted type). In the same category I would place Cicero
Att. i. 10. 2: quod ego etsi mea sponte ante faciebam, eo nunc tamen et
agam studiosius et contendam — -except that here the action of faciebam
is not interrupted, but is continued in the present, cf. agam et
contendam. Other immediate pasts are Ovid Fasti i. 50: qui iam fastus
erit, mane nefastus erat; ibid. 718: si qua parum Komam terra timebat,
amet; ibid. ii. 79: quern modo caelatum stellis Delphina videbas, is
fugiet visus nocte sequente tuos (notice modo) ; ibid. 147: en etiam si
quis Borean horrere solebat, gaudeat; a zephyris mollior aura venit.
Varro R. r. iii. 2. 14: libertus eius, qui apparuit Varroni et me
absente patrono accipiebat, in annos singulos plus quinquagena milia e
villa capere dicebat. Here accipiebat seems simply progressive and (also
against Blase) contemporaneous with vidi just above. dicebat is difficult
and may, as Blase says, be reminiscent ; cf . the exact details given by
the speaker ; or did the phrase in annos singulos influence the choice of
the tense ? So in Cic. Off. i. 108 : erat in L. Crasso, .... multus
lepos; 109 : sunt his alii multi multum dispares .... qui nihil ex
occulto, nihil de insidiis agendum putant ut Sullam et M. Crassum vide-
bamus, the imperfect seems to be progressive used in description. In Ovid
Fast. viii. 331: et pecus antiquus dicebat 'Agonio' sermo, the imperfect
seems to be customary; cf. antiquus and Paulus s. v. Agonium: Agonium
dies appellabatur quo rex hostiam immolabat; hostiam enim antiqui agoniam
vocabant. But however much the interpretation of single cases may
vary, this is clear: the progressive force is discernible in all these
cases. It would be better, therefore, to content ourselves with this and
not to discover an additional appeal to recollection, unless such force
is perfectly clear, since the real imperfect function is not altered
whether the reminiscent force be present or absent. lOf. p.
359. One more remark needs
to be made concerning the remini- scent imperfect. This category has
served as a convenient catch- all for many cases of the imperfect which
are difficult to classify and especially for those in which it is
difficult or impossible to discern any progressive force, many of which I
have classified as aoristic. To classify these last cases as reminiscent
is doubly wrong ; first, because it usually involves a petitio principii,
i. e. , an effort to discover imperfect function because the form
is imperfect; secondly, because the reminiscent coloring is con-
nected only with instances in which the imperfect (progressive) function
is clear. The shadowy appeal to memory does not exist as a separate
function It has already been pointed out that Blase would not
elevate this variety of the progressive imperfect to the dignity of a
sub- class. The tense, however, occurs so often in the expression
of custom, habit, method, etc., that it seems to me worthy of sepa-
ration from other varieties of the progressive. In early Latin I have
counted about 450 instances in which the customary coloring seems tome
the most prominent element (see the table). Blase (Kritik, p. 9)
has objected to my statement ( Am. Jour. Phil.) that verbs whose meaning
implies repe- tition (vocito) or even custom (soleo) are especially well
adapted to the expression of the customary past function. He gives
no reason with regard to the first group, vocito, etc., where the
mean- ing is connected with the form. With regard to soleo, etc.,
he says only that the reciprocal influence of verb-meaning and
tense- function appears "nicht nachweisbar, da doch der
Verfasser selbst ihr seltenes Vorkommen im Imperfekt natiirlich
findet, weil sie in jedem Tempus der Vergangenheit 'the customary
past function' ausdrucken." There appears here to be some mis-
understanding on Blase 's part and perhaps my statement was too brief. I
did not mean by reciprocal influence of verb-meaning and tense-function
that the tense borrows anything, as Blase seems to understand me, from
the meaning of the verb, but that when a verb whose meaning implies
repetition or custom occurs i See p. 378 for further remarks.
Imperfect Indicative in Eaely Latin in the imperfect tense,
the expression of custom becomes especially clear. The meaning of the
verb and the function of the tense are mutually helpful to the expression
of the thought. 1 Verbs like appello, voco, vocito, dico
(="name") imply not merely a single act of naming, but usually
many acts at intervals. 2 There are numerous instances of such verbs in
the imperfect (see the collection) and nothing seems to me to be clearer
than that these verbs are especially well adapted to the expression of
custom — • past, present, or future. If we compare Varro, M. r. i. 17.
2: iique quos obaeratos nostri vocitarunt with id. L. L. v. 162:
ubi cenabant, cenaculum voeitabant, etc., we see that in the first
case the tense merely states, while the verb-meaning, together with
the context, gives the idea of custom or habit; in the second
(voeitabant) the verb- meaning is reinforced by the imperfect tense —
both aid in the expression of custom. This does not mean that a Roman
more often used the imperfect tense of such verbs when he wished to
express custom, but that when the imperfect was used, a clearer
expression of customary past action resulted. 3 As to soleo, consuesco,
etc., the same principle holds, for cus- tom and repetition are
inseparably connected; but since these verbs imply by their meaning the
very function (custom) in question, it is clear that the imperfect tense
would occur more rarely. When, however, the imperfect was used, there
was, just as in vocito, etc., a more emphatic expression of the
customary idea; cf. Phorm. 90: Tonstrina erat quaedam: hie solebamus
fere plerumque earn opperiri .... Here tense, verb, and particles all
lend their aid to the expression of the idea of custom or habit. The same
idea would have been expressed less clearly by hie fere plerumque
opperiebamur, or by hie fere plerumque soliti sumus opperiri, or by hie
opperiebamur. In the last form only does the i Cf . Trans. Am.
Philolog. Ass., where I first expressed this view. That verbs like soleo
"dominate the tense" I no longer believe; they aid the tense,
but it is impossible to say whether the tense or the verb-meaning is more
influential in the total effect. Cf. also Morris, Principles and Methods
in Syntax, 1901, p. 72. 2 If the intervals are very close
together without the implication of custom, I would classify as
frequentative ; see below. 3 Am. Jour. Phil., and the dissertation
of Miss Perkins cited above. tense-form become entirely
dissevered from the influence of verb- meaning and accompanying
particles, and even here context is operative. The progressive function
inherent in all true imperfects renders the tense well fitted to express
repetition in the past. The repeated acts may naturally occur at wider or
narrower intervals, as the case may require. All expressions of custom,
for example, involve an idea of repetition, but it is only to cases of
the imperfect which indi- cate an act as repeated insistently, usually at
intervals very close together, that I would give the title
"frequentative" or "iterative," i. e., imperfects in
which this element of repetition becomes more prominent than any other.
It seems to me that the existence of a few such cases in early Latin is
not fanciful. In Plautus' Captivi: aulas .... omnis confregit nisi quae
modiales erant: cocum percontabatur, possentne seriae fervescere, 2 a
single situation is described wherein the parasite repeatedly and
insist- ently asked, kept asking, whether, etc. There is something
more than mere progressive force, on the one hand, and there is no
idea of habit or custom, on the other. The primary element of the tense
is here repetition. When, therefore, Blase sees in As. 207 ff.
repetition, he is right, for repetition in a general way is present in
all cases of the customary imperfect; but he is wrong in viewing
repetition as the more important element. The more important element
seems to me custom and in accordance with this we ought to classify these
cases as customary. 3 iln a review of Miss Perkins' dissertation
Woch.f. kl. Phil., 1904, cols. 1277-80, Blase has since admitted the
truth of my assertion with regard to the influence of verb-meaning:
"Die Verbalbedeutung ist massgebend z. B.bei alien Verben, die
'nennen,' 'benennen,' bezeichnen, wie appellare dicere vocare, denn der
Name entsteht durch ein gewohnheitsmassiges Nennen. Damit ist der Grand
gegeben (by Miss Perkins) fur eine Behauptung, die ich .... bei Wheeler
bezweifelt habe." 2 Blase (Kritik) misses among my cases Rud.
540, which was nevertheless cited, but escaped him because by a misprint
the imperfect was not italicized. On the same page he cites ten passages
and says that I "hier uberall gewohnheitsmftssige Handlungen
erkenne." This is very inaccurate, unless "hier" refers to the
last two passages, As. 207 ff., Bacch. 424 — the only two of the list
which I have classified as customary. My classification of the other
eight passages may be seen by referring to the collection at the end of
this paper. 3 Blase (Kritik) seems to imply that I have said that
the frequentative imperfect is commoner in later Latin. I have nowhere
said this and my statement, Imperfect Indicative in Early
Latin 373 the aoristic imperfect Excessive deference to the
principle that a difference of form implies a difference of meaning and
the well-known tendency of investigators to abhor an exception are
chiefly responsible for the unwillingness of some scholars to admit that
the imperfect occurs in Latin with no progressive force, i. e., as an
aorist. While I can not pretend to criticize this method as applied to
Sanskrit and Greek by Delbruck, 1 it seems to me that there are reasons
against its application, in the same degree at least, to Latin. The
situa- tion in early Latin differs essentially from that in Sanskrit and
in Greek. In the first place there is no 'great mass' 2 of cases of
the imperfect in which real progressive force is not discernible,
and the cases (about sixty) are restricted almost entirely to two
verbs, aibam and eram. This seems to indicate that the phenomenon
arose on Latin ground alone and has its explanation in some peculiarity
of the few verbs concerned. Again the greater wealth of tenses in
Sanskrit and Greek would lead us a priori to expect Am. Jour. Phil,
"Latin seems .... to have been unwilling to take that step,"
implies the opposite belief. When I added (ibid., p. 187), " If the
fre- quentative imperfect in early Latin is still in its infancy,
etc.," it was naturally not implied that it ever passed out of its
infancy ! The facts in later Latin are not known because they are not
collected. Wimmerer naturally repeats from Blase's Kritik both these
errors ( Wien. Stud., 1905, p. 263). He, too, is of the opinion that it is of
no ad- vantage to separate so-called iterative imperfects from those of
customary nature: " wenn doch in jedem Falle erst auf Grund des
gewahlten Tempus aus dem Zusam- menhange erkannt wird, dass es sich um
eine Gewohnheit handelt." To this it must be answered, first, that
it is by no means always, and often not at all, on the basis of the tense
that we recognize the presence of customary action. Such action may be
expressed in many ways, the tense being but one element ; and, secondly, if the
cases interpreted by me as frequentative are really essentially different
from any other variety of the progressive, then they should be classified
separately, at least until it can be proved that they belong
elsewhere. 1 It will suffice to quote two of Delbruck's statements.
He says of the Greek tenses : "Man muss sich eben mit der Erwagung
begnugen, dass es einem Schriftsteller bald gut schien, zu konstatieren,
bald zu erzahlen, ohne dass wir uns seine Motive immer klar machen
konnten" (Vergl. Syn. II, p. 304, cf. pp. 302, 303). A saner. method
is evinced ibid.: " Den Unterschied zwischen Perfekt und Imperfekt
(of Sanskrit) in den einzelnen Stellen nachzuweisen, sind wir nicht mehr
im Stande." This is at least safe agnosticism, biding its time until
the lost distinctions shall be found. Blase is in entire agreement even
as regards Latin with the first statement of Delbrflck, cf . Kritik, p.
12. 2 Delbruck (ibid., p. 304, of Greek) : "Aber .... bleibt
doch auch eine grosse Menge von Stellen ubrig, bei denen wir einen Grund
fur die Wahl des Tempus nicht ausfindig machen konnen."
374 Arthur Leslie Wheeler in those languages a larger number
of instances in which it is hard to differentiate similar tenses, whereas
the much narrower tense-system of Latin exhibits a tendency to merge the
functions of similar tenses, cf. the perfect in -v- with the reduplicated
per- fect and the formally aoristic perfect in -s-. In accordance
with this preliterary development we should expect indications of
the same tendency in the literary period. The aoristic imperfect
is, I believe, an illustration of this tendency, resulting from the
merging of the functions of imperfect and preterite (aorist) in certain
verbs. The restricted range of the phenomenon and its probable
explanation (see below) would make it unlikely that we are here dealing
with a survival of an Indo-European confusion. As illustrations of
the aoristic usage I will cite : Plautus Poen. 1069 : nam mihi sobrina
Ampsigura tua mater fuit (cf. fecit), pater tuos is erat frater patruelis
meus. Here there seems to be no difference between erat and fuit. Ibid.
900: et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere: ingenuos
Carthagine aibat esse, where aibat and dixit seem to be equivalent. For
other cases see the collection. It is quite possible that
others may be able to detect true im- perfect force in some of the cases
which I have classified as aoristic. Blase, though not quite certain of
his own classification, has con- vinced me that I may have been wrong
with regard to Varro H. r. ii. 4. 11: in Hispania ulteriore in Lusitania
.... sus cum esset occisus, Atilius Hispaniensis minime mendax ....
dicebat .... L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duobus
costis, etc. There are so many exact details here that we suspect
Scrofa of reminiscing. So possibly Varro ibid. iii. 17. 4 dice- bat. 1
But though perhaps a dozen 2 cases might be taken from the total of those
which seem to me aoristic, enough remain to establish this category on a
firm basis. The exact process by which the progressive function
became lost can not, of course, be proved. I have suggested (Am.
Jour. Phil.) that it is a weakening due to the constant
'Blase is quite right (Kritik, p. 11) in classifying As. 208 aibas as
customary. I neglected to exclude this from four cases cited from
Rodenbusch. It was classified on my own slips as customary. 2
1 have indicated in the collection those which seem to me questionable.
Imperfect Indicative in Early Latin 375 use of certain
verbs in ever-recurring similar contexts, until in the case of aibam the originally
graphic ' force was used out of the form and aibam became a mere tag to
indicate an indirect discourse. 2 With eram the vagueness of the
verb-meaning and the frequency of its occurrence side by side with fui
were the chief influences. In contexts where there are many other
imper- fects all of a definite time, these usually colorless verbs
naturally take the prevailing color 3 of the context; cf. As. 208
aibas. In his "Tempora und Modi" (Syn. Ill, p. 145) Blase
expresses his belief that an aoristic imperfect as accepted by Luebbert
and J. Schneider has been proven not to exist by E. Hoffmann (Zeit-
partikeln 2 , pp. 181 ff . ) . But neither Luebbert nor Schneider seems
absolutely to have believed in an aoristic usage. 4 Luebbert says (Quom,
pp. 156 ff.) that in Men. 1145 and 1136 ff. we find aoris- tic perfect
and the imperfect, etc. "promiscue gebraucht da der Unterschied
zwischen beiden gering war." "Grering" indicates that
there was to him some difference, even though it was slight. Schneider's
statements are not consistent. In his De temporum apud priscos scriptores
latinos usu quaestiones selectae, Glatz, he says correctly that in many cases
no difference can be seen between aibat and dixit, and that "aibat
aoristi munere fungi," but he adds that the imperfect represents an
act as "infectam ideoque aliter intellegendam acsi perfectam."
Hoff- mann's supposed refutation is very weak. In the first place
he 1 If originally reminiscent, the explanation is the same ; for
the reminiscent usage is due to the speaker's effort to represent a past
act graphically. 2 Cf. Am. Jour. Phil., where it is stated that the
indirect discourse is always present or implied (rarely) with aibam.
Occasionally the object is represented by a pronoun. Bacch. 982: quid
ait?, Capt. 676: ira vosmet aiebatis itaque, etc. 8 Cf. Blase
(Kritik, p. 11): "wo aibam mitten zwischen Imperfekta der wieder-
holten oder gewohnheitsmassigen Handlung steht und unmdglich anders gef asst
werden kann." 4 But cf. O. Seyffert in Bursian's
Jahresb.: " Das Imperf. findet sich. bekanntlich bei den Scenikern
mehrfach in einem so geringen Bedeutungsunterschiede vom Perf . und
bisweilen unmittelbar neben demselben, dass man ohne wesentliche Anderung
des Sinnes und oft auch unbeschadet des Metrums (Rud. 543, Capt. 717) das
eine Tempus f iir das andere einsetzen kann. Es zeigt sich dies besonders bei
den verba dicendi; das Imperf. von aio vertritt ja geradezu das fehlende
Perfect;" cf. ibid. LjXXX, p. 336, where Seyffert repeats the statement
that aibat, e. g., Ps. 1083, represents the lost perfect of aio. In Am.
Jour. Phil. I had overlooked this
remarkable anticipation of my own conclusions. confuses different
uses of the tense, asserting, for example, that in Plautus Tri. 400:
aedes quo ibam, etc., the imperfect is wholly analogous to that in
Tacitus Ann. ii. 34: simul curiam relinquebat. commotus est Tiberius,
etc. ; cf. iv. 43 sequebatur Vibius Crispus, donee, etc., and that in the
last two cases the imperfect jars on us because such an action is not
usually presented "in der Phase ihres Vollzugs." Such an
application of the tense may seem strange to a German, but to one who
speaks English, it is entirely natural and could not for a moment be
mistaken for anything but a simple progressive imperfect. To refute such
a usage as a supposed aorist is to knock down a man of straw. The
supposed analogy of these cases to Tri. 400 does not bear on the point,
but it may be remarked that ibam is analogous only in the fact that its
action is progressive and interrupted, but it belongs to the immediate
past type. 1 Hoffmann then cites ten cases of aibat, six of which
may be taken aoristically, and asserts that the tense is in all
used "in voller Gesetzmassigkeit." This assertion rests on
entirely inadequate foundation. 2 the shifted imperfect
Blase seems right in restricting the 'shifted' imperfect to one class
(Kritik) = an imperfect subjunctive with present meaning; for, as he
says, there is no real shifting if the preterital sense remains. But when
he adds 3 that "ein sicherer derartiger Fall ist weder bei Plautus
und Terenz, noch sonst im Altlatein vorhanden," I can not agree. He
accepts as cases of shifting Varro, L. L. viii. 65: sic Graeci nostra
senis casibus .... dicere debebant, quod cum non faciunt, non est
analogia, and ix. 85: si esset denarii in recto casu .... tunc in
patrico denariorum dici oportebat, and ix. 23: si enim usquequaque
esset analogia, turn sequebatur, ut in his verbis quoque non esset,
non, 2 J. Ley Vergilianar. quaestion. specimen prius de
temporum usu, Saarbriicken, 1877, apparently believes that eram and fui
in Vergil are so nearly equivalent that metrical convenience often
decided between them ; cf . Blase Syn. Ill, p. 164 Anm. I have not seen
this dissertation, but the explanation is, on its face, insufficient.
S0f. his Syntax: " Der Indikativ des Imperfekts hat erst seit Beginn
der klassischen Zeit eine allmahliche Verschiebung aus der Sphfire der
Vergangenheit in die der Gegenwart erfahren."
Imperfect Indicative in Eably Latin 377 cum esset
usquequaque, ut est, non esse in verbis. If these are real cases of
shifting, how do the following differ ? Plautus Merc. 983 e : temperare
istac aetate istis decet ted artibus .... vacnom esse istac ted aetate
his decebat noxiis. itidem at tem- pus anni, aetate alia aliud factum
convenit; Mil. 755: insanivisti hercle (perf. def.): nam idem hoc
hominibus sa/[a] era[n]t decern; ibid. 911: bonus vatis poteras esse: nam
quae sunt futura dicis. 1 If the passages from Varro move in the
present (Blase Kritik, pp. 13, 14), the same is true here; cf. Auct.
ad Herenn. ii. 22. 34: satis eratjiv. 41. 53 infimae (infirmae?) erant.
2 That Varro L. L. viii. 74 oportebat stands "zwischen zwei
Per- fekten" (Blase) is accidental. 3 This peculiar
shifting was explained by me Am. Jour. Phil. as due to the unreal
(contrary-to-fact) idea present in the context or in the meaning of the
verb (oportebat, etc.) or in both ; cf. Blase (Syn. Ill, p. 149) who also
calls attention to the auxiliary character 4 of the verbs involved and
thinks that the shifting began with verbs of possibility and necessity
which seems a probable view. In conclusion a few words are
necessary with regard to some general aspects of the subject and its
method of treatment. The original function or functions 5 of the
imperfect can not, of course, be certainly inferred from a syntactical
investigation of material which is relatively so late even with the aid
of etymology and comparative philology. My statement (loc. cit., p. 184)
that the progressive function was probably original was therefore
intended i Cf. Rud. 269 aequius erat, True. 511 poterat, Aul. 424.
For the other eases see collection. 2 But not iv. 16. 23,
which I now see is not shifted. 8 And both are cases of debuerunt!
In his Kritik, p. 13, Blase denies my assertion (loc. cit., p. 181, n.
1), that the perfect indie, and the perfect infin. of these verbs are
shifted in Varro, cf . L. L. viii. 72-74 ; viii. 48 ; viii. 50 ; viii. 61, 66.
I am glad to find my view supported by Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 264
: " Denn da der Grund der Ver- schiebung hier vor allem in der
Bedeutung der Verba liegt, so kann konsequenterweise ebenso gut ein
debuit wie ein debebat verschoben werden." «Cf. Am. Jour.
Phil. XXIV, p. 190. 6 It is uncertain whether the original meaning
of the tense was vague, admitting several uses which gradually became
narrowed to one (the progressive), or whether there was one original
meaning which split into several related uses. The facts seem to point to
the second alternative. 378 Arthur Leslie Wheeler
only as a probability based upon the existence of this force in
nearly all the cases and upon the generally accepted etymology of the
imperfect form. But nothing like proof was claimed for this theory. Blase
is inclined, following Delbrtick and Brugmann, to regard the reminiscent
usage also as an original one (cf. p. 26, n. 2), but he rightly says that
no statistics can prove which of these two is earlier. If my view that
the reminiscent usage is rather an application of the progressive than
itself a separate function is correct, then the progressive is older. The
existence of the reminiscent imperfect in Sanskrit and Greek
certainly makes it very probable, as Blase says, that it existed in
preliterary Latin also. If this is so, I am inclined to refer it to the
same general origin as the so-called descriptive imperfect — to the
effort to present a past act (here a personal experience) vividly.
1 But the search for original meanings must ever remain
within the realm of theory; nor can we hope even theoretically to
reach any considerable degree of probability in the establishment
of such meanings without the most careful collection and
classifica- tion of the facts within the period of written speech. And
this should precede the appeal to etymology and comparative phi-
lology. What is actually found in any given language, not what according
to comparative philology ought to be found, should be our first aim.
Although I would not minimize the importance in syntactical study of the
comparative method, it seems to me prop- erly applied only as a
supplement, not as the controlling factor to which all else is
subordinated. Indeed, a premature appeal to comparative philology may
result in premature conclusions, for an investigator whose head is filled
with preconceived notions drawn from Sanskrit and Greek is all too apt to
imagine peculi- arities in Latin phenomena which he would not have
perceived at all, had he approached by a Latin route alone; and
such peculiarities have little value unless they can be recognized
as Latin without foreign assistance. Once recognized they may, and
often do, receive much additional light from comparative philology. While
it is true, then, that scholars will differ with •Cf. Am. Jour.
Phil., where it was surmised that the descrip- tive application of the
tense was Indo-European. Imperfect Indicative in Early Latin
379 regard to a few cases' in any given syntactical phenomenon
and the ultimate classification must not neglect the aid of
comparative philology, yet the chief basis of investigation is agreement
among scholars with regard to the great majority of such cases
viewed as purely Latin phenomena. If this agreement is lacking,
comparative philology can rarely bring reliability to the results. The
statistical table shows that this investigation is based upon a
collection of 1,223 imperfects. It has been my aim to exclude from
consideration (and from the table) all passages of dubious authorship,
corrupt text, or insufficient context. About 170 cases have thus been
excluded, a seemingly large proportion, but it must be remembered that
much of the literature of the third and second centuries before Christ is
fragmentary and very often there is not enough context to render
classification at all certain. In so large a body of text it is probable
that some cases have escaped my notice, but most of the ground has been
examined at least twice and such omissions can hardly be numerous or
alter essentially the results. I have subjected the material to a
careful revision and the table differs slightly from that published
in Am. Jour. Phil. It would seem unnecessary nowadays for any
syntactical scholar to state that he lays no stress on statistics as
such, but when a reviewer 2 attributes to me the conviction that I
have proved this and that by just so many exact figures, it seems
proper for me to disclaim any such conviction. The fact that exact
figures do not in themselves mean anything does not, however, excuse one
from being as exact as possible. iCf. Wimmerer Wien. Stud.:
"die syntaktischen Einzeltatsachen sind viel zu sehr umstritten als
dass auf sie allein eine brauchbare Klassiflkation und Erkl&rung der
Arten eines einigermassen verzweigten syntaktischen Gebrauches gesttizt
werden kdnnte." With this I agree, except possibly as to what is a
"brauch- bare Klassiflkation," but when he says (p. 61), with
reference to my inference that the progressive function is original:
"Den Begriff aber hat die vergleichende Sprach- wissenschaft langst
festgestellt," I would suggest that such a conclusion could not be
regarded as 'firmly established' except with several investigations like mine
as chief ies. 2 In Archiv.f. lat. Lex. und Gk. XIV, p.
289. 380 Abthuk Leslie Wheelee The method of
citation adopted in the collection will doubtless seem to many
inadequate. It is especially true, however, of the classification of
tense functions, that very often a large body of context must be taken
into consideration. For this reason very many of the citations even in
Blase's "Tempora und Modi" are quite useless and misleading
because of their brevity. It seemed best, therefore, to cite as fully as
possible in the body of the article, but in the collection to cite only
each form and the place of its occurrence. Those who are interested in
examining a given usage in detail will in any case revert to the complete
context, as I know by experience. I. Progressive Imperfect A.
Simple Types, including imperfects in description, reminiscence, and the
"immediate" past variety. Plautus, ed. Goetz and Schoell, ed.
minor, Lipsiae, 1892-96. Amph. prol. 22 scibat; 199 pugnabant ....
fugiebam; 251 com- plectabantur;
aiebas; 385 sci[e]bam; 429erat; 597 credebam; 603 stabam;
711 solebas; 1027 censebas; 1067 confulgebant; 1095 rebamur; 1096
confulgebant. 14 As. 300 scibam; 315 mirabar; 385 censebam; 392
volebam; 395 volebas; 452 volebam; 486 volebas; 888 suppilabat; 889
suspi- cabar .... eruciabam; 927 ingerebas .... eram; 931
dissua- debam. 13 Aul. 178 praesagibat .... exibam; 179
abibam; poterat; 376 erat;
424 aequom .... erat; 427 erat; 550 meditabar; 625 radebat ....
croccibat; 667 censebam expectabam .... abstrudebat; 754 scibas;
827 apparabas. 15 Bacch. 18 (frag, x) erat; 189 volebam; 282 erat
dabat; 297 dabant; 342 censebam; 563 erat; 675 sumebas; 676
nescibas; 683 suspicabar; 788 orabat restabant; 983
auscultabat .... loquebar. 14 Capt. 273 erat; 491
obambulabant; 504 eminebam; 561 aibat; 654 assimulabat; 407
audebas; 913 frendebat. 7 Cas. 178 ibam; 279 aiebat; 356 rebar; 432
trepidabant .... fes- tinabat; 433 subsultabat; 532 erat; 578 praestolabar;
594 ibam; 674 volebam; 702 volebam; 882 erant erat .... erat
.... erat. Cist. 153 poteram; 187 exponebat; 566 perducebam; 569
adiura- bat; 607 ai[e]bas properabas; 721 rogabat; 723
quaeritabas; 759 quaeritabam. 9 Cure. 390 quaerebam;
541 credebam. 2 Imperfect Indicative in Early Latin
381 Epid. 48 amabat; 98 solebas; 138 desipiebam ; .... mittebam;
214 occurrebant; 215 captabant; 216 habebant; 218 ibant; 221 prae-
stolabatur; 238 dissimulabam ; 239 exaudibam .... fallebar; 241 ibat; 409
apparabat; 420 adsimulabam; 421 me faciebam. 482 deperibat; 587 vocabas;
603 dicebant; 612 aderat. 20 Men. 29 erant; 59 erat; 63 ibant; 195
amabas .... oportebat; 420 advorsabar; .... metuebam; 493 eram; 564
ferebat; 605 censebas; 633 negabas; 634 negabas .... ai[e]bas; 636
cense- bas; 729 negabas; 773, 774 suspicabar; 936aiebat;
1042ai[e]bat; 1046 aiebant; 1052 ferebant; 1053 clamabas; 1072
censebam; 1116 cadebant; 1120 eramus; 1135 erat .... vocabat; 1136
censebat; 1145 vocabat. 28 Merc. 43 abibat; 45 rapiebat; 175
quaerebas; 190 abstrudebas; 191 eramus; 197 censebam; 212 credebat; 247
cruciabar; 360 habebam; 754 obsonabas; 815 censebam; 845 erat ....
quae- ritabam; 884 ibas; 981 ibat. 15 Miles 54 erant; 100
amabant; 111 amabat; 181 exibam .... erat; 320 ai[e]bas; 463
dissimulabat; 507 osculabatur; 835 cale- bat .... amburebat; 853 erat;
854 erat; 1135 exoptabam; 1323 eram .... eram; 1336 temptabam; 1140 erat;
1430 habebat. 18 Most. 210 quaerebas; 221 su<b>blandiebar;
257 erat; 787 erat; 806 aiebat; 961 faciebat. 6 Persa 59
poterat; 171 censebam; 257 somniabam .... opinabar; .... censebam; 262
erant; 301 cupiebam; 415 censebam; 477 credebam; 493 occultabam; 626
pavebam; 686 metuebas. 12 Poen. 391 dicebas; 458 sat erat; 485
accidebant; 509 scibam; 525 properabas; 748 dicebant; 899 vendebat; 1178
aderat; 1179 complebat; 1180 erat; 1231 volebam; 1391 expectabam.
12 Pseud. 286 amabas; 421 subolebat; 422 dissimulabam; 492
nole- bam; 499 scibam; 500 scibas; 501 mussitabas .... scibam; 502
aderat .... aberat; 503 erat .... era<n>t; 677 habebam; 698
arbitrabare; 718 ferebat; 719 accersebat; 799 conducebas .... erat; 800
sedebas .... eras; 912 circumspectabam .... metuebam; 957 censebam; 1314
negabas. 24 Kud. 49 erat; 52 erant; 58 erat; 222 oblectabam; 307
exibat; 324 suspicabar; 378 scibatis; 379 amabat; 452 censebam; 519
age- bam; 542 aiebas; 543 postulabas; 600 quibat; 841 erat; 846
sedebant; 956a faciebat; 9566 fiebat; 1080 aiebas; 1123 pete- bas; 1186
credebam; 1251 monstrabant; 1252 ibant; 1253 erat; 1308 erat. 24
Stich. 130placebat; 244praedicabas; 328 visebam; 329 miserebat; 365
superabat; 390 negabam; 540 erant; 542 erant; 543 erat; 545 erant; 559
postulabat. 11 382 Arthur Leslie Wheeler Trin.
195 volebam; 212 aiebant;.400 ibam; 657 scibam .... quibam; 901 erat ....
gerebat; 910 vorsabatur; 927 latitabat; 976 eras; 1092 agebat; 1100
effodiebam. 12 True. 164 vivebas; 186 cupiebat; 198 lavabat; 201
celebat metue- batque; 332 dicebam; 333 revocabas; 648 debebat; 719
eras; 733 dabas; 748 volebas; 757 aibas; 813 erat .... valebat ....
petebat; 921 ibat. 16 Vid. 71 miserebat; 98 piscabar. 2
Fragmenta fabb. cert. 86 sororiabant; 87 fraterculabant. 2
Plautus, IA, Total 291 Terence, ed. Dziatzko, 1884. Ad.
78 agebam; 91 amabat; 151 taedebat; 152 sperabam; 153 gaudebam; 234 eras;
274 pudebat; 307 instabat; 332 iurabat; 333 dicebat; 461 quaerebam; 561
aibas; 567 audebam; 642 mirabar; 693 credebas; 809 tollebas; 810 putabas;
821 ibam; 901 eras. 19 And. 54 prohibebant; 59 studebat; 60
gaudebam; 62 erat; 63 erat; 74 agebat; 80 amabant; 86 erat; 88 amabant;
90 gaude- bam; 92 putabam; 96 placebat; 107 amabant .... aderat;
108 curabat; 110 cogitabam; 113 putabam; 118 aderant; 122 erat; 175
mirabar; 176 verebar; 435 expectabam; 490 imperabat; 533 quaerebam; 534
aibant; 545 dabam; 580 ibam; 656 adpar- abantur; 657 postulabat; 792
poterat; exit, suppositic. I expec- tabam. 31 Eun. 86 eras;
87 stabas .... ibas; 97 erat; 112 dicebat; 113 scibat .... erat; 114
addebat; 118 credebant; 119 habebam; 122 eras; 155 nescibam; 310
congerebam; 323 stomachabar; 338 volebam; 345 erat; 372 dicebas; 378
iocabar; 423 erat; 432 ade- rant; 433'metuebant; 514 erat; 533 orabant;
569 erat; 574 cupi- ebam; 584 inerat; 587 gaudebat; 606 simulabar; 620
faciebat .... cupiebat; 621 erat; 681 erat; 727 adcubabam; 736 erat
.... nescibam; 743 expectabam; 841 erant; 928 amabant; 1000 quaerebat;
1004 scibam; 1013paenitebat; 1065 quaerebam; 1089 ignorabat. 43
Heaut. 127 faciebant; 200 erat; 201 erat; 256 volebam; 260 can ta-
bat; 293 nebat; 294 erat .... texebat; 308 scibam; 366 tracta- bat; 445
erat .... erant; 536 oportebat; 629 erat; 758 opta- bam; 781 dicebam;
785credebam; 844 quaerebam; 907 videbat; 924 aiebas; 960 aiebas; 966
erat. 22 Hec. pro. II. 16 scibam; 91 eram; 94 licebat; 115 amabat;
162 erat; 172 redibat; 178 conveniebat; 230 erant; 283 eram; 322
poteram; 340 eras; 374 dabat; 375 monebat .... poterat; 422 expectabam;
455 agebam; 498 orabam; 538 negabas; 561 aderam; 581 rebar; 651
optabamus; 713 credebam; 806 pudebat. 23 Imperfect
Indicative in Eaely Latin 383 Phorm. 36 erat; 51 conabar; 69 erat
.... supererat; 83 servi- ebat; 85 restabat; 88 discebat; 89 erat;
97 erat? 99aderat; 105 aderat; 109 amabat; 118 cupiebat ....
metuebat; 298 duce bat; 299 deerat; 355 agebam; 365 habebat; 468
erant; 472 quae- rebam; 480 aibat; 490 mirabar; 529 scibat; 570
manebat; 573 commorabare; 582 scibam; 595gaudebat .... laudabat
.... quaerebat; 596 gratias agebat; 614 agebam; 642 insanibat;
652 ven<i>bat; 654 opus erat; 759 volebam .... volebam;
760daba- mus operam; 797 sat erat; 858 aderas .... aderam; 900
iba- mus; 902 ibatis; 929 dabat; 945 eras; 1012 erant; 1013
erat; 1023 erat. 47 Terence, I A, Total 185 Cato
ed. Jordan, Lipsiae, 1860. p. 36. 2 sedebant .... lacessebamur.
Total 2 Dramatic and epic fragments. Naevius. Bell, pun., ed.
Mueller, 1884. 5 immolabat; 7 exibant; 12 exibant; 65
inerant. tabular, fragmenta, ed. Ribbeck 3 , 1897-98. I
p. 16 IV habebat .... erat; p. 322 II proveniebant. II p. 30 VII
faciebant .... tintinnabant. 9 Ennius, ed. Vahlen 2 , 1903.
Annal. 28 premebat; 41 videbar; 43 stabilibat; 82 certabant; 87
expectabat; 87 tenebat; 138 mandebat; 139 condebat; 147 volabat; 190
sonabat; 202 solebat; 216 erat; 307 vivebant; 307 agitabant; 309
explebant .... replebant; 343 aspectabat; 408 sollicitabant; 459
parabant; 497 fremebat; 555 cernebant. 21 Scenica. 15 eiciebantur; 123
erat; 127 inibat; 251 petebant; 324 scibas. Saturar. 65
adstabat. Varia. 45 videbar; 64 ibant. 8 Pacuvius, ed.
Ribbeck 3 1, p. 65 XVI conabar. 1 Accius, ed. Ribbeck 3 , p. 162 V
ostentabat; p. 162 VII scibam; p. 165 VI expectabat; p. 205 X erat;
p. 210 XII commiserebam .... miserebar; p. 213 XX educabant; p. 251
XIII mollibat. 8 Incert. p. 273 V ecsacrificabat; p. 282 XXXII
hortabar; p. 285 XLV scibam; p. 304 CI expetebant. 4
Turpilius, ed. Ribbeck 3 II, p. 101 II nescibam; p. 107 V sperebam;
p. 120 X videbar. 3 Titinius, ed. Ribbeck 3 II, p. 168 II
aibat. 1 Afranius, ed. Ribbeck 3 II, p. 215 VI hortabatur; p. 217
XII sup- ponebas. 2 Pomponius, ed. Ribbeck 3 II, p. 303
II cubabat. 1 Incert., ed. Ribbeck 3 II, p. 137 XXIV ferebat
simulabat. 2 Dramatic and Epic Fragments, IA, Total 60
384 Arthur Leslie Wheeler Historicorum fragm., ed. Peter,
1883. p. 70. 9 nesciebant; 72. 23 erant; 72. 27 cymbalissabat; 72.
27 can- tabat; 73. 37 mirabantur .... reddebat; 83. 27 apparebat
.... habebat .... sedebant; 94. 13 erat; 110. 7 habebat; 136. 5
erant; 137. 8 concedebat; 137. 8 praecellebat; 137. 10 b antista- bat;
138. 10 audebat; 138. 11 licebat; 141. 29 erant; 142. 37 erant; 143. 46
captabat; 145. 57 erat .... erat .... sciebant .... apparebat; 149. 81
mirabantur; 150. 85 sauciabantur .... opus erat .... defendebant; 178. 8
erat .... tegebat; 178. 9 pot- erat; 179. 23 indigebat; 184. 79 sciebat;
184. 86 erat. I A, Total 34 Orator, fragm., ed Meyer, Turici,
1842. p. 192 narrabat .... poteram; p. 231 existimabam ....
arbitra- bar .... stabant .... erant; 236 ferebantur ....
lavabantur. I A, Total 8 Lucilius, ed. Marx, 1904. 393
stabat; 394 obiciebat; 479 erat; 531 serebat; 534 ibat; 1108 gemebat;
1142 ibat (not in Mueller's ed.); 1174 volebat; 1175 ducebant; 1187
haerebat; 1207 premebat. I A, Total 11 Auctor ad Herennium,
ed. C. L. Kayser, 1854. G. Friederich's text in C. F. W. Mueller's
Cicero, Vol. I, has been compared throughout. 1. 1. 1 intelligebamus ....
attinebant .... videbantur; 1. 10. 16 postulabat; 1.12. 21 erat; 1. 13.
23 defendebant .... erant; 2. 1. 2 existimabamus .... ostendebatur; 2. 2.
2 videbatur; 2. 5. 8 faciebat; 2. 19. 28 volebat .... metuebat ....
videbat .... sperabat .... verebatur .... hortabatur .... remove-
bat; 2. 21. 33 erant .... habebat; 3. 1. 1 pertinebant .... erant ....
videbantur; 3. 15. 26 demonstrabatur; 4. 9. 13 pote- rant .... videbant;
4. 12. 18 inpendebant; 4. 13. 19 ingenio- sus erat, doctus erat, ....
amicus erat; 4. 14. 20 erat; 4. 15. 22 removebas .... abalienabas; 4. 16.
23 damnabant .... ini- quom erat; 4. 18. 25 erant .... poterant; 4. 19.
26 proderas .... laedebas .... proderas .... laedebas .... consule-
bas; 4. 20. 27 oppetebat .... comparabat; 4. 24. 33 putabas; 4. 24. 34
habebamus .... habebam .... erat .... obside- bamur .... videbar; 4. 33.
44 adsequebatur .... profluebat .... erat; 4. 33. 45 pulsabat ....
ducebat; 4. 34. 46 videban- tur; 4. 37. 49 erat .... oppugnabat; 4. 41.
53 veniebat .... occidebatur; 4. 49. 62 inibat; 4. 55. 68 faciebat.
I A, Total 62 Corpus Inscr. Lat., Vol. I. 201. 6 animum ....
indoucebamus .... scibamus .... arbi- trabamur. I A, Total
3 Imperfect Indicative in Early Latin 385 Varro,
De lingua Lat., ed. Spengel, 1885. 5. 9 videbatur; 5. lOOerat; 5.
128erat; 5. 147 pertinebat; 7. 39erat; 7. 73 erant; 8. 20 erant; 8. 59
erant. 8 De re rust., ed Keil, 1889, 1. 2. 25 ignorabat
.... despiciebat; 1. 13. 6 habebat; 2. 11. 12 ibam; 3.2. lstudebamus; 3.
2. 2sedebat; 3. 13. 2erat .... dice- bat .... erat .... cenabamus; 3. 5.
18 dicebatur; 3. 16. 3 erat; 3. 17. 1 sciebamus; 3. 17. 9 ardebat.
14 Sat. Menipp., ed. Kiese, 1865, p. 198, 1. 1 regnabat; p. 223, 1.
9 findebat. 2 I A, Total 24 Grand Total, I A,
680 B. Imperfect of Customary Action. Plautus
As. 142 habebas; 143 oblectabas; 207 arridebant .... veniebam;
208 ai[e]bas; 210 eratis .... erant; 211 adhaerebatis; 212 faci-
ebatis .... nolebam; 213 fugiebatis .... audebatis; 341 sub-
vectabant. 13 Aul. 114 salutabant; 499 erant. 2
Bacch. 421 erat .... eras; 424 accersebatur; 425perhibebantur;
429 exercebant ; 430 extendebant ; 438 capiebat ; 439 desinebat. 8
Capt. 244 imperitabam; 474 erat; 482 solebam. 3 Cist. 19
dabat .... infuscabat; 162 habitabat. 3 Epid. 135 amabam. 1
Men. 20 dabat; 484 dicebam; 715praedicabant; 716 faciebat; 717
ingerebat; 1118 eratis; 1119 eratis; 1122 eratis .... erat; 1123
vocabant; 1131 erat. 11 Merc. 217 credebat. 1
Miles 15 erat; 61 rogitabant; 99 erat; 848 erat; 849 imperabat
.... promebam; 850 sisteba<h>t; 852cassaba<n>t; 855 a com
- plebatur; 856 bacc<h>abatur .... cassabant. 11
Most. 150 erat; 153 victitabam; 154 eram; 155 expetebant; 731
erat. 5 Persa 649 amabant; 824 faciebat; 826 faciebat.
3 Poen. 478 praesternebant; 481 indebant; 486 necabam. 3
Pseud. eram; 1180 ibat .... ibat; 1181 conveniebatur. 4 Rud.
389 habebat .... habebat; 745 erant; 1226 memorabam. Stich. 185
utebantur. 1 Triu. 503 erat; 504 dicebat. 2 True. 81
memorabat; 162 habebam; 217 habebat; 381 sordeba- mus; 393 habebat;
596 erat. 6 Pragmenta fabb. cert. 24 erat; 26 monebat .... erat.
3 I B, Total 84 386 Arthur Leslie Wheeler
Terence Adel. 345 erat. 1 And. 38 servibas; 83
observabam; 84 rogitabam; 87 dicebant; 90 quaerebam ....
comperiebam; 107 habitabat; 109 conla- crumabat. 8 Eun.
398 agebat sc. gratias; 405 volebat; 407 abducebat. 3 Heaut. 102
accusabam; 110 operam dabam; 988 indulgebant .... dabant. 4
Hec. 60 iurabat; 157 ibat; 294 habebam; 426 impellebant; 804
accedebam; 805 negabant. 6 Phorm. operam dabamus; 90 solebamus; 363 erat; 364
con tinebat; 366 narrabat; 790 capiebant. 6 I B, Total
28 Cato, De agr., ed. Keil, 1895, and fragmenta, ed. Jordan,
1860. 1. 2 laudabant .... laudabant; 1. 3 existimabatur ....
laudabatur. Jordan, p. 37. 20 capiebam; p. 39. 8veniebant ....
deverte- bantur; 64. 2 dabant; 82. 10putabant(?); 82. habebatur
.... laudabatur; 83.1 mos erat .... erat; 83. 2emebant; 83. 3 erat
.... studebat .... adplicabat; 83. 4 vocabatur. I B, Total 18
Dramatic and epic. Ennius, Ann. 214 canebant; 371 ponebat.
Scenica 355 suppetebat. 3 Incert. Ribbeck 3 1, p. 287 I
aspectabant .... obvertebant. 2 Turpilius, Ribbeck 3 II, p. 101 V
flabat .... erat. 2 I B, Total 7 Historicor.
fragg. p. 64, 114 unguitabant' .... unctitabant; 1 66. 128
temptabam .... spectabam .... donabam .... laudabam; 83. 27 faci-
ebat; 109. 1 demonstrabant; 110. 6 proficiscebatur .... seque- bantur;
123. 13 utebatur; 141. 31 vocabantur; 202. 9 claudebant .... educebant
.... continebant .... cogebant .... insuebant. I B, Total
16 I B, Total 2 I B, Total 1
Orators, ed. Meyer, p. 222 vocabant; 355 solebas. Lucilius, ed.
Marx 1236 solebat. 1 Perhaps different versions of the same
passage ; cf . Peter. I count them as one case.
Imperfect Indicative in Early Latin 387 Auctor ad Herenn.,
ed. Kayser. 4. 6. 9 videbat .... poterat; 4. 7. lOerant ....
poterant; 4. 16. 23 putabant .... existimabatur .... putabant .... opserva-
bant; 4. 22. 31 concedebant; 4. 53. 66 erat; 4. 54. 67 solebat. I
B, Total 11 CIL. I. 1011. 17 florebat. I B, Total 1
Varro, De ling. Lat., ed. Spengel. 5. 3 dicebant .... dicebant ....
significabant; 5. 24 dicebant; 5. 25 obruebantur .... putescebant; 5. 33
progrediebantur; 5. 34 agebant .... agebat .... poterat; 5. 35 agebant
.... vehebant .... ibant; 5. 36 coalescebant .... capiebant ....
colebant .... possidebant; 5. 37 videbatur; 5. 43 erat .... advehebantur
.... escendebant; 5. 55 dicebat; 5. 66 dicebat .... putabat; 5. 68
dicebant; 5. 79 dicebant; 5. 81 mittebantur; 5. 82 dicebatur; 5. 83
dicebat; 5. 84 erant .... habebant; 5. 86 praeerant .... fiebat ....
mittebantur; 5. 89 fiebat .... mittebant .... pugnabant .... deponebantur
.... subside- bant; 5. 90 praesidebant; 5. 91 fiebant .... adoptabant; 5.
95 perpascebant .... consistebat; 5. 96 dicebant .... parabantur;
5. 98 dicebant; 5. 101 dicebat; 5. 105 faciebant .... servabant condebant;
5. 106 coquebatur .... fundebant; 5. 107 faciebant .... vocabant; 5. 108
edebant .... ferebat .... decoque- bant; 5. 116 faciebant .... habebant
.... opponebatur; 5. 117 fiebant; 5. 118 appellabant .... erat ....
ponebant; 5. 119 infundebant .... figebantur; 5. 120 ponebant ....
ponebant; 5. 121 nominabatur; 5. 122 erant; 5. habebat dabant sumebant erat vocabatur ponebatur
erat vocabatur habebant solebat apponebatur .bibebant coquebant arcebantur ministrabat
vellebant utebantur iaciebant corruebant muniebant exaggerabant portabatur
sepiebant relinquebant condebant circumagebant faciebant vocabant fiebat erat erat
aiebat coibant vehebantur adibant relinquebatur dicebatur impluebat
compluebat volebant cubabant cenabant vocitabant cenabant exigebant legebant
ponebant dicebant involvebant erant dicebant calcabant insternebant appellabant
operibantur Scandebant dicebatur erat valebant volebant erat dicebant petebat inficiabatur Wheeler deponebant
auferebat redibat exigebatur; dicebant erant ponebant
stipabant componebant pendebant accedebat dicebant inspiciebantur dicebant
dicebat videbatur dicebantur putabant persolvebantur erat fiebant dicebat circumibant
conveniebant dicebant consumebatur vitabant ponebant legebantur spondebatur
appellabatur dicebant promittebat consuetude erat dicebant dicebant acciebat
videbatur intererat fiebant dicebant appellabant putabant relucebant legebantur
poterant dicebantur fiebat erant habebant conducebantur ascribebantur habebant
committebant dicebat animadvertebantur arabant dicebant dicebant erat vocabatur
erat erant erat dicebantur erat notabant erant utebantur dicebatur pendebat
dicebant valebat dicebatur constabat dicebatur dicebant. De re rust., ed. Keil,
Lipsiae solebant dicebat poterat .... effodiebat appellabant faciebant
vocabant pendebat dicebantur faciebant erant laudabatur providebant dabant
dicebant inserebantur vocabant praeponebant putabant appellabant reiciebant
hibernabant .... aestivabant vocabat solebat dicebant dicebant habitabant sciebant
alebantur redigebant; credebant habebant serebant pascebant habebat ostendebas accipiebat
.... dicebat dicebat dicebant erat pascebantur erat erat habebant erat
laudabant aiebat dicebant vocabant dicebantur iubebat putabat appellabant
appellabant dabat consumebat habebat adgerebant coiciebat erat
laborabat aiebat .... despiciebat Sat. Menipp., ed. Eiese P. erat radebat
vehebantur sol vebat loquebantur solebat; suscitabat habebant habitabant. Total
Imperfect Indicative in Early Latin Imperfect of Frequentative
Action. Plautus, Asin. dicebam; Capt. percontabatur; Epid. mittebat; missiculabas;
Merc. promittebas; Miles dicebat; Persa visitabam negabas; Kud. promittebas; True. poscebat Ennius,
Ann. tendebam vocabam. Historicor. fragg. expoliabantur Total Aoristio
Imperfect Plautus, Amph. aibas erat; As. aibat Bacch. aibat;
Capt. aiebatis(?); Cist. ai[e]bat ai[e]bat; Cure. Aiebat aiebat; Epid. Aiebat agnoscebas;
Men. aiebas aiebat; Merc. poterat ai[e]bant aiebat 8aiebant aiebat aiebat aiebant;
Miles ai[e]bant aiebat erat erat; Most. aiebant aiebat aiebat; Poen.
aibat aibat erat; Ps. Aiebat aibat aibat; Eud. Aibat erat aiebas(?); Stich.
aibat; Tri. aibas aibat aibant aibat aiebas aibat. Terence, Adel. erat erat aibat;
Andr. aiebat aibat; Eun. Scibas dicebat; Heaut. erat; Hec. aibant; Phorm. Aibant
sat erat. Historicor. fragg. poterat Varro, Der. dicebat dicebas Auctor ad
Herenn.poterat erat 2 Total Shifted Imperfect Plautus, Merc.
6decebat; Miles sat era[n]t; 911poteras; Rud. aequius erat; True.poterat Terence,
Heaut. poterat Lucilius (Marx) sat erat. Varro, De 1. L. oportebat debebant
oportebat sequebatur oportebat. Auctor ad Herenn satis erat infimae erant.
Arthur Leslie Wheeler I.PEOOBESSIVE (TeUB) ImPEKFECT Total II. Aobistic III. Shifted A.
Simple B, Cast. G. Fre- Prog. Past quent. Plautus Terence Cato
Dramatic and Epic Orators Lucilius Auctor ad
Herenn. Varro Except historical works the citations from which are
included among the historians. Laberius and later writers not
included. 3 Nepos and later historians not included. 4
Hortensius and later fragments not included. Grice: “Ceccato developed a
theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual philosopher!” -- Silvio
Ceccato. Ceccato. Keywords: il perfetto filosofo, logonia – logonico, tabella
di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria
della felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di
Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione,
adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale,
modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- -- l’aspetto
perfettivo, non-perfettivo, imperfettivo della conjugazione Latina -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library. Ceccato.
Grice
Cecina: il circolo di Cicerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. A friend of CICERONE, and an expert on divination. According
to Seneca, he wrote a book about lightning. Aulo Cecina. Cecina.
Grice
e Cecina: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. The husband of Arria Peto Maggiore. He belonged to the Porch.
He becomes involved ina plot against the emperor Claudio. He was condemned to
commit suicide and his wife encouraged him to go through it by committing
suicide first, and passing the knife in the proceeding with the infamous
utterance, ‘It does not hurt.’ Cecina Peto. Cecina.
Grice
e Ceila: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto).
Filosofo italiano. Cheilas. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice
e Celestio: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. An ally of Pelagius, he argues that because sin is an act of free
will, the existence of sin proves the existence of free will. Celestio.
Grice
e Celio: Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. He composes a history
of medical thought and translated some of the works of Sorano. Celio Aureliano.
Celio.
Grice e Cellucci: l’implicatura
conversazionale del paradiso – aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand
vertreiben können -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa
Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on
Cantor’s paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s
earthly paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice:
“Cellucci, like me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of
Strawson; in his, because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena,
Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione,
filosofia della matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre
opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento”
(Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no?
“La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia
e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria
della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della
storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La
logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza
scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed.
A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica
e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone.
Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi, Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La
filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo
Novecento [Lulu Press, Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza,
Rome, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e
matematica, Laterza, Rome, Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della
dimostrazione, Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti
di filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e
morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo, La Cultura. La
logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo
del nous nella conoscenza scientifica”, In Il Nous di Aristotele,
ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt
Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi.
Scienzae senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni,
Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In I modi della
razionalità, ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria
della logica polivalente nell'antichità o la storia antica, Bollettino
della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e
all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica,
Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di Antonio
Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la filosofia.
Un colloquio con (e su) C.; La spiegazione in matematica. Periodicodi
Matematiche (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 = 12” has
zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le scienze,
Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”, in Logica
ediritto: argomentazione e scoperta, Lateran University Press, Vaticano); Ragione,
mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta, Bruno Mondadori, Milano); Filosofia
della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi. L’ideale della purezza dei metodi,
I fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari Pisa-Tirrenia, Mathesis, Rome); Per
l'insegnamento della logica. Nuova Secondaria. La logica della macchina,
in Le macchine per pensare,La Nuova Italia, Firenze); Logica e filosofia della
matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia della scienza in
Italia nel ‘900, Angeli, Milano; Bolzano, Del metodo matematico, Boringhieri,
Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in matematica; in C. Mangione
(Ed.), Scienza e filosofia,Garzanti, Milano; Storia della logica, Laterza,
Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva, Teoria. La complessità
delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo ordine, Logica
Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di Parmenide nelle
teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’ adaequatio?” Scienza
e storia, Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui
fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà di
coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di
uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La
logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica, Editori Riuniti,
Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità, Bologna (il
Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche.
Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il
Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un
connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma
hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui
fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità
formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia.
Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione
sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della
matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o
non meccanico? In L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie
ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della
matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive
della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia
della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della
logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche
moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il
dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La
filosofia della matematica. Laterza, Roma. C. Cellucci ha illustrato gli scopi della
logica matematica di Peano. Anche se con motivazioni diverse, tali scopi sono
pressoché analoghi in Peano e Frege, e consistono principalmente nell '
ottenere. Infiniti LM Prima di addentrarci nelle questioni
concernenti gli insiemi qualsiasi, facciamo una breve rilettura di quello che
sappiamo sugli insiemi finiti. Lo studio degli insiemi infiniti è iniziato ad
opera del matematico tedesco CANTOR Infiniti Cardinalità di
insiemi finiti LM Cosa vuol dire che in una palazzina ci sono 10 appartamenti? Infiniti.
Cardinalità di insiemi finiti LM Per contare gli appartamenti abbiamo associato
univocamente a ciascuno di essi un numero (naturale) tra 1 e 10. In termini
matematici, abbiamo determinato una corrispondenza biunivoca tra l’insieme
degli appartamenti e l’insieme ω10 = {1,2,3,4,5,6,7,8,9,10} Infiniti LM f è un’iniezione di A in B
se è una corrispondenza biunivoca tra A e un sottoinsieme di B Siano A e B due
insiemi qualsiasi e f : A → B una funzione, ossia una legge tale per cui
per ogni a ∈ A esiste uno e un solo b ∈
B tale che f (a) = b.. Definizione 1 (Corrispondenza biunivoca) f
è una corrispondenza biunivoca tra A e B se per ogni b ∈
B esiste uno e un solo a ∈ A tale che
f (a) = b. Definizione 2 (Iniezione) Dire quali di queste
funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando
la risposta. (a) f:N→{numeripari},n→2n (b) f :
{esseri umani} → {donne}, figlio → mamma (c)
f : quadrati → R, quadrato → area del
quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato → area del quadrato (e) f : {quadrati
centrati in O} → R, quadrato → area del
quadrato Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 14 / 75
LM Esercizio 1 Dire quali di queste funzioni
sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la
risposta. (a) f:N→{numeripari},n→2n (b) f :
{esseri umani} → {donne}, figlio → mamma (c)
f : quadrati → R, quadrato → area del
quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato → area del quadrato (e) f : {quadrati
centrati in O} → R, quadrato → area del
quadrato Soluzione dell’Esercizio 1 (c) niente (d) corrispondenza
biunivoca (e) iniezione (a) corrispondenza biunivoca (b) niente
Questo caso scriveremo |A| = n; LM Cardinalità degli insiemi finiti In
conclusione, per contare gli elementi di un insieme finito ci servono l’insieme
dei numeri naturali N = {0, 1, 2, 3, 4, 5, 6 . . .}; i sottoinsiemi di N della
forma ωn = {1,2,3,...,n}; la nozione di corrispondenza biunivoca.
Definizione 3 (Cardinalità degli insiemi finiti) Sia A un
insieme e n un numero naturale. Diremo che A ha n elementi (o anche che ha
cardinalità uguale ad n) se esiste una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme
{1, 2, 3, 4, . . . , n}. In Diremo che A è un insieme finito se esiste n ∈
N tale che |A| = n; Diremo che A è un insieme infinito se non è finito.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 15 / 75 Proprietà
della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode
di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa
cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro.
Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi
finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la
stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro. (2)
un sottoinsieme A ⊆ B di un insieme finito è un insieme
finito. Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità
degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi
finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza
biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A ⊆
B di un insieme finito è un insieme finito. (3) se A è un sottoinsieme proprio
di un insieme finito B, allora |A| < |B|. Riflettiamo un po’ su queste
proprietà. Due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in
corrispondenza biunivoca tra loro. Ci sta semplicemende dicendo che
le corrispondenzee biunivoche A a b c d e f g h B 1 2 3
4 equivalgono a A a b c d e f g h B La nozione di
corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti
di una semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una
retta). La nozione di corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi
infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza sono in corrispondenza
biunivoca con i punti di una retta). Questo ci permette di estendere il
concetto di "equinumerosità": Diremo che due insiemi A e
B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste
una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| =
|B|. Ovviamente, se gli insiemi sono infiniti la cardinalità NON è un
numero. Nel caso di insiemi finiti "<" è l’usuale simbolo per
l’ordinamento tra numeri. Nel caso di insiemi infiniti denota una nozione
astratta nuova, introdotta per analogia. Sempre "imparando" dagli
insiemi finiti e utilizzando le funzioni, possiamo introdurre una nozione di
"maggiore numerosità". se A è un sottoinsieme proprio di
un insieme finito B, allora |A| < |B|. Inoltre, |A| < |B| se e solo se
esiste un’iniezione di A in B B a b c d g h A
Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di
un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo
|A| ≤ |B|. La stravaganza dell’infinito naturali N. LM Abbiamo ora a
disposizione gli strumenti per confrontare la cardinalità di insiemi qualsiasi.
Prima di procedere oltre, entriamo nello spirito giusto per studiare gli
insiemi infiniti con una storia stravagante: l’albergo di Hilbert (immagini
tratte da "A. Catalioto, Seminario TFA 2015") L’insieme infinito
protagonista di questa storia è l’insieme dei
numeri IonilTraLnquillocercava M una camera.... Pensò di trovarla
all’Hotel Infinito, noto per avere infinite stanze.
Ion non ebbe fortuna perché l’hotel ospitava i delegati del congresso di
zoologia cosmica. Siccome gli zoologi cosmici venivano da alassie, e
di galassie ne esiste un numero infinito, tutte le stanze erano occupate. tutte
le g Soluzione del problema... Il direttore dec ide di
spostare lo zoologo della stanza 1 nella 2, quello della 2 nella 3 e così
via... così può mettere Ion nella stanza 1! In generale, viene spostato lo
zoologo della stanza «n» nella stanza «n+1» Il problema si complica
perché arrivò un rappresentante dei filatelici per ogni galassia per
partecipare al congresso interstellare dei filatelici Il direttore, come
soluzione al problema, decise di spostare l’ospite della 1 nella 2, quello
della 2 nella 4, quello della 3 nella 6 e così via... In generale mettere
l’ospite della stanza «n» nella stanza «2n» Così, gli zoologi occuparono
l’insieme delle stanze dei numeri pari e i filatelici occuparono l’insieme
delle stanze dei numeri dispari, visto che il filatelico n-esimo nella coda
ottenne il numero di stanza «2n-1» rimettere tutto in ordine e a chiudere
tutti gli hotel, eccetto l’Hotel Cosmos I costruttori dell’Hotel
Cosmos avevano smantellato tantissime galassie per costruire infiniti hotel con
infinite stanze. Furono costretti, però, a
Quindi venne chiesto al direttore di mettere le infinite persone di
infiniti hotel nel suo hotel, già pieno. COME FARE ? Ion propose di usare
solo le progressioni dei numeri primi poiché se si prendono due numeri primi,
nessuna delle potenze intere positive di uno può equivalere a quelle
dell’altro. In questo modo nessuna stanza avrebbe avuto due
occupanti! Vediamo cosa ci ha insegnato questa storia. Mostrare che
N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri (1) A={n∈N,
n≥7} (2) A={2n+1, ninN} VediamLo cosa ci ha insegnato quMesta
storia. Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti
sottoinsiemi propri (1) A={n∈N, n≥7} (2)
A={2n+1, ninN} Soluzione 2 01234 n 7 8 9 1011 7+n 01234 n 1 3 5 7 9
2n+1 L’ultimo partecipanti, che sostanzialmente ci racconta che l’insieme
prodotto N × N ha la stessa cardinalità di N) è più complicato e ci torneremo
più tardi. I risultati dell’Esercizio 2 sono una vera e propria rivoluzione del
pensiero. caso descritto nella sto ria(quello degli infiniti convegni con
infiniti Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 30 / 75
Povero Euclide! LM Abbiamo imparato che se togliamo all’insieme N i primi
n0 termini (pensate n0 grande quanto volete!), quello che resta ha esattamente
la stessa cardinalità di tutto l’insieme. Crolla così il principio fissato da
Euclide: "il tutto è maggiore di una sua qualsiasi parte" (Elementi,300
a.C.) Ricordiamo che Euclide è probabilmente il più grande matematico
dell’antichità e i suoi Elementi (opera in 13 libri) sono stati la principale
opera di riferimento per la geometria fino al XIX secolo. Quello citato è uno
degli 8 enunciati di "nozioni comuni" contenuti nel Libro I, quello
in cui vengono fissati tutti i fondamenti per la trattazione di tutta la
geometria nota all’epoca. Povero Galileo! D’altra Lparte, di questo
problemMa si era accorto anche Galileo, senza trovarne soluzione: "queste
son di quelle difficoltà che derivano dal discorrere che noi facciamo col
nostro intelletto finito intorno agli infiniti, dandogli quegli attributi che
noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente,
perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed ugualità non
convenghino agli infiniti, dei quali non si può dire uno essere maggiore o
minore o uguale all’altro" (Nuove Scienze, 1638) Parafrasando Galileo,
possiamo dire che la teoria della cardinalità di Cantor è esatta il giusto
attributo di maggioranza, minorità ed ugualità che convenga agli infiniti
mente Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi
di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e
B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una
corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.
Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un
insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤
|B|. LM Riepilogo e domande Finora
sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità
infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa
cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra
loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un
insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione
di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il
momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità
diverse? Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra
cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la
stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca
tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità
di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una
iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è
arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con
cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di
tutte le altre? Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di
confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B
(qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una
corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| =
|B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella
di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo
|A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono
insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità
infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una "cardinalità
infinita" più grande di tutte le altre? Finora sono stati solo
definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.
Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono
equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso
scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o
uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo
caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento di porsi
qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una
"cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una
"cardinalità infinita" più grande di tutte le altre? Ripartiamo
dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci
racconta che la funzione (m,n) → 2m3n
mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un
sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza
biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. Se A ⊆
B, allora |A| ≤ |B|. Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non
abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) → 2m3n mette in corrispondenza biunivoca
il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra
complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci
aiutare dalla teoria. La funzione f : A → B, a → a è un’iniezione di A in B. Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non
abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) → 2m3n mette in corrispondenza biunivoca
il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra
complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci
aiutare dalla teoria. Se A ⊆ B, allora
|A| ≤ |B|. Soluzione. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Sia A
un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di
N in A, ossia associare ad ogni n ∈ N un unico
elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 35 / 75 LM Teorema Sia A
un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di
N in A, ossia associare ad ogni n ∈ N un unico
elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0
un qualsiasi elemento a0 ∈ A. Siccome
A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di
associarean=1unelementoa1 ∈A,a1
̸=a0. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire
un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni n ∈
N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base:
associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 ∈
A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di
associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0.
Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n
gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito,
A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un
elemento an+1 ∈ A distinto da tutti i precedenti.
Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3: Ogni
sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N. Sia A un
insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N
in A, ossia associare ad ogni n ∈ N un unico
elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0
un qualsiasi elemento a0 ∈ A. Siccome
A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di
associarean=1unelementoa1 ∈A,a1 ̸=a0.
Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n
gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito,
A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un
elemento an+1 ∈ A distinto da tutti i precedenti.
Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3: Ogni
sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N. In particolare, {p ∈
N della forma p = 2m3n, n, m ∈ N}, ha la
stessa cardinalità di N. Quindi N × N ha la stessa cardinalità di N.
Cardinalità numerabile Quindi la cardinalità dell’insieme numerico N è "la
più piccola cardinalità infinita". Per questo si è meritata un "nome
proprio" e un simbolo speciale א0 = |N| prende il nome di CARDINALITA’
NUMERABILE. Il simbolo "א” è l’aleph, prima lettera
dell’alfabeto ebraico. Diremo che un insieme A è numerabile
se |A| = א0, cioè se A può essere messo in corrispondenza biunivoca con
N. 14/3/18 36 /
75 LM N⊂Z⊂Q⊂R
Ricordiamo brevemente cosa sono per poi confrontare le loro cardinalità.
Esistono insiemi infiniti con cardinalità diversa (maggiore) da quella
numerabile? Per rispondere a questa domanda usiamo gli insiemi numerici come
prototipo. N = {0,1,2,3,4,5,6...} Z = {...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} numeri
NATURALI numeri INTERI p Q = q , p intero, q ̸= 0 naturale numeri
RAZIONALI R numeri REALI Valgono le inclusioni strette: I numeri interi Z =
{...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} I numeri interi sono un’estensione dei numeri
naturali, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la sottrazione. Si
ottengono considerando tutti i numeri naturali e tutti i loro opposti. Possiamo
rappresentare l’insieme dei numeri interi tramite punti di una retta ordinata.
Basta fissare un punto che determina lo zero fissare un’unità di misura disegnare
tutti punti equidistanti dal successivo. -6-5-4-3-2-10 1 2 3 4 5 6
In un certo senso, i numeri interi sono "il doppio" dei numeri
naturali, quindi è ragionevole pensare che siano un insieme numerabile.
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 38 / 75 Corrispondenza
biunivoca tra N e Z LM an = n 2 sen=0oppuresenèpari −n+1 senèdispari
2 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 39 / 75
Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 14/3/18 n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2
−n+1 senèdispari 012345678 39 / 75
LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 40 / 75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2
−n+1 senèdispari 012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2
3 4 n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa
Malusa Infiniti 14/3/18 42 / 75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an =
2 −n+1 senèdispari 012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3
4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 43 / 75 LM n 2
sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 44 /
75 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 Ann
2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678
-4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 14/3/18 46 / 75 -4 −3 −2
−1 0 1 2 3 4 LM n 2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari
012345678 Abbiamo così ottenuto che Z è
numerabile. LM I
numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono
un’estensione dei numeri interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente
la divisione. Si ottengono considerando tutte le possibili frazioni con a
numeratore un numero intero (che quindi determina il segno della frazione); a
denominatore un naturale non nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti
siano" i numeri razionali. (i numeri interi sono discreti). LM
I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono
un’estensione dei numeri interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente
la divisione. Si ottengono considerando tutte le possibili frazioni con a
numeratore un numero intero (che quindi determina il segno della frazione); a
denominatore un naturale non nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti
siano" i numeri razionali. Tra un numero intero e il suo successivo non
c’è nessun altro numero intero 01 Densità dei numeri
razionali Invece tLra due numeri razionali dMistinti c’è sicuramente un altro
numero razionale (ad esempio la loro media). 0 12 1 In realtà ce ne
sono infiniti (tutte le possibili medie delle medie). 01131 424
113 084828481 Si intuisce che i numeri razionali coprono abbastanza bene
la retta. Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali siano
molti di più dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche in
questo caso gli insiemi infiniti tornano a stupirci: Da quanto abbiamo
detto sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi
(sono densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti
tornano a stupirci: Q ha cardinalità numerabile. Per
dimostrarlo, basta esibire una corrispondenza biunivoca tra Z e Q, che possiamo
pensare come un modo di "etichettare" con numeri interi gli elementi
di Q. Per fare questo utilizzeremo il cosiddetto (primo) metodo diagonale di
Cantor. Trovare un percorso che passa una sola volta per ogni stellina e
numerare le stelline man mano che si incontrano (nota: verso il basso e verso
destra ci sono infinite stelline!) ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· LM ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆···11 20 ⋆
⋆ ⋆
⋆ ⋆14/3/18
1 → 2 6 → 7 15 → 16 ⋆ ··· ↙↗↙↗↙ 3 5 8 14 17 ⋆ ⋆
↓↗↙↗↙ 4 9 13 18 ⋆
⋆ ⋆
··· ··· ··· ··· ↙↗↙ 10 12 19 ⋆
⋆ ⋆
⋆ ↓↗↙
52 / 75 Primo metodo diagonale di Cantor: costruire la
tabella... LM 1234567 1111111 1234567
2222222 1234567 3333333 1234567 4444444 1234567 5555555 e percorrerla con il
metodo che abbiamo determinato LM 1→23→4567··· 1111111 ↙↗↙ 1234567 ·2222222 ↓↗↙
1234567 3333333 ↙ 1234567 4444444 1234567 5555555 . .
. . . . Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i
numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo
dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo
stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno
cardinalità numerabile. Abbiamo così mostrato come mettere in
corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri
naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi
hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i
numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da dimostrare che
se A e B sono due insiemi numerabili, allora A ∪
B è numerabile. Questo produce una corrispondenza biunivoca tra A ∪
B e N. LM Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti
i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo
dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo
stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno
cardinalità numerabile. Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi
numerabili, allora A ∪ B è
numerabile Dimostrazione. visto che A e B sono due insiemi
numerabili, allora esiste una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme dei
numeri pari e una corrispondenza biunivoca tra B e l’insieme dei numeri
dispari. A ←→ {pari} B ←→ {dispari} =⇒ A ∪
B ←→ N. Voglia di misurare... LM 0? LA DIAGONALE DEL QUADRATO DI LATO
UNITARIO NON HA LUNGHEZZA RAZIONALE! Abbiamo visto che i numeri razionali
coprono abbastanza bene la retta. I Pitagorici pensavano che tutte le lunghezze
fossero razionali (ossia che i punti corrispondenti ai razionali coprissero
tutta la retta) e invece scoprirono presto che manca qualcosa...
1 ? Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri
razionali in modo da ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni
numero razionale si può scrivere come allineamento decimale finito o periodico
(con periodo diverso da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci
viene in mente R = {allineamenti decimali con un numero arbitrario di
cifre} ed è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono
in corrispondenza biunivoca con i punti della retta (difficile da
dimostrare). Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri
razionali in modo da ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni
numero razionale si può scrivere come allineamento decimale finito o periodico
(con periodo diverso da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci
viene in mente R = {allineamenti decimali con un numero arbitrario di
cifre} ed è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono
in corrispondenza biunivoca con i punti della retta (difficile da dimostrare).
−π −2−√2−101 √22 π 22 Quindi, geometricamente, possiamo pensare di
aver "tappato i buchi" sulla retta lasciati dai punti corrispondenti
ai numeri razionali (abbiamo aggiunto tutti i numeri irrazionali). Non sembra
che siano stati aggiunti tanti elementi... invece l’insieme dei numeri reali R
NON ha cardinalità numerabile! R NON ha cardinalità numerabile!!
Dimostreremo questa sorprendente proprietà in tre passi: l’intervallo (0, 1) non
è numerabile; due intervalli distinti (a, b) e (c, d) hanno la stessa
cardinalità; ogni intervallo (a, b) ha la stessa cardinalità di R (Ricordiamoci
che R è in corrispondenza biunivoca con i punti della retta, quindi i due
insiemi hanno la stessa cardinalità) Annalisa Malusa Infiniti
14/3/18 59 / 75 Secondo metodo diagonale di Cantor LM Dimostriamo,
per assurdo, che l’intervallo (0, 1) non ha cardinalità numerabile. Ipotesi per
assurdo: supponiamo che (0, 1) abbia una quantità numerabile di elementi ed
enumeriamoli nel modo seguente: . Il numero reale x = 0,β1 β2 β3 ... con r1 =
0,a11 a12 a13 a14 ... r2 = 0,a21 a22 a23 a24 ... r3 = 0,a31 a32 a33 a34 ... βj
̸=ajj, βj ̸=0, βj ̸=9, ∀j
appartiene all’intervallo (0, 1) (è positivo e ha parte intera uguale a zero),
ma è diverso da tutti i numeri reali rj , in contraddizione col fatto di aver
enumerato tutti i valori nell’intervallo. Quindi sicuramente la
cardinalità dell’intervallo (0, 1) è diversa da quella del numerabile. Passiamo
a dimostrare che tutti gli intervalli della retta reale hanno la stessa
cardinalità, dando solo un’idea grafica della dimostrazione.
Esercizio 4 Determinare (geometricamente) una corrispondenza
biunivoca tra due intervalli aperti (a, b) e (c, d) della retta reale.
Suggerimento: allineare i due segmenti e considerare un punto P come in figura:
a c b d P P a c b d si
proietta ogni punto di (a,b) in un unico punto di (c,d) dal punto P esterno ai
due segmenti. Ovviamente questa operazione geometrica si può scrivere in formule
utilizzando la geometria analitica e si trova la corrispondenza biunivoca
cercata. Infine, per mettere in corrispondenza biunivoca un intervallo
limitato, diciamo (−1, 1), con tutta la retta reale, serve una sorta di
“meccanismo di amplificazione” (proiezione stereografica). Diamo un’idea
geometrica della corrispondenza biunivoca: disegnamo la retta reale; dalla
retta reale “stacchiamo l’intervallo (−1, 1)” e disegnamone una copia; −1
1 R Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 63 / 75
LM Proiezione stereografica disegnamo la semicirconferenza di raggio 1
tangente alla retta reale in 0; indichiamo con P il centro di tale
circonferenza; P −1 1 R −1 1 Proiezione stereografica
fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); P R
65 / 75 Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi
punto dell’intervallo (−1, 1); proiettiamolo verticalmente sulla circonferenza;
P −1 1 R −1 1 Proiezione
stereografica tracciamo la retta per P e il punto della circonferenza;
associamo al punto di partenza in (−1, 1) i punto intersezione tra la retta
considerata e la retta reale; P R Se facciLamo
questa operazione per ogni punto dell’intervallo (−1, 1) costruiamo una
corrispondenza biunivoca tra questo intervallo e tutta la retta reale. −1 1 Il
meccanismo di amplificazione funziona perchè proiettiamo tramite una
semicirconferenza che ha tangente verticale agli estremi: i punti molto vicini
a −1 o a 1 si proiettano sempre più lontano. P Cardinalità del continuo
La cardinalità della retta reale prende il nome di cardinalità del continuo.
Possiamo dividere i numeri reali in tre gruppi: razionali irrazionali
algebrici: le soluzioni di equazioni algebriche a coefficienti interi (ad es.
tutte le radici quadrate, cubiche, ecc...) irrazionali trascendenti: tutti gli
altri irrazionali (ad es. π) Conosciamo esplicitamente tantissimi irrazionali
algebrici e abbastanza pochi trascendenti. Abbiamo visto che i numeri reali
sono molti di più dei numeri razionali (ma ricordiamoci anche che i numeri
razionali sono densi in R). Si può essere più precisi sulle informazioni
riguardanti la cardinalità dei numeri irrazionali. Precisamente, si può
dimostrare che i numeri irrazionali algebrici sono una quantità numerabile;
quindi i numeri irrazionali trascendenti sono veramente tanti!
Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 69 / 75 QuantLe e quali
altre cardiMnalità ci sono? Studiando gli insiemi numerici abbiamo trovato due
cardinalità distinte, quella del numerabile e quella del continuo. E’ del tutto
naturale porsi due domande: ci sono cardinalità intermedie tra queste due? ci
sono cardinalità superiori a quella del continuo? La prima apre una questione
particolarmente affascinante (o frustrante, dipende dai punti di vista) che
prende il nome di Ipotesi del continuo nda ha una risposta stup ci sono
infinite cardinalità (infinite) distinte! La seco efacente: CH “Continuum
Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella
dei naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto del fatto
che CH fosse vera. CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna
cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei
reali. Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel
1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non
si poteva dimostrare che CH fosse falsa. CH “Continuum Hypothesis”
non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei
naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto del fatto che
CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria
degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul Cohen
dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può nemmeno
dimostrare che CH sia vera. Per fortuna i modelli della matematica
applicata non dipendono dalla validità o meno di CH, quindi la sua
indecidibiltà non incide sui risultati che vengono utilizzati nella vita reale
(fisica, ingegneria, informatica...) CH “Continuum
Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella
dei naturali e quella dei reali. Cantor era fermamente convinto del fatto
che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale
teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul
Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può
nemmeno dimostrare che CH sia vera. Quindi, la CH è indecidibile nell’ambito
della usuale teoria degli insiemi, nel senso che è altrettanto coerente
prenderla come vera che prenderla come falsa. ∅
{a} {b} {c} {a,b} {a,c} {b,c} {a,b,c} LM L’insieme delle parti Per rispondere
alla seconda domanda introduciamo una nuova nozione. Insieme delle
parti Dato un insieme X, il suo insieme delle parti P(X) è dato da
P(X) = {A sottoinsieme di X}. Esempio. Se X = {a,b,c}, allora P(X) è
l’insieme formato dai seguenti 8 insiemi: Si può dimostrare che se |X| = n
allora |P(X)| = 2n > |X|. Esistono infinite cardinalità infinite
Teorema di Cantor Sia X un insieme. Allora |P(X)| > |X|.
Come conseguenza del Teorema di Cantor, otteniamo che esiste una sequenza
di cardinalità infinite, ciascuna strettamente maggiore della precedente.
Partendo da |N|, che sappiamo essere la cardinalità infinita minima,
basta iterare il passaggio all’insieme delle parti: |N| < |P(N)| <
|P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < |P(P(P(P(N)))))| < · · ·
Dimostriamo il teorema di Cantor. L’applicazione ”x → {x}” è un’iniezione di X in P(X). Quindi
|P(X)| ≥ |X|. Dimostriamo ora che non esiste un’applicazione biunivoca tra X e
P(X). Supponiamo, per assurdo, che esista e indichiamola con ”x ↔ A(x)”.
Consideriamo l’insieme C ∈ P(X) C =
{x ∈ X tali che x ̸∈
A(x)}. L’ipotesi per assurdo garantisce che esiste un’unico x0 ∈
X tale che C = A(x0). Si ha che se x0 ∈ C = A(x0),
allora, per come sono definiti gli elementi di C, deve essere x0 ̸∈
C = A(x0) se x0 ̸∈ C = A(x0),
allora, per come sono definiti gli elementi di C, deve essere x0 ∈
C = A(x0) Le contraddizioni trovate dipendono dal fatto che abbiamo supposto
che ”x ↔ A(x)” sia biunivoca. Se ne conclude che non può esistere nessuna
corrispondenza biunivoca tra X e l’insieme delle sue parti. Annalisa Malusa
Infiniti 14/3/18 74 / 75 Aus dem Paradies, das Cantor uns
geschaffen, soll uns niemand vertreiben können. Insiemi infiniti 1.
Introduzione Finch ́e gli insiemi che si considerano sono finiti (cio`e si pu`o
contare quanti sono i loro elementi mettendoli in corrispondenza biiettiva con
i numeri che precedono un certo numero naturale) la nozione di insieme pu`o
fornire un comodo modo di esprimersi, ma non `e indi- spensabile. Di fatto
Cantor per primo elabor`o la nozione di insieme per risolvere problemi di
quantita` di elementi in insiemi infiniti (cio`e non finiti). Definizione. Si
dice che due classi hanno la stessa cardinalit`a quando c’`e una biiettivit`a
tra le due classi. In tal caso si dir`a anche che le due classi sono
equinumerose. Definizione. Si dice che un insieme A `e finito se esistono un
numero naturale n e una biiettivit`a da A sull’insieme dei numeri naturali che
precedono n; in questo caso diremo che A ha n elementi. Se ci`o non succede, si
dice che l’insieme `e infinito. Se un insieme A `e finito e un altro insieme B
`e contenuto propriamente (contenuto ma non uguale) in A allora A e B non sono
equinumerosi, cio`e non c’`e alcuna biiettivit`a tra i due. Questo risultato
dipende dal fatto che per nessun numero naturale ci pu`o essere una
biiettivit`a tra l’insieme dei numeri che lo precedono e l’insieme di quelli
che precedono un diverso numero naturale. L’ultima affermazione non si estende
agli insiemi infiniti; lo giustifichiamo con un con- troesempio gi`a
considerato da Galileo Galilei nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del
mondo. I numeri pari sono un sottinsieme proprio dei numeri naturali, ed
entrambi gli insiemi non sono finiti; inoltre la funzione che a un numero
naturale associa il suo doppio `e una biiettivit`a dai numeri naturali sui
numeri pari. Cos`ı si deve dire che i numeri naturali sono tanti quanti i
numeri pari pur costituendo questi un sottinsieme proprio dell’insieme dei
naturali. Per gli insiemi finiti non solo si pu`o dire se hanno lo stesso
numero di elementi, ma anche se uno ha piu` elementi di un altro o meno. Per
fare ci`o ci si rif`a alla relazione d’ordine naturale tra i numeri naturali
che contano gli elementi di ciascuno dei due insiemi. Per gli insiemi infiniti
non si pu`o utilizzare lo stesso metodo. Come decidere allora quando un insieme
ha piu` o meno elementi di un altro? Ci si potrebbe limitare a dire che un insieme
`e finito o infinito. Tuttavia l’esperienza di vari insiemi infiniti porta
naturalmente a domandarci se si pu`o stabilire una gerarchia simile a quella
fra gli insiemi finiti. Prenderemo a modello le stesse propriet`a degli insiemi
finiti. 2. Cardinalit`a Definizione 1. Siano A e B due insiemi. Diremo che la
cardinalit`a dell’insieme A `e minore o uguale a quella dell’insieme B, e
scriveremo |A| ≤ |B| quando esiste una funzione totale iniettiva di A in B.
Questa relazione fra insiemi non `e un ordine, n ́e stretto n ́e largo. Non `e
stretto perch ́e |A| ≤ |A|, per motivi ovvi (basta considerare la funzione
identit`a). Non `e un ordine largo, perch ́e pu`o accadere che |A| ≤ |B| e
anche |B| ≤ |A|, con A ̸= B. Un esempio `e proprio quello in cui A `e l’insieme
dei numeri naturali e B quello dei numeri naturali pari. Scopo di queste note
`e di studiare le propriet`a di questa relazione. Attraverso essa potremo
arrivare al concetto di “uguale cardinalit`a”, che `e ci`o che ci interessa.
1 2 (2) (3) INSIEMI INFINITI Esempi. (1) Se A `e un insieme e B ⊆
A, allora |B| ≤ |A|. Se Z `e l’insieme dei numeri interi e N quello dei numeri
naturali, allora |Z| ≤ |N|. Ci`o pu`o apparire paradossale, ma vedremo che non
lo `e. Consideriamo infatti la seguente funzione: 2x se x ≥ 0, −2x−1 sex<0. Si pu`o
facilmente verificare che f : Z → N `e non solo iniettiva, ma anche suriettiva.
Se X `e un insieme finito e Y `e un insieme infinito, allora |X| ≤ |Y |.
Supponiamo che X abbia n elementi. Faremo induzione su n. Se n = 0, la funzione
vuota `e quella che cerchiamo. Supponiamo la tesi vera per insiemi con n
elementi e supponiamo che X abbia n + 1 elementi: X = {x1, . . . , xn, xn+1}.
Per ipotesi induttiva esiste una funzione totale iniettiva f: {x1,...,xn} → Y.
Siccome Y `e infinito, esiste un elemento y ∈/
Im(f) (altrimenti Y avrebbe n elementi). Possiamo allora definire una funzione
totale iniettiva g : X → Y che estende f ponendo g(xn+1) = y. Diamo subito la
definizione che ci interessa maggiormente. Definizione 2. Siano A e B due
insiemi. Diremo che A e B hanno la stessa cardinalit`a, f(x) = e scriveremo |A|
= |B|, quando esiste una funzione biiettiva (totale) di A su B. Non daremo la
definizione di cardinalit`a, per la quale occorrerebbe molta piu` teoria e che
non ci servir`a. Sar`a piu` rilevante per noi scoprire le connessioni fra le
due relazioni introdotte. 3. Propriet`a della cardinalit`a di insiemi infiniti
(C1) Se A `e un insieme, allora |A| = |A|. (C2) Se A e B sono insiemi e |A| =
|B|, allora |B| = |A|. (C3) SeA,BeCsonoinsiemi,|A|=|B|e|B|=|C|,allora|A|=|C|.
Queste tre proprieta` sono quasi ovvie: basta, nel primo caso, considerare la
funzione identit`a; nel secondo si prende la funzione inversa della
biiettivit`a A → B; nel terzo si prende la composizione fra la biiettivit`a A →
B e la biiettivit`a B → C. (M1) Se A `e un insieme, allora |A| ≤ |A|. (M2) Se A,
B e C sono insiemi, |A|≤|B|e|B|≤|C|, allora|A|≤|C|. La dimostrazione di queste
due `e facile (esercizio). C’`e un legame fra le due relazioni? La risposta `e
s`ı e sta proprio nella “propriet`a antisimmetrica” che sappiamo non valere per
≤. Il risultato che enunceremo ora `e uno fra i piu` importanti della teoria
degli insiemi e risale allo stesso Cantor, poi perfezionato da altri studiosi.
Teorema 1 (Cantor, Schr ̈oder, Bernstein). Siano A e B insiemi tali che |A| ≤
|B| e |B| ≤ |A|, allora |A| = |B|. Dimostrazione. L’ipotesi dice che esistono
una funzione f : A → B iniettiva totale e una funzione g : B → A iniettiva
totale. Per completare la dimostrazione dobbiamo trovare una funzione biiettiva
h: A → B. Un elemento a ∈ A ha un
genitore se esiste un elemento b ∈ B tale che
g(b) = a. Analogamente diremo che un elemento b ∈
B ha un genitore se esiste a ∈ A tale che
f(a) = b. Siccome f e g sono iniettive, il genitore di un elemento, se esiste,
`e unico. Dato un elemento a ∈ A oppure b
∈ B, possiamo avviare una procedura:
(a) poniamo x0 = a o, rispettivamente x0 = b e i = 0; (b) se xi non ha
genitore, ci fermiamo; (c) se xi ha genitore, lo chiamiamo xi+1, aumentiamo di
uno il valore di i e torniamo al passo (b). Partendo da un elemento a ∈
A, possono accadere tre casi: • la procedura non termina; scriveremo che a ∈
A0; 3. PROPRIET`a DELLA CARDINALIT`a DI INSIEMI INFINITI 3 • la procedura
termina in un elemento di A; scriveremo che a ∈
AA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che a ∈
AB. Analogamente, partendo da un elemento b ∈
B, possono accadere tre casi: • la procedura non termina; scriveremo che b ∈
B0; • la procedura termina in un elemento di A; scriveremo che b ∈
BA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che b ∈
BB. Abbiamo diviso ciascuno degli insiemi A e B in tre sottoinsiemi a due a due
disgiunti: A = A0 ∪ AA ∪
AB , B = B0 ∪ BA ∪
BB . Se prendiamo un elemento a ∈ A0, `e
evidente che f(a) ∈ B0, perch ́e, per definizione, a `e
genitore di f(a). Dunque f induce una funzione h0 : A0 → B0, dove h0(a) = f(a).
Questa funzione, essendo una restrizione di f, `e iniettiva e anche totale. E`
suriettiva, perch ́e, se b ∈ B0, esso
ha un genitore a che deve appartenere ad A0. Se prendiamo un elemento a ∈
AA, allora f(a) ∈ BA: infatti a `e genitore di f(a) e
la procedura, a partire da b = f(a) termina in A. Dunque f induce una funzione
hA : AA → BA che `e iniettiva e totale. Essa `e anche suriettiva, perch ́e ogni
elemento di BA ha genitore che deve appartenere ad AA. Analogamente, se
partiamo da un elemento b ∈ BB, allora
g(b) ∈ AB e g induce una funzione
iniettiva e totale hB : BB → AB che `e suriettiva, esattamente per lo stesso
motivo di prima. Ci resta da porre h = h0 ∪hA
∪h−1. Allora h `e una funzione h: A →
B che `e totale, B iniettiva e suriettiva (lo si verifichi). Esempio.
Illustriamo la dimostrazione precedente con la seguente situazione: sia f : N →
Z la funzione inclusione; consideriamo poi la funzione g : Z → N 4z se z ≥ 0, −4z−2 sez<0. Quali sono
gli elementi di N che hanno un genitore? Esattamente quelli che appartengono
all’immagine di g, cio`e i numeri pari. I numeri dispari, quindi, appartengono
a NN, perch ́e la procedura si ferma a loro stessi. Consideriamo x0 = 2 ∈
N; siccome g(−1) = 2, abbiamo x1 = −1; poich ́e −1 ∈/
Im(f), la procedura si ferma e 2 ∈ NZ.
Consideriamo invece x0 = 4 ∈ N; siccome
g(1) = 4, abbiamo x1 = 1 e possiamo andare avanti, perch ́e 1 = f(1), dunque x2
= 1 ∈ N. Poich ́e 1 ∈/
Im(g), abbiamo che 4 ∈ NN.
Studiamo ora x0 = 16 ∈ N; siccome
g(4) = 16, abbiamo x1 = 4; siccome f(4) = 4, abbiamo x2 = 4 ∈
N; siccome 4 = g(1), abbiamo x3 = 1 ∈ Z; siccome
1 = f(1), abbiamo x4 = 1 ∈ N. La
procedura si ferma qui, dunque 16 ∈ NN. Si
lascia al lettore l’esame di altri elementi di N o di Z. La relazione ≤ si pu`o
allora vedere non come una relazione d’ordine largo fra insiemi, ma piuttosto
come un ordine largo fra le “cardinalit`a” degli insiemi. Non vogliamo per`o
definire il concetto di cardinalit`a; ci limiteremo a confrontarle usando le
relazioni introdotte. Il teorema seguente dice, in sostanza, che la
cardinalit`a dell’insieme dei numeri naturali `e la piu` piccola cardinalit`a
infinita. Teorema 2. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dimostrazione.
Costruiremo un sottoinsieme di A per induzione. Siccome A `e infinito, esso non
`e vuoto; sia x0 ∈ A. Evidentemente {x0} ̸= A, quindi
esiste x1 ∈ A \ {x0}. Ancora {x0, x1} ≠ A,
quindi esiste x2 ∈ A \ {x0, x1, x2}. Proseguiamo allo
stesso modo: supponiamo di avere scelto gli elementi x0, x1, . . . , xn ∈
A, a due a due distinti. Siccome {x0, . . . , xn} ≠ A, esiste xn+1 ∈A\{x0,...,xn}.
Dunque la procedura associa a ogni numero naturale un elemento di A e la
funzione n → xn `e iniettiva. Questo risultato ha una conseguenza
immediata. g(z) = 4 INSIEMI
INFINITI Corollario 3. Sia A ⊆ N. Allora
A `e finito oppure |A| = |N|. Dimostrazione. Se A non `e finito, allora `e
infinito. Per il teorema, |N| ≤ |A|. Ma |A| ≤ |N| perch ́e A ⊆
N. Per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. Un altro corollario `e la
caratterizzazione che Dedekind prese come definizione di insieme infinito.
Corollario 4. Un insieme A `e infinito se e solo se esiste un sottoinsieme
proprio B ⊂ A tale che |B| = |A|.
Dimostrazione. Se A `e finito, `e evidente che un suo sottoinsieme proprio non
pu`o avere tanti elementi quanti A. Supponiamo ora che A sia infinito. Per il
corollario precedente, esiste una funzione iniettiva totale f : N → A.
Definiamo ora una funzione g : A → A ponendo: f(n+1) seesisten∈Ntalechex=f(n),
x se x ∈/ Im(f). La condizione “esiste n ∈
N tale che x = f(n)” equivale alla condizione “x ∈
Im(f)”. La funzione g `e ben definita, perch ́e f `e iniettiva; dunque, se x =
f(n) per qualche n, questo n `e unico. Osserviamo anche che x ∈
Im(f) se e solo se g(x) ∈ Im(f).
Verifichiamo che g `e totale e iniettiva. Il fatto che sia totale `e ovvio.
Supponiamo che g(x) = g(y). • Se x ∈/ Im(f),
allora g(x) = x; dunque non pu`o essere y ∈
Im(f) e perci`o g(y) = y, da cui x = y. • Sex∈Im(f),`ex=f(n)perununicon∈N.
Allorag(x)=f(n+1)∈Im(f). Perci`o g(y) = g(x) = f(n +
1) ∈ Im(f) e quindi, per quanto
osservato prima, y ∈ Im(f). Ne
segue che y = f(m) per un unico m ∈ N e g(y) =
f(m + 1). Abbiamo allora f(n+1) = f(m+1) e, siccome f `e iniettiva, n+1 = m+1;
perci`o n = m e x = f(n) = f(m) = y. Qual `e l’immagine di g? E` chiaro che
f(0) ∈/ Im(g). Viceversa, ogni elemento di
A\{f(0)} appartiene all’immagine di g, cio`e Im(g) = A \ {f(0)}. Se allora
consideriamo la funzione g come una funzione g : A → A \ {f (0)}, questa `e una
biiettivit`a. In definitiva |A| = |A \ {f(0)}|; se poniamo B = A \ {f(0)},
abbiamo il sottoinsieme cercato. Notiamo
che, nella dimostrazione precedente, A \ B = {f (0)} `e finito. Come esercizio
si trovi in modo analogo al precedente un sottoinsieme C ⊂
A tale che |C| = |A| e A \ C sia infinito. 4. Insiemi numerabili Il teorema
secondo il quale per ogni insieme infinito A si ha |N| ≤ |A| ci porta ad
attribuire un ruolo speciale a N (piu` precisamente alla sua cardinalit`a).
Definizione 3. Un insieme A si dice numerabile se |A| = |N|. Un sottoinsieme di
N `e allora finito o numerabile. Abbiamo gi`a visto in precedenza che anche Z
(insieme dei numeri interi) `e numerabile. Piu` in generale possiamo enunciare
alcune propriet`a degli insiemi numerabili. Teorema 5. Se A `e finito e B `e
numerabile, allora A ∪ B `e
numerabile. Dimostrazione. Se A ⊆ B,
l’affermazione `e ovvia. Siccome A ∪ B = (A \
B) ∪ B possiamo supporre che A e B siano
disgiunti, sostituendo A con A \ B che `e finito. Possiamo allora scrivere A =
{a0,...,am−1} e considerare una biiettivit`a g: N → B. Definiamo una funzione f
: N → A ∪ B ponendo an se 0 ≤ n < m, g(n−m) sen≥m. g(x) =
f(n) = 4. INSIEMI NUMERABILI 5 E` facile verificare che f `e una
biiettivit`a. Teorema 6. Se A e
B sono numerabili, allora A ∪ B `e
numerabile. Se A1, A2,..., An sono insiemi numerabili, allora A1 ∪
A2 ∪ ··· ∪
An `e un insieme numerabile. Dimostrazione. La seconda affermazione segue dalla
prima per induzione (esercizio). Vediamo la prima. Supponiamo dapprima che A ∩
B = ∅. Abbiamo due biiettivit`a f : N → A
e g: N → B. Definiamo una funzione h: N → A ∪
B ponendo: f n 2 h(n) = n − 1 g 2 Si verifichi che h `e una
biiettivit`a. In generale, possiamo porre A′ =A\(A∩B), e abbiamo A∪B
= A′ ∪(A∩B)∪B′;
questi tre insiemi sono a due a due disgiunti. I casi possibili sono i
seguenti: (1) A′, A ∩ B e B′ sono infiniti; (2) A′ `e finito, A ∩ B `e
infinito, B′ `e infinito; (3) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito;
(4) A′ `e infinito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (5) A′ `e infinito, A ∩ B
`e finito, B′ `e infinito; (6) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e finito.
Ci basta applicare quanto appena dimostrato e il teorema precedente. Si
concluda la dimostrazione per induzione della seconda affermazione. Il prossimo teorema pu`o essere
sorprendente. Un modo breve per enunciarlo `e dire: L’unione di un insieme
numerabile di insiemi numerabili `e numerabile. Teorema 7. Per ogni n ∈
N, sia An un insieme numerabile e supponiamo che, per m ̸= n, Am ∩ An = ∅.
Allora A={An :n∈N}
`e numerabile. Dimostrazione. Per questa dimostrazione ci serve sapere che la
successione dei numeri primi p0 = 2, p1 = 3, p2 = 5,..., `e infinita.
Sia,perognin∈N,gn:An →Nunafunzionebiiettiva. Sex∈A,esisteununicon∈N
tale che x ∈ An; poniamo j(x) = n. Definiamo
allora f(x) = pgj(x)(x). j (x) Per esempio, se x ∈
A2, sar`a f(x) = 5g2(x). La funzione f : A → N `e iniettiva; quindi |A| ≤ |N|.
MaA0 ⊆Aequindi |N| = |A0| ≤ |A| ≤ |N|. Per
il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. Il teorema si pu`o estendere anche al
caso in cui gli insiemi An non sono a due a due disgiunti; si provi a
delinearne una dimostrazione. Questo teorema ha una conseguenza sorprendente.
Teorema 8. L’insieme N × N `e numerabile. Dimostrazione. Poniamo An = { (m, n)
: m ∈ N }. Gli insiemi An sono a due a
due disgiunti e ciascuno `e numerabile. E` evidente che n∈N An = N ×
N. Ancora piu`
sorprendente `e forse quest’altro fatto. Teorema 9. L’insieme Q dei numeri
razionali `e numerabile. se n `e pari, se n `e dispari. B′ =B\(A∩B)
INSIEMI INFINITI. Un numero razionale positivo si scrive in uno e un solo modo
come m/n, con m, n ∈ N primi
fra loro (cio`e aventi massimo comune divisore uguale a 1). Ne segue che
l’insieme Q′ dei numeri razionali positivi `e numerabile, perch ́e a m/n (con m
e n primi fra loro) possiamo associare la coppia (m, n) ∈
N × N e la funzione cos`ı ottenuta `e iniettiva. Dunque |N| ≤ |Q′| ≤ |N × N| =
|N|. L’insieme Q′′ dei numeri razionali negativi `e numerabile, perch ́e la
funzione f : Q′ → Q′′ definita da f(x) = −x `e chiaramente biiettiva. Per
concludere, possiamo applicare altri teoremi precedenti, tenendo conto che Q =
Q′ ∪ {0} ∪
Q′′. C’`e un altro modo
per convincersi che Q′ `e numerabile, illustrato nella figura 1. Si
1/5 1/4 1/3 1/2 1/1 2/5 3/5 4/5 3/4 5/4 2/3 4/3 5/3 3/2 5/2 2/1 3/1 4/1
5/1 Figura 1. Enumerazione dei razionali positivi immagina una griglia
dove segniamo tutte le coppie con coordinate intere positive. Possiamo
percorrere tutta la griglia secondo il percorso indicato e associare in questo
modo a ogni numero naturale un numero razionale, incontrandoli tutti.
Trascuriamo naturalmente i punti in cui il quoziente fra ascissa e ordinata `e
un numero razionale gi`a incontrato precedentemente (per esempio, nella prima
diagonale si trascura il punto (2, 2) che corrisponderebbe al numero razionale
2/2 = 1, gi`a incontrato come 1/1; nella terza diagonale si trascurano (2, 4),
(3, 3) e (4, 2)). 5. Esistenza di cardinalit`a A questo punto sorge naturale la
domanda se ci sono insiemi infiniti di un’infinit`a diversa da quella dei
numeri naturali. Non ci siamo riusciti nemmeno considerando l’insieme dei
razionali che, intuitivamente, dovrebbe avere piu` elementi dei numeri
naturali. C’`e una costruzione che produce cardinalit`a maggiori. Prima per`o
definiamo con preci- sione ci`o che intendiamo. Definizione 4. Se A e B sono
insiemi, diciamo che A ha cardinalit`a minore della cardinalit`a di B, e
scriviamo |A| < |B|, se |A| ≤ |B|, ma non `e vero che |A| = |B|. 5.
ESISTENZA DI CARDINALIT`a 7 Il modo corretto per verificare che |A| < |B| `e
questo: • esiste una funzione totale iniettiva di A in B; • non esiste una
biiettivit`a di A su B. Notiamo che non basta verificare che una funzione
iniettiva totale di A in B non `e suriettiva. Per esempio, esiste certamente
una funzione totale iniettiva di N in Q che non `e suriettiva; tuttavia, come
abbiamo visto, |N| = |Q|. Un altro esempio: l’insieme N ∪
{−2} `e numerabile, anche se la funzione di inclusione N → N ∪
{−2} non `e suriettiva. Infatti la funzione f : N → N ∪
{−2} definita da f(0) = −2 e f(n) = n − 1 per n > 0 `e una biiettivit`a.
L’idea per trovare un insieme di cardinalit`a maggiore partendo da un insieme X
`e dovuta a Cantor. Teorema 10 (Cantor). Se X `e un insieme, allora |X| < |P
(X)|. Dimostrazione. Dimostriamo che esiste una funzione totale iniettiva X →
P(X); essa `e, per esempio, { (x, {x}) : x ∈
X } cio`e la funzione che all’elemento x ∈ X associa
il sottoinsieme {x} ∈ P(X).
Dobbiamo ora dimostrare che non esistono funzioni biiettive di X su P(X). Lo
faremo per assurdo, supponendo che g: X → P(X) sia biiettiva. Consideriamo C
={x∈X :x∈/
g(x)}. La definizione di C ha senso, perch ́e g(x) `e un sottoinsieme di X,
dunque si hanno sempre due casi: x ∈ g(x)
oppure x ∈/ g(x). Siccome, per ipotesi, g `e
suriettiva, deve esistere un elemento c ∈ X tale che
C = g(c). Dunquesihac∈C oppurec∈/C.
Supponiamo c ∈ C; allora c ∈
g(c) e quindi, per definizione di C, c ∈/ C: questo
`e assurdo. Supponiamo c ∈/ C; allora
c ∈/ g(c) e quindi, per definizione di
C, c ∈ C: assurdo. Ne concludiamo che
l’ipotesi che g sia suriettiva porta a una contraddizione. Perci`o nessuna
funzione di X in P(X) `e suriettiva. L’insieme
P(X) ha la stessa cardinalit`a di un altro importante insieme. Indichiamo con
2X l’insieme delle funzioni totali di X in {0, 1}. Definizione 5. Se A `e un
sottoinsieme di X, la funzione caratteristica di A `e la funzione χA : X → {0,
1} definita da 1 sex∈A,
χA(x)= 0 sex∈/A. Possiamo definire due funzioni, f:P(X)→2X
eg:2X →P(X)nelmodoseguente: per A∈P(X)siponef(A)=χA;perφ∈2X
sipone g(φ)={x∈X :φ(x)=1}. Teorema 11. Per ogni
insieme X si ha |P(X)| = |2X|. Dimostrazione. Proveremo che g ◦ f e f ◦ g sono
funzioni identit`a. Sia A ∈ P(X);
dobbiamo calcolare g(f(A)) = g(χA): abbiamo g(χA)={x∈X
:χA(x)=1}=A, per definizione di χA. Sia φ ∈
2X; dobbiamo calcolare f(g(φ)). Poniamo B = g(φ) = {x ∈
X : φ(x) = 1}. Occorreverificarecheφ=χB. Siax∈X;seφ(x)=1,allorax∈BequindiχB(x)=1;
se φ(x) = 0, allora x ∈/ B e
quindi χB(x) = 0. Non essendoci altri casi, concludiamo che φ = χB. Ora,
siccome per ogni A ∈ P(X) si ha
A = g(f(A)), g `e suriettiva e f `e iniettiva. Analogamente, per φ ∈
2X, φ = f(g(φ)) e dunque f `e suriettiva e g `e iniettiva. 8 INSIEMI INFINITI 6. La
cardinalit`a dell’insieme dei numeri reali Con il teorema di Cantor a
disposizione, si pu`o affrontare il problema di determinare la cardinalit`a dei
numeri reali. Intanto dimostriamo un risultato preliminare; consideriamo
l’intervallo aperto I={x∈R:0<x<1}
e dimostriamo che |I| = |R|. Consideriamo la funzione f : R → R, √ 2
1+x−1 f(x) = x 0 Un facile studio di funzione mostra che f `e iniettiva e che
Im(f) = I. Allo stesso risultato si arriva considerando la funzione g(x) = π2
arctan x. La considerazione di I ci permetter`a di semplificare i ragionamenti.
Sappiamo che ogni numero reale in I si pu`o scrivere come allineamento
decimale: 21 = 0,500000000000 . . . 31 = 0,333333333333 . . . √71 =
0,142857142857 . . . 22 = 0,707106781187 . . . π4 =0,785398163397... dove i puntini
indicano altre cifre decimali. Prevedibili in base a uno schema periodico nei
primi tre casi, non prevedibili negli ultimi due che sono numeri irrazionali.
Il numero dieci non ha nulla di particolare. Si pu`o allo stesso modo
sviluppare un nu- mero reale come allineamento binario. Gli stessi numeri,
scritti a destra dell’uguale come allineamenti binari, sono: 21 =
0,100000000000000000000000000 . . . 13 = 0,010101010101010101010101010 17 =
0,001001001001001001001001001 √ 22 = 0,101101010000010011110011001 . . . π4
=0,110010010000111111011010101... e le cifre si ripetono ancora periodicamente
nei primi tre casi. In generale un numero r ∈
I si scrive come r = 0,a0a1a2 ..., dove ai = 0 oppure ai = 1; in modo unico, se
escludiamo tutte le successioni che, da un certo momento in poi, valgono 1.
Questo `e analogo ai numeri di periodo 9 nel caso decimale. Dunque abbiamo in
modo naturale una funzione f : I → 2N: f(r) `e la funzione φ: N → {0, 1}
definita da φ(n) = an dove a0, a1, · · · sono le cifre di r nello sviluppo binario
di r. La funzione f `e totale e iniettiva, quindi concludiamo che |I| ≤ |2N|.
se x̸=0, se x = 0. 7. IL PARADISO DI CANTOR 9 Vogliamo ora definire
una funzione g: 2N → I. Prendiamo φ ∈ 2N; la
tentazione sarebbe di definire g(φ) come quel numero reale il cui sviluppo
binario `e 0,φ(0) φ(1) φ(2) . . . ma questo non funziona, perch ́e, se per
esempio la funzione φ `e la costante 1, il numero 0,111111 . . . `e 1 ∈/
I. Se anche escludessimo questa funzione, avremmo il problema del “periodo 1”.
Dunque agiamo in un altro modo. Alla funzione φ associamo il numero reale il
cui sviluppo binario `e g(φ) = 0,0 φ(0) 0 φ(1) 0 φ(2) ... cio`e intercaliamo
uno zero fra ogni termine. E` chiaro che, se φ ̸= ψ, allora g(φ) ̸= g(ψ),
dunque g `e iniettiva e totale. Teorema 12 (Cantor). |R| = |P (N)|.
Dimostrazione. Abbiamo gi`a a disposizione le funzioni f: I → 2N e g: 2N → I,
entrambe iniettive. In particolare, |I| ≤ |2N e |2N| ≤ |I|; per il teorema di
Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |I| = |2N|. Sappiamo poi che |I| = |R| e che |2N|
= |P(N)|. Dunque |R| = |I| = |2N| = |P(N)|, come voluto. Occorre commentare
questo risultato. Per dimostrarlo abbiamo usato il teorema di Cantor-Schr
̈oder-Bernstein, quindi non abbiamo potuto scrivere esplicitamente una biietti-
vit`a di R su P (N). Ma non `e questo il punto piu` importante. La conseguenza
piu` rilevante del teorema `e che non `e possibile descrivere ogni numero
reale, perch ́e, come vedremo in seguito, i numeri reali che possono essere
espressi con una formula sono un insieme numerabile. 7. Il paradiso di Cantor
Un’altra applicazione del teorema di Cantor porta alla costruzione del
cosiddetto “paradi- so di Cantor”. Questa espressione vuole indicare
l’esistenza di una successione di cardinalit`a infinite ciascuna strettamente
maggiore della precedente. Allo scopo basta iterare il passaggio all’insieme
dei sottinsiemi, per esempio a partire dall’insieme dei numeri naturali, per
ottene- re una successione di insiemi la cui cardinalit`a, per il teorema di
Cantor, continua a crescere strettamente: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| <
|P(P(P(N)))| < ··· < |P(...P(P(P(N))))...)| < ··· Si potrebbe ancora
andare avanti; definiamo, per induzione, P0(X) = X, Pn+1(X) = P(Pn(X)). Allora
possiamo considerare l’insieme Y1 = Pn(N), n∈N
e si pu`o dimostrare che |Pn(N)| < |Y1|, per ogni n ∈
N. Dunque abbiamo trovato una cardinalit`a ancora maggiore di tutte quelle
trovate in precedenza e il gioco pu`o continuare: consideriamo Y2 = Pn(Y1) n∈N
e ancora |Pn(Y1)| < |Y2|. E cos`ı via, costruendo una gerarchia infinita di
cardinalit`a sempre maggiori. Oltre a interrogarci sul prolungarsi della
successione delle cardinalit`a infinite sempre mag- giori, `e del tutto
naturale domandarsi se tra |N| e |P (N)| c’`e o no una cardinalit`a
strettamente compresa tra le due. Piu` in generale, ci si pu`o chiedere se,
dato un insieme infinito X, esiste un insieme Y tale che |X| < |Y | <
|P(X)|. 10 INSIEMI
INFINITI Cantor ipotizz`o che non ci siano insiemi Z tali che |N| < |Z| <
|P(N)|, e questa ipotesi ha preso il nome di ipotesi del continuo. Non `e
questo il luogo dove discutere questa questione, risolta brillantemente da P.
J. Cohen nel 1963: l’ipotesi del continuo `e indecidibile rispetto agli assiomi
della teoria degli insiemi, nel senso che `e altrettanto coerente prenderla
come vera che prenderla come falsa. Non si tratta di argomenti semplici, tanto
che per i suoi studi Cohen fu insignito della Fields Medal che, per i
matematici, `e l’analogo del Premio Nobel. Esercizi Si ricordi che kN indica
l’insieme dei numeri naturali multipli di k, N≥k l’insieme dei numeri naturali
maggiori o uguali a k, e N>k l’insieme dei numeri naturali strettamente
maggiori di k. Esercizio 1. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi 3N ∪
{2, 5} e 2N \ {10, 8} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 2. Si costruisca
una funzione biiettiva tra gli insiemi 4N ∪
{ 32 , 7, √2} e N>9 . Esercizio 3. Si dimostri che per ogni insieme finito
X, se f : X → X `e totale e iniettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio
di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 4.
Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale e suriettiva,
allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga
propriet`a non sussiste. Esercizio 5. Si costruisca una funzione biiettiva tra
gli insiemi Z ∪ { 32 , √3 2} e 3N. Esercizio 6. Si
dica, motivando la risposta, se gli insiemi (5N \ {5, 15}) ∪
{√3, 25 } e 2N ∪ {11, 17} hanno la stessa
cardinalit`a. Esercizio 7. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi N≥50 ∪
5N e 3N ∩ 2N hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 8. Sia A un insieme
numerabile e sia a ∈/ A. Si
costruisca una biiezione tra gli insiemi A e A ∪
{a}. Esercizio 9. Sia A un insieme numerabile e sia a ∈
A. Si costruisca una biiezione tra gli insiemi A e A \ {a}. Esercizio 10. Sia Π
l’insieme dei numeri reali irrazionali. L’insieme Π `e numerabile? Esercizio
11. L’insieme di tutte le funzioni da Q all’insieme {0, 1, 2, 3} `e numerabile?
Esercizio 12. Sia P = {I | I ⊆ N e I `e
un insieme finito} l’insieme delle parti finite di N. Qual `e la cardinalit`a
di P ? Esercizio 13. Si dica, motivando la risposta, se l’insieme P(3N) `e
numerabile. Carlo Cellucci. Keywords: il paradiso, Peano, logico filosofico,
philosophical logic, logica filosofica, il paradiso di Peano, la rinascita
della logica in italia, storia della logica in italia, formalismo, platonismo,
teoria dell’adequazione, calcolo di predicato di primo ordine, regole
d’inferenza, spiegazione matematica, logica antica, la logica nella storia
antica, connetivo, connetivo russelliano, connetivo intuizionista, prova,
dimostrazione, Aristotele e la mente, il nous, l’anima. Concetto di nomero,
definizione splicita, implicita, gradual del numero, peano, frege, logica della
scoperta, revivirla? il paradiso di Rota, il paradiso di Cantor, parmenide,
non-contradizzione, il significato, il problema de significato, il problema del
significato in Hintikka, Grice divergenza connetivo logico e connetivo nella
lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’ ‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” –
The Swimming-Pool Library. Cellucci
Grice
e Celso: l’orto a Roma sotto il principato di Nerone– filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. A follower of the Garden during the principate of
Nerone.
Grice
e Celso: Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. The son of Archetimo and a friend of Simmaco, he teaches philosophy
in Rome.
Grice
e Cefalo: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Siracusa). Filosofo italiano. A rich friend of Socrates who enjoyed
philosophical discussions. Cefalo.
Grice e Centi: l’implicatura
conversazionale di Savonarola e compagnia – dal pulpito al rogo -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Segni). Filosofo italiano. Grice: “I like
Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his life to Aquinas,
o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he also
philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed the
expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“ Grice:
“According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della
filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottora presso l'Angelicum
di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San
Tommaso d'Aquino, Maestro in sacra teologia dal maestro generale dell'Ordine
domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il
Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato
per i tipi di Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma
Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di
san Giovanni (Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli
(Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae
etc.) e varie Questiones Disputatae.
Oltre al commento d’AQUINO, si occupa anche di altre importanti figure
storiche come SAVONAROLA e Beato Angelico. È stato membro della commissione
storico-teologica incaricata di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha
difeso l'ortodossia, dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui
attribuite che avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo
che la scomunica inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua
condanna fosse la sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro
VI. Altre opere: “La somma teologica,
testo latino dell'edizione leonina, commento a cura dei domenicani italiani, C.,
Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, POMBA (Torino); Catechismo
Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto
del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che sconvolse
Firenze (Città Nuova, Roma); “La scomunica di Savonarola. Santo e ribelle?
Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “AQUINO: Compendio di
Teologia e altri scritti); Selva, POMBA, Torino); “Il Beato Angelico. Fra
Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, Inos
Biffi); Le altre due Somme teologiche Studio Domenicano. Nel segno del sole. Aquino,
Ares, Milano. Speranza, “Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano
intenzionalista (grammatico speculativo) – l’intenzione del segnante. Il
problema del segno (segnante, segnato, segnare, segnazione, segnatura). Un
segno e monosemico. La figura retorica della metaforia permesse interpretare un
sengno de maniera allegorica, ma e rigorosamente referenziale. Un segno che e
presente rinviano ad una segnatura – segnato/segnatura -- un evento che ha la
realta come punto di riferimento. Un segno particolare o particolarizato è quello del sacramento, o
segno efficace, che testi-monia la presenza della grazia divina e fa quel che
dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo essere ‘ad placitum’ –
‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno e dal segnante legato
no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un concetto. Un segno
naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita (efficace) e per
iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione del segno e del
segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno naturale), o
arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De interpretation”
(cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei opere di logica
contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la relazione che
intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il rapporto fra le
otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla combinazione di
queste parti. AQUINO, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa un
commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata
interpretata e commentata durante il corso di logica tenuto da Gimigliano presso
l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo
Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso il tutee elabora un’interpretazione
su un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un
contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i
contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione
sono ad opera di Gimigliano. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium,
in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis
scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt
eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere
de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, id est definire quid
sit nomen et quid sit verbum. In graeco habetur, primum oportet poni et idem SIGNIFICAT.
Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt,
merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum,
de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis
autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae
fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc
dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una
quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum
consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem,
prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo
traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent
aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad
rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo,
considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic
determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum. Potest
iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine
et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione
determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet,
ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et
verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his;
et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola
nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim
comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen
determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod
consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero
sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad
aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes
navis, sed partium navis coniunctiones. His igitur praemissis quasi
principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem,
dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes:
non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem
enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes
subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem
manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in
categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de
affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex
pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam
unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non
continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad
quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex
suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur
per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo ARISTOTELE
praetermisit tractatum de hypotheticis enunciationibus et syllogismis. Subdit
autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio,
quae est genus enunciationis. Si quis ulterius quaerat, quare non facit
ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde
pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de
anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie
orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales
ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse
praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est
enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum
quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum.
Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit
affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad
partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum
quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse,
prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat
affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul
natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus
accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum,
sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum
de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de
quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit
significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum;
secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex
impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. Est ergo
considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum.
Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur
res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae
originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal
solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus
conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum
praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi.
Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione
intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione
litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba
et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes
voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter,
quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut
appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in
voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est
quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana,
quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad
designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce,
ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod
dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones
animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira,
gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod
huiusmodi passiones SIGNIFICANT NATURALITER quaedam voces hominum, ut GEMITUS
INFIRMORUM et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est
de vocibus significativis EX INSTITUTIONE humana; et ideo oportet passiones
animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et
orationes significant immediate, secundum sententiam ARISTOTELE. Non enim
potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi
apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a
singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem
singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis
separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter
secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit
Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et
eis mediantibus res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones
intellectus ARISTOTELE nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum
non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones
animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus
passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod
non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de
anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem
receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est,
ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam
intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel
odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum
etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum
quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.
Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione
Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam
per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa
passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per
sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi
signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per
hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae.
Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in
voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et
Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur
litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed
quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam
narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod
Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam
enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae
sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa
sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et
quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum
significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant.
Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum
ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per
artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit,
utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde
manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces NATURALITER
SIGNIFICANT, sed ex institutione humana. VOCES AUTEM ILLAE, QUAE NATURALITER
SIGNIFICANT, SICUT GEMITUS INFIRMORUM ET ALIA HUIUSMODI, SUNT EADEM APUD OMNES.
Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse,
sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem;
idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum
passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur
enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non
proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam
eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet
passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit
esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones
autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non
cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu
vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum,
quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas
significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias
habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones.
Ad quod respondet BOEZIO quod ARISTOTELE hic nominat PASSIONES ANIMAE conceptiones
intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud
omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia
etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non
autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in
III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas
significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere
intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat,
non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus
sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio,
quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum
hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.
Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non
est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius
quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam
eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille
qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius
dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem
conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit
conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere
identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit
esse easdem. Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori
harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem
significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam
significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo,
praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim
et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae
vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine
differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa
significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili,
sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod,
sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in
III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem
invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine
vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia
voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad
hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum
significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam
autem cum vero et falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc.,
manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo,
quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina
igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus
quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo
quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet
intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium
intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei
quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel
quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod
huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac
secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur
veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut
etiam traditur in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium:
quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur
quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione.
Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio
quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem,
quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et
per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in
compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res
dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate.
Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et
summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et
divisionem. Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas
in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio
modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in
eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente
vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem.
Quod quidem sic patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum,
est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit
per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem
sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines.
Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno
quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad
intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum
quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem
naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut
posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in
hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent
simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur
tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum,
non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut
mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum.
Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis;
falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam
naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem,
consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam
formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum
aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res
naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I
physicae, formam nominat quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per
comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius
mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam
conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii
sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est
absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima.
Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non
tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem
conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest
huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus
potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod
veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere
autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita
esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus
non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re,
puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et
intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est
absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster
intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens
est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui
est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil
aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur
esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est instantia de eo, qui per
unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum
quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur
verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non
significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de
verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his
intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio,
licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum
ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus
et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos
cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus
simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi
quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus.
Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est
esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum
tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum
quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur
exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim
falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel
falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine significationis
vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia
principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in
qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo,
determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi:
enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim,
determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales
ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis
genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo
facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo,
determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re;
ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria
facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim
quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem
nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen. Circa primum
considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter
rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet
definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet
definitio conveniat. Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo,
ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis,
qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum
imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima
differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non
significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non
litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de
significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit
quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit quaedam res naturalis,
nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod
non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum,
quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam
convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam
si quis diceret quod est lignum formatum in vas. Sed dicendum quod
artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere
autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt.
Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in
definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si
qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur
accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia;
ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens
significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum,
quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus
curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales,
ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione
ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum
figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si
nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas
artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit:
secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis
procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter,
sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium. Quarto, ponit
tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo.
Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus.
Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum
tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine,
sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore
mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter
tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum
quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia
autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non
habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod
subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et
participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo,
potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per
adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto, ponit quartam
differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet
a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in
toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem
pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet
formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars
significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum dicit: in
nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo,
quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero
placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis;
tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in
sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat
propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter
nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat
ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita,
in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars
ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus
ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum
simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad
significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a
laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum
conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur
ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis
compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam
conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis
compositae. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se
habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus
pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine
equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut
imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum
ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita
conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. Deinde
cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae
definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum
placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod
significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est
quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id
enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc
significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris
significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia
non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias
passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo
manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter. Sciendum
tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt
quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine
significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant,
quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod
nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non
est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter
significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec
obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse
multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei
multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum
nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim
quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia
nullus talis sonus est nomen, ut dictum est. Deinde cum dicit: non homo
vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum;
secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo
primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam
determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum,
ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque
determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae
aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici
indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera
est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est
non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus
existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente,
ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod
potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione.
Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones
concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid
separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio,
id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem
affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi
dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis,
ut dictum est. Deinde cum dicit: CATONIS autem vel Catoni etc., excludit
casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt
nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est
impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur
casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a
nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam
nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest
procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil
prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens
ligno infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit
consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio,
quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in
hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit
semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter
autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba,
scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum
dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum;
ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed contra: si nomen
infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis
definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra
communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat
subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non
simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat,
neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum
est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et
circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a
ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit
convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo
exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera. Est autem
considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione
verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis
ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in
definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet
quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis
quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam
distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra
significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur
hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad
placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum
est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut
cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae
componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his
distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest
etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur
oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum
habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est
quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit
iterari. Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non
solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit:
et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia
scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed
verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur habere instantiam
in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum
dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi,
quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in
vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina.
Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per
se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem.
Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto,
velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio,
ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est
egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per
verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse
processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et
significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae
significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba,
ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.
Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando
in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in
tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius
significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam
vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis
partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum
dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et
primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum
ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit:
et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars
extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis.
Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia
videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per
modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro
vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium
est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum
est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore
mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam,
quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non
convenit nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit
aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte
praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut
dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero:
tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni
praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua
praedicatum componitur subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut
eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de
subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto
autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo
verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est
ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur
in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem
pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed
quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare.
Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota
eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi
significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur
magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur,
magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper
est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum
ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive
accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba
praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit
ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est
enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod
praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius
quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper
ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio
reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem
vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae
dictiones significant remotionem actionis vel passionis. Si quis autem
obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba;
dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter
sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a
perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum
a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis
conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba
infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter
potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio
apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim
supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis
negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero
negativa in vi duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem curret
etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut
verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis,
vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus
verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus,
illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter
praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens
indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut
passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae
incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae
consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta:
cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie
verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati
simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum
quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter
casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum
dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens,
futurum autem quod erit praesens. Cum autem declinatio verbi varietur per
modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam
non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed
ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam
actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel
optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis.
Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque
sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit
convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et
cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a
quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive
sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi;
ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis,
quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est
quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem
impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est
quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant
agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem,
prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet
potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et
praedicari. Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat
propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina;
secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi:
sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est
quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia
supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde
proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo
audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit
quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad
hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur
esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem
nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus
audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius
animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio,
ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit
intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius,
et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel
verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit
intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis
et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit
quiescere audientem. Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est,
nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et
divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit.
Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare
veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum
infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum
veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc
generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non
significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum
verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non
sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem
esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non
currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel
non esse. Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum
subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi
notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non
esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de
quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de
decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat,
nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est
per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur
conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et
posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur:
tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et
quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis
expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter
exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc
nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit
quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est
intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret
aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum,
sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est,
sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum
vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam
compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum
dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio
significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest
intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus
nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem
Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis
sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non
significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non
esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse.
Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam
quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse,
per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse
principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret
aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est,
non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem
habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad
veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et
falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare
compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa
compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine
componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non
apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse
verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti;
significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis
absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat
per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum
est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel
accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum
actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel
simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus;
secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum
est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de
verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius
existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale
enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim,
proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo
etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.
Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo
ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est
vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de
verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia
supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati,
ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia
significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen
vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et
verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra
enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed
solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius
pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se
non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum
compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio
competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde
subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat
aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc
definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire.
Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio;
ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc
respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius,
debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei,
puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est
in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde
est quod ARISTOTELE prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici,
secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde
debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et
compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit
soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum
dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et
compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc
non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit
affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod
significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem
redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper
differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne
dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut
dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii,
non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus
autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis
daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi
alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo
secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic
decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum
perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et
tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus
partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum
mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis,
scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis
principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio
imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio
convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Deinde cum dicit: dico
autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum
esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una
hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis
esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat
aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse
vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim
aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si
addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit
falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus
quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur
ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia,
oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis,
scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars
alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem
totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus
immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de
partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur
quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est
una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse
dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una
dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba
huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola.
Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet
simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in
quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem
est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in
compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito
et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se,
prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.
Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim
aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad
placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis
oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis;
potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt
naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus
interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum,
quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione
humana significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur CRATILO, ARISTOTELE obviando dicit quod omnis
oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis:
quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo,
quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati
soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis
interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur
naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio
significat AD PLACITUM, id est secundum institutionem humanae rationis et
voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex
humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam
non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed
supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius
corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet
virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis
utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc
modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis:
quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de
principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et
dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in
secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici
enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de
aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In
prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima
oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi:
quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit
definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem
differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus
etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et
caeterae quidem relinquantur. Circa primum considerandum est quod oratio,
quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen
instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet
definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et
omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra
dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur
veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo
orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non
omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi
considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem
orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et
definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est:
ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio,
in qua verum vel falsum est. Dicitur autem in enunciatione esse verum vel
falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est
verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in
causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non
est, oratio vera vel falsa est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus
etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis
orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non
significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo
audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo
consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae
orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet
enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen
intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia
oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra
dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad
attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum
dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua
invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum
intellectus, in quo est verum vel falsum. Sed quia intellectus vel ratio,
non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium
pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit
quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita
etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum
quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad
tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio:
secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio,
ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non
significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed
quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur
verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de
rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur
verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam
vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et
optativa ad deprecativam. Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur
etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae
quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones
audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur
provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et
ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem
audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae,
ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout
consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit
enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit
divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et
cetera. Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si
enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita
sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum
rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est
simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam
negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat
compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem
eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est
divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte
etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa,
quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.
Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest
affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde
negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est.
Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam
aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex hoc autem
quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in
affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant
rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo
mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis.
Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in
ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu
accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum
propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem
enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua
verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc.,
manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod
enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat
secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel
negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum;
secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.
Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet
constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est
praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in
enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc,
quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam
enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam
est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est,
quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid
huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio
enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex
nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod
tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa
invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine
nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur,
currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est
nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars
enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur
apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a
forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de
parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica
dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel
negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod
affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et
adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel
verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit
tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una
simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod
illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit
per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat
compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum
est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens
intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi:
quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem
propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est
definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis
definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii.
Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius
assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per
se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per
formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex
forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia.
Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut
scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae,
idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non
interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si
interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret
primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur
interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem
definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et
interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit
medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad
unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis
servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam,
homo albus musicus. Sic igitur ARISTOTELE valde subtiliter manifestavit quod
absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam
importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et
est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad
materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad
manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. Dicit ergo primo quod
enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel
una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque
coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.
Circa quod considerandum est, secundum BOEZIO, quod unitas et pluralitas
orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur
secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum
solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est
albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem
significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam,
animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in
conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem
quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione
ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio
plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in
enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto
vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive
non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si
coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine
coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc
sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat,
non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes
plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando
interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter
ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua
interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum,
multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex
quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus
currit. Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem
Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur
distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est
coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non
multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum
et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod ARISTOTELE,
quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione
unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa
nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit
consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex
unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si
sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed
coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est
risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione
dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum
manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit
duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae
plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno
communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est
animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et
ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter
definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis
opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non
solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus
coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et
secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo
pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde
manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures:
plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus
accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum
unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat,
sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt
simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Deinde cum
dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et
verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset
autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum
unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum
dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo
loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis.
Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest
dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel
verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi
enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes;
puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem
utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, “Petrus
currit.” Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo,
non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille
qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte.
Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad
interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium
enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod
intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti,
quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si
ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est
quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem
inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem
orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum dicit:
harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una,
vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum SIGNIFICAT. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem simplex etc.,
manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod
enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem
convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae
enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod
simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet
ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in
praesenti. Alexander autem existimavit quod ARISTOTELE hic definiret
enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere
affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset
genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione
generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non
significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari
nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur
aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in
praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque.
Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem,
volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et
negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed contrarium apparet
ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere,
cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est
enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero
est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem
aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo BOEZIO
dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc
solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis;
melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox
significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare
esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium
negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur
enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum
est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem
definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est
autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae
sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et
sit hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad
ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis:
quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est
quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse,
vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est
per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et
enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum
congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. Sic igitur
quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum
divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re
est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus
Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non
est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est.
Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad
affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum
enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam;
ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora
procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae,
cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non
esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est,
scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae
opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet
in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur
affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non
esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non
est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad
hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae
per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est,
esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae
enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum
praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus
ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est
enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod
similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae
sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt
quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti
et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et
omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis.
Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod
trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde
manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia
affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae,
consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e
converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua
affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum
dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio
affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per
definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet
affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur
nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc
contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit
oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit:
dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est,
contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad
contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis.
Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex
subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod
affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, PLATONE
non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem
subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est
contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non
solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit
idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter
autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim
supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non
autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae
facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda
ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et
negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod
affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor
considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est
contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede.
Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio
si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur,
ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit
diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio
si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non
pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si
dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec
omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest
determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates,
idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus
plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem
affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem,
consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et
negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit:
primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam
differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si
ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae
sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo,
dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum,
ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen
vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum
simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis
distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia,
quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo
quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus
praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed
de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est
universale, PLATONE autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc
divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non
est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae
substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur
esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res
videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod
hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur
secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus
intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione
alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est
proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in
quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum
aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut
rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod
convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur
significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est
commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale,
quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est
communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute
secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum,
non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem,
puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem
Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel
de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem
intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de
anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit
autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei
quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid
accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus
remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol,
non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae
ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non
dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum
est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in
materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter
potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum
praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod
terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod
significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod
nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod
per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in
materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus
dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit PLATONE,
essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est
natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc
nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba ARISTOTELE. Ipse enim
non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum
est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus
praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus
inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen
Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia.
Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia
materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed
aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit
divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re;
rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod
quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium,
quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et
est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et
cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor
modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a
singularibus, sive per se subsistens, ut PLATONE posuit, sive, secundum
sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest
ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato
aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod
homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim
intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum
quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur
aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu
ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad
esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si
dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae
etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior
est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non
sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc
modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo
attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque
quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod
ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum
dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur
ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid
quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari
autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est
animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, “Socrates ambulat”.
Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit
affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio
enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum
quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est
divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic
enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum.
Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae
quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam
praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis
enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem
enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia
significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum
differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo
dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur
materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo
enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa
hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis
enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se
habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et
cetera. Circa primum considerandum est quod cum universale possit
considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis
singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum
est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam
dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod
aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab
omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant,
ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum
modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed
Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas
determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali,
prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra
singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et
similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in
singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt
quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic
accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur
universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari
de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in
qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa
est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto
universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem
praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod
praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur
sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi
nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo
praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel
removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis
quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod
praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed
quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam
indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In
negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis;
ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur,
non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat,
in quantum excludit universalem affirmationem. Sic igitur tria sunt
genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem
est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur,
omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali
particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua
aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositae. De singulari autem quamvis aliquid
diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad
singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari
individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum
aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates
est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. Si igitur tribus
praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis
ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis,
indefinitus et particularis. Sic igitur secundum has differentias
Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo,
secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum
differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera.
Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium
adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in
universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et
cetera. Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali
universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est,
idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes;
ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio
est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid
nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album,
quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab
albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est
albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo
quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat
haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus
homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod
pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem
dicit contrarietatem. Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit
qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo,
proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico
autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi:
cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de
universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter,
non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse
contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per
exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus
particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus
enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae
ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem;
cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis
ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non
universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae
non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet
praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto
universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota
autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non
universaliter enunciatur, non sunt contrariae. Sed hoc quod additur: quae
autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis
obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim
hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit
huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo
est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo
se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid
sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc videtur
ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum
vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic
sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis
enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto
universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter
(quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter;
et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod
universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius
quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut
in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest
accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in
affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur.
Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in
qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest
in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si
diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod
hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur,
praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse
verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit
convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia
omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur
sub universali. Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis
homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de
homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur,
omnis homo est omne susceptivum disciplinae. Signum autem universale
negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte
subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati.
Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim
est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod
animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia
proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper
falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam
falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt
semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod
philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere
omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de
oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas,
hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad
particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his
notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero
universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et
cetera. Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non
habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem
subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae
universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei,
quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit
affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et
particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus,
non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi
particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus;
sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non
quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus
(quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est
universalis negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia
contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem;
universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec
aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa
removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod
particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde
relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis
negativa, et particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum
dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et
dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae;
sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam
distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad
rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent
sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc.,
ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum.
Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi:
quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur
contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera.
Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt
contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se
expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus
contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus,
quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est
albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi
etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam
simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse:
potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est
pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae,
sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae.
Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter
veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est
quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi
quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est
altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo,
quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad
idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in
plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa
semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et
subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium
universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum,
semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse
simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur
esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse
quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Deinde
cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant
veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et
circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum;
ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset
dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum
considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus
videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non
determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse
de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative
et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper
oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera.
Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et
quod homo est probus, et, homo non est probus. In quo quidem, ut Ammonius
refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa
semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem
tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione
materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod
indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis
affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro
particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt
esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis
corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa
sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et
etiam ipse ARISTOTELE utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut
dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima,
quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod
enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum
est secundum sententiam PLATONE, qui non distinguebat privationem a materia,
non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod
malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de
materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro
peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet
quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis,
universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem
affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa
potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in
genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato
quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio
sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari
affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid
affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit
ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per
signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad
veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis
negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest
aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis.
Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in
his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis
affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus
praedicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat
propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod
indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera.
Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit
negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio
potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem,
sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus,
idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista
affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per
eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi.
Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad
hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt
simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae,
homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur
secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri
ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus,
quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est
imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente
albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit
albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae,
homo est albus, homo non est albus. Deinde cum dicit: videbitur autem
etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod
subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est;
quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod
est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant
neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est.
Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus,
nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa
hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur;
secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem
affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae
dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo primo,
manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem
fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur
quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae,
omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus
homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte
consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista,
quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua
aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa
includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in
quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod
affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid
singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter
sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio
neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi
opponitur una sola negatio. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4
Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla.
Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec
sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero
esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed
omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae
est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae
est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum
affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi,
omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est
albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando
affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod
huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria
negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non
aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale
indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur
tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. Expositio
Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum
est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa;
negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia
non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet
quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio
continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid
inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc
ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione
sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una
affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex
praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum
affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et
dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt
recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis
contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro
qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere
contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam
oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt
contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit
etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas
esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem
falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria. Deinde cum
dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una.
Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae
unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo
universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit
ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo
facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per
multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo,
ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur
sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod
una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum
quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale,
sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si
subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista
affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa
quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia
exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae
requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est
praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem
enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se
multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis
singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in
uno communi. Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola
unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor
facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis
ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert
corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si
unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio
una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno
modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo
et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum
quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura
generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit
unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt
partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex
lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur
rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur,
concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola
unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet
unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis
etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad
significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est
affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc.,
probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil
differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus
est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et
sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat.
Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet
hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua
res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere,
tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum
quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et
equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec,
tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera
existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones
ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad
unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est
albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec
cum dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec in his etc.,
concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae
utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam,
quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo
dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod
poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter
inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis
triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum
unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel
coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio
est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti,
et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est
quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur
tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus,
in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse
est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera
falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio
enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est
negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa
non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic
oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in
quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae
etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus,
in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse
quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul
verae, ut supra ostensum est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad
propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus
enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad
oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non
universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate
sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero
falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero
universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in
praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in
futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. Sed in singularibus et
futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse
est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque
materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una
determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam
contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio
est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles
mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia
pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant,
attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur
versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de
futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit
vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc.,
probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat
propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia
quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper
potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod
non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et
cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam
consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est
quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit:
quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco,
probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum
unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat
hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod
in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel
affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum
dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus
propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et
negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse
est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse
vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter
consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re.
Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod
album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare,
ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re
vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et
eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum
dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel
negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat,
sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius
rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in
singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans
vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne
necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio
determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc
concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus
contingentium excluditur. Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae
accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet
non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex
electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in
senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent,
nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam
permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad
productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae
sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se
habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum
sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo
enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum
dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit,
iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde
et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non
incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere
potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius
incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non
determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici,
neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad
utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio
vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille
qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse
aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret,
et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus
non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione.
Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum
enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo,
quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur
per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod
est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit
determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est
aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in
seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est
futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem
contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex
ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate
potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque
quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris
utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est
verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non
est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit,
neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus
rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et
falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam
esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse
quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in
singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc
autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit
quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae
sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi;
ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia
inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit
ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia
sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut
in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed
omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo
inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari:
probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex
necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse.
Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter
aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt
superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur
erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea
intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis
finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. Deinde cum
dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur
ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta
inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem
inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et
cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando
nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc
aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur,
alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio
determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit;
ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in
omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at
vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non
ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno
affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se
habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim
propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel
non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum,
sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod
nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante
quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat
veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere
diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse
sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic
se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat
per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non
futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal
rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici,
scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc
dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea
quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et
accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in
praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.
Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta
esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia;
ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo,
ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et
quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse
impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse
principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et
in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si
removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia
philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis,
nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines
alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis
scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit
principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod
consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent
dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam
naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde
impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel
consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod
omnia ex necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est omnino
etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus
naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse
et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod
non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est
album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album
permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit
etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est
in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et
non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum
per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam
possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex
parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi,
possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas
indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii.
Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri,
idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque
possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter
concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in
potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed
eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem
quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in
pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit
vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Est autem
considerandum quod, sicut BOEZIO dicit hic in commento, circa possibile et
necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea
secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam
erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit,
quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora
prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi
quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile
vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur
esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid
est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est
necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori
et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet
impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et
ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur
illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse;
impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod
ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad
alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad
utrumlibet. Et hoc est quod BOEZIO attribuit Philoni. Sed manifeste haec est
sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et
contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi,
in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque
oppositorum. Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in
corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et
non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa
ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde
dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur,
non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae
activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit
determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex
necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. Hoc igitur
quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus
naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam
dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione
causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa
autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit,
multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis;
et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed hanc rationem
solvit ARISTOTELE in VI metaphysicae interimens utramque propositionum
assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud
quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie
non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse
musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse
musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter
etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum
poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius
effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis
lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Si autem
utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia
ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset
effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus)
reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam,
quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita,
necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad
ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad
bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa,
necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit
utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt
autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid
per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se.
Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum
accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens
alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est
per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod
per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens
non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum
proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V
methaphysicae dicitur. Quidam vero non attendentes differentiam effectuum
per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius
provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium
corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim
positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus
quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se
et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive
ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut
probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus
seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis
potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum
sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium
corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem
hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum
differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad
intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur
viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non
inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas
concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum.
Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae
per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus
rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est
per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem
naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens
non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una,
Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit
in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in
corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia
scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum
se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum,
cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.
Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi
ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen
intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format
enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens
evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut
concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum
ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a
domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant. Et
secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae
videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua
dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de
intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit.
Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse
ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque
modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum
intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne
cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et
omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est
cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub
eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute
activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.
Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo
accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo
quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea
quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis:
voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult,
ex necessitate eveniant. Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod
cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum
eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. Nam
primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad
cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis
cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae
totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest
ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et
posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in
tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet
eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de
praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes;
quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se
sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non
potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in
aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem
simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in
comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo
unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine
temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo
necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est
quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et
futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu
aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem
non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque
eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem
sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem
sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad
effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem
sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est.
Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia
quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt
ex necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo
oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit
contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non
omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem
aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus
consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in
eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum
voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod
sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei
quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens
semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per
consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod
similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem
quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus
ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota,
sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate
consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa,
principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum.
Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit
ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa
principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate
assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem
quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile,
sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex
necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt
esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae
comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum
in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non
posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et
maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere
et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus
humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut
sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut
abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod
bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad
haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in
his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt
ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt
determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem
dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit,
quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit
esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis
impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim
argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam
removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso,
primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se
habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et
necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa
eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio
est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si
praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant,
oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est
esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et
haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et
non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo
necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod
est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est,
impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem
significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse
quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando
non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non
potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et
omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne
ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex
necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem
necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter
de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex
necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere
id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est
verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.
Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant
veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit
quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim
illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione
eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se
necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse
est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc
sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod,
impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est
neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si
divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat
per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non
esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non
est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam;
sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim
pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione. Deinde cum dicit:
quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat
circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate
orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit
veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo
primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut
et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est
vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut
sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum
qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus,
ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio
enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque
sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat
in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae
sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars
contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se
habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit
vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex
hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel
falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale
intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni
genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram
et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his
quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non
esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in
his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum:
quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur
primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione
simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod
diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione
considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in
enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio,
secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa;
tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars
in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod
aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid
accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel
falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit
quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod
additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est
affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum
vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non
tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo
facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis
infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex
additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa
primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo,
determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur
non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem
est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit
rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem
et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo,
ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi:
praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit
rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen
autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio
et cetera. Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione
affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de
aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur,
consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen
autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia
affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo
significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum
(quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest
infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum
aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne
aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et
innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum,
in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de
uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen,
vel nomen infinitum. Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod
dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit
innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est
infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum.
Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod
nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter
unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut
etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua
negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim
eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens,
non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in
IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum
rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua
subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum
non significet unum. Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc.,
concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim
est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat
ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod
hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et
eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit
affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est. Deinde cum
dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest
sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est
affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel
negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in
enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem,
quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae
quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet
ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo
extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut
et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito,
negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam:
quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi
per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum
infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo
variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante
verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in
simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non
diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo,
sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et
ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non
universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus,
in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia
singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant
praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam
philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum;
secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor
etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo
facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat;
ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem,
quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam
considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur
secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus
significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non
praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum
principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur,
Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in
rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in
talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse
tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in
enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic
enunciatio dividatur in duas partes et non in tres. Secundo,
considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum
est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod
considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur
solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta
si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una
oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens
praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum
differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut
haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero
oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio
fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota
praedicationis. Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit
quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus,
hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum
in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio
nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum
communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam
nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non
refert utrum dicatur nomen vel verbum. Deinde cum dicit: quare quatuor
erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem
numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio,
rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo
primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens
praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est
quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens,
praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum
duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem;
et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et
negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam,
ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia
breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. Ad
cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in
huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum
quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa,
scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices.
Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae
aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur
infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam
sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae
dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes
earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se
habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum
consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de
praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se
habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato,
scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa
vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato,
sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed
duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non
homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et
hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad
illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram.
Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato
et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et
cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur
in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in
praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non
loquitur. Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes
quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam
speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae
affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non
est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem
affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum
privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato.
Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem
affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim,
homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est
simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis ARISTOTELE. Dicit enim
infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita;
ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in
fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito
vel privativo praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius evidentiam
considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad
illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari
potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de
quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec
enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet
vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi,
manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita,
quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de
quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus,
potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo
qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen
haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus
quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de
pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam
affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit
homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa:
potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum
virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere
dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam
negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de
homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam
negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo
iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo
quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non
iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum
iustitiae neque habent habitum iniustitiae. His igitur visis, facile est
exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum
praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et
negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera
negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut
privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem
affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa
infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa
privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa
sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita
etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus,
et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo
infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. Sequitur, duae
autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet
infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas
in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte
simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa
est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in
plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam
infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.
Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen
videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur
sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in
praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et
postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et
magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam BOEZIO
ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo
secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum,
scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una
est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad
affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius
negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad
affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet
negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex
negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae.
Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.
Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra
dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim
nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum
quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet
iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut
cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad
verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi
opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod
praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae.
Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum
dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam
figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est,
intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura,
in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex
opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur
duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In
qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum,
adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor
enunciationes. Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes
disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis,
idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut
non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini
adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur
ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de
infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte
praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex
parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod
praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri
et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod
non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice: “You tell
me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call him a
philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even
non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus,
Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando
infirmus signat infirmitas -- tomismo, segno, segnante, segnato. Aquino, why
Aquino is hated at Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool
Library. Centi.
Grice e Centofanti: l’implicatura conversazionale
della filosofia italica, no romana – Appio -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Calci).
Filosofo italiano. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in
the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani –
notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the
Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” –
how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most
importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration
on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee
for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner,
Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the
nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si
laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore
secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana,
Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e
le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia
della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa);
“Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri”
(Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia
– noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia”
(Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della
nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano”
(Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo
in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso
storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo
diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di
Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La
letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli; “Pitagora”
(Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degl’italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo
Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a CROTONE che tosto vi
opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa pubblica. I
crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti dall’autorità
del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle ragioni discorse.
E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per
tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde. A Sibari, a Taranto, a
Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e
il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine liberale e giusto.
Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma I ROMANI (pria di Carneade!)
vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re NUMA escono legislatori dalla sua
scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l’obbediscono.
I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il
servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il mistico viaggio all’inferno.
I crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio
finalmente è vittima dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima
vita con una miserabil morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in
un tempo nè con un intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo
di secoli fino al nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi
della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è
facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità
loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza
e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei
tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il
simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia
alle congetture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e
gl’interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando
surgeno gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime
umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai
separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture
delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di
quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto,
e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di
densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti
usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore.
Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello
di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non
impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono
cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il
più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea
religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella
setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione
dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae) e uno scorto
fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione
del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo
interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto.
Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se
veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna
imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer
sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al
sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a
goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile
schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il
riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio
esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura
trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che
procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri
ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa,
la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno
prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto
e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare
sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la compiacenza
nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di Bruckero
(Hist. crit. phil., Lips.). Chi recalcitra ostinato, accusavasi inetto a generosa
perfezione. Finalmente, un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso di
una cosa esteriore immoderatamente desiderata. La qual cupidità, molto spesso
contraria alla fratellevole espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la
comunione del bene, ordinata a felicità più certa della setta. Quei che
appartene ad un pitagorico e a disposizione del suo consorte. Ecco la verità
istorica. Il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col
principio fondamentale della setta pitagorico, perchè è fabbricata secondo la
verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”, dice Diodoro Siculo, “si
quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum *fratre* dividebant”
(Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón te medėn fysiofai” –
“proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio consuona al principio
ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito a Pitagora da Timeo. Fra
due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των φίλων”. Anche la domande
cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo abbiansi pure, se cosi
vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della vera e primitiva
disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di
considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si dirama la
co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato con profondo
senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di ogni procede
al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema
legge in questa fondamental disciplina e l’autorità. Nell’età odierna, dissoluta
e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero dell’*obbedienza* e dell'impero
perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta. Il
fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si lascia dominare dal
fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma all’uomo e la presunzione
non occupa il luogo della scienza. La solidità della cognizione radica nella
temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha
una nozione sempre scarsa della verità che impara, finchè non ne ha compreso
l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata non basta, chi non v’aggiunga
l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo e sapientissimo testi-monio
della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere intese pienamente da ogni
e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di quelche la insegna o che presiede
alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per anche iniziato al gran mistero
della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro senza discuterla. Il precetto
e giusto, semplice, breve. La forma del discorso e simbolica; e la ragione
assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che così ha detto e insegnato.
“Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse dixit” credo di aver
determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè nota Diogene Laerzio,
lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone, Quintiliano, Clemente
Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo attribui ai discepoli del
nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza. “Tantvm
opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione valeret auctoritas” (De Nat.
Deor.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe detto Pitagora stesso,
riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal quale riceve il suo domma
– “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come, secondo altri (Clem. Aless..)
rifiuta il titolo di *sapiente* e adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la
sapienza (sofia) vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e
incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza
distinguerla. Applicasi quel precetto alla vita e dai buoni effetti ne
argomenta il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che puo venire da
questo severo tirocinio, moltissimo dove conferire il silenzio. Però la
TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per due, tre, o cinque anni, e
proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del
trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la baldanza
dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non diffusa nel
discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro
se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione sua propria col
quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto, ed il santo.
Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado questa difficile
virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico.
Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E allora passa alla
classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante, discepolo (pvýccol
óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla, ed e rigettato o
puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento quanto e bisogno
alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso ponesi il monumento
siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto, non lo nega neppure
Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al
buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma qui ancora il mito dà
nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere religioso e grande. Ma
il degno di rimanere nella setta, e che passa alla classe superiore, comincia e
segue una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero
né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata la misteriosa cortina,
il discepoli divene college, compagno di giocco, condizionato a non più giurare
sulla parola del maestro, puo francamente ragionare rispondendo – conversazione
--, pro-ponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e
conchiudendo la verità. La aritmetica e la geometria apparecchiano ed elevano
la mente alla più alta idea del mondo intelligibile. Interpretasi la natura,
speculasi intorno al necessario attributi dell’ente parmenideano; trovasi
nella ragione del numero l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della
contemplazione filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione
epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”),
ovvero chiamasi per eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores,
gli studi, ciascuno seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine,
o esercitando quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto
alla filosofia; gli altri, a governar le città e a dar la leggi al
volgo. Della classe de’ pitagorici e detto a suo luogo quello che ci
sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc. Intendasi la simbolica
cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere. E quanto ai gradi
dell’insegnamento, notisi una certa confusione di una filosofia neoplatonica
con l’anticho ordine pitagorico, probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P..;
Giamblico). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi
uditorio comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove
esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla
cosa parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni
prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che
prima l’una all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce
armoniosa come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce
animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li
dispone a conformarsi al concento della vita cosmica ed e eccitamento
all’operazione. Passeggiav soletto a divisar bene nella mente la cose da fare.
Poi applica alla dottrine e tene il con-gresso nel templo. Il maestro insegna,
l’alunni impara, ogni piglia argomento a divenir migliore. E coltivato lo
spirito, esercita il corpo -- al corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici.
Dopo il quale esercizio, con pane, miele ed acqua si ristora e preso il parco e
salubre cibo, da opera al civile negozio. Verso il mancar del giorno, non più
solingo come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando
insieme della cosa imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del
comun pasto, al quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio
lo apre: lo imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e
religiosamente lo chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E
prima di coricarsi canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra
molteplici cure e diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata
unità della sua vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto
e la regola ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo
senso dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella
certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa
parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio
comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την
Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam
quæ nunc vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon
(Str.). Questo e l’ordine, questo il vivere della società pitagorica secondo il
tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo vi e
educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo conduce o
sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella esplicazione
piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di atti e di
letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e contentezza.
Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale anche con la
sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e singolare
dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria a
conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una sua
propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora
cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata dalla
favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e materia a
questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente
nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo parere in
alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità col vero.
Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla varia
opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento nel vero
primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella civiltà della
setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta diversità
della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi quella
varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente
riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di
Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in
due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune
condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina.
Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a
rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda
alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con
la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale
conclusione ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente
un’idea storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il
paese dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha
incremento e fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua
vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla
general sostanza del mito e riducendone la diversità molteplice a una certa
unità primitiva, sembra essere il necessario effetto della convertibilità
logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi
la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni
possiamo presupporre che Pitagora (o Grice) sia insieme un filosofo e una
filosofia perenne. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno
che non lasciandosi andare l’agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario
valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è
solamente un filosofo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose
favoleggiate intorno alla filosofia, alle azioni miracolose di colui che ancora
non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire
di un filosofo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per
rispetto alla filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la
esclusione del filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e
alla ricupera della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia
irrazionale. Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita
longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi
non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa
nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un
autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro
filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con
quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce
implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa
greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto).Isocrate reca a Pitagora la
prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων TTPŪTOS ES tous
Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E CICERONE lo fa viaggiare per la Liguria (De
Finibus). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di Pitagora come di filosofo
diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente la umana cognizione e a
farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina – Laerzio --
la cui allegazione delle parole di Eraclito è confermata da Clemente
Alessandrino (Strom.). Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione
di Pitagora; perché, a suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa
trovare la scienza dentro di sè e basta a se stessa. Parole sommamente
notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono
bella e opportuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora,
secondo il mito, è raccoglitore e maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi
“cosmopolitica” o universale in senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam
praestantia doctus plurima, mentis opes amplas sub pectore servans cunctaque
vestigans sapientum docta reperta, nam quotiens animi vires intenderat omnes perspexit
facile is cunctarum singula rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle
presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar
fondamento istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare
Aristippo, il quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel
dire la verità non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio). E noi qui
alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore
etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma
per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio,
pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una
più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria
partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di
lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II )
conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo
iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val.) e tutti gli altri filosofi meno
antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o molto
antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie
della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella
Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam
Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής
φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana
(“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus,
aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis”
-- zúov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella
traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono
obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune
principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea
filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano
(Hist. de la phil. anc.). A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro
Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit.) ci lasciò
notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα παρά πάσιν”) era
anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv”, vale a
dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana di che parla
Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica) tra
quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento organico
dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato. L’altro
dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza
e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e la seconda appartenere
alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto intellettuale. Non
ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in Giamblico, ma chi
che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno nel concetto
riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa velo all’idea
(segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta occulta, e
comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra. Dicearco
adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico testimonio che
l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica dottrina. Nel
che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre
condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca che
media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione
puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più
alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia
anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e
di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e
l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società
religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato.
Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata
con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far
distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le
condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che
scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi
non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente
confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici:
l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser
simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice
la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e
lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o
quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Alcuni videro in
questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri,
a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà
allegati da Giamblico (Vita di Pit.) e da Porfirio ai quali riguardavamo
toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento pitagorico – “Ου
μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν”
– “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis naturae
radicemque habentem” (Porph.). Il Moshemio sull’autorità di Giamblico (in Theol.
Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo
spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima. Poco
felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo governarci
con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali cose non
vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora qua
persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue
instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto
posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito,
e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e
determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è
sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno
altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini,
capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le
greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa
cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand'
opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le
acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio
suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e
instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il
tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella
costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee
correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui
esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane
nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora
ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana
eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella
sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per
rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella
vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime
congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà
furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più
addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario
fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo
con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il
quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio,
che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e
considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma
sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è
fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in
alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse
vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose.
Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo,
per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma
simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano
sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra
diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il
mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino
alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale;
fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e
dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo
processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e
riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo
lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e
diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva
formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si
vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli
uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni
intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal
nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in
quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la
storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma
attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che
sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e
il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano
ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a
intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo
facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più
devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico). Riferi scansi i
suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui
raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e
renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto,
che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e
legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il
vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi,
prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa
tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia
de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad
ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola
pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie
tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5
); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro
anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei
piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da'
loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον
δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto
morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual
nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel
popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa
anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις
άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo -
tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle
pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino
dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il
quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza
medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché
la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen
dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale
e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando
degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di
Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa
sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio) Da tuttociò
si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche
qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo
condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad
esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre
questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta
solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro
opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare,
Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a
distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie.
garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne
abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce
sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia
l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri
schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già
occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide,
visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici
più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover
dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri
viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a
somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie,
le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già
opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d'
Eusebio, ed. ven.; Niebuhr, Hist. rom., ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti
il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le
istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i
superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben
risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre
Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente
all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la
vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse
leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una
tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo
in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse
fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa
notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè
che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e
delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la
civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P.; Porfirio,
dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare
Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di
queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade
greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che
sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando
esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta,
come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie
fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di
molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee
appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun
popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una
società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima
della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv.
fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre
che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec.-- del comune, i
possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse
l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum
gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito; Valerio
Massimo; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente
connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno
dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa
eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà
cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui
l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero,
Odiss., Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa
Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di
quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo
sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini
della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la
musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si
compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale
e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de'
giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi
pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce
sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e
son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava,
ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi
attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto
Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo
di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu
già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta
ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste
società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el
lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni
jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe
importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci
alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono
nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era
il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume
della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio
un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non
seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica
di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della
pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia
delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica
dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose
che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero
essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo
onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle
perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani
ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di
necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e
alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende
opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma
alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose
più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce
lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo
degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli
Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue
riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano
l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della
verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone
nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle
Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck
scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in
transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et
nonnunquam irridens. Aglaoph., p. 339. Prodigiosi effetti della lira
orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e
le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli
surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i
legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri
sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva
per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e
rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle
tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove
idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito
di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io
non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei
misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una
rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo
troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica.
Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere
l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà,
fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre
opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano
anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono
nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi
dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere
che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le
altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse
avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile,
le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita
gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio; Giamblico, V. P. Valerio
Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem
domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis
me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col
Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie
illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis
ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole
antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito,
disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At
Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique
relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi
nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col
nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel
misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando
romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e
contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del
mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti
magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che
si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un
popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo
Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l '
orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema
arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non
le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa
teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse
con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave
vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella
costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva,
dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero
nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla
formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe
continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria.
Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una
religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo
ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio
simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le
pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi
Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati
nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere
affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal. E anco Lampredi trova analogia
fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state
comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena
comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici,
scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di
divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e
comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col
pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare
il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello
di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui
che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli
Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a
pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose,
ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i
sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi,
i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra
idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco,
in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine
Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.:
pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana,
ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico
-- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a
Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente
discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine
ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita
sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema
indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio
Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che
intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca,
che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo
con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse
spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la
via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola
orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri
abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I
Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il
quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle
Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e
d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di
boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena
d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in
questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche
gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola
pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati
in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di
vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native,
o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi
elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di
un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli
elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua
instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno
storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci
siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem
pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed
egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle
egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle
idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è
chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora
nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall.; Diodoro Siculo; Valerio Massimo;
Ammiano Marcellino. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique
magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire
profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in
specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus
effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque
ulteram ad Manes, Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως.
Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem
stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati
sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti
pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica.
Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand'
uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a
fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse
il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio.
Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella
civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e
dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è
quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato
vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora
dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche
generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica
con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea
scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli
ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la con
clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale
abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima
parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la
sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde. Ma l'opportunità del luogo
non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a
migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta
tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi
greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò
costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati;
ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e
ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante
fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di
desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla
profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del
rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse
alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva,
indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui
divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente
alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora
chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune
facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità
nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e
nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed
apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la
scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del
collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il
co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa
pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum,
qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas
simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella
Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa
invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti
nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che
essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene
era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale.
Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro
che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori.
L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione
progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi
svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto
è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che
la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi
vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e
forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare,
secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la
musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore,
è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti
nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi
cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta
quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili
potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel
l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata
conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a
scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta,
come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente
recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico
sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran
colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a
Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect.; Tuscul.), ma e
per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo,
i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e
continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla
veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.; Dicearco, ap. Giamblico,
V. P.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm.) doversi
attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos
sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e
costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu
pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni.
Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini
giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi
impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e
di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla
Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti
comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina
all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle
altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa
attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita
adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e
tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano
sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità.
Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς
oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,....
oportere hominem quoque fieri unum (Str..). Imperocchè fin dalla loro prima
istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa
bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto
fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la
suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che
alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta
della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si
dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di
educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla
società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un
legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al
cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve
anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città
alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile
partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della
natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore.
Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non
conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise
in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e
le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede
leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo,
venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa
società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello
almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma
essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a
generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe
dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione
miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma
di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino
dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla
vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de'
singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia
tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella
società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime
intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui
disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe
spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la
pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne
risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli
necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella
quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico.
Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo
consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella
sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era
libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che
fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che
egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia,
nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si
potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè
ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o
genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da
quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do
mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi
col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come
a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non
potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro
di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud
Delphos. Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la
una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e
sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e
il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili
combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e
costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme
ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade
esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e
insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose
abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che
ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà
individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una
necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero
arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione,
e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del
numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina,
e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica,
e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna
ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano
tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della
scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale
nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica,
in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica
universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime
cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io
credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale
Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone
della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi
nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico
che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo
è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente
profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da
Aristotele (Met.) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle
scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp.), se mai potessero essere assolutamente
contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella
filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio
scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che
esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole
ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle
matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè
considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano
la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E
cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna
cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una
perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se
stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente
e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose
essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce
ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da
ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome
che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p.
48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per
rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a
penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου
κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del
punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica
generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella
metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò
bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono
l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di
atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo
seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del
numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le
anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono
nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare
delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto
l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi
ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore
principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione
dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam
detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di
Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente
attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità
straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio
arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le
maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne,
non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir.) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore. Noi qui osserveremo che
nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna
concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici;
dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o
potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι.
Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe
(ivi, epodo 2.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo
chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora
miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose
sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.). Ma noi abbiamo già
notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della
sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza,
che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare
cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti
de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum
omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis
praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre
luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis
denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno,
allegato da Porfirio (V. P. ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè,
questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta
forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle,
rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze
e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e
mansueti (Giamb., V. P.). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non
dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore
congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della
gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra,
chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe
sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e
dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba
di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere,
fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che
ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del
fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia,
di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo
la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus
explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam
deorum. De Nat. Deor.La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di
che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro
di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina,
da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio,
da Valerio Massimo, e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggitori.
Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il
fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di
severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la
società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa
ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che
sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica
delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli
studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non
vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i
pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella
religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti
gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata
dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non
contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita
con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca
la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose,
che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse
cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare
i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners
pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica,
così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta
questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio
organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu
sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi
legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di
una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per
opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in
tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente
circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e
speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso
di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza
esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni
organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed
esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere
adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei
quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che
ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause
intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti;
alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre
si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura
delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo
sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre
durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle
recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano,
quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere
ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli
formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro
i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi
coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza
pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e
come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella
virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere
am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e
procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere,
inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di
uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine
scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre
sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi
inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza
nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in
questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a
perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a
miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente
unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che
molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi
manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di
uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se
intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc
cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica,
coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni
buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è
la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come
già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a
corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un
valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in
quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle
dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella
potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità
di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse.
Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe
esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse
adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità
opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità
del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini
della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti
della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria?
qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero
conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento
ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un
ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da
quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra
tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione
necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando
aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi
la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della
loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche,
e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma
ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e
necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non
comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane
ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni
religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo
filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per
le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici?
da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl '
intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a
suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva
ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in
istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società
ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si
sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua
famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla:
aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con
discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire
un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre
tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior
sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate
alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi
forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio
assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione
favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali,
fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα
την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur
silentium. Porfirio, V. P. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica,
non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non
ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il
perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima
arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le
passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero
que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur
somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio
che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora
avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che
dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse.
Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false
opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato
stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all '
apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità
nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si
convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno
ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne
frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali.
Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle
idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni
tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non
sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu
opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che
domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le
altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici,
fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai
grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione
suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata
religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura
avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno;
quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano
dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa
pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più
solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida
ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte
misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione,
il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano
appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle
riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora.
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società;
questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea
demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che era l'ultimo
scopo di queste nostre ricerche. Il GIOBERTI vede in Pitagora quasi un
avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono. Noi principalmente abbiamo
risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva.
zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale concerne
gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino, indi non
venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione piena
quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo
essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo
comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri
potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben
si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero
essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di
Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè
torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca
come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e
quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari.
Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi
le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente
unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e
studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse,
quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in
questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che
comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu
favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide,
stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro
pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri
concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide
pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il
che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità
miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la
sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica
essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi
doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole
a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον
απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5,
VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum
necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi
fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse
cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con
questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la
morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao,
quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di
Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb'
essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè,
ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al
primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza
avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo
tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita
cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza
maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che
molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., da Porfirio, da
Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai
tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui
adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le
autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne
sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non
avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro
che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro
opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio
fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al
giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito
delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla
memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e
avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare
insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di
Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien
servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da
considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica,
e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò
il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine
non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria,
e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Cocchi,
scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che
tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato
questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil
occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche
pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non
creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso
rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà
primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra
civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni
quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi
pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane,
che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par
conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla
pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà
furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie
jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero.
L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a
estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è
piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali
spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle
città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del
secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle
gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico
scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero
destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è
nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e
i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si
compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente
copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al
magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della
mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e
là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a
riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e
bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e
corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi
limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di
tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza
propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita
seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e
con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro
i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e
gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e
mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli
effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da
altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal
ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che
leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il
criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι'
επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non
lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è
argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un
valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide)
nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in
luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo
vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea
impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una
provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente
consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della
mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per
dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue
condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente
al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente
s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno,
l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito
di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra
loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per
sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione
dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si
offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa
invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di
Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri
sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste
nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo
ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con
gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè,
secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di
Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose
mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e
scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta
cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o
rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano
solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo
volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano
per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi
divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano
a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi
insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e
Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici
antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di
Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone
che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa
pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e
vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza
delle ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce
a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde:
a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E
la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine
liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria
di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda, e il re Numa escono
legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina.
Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si
calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d'
Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono
stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima
dell'invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil
morte. Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un
intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al
nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica.
L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a
parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è
maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le
condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai
quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il
simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga
materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le
passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni.
Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle
anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi
oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le
imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore
di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu
fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta
di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle
arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in
errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a
perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La
speculazione scientifica non impediva l'azione, e la moralità conduceva alla
scienza; e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini
della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli
ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico
di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione
prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora,
come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes
Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da
ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali
argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti
presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se
veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia
bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il
piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai
sacrifici generosi, chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle.
Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè.
Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo:
semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar
l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le
anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede
dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne
restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose,
questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni
giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il
disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i
ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le
squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti
vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril.
phil. Par, II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato,
accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è
alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente
desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole
espansione del l'umana socievolezza, vincevasi con la comunione dei beni
ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un
pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il
resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio
fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità
dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis
sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc.
(Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv
fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio
(VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il
detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose,
"κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide,
i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre
punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia.
E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti
centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e
l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè
l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con
leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa
fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola,
s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè
spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che
presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a
fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la
presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione
radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le
vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne
abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non
bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e
sapientissime testimonie della verità infinita. Poi non tutte le verità possono
essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde
l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita
esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza,
ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti
erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione
assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e
insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso
ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni, secondo chè scrive
Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone,
Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai
discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave
disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat, ut eliam sine ralione
valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l'avrebbe detto
Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse
ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" --
come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di
*sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo
appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche
alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e
dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza
il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea
conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du,
tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità
del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la
baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa
nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si
ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo
proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto
ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado
questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del
senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine
stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini
discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi
impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi
i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei
candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini
morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners.
All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon
governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà
nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma
i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e
seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio
austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa
cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro,
potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche
apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo
intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari
attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle
cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica
otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto
e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza
uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel
genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio, che meglio fosse inclinato: i
più alti intelletti alle teorie scientifiche; gli altri, a governar le città e
a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo
quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc.; intendasi
la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai
gradi dell' in segnamento, notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con
gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V.
P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivevasi a social vita, e la
casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che
sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere
nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne'
due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine
con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente astro a
metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano la luce
animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li
disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica, e fosse eccitamento
all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le cose da
fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei templi. I
maestri insegnavano, gli alunni imparavano, tutti pigliavano argomenti a
divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al corso, alla
lotta, ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane, miele ed
acqua si ristoravano: e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai civili
negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino, ma a
due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle cose
im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun
pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii
lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali:
e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E
prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante
fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali
alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri
i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio,
rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero
le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente
si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche
storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente
Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos?
ov diVÍTTETA!: et eam, quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud
ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini,
questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via
formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate
ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella
dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella
feconda disposizione delle sue potenze, concordavasi di atti e di letizia col
mondo, e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così
il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la
sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare
dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era
necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa, e
quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa
bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio, onde la verità possa
essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità
degli oggetti, che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si
consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto,
quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti, pur dee avere una
certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima
cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia;
e quando le tradizioni rimango no, hanno un fondamento nel vero primitivo dal
quale derivano, o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui
quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro
apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia
moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi
con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora,
vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee
principali: 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli
uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una
sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel
nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica,
ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che
sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta,
Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer
tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi senz'ombra pure
di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica
instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi risplende
con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando
dalla general sostanza del mito, e riducendone la diversità molteplice a una
certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto della
convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta.
E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine
continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un
personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato
senno, che, non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il
contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che
Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte
le cose favoleggiate intorno alla patria, alla nascita, ai viaggi, alla
sapienza, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare
anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che
venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse
assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia,
sarebbe timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale: potendosi
conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole, pecche rebbe
di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini
razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza
istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo
della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le
orgie e le instituzioni pitagoriche, con quelle orfiche, dionisiache, egizie e
con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al fi gliuolo di
Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle
barbariche (Erodoto, II, 81.; IV, 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima
intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani: φιλοσοφίας (εκείνων
) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (in Busir., 11 ). E Cicerone lo fa
viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed
Eraclito, allegato da Laer zio, parla di lui come di uomo diligentissimo più
che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e
scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio, VIII, 5. -- la
cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino
(Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice
erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, tutte le verità sono nella mente,
la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè, e bastare a se stessa.
Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di
Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra
conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una
filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam
praestantia doctus Plurima, mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque
vestigans sapientum docta reperta. Nam quotiens animi vires intenderat omnes
Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia
secla. Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio,
id., 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci
dispiaccia di ascoltare Aristippo; il quale scrisse che Pitagora fu con questo
nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo
Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo, non
per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con
quello scientifico dell'uomo, ma per mostrare che prima degli Alessandrini il
nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di
una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla
divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda
eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma
Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo.
Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno
antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva, o molto
antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchinano i moderni critici, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era que sto: tre essere le forme o specie
della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di
Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in
libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod
huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana (èv toiS TAVT
atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo,
aliud quale Pythagoras. L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov; che
è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione
latina sono obiettiva mente divise, nel greco sono distinte e insieme recate ad
un comune prin cipio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta,
non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole, né la ragione
del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice
Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da
Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò scritto, che fra le cose pitagoriche conosciute
da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa: και ότι παντα τα
γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire, che tutte le nature animate
debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è
principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella
divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento
organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati:
l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la
prima sentenza poteva essere divulgatissima, come quella che risguardava
oggetti sensati; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta, per ciò che
risguardava agli oggetti intellettuali. Non ch'ella non po tesse esser nota
nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si
fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei
Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee, e con qual
proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle
essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa
contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre
dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si
ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità
recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita, e Pitagora
essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e
l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e
perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia
anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di
perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e
l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua
società religiosa e filosofica, e coordinata col magistero che nel di lui nome
vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del
fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far
distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le
condizioni storiche di un uomo, e attribuendo al secondo ciò che
scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio.
Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore, e
mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de'
Pitagorici: l'uomo esser bi pede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora.
Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che
dice la verità: ei suoi detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano: e
lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o
quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Parlare di questa
Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il
tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio; altri, a grado loro,
altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da
Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali
riguardavamo toccando della Tetratti, e che sono la formola del giuramento
pitagorico: Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως
ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui animae nostrae tradidit Tetractym, Fontem
perennis naturae radicemque habentem. (Porph., V. P., 20) Il Moshemio
sull'autorità di Giamblico (in Theol. Arith. ) attribuisce questa forma del
giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa
sulla duplicità dell'anima. Poco felicemente ! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV,
$ 20, p. 581. ) Noi dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre
sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a
Pitagora - uomo, ma a Pitagora, idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini
delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto
posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito,
e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e
determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato, è
sempre uomo ed idea: un pe lasgo - tirreno, che dotato di un animo e di un
ingegno al tissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli
uomini, capace di straordinarj divisamenti, e co stante nell ' eseguirli
viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e
costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una
grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo,
che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un
principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica
applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera
stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella
vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica
e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la
persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume
ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo
agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica
della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli
fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello
che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore
di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il
pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie
massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee.
Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo
forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle
quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un
concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol
ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che
son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno
arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito,
non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua
propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni
posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti
a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non
confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose
vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il
mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia
nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di
dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che
dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di
un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in
sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo
secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente
determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse
eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla
comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della
sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le
origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni
e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a
questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà
sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era
organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde
il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa
forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti,
che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una
setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina
siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa
naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi.
Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più
devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi
scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono
di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria
spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra
cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a
Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se
altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico.
Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna
in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in
balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera
ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola
pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie
tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5
); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro
anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei
piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da'
loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον
δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto
morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual
nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel
popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa
anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις
άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo -
tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle
pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino
dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il
quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza
medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché
la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen
dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale
e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando
degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di
Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa
sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. )
Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini
antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio
sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol
recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare
uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa
critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in
questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che
vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che
valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio,
a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che
ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora
comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia
l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri
schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già
occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide,
visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici
più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi,
reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi
mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze
o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le
ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o
viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una
certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di
Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola;
cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici
prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza
cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa
sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone,
di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di
alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon,
contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven., I, pag. 53;
Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire
tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni
pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti
frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero
l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti.
Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente
all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la
vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse
leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una
tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo
in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse
fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa
notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè
che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e
delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la
civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P., VII, XXX;
Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad
ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno
discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle
contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo
prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e
ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci:
e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle
colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa;
fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle
idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se
ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli
di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il
quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des
anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione
delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II,
p. 530 e segg. -- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita
l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6;
excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma
vedasi Tacito, XIII; Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone
-- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le
leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla
familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa
il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora
intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e
della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou
bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch'
ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione
vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio
sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città:
tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la
ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre
domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti
civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate:
proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato;
esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir
riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i
banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca
cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva
Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora,
l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo
medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già
provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero
preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste
società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el
lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni
jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe
importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci
alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono
nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era
il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume
della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio
un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non
seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica
di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della
pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia
delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica
dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose
che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero
essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo
onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle
perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani
ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di
necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e
alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende
opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma
alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose
più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce
lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo
degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli
Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue
riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano
l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della
verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone
nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle
Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck
scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in
transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et
nonnunquam irridens. Aglaoph., Prodigiosi effetti della lira orfica
furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città
edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la
sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori
divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri
sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva
per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e
rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle
tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove
idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito
di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io
non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei
misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una
rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo
troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica.
Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere
l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà,
fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre
opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano
anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono
nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi
dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere
che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le
altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse
avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le
somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora
in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V.
P.. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati
post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea
in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi
poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre
memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis
ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole
antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito,
disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At
Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique
relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi
nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col
nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel
misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente
il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta
ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del
mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti
magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che
si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un
popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo
Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l '
orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema
arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non
le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa
teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse
con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano
il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione
della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale
dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un
arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione
dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici
erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con
giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l '
aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la
matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido
Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco
Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli
di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco,
1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia
pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E anco il Lampredi trovò
analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi
state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena
comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici,
scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di
divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e
comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col
pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare
il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello
di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui
che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli
Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a
pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose,
ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i
sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi,
i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra
idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco,
in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine
Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.:
pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana,
ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico
-- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a
Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente
discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine
ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita
sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema
indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio
Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che
intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca,
che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo
con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento,
col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a
trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica
apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo
agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi
abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe
dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini
italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi
fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con
semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno
e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni
istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi
del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che
nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi
di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di vulgati e
praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native, o di
antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi
elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di
un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli
elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua
instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno
storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci
siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem
pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed
egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle
egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle
idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è
chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora
nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29;
Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla
de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum,
ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et
diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae
praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas
esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου
καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per
isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo
sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit.
Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la
teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol
1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la
instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee,
alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de'
popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a
Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle
consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che
se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le
parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di
cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio
alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e
congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura
umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già
ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata
grandezza. Questa è la con clusione grande che ci risulta dai
preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi
nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause
che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad
esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c.
V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse
eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che,
achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle
terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute,
repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni
pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione
di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e
lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori
tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una
instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand'
opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea
orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a
viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed
età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed
estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate
ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi
della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione:
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia,
ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e
ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell '
Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del
mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata
ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche
verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti
e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto
pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero
iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già
contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e
continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono !
Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle
prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di
tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all
' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le
parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo
d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per
fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo
come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La
disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e
procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e
secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana
persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità
par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la
fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con
pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le
fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai
abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa
idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect.,
XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi
glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla
generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e
governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.
XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice
Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a
tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere:
ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini
maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero
mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli,
funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver
senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza.
L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la
dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di
tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però
restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio
delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in
quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero
consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di
una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè
comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a
bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste
parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον
ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri
unum (Str.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici
aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione
dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde
si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa
piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina
dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e
scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di
Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale
collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero
appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente
far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti
poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare
questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi
privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed
ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali
dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per
meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo
vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue
idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e
le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo
di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una
società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da
stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco,
era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di
elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento
di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la
presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a
poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im
perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il
nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il
principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e
quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà
personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere
umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe
di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe
implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe
fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione
individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa
trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due
universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il
fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora,
racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto
alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze
allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste
dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio
veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella
geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella
psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a
frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al
presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse
fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc
cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio
da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla
fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e
necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere
la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ'
εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos. Che se l'
uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le
altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente
assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio
e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente
si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo
svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e
possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per
tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema
mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo
e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un
numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale
della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova
tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha
preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso
dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle
cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e
si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e
sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii
aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’
medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli
della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi
cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica
pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza
simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per
eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario
valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua
filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno
contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua
origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne
del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole
della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti
leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla
filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh.
Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia
esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele
veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici
antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι
αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che
questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo
concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se
non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di
quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la
condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano
che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a
un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che
eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti
nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai
vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar
loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica,
che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da
Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o
generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire
quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee:
γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica
delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione
corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che
qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque,
inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci
di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo
scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co
smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee
esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi
all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di
una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli
di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose.
Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a
una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere
consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina
tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le
cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la
dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli
furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro
nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e
linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse
le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio
ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui
osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte
bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o
potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων
τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem
appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum
hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva
anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero
ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.,
VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee
religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una
necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla
Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo
volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e
di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui
buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima
ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia
discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste
parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano
spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua
istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie
distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi,
alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e
beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or
chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per
rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi
propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice
delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al
popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a
sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non
mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono
trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari
opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in
iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis,
rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia
fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare.
Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna
varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio
Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L.
1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri;
XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se
poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a
tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque
informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e
la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose,
che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità
istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero
mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta.
Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee
confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia.
Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la
segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la
proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa
vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non
sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e
solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma,
guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo,
rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate
più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente
comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica
il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter
massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria
è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del
pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli
studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini
e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena
educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua
cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali
condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente
circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e
speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso
di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza
esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni
organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed
esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere
adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei
quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che
ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause
intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti;
alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre
si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura
delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo
sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre
durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle
recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano,
quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere
ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli
formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro
i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi
coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza
pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e
come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella
virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere
am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e
procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere,
inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di
uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine
scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre
sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi
inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza
nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in
questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a
perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a
miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente
unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che
molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi
manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di
uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se
intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc
cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica,
coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni
buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è
la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come
già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a
corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un
valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in
quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle
dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella
potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità
di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse.
Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe
esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse
adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità
opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità
del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini
della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti
della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria?
qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero
conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento
ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un
ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da
quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra
tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione
necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando
aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi
la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della
loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche,
e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma
ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e
necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non
comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane
ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni
religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo
filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per
le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici?
da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl '
intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a
suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva
ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in
istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società
ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si
sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua
famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla:
aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con
discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire
un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre
tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior
sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate
alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi
forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio
assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione
favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali,
fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα
την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur
silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità
poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se
Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il
perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima
arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le
passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero
que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur
somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio
che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora
avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che
dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse.
Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false
opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato
stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all '
apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità
nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si
convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno
ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne
frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali.
Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle
idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni
tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non
sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu
opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che
domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le
altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici,
fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai
grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione
suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata
religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura
avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno;
quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano
dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa
pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più
solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida
ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte
misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione,
il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano
appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle
riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora.
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società;
questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi
principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre
le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito,
la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di
quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe
in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste
due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una
debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i
cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà
cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi
che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina
psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con
l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me
tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi
periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa
vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine
vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la
filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e
d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante
per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori
della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava
testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi
psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di
Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella
storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è
l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La
psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta
deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle
anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive
Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav,
äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora)
sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari
animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma
che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non
vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da
principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che
le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima,
fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di
queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi,
non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone
ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo
l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in
nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici
della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una
forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma
che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da
Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto
fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα.
Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere
le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne
sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non
avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro
che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro
opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio
fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al
giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito
delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla
memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e
avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare
insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di
Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien
servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da
considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica,
e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò
il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine
non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria,
e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza,
che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza.
Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato questa menzione,
noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov.
Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella Università pisana
nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in
questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa
certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche
pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non
creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso
rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà
primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra
civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni
quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi
pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane,
che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par
conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla
pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà
furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie
jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero.
L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a
estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è
piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali
spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle
città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del
secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle
gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico
scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero
destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è
nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e
i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si
compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente
copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al
magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della
mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e
là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a
riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno.
L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà
universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar
loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello
che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà
grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli, i quali
anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente
proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il
genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede, nè la
coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e
grande non vi era, o non sapeva di essere, e bisognava formarla. Il perchè una
società, che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra
molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane, grandezza fra
idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e
forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise,
era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que
piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono
anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata
con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi,
esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A
superare tutti questi limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender
l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che
avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle
antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare
Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella
vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più
grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane
cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario, doveano passare molti
secoli, e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana
facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana
gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno
convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione, a
generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono
conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi
seppellire ai vivi. L'indole e gli spiriti aristocratici, che per le condi
zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono
(e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina.
Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva
degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata
su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per
superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui
privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini
della vita comune: quella, disposta ad usare i dritti della natura
signoreggiando col valore e col senno; questa, intesa a conservare i dritti
civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del
sangue, il vantaggio pubblico, gli effetti della buona educazione, la prudenza,
la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o
temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano:
grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e
popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei
collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi. E
principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero
a di struggerli. Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche,
come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari,
e le distrug gono; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e
monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime
fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta
dal Micali, e da altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche,
mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra
un luogo che leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè
mancava il criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη
γραφή φησι, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse
quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud
homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda?
lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più
volte è argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste
parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno
(in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne
uscissero in luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il
troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui
dell'idea impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non
vale una provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso.
lutamente consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la
presenza della mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè
Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle
sue condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più
conformemente al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni
convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa
all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima
così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno
medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose
sensibili per sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la
incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal
quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità,
o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone,
o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che
altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se
queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi
avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi
criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico.
Imperocchè, secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla
età di Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte
le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a
degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la
società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli
disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina,
professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo
il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano
corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e
danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio,
e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con
pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide,
Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i
pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno della nascita
di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII Olimpiade,
3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al primo anno
della XVI Olimpiade, 3235 del mondo, 38 di Roma, 713 avanti G. C. Gli editori
di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal l'anno 769
all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma. I. Intorno al gran nome di Roma, la gloria
del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli scrittori in
asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città. " * Fra le
varie cagioni, alle quali si attribuisce dagli scrittori l'oscurità della prima
storia romana, deve annoverarsi prima l'incendio de' Galli, nel quale fu rono
distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il Beaufort, e a' di nostri
più che mai, s'è disputato, se l'origini di Roma, quali le narrano Livio e
Dionigi, sieno verità storica o favola poetica. Quello che può dirsi in
generale si è, nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser favoloso né
lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era uso cantare
le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico, però, su questo
argomento prima di quel d'Ennio non si conosce; e che un solo carme sia stato
fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi.
Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti
che scrissero intorno ad esse. Vi banno certo, e ognun se n'avvede, nelle lor
narrazioni delle cose poetiche, ma ve d’ha di semplicissime e schiette, come
quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione, i sacerdozj;
tratle, non possiam dire, se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali, i
quali, al dir di Cicerone, risalivano almeno al tempo de' re. Uoa delle guide
scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore
anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la
storia, ma le origini solo, ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso
più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo, indi con allri
ch'ei nomina in diversi luoghi. Il primo tra essi è il re Giubba, che avea [ Ma
altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte
del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini, si misero poi ad
abitare ivi, e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città.? Altri
vogliono 3 che essendo presa Troia, alcuni, che sen fuggirono, trovate a caso
delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del
Tevere, dove, es sendo le donne loro già costernate e perplesse, e mal tolle
rar potendo più il mare, una di esse, che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e
di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre, abbia suggerito
alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da
prima se ne crucciassero: ma poi, essendosi per necessità collocati d'intorno
al Pallanzio, e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non
avevano sperato, esperimentata avendo la fertilità del luogo, e bene accolti
ritrovandosi dai vicini, oltre gli altri onori che fecero a Roma, denominarono
la citlå pure da lei, ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che
fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne, di baciar
nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti; poichè anche quelle, quand'
ebbero abbruciate le navi, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli
uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano,
Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine, e
ch'egli chiama diligentissimo. Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne;
ma in troppi luoghi, ove bol no mina, s'accorda con lui. Costoro invasero la
Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era
nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia. a Poichè fafen
significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo,
contemporaneo di Polibio. 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e
Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone,
presso il fiume Neeto (1. VI ). Ma il fatto che alla fondazione di Roma
appartiene, e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso (St., l. I ).
Sennonchè egli dice che le navi erano greche, e le donne che le abbruciarono,
prigioniere troiane. Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli
Aborigeni o primi abitanti del paese.? Nondimeno Antioco siracusano, vissuto un
secolo prima d’Aristotele, af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana
eravi in Italia una città nomi nata Roma.
Leucaria, ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole, ad Enea spo sata, ed
altri quella di Ascanio, figliuolo di Enea, aver po sto il nome alla città;
altri aver la città fondata Romano, figliuolo di Ulisse e di Circe; altri Romo
di Ematione, da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini,
il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia, da Lidia in
Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città
questa denomina zione data da Romolo, concordi sono intorno alla di lui ori
gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di
Forbante, ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo,
e che, periti essendo. gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi
placida mente sulla morbida riva quello, in cui erano i fanciulli, essi, fuor
di speranza, restaron salvi, e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni
pretendono che Roma, figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco,
partorito abbia Romolo; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia, fi gliuola di
Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte; " e al cuni finalmente
raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione, dicendo che in
casa di Tarchezio re degli Albani, uomo scelleratissimo e crudelissimo, si
mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che, sollevandosi un
membro genitale dal focolare, continuasse a farsi vedere per molti giorni, e,
ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a
Tarchezio, che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale
nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo, ed insigne per for tuna e per
gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue
figliuole, e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione, meglio Leucania.
Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea. 3 Della venuta di questi Lidj in
Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso, nel
primo delle sue Storie, reca i nomi de' greci e de' romani autori, i quali
tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi
Cefalone, Damaste, Aristotele, Calia, Senagora, Dionisio calcidese, Antioco
siracusano, ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de'
secoli oscuri. 6 Forse di Temide, chiamata da' Romani Carmente, a cagione
appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare.con
quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una
fante; che Tarchezio, come seppe la cosa, gravemente crucciatosi, le fece
prender ambedue per farle morire; ma che poi egli, avendo in sogno veduta Vesta,
4 che gliene vietò l'uccisione, diede a tessere alle fanciulle imprigionate una
certa tela, con questa condizione di dar loro marito, quando avesser finito di
tesserla; che quelle però andavano tessendo di giorno, ma che altre per ordine
di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte; che, avendo la fante partoriti
due gemelli, Tarchezio li diede ad un certo Terazio, comandandogli di toglier
loro la vita; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava
poi frequentemente a porger loro le poppe, ed augelli d'ogni sorta, portando
minuti cibi, ne imboccayano i bambini, fin tanto che cið veggendo un bifolco, e
meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi, e ne levo i fanciulletti; e che
finalmente essi, in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo
vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione, che compild la
Storia Italiana. Ma il racconto, che merita totalmente credenza e che ha
moltissimi testimonj, è quello, le di cui particolarità principali furono la
prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio, seguito in moltissimi
luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri; ma, per
ispe dir la cosa in poche parole, il racconto è in questa maniera.“ De’re, che
nacquero in Alba discendenti da Epea, il regno " Vesta, perchè il portento
erasi fallo vedere nel focolare.? Storico sconosciuto. 3 Storico anteriore alla
guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli
Annali di Roma, e, come già si accenno, ed è pur detto qui appresso, in
moltissimi luoghi lo prese a guida. Fabio, che segui Diocle in moltissimi
luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito
Numitore, aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut
reverentia ætatis; pulso fralre, Amulius regnat. Due cose combattono adunque
l'opinione da Plutarco adottata, cioè la testimonianza contraria degli altri
storici, e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani
alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353
anni, vi furono tredici re d'Alba. Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio,
sono 311, seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio
presso Roma.pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio.
Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti, e contrapposto
al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno.
Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva
Numitore, usurpó facilmente il regno; e, temendo che nascessero figliuoli dalla
figliuola di questo, la creò sacerdotessa di Vesta, onde viver dovesse mai
sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia, altri
Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge
alle Vestali costituita; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio,
Anto, figliuola del re, intercedette per lei, pregando il padre. Fu però chiusa
in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona,
acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due
bambini grandi e belli oltre misura; onde, anche per questo vie più intimo
ritosi Amulio, comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni
dicono che questo servo nominavasi Fau stolo, ed alcuni, che non già costui, ma
quegli, che da poi li raccolse, avea questo nome. Posti adunque i bambini in
una culla, discese egli al fiume per gettarveli dentro, ma, veggendolo venir
giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la
riva, andò via. Quindi, crescendo il fiume, sollevossi dolcemente
dall'inondazione la culla, e fu giù portata in un luogo assai molle, il quale
ora chiaman Cermano, ma una volta, com'è probabile, chiamavan Germano, poichè
chiamavan Germani i fratelli. III. Era quivi poco discosto un fico selvatico,
il quale appellavano Ruminale, o dal nome di Romolo, come pensa la maggior
parte, o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre
Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di
Numitore per nome Egesto (Dione ). Trent'anni a quelle fanciulle sacre
conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e
Cermalus il dice Festo. Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa
vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo, il quale
calcolò l'uno e l'altro (anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu
concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito
Livio l'afferma assolutamente. ] zogiorno bestiami che ruminano, o piuttosto
per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu
chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del
nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino, º facendo libamenti
di latte. A'due bambini, che quivi giacevano, scrivon gli storici, che stava a
canto una lupa che gli allattava, ed un picchio, che unitamente ad essa era di
loro nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i
Latini hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a
colei, che quei bambini avea parto riti, fu prestata non poca fede mentr’ella
affermava d'averli par toriti da Marte: quantunque dicano che ciò ella credesse
per inganno fattole, stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere
armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice, per essere
un vocabolo ambiguo, abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto
favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale
specie, ma le femmine ancora che si prostituiscono: e vo gliono che di tal
carattere fosse la moglie di quel Faustolo, che allevó que’bambini, la qual per
altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel
mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella
festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la
chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе. n. 57.? Ciò viene attestato
anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina, cosi di Cuna si
era fatta Cunina, divinità che proteggeva i fan ciulli in culla. 13 La
conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i
casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola
straniera, con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro
istorie. 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que'
primi tempi copersero col velo della religione i loro errori. 5 Coloro che
accagionano Amulio di questo fatto, dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere
la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di
questo nome si celebravano a Roma: l'una nell'ultimo d’apri le, l'altra ai 23
di dicembre. Plutarco, nelle sue Quest. Rom., pretende che in aprile si
festeggiasse la nutrice di Romolo, e in dicembre la favorita di Ercole, Ma
Ovidio afferma invece il contrario, e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor
romano piuttosto che ad un greco.zia, e, per tal cagione, il custode del tempio
di Ercole, es sendo, com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care
a’dadi con patto di ottenere, se egli vincesse, qualche buon presente dal Nume;
e, se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa,
e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò, geltati i dadi prima
pel Nume, indi per se medesimo, vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti,
e pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione, allesti al Nume una
cena, e tolta a prezzo Larenzia, ch'era giovane e bella, ma non per anche
pubblica, l'accolse a convilo nel tempio, ove disteso avea il letto: e dopo
cena ve la rinserrò, come se il Nume fosse per aversela. Dicesi per verità che
il Nume fu insieme colla donna, e che le impose di andarsene sull'alba alla
piaz za, e, abbracciando il primo che ella avesse incontrato, sel facesse
amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte ricchezze,
che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli, ch'era
senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene, e morendo la
sciolla erede di molle e belle facoltà, la maggior parte delle quali essa
lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già molto
celebre, e tenuta come persona cara ad un Nume, disparve in quel medesimo luogo,
dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si chiama ora Ve labro,
perché, traboccando spesse volte il fiume, traghetta vano co' barchetti per
quel sito alla piazza; e questa maniera di trasporto chiamano velalura.?.
Alcuni vogliono che sia detto cosi, perchè coloro che davano qualche spettacolo,
coprir facevano con tele quella strada che porta dalla piazza al cir co,
incominciando di là; 3 e la tela distesa a questa foggia nel linguaggio romano
si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la seconda Larenzia appo i
Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son descritte estesamente da
Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in derisione da Aristofane. a Velabrum
dicitur a vehendo: velaturam facere etiam nunc dicuntur qui id mercede faciunt.
Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il nome di Velabro molto prima che si
pensase a coprir con tele la strada di cui qui si parla, usanza introdotta la
prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione del Campidoglio. Plin., 1. XIX,
c. 1. Faustolo pertanto, il quale era custode de'porci di Amulio, raccolse i
bambini, senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente
ne dicono alcuni, ciò si fece con saputa di Numitore, ' il quale di nascosto
som ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che
questi fanciulli, condotti a Gabio, apprendes sero le lettere e tutte l'altre
cose che convengonsi alle persone ben nate: e scrivesi che furono chiamati
Romolo e Remo 3 dalla poppa, poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà
che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi, fin dall'infanzia diede subito a
divedere nella grandezza e nell'aria, qual fosse la di loro indole. Crescendo
poscia in età divenivano amendue animosi e virili, ed aveano un coraggio e un
ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi. Romolo però mostrava d'essere
più assennato e di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno
a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini, facendo nascere in altrui
una grande estima zione di se, che già manifestavasi nato per comandare, assai
più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli
eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed
inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami, considerandoli come uomini, che
punto in virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro curavano,
nè del loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti liberali, non
pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche,
ma bensi i ginnasj, le cacce, i corsi, lo scacciar gli assassini, l'ucci dere i
ladri, il diſendere dalla violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste
cose eran essi già decantati in ogni parte. V. Essendo nata una certa
controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue speranze di ricuperare il
trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran parte l'interesse di
questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due fanciulli vennero
istituiti nelle gre che lettere, nella musica, e nelle belle arti. Furono poi
spediti a Gabio, città dei Latini e colonia d’Alba, distante circa dodici
miglia da Roma, siccome a luogo di maggior sicurezza. 3 Il greco usa sempre il
nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più a quello di Romolo.
Amulio e que’di Numitore, e questi conducendo via de’be stiami agli altri
rapiti, ciò non comportando i due garzoni, diedero loro delle percosse, li
volsero in fuga e li privarono di una gran parte della preda, curando poco l '
indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano molti mendici e molti
servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez za. Ora, essendo Romolo
intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e
versato ne’vaticinj ), i pastori di Numitore, incontratisi con Remo, che se
n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e
ferite dall' una parte e dall'altra, restarono finalmente vittoriosi quelli di
Numitore, e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi
a Numi tore: ma questi non lo puni per tema del fratello, ch'era uómo severo;
al quale però, andatosene egli stesso, chiedeva di ottenere soddisfazione,
essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava, egli che pur gli era
fratello; e sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore
fosse ingiustamente oltraggiato, Amulio s’indusse a rilasciargli Remo, perchè
ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto, se ne tornò a casa, e
guardando con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura, che di
grandezza e di ga gliardia superava tutti, e veggendo nel di lui aspetto il co
raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere, e si mostrava in
sensibile nelle presenti sciagure; in oltre sentendo che i fatti e le imprese
di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava, e soprattutto, com'è probabile,
coope- · randogli un qualche Nume, e dando unitamente direzione a principj di
cose grandi, egli, locco per ispirazione od a caso da desiderio di sapere la
verità, interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della sua nascita,
aggiungendogli fiducia e speranza, con voce mansueta e con amorevoli sguardi e
benigni; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire: « Io » non ti
nasconderò cosa alcuna; imperciocchè mi sembri più » re tu, che Amulio; mentre
tu ascolti e disamini avanti di » punire, e quegli rilascia al supplicio le
persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima esserefigliuoli di Fau
» stolo e di Larenzia, servi del re; e siamo due fratelli nati ROMOLO. » ad un
parto; ma da che ci troviamo accusati e calunniati » appresso di te, ed in
repentaglio della vita, gran cose dir » sentiamo di noi medesimi, le quali, se
sien degne di ſede » sembra che abbia da farne giudizio l'esito del presente pe
» ricolo. Il nostro concepimento, per quel che si dice, è un » arcano: il
nostro nutrimento poi e la maniera onde fummo » allattati, sono cose
stravagantissime ed affatto disconve » nienti a'bambini. Da quegli uccelli e da
quelle fiere, alle » quali fummo gittati, siamo noi stati nudriti, da una lupa
» col latte, e da un picchio con altri cibi minuti, mentre gia » cevamo in una
certa culla presso il gran fiume. Esiste an » cora la culla e si conserva con
cinte di rame, dove sono » incisi caratteri che appena più si rilevano, i quali
un giorno » forse potrebbono essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili
di riconoscimento, quando noi morti fossimo. » Numi tore, udilo questo discorso,
e veggendo che bene corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane, non
iscacciò più da se quella speranza che il lusingava; ma andaya pensando come
potesse nascosamente abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola, che
leneasi ancora strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto, avendo sentito
ch'era preso Re mo e consegnato a Numitore, esortava Romolo ad arrecargli
soccorso, e gli diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita,
della quale per lo addietro favellato non avea che in enigma, e fattone
intender loro sol quanto basta va, perchè, badando essi a ciò ch'ei diceva, non
pensassero bassamente. Quindi egli, portando la culla, incamminavasi a Numitore,
di sollecitudine pieno e di tema, per quella pres sante circostanza. Dando però
sospetto alle guardie del re, ch'erano alle porte, ed osservato essendo da loro,
e confon dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si, che quelle non si
accorgessero della culla, che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra
di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar
via, e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte
della città; però Dionisio di Alicarnasso nota, che, temendosi allora in Alba
qualche sorpresa, facevansi dal re custodire le porte. presenti quando vennero
esposti. Costui, veduta allora la culla, e ravvisatala dalla forma e da'
caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito,
fattala sapere al re, gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato, il quale,
essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare, nè si
tenne affatto saldo e costante, nė affatto si lasciò vincere: e confessò bensi
ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar
menti; e che egli portava quella culla ad Ilia, che desiderato avea spesse
volte di vederla e di toccarla, per aver più si cura speranza intorno a' suoi
figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che
con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio:
conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di
Numitore, con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era
pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque
costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma
sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già
egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di
quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto:
im perciocchè Romolo era omai presso, e non pochi cittadini correvano a lui
fuori della città, per odio che portavano ad Amulio, e per timore che ne
aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati
distribuiti in centu rie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava
legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le
quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche
presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo
avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 *
Plutarco oblia d'aver detto poco avanti, che ad un solo era stato com messo
l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti. È egli verosimile (chi qualche
critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto
come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore? Non
è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a
tutt'altr' uopo a Numitore un messo, e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò
che sapeva aver Amulio deliberato? ROMOLO. sorpreso il tiranno, che scarso di
partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione, nè a cosiglio veruno per
sua sal vezza, perdè la vita. La maggior parte delle quali cose, quan tunque
asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio (che, per quello che appare, fu il
primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di
favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche: ma in ciò non debbon esser
punto increduli " coloro, che osservino di quai cose ar tefice sia la
fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal
grado di possanza arrivato, se avuto non avesse un qualche principio divino, e
da non essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio, e
tranquillate le cose, non vollero i due fratelli nè abitare in Alba, senza aver
essi il regno, nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go
verno, e renduti i convenienti onori alla madre, delibera rono di abitare da se
medesimi, edificando una città in quei luoghi, dove da prima furon essi nudriti,
essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi;? e, poichè unita
erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di
necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere, sbandandosi
questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè, che
quelli che abitavano in Alba, non degnassero di ricevere in loro -com pagnia
que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini, manife stamente si mostra,
principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne, prendendo
cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado, mentre non potean far
mari taggi in altra maniera, e non già per intenzione di recar onta,
poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso, gettati i
primi fondamenti della città, avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo
sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo,• vi ricevevano *
Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo.
Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco
rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi.
3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata, poichè fra ogni
persona, ' senza restituire né il servo a' padroni, né il debitore a'
creditori, nè l'omicida a'magistrati, affermando che quel luogo, per oracolo
d'Apollo, esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno, sicchè in questo
modo fu ben tosto la città piena di uomini: imperciocchè dicono che ivi
dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose
addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero
subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un
luogo, che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur
quello stesso a città: e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai
forte dell'Aventino, il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio, e
Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de
cision della contesa al fausto augurio degli uccelli, e po stisi a sedere
separatamente, dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo:
alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti, ma che Romolo abbia
mentito, e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne
Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj
specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico, che anche Ercole solea
rallegrarsi veggendo un avoltoio, quando mettevasi a qualche impresa,
conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali, non
guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso
degli uomini; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto, nè uccide od offende
animale alcuno che viva; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza
ch'egli ha con loro, quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono
pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie; e però, secondo Eschilo,
Come fia mondo augel che mangia augello? gli antichi il solo che ne parli è
Plutarco: sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi
d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri; ma di ciò
può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte
Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco, usando il
presente, ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse.Di più
gli altri ci si volgono, per cosi dire, negli occhi, e continuamente si fanno
sentire; ma l'avoltoio veder si lascia di rado, e difficilmente ritrovar ne
sappiamo i pulcini: ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua
discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto
rari ed insoliti; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce,
non secondo l'ordine della natura e da se, ma per ispedizione divina. Accortosi
Remo della frode, n'era molto crucciato; e mentre Romolo sca vava la fossa per
alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi:
finalmente, saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di
Romolo stesso, 3 come dicono alcuni, o, come altri vogliono, sotto quelli di un
certo Celere, ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur
morti Faustolo e Plistino suo fratello, il quale raccontano che aiutò Faustolo
ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria; e i Romani per cagion sua
chiamano celeri * le persone pronte e veloci: e Celere chiamarono Quinto
Metello, perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un
combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far
quell'apparato. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia,
si diede a fabbricar la città, avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che
con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa,
come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare
intorno a quel luogo, che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le primizie?
di tutte quelle cose, le quali per legge erano usale come buone, e per natura
come ne cessarie; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità i
Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto il
muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia contro
l'espresso di vieto di Romolo. Vocabolo greco che significa cavallo veloce. Sul
monte Aventino. Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli augurj e nelle
cerimonie re ligiose, state loro insegnate, dicevasi, da Targete discepolo di
Mercurio. Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà. di terra dal
paese d'ond' era venuto, ve la gittarono dentro e mescolarono insieme ogni cosa?
(chiamano questa fossa col nome stesso, col quale chiaman anche l’ Olimpo, cioè
mondo): indi al dintorno di questo centro disegnarono la città in guisa di
cerchio. Il fondatore, inserito avendo nel l'aratro un vomero di rame ed
aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andar in giro, un
solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli vanno
dietro, s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva l'aratro, non
trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il muro con una
linea, chiamata per sincope pomerio, quasi volendo dire: dopo o dietro il muro.
Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando l'aratro, vi
lasciano un intervallo non tocco: onde re putano sacro tutto il muro, eccetto
le porte; poichè se credes sero sacre anche queste, non potrebbero senza
scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie e le impure. IX.
Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia stata ai ventuno
d'aprile:: e i Romani festeg giano questo giorno, chiamandolo il natal della
patria. Da principio (per quel che se ne dice ) non sacrificavano in tal giorno
cosa alcuna animata: ma pensavano che d'uopo fosse conservar pura ed incruenta
una festa consecrata alla na scita della lor patria. Nientedimeno anche innanzi
la fonda zione essi celebravano nel medesimo giorno una certa festa pastorale,
che chiamavan Palilia: ma ora i principj dei mesi romani non hanno punto di
certezza nella corrispon denza co’greci. Dicono ciò nulla ostante per cosa
indubitata, che quel giorno, in cui gettò Romolo le fondamenta della * Ovidio
dice invece dal paese vicino (et de vicino terra pelita solo ), a significare
che Roma soggiogando i paesi vicini, diverrebbe all'ultimo padrona di tutto il
mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole. Meglio sarebbe: mescolarono le
va rie quantità di terra. 3 Il testo dice: l’undecimo giorno delle calende di
maggio, secondo l'an lica maniera di numerare i giorni. Del resto, dopo Dionigi
d'Alicarnasso, Euse bio e Solino, i moderni cronologi s'accordano a dire che
Roma venne fondata 754 anni prima di G. C. * I lavoratori ed i pastori
rendevano grazie agli Dei per la figliazione dei quadrupedi (Dion. I. 1. )
città, fu appresso i Greci il trentesimo del mese, e che fuvvi una congiunzione
di luna, che ecclissò il sole, la quale cre dono essere stata veduta anche da
Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno terzo della sesta olimpiade.?
Ne' tempi di Varrone filosofo, uomo fra tutti i Romani ver salissimo nella
storia, eravi Tarruzio? suo compagno, filo sofo anch'egli e matematico, il
quale a motivo di specula zione applicavasi pure a quella scienza che spetta
alla tavola astronomica, nella quale riputato era eccellente. A costui fu
proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e de terminarne il giorno
e l'ora, facendo intorno ad esso dagli effetti che si dicono cagionati dalle
costellazioni, il suo ra ziocinio, siccome dichiarano le risoluzioni de'
problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della speculazione medesima
tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona, da tone il tempo
della nascita, quanto l'indagar questo tempo, datane la maniera della vita.
Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato: e avendo considerate le
inclinazioni e le opere di quel personaggio, e lo spazio della vita e la
qualità della morte, e tutte conferite insieme si fatte cose, tutto pieno di
sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre il primo
anno della seconda olimpia de, nel mese dagli Egizi chiamato Cheac, il giorno
vigesimo terzo, nell'ora terza, nella quale il sole restò intieramente
ecclissato, e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo,
circa il levar del sole, e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il
nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora: imperciocchè
stimano che anche la fortuna delle città, come quella degli uomini, abbia il
suo proprio tempo che la prescriva, il qual si considera dalla prima origine,
relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più
altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità, di quello che * Delle
varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale
merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma, svollo con
molto studio i volumi de' Greci e de' Romani. • Era egli pure amico di Cicerone,
che parlandone nel II de Divinat. si esprime così: Lucius quidem Tarutius
Firmanus, familiaris noster, in primis chaldaicis rationibus eruditus elc.possano
riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la
città, prima divise tutta la gioventù in ordini militari: ed ogni ordine era di
tremila fanti e di trecento cavalli, ed era chiamato legione dall'essere questi
bellicosi trascelti fra tutti gli altri. In altri officj poi distribui il
restante della gente, e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri
cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj, e senato
chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un
collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj,
perchè, come vogliono alcuni, padri erano di figliuoli legittimi, o piuttosto,
secondo altri, per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri, la qual cosa
non poteva già farsi da molti di quei primi, che concorsi erano alla città; o,
secondo altri ancora, cosi chiamati fu rono dal patrocinio, col qual nome
chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl'
inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro, vi fosse un certo
Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva,
e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare.
Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse, che Romolo
cosi gli abbia appellati, pensando esser cosa ben giusta e conveniente, che i
principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed
amorevolezza paterna, ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i
più grandi, e a non comportarne mal volentieri gli onori, ma anzi a portar loro
affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi
ancora que’ cittadini, che son nel senato, chiamati son principi dagli
stranieri, e padri coscritti dagli stessi Romani, usando questo nome di somma
dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai, e lontanissimo dal poter
muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri, ma poi,
essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più, detti furono padri coscritti:
e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine
senatorio dal popolare. Separò pure dalla moltitudine de' plebei gli altri
uomini, che poderosi erano, chiamando questi patroni, cioè protettori, quelli
clienti, cioè persone aderenti; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro
una mirabile benevolenza, che per produr fosse grandi e scambievoli
obbligazioni: perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi
clienti, esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro
consiglieri e procura tori in tuite le cose: gli altri poi coltivavano quei
loro patroni, non solamente onorandoli, ma aiutandoli altresi, quando fos sero
in povertà, a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti; nė eravi legge o
magistrato alcuno, che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i
clienti, o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo, durando
tuttavia gli altri obblighi, fu riputata cosa vituperevole e vile, che i
magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste
cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione, come
scrive Fabio, fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni
che Romolo stesso, essendo per natura bellicoso, ed inoltre per suaso da certi
oracoli, esser determinato da’ fati, che Roma, nudrita e cresciuta fra le
guerre, divenir dovesse grandis sima, siasi mosso ad usar violenza contro i
Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle, ma trenta sole,
siccome quegli, cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra, che ma ritaggi.
Questa però non è cosa probabile: ma il fatto si è, che veggendo la città piena
in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli, ed i più,
essendo un mescuglio di persone povere ed oscure, venivano spregiati, nè sembra
va che dovesse esser ferma la di loro unione, e sperando egli che l'ingiuria,
ch'era per fare, fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza
e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne, diede mano
all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui, che ritrovato
avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso, o si
fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza,
essere ciò accaduto nel quarto anno. In fatti, come mai una città, per così
dire, nascente, avrebbe fatta im. presa cotanto ardita, che doveva eccitarle
contro un si pericoloso nemico? chè i Romani anche presentemente chiamano
consiglio il luogo dove si consulta, e consoli quelli che hanno la maggior
dignità, quasi dir vogliano consultori ), o si fosse Nettuno equestre: conciossiachè
questo altare, ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo tiensi coperto e
solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono che, dovendo essere
il consiglio cosa arcana ed occulta, è ben ragionevole che l'altar sacro a
questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora, poichè fu scoperto, fece divulgare
ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio, un giuoco di combattimenti ed
un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta gente: ed egli
sedevasi innanzi agli altri, insieme cogli ottimati, in toga purpurea. Il segno,
che indicato avrebbe il tempo del l'assalto, si era, quand'egli levatosi
ripiegasse la toga, e poi se la gittasse novamente d'intorno. Molti pertanlo
armati di spada intenti erano a lui; e subito che fu dato il segno, sguainando
le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso a’ Sabini, ne rapiron le
loro figliuole, lasciando andar liberi i Sabini stessi che sen fuggivano.
Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite, dalle quali state
sieno denominate le tribù; ma Valerio Anziate dice, che furono cinquecento
ventisette, e Giubba seicento ottantatrė vergini, la qual cosa era una somma
giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere stata presa altra
donna maritata, che Ersilia sola, la quale servi poi loro per mediatrice di
pace, si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far ingiuria o
villania, ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le genti, ed
unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria corrispondenza. Alcuni
poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio, uomo fra’ Romani sommamente
cospicuo, ed altri con Romolo stesso, e ch'egli n'ebbe anche prole, una
figliuola chiamata Prima, dall'essere stata appunto la prima per ordine di
nascita, ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo alla
raunanza de'cittadini sotto di ni, e i posteri lo nominarono Abilio. Ma
Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta, ha molti contradditori.
XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire
aggregamento, dal verbo 6027.i6w, che significa raunare. alcuni di bassa
condizione, ai quali avvenne di condurne via una, che per beltà e grandezza di
persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de'
maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano, ma che quelli che la
conducevano, gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e
dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò, prorompessero in fauste
acclamazioni, in applausi ed in lodi, e taluni ritornando addietro andassero ad
accompa gnarla, per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio, di
cui ad alta voce ripetevano il nome; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi
nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio, come da'Greci Imeneo:
conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua
moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese, uomo alle Muse accetto e alle Grazie,
diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento; e
che quindi tutti, portando via le fanciulle, gridavan Talasio, e per questo
mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono, fra ' quali
è anche Giubba, che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al
lavoro ed al lanificio, detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora
confusi i vocaboli greci cogl' italiani. Intorno alla qual cosa, quando falsa
non sia, ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia, come
i Greci, potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè,
quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani, si pattui circa le
donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro,
che nel lanificio. Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi
novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito, quanto quelli che
accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze, gridassero per ischerzo
Tulasio, testificando con ciò, che la moglie non era condotta ad altro lavoro,
che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa,
passando da se medesima sopra la soglia, vadasi nella casa dov'è condotta, ma
ve la portano sollevandola, poichè anche quelle vi furono allora portate per
forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni, che anche la
consuetudine di separar la chioma alla sposa con punta di asta indica essere
state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente, delle quali cose
abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno
decimo ottavo, all'incirca, del mese detto allora Sestilio, e presentemente
Agosto, nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. Erano i Sabini e
numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura, siccome persone, alle
quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi
colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto, veggendosi eglino astretti per si
grandi ostaggi, e temendo per le loro figliuole, inviarono ambasciadori, che
facessero a Romolo mansuete istanze e moderate, esortandolo a restituir loro le
fanciulle, e ritrattarsi da quell'atto di violenza, ed a voler poi stringer
amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e
legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle, e confortava
pur i Sabini ad approvar quella società, andavano gli altri procrastinando nel
consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di
valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite
imprese di Romolo, e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per
quello che fu da lui fatto intorno alle donne, e che non si potrebbe più
tollerarlo, se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra,
e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo, e Romolo contro di lui.
Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si
sfidarono l'un l'altro a combattere, stando fermi intanto su l'armi gli
eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto, se vin cesse ed uccidesse il nemico, di
appendere l'armi a Giove egli stesso, il vince in effetto e l'uccide, e,
attaccata la bat taglia, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non
fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese; ma li obbligó solo ad
atterrare le case ed a seguirlo in Roma, dove stali sarebbero alle medesime
condizioni dei cittadini; nè vi fu altra maniera, che più di questa facesse poi
crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando, aggiungeva sempre a se
stessa, e divenir faceva del suo corpo medesimo i soggiogati. Romolo intanto,
per rendere il voto somma mente gradevole a Giove, e per farne pure un giocondo
spet tacolo a'cittadini, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la
recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi
sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste, e inghirlandatosi lo
zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto
fermo e di ritto, camminava cantando un inno di vittoria, seguendolo tutto
l'esercito in arme, ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini. Una
tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E
questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo
ferire usato da'Romani: imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di
atterrare quell'uomo: e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone, siccome
chiamano essi opem le sostanze: ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno
appellate per cagion del fatto eseguitosi; perché appellano opus l'operazione.
L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan
dell'esercito, quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il
capitan de' ne mici; la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani, il
primo dei quali ſu Romolo, che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio
Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco; e dopo questi Claudio Marcello, che uccisé
Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però, portando essi i trofei,
entrarono condotti in quadriga; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si
servisse di cocchio: imperciocchè si racconta che Tarqui nio, figliuolo di
Demarato, fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i
trionfi; quantunque altri vogliono che il primo, che trionfasse in cocchio,
fosse Pu blicola: e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il
rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco
s'inganna, poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie.
Marcus Varro ait, dice Festo, opima spolia esse, etiamsi manipularis miles
delraxerit, dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso, recato qui
appresso, è a Plutarco patentemente contrario, essendo pro vato che Cosso,
quando uccise Tolunnio, era appena tribuno militare, ed Emi. lio il generale.
Dopoche furono soggiogati i Ceninesi, stando tuttavia gli altri Sabini occupati
in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero
unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia, furono
costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo, a tra sportarsi eglino
ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese, del quale distribui
Romolo a'cittadini tutto il re sto, eccetto quella parte, ch'era posseduta
da'padri delle fan ciulle rapite, lasciando che se l'avessero questi' medesimi.
Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini, creato con dottiero Tazio,
mossero l'esercito contro Roma; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a
motivo del forte, ch'era in quel luogo, dov'è ora il Campidoglio, ed
eravicollocata una guar nigione, di cui era capo Tarpeio, non la vergine
Tarpeia, come dicono alcuni, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi
Tarpeia, figliuola di questo comandante, che in vaghitasi dell'auree smaniglie,
di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel
luogo, chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano
alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi, aprendo ella di notte una
porta, li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo (come si può quindi
vedere ) che disse di amar que' che tradivano, ma di odiarli dopo che avesser
tradito; nè il solo Cesare, che disse pure, sopra Rimitalca Trace, di amare il
tradimento e di odiare il traditore: ma questo ė verso gli scellerati un,
sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro, come bisogno
avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro
l'uso nel mentre che se ne servono, n'abbomi nano poi la malvagità, quando
ottenuto abbian l'intento. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia,
co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei
nulla di ciò, ch'aveano alle mani sinistre, e trattasi egli il primo la
smaniglia, l'avventò ad essa, e le av ventò pur anche lo scudo, e, facendo
tutti lo stesso, ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi, dalla
quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da
Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome afferma Giubba raccontarsi
da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia, men degni d'esser
creduti sono certamente coloro, i quali scrivono, ch' essendo ella figliuola di
Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo, operò
quelle cose, e n'ebbe quel gastigo dal pa dre; ed è pur Antigono uno di questi.
Ma il poeta Simulo farnetica affatto, pensando che Tarpeia abbia dato per tradi
mento il Campidoglio a' Galli, e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne
parla in questa maniera: Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del
Campidoglio, e già di Roma Fea le mura crollar: poichè bramando Co' Galli aver
letto nuzial, de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo
sopra la sua morte: Non però ad essa i Boj, non le cotante Genti de' Galli
diedero sepolcro Di là dal Po; ma da le mani, avvezze A infuriar ne le
battaglie, l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane, E poser sovra lei fregi di
morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei,
finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove, ne furono
trasportate le reliquie, e manco ad un tempo il nome di Tarpeia; se non che
appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio, giù dalla quale preci
pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li
provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento, veggendo che, se anche
venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura.
Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo, nel quale doveasi venire alle mani,
essendo circondato da molti colli, avrebbe ren duto per la cattiva situazione
il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto
breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume
non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma
cieca e profonda ne'siti piani, verso là, doye ora è la piazza; la qual cosa ne
si manifestava allo sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri
colosa e ingannevole, verso la quale, portandosi inavveduta mente i Sabini,
accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio, uomo illustre, e tutto
pieno di coraggio e di brio, cavalcando veniva innanzi agli altri di molto, ed,
en tratogli in quel profondo il cavallo, sforzossi per qualche tempo di
cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce; ma, come vide che
ciò non era possibile, abbandono il cavallo, e salvò se medesimo: e per cagione
sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini, schivato il
pericolo, combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo,
quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che
fu marito di Ersi lia, ed avo di quell'Ostilio, che regnò dopo Numa. XV.
Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie, com'è
probabile, fanno principalmente menzione di una, che fu l'ultima, nella quale,
essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo, e poco men che ucciso,
ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo, e via cacciati
dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però, riavutosi
alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e,
ad alta voce gridando che si fermassero, li confortava a combattere: ma, veggendosi
tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa, e non essendovi
persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico, alzando egli le mani al
cielo, prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose dei
Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle. Com'ebbe fatta la preghiera,
molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re, e il timore
di quelli che fuggi vano, cangiossi in coraggio. Primieramente durique ferma
ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore, che potrebbe interpretarsi di
Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo, e risospinsero i
Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio di Vesta. Quivi,
preparan dosi essi a rinnovar la battaglia, rattenuti furono da uno spettacolo
sorprendente e maggiore d'ogni racconto. Concios siachè le figliuole rapite
de'Sabini furono vedute portarsi da diverse bande fra l'armi e fra i cadaveri,
con alte voci e con urli, come fanatiche, a'loro padri e a'mariti; altre con in
braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta, e tutte co’più cari e
teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e quando i Romani. Si
commossero pertanto non meno gli uni che gli altri, e diedero loro luogo in
mezzo agli eser citi. Già i loro singulti venivano uditi da tutti, e molta com
passione destavasi alla vista e alle parole di esse, e vie più allora che dalle
giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te, passarono in fine alle
preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa, diceano, fu da noi fatta di
vostro danno o di vo » stra molestia, per la quale si infelici mali abbiamo noi
già » sofferti e ne soffriam tuttavia? Fummo rapite a viva forza, » e contro
ogni diritto, da quelli che presentemente ci ten » gono; e, dopo di essere
state rapite, trascurate fummo dai » fratelli, da’ genitori e da'parenti per
tanto tempo, quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con saldissimi
vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche, ci fa ora timorose » sopra
que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi, i » quali combattono, e ci
fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi già
venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia; ma »
ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi
misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel
tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi: in tal maniera
compassionate siamo » da voi. Che se poi guerreggiaste per altra cagione, dovre
» ste pure in grazia nostra acchetarvi, renduti essendo per » noi suoceri ed
avoli, ed avendo contratta già parentela; ma » se già per cagion nostra si fa
questa guerra, menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e
rendeteci i genitori » e i parenti, nè vogliate rapirci la prole e i mariti, ve
ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di
guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose, e mettendo suppliche pur
anche l'altre, fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro. In
que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a'
fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne abbisognava, e medicavano
i feriti, portandoli a casa, e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della
casa il governo, come attenti erano ad esse i mariti, e come trattavanle con
amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che
ciò voleano, se ne stessero pure co'loro mariti, da ogni altra servitů libere e
da ogni altro lavoro, (siccome si è detto) fuorchè del lanificio: che la città
fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini: ch'essa fosse bensi appellata
Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio, e
che regnassero amendue e go. vernasser la milizia unitamente. Il luogo, dove si
fecero que ste convenzioni, si chiama sino al di d'oggi Comizio, poiché coire
chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. Raddoppiatasi la città, furono aggiunti
cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini; e le legioni fatte furono di
seimila fanti: e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù,
altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo; altri della Taziense da
Tazio; e quelli ch'erano nella terza, chiamati furono della Lucernese per
cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono, i quali furono
poi a parte della cittadinanza, chiamando eglino lucos i boschi. Che poi tre
appunto fossero quelle divisioni, il nome stesso lo prova, dette essendo anche
presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci
compa gnie, le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne;
il che però sembra esser falso, imperciocchè molte denominate sono da’luoghi.
Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti, fra'quali sono
anche que sti: il dar loro la strada, quando camminavano, il non dir nulla di
turpe in presenza di alcuna di esse, il non mostrar * Dionigi dice: « ciascun
cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano, » e tutti insieme Quirili. »
Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si
chiamavan Quiriti. Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre
questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una
tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo. 3 Sono stati qui dotati
due errori di Plutarco: a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti,
nè di 600 cavalli, come potrebbesi agevolmente dimo. strare. , sele ignudo, il
non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti
capitali, e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la
bolla, ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo, cosi detto dalla figura
simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito
unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima
separatamente co'suoi cen to, e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava
Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta, 3 e Romolo presso il luogo, dove sono
que' che si chiamano Gradi di bella riviera, e sono là, dove si discende dal
Pallanzio al Circo Massimo; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo
sacro, favoleggiandosi che Romolo, per far prova di se, gittata avesse dall'
Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo, la punta della quale si
profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla, quantunque
molti il tentassero; e quella terra ben acconcia a produr piante, coprendo quel
legno, pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di
corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono, come
la cosa più sacrosanta che avessero, e lo cinser di muro: e se ad alcuno che vi
si ap pressasse, paruto fosse non esser morbido e verde, ma in. tristire, quasi
mancassegli il nutrimento, e venir meno, co stui con gran clamore il dicea
subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar
soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua; e insiemecorrevano
da ogni parte, portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare (per
quello che se ne dice ) faceva fare scalee, gli artefici, scavando al d’intorno
e da presso, ne maltratta rono senz' avvedersene le radici, e la pianta secco.
I Sabini accettarono i mesi de'Romani; e quanto fossevi su questo proposito che
tornasse bene, l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli
scudi de’Sabini e mutò l'ar. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser
giudicata dai soliti ma gistrati, ma si unicamente da' commissarj del senato. ·
Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale; Romolo il Palatino ed il Celio. Cioè
Giunone Moneta. matura sua propria e quella de' Romani, che portavano prima
scudi all'argolica. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste, non
avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra
nazione, ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo, siccome quelle delle
Matronali, 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra, e
quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a
presiedere alla generazione degli uomini, e perciò onorata ella sia dalle
madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia, indovina ed
inspirata da Febo, la quale sia stata denominata Carmenta, perchè dava gli
oracoli in versi, mentre i versi da loro chiamati vengono carmina; ma il suo
vero nome era Nicostrata: e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di
quelli che più probabil mente interpretano Carmenta, quasi priva di senno, per
mo strarsi fuori di se negli entusiasmi; poich'essi appellano carere l'esser
privo, e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra.
E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si
celebra, che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di
nefasti del mese di febbraio, il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e
quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali
significa lo stesso che nell'idioma greco Licei: e quindi appare esser quella
solennità molto antica, portata dagli Arcadi, che vennero con Evandro. Ma,
comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina, potrebb’essere
che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa; poichè noi veggiamo che i
Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso, dove si dice che fu Romolo
esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste, che
si celebravano il primo giorno d'aprile, le matrone sa grificavano a Marte ed a
Giunone, e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha
celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla
porta Carmentale. Carmenta, madre e non moglie di Evandro, come osserva
Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom., veniva adorata auche sotto il nome di
Temi. Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus, per
che teneva lontani i lupi. che in quest'occasione si fanno; conciossiache essi
scannano delle capre; poi, condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni
toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono
subitamente con lana bagnata nel latte: ed i giovanetti dopo che forbiti sono,
convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie,
discorrono ignudi, se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando
scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le
percosse, credendo che conferiscano ad ingravidare, e a partorire felicemente;
ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo
Buta, che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate
da'Romani, dice che avendo quelli, ch'erano con Romolo, superato Amulio,
corsero con allegrezza a quel luogo, dove la lupa avea data la poppa a'
bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso, e che vi corrono i
nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro, Come in quel tempo con le spade
in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo: e dice che il mettere il coltello
insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora,
e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento. Ma Caio
Acilio2 scrive,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami
guardati da Romolo, e che, avendo egli fatte suppliche a Fauno, ne corse in
traccia ignudo per non venir molestato dal sudore, e che per questo corrono
d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie, se quel sa crifizio fosse una
purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero, servendosi di un tal
animale come atto ad uso di purificare; imperciocchè anche i Greci nelle
purificazioni si servono de'cagnuoli, e sovente usano quelle cerimonie che
chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che
scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione, tribuno del
popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da
Cicerone e da Livio, il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in
latino da Claudio. 3 Vedi Plutarco, Quest. Rom., n. zia della lupa e in
ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo, non fuor di ragione si
sacrifica il cane, perchè egli è nemico dei lupi, quando per verità
quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel
mentre che vanno scorrendo. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la
consacrazione del fuoco,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate
Vestali; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli
storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei, e raccontan
di più, ch' egli fosse anche indovino, e che per cagion del vaticinare por
tasse il lituo, ch'è una verga incurvata, ad uso di disegnarsi gli spazj del
cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa
verga, la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa
da’Galli; e che poscia, dopochè i Barbari furon discacciati, trovata fu illesa
dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita
era e distrutta. Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella
che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito, ma permette bensi
che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso
di parto supposto, e di aver commesso adulterio: e se taluno per qualche altro
motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so
stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere; e che quegli medesimo
che ripudiata l'avea, sacrificasse agli Dei sotterranei, Cosa è poi particolare,
ch'egli, il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero
ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio, ' come fosse
questo cosa veramente esecranda, e quello impossibile. E ben per molte età
parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità,
" S'intende in Roma, poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le
Vestali, da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che
questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii, sul monte Palatino, 3
Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo
sciens morti ducil, parricida esto; la qual legge però viene da alcuni
attribuita a Numa. ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com
messo in Roma verun delitto si fatto; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale,
Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però
basti quanto si è detto sin qui. L'anno quinto del regno di Tazio, incontratisi
alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano
a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari; e, poichè essi
resistenza faceano e difesa, gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria,
Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori; ma Tazio si
andava scansando dall' aderire a ciò, e sorpassava la cosa; e questo fu ad essi
il solo motivo di un'aperta dissensione, portati essendosi con bella maniera in
tutt' altre cose, affatto operando, per quanto mai è possibile, di comune con
senso. Quindi gli attenenti agli uccisi, non potendo per cagion di Tazio in
alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi, assalitolo
in Lavinio, dov'egli sacrificava insieme con Romolo, gli tolser la vita, e si
diedero ad ac compågnar Romolo, siccome uomo giusto, con fauste accla mazioni.
Egli, trasportato il corpo di Tazio, onorevolmente lo seppelli nell'Aventino,
presso al luogo chiamato Armilu strio: nė punto si curò poi di punire quell' uccisione.
Scrivono però alcuni storici, che la città di Laurento intimorita gli consegnò
gli uccisori di Tazio, e che Romolo gli lasciò an dare, dicendo che stata era
scontata uccisione con uccisione: il che diede qualche ragione di sospettare,
ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel regno.
Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno, nè si mos sero punto i
Sabini a sedizione: ma altri per la benivoglienza che gli portavano, altri per
la tema che aveano del di lui potere, ed altri perché il tenean come un nume,
persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur * Scrive
Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi ogni anno
a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria; cioè ai Penati di Troia che
v'erano rimasti. • Luogo dell'Aventino, dove le milizie andavano a purificarsi
nel giorno 19 di ottobre. anche molt'altre genti straniere; e gli antichi
Latini, man datigli ambasciadori, fecero amicizia e lega con esso lui. Prese
poi Fidena, città vicina a Roma, avendovi, come vogliono alcuni, repentinamente
mandata la cavalleria, con ordine di recidere i cardini delle porte, ed
essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso: ma altri dicono che
furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in molte
guise il territorio romano ed i borghi mede simi; e che. Romolo, avendo loro
teso un agguato, e uccisi avendone assai, s' impadroni della città. Non volle
demolirla però, nè spianarla, ma la rendette colonia de' Romani, man dati
avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX.
Insorse quindi una pestilenza, che perir facea gli uomini di morti repentine
senza veruna malattia, e rendeva anche sterile la terra, ed infecondi i
bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue;: cosicchè
s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma, da che
le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento, già pareva ad ognuno,
che, per essere stata violata la giustizia, tanto sopra la morte di Tazio,
quanto sopra quella degli ambasciadori, l'ira divina malmenasse l'una e l '
altra città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli
uccisori, si videro manifestamente cessar quei malanni: e Romolo purificò poi
la città con que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla
porta Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza, vennero i Camerj ad
assalire i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come
impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse
tosto l'esercito contro di loro, e, superalili in battaglia, ne uccise seimila.
Presane poi la città, trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi
anche Livio; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie
che i Romani traevano da Crustomerio. dice soltanto 300; da quel che segue in
Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di
sangue, tanto terribili agli anticbi, compongonsi molto naturalmente da insetti
o da esalazioni tinte in rosso; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj.
ch'erano restati vivi; e da Roma passar fece un numero di gente, il doppio
maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto, coll'altra metà che
vi aveva lasciata. Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini,
sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da
Cameria anche una quadriga di rame: questa fu appesa da lui al tempio di
Vulcano col simulacro di se medesimo, che veniva incoronato dalla Vittoria.
Rinfrancalesi in questo modo le cose, i vicini più deboli si sottomisero alla
di lui si gnoria, e, trovandosi in sicurezza, se ne stavano paghi e contenti.
Ma quelli che aveano possanza, da timore presi ad un tempo e da invidia, non
pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati; ma bensi opporsi
a' pro gressi di Romolo, e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto, i quali
possedevano un vasto paese, ed abitavano in una grande città, furono i primi
fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena, siccome cosa di
loro ragione: il che però non pure era ingiusto, ma ben anche ridicolo;
perocchè, non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo
ed oppressi erano dalla guerra, ma aven doli lasciati perire, ne pretendevano
poi le abitazioni e 'l terreno, mentr' era già in mano d' altri. Essi adunque
aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti, si divisero in
due parti: coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati, coll'altra se
n'andarono contro di Romolo. A Fidena, rimasti superiori, uccisero duemila
Romani, ma dall'altro canto superati da Romolo, vi perdettero sopra ottomila
dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena: e si confessa da
tutti, che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso, avendo
ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire, e sembrato essendo
gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per
altro che vien riferito da alcuni, è del tutto favoloso e interamen te
incredibile, che di quattordicimila che morirono in quella battaglia, più della
metà ne fosse morta per man di Romodo; + Abitanti di Veio capitale della
Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria. Cosi
anche come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad
Aristomene, che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti
Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re
stati vivi, e avean già date le spalle, s' inviava alla di loro città. Ma
quelli che v'eran dentro, per una tale calamità, non fecero più resistenza,
anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento,
rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese, da essi chiamato Sette
magio, cioè la settima parte; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre
datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria
avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri
prigioni il capitano stesso de' Vei, uomo vecchio, ma che sembrava che in
quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si
convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente, quando
sacrificano per avere otte nuta vittoria, conducono un vecchio colla pretesta
per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il
banditore va gridando: Sardi messi all' incanto;? imper ciocchè dicesi che i
Toscani sieno colonia de' Sardi, e la città de' Vei è in Toscana. Questa fu
l'ultima guerra fatta da Romolo. In ap presso schivar egli non seppe ciò che a
molti, o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire, quando dal favore di grandi e
straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però
di baldanza per le cose da lui operate, e portandosi con più grave fasto, già
si toglieva da quella sua affabilità popolare, e la cangiava in un molesto
contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia
dell'abito col quale si vestiva; conciossiachè egli mettevasi in le donne
d'Israele, precedendo a Davide, che ritornava dalla vittoria dei Fili stei,
cantavano: Saulle uccise mille, e Davidde diecimila. Settemagio o Seltempagio
spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non
procedono dai Lidii, cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della
costumanza qui parrata; la quale, per testimonio di Sinnio Capi. tone,
s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la
Sardegoa. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta, e teneva ra gione standosi
agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli poi sempre
d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano ne'
ministerj. Ed avea altri che, quando andava in pubblico, lo precedevano
risospingendo con verghe la calca, e portavan cinture di cuoio, onde legar
prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare, che ora
da’ Latini dicesi alli gare, anticamente era detto ligare, Liclores sono da
essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi,
dal servirsene che facevano allora, come di bastoncelli. Pure è probabile che
questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c, fossero nominati prima
Lito res, essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i
Greci chiamano ancora añitov il popolo, e lady la plebe. Morto che fu in Alba
l'avolo suo Numitore, quan tunque a lui toccasse regnare, ciò nullostante, per
far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno
in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche
quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed
arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati.
Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte
alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica; i quali, raunandosi
in consi glio, piuttosto per costume che per esporvi il loro parere, stavano
tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non
aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare, che d'essere stati essi i
primi ad inten dere quello che si era fatto. Ogni altra cosa però era di mi nor
importanza, rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte
di terra acquistata coll'armi, e restituiti gli ostaggi a' Vei, senzachè que'
patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria
persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini, e il Dacier
non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli
considera qui due atti diversi di Ro. molo; uno che si riferiva agli Albani,
l'altro ai Sabini. suasi ne fossero: nel che sembrò ch' ei recasse grande con
tumelia al senato, il quale per questo fu poi tenuto in sospetto, e diede luogo
alle calunnie, quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista
degli uomini; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio, ed
allora Quintile, non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e
d'incontrastabile, fnorchè il tempo già detto: imperciocchè anche presentemente
si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento
di allora. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza, quando, morto
essendo Scipione Affricano? dopo cena, in casa propria, non v'ha modo onde
poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte: 3 ma alcuni
dicono che, essendo egli per natura cagionevole, si morisse da per se stesso;
altri ch'egli medesimo si avvelenasse; ed altri che i suoi nemici, avendolo
assalito di notte, lo soffocassero: eppure Scipione, quando fu morto, giaceva
esposto alla vista di tutti, ed il suo corpo, da tutti essendo osservato, potea
dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte.
Ma, essendo Romolo mancato in un subito, non fu vista più parte alcuna del di
lui corpo, nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i
senatori, assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no, smembrato
n'avessero il corpo, e ripostasene ognuno una parte in seno, portato l'avesser
via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano, nè dove fossero i soli
sena tori, foss' egli svanito, ma ch' essendo per avventura fuori in
un'assemblea presso la palude chiamata di Capra, o sia di Cavriola, si fecero
subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni
incredibili, oscurandosi il lume del sole, e venendo una notte non già placida
e quieta, * Il Calendario romano segna in questo Populifugium, None Caprolineæ,
e Festum ancillarum, cose tutte, che possono aver relazione al fatto, come si
vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione
Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece
per altro nessuna indagine per conoscerne il vero, onde Valerio Massimo disse:
Raptorem spiritus domi invenit, mortis punitorem in foro non reperit. ma con
tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta;
onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero
insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la
luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo,
dicono che fu allora cercato e desiderato il re; e che i primati non permisero
che se ne facesse più esatta ricerca, nè che venisse presa gran cura; ma che
esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli
Dei, e come, da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno.
Affermano però che la mol titudine, udendo questo, se n'andava allegra, è lo
adorava piena di buone speranze: ma che vi furono pur anche laluni, i quali,
aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne'
patrizj, e li calunniavano, come cercassero di dar ad intendere al popolo cose
vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. Essendo
adunque essi cosi costernati, si racconta che Giulio Procolo (uomo fra' patrizj
principale per nobiltà, e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi,
fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi
nella piazza, e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto, disse
alla presenza di tutti, che, camminando egli per via, apparso eragli Romolo,
che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo
addietro, adornato d'armi lucide e sfavillanti; e ch'ei però sorpreso ad una
tal vista: « O re gli aveva » detto, per qual mai offesa da noi riportata, o
per qual tuo » pensamento, hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e
malvagie, e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore? » E che
quegli risposto aveagli: « È piaciuto, o » Procolo, agli Dei, che essendo io
per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini, e fondata avendo città di
gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo, »
donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo, e » fa sapere a' Romani che
colla temperanza e colla fortezza * Per opera, dicevasi, del Dio Marte padre
dello stesso Romolo. » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere: ed io »
sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani
degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava, come pel giuramento che
fatto egli aveva: ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto
divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi
alcuno che contraddicesse, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia, si
diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha
della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo
Proconnesio, ' e Cleomede d’Aslipalea. Imperciocchè dicono che Aristeo morto
sia in una certa officina da tintore, e che, andati essendo gli amici suoi per
dar sepoltura al di lui cor po, fosse svanito; e che alcuni, i quali tornavano
da un loro viaggio, dicessero di averlo incontrato che camminava per quella
strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono, che essendo grande e
gagliardo di corpo oltre misura, ma stolido in quanto alle sue maniere e
furioso, facesse molte violenze, e che finalmente in una certa scuola di
fanciulli, percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta, la rompesse
nel mezzo, precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli,
raccontano che, venendo egli inse guito, se ne fuggisse in una grand’arca, e,
avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu
possibile alzarlo, quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che,
spezzata poscia quell' arca, non ve lo ritrovassero nè vivo, nè morto; onde
stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello, e risposto fosse dalla
Pitia: L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche
svanito il corpo di Alcmena, mentre portavasi a seppellire, ed essersi in
iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma
raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide, storico, poeta
e grau ciarlatano, visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta. 3 Nel
tempio di Minerva ove Cleomede si riparó. 4 Plutarco cita una sola parte della
risposta, la quale cosi Gniva: Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non
appartiene ai mortali. d' di tali favole lontane dal verisimile, divinizzando
le persone che son di natura mortali, e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E
per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità, ell ' è
cosa empia e villana; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra
col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando, secondo Pin daro,
si ha già sicurezza, Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo
ognun, ma resta salvo Lo spirto ancor, d'eternitade immago. Conciossiaché
questo solo è quello che abbiam dagli Dei, e che di lassú viene e lassù pur sen
ritorna, non già in com pagnia del corpo, ma quando sia più che mai dal corpo
al lontanato e diviso, sgombralo della carne, e mondo e puro del tutto.
Imperciocchè l'anima, quando è secca ed inaridita, secondo il parere di
Eraclito, ” è allora nella sua maggiore eccellenza, volando fuori del corpo,
come baleno fuor di una nuvola; dove quella, ch'è mista col corpo e dal corpo
cir condata, è come un vapore grave ed oscuro, che difficilmente si accende e s
' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli
uomini dabbene insieme cogli spiriti, ma tener per fermo che le virtù e l'anime
per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di
uomini in eroi, di eroi in Genj, e se perfettamente, come nelle sacre
espiazioni, purificate e santificate sieno, schive da quanto v ' ha di mortale
e soggetto alle passioni, tener si vuole non per legge di città, ma per verità
e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi,
ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine.? In quanto poi al soprannome di
Quirino dato a Romolo, altri vogliono che significhi Marte; altri dicono che
cosi fu egli chiamato, perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti; ed altri
pretendono che ciò sia, perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l '
asta; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso, vissuto poco dopo Pittagora,
riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il
primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi, i genj, e gli
Dei. Giunone, messo in cima d'una punta, detto era di Giunone Quirilide; e
Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia: ed onorayan quelli che
valorosamente portati si fossero in guerra, col donar loro un'asta: onde
affermano essere stato Romolo appellato Quirino, per dinotarlo un certo Nume
bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto
Quirino dal nome di lui. Il giorno, in cui egli svani, si chiama fuga di volgo,
e None capraline: perché in quel giorno, discesi dalla città, sacrificano alla
palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti
nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio, imitando la fuga ed il chiamarsi
vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che
questa non è già imitazione di fuga, ma bensi di fretta e di sollecitudine,
riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano
occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo, e la città, spossata ed
indebolita, mal potea per anche riaversi, mossero l'arme contro di essa molti
de' La tini, avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco
lontano da Roma, inviò un araldo, il quale dicesse ai Romani che i Latini
suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela,
coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che
però, se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne
senza marito, pace n'avrebbero ed amicizia, siccome da prima per un egual modo
l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani, temeano in parte la
guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo
stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi, una
serva nomi nata Filotide, oppur Tutola, come altri vogliono, li consi gliava di
non fare nè l'una cosa nè l'altra, ma di schivare per via di frode tanto
l'incontrar guerra, quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide
medesima, e con lei altre serve avvenenti e ben adornate, fossero, come persone
li bere, mandate a' nemici; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola, ed
allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno,
e li trucidassero, Cosi 8* per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini.
Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico, tenendola al di dietro
ben riparata e coperta con tappeti e cortine, acciocchè lo splendore non fosse
da' nemici veduto, e chiaro si mostrasse a' Romani, i quali, come il videro,
subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi
spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte; ed essendosi avven tati
allora improvvisamente sopra i nemici, e superati aven doli, celebrano una tal
festa in grazia di quella vittoria; ed un tal giorno è chiamato le None
capraline, per cagion del fico salvatico, detto da’ Romani caprificus. Fanno
poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico; e si
portano quivi le serve con ostentazione, raggiran dosi intorno, e facendo
giuochi; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre, come
allora che diedero soccorso a’ Romani, e combatterono insieme con essi in quel
conflitto. Queste cose sono ammesse da pochi storici: ma intorno all'uso di
chiamarsi a nome in quel giorno, e intorno all'andare alla palude della Capra,
come ad un sa crifizio, sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima
ragione, se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel
giorno medesimo, l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato
dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di
regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo, e ne aggiugne uno al
suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: filosofia della
storia, platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco, la
prova della relita steriore e la oggettivita della cognizione, storia della
filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia,
formola logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta, vide Ennio. Refs.: “Grice e Centofanti” – The
Swimming-Pool Library. Centofanti.
Grice
e Cerambo: la setta di Lucania -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania).
Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.
Grice
e Cerano: la filosofia sotto il principato di Nerone -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher
in Rome in the time of Nerone. Cerano.
Grice
e Cerdo: l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) –
Filosofo italiano. Only the soul resurrects.
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